APPUNTI
DI
TEOLOGIA MORALE FONDAMENTALE
(Elaborazione dei miei appunti integrati dal sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)
PROGRAMMA DEL CORSO
INTRODUZIONE
Teologia: oggetto e metodo
Morale : relazione tra - Ethos - Moralità personale / Eticità - Morale etica
Fondamenta: - Oltre la casistica - Indicazioni del Vaticano II
A) La Libertà responsabile : - Fenomenologia - Struttura - Fondamento
B) Ermeneutica del messaggio morale biblico:
A.T. : la Legge; la Parola profetica; la Mediazione sapienziale
N.T. : Il messaggio morale di Gesù La predicazione apostolica
C) Categorie morali fondamentali:
- La coscienza - La legge morale - L’agire morale responsabile - Peccato e conversione
Che cos è la Teologia
La Teologia è una riflessione che si fa sulla fede, o meglio, sui contenuti della fede: Dio e il suo mondo. La fede, tuttavia, è la condizione essenziale per affrontare un discorso teologico in quanto che la Teologia esplora il mondo della fede. Essa, quindi, costituisce il fondamento essenziale per poter fare teologia, nel senso che non si può fare teologia se non si crede, perché verrebbe meno l’oggetto stesso della Teologia: il Dio che si nega.
La Teologia serve perché ci aiuta a capire e ad approfondire la nostra fede e la sua praticabilità. E’, dunque, un servizio alla nostra fede. La Teologia diventa uno strumento di risposta alle domande che la fede ci pone. E’ , in tal modo, un ministero all’interno della comunità ecclesiale, cioè un servizio il cui obbiettivo è ricercare, approfondire, chiarire i contenuti della fede stessa. La Teologia svolge anche un’azione formativa della vita cristiana, cioè è uno strumento che dà “forma” ai nostri contenuti di fede, mettendo ordine tra questi.
Oggetto della Teologia è la fede, intesa nel suo duplice aspetto di “fides quae creditur” e “fides qua creditur”:
Il sapere teologico non parte da speculazioni filosofiche e/o teologiche, ma dall’attenzione ai dati e alla storia, si radica, dunque, nel concreto, nell’oggettivo. Se, infatti, la storia della salvezza è la storia di un Dio che si sacramenta nella storia stessa per incontrarvi l’uomo e per rendersi a lui comprensibile e accoglibile, anche la Teologia non può che volgere la sua attenzione alla storia e alla sua dinamica, quale luogo privilegiato scelto da Dio per operare il recupero dell’uomo alla sua dimensione originale. E’ così che accanto alla storia dell’uomo si sviluppa nel silenzio quella di Dio. Le due storie si intrecciano, in tal modo, così da formare un’unica storia sacra, che diventa storia della salvezza. E’ la storia di un Dio che si fa come noi per farci come Lui.
Il farsi storia di Dio ci interpella e ci spinge a darci e a dare una risposta. Quindi si deve passare alla interpretazione, alla lettura e comprensione di questo dato storico, di questo Dio che si fa storia.
La Teologia, quindi, coglie il dato storico e tende a spiegarlo, a giustificarlo, a renderlo certo, creandone un fondamento sicuro a nutrimento della nostra fede. Per questo la Teologia viene definita “Fondamentale” perché è in grado di tenere, di reggere alla domanda e alla ricerca.
La Teologia educa alla pratica, cioè a cogliere i dati della storia, a interpretarli finalizzando tutto alla formazione e alla stimolazione di una fede cosciente e adulta. In tal senso si aggancia alla “Morale”
Che cos’è la Morale
La Morale non è una pattina legalistica che si spalma sopra al nostro operare emettendo su questo un suo giudizio di premio o di condanna, ma nasce in esso e con lui, cioè il nostro operare è in sé un “operare morale”. Siamo, pertanto, dei soggetti morali perché siamo liberi e responsabili. Parlare, quindi, di morale significa riferirsi a persone “libere e responsabili”. In tal modo la Morale non si riduce ad un semplice giudizio di bene o di male sul nostro operare, ma essa nasce con la nostra necessità di scegliere e di decidere di noi stessi. Essa è, quindi, un qualcosa di intrinseco al nostro operare nella misura che esso è libero e responsabile. Infatti, là dove non c’è libertà non può esservi responsabilità, non può esservi agire morale. Libertà e la responsabilità, tuttavia, non sono ingredienti naturali e scontati della persona, ma presuppongono una lenta e progressiva maturazione della persona stessa, una sua evoluzione che, per vari motivi, può anche fallire. E’ questo un lento cammino che ha dei ritmi del tutto personali e strettamente individuali.
La libertà, per quanto evoluta e spinta, non è mai assoluta, ma conosce dei limiti e dei condizionamenti proprio perché essa si esprime nell’ambito della storia in genere e della nostra storia personale, in particolare. Così l’uomo è chiamato a decidere in un contesto condizionato e condizionante che influisce, talvolta pesantemente, nelle sue scelte.
Morale: dal latino “MOS” , in greco “EQOS”, da cui nascono i termini “Morale”, usato convenzionalmente nell’ambito della teologia, ed “Etica” nell’ambito della filosofia. L’esperienza morale ha a che fare con l’Ethos, cioè con un insieme di elementi condizionanti il nostro operare, che è sempre culturalmente determinato e limitato. Ogni etica ha a che fare con l’Ethos, cioè con l’insieme dei condizionamenti ambientali e culturali in cui nasce e si sviluppa il nostro operare. Da questo punto di vista l’Ethos è sempre relativo, cioè relativo all’ambiente, al periodo storico e al contesto culturale. L’Ethos, proprio perché è l’insieme dei condizionamenti sociali, culturali e storici che per loro natura sono mutabili, è soggetto a variazioni e mutazioni con il variare e con il mutare degli stessi.
