ETICA DELL'AMORE E DELLA VITA

 

 

(Elaborazione dei miei appunti integrati da un sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)

 

 

 

 

 

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QUESTIONI TERMINOLOGICHE

 

 

 

 

Premessa

 

Quando, da un punto di vista antropologico, si parla di sessualità o di vita sessuale significa parlare dell'uomo, coglierlo nella sua intimità e nella sua essenza, che lo caratterizzano nel suo modo di essere qui nella storia in tutte le sue espressioni, dalle più intime alle più appariscenti, e lo collocano in tale ambito come maschio e come femmina.

 

La sessualità, pertanto, quale modo di essere e di esprimersi dell'uomo qui nella storia, va interpretata e colta alla luce di una corretta comprensione dell'uomo stesso. Non è indifferente, quindi, la visione dell'uomo che le varie antropologie ci offrono e ci hanno offerto nel corso dei secoli, poiché da questa ne scaturisce la sua comprensione e, di conseguenza, l'interpretazione del senso della sua sessualità stessa.

 

La nostra posizione parte da una visione cristiana dell'uomo, la cui comprensione viene colta su tre orizzonti specifici: quello culturale-scientifico, quello filosofico-antropologico e quello etico-teologico.

 

 

Orizzonte culturale-scientifico

 

 

Prima di introdurci sul tema della sessualità e delle conseguenze che essa comporta sull'uomo, è importante capire che cosa si intende per "sesso", che cosa, dunque, per "sessualità".

 

Da un semplice punto di vista biologico potremmo definire il sesso come l'insieme dei caratteri anatomici e fisici che individuano l'uomo, distinguendolo in maschio e femmina, ognuno con funzioni proprie e caratterizzanti.

 

Quanto alla sessualità, essa potrebbe essere definita come l'insieme di caratteri e fenomeni che hanno attinenza con il sesso e che caratterizzano l'uomo non soltanto da un punto di vista somatico, ma anche psicologico, per cui l'uomo si comporta come maschio o come femmina e come tale si colloca all'interno della società e si relaziona.

 

Se una definizione del termine "sesso" non comporta particolari problemi, in quanto si vanno a cogliere gli evidenti tratti somatici propri dell'uomo, per cui l'uomo viene immediatamente percepito come "maschio" o come "femmina", più complessa è la comprensione della sessualità, che dal sesso deriva e ne è espressione. La complessità dipende proprio da quella dell'uomo, che variamente si esprime su tre livelli tra loro intersecantisi e condizionantisi e il gioco tra loro determina il dinamismo e la dinamica del vivere: livello somatico, psicologico e spirituale. L'insieme di questi elementi, giocati nella relazione con l'altro da sé, origina l'identità della persona, intesa come un essere capace di cogliersi, di collocarsi e affermarsi adeguatamente in diversi contesti e di relazionarsi.

 

La sessualità umana, pertanto, non può essere compresa soltanto nei ristretti limiti del dato biologico, ma abbisogna di una risposta multipla, che deriva dalle diverse discipline antropologiche.

 

Un notevole contributo alla comprensione della sessualità umana e della sua dinamica ci viene dalla scuola freudiana, che pone alla base dello sviluppo della personalità proprio la sessualità biologicamente intesa, con tutte le sue pulsioni che creano tensioni e bisogni a cui l'uomo deve dare soddisfazione, pena squilibri e patologie che vanno a colpire la l'armonico sviluppo della personalità stessa. Per Freud la storia dello sviluppo umano si identifica con la storia della sua sessualità.

 

L' Ego, che esprime l'identità della persona, per Freud si va strutturando nell'ambito di un conflitto-armonizzazione tra le esigenze dell'Es, elementi pulsionali che si radicano nella sessualità biologica propria dell'uomo, e quelle del Super-Ego, elemento normativo che si esprime autoritariamente con il suo "devi" o  "non devi".  In tale prospettiva la sessualità si qualifica, dunque, quale forza strutturante dell'Ego e l'asse portante dello sviluppo dell'intera personalità.

 

Questa visione pansessualistica della personalità trova oggi conforto in un edonismo materialistico-consumistico, che tende a racchiudere l'uomo nel ristretto limite della soddisfazione fisica delle proprie esigenze, intese come esigenze meramente biologiche. In tale quadro l'uomo viene esaltato nella sua individualità, che spesso sfocia in una ipertrofia dell'ego, che mal si relaziona con gli altri, poiché radica l'uomo al proprio Ego, quale elemento primario da affermare sempre sugli altri, e gli impedisce di trascendersi verso il tu.

 

In questo ambito strettamente biologico, la sessualità e il suo esercizio vengono colti come un diritto soggettivo, sganciato da ogni riferimento etico, finalizzato a garantire al singolo il soddisfacimento dei propri bisogni. Questo porta a considerare la prestazione genitale come un normale comportamento tra persone per esprime un affetto, un'amicizia o un rapporto più o meno occasionale. Non ci si rende conto, invece, che nel rapporto genitale si mettono in gioco elementi profondi della struttura stessa della persona e della vita, che vanno ben al di là di qualche sentimento occasionale o duraturo che sia.

 

Tutto ciò è stato reso più facile anche dalla scienza, che ha saputo separare la sessualità dalla procreazione, dando piena soddisfazione alla prima a tutto detrimento della seconda.

 

In questo quadro, poi, non va dimenticata un'evoluzione culturale, che dagli anni sessanta in poi, ha portato ad una liberazione della sessualità dai numerosi tabù del passato, che ha prodotto una liberalizzazione della sessualità, sempre più intesa come soddisfacimento genitale, provocando una conseguente banalizzazione della sessualità, che ha prodotto, a sua volta, disorientamenti esistenziali di fondo e incapacità di collocarsi correttamente nell'alveo della vita stessa. L'amore non viene più percepito come scelta esistenziale di fondo, in cui il proprio vivere viene speso per il bene e l'affermazione dell'altro, ma soltanto come un "sentire" qualcosa per l'altro, la cui durata, proprio perché legata all'evoluzione biologica, è alquanto effimera.

 

Nell'ambito di questa visione materialistica del vivere, la sessualità viene sempre più oggettualizzata e considerata come un bene di consumo da spendere e di cui godere a proprio e insindacabile piacimento. Il punto di riferimento in tale comprensione è soltanto il proprio Io da affermare e soddisfare sempre e comunque, anche a spese dell'altro.

 

E' in questo contesto materialistico, edonistico e consumistico di una sessualità, vista come personale e indiscriminato godimento, che si dischiude l'orizzonte etico, che aiuta a ricomprendersi come persona nel suo relazionarsi e nel suo spendersi per gli altri, essendo la persona, per sua natura, strutturata per la comunicazione che si fa dono e comunione. Se da un lato è vero che la sessualità condiziona e struttura fortemente la personalità, proprio per questo, proprio perché essa interpella i profondi dinamismi della personalità, abbisogna di essere educata purché in discussione non c'è soltanto un condimento da consumare al meglio, ma la riuscita o il fallimento stessa del proprio vivere come uomini o come donne.

 

 

 

 

TRE PRESUPPOSTI ANTROPOLOGICI

 

 

 

L'orizzonte filosofico-antropologico

 

Ogni riflessione morale sulla sessualità umana si deve basare essenzialmente su due principi di fondo: a) stretto legame che esiste tra la sessualità e la persona; b) sessualità letta all'interno di una corretta comprensione dell'uomo.

 

Considerata, quindi, l'importanza di cogliere la sessualità strettamente legata all'uomo e all'interno di una specifica lettura dello stesso, vediamo di seguito la concezione cristiana dell'uomo al cui interno ci sarà più agevole comprenderne la sessualità e il suo senso.

 

Partiamo con il chiederci "chi è l'uomo".

 

Nel corso della storia del pensiero l'uomo è stato variamente colto, da un lato, come regola assoluta, per cui egli è divenuto misura di tutte le cose e, posto, non di rado, in una piena autosufficienza rispetto a Dio anzi, talvolta, in concorrenza con Lui, perdendo, in tal modo il senso della sua creaturalità; dall'altro, l'uomo è stato definito incapace di cogliere la verità e il senso del suo vivere, cadendo in un vortice di dubbio esistenziale che lo ha gettato nell'angoscia.

 

C'è, poi, chi lo considera come una pura materialità, associando il suo vivere alla pura animalità; c'è, ancora, chi esalta le sue funzioni spirituali al punto di disprezzare la sua corporeità, intesa come una qualità degradante dell'uomo stesso, da cui guardarsi e liberarsi attraverso estenuanti esercizi di ascesi, fino al suicidio.

 

Visioni simili dell'uomo sono alquanto riduttive perché esaltano una parte del proprio essere a scapito dell'altra parte e, in tal modo, distruggono l'uomo nella sua essenzialità.

 

L'uomo, al contrario, va colto nella sua interezza e nella integralità delle sue componenti.

 

Carne e spirito non vanno tra loro contrapposte, ma integrate secondo la nota visione dell'antropologia ebraica, che vede l'uomo come "una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato". Ciò significa che il corpo è vivificato dallo spirito, che trova nel corpo la sua capacità evolutiva ed espressiva. Non si tratta, comunque, di due realtà giustapposte, ma totalmente compenetrate l'una nell'altra, come in una profonda e inscindibile osmosi al punto tale che, l'una senza l'altra, porta alla distruzione della stessa identità e struttura dell'uomo, cioè l'uomo cadrebbe nel nulla eterno.

 

Il primo elemento che emerge in questa visione è la profonda e sostanziale unità della persona umana. Da ciò ne consegue che la persona, quando vive, mette in atto un triplice e unico dinamismo che si svolge su tre differenti livelli, ma inscindibilmente, legati tra loro e soltanto quando questi sono tra loro integrati e interagenti, si può parlare di un raggiunto equilibrio psico-fisico e spirituale della persona; diversamente avremo una schizofrenia della persona, causa di sofferenze per se stessi e per gli altri :

 

·         Livello spirituale, caratterizzato dall'alterità e dalla gratuità. La persona costruisce la propria identità nel suo relazionarsi con l'altro e soltanto nella misura in cui rispetta l'alterità essa comprenderà meglio se stessa. Diversamente essa cadrà in un profondo stato di sincretismo che la rende prigioniero del proprio Ego, dando origine all'egocentrismo, che denuncia sempre una mancata evoluzione del proprio IO da se stesso e, di conseguenza, il proprio fallimento. Riconoscere l'altro, come altro da sé, significa innanzitutto affermare la propria individualità, che diventa individualità che si relaziona e, necessariamente,  punta al bene dell'altro, cioè alla sua affermazione. Proprio per questo, il dinamismo spirituale si caratterizza per la sua gratuità.

 

·         Livello biologico si differenzia da quello spirituale perché, mentre quest'ultimo si relazione all'altro da sé, riconoscendolo e affermandolo nella sua identità, quello biologico tende a fagocitare l'altro, incorporandolo a se stesso; la conseguenza è che ne viene distrutta l'identità. C'è il prevalere del mio Ego sull'altro, il prevalere del mio IO sul TU. Non c'è trascendenza, ma immanenza che denuncia una mancata evoluzione dell'IO al TU, fondamento di ogni egoismo e di ogni struttura di peccato: è l'IO che si mette al servizio di se stesso, negando l'alterità, colta come una sorta di prolungamento del mio IO.

 

·         Livello psicologico si pone come un elemento intermedio tra lo spirito e la carne e risente dell'influsso di entrambi, per cui esso si esprime o in passione violenta, pulsionale che si sfoga sull'altro, fagocitandolo; o si orienta ad una sublimazione pulsionale che si fa volontà di affermazione dell'altro in quanto alterità, con cui entra in relazione rispettandone l'identità di cui si arricchisce e arricchisce.

 

La persona affermata e riuscita, pertanto, si qualifica come un'unità integrata dei tre dinamismi. Tuttavia, benché questi siano presenti fin dalla nascita, serve un lungo cammino educativo ed evolutivo, dal sé all'altro, perché le tre dimensioni, biologica-psicologica e spirituale, costituiscano tra loro un'unità integrata, la cui riuscita determina il successo dell'uomo come persona realizzata, capace di essere dono per l'altro.

 

Il processo dell'integrazione dei diversi livelli che interagiscono nell'uomo, consiste nella subordinazione del dinamismo fisico a quello psicologico e di quest'ultimo a quello spirituale. C'è, quindi, nell'ambito dell'integrazione un progressivo crescente che dal meno spinge al più, perché proprio in questo "più" anche il meno, integrato, venga valorizzato e qualificato.

 

Si comprende bene, dunque, per la formulazione di un'etica della sessualità, l'importanza di un'antropologia integrata, che colga l'uomo come un'unità sostanziale integrata di tutte le sue energie, che ben lungi dal muoversi autonomamente secondo il proprio impulso o la propria natura, sono coordinate e subordinate dal "più", da cui traggono la propria forza e senso.

 

La nozione di natura e il rapporto con la cultura

 

Il concetto di natura assume nell'ambito della morale sessuale una posizione fondamentale, anzi, la "natura " è un elemento fondante la normativa dell'agire morale. Essa, tuttavia, abbisogna di una precisazione, poiché nel corso della storia ha assunto vari significati ed è stata assoggettata a molteplici interpretazioni.

 

Nell'età premoderna (fino al XVI sec.) la scienza si limitava a cogliere le essenze e le forme delle cose sensibili, così che più che una scienza sperimentale si aveva una filosofia.

 

Con l'avvento dell'età moderna la scienza esce dal suo ambito filosofico e diventa scienza della misurazione dei corpi e capace di relazionarli tra loro, esprimendo il tutto con formule fisiche e matematiche.

 

L'espressione "Legge naturale" perde, pertanto, il suo iniziale e prevalente significato filosofico e antropologico per esprime una correlazione costante tra corpi fisici, espressa per mezzo di formule matematiche, prive di ogni riferimento assiologico.

 

Con l'avvento dell'epoca moderna, quindi, il concetto di natura viene ad assumere una duplice valenza: scientifica e filosofica. Su questa falsa riga, anche la natura umana assume un duplice significato: da un punto di vista scientifico, essa significa l'insieme di dati statistici rilevabili dal comportamento umano. E' evidente che in tale ambito non si può più riferirsi eticamente, poiché tali dati scientifici non sono in grado di spiegare l'identità ontologica dell'uomo. Serve, quindi, riformulare il concetto di natura, adeguandolo alle esigenze dell'etica, che non considera mai l'uomo astratto o statisticamente formulato, ma colto nel suo personale e soggettivo muoversi quotidiano; l'uomo decaduto e redento, capace di bene e di male. In tale ambito viene considerata la sessualità, che permea l'uomo nella sua interezza.

 

 

 

 

CONSIDERAZIONI IN PROSPETTIVA ETICA

 

 

 

L'antropologia personalista cristiana

 

Benché l'etica non sia una branca dell'antropologia, tuttavia se ne serve per una migliore comprensione dell'uomo e delle sue dinamiche, al fine di poter meglio formulare la propria valutazione morale.

 

Proprio perché l'antropologia si è ormai rivelata indispensabile all'etica, in quanto le fornisce una corretta comprensione dell'uomo, colto nel suo agire storico, è altrettanto importante scegliere un'antropologia che dia un'adeguata visione dell'uomo e lo sappia cogliere nella sua interezza e integralità.

 

Fin dal suo nascere, il cristianesimo si trovò di fronte a due correnti antropologiche: il naturalismo, che si caratterizzava per una visione positiva e accogliente del mondo fisico; e il dualismo che, invece, contrapponendo lo spirito alla materia, privilegiava il primo, considerando la seconda una sorta di prigione per l'anima, da cui liberarsi. Due correnti di pensiero queste che hanno influenzato la visione della sessualità nel mondo occidentale e che il cristianesimo, influenzato a sua volta dalla dicotomia platonica, ha assorbito, diffuso e consolidato.

 

Tuttavia, va detto anche che il cristianesimo, erede della cultura ebraica, ha saputo dare una visione positiva del mondo e delle cose: "Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio" (Gv 3,16) e, ben lungi dalla dicotomia gnostica che contrappone la materia cattiva allo spirito buono, professa la fede in un Dio che ha assunto la carne umana e l'ha redenta. Una visione, quindi, del tutto positiva della creazione che dell'uomo.  Una materia e una carne che vengono comprese come parti essenziali dell'uomo e del creato, che assorbiti nel Cristo morto-risorto, sono stati ricollocati nella stessa dimensione divina da cui provengono.

 

In questa prospettiva si pone l'antropologia cristiana che è, essenzialmente, un'antropologia personalista, in quanto che coglie l'uomo nell'unità e integralità del suo pensare e del suo agire; un uomo che, amato per primo da Dio, è chiamato a rispondergli e ad aprirsi a Lui esistenzialmente, conformando il proprio vivere alle esigenze divine, che sono, nel contempo, una risposta a quelle umane.  Un uomo peccatore redento, che trova nella rivelazione la luce che illumina il mistero del proprio vivere e del proprio esserci, e nel Cristo morto-risorto la chiave interpretativa del proprio comprendersi.

 

In una simile visione dell'uomo non c'è spazio per antropologie naturalistiche o dualistiche, poiché ciò che conta è soltanto l'uomo, colto nella sua integralità e nella sua unità e letto alla luce del Cristo morto-risorto, grazie al quale l'uomo è stato ricostituito ad immagine e somiglianza divine; è stato rigenerato dallo Spirito quale figlio adottivo e, pertanto, facente nuovamente parte della realtà divina da cui proviene. Un uomo che è chiamato, infine, a conformare il proprio vivere e a ricomprendersi nell'ambito di queste nuove realtà in cui, in virtù della fede e del battesimo, vive.

 

L'uomo ricollocato in Cristo diventa nuova creatura, un unico essere in Lui per cui "... non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù" (Gal 3,28). Ogni barriera sociale, culturale, razziale e sessuale perde il suo significato, poiché tutti acquistano il loro vero valore soltanto in Cristo e non per le qualità acquisite dal proprio collocarsi storico. In Cristo, dunque, l'uomo trova la sua vera identità e la sua vera dignità.

 

Questa ritrovata dignità in Cristo pone l'uomo e la donna su di un piano di parità, poiché la loro dignità non dipende più dall'essere uomini o donne, ma dall'essere uno in Cristo. In tale prospettiva la sessualità gioca il suo ruolo importante di strada maestra, che spinge l'uomo ad attuare questa sua unità in Cristo anche attraverso alla complementarietà che si fa comunione di vita nell'amore e nel rispetto reciproco.

 

Unità e complementarietà nell'ambito della sessualità sta a denunciare che né l'uomo, né la donna bastano a se stessi, ma che in essi è inscritto un "deficit naturale" che li spinge a cercarsi ("ma l'uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile" - Gn.2,20), a trovarsi ("questa volta essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa" - Gn.2,23), poiché per sentenza divina: "Non è bene che l'uomo sia solo; gli voglio fare un aiuto che gli sia simile" Gen. 2,18.  "Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne" (Gen. 2,24).

 

L'esito finale, quindi, è diventare una sola carne, in cui si colma il deficit iniziale. "Diventare una sola carne" sta ad indicare l'unità che si esprime nella comunione che si fa dono totale del proprio essere donna e uomo.

 

La sessualità, dunque, mette in evidenza una vocazione alla reciprocità che punta alla complementarietà e comunione, quale integrale e reciproco dono di sé all'altro, così che i due diventino una sola carne.

 

Colta in questo quadro, la sessualità diventa la strada maestra alla comunione integrale, rivelando in tal modo che in essa è stato iscritto un progetto di vita, che viene affidato alla libertà dell'uomo. Ma la libertà nell'uomo non è un dato di fatto, ma una conquista, che lo impegna nel corso di tutta la sua vita, poiché non c'è un momento in cui l'uomo può dichiararsi definitivamente libero. Ed è proprio nell'ambito di questo gioco di conquista che subentra sia l'educazione, la cui finalità è quella di "e-ducere" l'uomo dalla natura umana, che l'etica, la quale fornisce il quadro di valori entro cui l'uomo è chiamato a ritrovarsi e a ricomprendersi.

 

Verità e significato della corporeità

 

Sessualità fa rima con corporeità. Il corpo, infatti, in quanto tale è sessuato, cioè investito e caratterizzato dalla sessualità, in modo tale che egli appare come corpo maschile o femminile. Ed è proprio in questo suo essere maschio o femmina che il corpo si pone come:

 

·         rivelazione della persona in quanto l'interiorità trova nel corpo lo strumento della sua espressione e comunicazione. Il corpo, infatti, possiede un suo linguaggio fatto di gesti e di espressioni sensibili, così che potremmo dire che il corpo è la persona stessa nella sua esteriorità.

 

·         luogo dell'esperienza di sé: lo spirito dell'uomo non può cogliersi se non attraverso la propria corporeità. La percezione della propria corporeità, infatti, è un elemento fondamentale per la formazione della propria identità, che nasce dalla contrapposizione del proprio corpo, percepito come parte integrante del proprio sé, a quello dell'altro colto, come altro da sé.

 

·         spazio di perfezione, infatti, il corpo è strumento dell'operatività umana, entro cui l'uomo si realizza e si perfeziona. Senza il suo concorso l'uomo rimarrebbe bloccato e ogni strada gli verrebbe preclusa.

 

·         sacramento di comunione: all'uomo non è dato di comunicare direttamente per mezzo dello spirito, ma soltanto attraverso la sua corporeità, che diventa il linguaggio percepibile dello spirito. Tutto il corpo umano parla di comunicazione e la sessualità, in cui è impressa e lo caratterizza, è essa stessa linguaggio di comunicazione; una comunicazione che è prologo alla comunione, in cui la comunicazione si fa dono di sé all'altro.

 

 

Verità e significato della sessualità

 

Il significato della sessualità umana può essere colto sia da un punto di vista individuale, in tal caso esso diventa il principio della propria identificazione, spinta alla trascendenza dal sé verso l'altro da sé, che si concretizza in spinta all'amore che si fa comunione; sia da un punto di vista di relazione tra uomo-donna, nel quale caso la sessualità diventa luogo fisico dell'esperienza dell'amore personale, nonché luogo biologico della trasmissione della vita.

 

In questa prospettiva la sessualità viene ad assumere il duplice significato di "unità-relazionale" e "generazione-procreazione", due aspetti tra loro inscindibili, in quanto l'uno contenuto e presupposto dall'altro.

 

  

 

                   L'ORIZZONTE  BIBLICO                                       

    

 

 

La sessualità nell'ambito della Bibbia, proprio perché l'uomo è colto nella sua interezza integrale, non trova un suo spazio specifico, ma viene collocata all'interno del dialogo salvifico tra Dio e l'uomo, che si fa alleanza e si traduce in storia di salvezza.

 

Ciò che, invece, è centrale è l'uomo pensato come partner di Dio nella creazione e in quanto tale, la sua sessualità, specie nel mondo antico, è concepita in termini sacri, poiché collabora con la divinità alla generazione della vita stessa. Nella sua sessualità l'uomo è stato reso capace di donare la vita, diventando egli stesso, come Dio, fonte inesauribile di vita.

 

L'Antico Testamento

 

La Genesi, nella sua tradizione sacerdotale, ci offre una prima versione della creazione dell'uomo in termini molto significativi: "E Dio disse:<<Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza ...>> ...  Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra>> (Gen. 1,26-28).

 

"Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza". La creazione dell'uomo sia apre con un decreto eterno di Dio. L'uomo, dunque, non è nato per caso, ma è stato pensato da Dio fin dall'eternità. Paolo riprenderà questo concetto nel suo inno cristologico della lettera agli Efesini: "... in Lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per farci santi e immacolati al suo cospetto nella carità; predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà" (Ef 1,4-5). C'è, dunque, un'elezione ab aeterno che ci configura a Cristo ancora prima della creazione del mondo e finalizzato a collocare l'uomo nella vita stessa di Dio.

 

Ecco che cosa significa, dunque, "immagine e somiglianza di Dio": l'uomo chiamato a condividere la vita stessa di Dio, che nel racconto sacerdotale viene scandito in tre momenti fondamentali, che caratterizzano l'essere proprio di Dio, di cui l'uomo è stato reso partecipe: 1) Maschio e femmina li creò; 2) Li benedisse e disse loro: siate fecondi; 3) Soggiogate la terra e dominate.

 

Maschio e femmina li creò: questa espressione segue immediatamente l'altra: "a immagine di Dio li creò". L'immagine di Dio sembra trovare concretezza nell'uomo proprio in quel suo essere "maschio e femmina". Una mascolinità e una femminilità che caratterizzano l'uomo non soltanto nel suo modo di porsi nell'ambito della storia, ma costituiscono anche la base fondamentale delle sue relazioni sociali e ne fanno un essere socievole, chiamato alla comunione nell'unione della sua mascolinità e femminilità.

 

Mascolinità e Femminilità, inoltre, sono i due principi cosmici della vita, che trovano la loro origine in Dio stesso. Dio è "maschio e femmina" allo stesso tempo, per questo crea l'uomo come maschio e come femmina, definendolo sua immagine e a lui somigliante. Questi due principi, tuttavia, in Dio sono un'unica realtà, per questo Dio diventa generatore di vita. L'uomo maschio e femmina trova la sua capacità generativa e donativa soltanto quando unisce per suo mezzo questi due principi di vita. Solo quando l'uomo, lasciando, suo padre e sua madre, si fa una sola carne con sua moglie, cioè ricongiunge la mascolinità alla femminilità, diventa, come Dio, generatore della vita, suo partner nella creazione.

  

Dio li benedisse e disse: siate fecondi ...  per Dio non è sufficiente aver reso l'uomo capace di generare la vita, a sua immagine e somiglianza, ma impone su questi due principi cosmici della Mascolinità e della Femminilità, che Dio condivide con l'uomo, il segno della fecondità: la benedizione. Tale termine viene detto in ebraico "berekah", che deriva, a sua volta, da "berek" che significa "ginocchio", un eufemismo per indicare gli organi genitali, sia maschili che femminili, che sono organi della vita.

 

Ed ecco che la "Mascolinità-Femminilità" posta sotto il segno della benedizione diventa "Fecondità", cioè fonte inesauribile di vita, che nel linguaggio sacerdotale viene espressa in quel "... moltiplicatevi, riempite la terra". E' la vita, che inseminata dalla fecondità divina, si trasforma in una sorgente inesauribile di vita. Ora l'uomo può dirsi veramente immagine e somiglianza di Dio; può veramente dirsi suo partner nella creazione: ora, veramente Dio può continuare la sua opera creatrice proprio attraverso quell'uomo "maschio-femmina" su cui ha posto il segno della sua fecondità: la benedizione, trasformando l'uomo in una sorgente di vita che si espande in continuazione.

 

Soggiogate la terra e dominate ...  con l'uomo, segnato dalla stessa vita feconda di Dio, Dio condivide anche la signoria sulla creazione e fa alleanza con lui: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse".

 

"Coltivare" e "custodire" sono i due termini che nella Bibbia esprimono il rapporto di alleanza tra Dio e Israele. L'uomo, dunque, è reso prtener di Dio nell'ambito della creazione e ne è reso responsabile. L'uomo alleato di Dio è chiamato a diffondere la vita nel creato in nome e per conto di Dio stesso. Dio glielo affida nell'ambito di un'alleanza che trova la sua origine qui nel giardino di Eden, cioè nella stessa dimensione divina.

 

Ma l'uomo tenta lo sgambetto a Dio, cerca di fare un colpo di stato e di mettersi al posto di Dio stesso: "... diventereste come Dio". Ecco la grande tentazione: l'uomo che perde il senso della sua creaturalità e si ritiene la misura di tutte le cose. La conseguenza immediata della perdita del senso del proprio limite è lo scoprire di "essere nudi". L'uomo si accorge di essere diventato carne despiritualizzata e corre a nascondersi dietro una siepe, segno della barriera di incomunicabilità che si è elevata tra Dio e l'uomo, che ha rotto il patto di alleanza. Dio, pertanto, riveste l'uomo di pelli di animali e lo pone fuori dal giardino. E' l'uomo che, perduta la dimensione divina, si riscopre rivestito non più dello Spirito di Dio, ma di semplice animalità.

 

Ma Dio non abbandona quella creatura ribelle, che creata a sua immagine e somiglianza fa comunque sempre parte del suo mondo e non si rassegna alla sua perdita, e da subito va alla ricerca dell'uomo: "Il Signore Dio chiamò l'uomo e gli disse: <<Dove sei?>>" (Gen. 3,9).

 

Ha inizio così la storia della salvezza, cioè il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale. Quell'alleanza primordiale viene ripetuta infinite volte da Dio nel corso della storia: ed ecco Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosé, il popolo ebreo, i profeti e, infine, da ultimo Cristo stesso, il suo Figlio, in cui Dio ricapitola tutte le cose del cielo e della terra (Ef 1,10); in lui compie una nuova creazione, in lui accorpa l'uomo e lo fa nuova creatura, ricollocandolo nuovamente nella propria dimensione divina, da cui l'uomo era uscito per la sua arroganza.

 

Un'alleanza che nella Bibbia viene simboleggiata, a partire da Osea e fino al Cantico dei Cantici, dalla nuzialità tra l'uomo e la donna. L'esperienza umana della coppia unita nell'amore matrimoniale diventa il luogo di una rivelazione, il cui contenuto è l'alleanza di amore di Dio con l'umanità.

 

 Il Nuovo Testamento

 

L'antica alleanza sinaitica trova la sua continuità e, nel contempo, il suo superamento proprio in Cristo, l'ultima proposta di salvezza che Dio offre all'uomo. Per questo Cristo diventa la nuova chiave interpretativa del vivere e del morire. Tutto riceve luce da lui e tutto in lui è relativizzato, così che l'urgenza della stessa sessualità viene stemperata dalla verginità, spesa per il Regno. Lo stesso matrimonio, simbolo dell'alleanza tra Dio e l'umanità, elevato a sacramento, perde il suo unico senso della propagazione e conservazione della specie, che aveva nell'AT.

 

Al centro del nuovo messaggio di Gesù ci sta l'uomo visto nel suo rapporto con il Regno di Dio, segno della ricostituita signoria di Dio sull'uomo e a cui l'uomo è rigenerato dalla risurrezione di Cristo, anticipata e spiegata dall'azione taumaturgica e dalla parola stessa di Cristo: "Andate e riferite a Giovanni ciò che voi udite e vedete: i ciechi recuperano la vista, gli storpi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi riacquistano l'udito, i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella..." (Mt 11,4-5).

 

Tale messaggio, che punta a rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio e a fargli cogliere il senso del suo vivere, trova in tre discorsi di Gesù una luce che chiarisce l'aspetto della sessualità e del matrimonio:

 

·         Il discorso sulla purità (Mt 15,10-20) in cui Gesù evidenzia che ciò che contamina l'uomo è ciò che esce dal suo cuore e non ciò che entra in lui, relativizzando la scrupolosa purità fisica del fariseo. Il VT vedeva, infatti, nel sesso un impedimento all'unione cultuale con Dio, mentre nell'adulterio e nell'incesto un attentato all'istituzione del matrimonio, concepito in modo sacrale. Gesù ricondurrà la purità sia nei rapporti con Dio che nel matrimonio non in atti da fare o da non fare, ma nella purità del cuore, da cui proviene ogni malvagità. La purezza esteriore deve essere soltanto un segno di un'altra purezza ben più importante che si radica nell'intimo stesso dell'uomo. Dio guarda a questa.

 

·         Il discorso sul divorzio  (Mt 5,27-28.31-32) L'adulterio, già condannato dal sesto comandamento, trova una radicalizzazione in Gesù: "chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore"; e ancora: "... chiunque ripudia sua moglie ... la espone all'adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio". Con tali espressioni, che si contrappongono al legalismo farisaico, Gesù afferma l'inviolabilità del matrimonio, unico luogo dove la sessualità può essere consumata correttamente. Alla radice di ogni adulterio e di ogni divorzio Gesù pone la durezza di cuore, causa di ogni rottura di coppia, mentre la concupiscenza imprigiona il cuore.

 

·         Il discorso sul matrimonio (Mt 19,3-9) In una diatriba con i Farisei che gli chiedevano la liceità del divorzio, sancito dalla stessa Legge mosaica, Gesù riconduce il matrimonio alla sua perfezione originaria sancita da Gen. 2,24, poiché soltanto là il matrimonio ritrova il suo autentico senso. Il divorzio, concesso da Mosé è dovuto soltanto per la durezza del cuore: "Per la durezza del vostro cuore Mosé vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma al principio non fu così"; e ancora: "Quello che Dio ha congiunto, l'uomo non separi" definendo, pertanto, il matrimonio come un atto divino che sancisce l'assoluta inviolabilità del matrimonio stesso, visto come progetto salvifico pensato da Dio stesso per l'uomo. Soltanto in tale ambito l'uomo ritrova il senso del suo essere maschio e femmina e ritorna ad essere il vero partner di Dio. Il matrimonio, dunque, non è un'invenzione degli uomini, ma viene fatta risalire alla stessa volontà divina: "Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina ... ?". Sono parole pesanti e totalmente innovative per una mentalità segnata dal peccato. Sono parole che turbano gli stessi discepoli, i quali concludo che "se questa è la condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi" (Mt 19,10). E qui Gesù introduce significativamente il discorso sulla Verginità, che costituirà il dinamismo più profondo dell'intera sessualità umana, che qui viene vista e spesa in funzione del Regno dei cieli. La sessualità, dunque, alla luce della Verginità è relativizzata e diventa uno strumento che spinge l'uomo a mete superiori, evitando, in tal modo, che egli si perda all'interno della stessa sessualità. Con il tema della Verginità Gesù sembra voler dire all'uomo che la sua meta non è quaggiù, ma che la sua vita è finalizzata al Regno di Dio.

 

 

L'antropologia paolina

 

Paolo, di cultura ebraica, si trova ad operare in mezzo alla cultura ellenistica e romana che, proprio in tema di sessualità e matrimonio, presentavano problematiche assai complesse, spaventosamente desolanti e decisamente lontane dal messaggio di Cristo.

 

I temi della sessualità e del matrimonio Paolo ce li offre, rispettivamente, in 1Cor 6,12-20 e 1Cor 7.

 

Paolo parte dalla considerazione che l'uomo è diventato una nuova creatura in Cristo, di cui si è rivestito come di un abito nuovo; è stato immerso in Cristo così da essere cristificato e al punto tale che, esclama Paolo, "... non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal. 2,20). L'uomo, pertanto, immerso in Cristo per mezzo del battesimo, è stati "lavato, santificato, giustificato" (1Cor 6,11). La nuova vita, pertanto, acquisita non consente più di vivere secondo le logiche della carne, ma l'uomo nuovo, totalmente rinnovato e rigenerato in Cristo, deve lasciarsi condurre dallo Spirito.

 

Pertanto, Paolo ci sollecita a comportarci in maniera degna della vocazione che abbiamo ricevuto (Ef 4,1) che si traduce in un impegno costante nel condurre una vita santa, che costituisce la base di un nuovo stile di vita, condotta secondo le logiche dello Spirito, "poiché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione" (1Ts 4,3), che qui Paolo vede come astensione dalla fornicazione; per cui, continua Paolo, "... che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto" (1Ts 4,4).

 

Questa novità di vita che l'uomo nuovo, rinnovato ad immagine del suo Creatore, può cogliere solo per mezzo della fede, che nasce dall'ascolto della Parola, fornisce un orizzonte nuovo che illumina ogni aspetto della vita, anche sessuale.

 

Ed è proprio alla luce di questa novità di vita in Cristo che Paolo legge il senso del corpo e del suo relazionarsi in 1Cor 6,12-20.

 

Qui Paolo si trova di fronte a due categorie di persone: i lassisti, che male interpretando la loro libertà acquisita in Cristo, vanno dicendo: "Tutto mi è lecito!". Essi, infatti, di cultura greca, che disprezzava il corpo, quale prigione dell'anima, non lo ritenevano rilevante nel loro rapporto con Cristo, per cui, mentre il loro spirito era rivolto a Cristo, il loro corpo poteva essere abbandonato alla prostituzione, alla mangiare e bere e alle forme più aberranti della sessualità. A questi Paolo ricorda che il corpo è per il Signore e che la novità di vita in Cristo coinvolge integralmente l'uomo nella sua interezza. Evidenza, poi, che l'unirsi ad una prostituta significa ridurre a membra di quella prostituta un corpo che nel battesimo è stato consacrato al Signore. Il corpo, infatti, conclude Paolo è tempio dello Spirito e, pertanto, non appartiene più all'uomo, ma a Dio.

 

Ma anche i rigoristi non sono da meno. Essi, infatti, partendo dalla medesima antropologia dualista dei lassisti, che vedeva lo spirito contrapposto al corpo, disprezzavano questo a favore dello spirito. Tale disprezzo si riverberava anche nell'uso del matrimonio che, a loro parere, non poteva essere dal Signore, ma dal maligno. Paolo a questi risponde che il matrimonio è l'unico luogo lecito, in cui l'uomo e la donna si possono incontrare per esprimere tutta la loro carica di amore, anche con l'uso della sessualità. Nell'ambito del matrimonio, poi, nessuno è padrone del proprio corpo, ma lo è il coniuge, per cui la vita sessuale va vissuta in pieno accordo e nel reciproco consenso.

 

Tale luogo, inoltre, è voluto dal Signore stesso il quale ha ordinato agli sposati di non separarsi (1Cor 7,10), confermandone in tal modo la piena validità, come spazio d'incontro per esprimere il proprio amore lecito.

 

Ma il vero senso del matrimonio Paolo lo evidenzia nella lettera agli Efesini dove, al cap. 5,21-33, pone un efficace parallelismo tra l'amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa e l'amore sponsale tra marito e moglie. Il senso di ogni matrimonio, pertanto, per Paolo si trova nell'amore di Cristo verso la Chiesa: qui sta il grande mistero del matrimonio cristiano: "Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa" su cui ogni matrimonio viene riparametrato e ricondotto.

 

Alla base di tutto ci sta la nuova condizione dell'uomo in Cristo. Il credente, in forza del battesimo, è stato accorpato a Cristo e, pertanto, gli appartiene totalmente. Per questo il corpo è per il Signore e non per l'impudicizia.

 

E' proprio questo "appartenere al Signore" che apre nuovi orizzonti e prospettive nella comprensione della sessualità, del corpo e del matrimonio.

 

Concludendo, potremmo individuare tre linee fondamentali nell'antropologia paolina che possono illuminare il tema della sessualità e del matrimonio:

 

·         linea antropologica  in cui si mette in rilievo i due stili di vita che si prospettano da Cristo in poi: il vivere secondo la carne, che racchiude l'uomo nella schiavitù del peccato e gli toglie ogni orizzonte di speranza; e il  vivere secondo lo Spirito che ricolloca l'uomo nella libertà dei figli di Dio e lo apre ad una novità di vita, fino ad allora sconosciuta: si tratta di vivere secondo le logiche di Dio. Questa contrapposizione tra carne e Spirito trova il suo fondamento nella fede e nel battesimo: per suo mezzo siamo stati uniti alla morte di Cristo, perché come Cristo fu risuscitato dai morti, così anche noi potessimo camminare in novità di vita. Pertanto, conclude Paolo, "... anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù" (Rm 6,4-5.11). Vivere la sessualità in questo ambito significa avere la coscienza che il nostro corpo, tutto il nostro essere è consacrato al Signore, mentre questo corpo è destinato alla risurrezione, cioè ad essere ricollocato nella vita stessa di Dio, da cui proviene.

 

·         Livello escatologico: Paolo vede che la risurrezione di Cristo ha impresso una forte accelerazione alla storia, per cui tutto ciò che è posto in essa viene relativizzato e perde di senso: "Il tempo ormai si è fatto breve; pertanto chi ha preso moglie, viva come se non l'avesse, chi piange come se non piangesse, chi gioisce come se non gioisse, chi compera come se non possedesse; chi usa delle cose come se non le usasse, perché passa la scena di questo mondo" (1Cor 7,29-31).  In questa prospettiva vediamo come la sessualità non va assolutizza, né enfatizzata poiché l'unica realtà che conta è Cristo risorto.

 

·         Livello cristologico: per mezzo del battesimo il credente, rivestito di Cristo come di un abito nuovo, è stato unito a Lui come lo sposo alla sua sposa, diventando un'unica realtà con Cristo al punto tale che Paolo esclama: "... non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 3,20). Pertanto, anche la nostra corporeità, associata a Cristo, viene rigenerata e ogni sua utilizzazione al di fuori di questa comunione con Cristo, diventa una profanazione. Proprio in tale prospettiva, Paolo ci ricorda che il nostro rapporto con la corporeità è di tipo squisitamente sacerdotale e consacrante: "Vi esorto, dunque, fratelli, per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi quale sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1).

 

 

 

 

 

L'ELABORAZIONE TEOLOGICA

 

 

 

 

Premessa

 

Nel corso dei secoli la Chiesa ha elaborato la sua riflessione teologica sia per esigenze missionarie che dottrinali, sia per esigenze di testimonianza. In altre parole si trattava di incarnare il messaggio di Gesù nella storia e renderlo raggiungibile da tutti gli uomini.

 

Da qui l'esigenza di tradurre teologia e dottrina in termini pastorali, affinché l'agire cristiano fosse espressione dell'essere cristiano. In quest'ottica, anche la questione della sessualità ha trovato la sua elaborazione teologica, sfociata nella duplice teologia del matrimonio e della verginità, tra loro strettamente legate.

 

L'epoca patristica

 

Posto in un contesto pagano con cui si aveva a che fare quotidianamente,  il pensiero dei Padri non si è mostra omogeneo, ma occasionale e la cui teologia è sempre biblicamente ispirata, accompagnata da una forte accentuazione spirituale.

 

Inoltre, la forte convinzione di essere giunti ormai negli ultimi tempi portò i Padri a svalutare il matrimonio a favore della verginità, con una velata accentuazione pessimistica nei confronti della corporeità, che risentiva, probabilmente, della dicotomia greca che contrapponeva il corpo allo spirito, svalutando il primo a favore del secondo.

 

Ai costumi lascivi e depravati dell'epoca si contrapponeva una forte ascesi che accentuava la spiritualizzazione del vivere e, in tale prospettiva, esaltava la castità al punto tale che la stessa sessualità, spesa all'interno del matrimonio, era mal sopportata e, comunque, tollerata solo in funzione della riproduzione della specie.

 

Dal III sec. si incominciò a delineare la prima teologia sistematica sul matrimonio, concepito nell'ambito dell'ordinamento della creazione e della salvezza e in cui si sottolinea prevalentemente l'aspetto procreativo. Simbolicamente viene letto sul rapporto che lega Cristo alla sua Chiesa. Ma la Verginità lo sovrasta di gran lunga: "Il matrimonio è buono; ma non si può dire che esso sia migliore dello stato di verginità" (Gregorio nazianzeno). Esso, infine, è concepito come rimedio alla concupiscenza. Concetti questi che rimarranno nella Chiesa per lunghi secoli, fino ai nostri giorni, basti pensare come viene definito il matrimonio dal vecchio CIC al can.1112 e giunto sino alle soglie del 1983.