Quando parliamo di moralità personale, si indica sempre una persona impegnata nel suo agire che comporta una decisione cosciente e responsabile e sfocia in un impegno che è, nel momento della decisione, assoluto, nel senso di definitivo. Si parla di definitività della decisione quando, dopo aver valutato e maturato una determinata scelta, concludo la mia valutazione e passo alla decisione che, in quel momento, diventa definitiva e assoluta, perché non ho da aggiungere e da togliere più niente, per cui passo alla operatività. Tuttavia i termini “definitività” e “assolutezza” sono sempre relativi a quella decisione e mai assolutamente definitivi, per cui rimane in me sempre uno spazio di ravvedimento e di manovra.
Mentre nell’Ethos è un insieme di elementi condizionanti, sia in positivo che in negativo, legati al tempo, all’ambiente, alla situazione e alla contingenza, per cui esso muta secondo le epoche e le situazioni; la scelta morale, invece, è sempre assoluta.
Infatti la scelta morale è un concorrere di valori che mi consentono di fare una valutazione e che mi portano alla decisione finale di fare o non fare una determinata cosa. Nel momento, però, in cui io decido di fare o di non fare una determinata cosa passando alla operatività della mia decisione, questa mia scelta, sia pur in senso relativo, diventa assoluta e decisiva.
Il mio scegliere, tuttavia, non si pone al di fuori del contesto storico, culturale e ambientale, ma si realizza in esso, subendone l’influsso e il condizionamento, sia in positivo che negativo. Tale contesto è ciò che mi fornisce anche i parametri di valutazione e di decisione, costituendo il mio bagaglio culturale, e che mi aiutano a scegliere.
Infatti, noi siamo figli del nostro tempo, cioè subiamo l’influsso dell’ambiente storico-culturale in cui ci muoviamo. Tuttavia tele influsso non è assoluto e decisivo, ma lascia sempre in noi uno spazio di libertà interiore: esso è lo spazio morale da cui nasce la mia scelta personale definitiva, che diventa, per ciò stesso, scelta morale e soggetta ad una valutazione morale, in quanto scelta strettamente personale e libera.
Morale o Etica comportano una riflessione critica attorno all’esperienza morale che si esplicitano in valutazione morale.
La riflessione critica sull’Ethos aiuta a capire le dimensioni e la dinamica di questo Ethos, che, una volta recepito ed elaborato da me, diventa Morale.
Che cosa si intende per Fondamentale?
Fondamentale è ciò che fonda le mie scelte e le mie decisioni: cioè perché io devo fare o non fare una determinata cosa.
Prendiamo l’esempio dal primo comandamento che dice : “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi al di fuori di me” (Es.20,2).
Ci si chiede: perché Dio mi obbliga a non avere altri dèi se non lui? Dove basa la sua pretesa? In altri termini: che fondamento ha la sua richiesta?
In questo comandamento due sono i momenti fondanti: uno di tipo autoritativo, cioè si basa sulla sola autorità di Dio, in altri termini: è così perché lo dico io (Io sono il Signore, tuo Dio); l’altro è di tipo storico, cioè si basa su di un fatto storico, su di una esperienza che ha coinvolto esistenzialmente e profondamente tutto un popolo (…ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù).
Nel primo caso, quindi, abbiamo come fondamento l’autorità divina; nel secondo caso c’è un’esperienza storica che ha toccato profondamente l’esistenza e la coscienza di tutto un popolo.
Quindi la pretesa di Dio non è campata per aria, ma si basa essenzialmente su di un fatto storico che divenuto esperienza per tutto Israele.
Quindi il fondamento della Teologia Morale non è costituito da una elucubrazione filosofica, né da una speculazione teologica, bensì esso si fonda in un’esperienza che si radica nella storia umana: è l’incontro di Dio con l’uomo, un incontro mediato dalla Parola e da segni storici. E’ l’incontro di due storie: quella divina e quella umana che nel loro incontrarsi formano un’unica storia, la Storia della Salvezza. In questa si radica il fondamento di ogni teologia e di ogni Morale.
Anche il Concilio Vaticano II si muove in questo senso: V. “Optatam Totius” n.16 .- V. anche la “Dei Verbum” che ha cambiato modo di fare teologia.
La teologia non ha a che fare con verità assolute e aprioristiche imposte dall’esterno, ma con la storia, che è storia di salvezza. Quindi, anima e fondamento della Teologia è la storia in genere e in particolar modo la storia della salvezza, cioè la manifestazione e la donazione di Dio all’uomo che incontra qui nella storia. Da questo incontro nasce l’obbligo di una risposta. L’esperienza morale, quindi, diventa un’esperienza di Cristo e in Cristo che ci spinge ad una testimonianza di tale esperienza che si trasforma in carità, cioè l’incarnazione dell’amore di Dio in noi.
Dal XVI° sec. Fino al Vaticano II, con strascici fino ad oggi, nasce la Teologia morale casistica. Essa trova il suo fondamento nel Concilio di Trento là dove parla della Confessione, facendo obbligo (canone 7°) di enumerare i peccati mortali e veniali. Se si parla di peccati, si parla di fatti, di comportamenti sbagliati che si sono prodotti nell’ambito della storia e, quindi, definibili.
Nasce, quindi, la necessità di dare istruzione ai confessori delle dimensioni e dinamiche di quei comportamenti che vengono definiti peccati. Da qui si sviluppa uno studio dettagliato e talvolta esasperante di casi in cui incasellare tutto il comportamento umano; sul che cosa è lecito o no. Si origina, così, una morale “casistica”. Si tratta, dunque, di una formazione dei confessori di tipo pratico che li porta a valutare praticamente i vari casi dal punto di vista morale, ad inquadrare oggettivamente il comportamento della persona, senza considerare gli apporti soggettivi, storici, culturali, personali entro cui è nato e si è sviluppato l’atto che moralmente viene definito peccato. Nella morale casistica il comportamento viene valutato oggettivamente secondo parametri legalistici, ma senza tenere in nessuna considerazione del contesto culturale, ambientale ed educativo che lo ha prodotto. La Legge, quindi, sta di fronte alla coscienza e deve dire come questa deve comportarsi e come va applicata la Legge stessa.
La Teologia morale odierna, a differenza di quella casistica, è attenta più al soggetto che ai suoi atti.
E’, quindi, il processo inverso della teologia casistica che, invece, indicava come la Legge doveva essere interpretata e applicata ai singoli casi. E’, dunque, una morale degli atti. La casistica, al di là di altre valutazioni di merito, funziona quando non viene messa in discussione la Legge; cosa che oggi, invece, avviene.
Infatti le scienze antropologiche, psicologia, psicanalisi e sociologia in primis, hanno rivalutato la personalità e la soggettività dell’uomo, dando una nuova visione del suo comportamento e delle problematiche ad esso inerenti. Così che la valutazione del comportamento umano e dei suoi atti attraverso la sola Legge è diventata del tutto insufficiente e inadeguata. Oggi, invece, l’attenzione è rivolta al soggetto e non più ai suoi atti. Il soggetto è, quindi, al centro degli interessi della Teologia morale.
Lo stesso Concilio Vaticano II, nella Gaudium et Spes, al paragrafo n. 16, sottolinea l’importanza della coscienza soggettiva definendola quale “nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio la cui voce risuona nell’intimità propria.” , mettendo in guardia tuttavia dal pericolo che tale coscienza non sia adeguatamente formata e talvolta accecata dall’ignoranza e dall’abitudine al peccato.
Nell’intimo di tale coscienza, continua la Gaudium et Spes, l’uomo scopre una legge che non si è data, ma a cui deve obbedire; è la voce che gli fa capire ciò che è bene e ciò che è male; è la voce che lo spinge a compiere il bene e a rifuggire il male. Obbedire a questa legge è la dignità stessa dell’uomo e secondo tale legge egli sarà giudicato. Tale legge è stata data all’uomo, come l’istinto all’animale, perché sia salvaguardata la sua integrità morale e la sua dignità.
Nella nuova morale, postconciliare, si parla di una coscienza posta nell’intimo dell’uomo che formula valutazioni morali sul suo agire.
Quindi dalla Legge, parametro di valutazione oggettivo esterno all’uomo, si passa al suo interiore, alla sua intimità, alla sua soggettività.
Tuttavia, la coscienza non va stimata come un mero strumento di valutazione distinto dall’uomo, ma essa ne fa parte, anzi vi si identifica, così che l’uomo diventa legge a se stesso.
Coscienza, dunque, come nucleo profondo e intimo in cui si fa sentire la Legge, intesa quale voce di Dio; è proprio in questo intimo sacrario del mio essere che sento ciò che è bene e ciò che invece non lo è.
Non strumento, dunque, ma intimo punto di incontro e di contatto tra l’uomo e Dio.
Questo intimo sacrario, punto di incontro segreto tra l’uomo e Dio, è ciò che forma, costituisce ed alimenta la dignità dell’uomo, una dignità che non mi viene attribuita esteriormente, ma è intrinseca alla mia persona, al mio essere.
Libertà responsabile Gaudium et Spes n.17
La Gaudium et Spes al par. N.17 sottolinea come l’uomo può volgersi al bene solo nella libertà cui giustamente aspira, ma che non sempre riesce a ben educarsi ad essa, coltivandola in malo modo e intendendola anche come libertà di fare il male, quasi sia lecito fare tutto ciò che piace e riguarda ai miei personali interessi. La libertà, invece, è stata data all’uomo perché in essa egli cerchi spontaneamente Dio e giunga a Lui con libera adesione interiore.
Tuttavia di questa libertà e dell’uso che egli ne fa dovrà rispondere a Dio stesso.
Da tutto ciò si evince come l’uomo è un essere libero, ma proprio perché tale deve anche rispondere delle sue azioni e del suo comportamento.
Quindi, libertà e responsabilità sono i due elementi costitutivi dell’atto e del comportamento morale. Pertanto, Il fondamento antropologico della morale è la libertà creaturale.
Descrizione fenomenologica dell’agire volontario
Da una semplice osservazione dell’uomo, possiamo rilevare immediatamente che egli è capace di agire, di decidere e di scegliere.
Questa è la partenza della valutazione dell’agire umano: la constatazione di questa nostra capacità
Ogni agire volontario nasce da una scelta che si traduce in decisione e che sfocia in agire.
La decisione si pone come mediazione tra volontario e involontario
C’è volontarietà quando nel mio agire si riscontra una intenzionalità e una motivazione.