 

Del matrimonio viene affermata la liceità, ma siamo ancora ben lontani dal vederlo come uno stato di vita pari a quello della verginità.

 

Ma è soprattutto S.Agostino (354-430) che darà una sistematizzazione rilevante al matrimonio.

 

Per Agostino il matrimonio è stato istituito e benedetto da Dio ed elevato a raffigurazione del rapporto tra Cristo e la sua Chiesa da Cristo stesso. Pertanto lodare a verginità non significa disprezzare il matrimonio.

 

Tre sono i beni rilevati da Agostino nel matrimonio: a) il bonum prolis, cioè la procreazione; b) il bonum fidei, cioè la fedeltà coniugale, fondamentale per il matrimonio; c) il bonum sacramenti, quale segno di unione di Cristo con la sua Chiesa, che conferisce al matrimonio le qualità costitutive stesse del matrimonio: quella dell'unità e dell'indissolubilità.

 

Fa problema per Agostino, anche all'interno del matrimonio, la concupiscenza quale disordine insuperabile, frutto della colpa originale, che rende impossibile una visione serene della sessualità e del matrimonio stesso, in cui essa viene consumata. Nell'ultima fase della sua vita, affetto da manicheismo, Agostino mal tollererà l'uso della sessualità nel matrimonio, che viene concepita solo a fini procreativi.

 

La dottrina tridentina

 

La dottrina dei Padri della Chiesa, circa il matrimonio e la sessualità, farà scuola fino a tutto il sec. XI.

Con il XII sec., ma ancor più dal XIII, il secolo d'oro della scolastica, che vede predominare la figura di S.Tommaso (1224-1274), il quale riuscì a dare alla teologia una sistematizzazione scientifica, vi sarà un continuo fiorire di teologi.

Questi, fondandosi sul pensiero dei Padri della Chiesa, approfondiranno e a daranno nuove prospettive alla teologia della Verginità e del Matrimonio, favorendone la comprensione. Tra questi teologi, degni di menzione sono Ugo e Riccardo di S.Vittore, Abelardo, Pietro Lombardo, Alberto Magno, S. Tommaso d'Aquino che, in tema di matrimonio e sessualità, riprenderà, con una puntualizzazione più equilibrata, la riflessione di S.Agostino.

 

Il pensiero tomista verrà ripreso dal Concilio di Trento (1545-1563) in cui confluisce tutta la dottrina e il pensiero precedente della Chiesa e riceverà una definitiva sistematizzazione dottrinale, che accompagnerà la Chiesa fino alle soglie del Vaticano II.

 

Il risveglio preconciliare

 

Nel periodo post-tridentino inizia un lento e graduale processo di secolarizzazione e di laicizzazione della società, che culminerà nell'ateismo pragmatico dei nostri giorni: "Dio? Non mi interessa", che porta a vivere come se Dio non esistesse e per il quale, comunque, si mostra una totale indifferenza.

 

Durante questo periodo la morale si costituisce come scienza autonoma, staccandosi sempre più dalla Scritture e dando, invece spazio, all'elemento filosofico e giuridico. In tema di sessualità prevale una linea rigorista e oggettivistica: non si dà mai "parvitas materiae"

 

Il XIX sec., sospinto dal vento dell'Illuminismo, è caratterizzato da una forte critica al mondo della fede e costringe la Chiesa a confrontarsi con le nuove scoperte scientifiche, che rivoluzionano il vivere sociale, e a reinterpretare la propria fede alla loro luce.

 

Lo sviluppo, poi, delle scienze umanistiche, come la psicologia e la psicoanalisi, costringe la teologia morale a ripensare le proprie posizioni.

 

La dottrina del Vaticano II

 

Il Vaticano II si costituisce come il vertice del pensiero tradizionale della Chiesa e segna una svolta decisiva e completamente innovativa all'interno della Chiesa, una svolta storica che apre nuovi orizzonti alla fede e alla riflessione teologica e in cui si intenta anche un dialogo con il mondo ormai decisamente laicizzato e secolarizzato.

 

Questo Concilio non affronterà in termini specifici il tema del matrimonio e della sessualità, ma ne fornirà le basi teologiche per ulteriori sviluppi successivi. Altri saranno i documenti post-conciliari che forniscono un nuovo quadro teologico e pastorale sulla sessualità e il matrimonio, come ad es. la Humanae vitae, Persona Humana, Familiaris Consosrtio.

 

Nell'ambito del Concilio, sarà la GS a fornire una nuova visione del matrimonio, in cui i coniugi, a modo loro, partecipano alla storia della salvezza. Si supera, poi, definitivamente il concetto contrattualistico del matrimonio, che si preferisce legare al concetto di Alleanza tra Dio e gli uomini.

 

Nel nuovo concetto di matrimonio, esso è colto come lo spazio voluto da Dio in cui si svolge l'amore dei coniugi, non più strumentalizzato alla procreazione, ma al bene dei coniugi stessi che, di conseguenza, ma solo in seconda battuta, si aprono alla procreazione e all'educazione della prole. Viene, quindi, tolto completamente, perché ormai non più rispondente alla nuova comprensione, l'espressione del vecchio CIC "remedium concupiscentiae" (can. 1113).

 

La teologia della sessualità e del matrimonio oggi

 

La questione oggi si pone in termini sempre meno teologici e sempre più pastorali, una pastoralità che cerca un dialogo con il mondo, ma che si scontra con logiche sempre più libertarie e pragmatiste, aperte all'edonismo e al consumismo. Il rischio è di trovarsi soli ed essere presi per matti.

 

In questo contesto è bene puntualizzare i temi di duemila anni di cristianesimo circa il matrimonio e la sessualità, nonché il vivere cristiano:

 

a) L'affermazione di un'antropologia personalista cristiana; b) ecclesiologia di comunione; c) fondamento cristologico dell'esistenza cristiana; d) i vari stati di vita in cui ognuno si ritrova, pensati come sviluppo secondario della primaria chiamata alla santità, legata al battesimo; e) riscoperta del sacerdozio comune dei fedeli e del loro stato di profeti e re, che li lega a Cristo e li rende partecipi della sua missione; f) funzione ministeriale di ogni stato di vita.

 

 

 

  

DATI  FONDAMENTALI  PER  UN'ETICA

DELL'AMORE E DELLA VITA

 

 

 

L'amore come la sessualità, posti in un'ottica cristiana, assumono coloriture proprie che caratterizzano lo stile di vita cristiano. Eccone alcuni tratti:

 

- L'amore come vocazione: la sessualità umana è portatrice di significati simbolici e personalistici ed è costitutiva della stessa natura dell'uomo, che trova la sua origine in un libero atto di amore di Dio, che segna l'uomo nella sua natura. La natura dell'uomo, infatti e strutturata proprio per essere dono, accoglienza e comunione.

 

Proprio nella struttura stessa dell'uomo, configurato come maschio e come femmina, è insita una natura chiamata all'amore, concepito come dono accolto che si fa comunione. La sessualità, colta in questa prospettiva, viene privata della sua animalità per tradursi in strumento di amore, di comunione e di condivisione.

 

- Uomo e donna: una bipolarità per la comunione: l'amore, visto come totale apertura del sé che si fa dono totale all'altro da sé, come accoglienza dell'altro in sé, si radica nella  struttura fondamentale della stessa natura dell'uomo, creato come maschio e come femmina e che in questi elementi rispecchia la sua immagine e somiglianza divina, che iscrive nella natura stessa dell'uomo la sua naturale vocazione all'amore che si fa dono e comunione.

 

- La persona come totalità unificata di corpo e spirito: una visione questa che ci porta a superare la dicotomica concezione dell'uomo, di platonica memoria. L'uomo non è un composto chimico, la cui formula è la fusione dell'anima con il corpo, bensì è un corpo spiritualizzato e uno spirito incarnato. Tra i due vige un profondo e inscindibile connubio così che la dimensione della sessualità e dell'amore coinvolge l'uomo nella sua integralità e non è pensabile diversamente.

 

- Matrimonio e Verginità: due modalità storiche di vivere la stessa vocazione, cioè l'unica chiamata alla santità, che ognuno di noi ha ricevuto aprendosi alla vita e ancor più nel battesimo, e si configurano come due stati di vita finalizzati alla realizzazione piena dell'uomo in Cristo, ognuna con proprie e specifiche finalità storiche.

 

- Sessualità e persona: la sessualità è un elemento fondamentale della persona che la caratterizza storicamente come maschio e come femmina e da cui è caratterizzata al punto tale che non è concepibile senza tale caratterizzazione. Da ciò ne discende che ogni uso della sessualità deve essere condotto nel rispetto e secondo i fini proprio dell'essere persona. Qualsiasi violazione a questo codice produce una violazione e una violenza all'uomo, che diviene, per questo, meno persona.

 

- L'istituto matrimoniale:  nella naturale conformazione anatomica, che definisce l'uomo come maschio e come femmina, si radica la naturale chiamata all'incontro, che porta all'unione, alla condivisione e alla comunione. Un processo questo che trova il suo naturale sviluppo nel matrimonio, concepito come il luogo naturale, universalmente riconosciuto, dove l'amore trova stabilità e in cui l'amore stabile si fa dono di vita. In questa prospettiva il matrimonio va colto quale elemento di stabilità e di unità, fondate sulla fedeltà della coppia, sottraendolo così ad un soggettivismo devastatore.

 

- Il sacramento del matrimonio: la matrice del matrimonio come sacramento si trova nell'amore fedele di Dio che, unitosi alla stessa natura umana, ha condiviso per sempre la sorte dell'uomo, redimendolo dal suo stato miserevole e ricollocandolo nella sua stessa vita divina, trasformando la storia dell'uomo in una divina storia della salvezza.

 

Il matrimonio cristiano, proprio perché tale, vede l'uomo e la donna incorporati in Cristo e in lui inseriti, chiamati a realizzare la loro storia della salvezza, collaborando con Dio nel dono della vita. In tale orizzonte, il matrimonio assume le dimensione di un'Alleanza tra Dio e l'uomo, che gli sposi, quali partner di questa alleanza, significano proprio nel loro matrimonio. L'amore di Dio sacramentalizzato nell'amore dei coniugi, si trasforma in carità coniugale, che è concreta testimonianza di un Amore invisibile da loro reso visibile.

 

- La verginità per il Regno: la verginità non è contraddizione del matrimonio, né tantomeno si oppone ad esso, ma è un modo diverso di vivere la stessa vocazione all'amore. Essa testimonia e significa in chi la vive l'attesa del superamento definitivo della sessualità, vissuta nella sua concretezza storica, nell'attesa delle nozze escatologiche con il comune sposo. La verginità, quindi, testimonia e anticipa qui nella storia il mondo nuovo della risurrezione futura.

 

 

  

ETICA  DEL  DONO

 

 

 

La sessualità, all'interno della concezione personalistica del vivere cristiano, si caratterizza come dono che si fa impegno di vita.

 

Tutto ciò che riguarda la persona rientra nell'ambito della normativa etica, che nel suo sche di fondo indica il bene da compiere e il male da evitare. E', dunque, una via normativa che indica il cammino da percorrere per portare l'uomo alla sua realizzazione piena, in conformità al piano salvifico di Dio, rivelato in Cristo.

 

Criteri di riferimento

 

Premesso che tutta  l'etica si fonda sull'antropologia interpretata nell'orizzonte cristiano, la posizione tradizionale circa la sessualità e il matrimonio si può riassumere in tre criteri di fondo:

 

·         Il criterio biologico che vede nella sessualità l'elemento primario finalizzato alla procreazione, benché oggi esso venga ricompreso nel più ampio senso dell'amore finalizzato al bene dei coniugi.

 

·         Il criterio sociale  nell'uomo definito quale maschio e femmina si radica non solo la sua definizione storica, ma anche la sua socialità e, quindi, le sue relazioni interpersonali. Pertanto, ogni atto sessuale che vada contro la natura sociale della persona, viola la finalità stessa dell'atto, collocando la persona in posizioni egoistiche.

 

·         Il criterio giuridico concepisce il matrimonio come un'istituzione sociale giuridicamente protetta, negando in tal modo protezione giuridica all'atto sessuale posto al di fuori del matrimonio, quale area protetta.

 

Ma un criterio cristianamente fondante l'etica del vivere è l'agape evangelica che ci rivela Dio come amore: "Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui" (1Gv 4,16). L'amore, dunque, inteso quale totale e definitiva apertura all'altro, come accoglienza dell'antro in sé e come dono di sé all'altro diventa il leit-motiv del vivere cristiano. Tutto si risolve in questo.

 

Il criterio dell'amore vero e oblativo

 

L'amore, quindi, quale criterio ultimo e supremo dell'etica sessuale assolve a due fondamentali requisiti dell'etica cristiana: quello scritturistico e quello antropologico. E non può essere diversamente, perché comunque venga guardato, l'amore colloca l'uomo in Dio, e l'uomo collocato in Dio realizza in modo pieno il suo essere uomo. Un amore, quindi, che risponde sempre a dei criteri e a delle finalità che hanno come obiettivo comune, sempre e comunque, l'affermazione della persona sotto ogni suo profilo. Un amore che non possieda questa caratteristica non è più tale.

 

Si tratta, ora, di definire i criteri che precisino il concetto di amore, togliendolo dalla sua indeterminatezza e generalità, per evitare che sotto il segno di tale parola non si annidi tutto e il contrario di tutto.

 

L'amore, più che sentimento o emozione, va definito come atteggiamento esistenziale Esso, pertanto, può essere compreso come la totale apertura dell'IO verso il TU, come totale dono di sé all'altro da sé, come totale accoglienza del TU nel sé.

 

Così concepito, l'amore definisce l'atteggiamento esistenziale di fondo dell'uomo, maschio o femmina che sia, come totale apertura che si fa dono e accoglienza. E', a ben guardare, l'atteggiamento di Dio stesso che "... ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Qui abbiamo il Padre che si apre al mondo; un'apertura che si concretizza nel dono del Figlio perché tutti, per mezzo di questo dono, possano accedere alla vita stessa di Dio. Questa è la dinamica dell'amore divino; questa è la dinamica di ogni amore, soprattutto coniugale, che dell'amore di Dio è sacramento.

 

Autodominio e autopossesso

 

Se questo amore si qualifica "apertura che si fa dono e accoglienza", si rende necessario, allora, che ognuno possegga pienamente se stesso per non rendere ambiguo e incerto il dono. Infatti, gli antichi ci ricordano che "Nihil datur quod non habetur". Prima di dare, dunque, bisogna possedere ciò che si dona, altrimenti il tutto si traduce in un inganno.

 

E quando il dono implica la propria persona, oggetto del dono, allora si rende necessario il pieno, integrale ed equilibrato possesso del proprio IO e delle forze che lo muovono e lo costituiscono. E questo parametro indispensabile perché l'amore sia tale si raggiunge con la maturità della persona stessa.

 

L'autopossesso si acquisisce attraverso l'autodominio di sé. Non si tratta di costringere l'IO entro una camicia di forza, ma di coordinare, educandole, le forze pulsionali, finalizzandole all'arricchimento della propria persona; diversamente diventano forze disgreganti.

 

La castità e il pudore

 

La castità, che nel comune sentire viene intesa come astinenza sessuale, è, al contrario la virtù che ti spinge all'uso corretto della sessualità, in conformità ai fini che le sono propri. Essa consente, pertanto, di integrare le facoltà sessuali nel progetto di crescita armonica ed equilibrata della personalità, evitandole, in tal modo, di disperdersi e di banalizzarsi.

 

Accanto alla castità si affianca anche il pudore. Esso è essenzialmente un sentimento che nasce dalla percezione della sacralità del nostro corpo e in particolar modo delle sue funzioni primarie. E', quindi, una sorta di difesa che impedisce che altri possano, in qualche modo, impossessarsi anche indirettamente del nostro corpo, sacrario del nostro esserci. Una difesa, quindi, da possibili violazioni esterne.

 

 

 

SESSUALITA'  E  RESPONSABILITA'

 

 

 

 

Premessa

 

La persona, proprio perché tale, è chiamata a vivere responsabilmente la propria vita. E la responsabilità del proprio vivere è la corretta risposta al dono della vita.

 

In tale orizzonte di responsabilità va vissuta anche la sessualità. Tale responsabilità comporta il vivere la propria sessualità in conformità al progetto divino inscritto nella nostra stessa natura.

 

Il principio fondamentale dell'etica sessuale

 

Va precisato subito che i valori su cui fondare l'etica sessuale devono essere agganciati primariamente alla stessa natura umana, che possiede in se stessa i meccanismi del buono e corretto uso del proprio corpo. Impostare un'educazione che violi i principi naturali significa predestinarsi ad un certo fallimento esistenziale. A questi il credente deve aggiungere quegli elementi della rivelazione, che manifestano il mistero e il senso profondo del proprio essere e ce lo fanno vedere e percepire dalla parte di Dio. In essi, allora, si vede inscritto il progetto salvifico pensato da Dio per l'uomo.

 

Da questa visione e comprensione dell'uomo, si evince come il corretto modo di vivere la propria sessualità non è inscritta nella cultura propria della persona o della società in cui si contestua, ma nella sua stessa natura, eventualmente arricchita e supportata da valori aggiunti, propri della cultura civile e religiosa a cui la persona appartiene.

 

Ora, la sessualità umana è legata a due valori fondamentali: l'amore e la vita, per cui è naturalmente predisposta e strutturata. Definitività, eterosessualità e alterità sono gli elementi costitutivi per un corretto esplicitarsi della sessualità e costituiscono, nel contempo, la sua corretta comprensione che predispone ad un suo corretto uso.

 

Problematiche particolari

 

Purtroppo l'uomo, segnato dal peccato, mostra tutta la sua fragilità nel momento in cui è chiamato a vivere la propria sessualità, la cui comprensione e il cui orientamento sono spesso deviati dai disvalori di cui è impregnata la nostra società.

 

Rapporti prematrimoniali, omosessualità, autoerotismo, transessualismo, prostituzione, pornografia, ed altro ancora, hanno come base comune una graduale e consistente perdita dei valori su cui si fonda il vivere umano, inserito oggi, più che mai, in una cultura di morte.

 

Rapporti prematrimoniali

 

Con l'aprirsi dell'uomo all'adolescenza nasce anche la sua capacità dell'uso della genitalità, che si fa impellente, quando a questa si unisce l'amore tra due fidanzati, il cui stare insieme è finalizzato al matrimonio. In quest'ultimo caso, l'uso della genitalità è preceduto e richiesto dallo stesso amore che li lega e ne diventa espressione e concretizzazione.

 

Se questa logica è corretta, e lo è, non va dimenticato, tuttavia, che il corretto uso della propria genitalità, proprio perché essa apre alla vita, che abbisogna di stabilità e definitività, deve svolgersi all'interno di rapporti che siano non soltanto tutelati giuridicamente, ma che possiedano intrinsecamente i caratteri di definitiva stabilità, che si concretizza nella indissolubilità del rapporto. Elementi, questi, che si ritrovano soltanto nel matrimonio. Ogni altra soluzione ne è un surrogato e, in quanto tale, pone la vita e il rapporto in una situazione di precarietà e di falsità esistenziale, che apre alla banalizzazione della vita, disconosciuta e violata nei suoi valori fondamentali.

 

L'omosessualità

 

In una società segnata da una cultura di morte, che è cultura del disvalore e del conseguente permissivismo, scambiato per apertura democratica e rispetto dell'individualità e affermazione del diritto soggettivo, l'omosessualità, che in sé non costituisce colpa morale, tende ad essere socialmente omologata come un diverso modo di vivere la propria sessualità, accantonando e dimenticando l'intima ed essenziale stortura deviata e deviante di cui essa è costituita.

 

Va subito detto che l'essere omosessuali non è una colpa, che si ritrova, invece, nella pratica dell'omosessualità. Infatti, se l'omosessualità dice che la natura è deviata, va da sé che anche l'atto è deviato e, pertanto, non accoglibile.

All'omosessuale, in quanto persona sfortunata, va tutta la comprensione e il rispetto dovuto a qualsiasi altra persona, che in quanto tale è portatrice di valori. L'omosessualità non va, però, riconosciuta quando si pretende di far passare come diritto da esercitare e da riconoscere socialmente.

 

L'atto omosessuale, infatti, è privo di quegli elementi essenziali che, invece, sono propri dell'eterosessualità: l'apertura al dono della vita. L'omosessualità è una sessualità chiusa in se stessa e su se stessa ripiegata, non porta a niente se non alla soddisfazione della propria libido. E questo non è amore che apre alla vita, ma condanna l'uomo alla solitudine al cui interno egli ritrova soltanto il proprio fallimento.

 

In quanto persona capace di libere scelte, l'omosessuale va educato al valore della vita, che è diversamente proposto dalla sua omosessualità.

 

L'autoerotismo

 

Se l'elemento fondamentale della sessualità è l'apertura all'altro che si fa dono di vita, l'autoerotismo, invece, si propone come una forma di narcisismo e di ripiegamento su se stessi. E' un fare l'amore con se stessi e in ciò non vi è nulla di più avvilente per la persona, che per sua natura è stata costituita e strutturata per l'altro. E', in buona sostanza, la vanificazione degli intenti stessi inscritti nella natura umana.

 

La questione va posta su due piani diversi per non commettere gli errori di valutazione morale del passato, che metteva sullo stesso piano la gravità della colpa commessa con la responsabilità di chi la commetteva. Ad attenuare la colpa soggettiva intervengono fattori individuali legati alla storia della persona, che vanno presi in seria considerazione per non fare di tutta l'erba un fascio.