L’intenzionalità è ciò mi fa “in – tendere”, cioè ciò che mi spinge verso una determinata decisione e sottintende un atto di libera volontà; mentre la motivazione è ciò che giustifica e mi muove nella mia scelta e decisione; è il perché del mio agire.
L’involontario, che per S.Tommaso è associabile all’animalità ed è sottratto alla ragione, fa riferimento al corporeo e al sociale.
Il corporeo inerisce al dolore e al piacere; mentre il sociale si riferisce ai motori che muovono la società, quali le ideologie, le mode, ecc.
Quindi, nel mio agire e nel mio decidere concorrono elementi di volontarietà e involontarietà, che determinano il mio operare.
Ciò ci porta alla scelta che sfocia nell’azione che è espressione e attuazione dell’intenzionalità del soggetto.
Ogni azione, quindi, esprime atto e intenzionalità del soggetto operante.
L’azione libera e responsabile, poi, quale atto di determinazione della volontà, va oltre all’impazienza, all’agitazione; alla irrisolutezza e all’automatismo, elementi questi condizionanti e bloccanti, e non si lascia da questi condizionare; infatti, l’azione è determinabile come atto libero e responsabile.
Riflessione trascendentale sulla libertà umana
Oltre l’osservabile, penso alla condizione di possibilità. Ciò significa che dietro a ciò che mi appare e constato è da ritenere che ci sia la libertà, che sottende un determinato atto.
L’uomo è riducibile a ciò che è descrivibile? In altri termini, l’uomo è soltanto ciò che io riesco percepire di lui? La risposta è NO! Infatti, è proprio della natura umana quello di non essere oggettivabile, cioè riducibile. Infatti, nell’uomo c’è sempre un tipo di attività e di dinamica che ci sfugge e non si lascia imbrigliare. Io posso cogliere e descrivere il pensiero dell’uomo, una volta manifestato, ma non il suo pensare, che rientra in una dinamica che trascende la capacità percettiva e sperimentabile a disposizione dell’uomo.
L’uomo è libertà fondamentale. Ciò significa riconoscere dietro ogni azione un soggetto che si autodetermina con quell’azione, esprimendo in essa intenzionalità e motivazione.
Il compito dell’uomo è attuare se stesso; e ciò diventa impegno morale che punta alla realizzazione della propria umanità nella libertà.
Benché l’uomo sia essenzialmente un essere libero, tuttavia, la sua libertà non è assoluta, ma condizionata e limitata; in altri termini la sua è una liberta creaturale. L’uomo, quindi, decide sempre partendo da contesti determinati e situazioni condizionanti, che possono essere interne o esterne all’uomo stesso.
In questo contesto di libertà creaturale, cioè non assoluta, l’uomo si scopre condizionato. Tale suo stato lo porta alla ricerca di una libertà maggiore, superiore fino ad interpellarsi su di una Libertà assoluta e trascendente, cioè non condizionata, alla quale l’uomo a fatica aspira. In tale condizione egli esperimenta una forte tensione causata dal suo sentirsi finito, limitato e il suo aspirare all’infinito, ad una condizione, cioè, priva di limiti condizionanti e umilianti. Verso questo trascendente l’uomo compie lungo il corso di tutta la sua vita un faticoso cammino di conquista della libertà interiore, disseminato di dolorose sconfitte e di conquiste rassicuranti fino a raggiungere la pienezza del suo essere uomo realizzato.
Compito dell’uomo è, quindi, quello di attuare se stesso, di realizzare nella libertà la propria umanità, intesa come valore; un cammino che diventa impegno morale.
Il valore, quale realizzazione di ciò che l’uomo riesce ad esprimere di se stesso, si misura in termini qualitativi; mentre l’infraumano si esprime in termini quantitativi ed economici.
Esso presuppone la persona fornita, fin dal suo concepimento, di dignità connaturata alla persona stessa, che la rende in eguale modo pari a tutti. Per contro, ciò che varia non è tanto la dignità, quanto il modo di esprimerla, proprio di ogni essere umano; e questo è il valore. La dignità, quindi, è inerente all’essere dell’uomo, sua parte costitutiva e inalienabile, patrimonio che accompagna l’uomo fin dal suo concepimento; mentre il valore inerisce al modo di esprimere tale dignità. In termini filosofici si può dire che la dignità è la sostanza, mentre il valore ne è la forma storica.
LIBERTA’ CREATURALE
Essa si esprime in termini di possibilità di realizzare, ma non in senso assoluto e svincolato da ogni limite, bensì condizionato. E’ proprio questo “condizionato” che caratterizza la creaturalità della libertà stessa propria dell’uomo.
Proprio questa sua finitezza caratterizzante costituisce il vincolo dell’uomo, in cui è posta una profonda aspirazione all’infinito, al perfetto, alla piena e incondizionata libertà. Questa profonda aspirazione alla piena liberazione del proprio essere da ogni vincolo crea uno stato di tensione costituisce il motore che spinge l’uomo sul cammino della realizzazione di sé; un cammino che comporta un vivere con impegno e fatica proprio per la finitezza in cui esso si muove ed è accompagnato dall’incertezza del risultato.
Il disimpegno dell’uomo nel vivere, la rinuncia ad intraprendere il cammino verso la propria realizzazione piena di se stessi, pur nei limiti consentiti dalla creaturalità, comporta l’abdicazione a se stessi, radice di ogni peccato, alienazione dell’uomo.
La libertà creaturale, pertanto, è la fatica maggiore del vivere proprio perché si pone tra la spinta verso l’infinito (realizzazione piena della libertà) e la condizione di finitezza (creaturalità); in altri termini si tratta della nostra aspirazione alla realizzazione di piena libertà in una condizione di finitezza. Questa è la contraddizione del vivere dell’uomo che gli crea l’angoscia e l’inquietudine del vivere e che porterà lo stesso S.Agostino, nelle sue Confessioni, ad esclamare: “Inquietum est cor nostrum, Domine, donec requiescat in te”. Tale angoscia e inquietudine del vivere trovano la loro giusta soluzione nella equilibrata formula esistenziale dell’accettare il proprio limite di creature all’interno del quale realizzare il massimo della mia umanità consentitomi, per l’appunto, dalla mia limitatezza.
Ma non sempre si arriva al giusto punto di equilibrio che, nel farmi superare l’angoscia e l’inquietudine, mi portano ad un più elevato punto di equilibrio e di crescita interiore; spesso la mia creaturalità mi spinge verso punti estremi che anziché gratificarmi e appagarmi, mi sprofondano nell’abisso della disgregazione esistenziale.
Varie sono le risposte che l’uomo può dare, a seconda della sua natura, allo stato di inquietudine che lo agita interiormente.
Il desiderio di Infinito può spingere a minimizzare o rinnegare i propri limiti sconfinando nella Presunzione che, se troppo marcata, può portare a scollegarsi dalla realtà, sfociando nella patologia della Nevrosi schizoide, che fa perdere il senso della realtà, del nostro limite e del finito.
Altro aspetto della sete di Infinito è costituito dal mio desiderio di esprimermi al di là di ogni limite; la mia filosofia di vita è la Possibilità: tutto è possibile, tutto è sperimentabile, tutto fa esperienza, tutto mi è lecito, non c’è limite. Tale atteggiamento possibilista mi porta ad essere indeterminati nella vita, spingendola alla banalizzazione e alla dispersione, alla vacuità, ponendola al di là del bene e del male e di ogni ragionevole regola di vita. Esso è sostenuto da una notevole Presunzione, che può sfociare in una Nevrosi isterica, fuga verso il possibile, che ha come contro partita la banalizzazione della vita.
All’opposto, si pone la coscienza del mio essere Finito che, costituendo la condizione insuperabile del mio vivere, può crearmi la sensazione dell’inutilità della lotta contro limiti che sono propri del mio essere e può spingermi verso la Disperazione, questo annegarsi nel Finito, che rapidamente può degenerare in Nevrosi depressiva, stato esistenziale ammalato in cui l’uomo, privato della speranza, non riesce più a vedere la luce della vita.
Altra categoria che può caratterizzare il mio modo di vivere è la Necessità, il bisogno, cioè, quasi ossessivo di regolamentare la mia vita, che viene così soffocata da regole e costretta in angusti spazi esistenziali che mi opprimono al punto tale da non vedere una via d’uscita, aprendomi, in tal modo, la strada alla Disperazione, intesa qui come soffocamento di ogni speranza. Tale stato di cose, così ormai degenerato, può essere soltanto compensato dalla Nevrosi ossessiva, un rifugio esistenziale patologico da cui sgorgano strane ritualità del vivere che legano la nostra libera esistenza fino a soffocarla.
Questi quattro aspetti, analizzati dal Kirkegaard, sono le espressioni deviate fino alla patologia di una vita che, aspirando alla piena libertà, sente forte il senso della propria creaturalità, della propria finetezza fino allo suo completo smarrimento.
Senso e Speranza sono i due aspetti esistenziali che ci devono accompagnare lungo il cammino della nostra realizzazione nella piena libertà, qui intesa come massima capacità di esprimermi e di realizzarmi nel limite consentitomi dai miei condizionamenti.
Essi sono i due ingredienti che orientano la vita e la spingono in modo sano verso la sua realizzazione.
La libertà domanda Senso, che ci fa star dentro ai nostri limiti esistenziali senza fughe da se stessi e facendoci capire che non può esserci realizzazione piena della nostra vita finché non ci accettiamo nei nostri limiti.
Essa domanda anche Speranza, che ci apre alla vita e ci dona prospettive di realizzazione nonostante i nostri limiti.
L’esperienza morale non si fonda su nozioni astratte, ma sull’impegno esperienziale di incontro di Dio nella storia. Dal mio incontro con Cristo e dalla mia relazione con lui nasce il mio decidermi nei suoi confronti. La venuta di Dio nella storia in Cristo, volere o no, interpella ogni uomo e lo costringe ad una scelta: accettazione o rifiuto; nessuno può sottrarsi alla scelta, poiché anche l’indifferenza costituisce una scelta contro. L’esperienza morale, quindi, chiama in causa la libertà di scelta dell’uomo e la storia di salvezza.
Presupposti per una teologia biblica dell’esperienza morale
1° presupposto: la teologia come metodo ermeneutico
La teologia è una riflessione critica sulla fede e sui suoi contenuti per una migliore comprensione. In quanto riflessione la teologia ha fatto proprio il metodo ermeneutico, cioè, da verità date io le interpreto, le comprendo, ne traggo delle conclusioni. Questo procedere è, tuttavia, limitante poiché la Rivelazione è anzitutto un’esperienza del divino che irrompe nella storia in forma mediatica.