 

Transessualismo

 

Il fenomeno è in sé piuttosto singolare, poiché vede nella stessa persona il contrasto tra il sesso biologico proprio e quello psichico. In altri termini, una persona biologicamente maschio o femmina, si sente e si pensa come donna o come uomo e si vive come appartenente al sesso opposto fino al punto di desiderare una sua trasformazione anatomica, per adeguarla al suo sentirsi.

 

La questione morale che si pone è quella sulla liceità o meno della trasformazione anatomica. La soluzione va posta sul concetto di terapeuticità che si attribuisce all'intervento di trasformazione. La terapia è sempre un intervento correttivo sulla natura. Ora va da sé che la natura nel transessuale non abbisogna di correttivi poiché in essa non vi è nulla da correggere. L'operazione deve essere posta a livello psicologico, aiutando l'interessato ad accettarsi e a viversi in questa sua stranezza, cercando di valorizzare in lui le residue capacità di impegno per la vita e per l'altro.

 

Prostituzione e pornografia

 

Sono due aspetti che hanno in comune la commercializzazione e l'uso consumistico del sesso, colto soltanto nella sua genitalità, nonché la sua banalizzazione.

 

Essi vanno colti come semplici disvalori che umiliano, banalizzano e offendono gravemente la sacralità dell'essere umano. Non hanno altro scopo che quello di far soldi a buon mercato facendo leva sulla genitalità, profanando l'uomo immagine di Dio.

 

Sessualità ed handicap

 

L'handicappato è una persona e in quanto tale è portatrice di valori primari propri di ogni persona, in qualunque modo essa si ponga su di un piano storico. Ad essi, proprio perché limitati fisicamente e/o psichicamente va posta una maggiore attenzione e cura, le cui finalità sono quelli di a) renderli sempre più soggetti attivi del proprio vivere; b) per mezzo di un processo di riabilitazione e/o di sostentamento; c) che li promuova nella loro dignità offesa dalla sorte.

 

La questione morale in questi soggetti interagisce strettamente con il loro stato di handicap ed è limitata dal grado di libertà loro concesso dal loro stesso handicap. Là dove possibile vanno sempre affermati nella loro piena dignità di persone, con tutto ciò che ne consegue.

 

La gravità oggettiva in materia sessuale e la responsabilità soggettiva

 

Una recente posizione di teologia morale sostiene la necessità di rivedere il concetto di peccato e in particolare di quello che tradizionalmente viene definito come peccato mortale alla luce dell'opzione fondamentale.

 

Secondo tale visione teologica il peccato mortale, che per sua natura separa l'uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto diretto e formale all'appello di Dio, cioè nelle scelte che impegnano totalmente la persona. In tale prospettiva i peccati sessuali, che sono sempre stati considerati mortali perché in tema di sessualità non si dà "parvitas materiae", non rientrerebbero più nella nozione di peccato mortale, poiché sono atti particolari che non vanno ad intaccare l'opzione fondamentale. Essi, al più, la possono indebolire, ma non modificarla.

 

Il pensiero tradizionale della Chiesa, contrariamente, ritiene che anche colpe particolari in materia grave possono modificare radicalmente l'opzione fondamentale poiché, secondo la

Chiesa, in tali atti gravi c'è sempre incluso un rifiuto di Dio.

 

La rigorosità con cui la Chiesa tratta la questione sessuale nell'ambito della moralità, ponendola sempre sotto pena di colpa grave, deriva dal fatto che la sessualità va a toccare gli elementi costituzionali dell'uomo e della vita. Per questo nelle colpe che implicano la sessualità non si dà mai parvitas materiae. La gravità, quindi, non dipende dalla sessualità in sé, ma dalla persona che l'etica vuole difendere ad ogni costo e giustamente.

 

 

 

 

L'ETICA CONIUGALE ALLA LUCE DI UNA RINNOVATA

TEOLOGIA DEL MATRIMONIO

 

 

 

 

Premessa

 

Il matrimonio potrebbe essere concepito come il luogo umano e divino insieme dove la sessualità viene vissuta in tutta la sua verità: come atto di amore che sfocia naturalmente nella vita e in cui la coppia si fa sacramento dell'amore di Dio, da cui ogni vita sgorga e in cui trova il suo senso.

 

In tal senso, l'atto sessuale, che violasse il principio della reciproca donazione che si apre alla vita, diventa una menzogna.

 

In tale ottica il matrimonio non può essere concepito come una semplice istituzione giuridica, soggetta ai mutamenti storici e culturali.

 

L'etica coniugale alla luce di una rinnovata teologia del matrimonio

 

L'etica, per sua natura e fine, è chiamata ad esprime un giudizio di valore sull'agire umano in tutte le sue espressioni. Ciò comporta una profonda conoscenza e comprensione di questo. Non fa eccezione, quindi, neppure il matrimonio, che nasce "dall'irrevocabile consenso personale" (GS 48).

 

Con l'avvento del Concilio Vaticano II, la comprensione del matrimonio ha avuto un notevole approfondimento e un radicale mutamento di prospettiva rispetto al passato.

 

Ci torna utile, in tal senso, confrontare i due canoni (can.1112-1113) del vecchio ordinamento canonico del 1917 con quelli (can.1055-1056) del nuovo ordinamento del 1983, che ha recepito in toto il § 48 della GS.

 

Il matrimonio secondo il vecchio ordinamento era concepito come un "contractus matrimonialis" (can.1112)  le cui finalità erano, in ordine di elenco ed è da supporre anche in ordine d'importanza a) la procreazione; b) la mutua assistenza; c) e il "remedium concupiscentiae. (can.1113)

 

Da questa breve citazione appare immediatamente come il matrimonio era concepito essenzialmente come un "contractus", in cui l'elemento giuridico prevaleva nettamente su quello teologico, totalmente omesso.

 

Quanto alle finalità, oggetto del contratto stesso, erano puramente strumentali: mettere al mondo dei figli, quale obiettivo primario di questo accordo tra le parti; in seconda battuta i coniugi dovevano prestarsi un reciproco aiuto nel corso della loro vita e, infine, trovare nel matrimonio un "lecito sfogo" ai propri impulsi sessuali.

 

Una visione alquanto deprimente che, a mio avviso, umiliava i contraenti stessi, vincolati all'obbligo di fare figli, darsi aiuto e soddisfare le reciproche esigenze sessuali. Un orizzonte, che al di là degli aspetti giuridici (il matrimonio era concepito come contractus), trova molti tratti in comune con l'accoppiamento degli animali.

 

Il matrimonio secondo il nuovo ordinamento è "il patto matrimoniale con l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e all'educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento" (can. 1055, §1).

 

Il termine "contractus" qui è stato sostituito con "foedus", che indica un radicale cambiamento di orizzonte: dall'aspetto meramente giuridico del "contractus", si passa a quello teologico di "foedus", che richiama il Patto di Alleanza tra Dio e gli uomini, la cui finalità era di recuperare l'uomo alla dimensione divina e attorno al quale si è sviluppata l'intera storia di salvezza, una continua storia di sempre nuove e rinnovate alleanze, definitivamente sancite in Cristo.

 

Ciò significa che il matrimonio, la cui natura giuridica non è disconosciuta dal nuovo CIC, che al § 2 dello stesso canone, è definito comunque un "contractus", assume una valenza sacra che inserisce i coniugi contraenti nell'ambito della storia della salvezza dando, quindi, valore soteriologico e sacro alla loro vita di comunione. Infatti, "I coniugi cristiani sono corroborati e quasi consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato" (GS § 48).

 

Quanto all'oggetto e alle finalità stesse di questo sacro contratto sono definite in tre momenti tra loro strettamente e inscindibilmente legati e conseguenti: "... stabiliscono tra loro una comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole".

 

"Comunità di tutta la vita": assume, da un lato, il significato di una comunione piena e totale delle due vite, così da fare delle due storie un'unica storia e delle due carni un'unica carne; dall'altro, dice che tale comunità dura tutta la vita. Viene qui attuato il comandamento divino della fondazione del matrimonio: "Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e saranno una carne sola" (Gen.2,24).

 

Di tale "comunità di tutta la vita", poi, si dice che "per sua natura è ordinata ...". Ciò significa che l'ordinamento di quanto segue è insito nella natura stessa di tale comunità, rimandandoci, quindi, all'aspetto ontologico stesso di tale comunità.

 

"... al bene dei coniugi e alla procreazione e educazioni della prole". Siamo qui nel cuore di questo "foedus" che vede, in primis, il bene dei coniugi. Il termine "bene" così genericamente citato indica un "bene" che va colto sotto ogni dimensione: materiale, corporale, psicologica, morale e spirituale. Si tratta in buona sostanza di un "foedus", cioè di un'alleanza umana, che rispecchia in sé quella divina, che punta all'affermazione piena di entrambi i coniugi, inserita in un orizzonte soteriologico.

 

Ed è proprio da questo "bene", che trova la sua attuazione dinamica nell'amore, che defluisce, naturalmente e per logica conseguenza, "la procreazione della prole", colta qui come frutto di un amore, la cui origine è nei coniugi stessi.

 

Tale amore, che inserito in questo "foedus" è sacramento dell'Amore stesso di Dio, diventa talmente trabocchevole di vita che essa viene riversata all'esterno e si concretizza nella prole stessa, la cui educazione diventa una sorta di prolungamento e perfezionamento di quell'atto iniziale di amore, che è sacramento di quello divino.

 

E proprio perché questo "foedus" si richiama e si fonda, diventandone una sorta di specificazione, su quell'altra alleanza eterna tra Dio e gli uomini, che ha trovato la sua definitiva formulazione in Cristo, è per sua natura "unico, indissolubile e stabile" (can. 1056).

 

La missione della famiglia e impegno etico

 

Letto all'interno di questa cornice, ora il matrimonio si carica di una valenza tutta sua e in tale ambito nasce l'etica stessa del matrimonio.

In quest'orizzonte, l'impegno dei coniugi altro non è che lo sviluppo dinamico ed esistenziale della loro missione nella storia, dalla quale scaturisce la loro stessa identità.

 

Il loro amore, inserito nell'ambito dell'alleanza, di cui il matrimonio è una sua specificazione storica, diventa un riflesso vivo e una reale partecipazione dell'amore stesso di Dio per l'umanità e dell'amore di Cristo per la sua Chiesa.

 

L'amore coniugale

 

L'amore coniugale, pertanto, che si esprime attraverso il linguaggio del corpo, diventa sacramento, cioè segno concretamente visibile e storicamente raggiungibile, dell'amore stesso di Dio per l'umanità e attraverso il quale Dio attua il suo progetto di salvezza.

 

 In tale prospettiva i coniugi diventano i partner stessi di Dio, ai quali Dio ha affidato il giardino dell'umanità perché lo coltivino e lo custodiscano nel sacrario della loro comunità di amore, dalla quale e nella quale sgorga la vita.

 

Le fondamentali caratteristiche dell'amore coniugale

 

Torna facile, ora, definire i tratti saliente dell'amore coniugale. Esso, per sua natura è:

 

·         un amore pienamente umano nel senso che investe interamente la sensibilità e la spiritualità, che fungono da supporto e favoriscono la comunione dei coniugi in vista della vita stessa. Una comunione che si esprime, fisicamente, nell'unione dei corpi e si fonda primariamente nel "volersi bene", cioè volere il bene dell'altro che dice affermazione piena del partner.

 

·         un amore totale che si esprime in una totale e reciproca donazione di se stessi, sotto ogni profilo, fisico, psicologico e spirituale, senza riserve, favorendo la comunione e la formazione di un'unica storia: quella della coppia.

 

·         un amore fedele ed esclusivo che nell'ambito del "foedus matrimoniale", specificazione storica della definitiva alleanza tra Dio e gli uomini in Cristo, assume i tratti dell'impegno nella parola data, che si esplicita nell'esclusiva fedeltà al partner, dando stabilità duratura al rapporto, anche in mezzo alle difficoltà della vita.

 

·         un amore fecondo, che fa partecipi gli sposi della potenza creatrice di Dio e della sua paternità, principio fecondo da cui defluisce ogni vita.

 

 

 

 

LA FEDELTA'  CONIUGALE

 

 

 

 

L'unità e indissolubilità della comunione coniugale

 

Il can. 1056 recita testualmente: "Le proprietà essenziali del matrimonio sono l'unità e l'indissolubilità, che nel matrimonio cristiano conseguono una peculiare stabilità in ragione del sacramento."

 

"Unità e indissolubilità" sono definite come "proprietà essenziali" del matrimonio. In altri termini "l'unità e l'indissolubilità" ineriscono alla natura stessa del matrimonio e costituiscono la "conditio sine qua non".

 

Due peculiarità che sono specificazioni della fedeltà stessa e in essa sono implicitamente incluse. Esse sono finalizzate a dare stabilità al matrimonio  e a salvaguardare la dignità dei coniugi.

 

Questi tratti propri ed essenziali del matrimonio esprimono, al di là degli aspetti giuridici, un valore morale su cui si fonda il cammino della coppia.

 

Esse trovano la loro negazione nell'adulterio, che è, per ciò stesso, negazione del matrimonio e ne esprime il tradimento.

 

Il servizio alla vita

 

L'amore coniugale, visto come esplicitazione storica dell'amore stesso di Dio, è chiamato ad essere, per la sua stessa natura, fonte di vita. Non a caso, infatti, Dio, dopo aver creato l'uomo maschio e femmina, ha imposto su di lui il sigillo divino della benedizione, segno della fecondità stessa di Dio, rendendo l'uomo non solo capace di donare la vita, ma di diventare  lui stesso, come Dio, fonte della vita.

 

In tale prospettiva, la famiglia diventa partner di Dio ed è posta al servizio della vita. Il dare la vita costituisce uno dei compiti fondamentali della famiglia e fa parte della sua missione.

Ma la sua attuazione è divenuta, oggi, per motivi economici e culturali, particolarmente difficile, anche per quella cultura dell'effimero che caratterizza la nostra società del benessere, consumistico e materialistico, che spinge l'uomo a ripiegarsi su se stesso  alla ricerca di un egoistico edonismo, rendendolo spiritualmente e psicologicamente sterile e la cui sterilità è testimoniata anche sul piano della vita.

 

La procreazione responsabile

 

Il concetto di "procreazione responsabile" va considerato alla luce di quattro aspetti fondamentali:

 

·         conoscenza e rispetto dei processi biologici;

·         tendenze dell'istinto e delle passioni;

·         condizioni della vita della coppia;

·         ordine morale oggettivo stabilito da Dio.

 

 Conoscenza e rispetto delle funzioni dei processi biologici

 

Essere responsabili significa avere le giuste conoscenze per assumersi la responsabilità e muoversi nel suo ambito, soprattutto quando questa ha a che fare con l'origine della vita stessa.

 

Innanzitutto va detto che le leggi biologiche, come il corpo, fanno parte della persona e che questa non può essere manipolata con opportune tecniche, la cui finalità è di controllarla e modificarla a proprio piacimento, violandone l'intima sacralità, che è la dignità stessa della persona.

 

Se esistono delle leggi biologiche queste non vanno violate, perché ogni violazione porta con sé squilibri che minano radicalmente l'armonia della persona stessa e ne incrinano l'integralità.

 

Tendenze dell'istinto e delle passioni

 

Ogni responsabilità comporta intrinsecamente l'uso della ragione e il controllo di sé stessi per poter gestire adeguatamente quanto è assegnato alla nostra responsabilità. A maggior ragione l'attività procreativa, per essere responsabile, deve essere sotto il controllo dell'intelligenza che illumina e della volontà che determina. Per cui istinti, affetti, emozioni devono essere coordinati con l'agire della persona, che è sempre un agire finalizzato. La mancanza di coordinamento, significa assoggettarsi alle passioni, perdendo l'esercizio della propria libertà.

 

Condizioni della vita della coppia

 

Chi è responsabile, infine, deve tener conto delle molteplici situazioni in cui si pone il suo gesto e delle sue conseguenze.

 

Ne consegue che anche il dare la vita va sottoposto ad attenta analisi perché questa vita non ne venga poi a soffrire. Essa non va mai data per sbaglio, né evitata per puro calcolo egoistico. Va, invece, sempre pensata nell'ambito di un contesto storico, economico e sociale proprio e non va mai staccata dall'educazione, che diventa una sorta di prolungamento dell'atto generativo: è il conservare e coltivare ciò che si è seminato.

 

Ordine morale oggettivo stabilito da Dio

 

La paternità responsabile è in stretto legame con l'ordine morale, che è inscritto nell'ordine stesso delle cose e della natura. Esso va letto e interpretato correttamente: adeguarvisi è saggezza ed è conformarsi al progetto salvifico di Dio, che in questo stesso ordine ha predisposto il compimento del suo disegno, finalizzato a condurre tutte le cose alla loro piena realizzazione, che trova in Lui la sua attuazione.

 

La rilevanza etica della regolazione delle nascite

 

La questione si risolve in due momenti fondamentali: quello deliberativo, che lascia ai coniugi la libertà di procreare o meno; e quello esecutivo, che riguarda il metodo da adottare nel caso in cui la scelta sia caduta sul non procreare.

 

Quanto al "momento deliberativo" va detto che la scelta non deve mai essere supportata da motivazioni egoistiche. Infatti, comunque cada la scelta deve essere tenuta presente sempre la finalità della propria missione, che è quella non soltanto del dare la vita, ma anche di conservarla e di educarla, considerandola un bene in se stessa e volendola solo per se stessa.

Un bene che mai deve essere escluso dal proprio progetto di coppia, perché ne è il naturale compimento. Soltanto il dilazionamento, purché non egoisticamente supportato, può essere accolto. L'escludere la vita dal progetto matrimonio significa decretare il fallimento di senso del matrimonio stesso, rendendolo sterile.

 

Quanto al "momento esecutivo", qualora la scelta sia caduta sul non procreare la questione si sposta sul metodo o, se si vuole, sul come evitare la gravidanza.

 

L'astensione sessuale potrebbe essere la soluzione più naturale e più ovvia, ma essa porta in sé dei rischi tali che potrebbero minare la stessa vita di coppia, pregiudicando gravemente il matrimonio. Come, dunque, comporre le esigenze dei coniugi: quella dell'amore con quella di evitare la gravidanza?

 

La questione va risolta riconducendo l'attenzione sulla natura dell'atto sessuale. In esso si ritrova un duplice significato: unitivo e procreativo insieme, tra loro inscindibilmente connessi. Questo significa che prendendo l'uno non si può lasciare l'altro, pena snaturare l'atto sessuale stesso, privandolo della sua verità. La contraccezione tende proprio a questa separazione artificiale.

 

La soluzione, eticamente accettabile, va trovata nel rispetto della natura e di entrambe le finalità dell'atto stesso, seguendo l'evoluzione e i ritmi biologici inclusi nella natura stessa, che suggeriscono i periodi fecondi e infecondi, che aprono o chiudono naturalmente le porte alla fecondità.

 

E' evidente che la questione comporta, per i periodi fecondi, l'astensione dal rapporto sessuale.

 

E' certo che in un'epoca pansessualista quale la nostra, la cosa non è di facile attuazione e richiede due momenti coincidenti: a) il coinvolgimento di entrambi i coniugi, mancando il quale, il discorso viene a cadere; nel quale caso, a mio avviso, va rispettata la volontà del coniuge non consenziente al fine di evitare conseguenze gravi nel menage familiare. L'intesa sessuale è fondamentale per la sua equilibrata conduzione. b) il controllo sessuale, che testimonia come la nostra sessualità non sia soltanto impulsi da scaricare e a cui l'uomo soggiace fatalmente, ma forza di dialogo che va imbrigliata, perché il dialogo sessuale sia proficuo, cioè veramente unitivo, e non soltanto un "remedium concupiscentiae".

 

La questione dei metodi naturali, se di principio sono accettabili e condivisibili, trovano nella loro pratica e contingente attuazione seri problemi di applicabilità. E' mia convinzione che i principi, che per loro natura trascendono la contingenza della cronaca quotidiana e non la considerano, aiutino a comprendere, guidino e suggeriscano; ma non si può pretendere che questi siano rigorosamente calati nel concreto vivere, poiché quest'ultimo possiede logiche, intenti e finalità che sono totalmente sconosciute ai principi. L'uomo è un essere incarnato nella contingenza del quotidiano, i principi la trascendono e non la considerano. Qualora si vogliano calare, sic et simpliciter, nella realtà, ne costituiscono allora una camicia di forza e inevitabilmente entrano in conflitto con questa.

 

Se del resto la questione del metodo naturale, dopo quarant'anni e più, non è stato ancora inserito in un sistematico programma pastorale, significa che non è una reale risposta alle esigenze naturali e profonde del vivere umano.

 

La questione, più che imposta, va ripensata nel rispetto della stessa natura umana e delle esigenze del vero amore.

 

 

  

I COMPITI DELLA FAMIGLIA:

EDIFICAZIONE DELLA CHIESA E SVILUPPO DELLA SOCIETA'

 

 

 

 

La famiglia come soggetto sociale

 

La famiglia, in quanto coppia destinata ad accogliere la vita, si presenta come soggetto sociale di fondamentale importanza. Essa, infatti, si costituisce come il pilastro fondante  e cellula vitale della stessa società, a cui fornisce i suoi membri e si impegna a educarli per un loro valido impegno speso a beneficio dell'intera comunità umana.

 

E' nella famiglia, infatti, che si costituiscono i primi schemi della vita sociale che fondano il successivo agire e sentire sociale e relazionale delle persone. Essa è luogo di umanizzazione e personalizzazione della stessa società, in cui si inculca il senso del bene comune e del rispetto della vita.

 

Il fallimento della famiglia pregiudica il futuro di ogni società.

 

Essa, pertanto, va pensata e creduta come un bene sociale di vitale e fondamentale importanza e, come tale, va socialmente tutelato ad ogni livello, sia esso economico, fiscale, psicologico, morale e spirituale.

 

I compiti della famiglia, quindi, non si esauriscono al'interno delle mura domestiche, ma si prolungano in due direzioni: ecclesiale e sociale.

 

La famiglia come soggetto ecclesiale

 

La famiglia, quale nucleo di amore che accoglie in sé la vita e la dona, si pone come momento fondamentale per la stessa costituzione del Regno di Dio. Essa, rivestita, come in ogni battezzato, del triplice ufficio sacerdotale, regale e profetico di Cristo, si pone all'interno della Chiesa quale servizio alla vita e al piano di salvezza di Dio, inscritto primariamente nella natura di ogni uomo e nel senso e nella finalità della famiglia stessa, che nella sua dinamica di amore rispecchia la stessa vita trinitaria.

 

Essa è insignita di una propria  sacerdotalità, la cui finalità è di consacrazione e di offerta di se stessa e dei suoi membri a Dio, predisponendoli al progetto di salvezza di cui è portatrice. Paolo ce lo ricorda nella sua lettera ai Romani: "Vi esorto, dunque, fratelli per la misericordia di Dio ad offrire i vostri corpi quale sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale" (Rm 12,1).

 

Consacrata a Dio nell'amore, essa è chiamata ad esserne profeta. L'amore che la famiglia porta in sé è un amore consacrato, sacramento e segno di quello divino, che è chiamata a rendere visibile in se stessa e in mezzo agli uomini, così da diventarne appello e coscienza, per chi, perso nel materialismo delle cose, ha perso ogni sensibilità all'amore autentico.

 

In tal modo essa mostra tutta la sua regalità, cioè si pone al servizio dell'amore redentivo di Cristo e al progetto di salvezza del Padre: quello di recuperare l'uomo alla dimensione divina.

 

 

Itinerario morale e vita spirituale

 

Il vivere il matrimonio e la famiglia in termini cristiani comporta un notevole spessore spirituale, sconosciuto ai nostri giorni.

 

Per questo il matrimonio cristiano si presenta come una sorta di consacrazione dei coniugi ai quali infonde, oltre che la benedizione divina, segno di fecondità e di vita che si radica in Dio stesso, una forza speciale che li aiuta a vedere i compiti propri e li sostiene nel compierli.

 

Il loro vivere il matrimonio e la famiglia, pur radicandosi nella comune naturalità propria di tutti gli uomini,  tuttavia non si ferma ad essa, ma la trascende, poiché in essi è sacramentata la vita stessa di Dio.

 

I coniugi non sono dei semplici uomini che vivono umanamente la loro vita, ma persone doppiamente consacrate, in quanto battezzate e in quanto sposate, il cui vivere è consacrante e predispone a Dio la realtà vissuta.

 

La loro vita matrimoniale e familiare diventa ad essere, pertanto, una specificazione concreta di quella chiamata alla santità ricevuta nel battesimo.

 

Nel battesimo i coniugi cristiani sono stati inseriti in Cristo e di lui rivestiti come di un abito nuovo; potremmo dire che sono stati cristificati al punto tale da dire con Paolo: "... non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me" (Gal 2,20).

 

Inseriti in questa realtà, essi sono chiamati ad esserne profeti, cioè testimoni e voce in mezzo ad un mondo che, soffocato dal materialismo, è divenuto insensibile ai valori dello Spirito. Essi sono chiamati a testimoniare che è possibile amare e dicono nel loro amore l'amore stesso del Padre, fonte di ogni vita e di ogni bene.

 

Il matrimonio e la famiglia diventono in tal modo un Vangelo di Vita, un lieto annuncio che è ancora possibile amare e che proprio perché questo è amore autentico, ne sgorga la vita.

 

 

 

ETICA DELL'AMORE VERGINALE

 

 

 

 

Lo stato di vita della verginità

 

L'uomo per sua natura è chiamato all'amore, che si qualifica come comunione da cui sgorga la vita. Una condizione esistenziale questa che l'uomo non può rinnegare in sé, pena il fallimento del proprio esserci.

 

Ma quali le vie per realizzare questa naturale vocazione all'amore e alla comunione?

 

C'è un modo naturale, inscritto nella nostra struttura biologica e che la Genesi ci ricorda nei suoi primi capitoli; e un modo diverso che dà una nuova comprensione e un nuovo senso alla propria natura biologica: lo stato di vita verginale.

 

Questo, ben lungi dal disprezzare  e rinnegare la corporeità, apre ad una nuova prospettiva: la corporeità non è tutto, ma posta sotto il segno della morte, dice tutta la precarietà del vivere in questa dimensione. Ed è proprio la morte, che relativizza la dimensione storia, a spingere l'uomo, assetato di eternità, verso orizzonti in cui trovare la sua piena realizzazione e la definita risposta a tutte le sue esigenze.

 

La verginità ricorda, pertanto, i destini dell'uomo, aprendolo alla verità di cieli nuovi e terra nuova, la cui origine si radica nel Cristo risorto, primizia, cioè fonte, di ogni altra risurrezione, di ogni altra rigenerazione.

 

Essa è un segno escatologico che se da un lato proietta, fin d'ora, l'uomo nell'eternità, dall'altro, dice tutta la relatività del suo presente.

 

La rivelazione del carisma della verginità

 

Alla luce del Cristo risorto, la verginità dice come la nuova dimensione inaugurata dalla risurrezione può,  in qualche modo, essere già anticipata, come segno, in questa vita terrena.

 

Ai discepoli che si lamentano di fronte alla definitività del matrimonio e contrappongono lo stato di verginità come soluzione ad un matrimonio percepito in termini negativi, Gesù risponde evidenziando come "Non tutti possono capirlo, ma solo a coloro ai quali è stato concesso", infatti "... vi sono di quelli che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli" (Mt 19,11-12).

 

Nella sua risposta Gesù evidenzia due aspetti di questo nuovo stato di vita che si prospetta alternativo al matrimonio: a) E' una nuova condizione esistenziale che non tutti possono capire, ma il capirlo è soltanto un dono di Dio ("ai quali è stato concesso" siamo di fronte ad un passivo teologico); b) presuppone una scelta radicale da parte di chi ha capito ("si sono fatti eunuchi").

 

E' in buona sostanza l'atteggiamento di chi, scoperto il tesoro nel campo, va e vende tutto quello che ha per acquistare il campo. Di fronte alla comprensione della nuova situazione in cui l'uomo, segnato dalla risurrezione di Cristo e illuminato dal suo Spirito, si viene a trovare, tutto viene relativizzato e perde di valore. Di fronte alla ricchezza del Cristo risorto, Paolo esclamerà: "Omnia stercora reputo” (Fil 3,8). La verginità, dunque, orienta l'uomo verso il suo stato finale.

 

Il valore e il significato della Verginità

 

Lo stato di verginità dice lo stato definitivo e ultimo della vita dell'uomo, inaugurato dalla risurrezione di Cristo, che apre ad una svolta decisiva nella storia della salvezza.

 

Infatti, mentre inizialmente era il matrimonio, che significava l'alleanza di Dio con gli uomini e venendo collocato in tale ambito ne diventava una sua specificazione, ora a ricoprire tale ruolo è la verginità, colta non come contrapposizione al matrimonio, ma vista come stato definitivo e ultimo dell'uomo.

 

Certo non è una condizione facile e immediata, poiché non solo richiede una personale comprensione, che si radica nel dono di Dio, e una scelta esistenziale, ma domanda anche una rinuncia: per acquistare il campo, infatti, è necessario, prima, vendere tutto quello che si ha. Ma è una perdita in vista di un guadagno maggiore. Per questo non tutti lo capiscono.

 

Il farsi eunuchi per il regno dei cieli non significa rinunciare all'amore, ma viverlo in un modo diverso, nel modo dell'uomo definitivamente redento e salvato. E in questa prospettiva, questo amore, redento e salvato, non può non essere fecondo, come ogni vero amore. E lo è nel modo suo proprio che si è scelto: quello dello spirito.

 

E' un amore che, proprio perché slegato dal limite della corporeità che tutto relativizza, si apre all'universalità propria del mondo divino, in cui trova il suo alimento e in cui è radicato.

 

Verginità e Matrimonio, ben lungi dal negarsi l'uno l'altro, definiscono la doppia faccia dell'identico amore, che proprio perché autentico, è a modo suo proprio, fecondo. Una fecondità che si esprime, nella prima, attraverso il servizio a Dio negli altri; nel secondo come servizio alla vita, cioè a Dio, che di ogni vita è l'autore, divenendone suo partner.

 

La Verginità ricorda ai coniugi lo stato di vita in cui l'uomo non prenderà moglie e lo invita a non assolutizzare la sessualità, destinata a scomparire, poiché il suo destino è altrove.

 

Il Matrimonio, segno dell'amore comunionale tra Dio  e l'uomo, ricorda al vergine il suo stato sponsale escatologico, proprio della nuova dimensione che, in qualche modo, lui ha già anticipato nel suo modo di vivere.

 

Alcune considerazioni di carattere etico

 

Lo stato di verginità, che si esplica nella totale consacrazione a Dio che, a sua volta, si  sacramentalizza nel servizio agli uomini, testimonia il modo con cui Dio ha voluto inserirsi nella storia. Inaugura un nuovo umanesimo, fondato sui valori del regno, e che rinunciando alla sessualità, ne denuncia tutto il limite e la sua caducità.

 

La verginità, ben lungi di essere disistima del matrimonio e rifiuto della sessualità, al contrario, dice tutta la potenza della sessualità radicata in Dio che, in tal modo, si fa totale dono agli uomini.

 

Così vissuta, la verginità deve alimentarsi di una forte ascesi, poiché l'amore con cui è chiamata ad amare non ha dimensioni umane, ma divine.

 

 

 

 

  

 

PARTE  SECONDA

 

 

 

 

 

 

 QUESTIONI INTRODUTTIVE

 

 

 

 

Premessa

 

La vita è un bene primario della persona e la sua salvaguardia nonché la sua affermazione devono costituire il leit-motiv dell'intera morale.

 

Oggi la tecnologia e la scienza ha posto nelle mani dell'uomo una notevole potenzialità di intervento sulla vita e i suoi processi e il futuro, sempre più inquietante, è alquanto promettente di sviluppi che sfiorano la fantascienza.

 

E' importante, pertanto, all'interno di questo processo,che si evolve in modo esponenziale, trovare una solida base di riferimento che aiuti a riflettere e tracci una strada affinché la vita non diventi un semplice oggetto di studio e di sfruttamento commerciale. Pena la disumanizzazione della vita stessa e l'inizio di un processo di schiavizzazione, che investirà l'intera umanità ad ogni livello.

 

Giù le mani dalla vita, dunque, perché l'uomo non ne è il padrone e qualora lo credesse, decreterebbe la sua fine. La ragione del suo essere l'uomo non la trova dentro di sé, ma in quanto creatura, si deve relazionare al suo esterno.

 

La riflessione cristiana, forte della rivelazione e in costante dialogo con la scienza, è in grado di illuminare il cammino dell'uomo e di formarne la coscienza, da cui l'uomo non può prescindere, pena il proprio fallimento.

 

La vita umana: realtà, significato e mistero

 

La bioetica parte da un interrogativo: che cos'è la vita?

 

La riflessione cristiana concepisce la vita come un dono divino, affidato all'uomo, perché la faccia fruttificare e la porti a compimento secondo un progetto di salvezza, che l'uomo è chiamato a scoprire all'interno della propria vita. Si tratta, dunque, di una realtà sacra, animata da una vocazione al divino.

 

La visione laica, priva di una propria metafisica, pone la vita in relazione a se stessa e più precisamente alla sua qualità. Questo significa che il valore della vita è riposto nella qualità stessa della vita, così che essa viene relativizzata.

 

Nella prima visione (cristiana) la vita è considerata intrinsecamente un valore, per cui essa va accolta dal suo concepimento fino alla sua naturale estinzione e fino a quel momento, indipendentemente dal suo porsi nella storia, è e rimane un valore assoluto perché sacro.

 

Nella seconda (laica) la vita viene totalmente relativizzata alla posssibilità di essere vissuta dignitosamente, diversamente può essere soppressa. Una vita così concepita è espropriata di ogni valore e oggettualizzata.

 

Si tratta, dunque, di definire un'antropologia, nella cui cornice leggere e comprendere la vita e il senso del vivere, nonché definire l'uomo come soggetto e persona.

 

La fondazione antropologica per un'etica della vita fisica

 

Viviamo in un'epoca che mai, come oggi, ha perso il senso dell'uomo e del vivere, inaugurando una cultura di morte, in cui l'uomo rischia di dissolversi definitivamente e in cui viene relativizzato ai vari sistemi e alle convenienze del momento.

 

Si rende, quindi necessaria l'elaborazione di un'antropologia che punti, al contrario di quanto oggi avviene, all'affermazione e all'inviolabilità dell'uomo, colto come soggetto e persona, fin dal suo concepimento e che ritrovi il valore dell'uomo e del suo vivere soltanto nel suo esserci. A questo principio di fondo vanno informate le filosofie e le scienze antropologiche, diversamente l'uomo e il suo vivere diventano una realtà relativa o relativizzabile, comunque, di opinabile importanza e, pertanto, monopolizzabile. Ma questa visione decreterebbe la stessa fine dell'uomo.

 

Si tratta, quindi, di ricostruire il ponte che lega l'oggettività della scienza alla soggettività personale dell'uomo. Diversamente, il rischio concreto è la prevaricazione dell'una sull'altra.

 

Al fine di evitare tale prevaricazione è necessario sottrarre alla legge della tecnica e della scienza la definizione di uomo, affidandola, invece, ad una riflessione metafisica, l'unica in grado di comprendere l'uomo nella sua interezza e integralità, evitando, in tal modo, l'oggettificazione dell'uomo. Infatti, mentre la scienza e la tecnica, incapaci di emettere un giudizio di valore, sono meramente descrittive, la metafisica  e l'etica sono valutative e normative.

 

Da qui l'importanza di collocare la dimensione etica, con la sua capacità di valutazione e di normare, all'interno della scienza e della tecnica, che dicono soltanto l'opportunità e la fattibilità di un intervento, senza chiedersi se è moralmente lecito. Infatti, non tutto ciò che è tecnicamente fattibile è anche moralmente lecito, poiché ci sono dei valori indisponibili, universalmente validi e sottratti, pertanto, alla contingenza del momento. Sono valori che vedono l'uomo come un limite invalicabile sia per la scienza che per la tecnica.

 

L'unica etica in grado di soddisfare le esigenze dell'uomo di qualsiasi fede, ma anche non credente, salvaguardandolo da ogni sua possibile oggettualizzazione e/o manipolazione, è quella personalistica, cioè quella che parte dalla persona, colta come valore assoluto in sé e per sé e, pertanto, normante.

 

Da questa comune base personalista, si possono sviluppare due etiche: una religiosa, che fonda in Dio l'intangibilità della persona; una laica che, senza riferirsi a valori teologici, afferma l'eccellenza della vita umana, considerandola un valore assoluto che va tutelato e promosso in tutti i modi possibili.

 

In questo ambito, il compito della Chiesa, ma di ogni cristiano e di ogni uomo di buona volontà, rettamente illuminato, è quello di avvertire l'umanità della responsabilità del cammino intrapreso; il tacere equivarrebbe ad esserne complici. Non ha importanza se la testimonianza non è accolta o, peggio, osteggiata; l'importante è che ci sia.

 

I contenuti di questa testimonianza si possono identificare con tre primati:

 

·         Il primato del senso su quello del fare: la scienza e la tecnica, che sono il motore del progresso e della nostra società, prive della briglia etica e della sua illuminazione, rischiano di correre all'impazzata senza sapere dove stanno andando. Non è più lo scienziato che guida le sue scoperte e le sue conquiste, ma sono queste che lo trascinano verso un orizzonte del tutto sconosciuto, cadere nel quale può essere mortalmente fatale per l'intera umanità. L'uomo che perde il senso della propria creaturalità, decreta la sua fine. All'uomo è stato assegnato un compito dal suo Creatore: di coltivare e custodire.

 

·         Il primato del diritto su quello del desiderio: la scienza e la tecnica hanno messo nelle mani dell'uomo un notevole potere, in grado di soddisfare molti dei suoi desideri, un tempo considerati irraggiungibili. Ma la logica della fattibilità tecno-scientifica non significa, ipso facto, anche attuabilità sul piano pratico, trovando essa un limite morale, che guarda all'inviolabilità dell'uomo, con cui ha a che fare anche il desiderio. Anche se buono, il desiderio, in quanto storicamente contestuato, è soggetto a dei limiti. Non esistono desideri assolutamente buoni e tali da prescindere da qualsiasi norma etica. Esso, dunque, va ricondotto all'interno del diritto, che è, soprattutto quello del rispetto dei diritti naturali dell'uomo. Il desiderio deve trovare la sua compatibilità con i primari diritti naturali.

 

·         Il primato dell'essere su quello della volontà: la volontà di potere o di potenza rischia di far perdere all'uomo il senso del proprio limite, che si radica nel senso della creaturalità. A fronte di una volontà di potenza va opposto il primato dell'essere, che dice la verità della persona e riconduce l'uomo al suo interno. La verità, pertanto, non è stabilita dalla maggioranza, ma dall'essere. Una cosa non è vera e non ha valore oggettivo perché la maggioranza glielo ha assegnato, ma perché tale valore è intrinseco alla cosa stessa: è la verità del suo essere che ne costituisce anche il suo valore. Diversamente si rischia il grande inganno.

 

L'etica della vita fisica nel quinto comandamento: Non uccidere

 

Il quinto comandamento con il suo imperioso e generico "Non uccidere" dice tutta l'inviolabilità e la sacralità della vita umana che, in assoluto e comunque si presenti, non può essere tolta.

 

Il comandamento, seppur tratto da un decalogo che si colloca in un orizzonte religioso, tuttavia evidenzia e si ricollega direttamente con un diritto (alla vita ) e dovere (al suo rispetto) che è inscritto nella natura umana stessa e che fonda il diritto di ogni convivenza.

 

Con quel "Non uccidere" l'uomo è reso responsabile del proprio simile, che gli è affidato.

 

Dio, infatti, chiede conto a Caino di suo fratello, mentre la parabola del buon Samaritano affida all'albergatore la cura di quel disgraziato, incappato nei ladri. In altre parole, Dio ha affidato alla responsabilità di ciascuno di noi l'altro, costituendoci suo prossimo e di questo ci chiederà conto, poiché qualunque cosa avete fatto ad uno di questi, l'avete fatta a me (Mt 25,40). "Non uccidere" dice tutto questo. Esso acquista un valore assoluto non trattabile, perché assoluta e non trattabile è la dignità dell'uomo e del suo vivere.

 

Un comandamento questo che risuona quanto mai opportuno all'interno di una società, caratterizzata da una cultura di morte, che ha assottigliato e, in molti casi, tolto la sensibilità alla vita e il rispetto che le è dovuto. L'uomo, oggi, privato di ogni valore che lo rende sensibile all'essere, vive in uno stato di pragmatismo immanentistico che lo ha fatto ripiegare su se stesso in un narcisistico edonismo, che lo racchiude negli angusti spazi del materialismo, togliendogli ogni speranza.

 

La bioetica si propone, quindi, come ripensamento dell'uomo nell'ambito della tecnologia che ne sta invadendo e aggredendo la vita, minandone la struttura.

 

 

 

 

INGEGNERIA E MANIPOLAZIONE GENETICA

E LA DIAGNOSI PRENATALE

 

 

 

 

Ingegneria e manipolazione genetica

 

A fronte di un crescente potere che l'uomo ha acquisito e continuamente acquisisce sulla vita umana e sulle sue strutture, urge porre l'argine di una riflessione etica, il cui compito è quello di evitare che l'uomo venga travolto dalle sue stesse scoperte e ne rimanga vittima.

 

Personalmente ritengo che non si possano porre dei limiti al cammino della scienza e della tecnica, sarebbe illusorio il crederlo e ogni ostacolo verrebbe inesorabilmente abbattuto. Il grosso problema che oggi si pone è l'enorme divario che sussiste tra lo sviluppo tecnico-scientifico e la maturità morale e spirituale dell'umanità, che soffre, con l'avanzare della scienza, di un crescente rachitismo.

 

Un primo problema, che si pone nell'ambito delle scoperte scientifiche riguardanti la vita, è la "manipolazione genetica", che avviene, oggi, soprassedendo qualsiasi questione di carattere filosofico e morale circa la definizione di natura umana, persona, identità, soggettività, ecc.

 

Una definizione quella di "manipolazione genetica" che si presenta ambigua e che necessita di un immediato chiarimento, poiché, sotto questo titolo, si raccolgono interventi correttivi o terapeutici della natura umana e interventi (la grave questione morale si pone proprio qui) modificativi dell'assetto proprio della natura umana.

 

Lo statuto dell'embrione

 

La prima questione che si pone all'interno della "manipolazione genetica" è la definizione della natura dell' "embrione umano" ,da cui dipende la disponibilità o meno dell'embrione stesso alla sperimentazione scientifica.