L’ermeneutica, tuttavia, può costituire un modo di avvicinarsi alla realtà e all’esperienza, infatti ogni realtà, ogni avvenimento e fatto necessitano sempre di essere interpretati per essere colti e assimilati o respinti, proprio perché la storia non è mai un qualcosa di anonimo e di freddamente oggettivo e inanimato, ma quale prodotto umano, va sempre interpretata. La Teologia, quindi, proprio perché ha a che fare con la storia e con i suoi prodotti si serve dell’ermeneutica quale metodo di approccio ad essa, quale atteggiamento interpretativo.
Di fronte ai fatti si prendere sempre una posizione, positiva o negativa che sia; ciò che aiuta nella formulazione del mio atteggiamento e comportamento è proprio l’ermeneutica, ossia l’interpretazione di ciò che mi sta davanti o mi circonda. Quindi la teologia pensa in modo ermeneutico ed è, in tal senso, un servizio che essa fa alla fede, intesa come contenuti di fede (fides quae creditur) che come conseguente comportamento di ciò che si credete (fides qua creditur).
Quando mi accosto alla storia, a qualsiasi avvenimento, oggetto o fatto, compresa la fede, parto sempre da una pre-comprensione, che consiste nel capire che ciò che mi sta davanti può dirmi qualcosa e può essere qualcosa per me. Quindi questa pre-comprensione può essere definita come una mia intuizione del valore o del disvalore di ciò che mi si pone di fronte. Il conoscere è sempre un interpretare, è un atto della ragione e della libertà.
Di fronte al senso scoperto delle cose entro in dialogo con esse, approfondendolo.
Davanti alla storia e ai suoi avvenimenti, davanti alle cose io non sono mai neutrale, cioè c’è sempre in me una certa loro precomprensione e intuizione che nasce dalla mia esperienza e dalla mia cultura cultura, e tanto più entro in relazione con questo oggetto, tanto più lo conosco, lo comprendo e, di conseguenza, mi determino nei suoi confronti. La conoscenza, quindi, non è mai un atto aprioristico, ma esperienziale. In altri termini più esperimento quella cosa e più la conosco e più diventa parte di me. Quindi è una conoscenza che parte dall’interno della cosa da conoscere e non come atto razionale conclusivo che mi porta alla cosa.
Si scopre, poi, che la realtà non è un qualcosa di neutro, ma è sempre interpretabile e conoscibile e, una volta conosciuta, mi spinge a prendere posizione e, quindi, a decidere. Tutto ciò può essere sintetizzato con la frase “Credere per comprendere e comprendere per credere” ; comprendere e credere stanno sempre assieme, essi sono complementari e non contrapposti. Viene così superata la contrapposizione tra fede e ragione, un’eredità dell’illuminismo.
E’ con il vivere che io comprendo, cioè quando sono dentro alle cose sento la necessità di comprenderle e approfondirle per poterle vivere. C’è, quindi, prima una decisione, che nasce da una pre-comprensione, cioè da una intuizione di valore, e poi una comprensione vera e propria che nasce dal mio incontrarmi, dal mio esperire. La pre-comprensione, l’intuizione di valore sfociano in una decisione che mi orienta verso ciò che, poi, l’esperienza mi porterà a conoscere e valutare.
2° presupposto: Fede e storia come categorie antropologiche
Sia la fede che la storia sono due categorie che ineriscono all’uomo; la fede, come atteggiamento di apertura dell’uomo al divino, come decisione dell’uomo di vivere per Dio; la storia come luogo dove è situato l’uomo e la sua scelta interiore di fede; storia quale luogo di incontro tra un Dio che si manifesta e un uomo che accetta e si decide per Dio; storia come luogo di esperienza di Dio.
Quindi, qui nella storia, io entro in rapporto con qualcosa che intuisco essere un valore per me, perché ha un carattere promettente per me. Così è la fede: l’affronto perché intuisco che essa può essere un valore per me, perché possiede un carattere promettente per me uomo. Questo carattere “promettente” è l’aspetto antropologico della fede. Quindi fede come valore per l’uomo.
Così la storia è ciò che la libertà umana realizza e in essa decide; essa è espressione della libertà umana in cui l’uomo si muove, decide e realizza.
3° presupposto: storia della salvezza (che è storia ebraico-cristiana)
Ciò che fa la storia della salvezza è la relazione tra Dio e l’uomo. Essa ha un punto centrale; Gesù Cristo, in cui Dio entra nella storia e si fa storia umano-divina. La storia di Gesù si comprende alla luce della storia dell’A.T.
Nell’ambito di questa storia riconosco il comunicarsi di Dio all’uomo, che mi obbliga ad una decisione. Da qui il farsi della storia di ogni uomo e del cristianesimo.
Il farsi della storia della salvezza coincide con il farsi della storia cristiana. Infatti ai suoi discepoli Gesù ha lasciato in eredità se stesso perché nel tempo, lungo i secoli della storia, per mezzo loro egli potesse raggiungere tutti gli uomini. Egli, dunque, si sacramenta nel cristianesimo.
Ma come fare storia della salvezza? Essa si attua raccogliendo i fatti propostici dai testimoni e accogliendoli nella fede. In questo accogliere nella fede il Dio rivelatosi in Cristo si compie la salvezza. Paolo nella sua lettera ai Romani afferma che il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede (Rm 1,16), lasciando intendere che la potenza salvifica di Dio si sprigiona solo là dove essa viene accolta nella fede; fede, quindi, che diventa essere la chiave che apre la salvezza.