 

Nel corso del dibattito sono emerse definizioni inaccettabili ad ogni livello, tra queste:

 

·         Il concetto di persona in potenza: i sostenitori di questa teoria ritengono che l'embrione o il feto debbano essere riconosciuti come "persone in potenza". L'errore di fondo di questa ipotesi è il confondere l'essere dell'embrione con il suo divenire. "In potenza" non è l'embrione, il suo sviluppo. Se l'embrione, infatti, a distanza di tempo assumerà le fattezze umane così da essere riconosciuto come persona con una sua individualità e identità, è soltanto perché esso lo è già. Il fatto che non appaia immediatamente tale, non significa che già non lo sia.

 

·         Il concetto di pre-embrione: questa posizione commette un doppio errore di valutazione: il primo è quello sopra richiamato; il secondo nasce dalla convinzione di poter manipolare con sperimentazioni l'embrione fino al 14° giorno dalla sua fecondazione "in vitro". Va detto che non è la cronologia che determina l'ontologia dell'embrione. Un modo di pensare, questo, del tutto comodo e pragmatista. Se da quell'embrione si svilupperà con fattezze proprie un individuo umano, ciò significa che anche l'embrione lo è e come tale va trattato. La forma non deve ingannare, essa è soggetta a mutamento continuo, ma non determina mai la sostanza che informa.

 

·         Riconoscimento giuridico solo all'embrione in utero o destinato all'impianto: una posizione che trae la sua origine da un modo pragmatico di pensare, ma che la fa sconfinare nel faceto. Non è, infatti, la finalità dell'utilizzo dell'embrione che lo rende persona oppure oggetto da poter manipolare e poi cestinare. La questione va spostata da un piano pragmatista a quello ontologico. In realtà, ciò che sottende questa teoria è la convinzione che l'embrione sia semplicemente del materiale umano, privo di qualsiasi identità e, pertanto, in quanto tale manipolabile a piacimento.

 

·         Il concetto di "materiale embrionale":  è la corrente di pensiero che anima tutte le posizioni ed è in essa nascosta. Qui ha, almeno il pregio dell'onestà: si presenta per quella che è, evitando sofismi e faticose contorsioni intellettuali. Tuttavia, nulla toglie alla sua inaccettabilità.

 

L'embrione umano va, invece, pensato come una persona umana ad ogni effetto, il cui sviluppo e la cui storia nascono con il suo concepimento ed è guidato da un piano codificato nel suo patrimonio genetico. Per questo la persona umana e la sua storia non nascono nel momento del parto, ma in quello del loro concepimento.

 

La cosa è maggiormente evidenziata dalla "biologia dello sviluppo", la quale dimostra come nell'evoluzione dell'embrione non si verificano salti qualitativi o interferenze modificatrici esterne, ma tutto procede per lenta e graduale evoluzione, in conformità ad un piano genetico presente fin dal momento del concepimento.

 

Ed è proprio dal concepimento che trae vita un soggetto umano, che inizia così il suo ciclo vitale, in modo del tutto autonomo e indipendentemente dalla volontà del padre e della madre, rispetto ai quali si configura terzo. Infatti dal momento che l'ovulo viene fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre, ma di un nuovo essere umano che si sviluppa autonomamente e che nel suo sviluppo, via via sempre più mostra tutta la sua umanità.

 

Da quanto fin qui esposto ne discende una triplice considerazione:

 

·         Impossibilità oggettiva di porre una categoria intermedia tra chi è persona e chi non lo è. O l'uomo è tale fin dal suo concepimento o non lo è affatto.

·         Non si può sofisticare barcamenandosi tra il concetto di persona e quello di uomo. Entrambi sono coincidenti e identici. Due facce dell'identica medaglia.

·         Nel dubbio sul come qualificare l'embrione, va necessariamente scelta la posizione garantista.

 

Criteri per una valutazione etica

 

In cima ad ogni possibile criterio valutativo si deve porre ed affermare l'inviolabilità della vita e di tutto ciò che con la vita abbia, direttamente o indirettamente, attinenza, ivi compreso il genoma umano.

 

Va posta, poi, una distinzione tra ricerca scientifica e la sua applicazione. Il grosso delle questioni si pone proprio su questo secondo aspetto. Essa si deve muovere nel rispetto di tre principi fondamentali: a) primato della persona e della sua vita; b) unità organica dell'ecosistema, per cui non si possono porre distinzioni tra il "prima" e il "dopo" e tantomeno creare cronologie di sviluppo, per cui prima non c'è e poi c'è; c) considerare la scala gerarchica degli esseri. Una pietra non può avere gli stessi diritti e le stesse regole di un animale o di un essere umano, e di conseguenza diversi devono essere i trattamenti e i modi di relazionarsi.

 

A livello di intervento, poi, va distinto quello terapeutico o curativo da quello alternativo. Il primo è sempre lecito perché punta a correggere delle anomalie prodotte dalla natura; il secondo mira soltanto a modificare la natura finalizzandola ad una selezione. Questo è inaccettabile, perché violano la dignità della persona, attentandone l'integrità e l'identità.

 

In tale ambito si posiziona anche la "diagnosi prenatale", la quale è lecita purché rispetti il nascituro, la dignità della madre e non sia finalizzata a selezioni o all'aborto.

 

 

LA PROCREAZIONE ARTIFICIALE E LA STERILIZZAZIONE

 

 

 

Criterio di base per una valutazione etica

 

Va innanzitutto precisato che per procreazione artificiale si deve intendere un atto tecnico che sostituisce l'atto umano nel generare la vita umana.

 

Tutta la questione morale si gioca sul significato del "generare umano".  Se il procreare umano viene equiparato a quello animale e l'uomo viene considerato soltanto una specie evoluta dello stato animale, togliendo in tal modo ogni valore al suo essere uomo e persona, allora non sussistono più questioni morali di specie.

 

Ma se l'uomo è colto in tutto il suo valore e in tutta la sua sacralità, allora si può, di conseguenza, comprendere la sacralità del suo atto sessuale, frutto ed espressione di un gesto di amore, che si radica ed è testimonianza e sacramentalizzazione di quell'altro Amore. Si comprende allora che proprio con tale gesto l'uomo esprime tutto il suo partenierato con Dio nella trasmissione della vita. Non va mai dimenticato che sulla capacità generativa dell'uomo Dio ha posto la sua benedizione, rendendola per ciò stesso non solo feconda, ma anche sacra.

 

Tutelare l'atto procreativo umano significa tutelare un insieme di valori che lo accompagnano, quali quello dell'amore coniugale, da cui sgorga l'unità e la fecondità della coppia; la famiglia, quale ambiente da cui scaturisce la vita, viene accolta, coltivata e protetta; la dignità stessa della coppia, che si afferma soltanto nell'ambito della dinamica dell'amore coniugale e familiare. L'atto coniugale, pertanto, non va colto soltanto come mero atto fisico di trasmissione della vita, ma raccoglie in sé molti altri significati ed è espressione di altrettanti valori.

 

La fecondazione artificiale altera tutto questo e ne è lesiva.

 

La fecondazione artificiale eterologa ed omologa

 

La fecondazione artificiale, che già di per sé viola la sacralità dell'atto sessuale, quale atto di amore, trova una sua complicazione a seconda che si ponga come eterologa od omologa .

 

Si ha fecondazione eterologa quando la fecondazione in vitro avviene con gameti provenienti da un terzo estraneo alla coppia matrimoniale. Un sistema questo che viola sia l'aspetto dell'unità del matrimonio che la dignità degli sposi nel loro peculiare, soggettivo e reciproco diritto alla maternità e paternità. In qualche modo è lo stesso matrimonio che viene violato nella sua sacralità e unicità, verificandosi una rottura in ciò che per sua natura è il segno evidente dell'unità che si fa comunione: il figlio.

 

Quanto alla fecondazione omologa, essa si presenta meno grave di quella eterologa, in quanto i gameti rimangono all'interno della coppia, salvaguardando almeno l'unità del matrimonio. Rimane, tuttavia, moralmente inaccettabile perché gli sposi rinunciano a quello che è il segno unitivo e generativo del loro amore: l'atto sessuale, con tutta la sua carica di significati e valori, rinnegando così, in qualche modo, il proprio matrimonio. Manca, infatti, il concedersi l'uno all'altra, che fa della coppia una comunione di vita. L'aspetto, quindi, unitivo e procreativo proprio dell'atto stesso viene a scindersi, snaturando il senso dell'atto stesso.

 

In entrambi i casi viene violata la dignità della persona stessa generata, in quanto essa non è più il frutto terminale unitivo e comunionale dell'amore materno e paterno, bensì frutto della scienza e della tecnica e dell'intervento di terzi. Viene, comunque, violata l'intangibilità dell'intima sacralità del matrimonio stesso.

 

Ed è a tal punto che si inserisce il dramma umano della sterilità, comprensibile se si pensa che è connaturato all'uomo e alla donna il desiderio di un figlio, visto quale prolungamento di sé (istinto della conservazione della specie) e quale coronamento del reciproco dono di amore. E' indubbio che tale profondo desiderio, in caso di sterilità, venga frustrato e la vita potrebbe essere sentita un po' più vuota.

 

A fronte di ciò non si può invocare il "diritto al figlio" innanzitutto perché il figlio non è qualcosa di dovuto, ma è la conseguenza naturale di un atto di amore e come dono va accolto e vissuto; in seconda istanza, perché il figlio non è un oggetto da acquistare ad ogni costo o da avere come oggetto di proprietà, sottratto dalla malasorte.

 

La sterilizzazione antiprocreativa

 

Se il principio su cui si basa la morale in genere e, in particolare, quella bioetica è la salvaguardia dell'integrità e della dignità  della persona, con la sterilizzazione si va proprio a violare questo principio basilare.

 

Infatti, la sterilizzazione  è un procedimento chirurgico che provoca definitivamente o anche solo temporaneamente la sterilità di una persona sessualmente fertile, a motivo del quale essa viene privata della sua capacità riproduttiva. L'atto sessuale stesso, in tale caso, viene snaturato perché finalizzato al solo godimento sessuale, privo di ogni fecondità.

 

La sterilizzazione, quale conseguenza di un atto terapeutico o indiretto, non presenta problemi morali, poiché la sua finalità non è quella di evitare la procreazione.

 

Ogni altro tipo di sterilizzazione, di qualsiasi tipo e natura, organica o semplicemente funzionale, definitiva o reversibile, coatta o volontaria che sia, quando è finalizzata all'antiprocreatività è moralmente inaccettabile, perché mira alla rottura dell'atto sessuale nella sua duplice funzione unitiva e procreativa, riducendolo soltanto ad una mera e spensierata ricerca del piacere. E questo va ad intaccare l'essenza stessa del matrimonio.

 

 

  

LA SALUTE E LA MALATTIA

IL PROBLEMA DEL DOLORE

 

 

 

L'istinto di conservazione, connaturato all'uomo fin dal suo concepimento, lo spinge a curare la propria integrità e il proprio equilibrio psico-fisico che, in termini correnti e comuni, viene definito con il termine salute, cioè uno stato di benessere generale che ti consente la piena ed efficiente disponibilità di te stesso.

 

La malattia, dunque, diventa ad essere la rottura di tale equilibrio, a seguito del quale viene ridotto, fino ad essere annullato, tale stato di disponibilità.

 

Essa, pertanto, va ad intaccare l'integrità psico-fisica dell'uomo riducendo le sue capacità fisiche, psicologiche, sociali e spirituali.

 

Letta in termini antropologici, la malattia dice tutta la fragilità del vivere umano ed è segno evidente di una morte incombente, che si cerca di allontanare temporaneamente con apposite cure.

 

E' il segno del peccato che è stato inscritto nella carne di ogni uomo e che pone l'uomo sotto il segno di una perenne precarietà esistenziale.

 

Ma la nuova visione dell'uomo redento cambia di significato e di valore il senso della malattia: essa, infatti, pur rimanendo sempre segno di una precarietà del vivere, viene vista come associazione dell'uomo alle sofferenze di Cristo e, per ciò stesso, redentiva. Viene, dunque, riscattata dalla maledizione a cui l'aveva posta il peccato.

 

Il tema della salute è divenuto nella nostra società talmente centrale e importante da trasformare la dovuta attenzione al proprio corpo in un culto al corpo stesso (cure di bellezza, chirurgia estetica, profumi, deodoranti, saune, fanghi, palestre, ecc.) per il quale si profondono centinaia e migliaia di miliardi di euro. Segno questo della vacuità del nostro vivere tutto teso all'apparire e all'effimero, creando vuoti esistenziali paurosi, che si riempiono con suicidi o con forti emozioni estreme, ivi compreso l'omicidio.

 

Ma al di là di queste deformazioni, segno di una decadenza morale del vivere e di una perdita di valori, la vita va considerata come un dono di Dio che ci viene affidato perché lo sappiamo gestire al meglio. E' il talento di base da cui dipende tutto il resto. L'uomo, pertanto, è moralmente impegnato a curare la propria salute e a lottare per la sua salvaguardia.

 

Ed è proprio su questo "lottare", finalizzato alla salvaguardia della salute, che si incentra l'attenzione della morale, che considera tre ordini di interventi terapeutici: a) ricorso a mezzi terapeutici normali e correnti; b) uso dei farmaci; c) mezzi terapeutici rischiosi.

 

Quanto ai mezzi terapeutici essi si distinguono in ordinari o straordinari o, meglio in proporzionati o sproporzionati. L'obbligo morale grava sui primi, in genere non sui secondi.

 

Quanto all'uso dei farmaci oggi, proprio per un malinteso ed esagerato senso della salute tale da diventare un ossessivo e fobico culto della stessa, se ne fa un abuso tale che si sta parlando di "consumismo sanitario" che grava, non poco, sulla spesa sanitaria a danno dell'intera comunità. Numerose le cause che lo hanno prodotto: la medicalizzazione della vita, la diminuita capacità di sopportazione del dolore, il mito della salute perfetta, il facile accesso ai farmaci e la paura del decadimento fisico.

 

Il problema morale qui, a mio avviso, si pone qualora tale abuso di farmaci, in particolare di psicofarmaci, incida negativamente sulle capacità espressive e relazionali della persona, pregiudicandone paradossalmente quella salute che, invece, che si vuole difendere e creando una sorta di dipendenza psico-fisica.

 

Si sta, poi, instaurando, l'abitudine, ereditata dall'America, di somministrare piccole dosi di psicofarmaci ai bambini "troppo vivaci" per "tranquillizzarli" e "renderli più docili". Un comportamento simile, proprio per l'incidenza negativa che può produrre sullo stato mentale e psico-fisico del bambino, che viene inibito della sua naturale vivacità ed espressività, privandolo dei normali rapporti parentali, per un semplice egoismo dei genitori stessi, che mal sopportano il loro figlio, oggettificandolo, diventano, a mio avviso, moralmente inaccettabili.

 

Il problema del dolore

 

Il dolore, da un punto di vista medico, diventa un sintomo che denuncia che qualcosa nel nostro equilibrio psico-fisico si è rotto e su questo, per mezzo del dolore, viene attirata la nostra attenzione e richiesto il nostro intervento terapeutico.

 

Da un punto di vista antropologico, il dolore e la sofferenza sono una realtà che accompagnano il vivere dell'uomo e, alla pari della malattia, denunciano tutta la fragilità del vivere. All'interno, poi, della nostra società del benessere, segnata da un consumismo sfrenato, spinto alla ricerca assoluta del piacere, il dolore appare insopportabile al punto tale da giustificare il suicidio.

 

Ma esso, in una prospettiva cristiana, viene valorizzato come partecipazione alla passione di Cristo e, pertanto, redentivo, e richiama l'attenzione dell'uomo sui veri valori della vita, aiutandolo, talvolta, a riorientare la propria esistenza verso ciò che più conta.

 

Principi etici orientativi

 

La questione morale nella lotta contro il dolore non va posta tanto nella lotta in sé e per sé, moralmente giusta, ma sul come ciò avviene.

 

Come ogni questione in campo della bioetica, anche quella del dolore va posta in rapporto alla persona e, in particolare, alla salvaguardia della sua integrità e della sua dignità.

 

"Imbottire" l'ammalato di psicofarmaci, togliendogli lo stato di coscienza e privandolo delle sue residue capacità relazionali, riducendolo ad uno stato puramente o quasi vegetativo, non è moralmente accettabile. Tuttavia, se non vi sono altri mezzi, questo è ammissibile, soprattutto nello stadio finale della vita, ma soltanto dopo che l'ammalato terminale ha compiuto i suoi doveri verso le persone e verso se stesso.

 

La questione, tuttavia, non è di facile soluzione. Bisogna guardare al vero bene della persona in quanto tale, rimanendo aperto il problema di sapere qual è oggettivamente il vero bene della persona.

 

 

 

I TRAPIANTI D'ORGANO

TERAPIE, RIAPBILITAZIONI

E SPERIMENTAZIONI CLINICHE

 

 

 

Criteri generali di riferimento

 

La medicina trapiantista ha segnato il passaggio dalla chirurgia demolitiva a quella sostitutiva, aprendo nuove speranze a persone segnate dalla propria malattia.

 

Tuttavia, l'impianto di un nuovo organo in sostituzione di quello malato, comporta sempre prima, un'operazione di espianto da un'altra persona, che rimane menomata, se ciò avviene tra persone vive; ma pone altrettanto una questione morale se l'espianto avviene da persone decedute. La questione che qui si pone è duplice: da un lato, definire lo stato di morte avvenuta. In altri termini, quando si può dire che una persona è effettivamente morta? Diversamente il rischio concreto è quello di uccidere la persona a cui si espianta l'organo. Dall'altro, il consenso all'espianto. Nessuno può appropriarsi del corpo di un altro.

 

Ma non è tutto. Si pone, ancora, il problema della vendita di organi umani o, peggio, l'espianto forzato per farne un ignobile mercato, che porta ad un gravissimo sfruttamento, indegno ed aberrante.

 

Di fronte a queste situazioni e ad altre ancora, l'etica deve prendere posizione nel suo tradizionale e fondamentale compito di difesa della persona ed illuminare la strada da percorrere.

 

Due sono gli aspetti da considerare:

 

·         La persona, la sua affermazione e il suo esclusivo bene devono sempre costituire il punto di riferimento imprescindibile di ogni etica. L'uomo deve essere sempre e comunque affermato come fine di tutto e mai come mezzo. Va sempre affermato il primato della persona evitandone ogni strumentalizzazione. Entro tale cornice va letto il principio della "indisponibilità del proprio corpo", in quanto esso è parte integrante ed essenziale del nostro essere in questo mondo, e costituisce una parte fondamentale della nostra persona e, in quanto tale, diventa un bene indisponibile.

 

·         Il dono di sé come supremo atto etico dice il vertice stesso dell'amore, che è essenzialmente apertura e dono di sé all'altro. Espressione massima di questo amore è il dono della vita perché l'altro si affermi nella propria. E i trapianti hanno aperto nuove frontiere all'amore e alla solidarietà. Ciò che sta alla base del trapianto, dunque, è l'amore che si fa dono; un gesto gratuito rivolto verso l'altro e che dice tutta la mia solidarietà per l'altro. Solo in quest'ottica di amore, che si fa dono e solidarietà è accettabile il trapianto di organi. Diversamente si scade nella mercificazione di corpi, che avvilisce la dignità stessa della propria corporeità.

 

Problemi etici legati ai trapianti

 

Poco sopra, nella nostra introduzione sui trapianti d'organi, abbiamo accennato a due questioni di fondo: il consenso all'espianto e l'accertamento di morte avvenuta, in caso di espianto ex cadavere.

 

Che il consenso ci debba essere, nasce dal concetto stesso di dono, che accompagna l'espianto dell'organo, e in quanto tale deve essere libero. Ogni altra soluzione diventa sopruso e prevaricazione.

 

Per essere libero, il consenso deve essere anche esplicito e informato; di conseguenza non può essere moralmente accoglibile il tacito consenso nel nome della solidarietà. Benché non sia comprensibile il rifiuto all'espianto in favore di chi si trova in uno stato di grave precarietà, tuttavia il dono di sé non va mai estorto con atti di prevaricazione, anche se la legge prevede un tacito consenso. Nessuno può essere espropriato del proprio corpo, neppure per legge.

 

La questione, quindi, deve passare prima che dalla legge, attraverso aspetti culturali ed educativi. L'uomo ha bisogno di crescere e di maturare: serve, dunque, creare una cultura del trapianto, ma sopratutto della solidarietà.

 

Quanto all'accertamento di morte avvenuta, esso si presenta come un'esigenza etica assoluta e irrinunciabile. L'espianto di organi da una persona "quasi morta" è semplicemente un deprecabile assassinio e, perciò, moralmente inaccettabile. In caso di morte dubbia non è mai eticamente ammissibile procedere all'espianto.

 

Il motivo di tanta rigorosità sta nel principio fondamentale del rispetto della persona, in qualsiasi stato essa si venga a trovare.

 

Quando, dunque, si può parlare di morte avvenuta? La questione è di pertinenza della scienza, ma senza escludere altri aspetti ancora.

 

Il parametro oggi universalmente riconosciuto dalla scienza e accolto anche eticamente è quello introdotto ancora negli anni sessanta: la morte cerebrale, meglio se si parla di "infarto cerebrale totale", che sembra garantire da morte cerebrali parziali.

 

Terapie e riabilitazioni

 

Susseguente ad una diagnosi, la terapia è finalizzata a rimuovere la malattia nelle sue cause. Essa, talvolta, è accompagnata dalla riabilitazione vista come un complesso di azioni mediche, fisioterapiche e psicologiche di finalizzate a ripristinare l'efficienza psico-fisica del paziente.

 

L'azione terapeutica e riabilitativa chiama in causa il rapporto tra paziente, che ha il diritto di accedere a tutte le cure possibili; e il sanitario, che deve prestare le cure proporzionate al caso.