Quindi, ciò che io incontro e che mi interpella non è una semplice norma che mi si impone dall’alto, ma un evento che mi chiede di essere creduto, compreso ed esistenzializzato.
IL MESSAGGIO MORALE NELL’A.T.
La storia della salvezza è un evento relazionale tra Dio e l’uomo, in cui Dio, col suo manifestarsi, interpella l’uomo che è chiamato a rispondere. Tale evento si realizza nella storia ed è raccontato dall’A.T., come storia di un popolo che ci racconta di aver incontrato Dio e di aver fatto alleanza con Lui; è raccontato dal N.T. come storia di una persona che ha avuto la coscienza di essere stata in stretta relazione con Dio ed è stata ricompresa come manifestazione piena e definitiva di Dio all’uomo.
Di fronte a questa storia l’uomo è chiamato a decidersi per Dio o contro di Lui.
Rivelazione nell’A.T.
L’esperienza di Dio nell’A.T. ci viene raccontata sotto tre forme: la Legge, i Profeti e la Sapienza (l’apocalittica è una quarta forma che percorre la storia di Israele in modo trasversale) e, contemporaneamente ci viene narrato come matura e si sviluppa la risposta del popolo.
Quando si parla di Legge si pensa ad un contesto giuridico, ma così non fu sentito da Israele. Per Israele la Legge è, innanzitutto, la Torà cioè il Pentateuco, quindi non solo norme, ma anche e soprattutto racconti; non solo regole, ma esperienza; norme a cui Israele si sente vincolato proprio in virtù dell’esperienza avuta con Dio. Quindi le norme sono giustificate dall’esperienza da cui discendono. Ciò che consente l’esperienza di Dio non sono le norme, bensì l’incontro che il popolo con Dio.
Altra forma dell’esperienza di Dio e della sua rivelazione è il Profetismo che riguarda il giudizio di Dio sul presente del popolo.
Altra forma è la meditazione sapienziale, che è una riflessione di Israele sulla propria vita, sulla sua esperienza di Dio, sul suo passato. E’ proprio questo riflettere sugli eventi del passato che porta il popolo a riconoscere nella sua storia l’azione di Dio e, quindi, ad aprirsi a Lui.
Quando Israele parla di rapporti con Dio si rifà sempre all’Alleanza, mentre la parola profetica è la parola di Dio nel presente.
Sono forme storiche, che hanno a che vedere con lo stesso svolgersi dei tempi della vita dell’uomo : passato (Alleanza), presente (parola profetica) e futuro (riflessione sapienziale).
La Legge
Con il termine Legge (Torà) si abbracciano i primi cinque libri della Bibbia (Pentateuco) in cui raccolgono molte norme, mai disgiunte, però, dall’esperienza di Dio e solo in questo contesto. Infatti, Dio nel dare la legge al suo popolo premette : ”Io sono il Signore, tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese Egitto, da una condizione servile” (Dt. 5,6); segue, poi, la legge. La legge, quindi, è conseguente ad un’esperienza di liberazione ed è data per conservare la libertà donata. Quindi essa è dono per la libertà, non catena di schiavitù; non norma imposta dall’alto, ma scaturente da un’esperienza di liberazione, in cui Israele fa esperienza di un Dio liberante che lo eleva al rango di popolo, di sua eredità, costituendolo un popolo di sacerdoti.
Ciò che forma la vita dell’uomo è la risposta dell’uomo alla Rivelazione di Dio che si attua nell’A.T. che si esprime nella Legge (Torà) , norma e racconto; nei profeti che attuano la parola nel presente richiamandola e interpretandola; nei libri sapienziali, come riflessione sul passato.
Significato teologico della legge per Israele
Perché Israele riconosce come rivelazione la Torà (Pentateuco)? Come è avvenuto che la rivelazione diventasse Torà? Ciò è avvenuto attraverso un lento processo durato un millennio, durante il quale si è formata e consolidata la Torà, intesa e vissuta come una raccolta di norme nate dall’esperienza storica di Israele, in particolar modo dall’esperienza del deserto, che va dalla liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto fino all’entrata della Terra Promessa.
Tali norme sono attribuite a Mosè per sottolinearne il valore teologico; teologico non perché provenienti da un’autorità superiore, ma perché in Mosè si riconosce la presenza di Dio, diventando così, egli, il capostipite dei Profeti, intermediari tra Dio e l’uomo, uomini che attualizzano nel presente la parola di Dio.
La Legge, dunque, nasce dall’esperienza di Dio nel deserto, che rimarrà nel popolo per sempre l’esperienza tipo, la madre di tutte le esperienze, e a cui si ricorrerà sempre nei momenti di difficoltà o di crisi. La Legge è pertanto legata all’esperienza di Dio, che è un’esperienza salvifica e liberante, un’esperienza in cui e grazie a cui Israele diventa popolo, eredità di Dio, popolo di sacerdoti. E’, quindi, un’esperienza vitale che sta all’origine dell’esistenza stessa di Israele.
Pertanto, attraverso l’obbedienza della Legge di Mosè, l’israelita si pone nella situazione di deserto e la rivive. L’obbedire, dunque, è una sorta di “far memoria” , quasi una celebrazione liturgica che fa rivivere e attua la salvezza di quel periodo. Obbedire alla Legge, quindi, non è un obbedire ad una norma astratta calata dall’alto, ma ci si riferisce innanzitutto ad una esperienza viva e salvifica, che nuovamente si attua nell’obbedire.