 

Terapia e riabilitazione, dunque, ma entro quali limiti? Vale qui il principio della proporzionalità terapeutica, che ci è suggerita dalla stessa Carta degli operatori sanitari:

 

·         Con il consenso dell'ammalato, adeguatamente informato, è lecito ricorrere ai mezzi che la medicina più avanzata mette a disposizione.

 

·         E' lecito, poi, interrompere la terapia quando questa non da i risultati sperati, soprattutto se si innesca una sproporzione tra mezzi usati, dolore e danni causati, rispetto ai risultati ottenuti.

 

·         Non si può imporre a nessuno una cura che non è ancora esente da pericoli o che possa risultare troppo onerosa sia a livello individuale che familiare o sociale. L'eventuale morte che ne consegue non può essere considerata un suicidio, ma accettazione naturale della morte, quale destino di tutti gli uomini.

 

·         Sono leciti, infine, interventi che prevedono la mutilazione di parti del corpo o una sua menomazione nel regolare funzionamento, purché ciò sia in vista della salvezza del tutto.

 

 Sperimentazioni cliniche sull'uomo

 

La sperimentazione è parte essenziale del progresso nel campo della medicina. Essa è finalizzata a verificare l'efficacia di determinati interventi medici sull'uomo.

 

Essa si prospetta come terapeutica quando la sua finalità è quella di sperimentare l'efficacia di un determinato farmaco sul soggetto in cura; e non-terapeutica quando la finalità della ricerca non ricade come beneficio sul soggetto su cui si fa l'esperimento.

 

Proprio perché la sperimentazione si riversa sull'uomo va soggetta alla prescrizione morale, affinché la sua azione non sconfini in soprusi, prevaricazioni o deformazioni aberranti.

 

Tre essenzialmente i punti a cui la sperimentazione deve riferirsi:

 

·         Il primato della persona che non deve essere strumentalizzata, né tanto meno considerata come una cavia, ma ne deve rispettare la soggettività.

 

·         Il principio della totalità, in forza del quale una parte dell'organismo può essere sacrificata per la salvezza del tutto e sempre che non vi siano altre vie.

 

·         Il principio della proporzionalità secondo il quale è ammissibile esporre a gravità di rischio a fronte di motivi altrettanto gravi.

 

Anche qui ricorre la necessità del consenso che deve essere sempre preventivo e informato, in quanto soltanto l'ammalato è responsabile della propria vita. Il medico ha sull'ammalato soltanto quel potere che il paziente gli ha conferito liberamente.

 

 

 

 

LE DIPENDENZE: DROGHE, ALCOOLISMO, TABAGISMO

PSICOFARMACI.

TORTURA E PENA DI MORTE

 

 

 

 

Le dipendenze

 

La Carta degli Operatori sanitari definisce la dipendenza come uno stato di assuefazione ad una sostanza o ad un prodotto, la cui privazione può causare nel "dipendente" turbe psicologiche e/o somatiche.

 

Da un punto di vista antropologico, due sono le origini delle dipendenze: a) crisi di valori e perdita del senso della vita; b) attivismo e competizione alla base del vivere sociale, che crea stati di forte tensione, stress e frustrazioni.

 

Due i problemi immediati di ordine morale conseguenti alla dipendenza: a) il commercio e lo spaccio delle sostanze stupefacenti, legato prevalentemente alla criminalità; b) l'assunzione delle sostanze, che costituisce il punto nodale della morale a motivo delle gravi conseguenze connesse con il consumo.

 

Tutte le sostanze e i prodotti assunti, qualora provochino dipendenza, costituiscono un attentato alla vita sia psico-fisica che morale, in quanto ne riducono gradualmente le capacità espressive ad ogni livello, fino alla morte. Sono, in buona sostanza, una negazione della vita stessa e un lento suicidio che ha gravi risvolti personali, familiari e sociali. Sono tutte denuncie di un radicale stato di disagio e dell'inquietudine del vivere.

 

L'alcool, se assunto moderatamente, non è in sé nocivo, ne viene condannato soltanto l'abuso; mentre la droga è sempre e comunque condannata, sia perché non è assolutamente necessaria, ma anche per la sua evidente e constatata pericolosità: crea facile assuefazioni, ha gravi ripercussioni sulla salute psico-fisica, morale e spirituale, nonché aspetti economici, sociali e predispone alla delinquenza usuale. Anche l'uso del tabacco in sé non è proibito, la gravità morale sta nel suo abuso che arreca dipendenza e gravi danni alla salute. Quanto agli psicofarmaci, benché il loro uso sia di natura terapeutica, possono creare dipendenza. La loro assunzione, comunque, deve essere relazionata strettamente al rispetto della persona e al suo consenso informato. Non devono mai, comunque, privare la persona delle sue piene facoltà, riducendola ad uno stato di semicoscienza.

 

La tortura

 

Il termine deriva dal latino "torqueo" (torcere) con cui si esprime una qualsiasi violenza fisica o morale finalizzata ad estorcere confessioni o consensi. Benché ampiamente condannata da tutti gli stati civili, tuttavia è ampiamente praticata, poco o tanto, palesemente o nascostamente, un po' da tutti, sia da regimi democratici che totalitari.

 

Emerge da sé l'immoralità della tortura che viola la dignità e l'integrità della persona, che, indifesa, subisce ogni sorta di umiliazione, violenza e costrizioni fisiche, morali e psicologiche, venendo annientata nella sua dignità. Nulla può giustificare la tortura nemmeno per difendere l'ordine pubblico o per esercitare la giustizia. Il conseguimento di un bene, per quanto importante, non può mai passare attraverso un male odioso.

 

La pena di morte

 

La pena di morte, in quanto pena inflitta ad una persona, è sempre delegata alla pubblica autorità. Non si può parlare, nell'ambito del privato, di pena di morte, ma semplicemente di assassinio, penalmente perseguibile e moralmente inaccettabile.

 

La pena, in sé, ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto dalla colpa ed è finalizzata a sanare, in qualche modo, il danno conseguente alla violazione dei diritti altrui attraverso l'espiazione del crimine.

 

La pubblica autorità, quindi, ha il dovere di assumersi, a nome e per conto dei cittadini, il compito di farsi vindice dei diritti violati, imponendo al reo un'adeguata e proporzionata espiazione del crimine commesso. Solo così viene ristabilita la giustizia nell'ambito del vivere civile, sottraendola alla vendetta personale.

 

In tal modo l'autorità ottiene lo scopo di difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, offrendo al reo, nel contempo, uno stimolo e un aiuto per ravvedersi e redimersi.

 

In tale ambito la pena di morte, quale definitiva soppressione del reo, gli toglie ogni possibilità di riscatto sociale, soddisfacendo prevalentemente la sete di vendetta delle persone ingiustamente violate (vedasi le esecuzioni capitali in America).

 

La pena di morte può essere contemplata esclusivamente in quei casi in cui nessun'altra pena appare adeguata e quando la difesa della società non può essere altrimenti resa possibile.

 

Pertanto, se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l'autorità deve limitarsi a questi mezzi, in quanto rispondenti al bene comune e conformi alla dignità della persona umana, che comunque va tutelata, indipendentemente dalla parte che questa si colloca.

 

Il problema che si pone oggi in Italia è la certezza della pena, che comminata da legittimi tribunali, viene poi elusa da leggi, che nell'intento di tutelare il reo, finiscono per ricondurre ad uno stato di ingiustizia iniziale la violazione degli altrui diritti, gravemente offesi; così che il cittadino "mazziato" dal crimine, prima, è pure reso "cornuto", poi, proprio da quella legge che lo dovrebbe, invece, tutelare. Questo da un lato toglie la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, spingendoli alla vendetta privata; dall'altro, incoraggia il crimine che non si vede adeguatamente punito. La criminalità, soprattutto quella organizzata, conta su questo aspetto.

 

La posizione della Chiesa

 

Il Catechismo della Chiesa cattolica, ai nn. 2266 e 2267, ha subito un sostanziale mutamento di posizione circa l'uso legittimo della pena di morte, dopo la pubblicazione dell' Evangelium vitae.

 

Il prima: la Chiesa vedeva preminente il bene comune per cui non escludeva, in casi di particolare gravità la pena di morte, affermando il diritto dell'autorità, di usare le armi per respingere gli aggressori della comunità, affidata alla sua responsabilità.

 

Il dopo: La Chiesa evidenzia il dovere dello Stato a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dell'uomo e delle regole della convivenza civile, riconoscendole il diritto di infliggere pene proporzionate alla gravità del crimine commesso. Vede nella pena un mezzo sia per riparare il disordine introdotto dalla colpa, che un mezzo di espiazione e redentivo, qualora essa venga accolta volontariamente dal reo.

 

Benché la pena di morte non venga esclusa, tuttavia essa è consentita soltanto quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente la società ingiustamente aggredita.

 

Tuttavia, la Chiesa riflette che "Oggi, a seguito delle possibilità che lo Stato  dispone per reprimere efficacemente il crimine, rendendo inoffensivo colui che lo ha commesso, senza togliergli  definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono, ormai, molto rari, se no addirittura praticamente inesistenti".

 

La pena di morte viene pertanto vista dalla Chiesa come extrema ratio, quando ogni altra via percorribile si presenti del tutto inadeguata e insufficiente per salvaguardare il bene comune, senza volere con ciò legittimare la pena di morte e incoraggiare quegli Stati, che ancora la praticano, a perseverare. Infatti, la recente posizione del Magistero è per la sua completa abolizione.

 

Il principio su cui si è tentato di giustificare la liceità della pena di morte non è quello di un atto contro la vita, bensì quello di una difesa della vita stessa, ingiustamente aggredita, vedendolo alla luce del "principio della legittima difesa". Tale principio dice che se non esiste altra via, l'aggredito può spingersi fino alla soppressione della vita dell'ingiusto aggressore per salvaguardare la propria.

 

Personalmente ritengo che, posta come fondamentale la certezza della pena, si debba dare la possibilità del riscatto al reo, che comunque è e rimane, pur nel suo crimine, una persona, portatrice di diritti e di dignità, aiutandolo a percorrere un cammino di rieducazione e di riabilitazione.

 

Ritengo, inoltre, che qualora ricorressero i termini per un'abbreviazione della pena, debba essere sempre sentito il parere e avere il consenso della persona offesa. Solo in questi termini si può avere vera giustizia.

 

 

  

L'ABORTO

 

 

 

Di fronte al mistero della vita, l'uomo deve porsi come amministratore di un bene che gli è stato affidato e di cui deve rispondere, e non come signore che ne dispone a piacimento. Egli deve agire sempre con la coscienza della propria creaturalità e di essere partner di Dio e reso responsabile della creazione.

 

L'aborto fu introdotto in Italia con la legge 194 del 22.5.1978 e ratificato con un referendum nel 1981. Venne salutato come un atto di civiltà, che metteva finalmente l'Italia alla pari degli altri Stati europei. La legge portava il titolo, intrinsecamente contraddittorio, di "Norme per la tutela della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza", come dire che la maternità viene tutelata con l'interruzione della gravidanza. Ma questa è semplicemente la negazione della maternità stessa.

 

Un gioco di parole che tende a nascondere la verità della realtà, che consiste in un vero e proprio omicidio, che viene compiuto nel seno della madre, a cui la natura ha affidato la difesa e la protezione di un innocente del tutto indifeso.

 

Con l'aborto è la madre stessa che viene offesa, profanata e dissacrata nella sua intimità. E tutto ciò viene definito "... tutela della maternità".

 

L'aborto è semplicemente la soppressione di una vita innocente e soprattutto incapace di difendersi, non avendo alcuna voce in capitolo. E' uno dei più efferati crimini che l'umanità possa aver concepito. Ma tale gravità non è stata recepita dai più sia perché è stata vista come scelta politica, sia perché tale scelta si inseriva nell'ambito di una cultura di morte, che ancor prima aveva generato il divorzio, poi accolto nel proprio seno la droga, come fatto culturale e sociale ormai ineluttabile e a cui si guarda con occhio tra il benevolo e il rassegnato; si sta ora ragionando sull'eutanasia, ecc. Su tale andazzo si stanno uniformando leggi e magistratura che, a fronte di delitti e omicidi, non sa più usare la giusta severità, infliggendo pene del tutto irrisorie, che poi non vengono scontate, favorendo, in tal modo, il diffondersi di un clima criminale, per cui il male non è più avvertito come tale e, spesso, viene scambiato per bene. Si è instaurato un clima di permissivismo e di lassismo di costumi che stanno ormai dando il colpo di grazia alla famiglia (oltre il 52% degli omicidi avvengono all'interno delle famiglie, tra fidanzati, ex coniugi, amici o colleghi di lavoro, secondo i dati diffusi nel mese di luglio 2003 dalla Eures).

 

Tutto ciò è indice di cultura di morte, che sta lentamente, ma non più tanto, degradando e corrompendo l'intero vivere civile e sociale.

 

In tale clima, l'aborto non è più sentito come crimine, ma un diritto sociale, una conquista civile. Siamo giunti all'oscurantismo delle coscienze, non più in grado di distinguere il bene dal male, che viene scambiato per bene.

 

La radice culturale e filosofica dell'aborto

 

L'aborto costituisce sempre un disordine morale grave e nessuna legge al mondo potrà mai rende buono e legittimo ciò che per sua natura ed essenza è intrinsecamente cattivo, perché nega la vita nelle sue radici e lede gravemente la Legge di Dio, iscritta nella natura stessa; un Dio di cui si è perso il senso e semplicemente si  fa a meno. Siamo giunti ad un ateismo pragmatico, il più duro da scalzare: Dio, non mi interessa!

 

La ragione umana, oggi, intrisa di materialismo edonistico, non ama più confrontarsi con la dimensione del trascendente.

 

La religione cristiana è messa ormai nel mazzo di tutte le altre religioni e considerata fonte di pregiudizi ideologici e culturali.

 

Negando il trascendente, si negano anche le norme assolute e trascendenti, con cui l'uomo è chiamato a misurarsi, scadendo in un relativismo che si fa permissivismo, in cui tutti hanno ragione e ognuno è dio a se stesso. Tutto ciò lo si chiama democrazia, libertà, mentre è il principio e il fondamento del caos esistenziale, in cui l'uomo ha perso la propria identità e non ritrova più il senso del proprio esistere.

 

Ma che piaccia o no, che ci si creda o meno, la Parola di Dio esiste e si colloca in mezzo agli uomini come elemento di giudizio e di discriminazione e chiama l'uomo a confrontarsi con se stessa per cui "chi crede non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato perché non ha creduto" (Gv 3,18).

 

E benché la Scrittura non faccia un esplicito riferimento all'aborto, non per questo significa che lo ritenga lecito. Non ne parla semplicemente perché lo ritiene inconcepibile. Tutta Bibbia è percorsa dal senso sacro della vita, fin dalle sue prime pagine. A suo favore viene speso il quinto comandamento: "Non uccidere". Detto in termini così generici sta ad indicare la sua universale validità, che non ammette eccezioni.

 

Responsabilità e corresponsabilità

 

La responsabilità della vita è affidata ad ogni uomo e in particolare a quelle persone che sono chiamate, per natura o per diritto, ad accoglierla e a difenderla.

 

Tale responsabilità, pertanto, diventa corresponsabilità. Responsabile ne è la madre, in primis, poi il padre, quando spinge la madre di suo figlio ad abortire o non le offre adeguata assistenza morale per sostenerla nella sua maternità. Responsabili, poi, sono tutti coloro che, in qualche modo, possono avere una certa influenza diretta o indiretta sulla madre, lasciandola sola nella sua decisione o con leggerezza la favoriscono nella sua decisione di abortire.

 

Ma anche i medici e, ancor prima, i legislatori sono gravemente responsabili e coinvolti, a vario titolo, nel dramma dell'aborto, in quanto, anziché promuovere la vita e difenderla, la sopprimono.

 

La gravità morale, poi, assume dimensioni enormi e incalcolabili, quando la decisione di abortire viene presa per ragioni meramente egoistiche e di comodo, come ad esempio la carriera che potrebbe essere danneggiata, il non sentirsi pronti per il figlio, arrivato inaspettatamente, la realizzazione di propri progetti di vita, che con l'arrivo del figlio verrebbero in qualche modo compromessi; ragioni di tipo economico che l'arrivo del figlio potrebbero rendere più precarie per il resto dei membri della famiglia, ecc.

 

Tutto ciò può, in qualche modo, forse, attenuare la responsabilità soggettiva, in particolar modo quando la scelta si colloca all'interno di un ambiente in cui l'aborto non è più sentito come un crimine gravissimo, a seguito della sua accettazione nella mentalità, nel costume e tutelato dalla stessa legge.

 

Si deve, inoltre, tener conto del grado di consapevolezza e di libertà posseduti dal soggetto nel momento in cui viene compiuto, nonché alla reazione emotiva della donna e del suo ambiente  di fronte alla diagnosi di gravidanza; alla situazione di una ragazza madre, di violenza sessuale, di un concepimento frutto di una relazione adulterina, ecc.

 

Tutte situazione che, in qualche modo, possono ridurre la responsabilità soggettiva, ma non toglierla.

 

La Chiesa ha sempre colpito l'aborto con la scomunica "latae sententiae", cioè automatica. La gravità della pena sta a significare tutta la gravità della scelta.

 

L'obiezione di coscienza

 

L'aborto, benché sancito dalla legge e ratificato da un referendum, è privo di legittimazione etica e, pertanto, non solo non obbliga in coscienza, ma, al contrario, impone un grave obbligo di opporsi ad esso con l'obiezione di coscienza, cioè il rifiuto di eseguire un ordine che proviene da una legittima autorità, in quanto contrastante con i propri principi morali e con la propria fede.

 

L'obiezione di coscienza è riconosciuta sia dall'art.9 della L.194/78 che dall'art. 28 del Codice deontologico dei Medici.

 

La posizione dell'obiettore, benché giuridicamente tutelata, non sempre lo è sufficientemente nell'ambiente in cui si è chiamati ad operare, forse anche perché l'obiettore costituisce un implicito rimprovero a chi, invece, ha fatto una diversa scelta.

 

  

IL SUICIDIO E L'OMICIDIO

 

 

 

La sacralità della vita sottrae all'uomo la sua disponibilità. La vita è affidata all'uomo perché la custodisca e la faccia fruttificare. Nei confronti della vita l'uomo si colloca come un suo amministratore e ne è reso responsabile. La sua intangibilità viene codificata dal quinto comandamento: "Non uccidere" che, esprimendosi in termini generici, dice tutta la sua universalità che non ammette eccezioni.

 

L'indisponibilità della vita e la sua sacralità condanna sia il suicidio che l'omicidio.

 

Il suicidio

 

Benché il suicidio sia sempre esistito e variamente interpretato a seconda dei contesti culturali, filosofici e religiosi in cui compiva, rimane, in sé e per sé, un atto moralmente inaccettabile, perché si pone come attentato alla vita.

 

Esso si può definire come un atto volontario, finalizzato a togliersi la vita perché non ritenuta più degna di essere vissuta.

 

Le motivazioni del suicidio vanno principalmente trovate all'interno del soggetto stesso che spesso, ben lungi dal "farla finita", va in realtà alla ricerca di una vita diversa da quella che vuole abbandonare, perché ritenuta insopportabile e non più vivibile.

 

Esso può assumere, talvolta, anche la forma di una fuga da responsabilità troppo pesanti, che non si è in grado di sopportare; ma anche una subdola forma di vendetta, cioè di una morte, la propria, che si vuol far pesare sugli altri.

 

E', in genere, la risultante di un insieme di situazioni personali e sociali, di cui il suicida rimane vittima.

 

Da un punto di vista etico, la valutazione morale deve distinguere, come sempre in ogni valutazione, il piano soggettivo e quello oggettivo, cioè il peccatore dal peccato.

 

Oggettivamente, il suicidio, quale attentato contro la vita e le Leggi divine, è sempre un atto grave, che la Chiesa, fin dalle sue origini ha sempre condannato con severità.

 

S.Tommaso vedeva il suicidio, da un lato, come una  violenza contro natura, poiché ognuno è incline, per natura, ad amare se stesso; dall'altro, come un atto contro la società a cui appartiene per diritto e per natura, ne fa pertanto ingiuria; infine, è un'ingiuria contro Dio in quanto che la vita gli appartiene ed è soggetta alla sua divina potestà. Diventa, quindi, un espropriare Dio di ciò che gli appartiene di diritto.

 

Il pensiero della Chiesa circa il suicidio non è è stato sempre uniforme. Fino a non molto tempo fa il suicida era privato delle esequie ecclesiastiche e considerato come escluso dalla Chiesa, se non un potenziale dannato.

 

Le recenti scienze psicologiche hanno chiarito la dinamica del suicidio, evidenziando tutta la fragilità e l'obnubilamento mentale e dei valori che sconvolge il suicida. I gravi disturbi psichici, l'angoscia e l'inquietudine del vivere che più non si riesce a sopportare, la sofferenza, ecc. sono elementi che in qualche modo possono attenuare la responsabilità del suicida. Per questo il nuovo CIC, al can. 1184 §1, non inserisce più il suicida tra le persone da escludere dalle esequie ecclesiastiche e lo vede con compassionevole misericordia.

 

Per questo insieme di considerazione, la presunzione di irresponsabilità o di insufficiente responsabilità nel suicidio, costituisce l'ipotesi più attendibile, ed è il contrario ad dover essere dimostrato.

 

L'omicidio

 

Quando si parla di omicidio in campo morale va sempre inteso come "un'uccisione arbitraria di un uomo".

 

Non è il caso di dimostrare la sua inconfutabile gravità morale, inscritta non soltanto nella coscienza dell'umanità e di ogni singolo uomo, ma recepita anche da tutte le legislazioni e da ogni contesto sociale.

 

Esso, infatti, si qualifica non soltanto come un grave attentato alla vita, ma priva ingiustamente l'altro del suo bene fondamentale, da cui ogni altro bene dipende.

 

Tradizionalmente si distingueva l'omicidio diretto, in cui gioca un ruolo fondamentale l'intenzionalità, da quello indiretto, in cui tale intenzionalità era del tutto assente.

 

Pur rimanendo ferma la gravità dell'omicidio in sé, comunque inaccettabile, esso assume varie coloriture e sfumature che possono aiutare nel valutare la presenza o meno dell'intenzionalità: diverso è l'omicidio per vendetta da quello conseguente ad una improvvisa esplosione di rabbia; quello perpetrato per cupidigia e quello per atti di terrorismo o su commissione. L'elenco potrebbe continuare.

 

Esso assume un aggravante di empietà quando questo avviene all'interno della propria famiglia, per i particolari vincoli di sangue e affettivi su cui si fonda la famiglia, che in tal modo viene profanata in modo sacrilego.

 

L'omicidio, infine, non è mai una realtà a se stante che nasce per caso, ma si radica anche in una cultura sociale che, coltivando la violenza, l'arrivismo, sviluppando l'aggressività ed altri pseudo-valori, creano quel clima culturale che predispone all'omicidio. Non va, poi, trascurata la martellante pubblicità quotidiana che viene fatta all'omicidio attraverso i notiziari dei mass media, che favoriscono in qualche modo la predisposizione, in certi elementi fragili, all'omicidio; sviluppano, inoltre, una cultura di morte entro cui non si riesce più a cogliere la gravità del gesto, che sovente non viene neppure adeguatamente perseguito dalla magistratura e qualora ciò avvenga, spesso il reo non sconta integralmente la sua pena.

 

Tutto ciò crea una cultura della criminalità, che rischia di intaccare anche il tessuto sano della società, oscurando lentamente e gradualmente il senso innato del bene e del male. C'è una perdita di coscienza del bene e del male, che non viene più percepito come tale.

 

Da queste brevi considerazioni, se chiara è la gravità oggettiva dell'omicidio, più difficile ne diventa la valutazione soggettiva, che deve tener conto delle concrete circostanze, della personalità dell'omicida, del contesto culturale,ecc.

 

 

 

L'ACCANIMENTO TERAPEUTICO

CURE PALLIATIVE

LA VERITA' AL MORENTE

 

 

 

 

Alla base di ogni bioetica ci sta il rispetto e l'affermazione della persona e della sua dignità. Tutto ciò che va contro tale principio è rigorosamente sanzionato dalla morale, la cui finalità è salvaguardare l'integrità della persona, puntando al suo vero bene.

 

In tale ottica va anche collocato il trattamento terapeutico, le cure palliative e il rapporto tra medico e ammalato, che deve essere improntato sul rispetto della persona e sulla fiducia.

 

L'accanimento terapeutico

 

L'accanimento terapeutico o distanasia (morte difficile, miserevole) indica essenzialmente un abuso terapeutico, il cui intento non è quello di guarire o di portare sollievo all'ammalato, ma prolungarne soltanto la vita biologica.

 

La Carta degli Operatori Sanitari considera l'accanimento terapeutico "nell'uso di mezzi particolarmente sfibranti e pesanti per l'ammalato, condannandolo di fatto ad un'agonia artificialmente prolungata".

 

E' da chiedersi se tutto ciò ha un senso e quale vantaggio il paziente ne trae da tutto ciò e se la sua vita è in qualche modo migliorata da tali interventi.

 

La questione dell'accanimento terapeutico è emersa nell'ambito del dibattito sull'eutanasia, benché i due aspetti abbiano logiche contrapposte: l'uno è comandato dalla logica della "vita ad ogni costo"; l'altra dalla logica della "morte procurata". In entrambi i casi si perpetra una violenza sulla persona e sulla sua dignità.

 

L'accanimento terapeutico non va combattuto in nome di un "diritto di morire con dignità", la quale cosa aprirebbe le porte all'eutanasia, ma in nome di una "proporzionalità delle cure". L'obbligo della cura e della preservazione della salute vige solo all'interno dei mezzi ordinari, che offrano una ragionevole speranza di beneficio al paziente.

 

Il principio etico della "proporzionalità delle cure" asserisce che quando la morte si presenta imminente e inevitabile, si possa rinunciare a trattamenti che prolungano in modo penoso e precario la vita.

 

La rinuncia, pertanto, a mezzi che violino tale principio, non equivale né al suicidio, né all'eutanasia, ma esprime soltanto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.

 

Un caso particolare si pone per le persone che presentano un quadro clinico di "stato vegetativo persistente". Va detto subito che esse sono, comunque, persone e godono di tutti i diritti e della dignità che loro competono. L'alimentazione e l'idratazione medicalmente assistite vanno configurate tra le cure ordinarie del paziente e possono essere sospese soltanto quando diventano insignificanti ai fini della morte, purché la loro sospensione non provochi nel paziente una morte per inedia; nel quale caso si configura una eutanasia.

 

 

Le cure palliative

 

Si dice palliativa una cura che, non efficace ai fini della guarigione, tuttavia ne limita i danni e ne controlla i sintomi, rendendo più sopportabile la sofferenza nella fase finale della malattia, rendendo più umana la morte del paziente.

 

Le cure palliative vedono il vivere e il morire della persona come un processo naturale che esse accompagnano soltanto, cercando di facilitarne il decorso e, pertanto, in quanto rispettose della persona e della sua dignità, sono eticamente lecite.

 

Rimane sempre fermo, anche in tale ambito, il rispetto della dignità della persona che, anche in questa fase, non va privata della propria coscienza, se non per grave motivo.

 

La verità al morente

 

Essa si pone fondamentalmente come un problema di comunicazione, che si radica nel rapporto umano e fiduciario tra medico e paziente.

 

Tre le attenzione che si devono avere nel comunicare la verità all'ammalato: 1) verità, cioè il contenuto della comunicazione stessa; 2) umanità, che esprime il modo con cui si comunica; 3) gradualità, che riguarda i tempi opportuni della comunicazione.

 

Il diritto alla verità

 

E' una questione estremamente delicata in quanto investe il destino di una persona. Essa va risolta nell'ambito di un rapporto di fiducia tra medico e paziente. Il momento più opportuno per comunicare la verità è quando il paziente, per primo, la chiede. Il nascondere o, peggio ancora, il mentire si traduce in imbrogliare, che può assumere anche contorni di gravità morale se da questo ne esce un danno morale, spirituale o anche materiale (testamento, eredità) al paziente o ai suoi parenti.

 

La comunicazione, comunque, non deve mai ridursi ad una fredda ed asettica notifica di prognosi, ma si deve tenere presente la persona che si ha di fronte, nel rispetto della sua storia, del suo stato d'animo, della condizione di particolare fragilità in cui viene a trovarsi, le sue paure e le sue angosce. Una comunicazione, in ultima analisi, che rispetti con grande delicatezza e attenzione la dignità del morente. "Primum non nocere" è il principio che, comunque, va salvaguardato.

 

Umanizzare la verita

 

Questo aspetto implica il modo con cui comunicare la verità. Umanizzare la verità significa renderla umana, cioè rispettare la dignità della persona. La comunicazione, in tal caso, più che un atto deve essere un processo lento e graduale, che aiuti la persona a prendere coscienza del nuovo stato di vita che la malattia lo fa entrare.

 

La verità da comunicare non deve rispecchiare la precisione scientifica, ma la solidarietà umana con l'ammalato, che non deve mai sentirsi lasciato solo. Nel comunicare, bisogna, duqnue, tenere presente sempre il bene globale della persona.

 

La gradualità

 

Si è accennato sopra che la comunicazione non ha da essere un semplice atto di notifica di una prognosi, ma un processo lento e graduale. Questo comporta il rispetto dei tempi e della disponibilità propri dell'ammalato. La gradualità è funzionale, pertanto, sia alla verità da comunicare che al modo con cui farlo.

 

 

 

L'EUTANASIA

 

 

 

 

Premessa

 

Il problema dell'eutanasia (eu-qanatoj) nasce come risposta all'esperienza del dolore e come tale diventa una rilevante questione etica, poiché va ad intaccare la questione del vivere umano alla sua radice, mettendola in discussione.

 

L'immoralità dell'eutanasia si radica principalmente nell'arrogarsi dell'uomo del giudizio su quando e fino a quando la vita è degna di essere vissuta. E' l'uomo che si fa arbitro della proprio vivere e del proprio morire, disconoscendo la vita come dono. E', in buona sostanza, un atto di arroganza nei confronti di Dio e della vita stessa.

 

Per essa vale tutta la riflessione che si è svolta sul suicidio e sull'omicidio.

 

Alla radice dell'eutanasia ci sta una concezione materialistica della vita, che punta al benessere fisico ad ogni costo e su cui si parametra la qualità della vita e la si valuta se degna di essere vissuta o gettata.

 

Veri sono i problemi che sottendono l'eutanasia, ma falsa e sbagliata è la risposta che si dà a loro.

 

Il mutamento del concetto di morte nell'attuale contesto culturale

 

L'epoca che stiamo vivendo è particolarmente caratterizzata da un profondo materialismo consumistico e da una secolarizzazione della vita tali da rendere incomprensibile il senso della morte, vista come la fine fisica di una vita spesa alla ricerca del proprio benessere materiale.

 

In tale contesto riesce difficile capire come il vivere umano sia in realtà un lento e graduale morire che culmina con la morte fisica e che, pertanto, la morte fa parte del processo del nostro vivere.

 

Se ogni parametro di valutazione viene relegato al benessere materiale, in cui l'uomo è  percepito come la misura di tutte le cose e il fautore dei propri destini, dominati dalla sola scienza e dalla tecnica, allora si comprende anche l'affermazione arrogante, quanto falsamente saggia, proprio perché arrogante e priva del senso del proprio limite , con cui si apre il manifesto programmatico a favore dell'eutanasia negli anni settanta: "Noi crediamo che la coscienza morale sia abbastanza sviluppata nella nostra società per permetterci di elaborare una regola di condotta umanitaria per quanto riguarda la morte e i morenti. Deploriamo la morale insensibile e le restrizioni legali che ostacolano ... l'eutanasia ...".

 

In altre parole, quando la vita è qualitativamente invivibile e segnata da inutili e devastanti sofferenze, la persona, arbitra del proprio vivere e del proprio morire, può decidere per il morire.

 

A tale posizione vanno contestate due presupposti teoretici: a) l'inutilità della sofferenza, che colta nell'ambito di un vivere religioso e spirituale, acquista un senso redentivo per sé e per gli altri; b) la soggettività e, quindi, l'arbitrarietà come base dell'agire morale.

 

L'eutanasia, quale tentativo di impadronirsi della vita e di dominare la morte, è un segno evidente di una società dominata dall'efficientismo e dalla cultura della morte, sottesa dalla convinzione che ciò che non va più bene debba anche essere eliminato. Alla base di tutto ci sta l'oggettificazione della vita, considerata soltanto nella sua dinamica materiale.

 

Questa cultura di morte va combattuta e soppiantata dalla cultura della vita, contemplata anche in una dimensione trascendentale e spirituale, l'unica in grado di cogliere sempre il vero senso del vivere. Comprendere la vita soltanto nella sua dimensione materiale, significa rinnegare e disconoscere l'uomo nella sua integralità e predisporlo alla disperazione, la cui soluzione, in questa prospettiva, può essere soltanto fisica: la morte.

 

La posizione del magistero cattolico

 

L'eutanasia viene qui concepita come "un'azione o un'omissione che per sua natura e nelle intenzioni procura la morte allo scopo di eliminare il dolore". Essa, dunque, si pone su di un livello di intenzioni e di mezzi atti a procurare deliberatamente la morte.

 

Essa si pone sullo stesso piano del suicidio e dell'omicidio, ciò che la definisce eutanasia è soltanto lo scopo per cui si procura la morte e la filosofia che la sottende.

 

Come in ogni atto moralmente valutabile, va sempre distinta la gravità dell'atto in sé dalla soggettività di chi lo compie e dalle circostanze in cui si compie.

 

Essa è dettata da una falsa pietà per l'altro. Infatti la vera compassione dice condivisione del dolore e solidarietà, non certo soppressione dell'altro per sottrarlo al dolore. La vita è sempre un bene che va, comunque, vissuto e aiutato a vivere.

 

L'eutanasia, da ovunque la si guardi, è nella sua sostanza una soppressione di vita innocente che viola, nella sua natura, la legge divina e nella sua arbitrarietà si costituisce un inaccettabile atto di arroganza.

 

La vita è sempre e comunque inviolabile!

 

Per una nuova cultura di vita

 

In un'epoca segnata dal materialismo più profondo, che ha secolarizzato la vita e in cui si sono persi i valori che la sostanziano e le danno senso, diventa sempre più urgente una nuova evangelizzazione., che rientra nella missione propria e di ogni cristiano.

 

Si tratta di capire che la vita è un preziosissimo dono di Dio che va accolto, custodito e amministrato con saggezza. Esso è un bene da cui tutti gli altri beni dipendono.

 

La vita trova la sua vera radice e identità nell'amore, che si fa dono e accoglienza, e nel cui ambito anche la sofferenza e la morte hanno il loro senso e qui vanno ricomprese. Di conseguenza, la scienza e la tecnica vanno concepite sempre e comunque preordinate all'uomo e alla sua affermazione.

 

Il messaggio cristiano ha il compito di illuminare pienamente l'uomo e rivelargli il suo mistero alla luce del Cristo morto e risorto, in cui l'uomo si ricomprende e ritrova il senso del suo vivere, del suo soffrire e del suo morire.

 

Serve mettere in atto una generale mobilitazione delle coscienze, a partire dalla propria, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita, attorno a cui va ricostruita una nuova cultura del vivere, lasciandoci plasmare dal Vangelo, che come lievito fa fermentare la pasta.

 

Ognuno ne è responsabile!

 

  

 

LEGGE CIVILE  E  LEGGE MORALE

 

 

 

 

Premessa

 

La democrazia è una conquista civile che punta, almeno idealmente, all'affermazione di tutti i cittadini, riconoscendo loro pari diritti, e consente a tutti di esprimersi liberamente nel reciproco rispetto.

 

Proprio grazie  questo principio di fondo, si sono create delle aggregazione ideologiche, i partiti, che, spinte dalla convinzione della giustezza della loro visione della vita e della società, si propongono ai cittadini che liberamente esprimono il loro consenso.

 

La verità proposta dai partiti, o almeno ritenuta tale, si basa spesso, oltre che su delle convinzioni personali deformate da compromessi di coalizione, anche sull'andamento del sentire degli elettori, da cui dipendono. La verità, quindi, spesso subisce delle stiracchiature o delle deformazioni tali da uscirne irriconoscibile o completamente cadavere.

 

La formulazione delle leggi e la loro approvazione viene affidata alla maggioranza, che soddisfa le giuste esigenze della democrazia, ma non sempre quelle morali; per cui si dà al popolo ciò che chiede e non ciò che è giusto dargli.

 

Viene così a crearsi, talvolta, una divaricazione, se non una contrapposizione, tra leggi civili e morali, che possono creare situazioni di grave ingiustizia, regolamentata per legge, come nel caso del divorzio e dell'aborto.

 

Questo stato di cose, se da un lato sono indice di un'evoluzione (o involuzione) della coscienza morale di un popolo o di parte di esso, dall'altro creano un nuovo clima culturale che oscura le coscienze, spingendole ad una sostanziale insensibilità ai valori fondamentali della vita, che preludono alla morte stessa della coscienza del bene oggettivo.

Si passa così da una morale di tipo oggettivo, su cui ognuno dovrebbe regolamentare il proprio agire, ad una di tipo soggettivo, per cui il bene è ciò che è tale per me. Questa posizione di morale soggettiva viene talvolta spinta ed enfatizzata al punto tale che non si vedono più i diritti dell'altro, ma soltanto i propri. Si passa così ad uno stato di egoismo collettivo su cui si fonda, ad esempio,  il diritto di sciopero, che per difendere le posizioni di una determinata e limitata categoria non esita a creare immani disagi ad un'intera collettività.

 

In tale quadro si perde il senso dell'altro, della vita spesa come servizio al bene sociale, il senso della gratuità, mentre si va sempre più affermando il diritto, che in genere è quello proprio, nella pragmatica logica della "mors tua, vita mea".

 

Quale rapporto, dunque, si pone tra legge civile e legge morale? A tale questione ha cercato di dare risposta il documento della Congregazione per la Dottrina della Fede "Donum Vitae", tenendo presente che non tutto ciò che è giuridicamente corretto è anche moralmente accettabile.

 

Etica e democrazia

 

La democrazia, se non si vuole che scivoli in egoistici conflitti sociali, che preludono e formano da prologo al caos sociale e, quindi, ad uno stato di ingiustizia sistematizzata e socialmente acquisita, deve basarsi essenzialmente sul bene comune, che ha come fondamento la dignità della persona e il rispetto dei suoi diritti.

 

In una pluralità ideologica, che tende a identificarsi con un pluralismo etico, sinonimo di morale soggettiva, che spinge a  trovare la giustificazione del proprio agire in se stessi, si va delineando un contesto culturale politico il quale, anziché perseguire i valori sociali per l'affermazione del bene comune, presta attenzione alle esigenze e alle tendenze della maggioranza, che vengono elevate a criterio di bene e di verità.

 

I continui sondaggi di opinione,  una sorta di marketing politico, che imperversano in America, ma che stanno prendendo sempre più piede anche in Europa, denunciano proprio questa tendenza.

 

La competenza della Chiesa

 

La Chiesa, scevra da questioni di maggioranza, si dichiara, per missione e natura propria, esperta del bene morale e competente sull'uomo. Essa, pertanto, non intende invadere il campo politico e giuridico, ma argomentare sul bene comune e dell'uomo in particolare, su cui ogni ordinamento giuridico dovrebbe basarsi, invitando chi ha la responsabilità della cosa pubblica a non abdicare alla propria coscienza.

 

Il bene comune, quindi, dovrebbe essere assunto quale criterio e principio di orientamento nell'ambito della vita politica.

 

Sul versante della bioetica, la Chiesa richiama l'attenzione su due fondamentali valori civili e sociali: a) il diritto inviolabile alla vita di ogni individuo umano; b) i diritti della famiglia e dell'istituzione matrimoniale.

 

Tali principi sono posti a fondamento del bene comune, da cui ogni altro bene dipende.

 

Quali rapporti tra legge civile e legge morale?

 

Quando si parla di beni fondamentali, quali quelli della vita e della famiglia, il legislatore non può fare un semplice appello alla coscienza individuale, poiché in gioco c'è il futuro di tutta una collettività, che gli è stata affidata. Il suo compito è quello di vigilare sull'evoluzione della società e in particolare su quella della scienza e della tecnica, perché non prendano la mano alla pubblica autorità, divenendo esse criterio di guida sociale. Questo porterebbe ad una oggettificazione del vivere sociale e dell'uomo stesso.

 

I ricercatori e gli scienziati, da parte loro, non possono sentirsi indipendenti da ogni regola morale, lasciandosi guidare soltanto da logiche tecnico-efficentiste, perché tutto l'agire umano è sottoposto a regole finalizzate a salvaguardare non il progresso tecnico-scientifico, ma il bene comune e l'affermazione dell'uomo e della sua dignità. Questi valori costituiscono il fine di ogni agire umano e il fondamento della legge morale.

 

Non possono neppure pretendere che il legislatore legiferi a loro esclusivo favore, con leggi fatte a loro uso e consumo, poiché ogni legge porta in sé una dimensione sociale che va sempre salvaguardata e mai vanificata da soggettivismi e particolarismi di casta.

 

Essa, al contrario, deve sempre essere finalizzata al bene comune, che non va inteso come un'impossibile somma di tanti beni particolari, ma come il saper creare delle condizioni tali a cui ognuno fa riferimento e può attingere per il raggiungimento del proprio bene personale. Si tratta, quindi, di un concetto qualitativo etico e non semplicemente quantitativo.

 

Una legge per dirsi giusta deve trovare il proprio fondamento nella morale, intesa come lo sforzo etico che spinge ogni uomo e ogni collettività all'affermazione del bene comune, che si fonda sul bene della persona e l'affermazione della sua dignità.

 

Qualora la legge, espressione della volontà della pubblica autorità, non raggiunga tali finalità, ma anzi le violi, perde il suo valore morale e, pertanto, la forza di obbligare la coscienza individuale, che è chiamata, a tal punto, a porre obiezione, rifiutandosi di conformarsi a tale legge, che diventa in sé e per sé ingiusta, anche se frutto di un sentire comune.

 

Una legge giusta è di per sé sempre morale, perché si aggancia sempre ai beni fondamentali della vita, del rispetto della dignità della persona e del bene comune. La loro violazione la rende ingiusta e pertanto priva di un qualsiasi potere vincolante, diventa soltanto un sopruso ed una prevaricazione. Infatti, per S.Agostino "una legge ingiusta non è legge" e, pertanto, non è obbligante.

 

Il crimine, come quello dell'aborto, dell'eutanasia e del divorzio, non potrà mai assumere aspetto di legalità, anche se travestito da legge, poiché la legge che si presta a questo gioco diventa una dannosa truffa sociale, i cui effetti non tarderanno a farsi sentire. Diventa una cancrena sociale che corrode le coscienze e degrada la cultura del bene, mettendo le premesse per un degrado sociale, preludio di una disgregazione della società.