L’obbedienza alla Legge, quindi, è sempre un richiamo al periodo del deserto e diventa quasi una celebrazione liturgica in cui si fa memoria e si attua.
La Legge fa sempre riferimento al deserto come archetipo dell’esperienza di Dio, l’esperienza delle esperienze a cui Israele e i Profeti si richiameranno sempre come un momento particolare di purezza e di autenticità; un periodo in cui Israele stava creandosi la propria identità, quella vera e genuina, e con cui è chiamato sempre a raffrontarsi.
Il tempo del deserto, pertanto, è un tempo particolare, un kairos, a cui Israele farà sempre riferimento. La Legge è sempre legata ad un tempo particolare che è quello del cammino nel deserto, il tempo del fidanzamento con Dio. Un tempo di educazione e formazione in cui la legge diventa un pedagogo per Israele (Torà, infatti, vuol dire insegnamento). Il tempo del deserto è per Israele il tempo della libertà, che viene sperimentata nella prova; per cui la libertà abbisogna della legge che Israele sente come dono e grazia.
Il cammino di Israele nel deserto è essenzialmente un cammino verso la libertà, non intesa solo come assenza di vincoli e di schiavitù, ma come liberazione interiore dalle false divinità, che rendono nuovamente schiavi, e riscoperta della propria creaturalità bisognosa di aiuto e di un punto di riferimento.
Tale cammino nel deserto si articola in tre momenti fondamentali:
- La liberazione dalla schiavitù e la costituzione di Israele come popolo; - La stipulazione dell’Alleanza e il dono della Legge; - L’entrata nella Terra Promessa come attuazione delle promesse di Dio fatte ai Padri.
Momento centrale di questo cammino è l’Alleanza in cui viene donata ad Israele la Legge e in cui Dio per la prima volta nella storia, da dopo la caduta dell’uomo nel Paradiso Terrestre, stabilisce un patto di amicizia, già prefigurato nell’arcobaleno di Noè.
La prima prova a cui Israele fu sottoposto nel deserto fu presso le acque di Mara (Es. 15,22-26). Qui Dio, dopo aver reso dolci quelle acque amare, “… impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova” . L’imposizione della legge, di cui qui si parla, non fa riferimento ai dieci comandamenti che devono essere ancora dati, ma ad una legge che non viene qui citata, ma che si riferisce all’ascolto di Dio. In questo caso imporre la legge equivale ad ascoltare la voce del Signore. Infatti immediatamente dopo la Bibbia prosegue dicendo: “Se tu ascolterai la Voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi …” . Ciò che qui la Bibbia vuole sottolineare sono due aspetti fondamentali:
- L’ascoltare il Signore che parla è per Israele una legge e con ciò viene evidenziata la natura del rapporto che Israele ha instaurato con Dio, una natura squisitamente teologica. - La legge qui data a Israele, cioè l’obbligo di ascoltare il Signore che parla, è strettamente legata ai dei beni che sono essenziali alla vita dell’uomo, come ad es. l’acqua nel deserto, il pane (manna), la carne (uccelli).
Questi beni vitali per l’uomo stanno ad indicare la vita stessa dell’uomo che dipende dalla sua disponibilità all’ascolto del signore che parla. Questa è la legge data: “Se tu ascolterai la voce del Signore…”, da questa dipende la vita di Israele.
Ma che cosa significa tutto ciò? Ricostruiamo un po’ la vicenda.
Appena Israele inizia il suo cammino di libertà nel deserto, sembra che subito gli vengano meno i beni essenziali per la sopravvivenza; che questi, proprio con la libertà, gli siano stati sottratti e che la libertà, quindi, diventi un attentato e un pericolo per la sua vita. Inizia così la mormorazione del popolo : “Allora il popolo mormorò contro Mosé”. E’ la prima mormorazione del popolo libero, che proprio perché prima, diventa l’archetipo delle mormorazioni, delle rivolte del popolo contro Dio; diventa la matrice del peccato d’Israele. Infatti la mormorazione è un atto di aggressività e di sfiducia contro Dio che nasce dal dubbio che Egli possa soddisfare i bisogni primari del suo popolo. Questa è la radice del peccato: lo sfiduciare Dio, il mettere in dubbio il suo amore per noi. Anche nel Paradiso Terrestre il serpente insinua in Eva il dubbio: “Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen.3,4-5). Da qui nasce la rivolta dei nostri progenitori; da qui nasce la ribellione del popolo a Dio.
Quindi, ecco, che la Legge è legata ai beni e alla prova che sfocia nella mormorazione, che esprime il dubbio e la sfiducia verso Dio, che porta alla rivolta contro Dio.
Alle lamentazioni del popolo Dio risponde rendendo dolci le acque, ma insieme dà anche la legge; questo per dire che il dono non è mai assoluto, ma sempre condizionato. Questa però non è l’interpretazione corretta, perché in tal caso Dio verrebbe ad essere un padrone opprimente e non un padre amorevole che dona.
Qui la legge viene messa a fianco del bene perché di questo bene se ne faccia un buon uso, cogliendone il senso più vero e profondo. Un bene che è dato all’uomo non perché se ne appropri e lo consumi egoisticamente, ma perché l’uomo lo sappia usare per la sua crescita spirituale, che è essenzialmente apertura verso Dio e accoglienza nella propria vita, impostando così un corretto rapporto con Dio e con se stesso.
In tal modo l’uomo riconosce questo bene come un segno e un dono di Dio e riconosce implicitamente la propria creaturalità.
Quindi una legge che apre l’accesso ai doni, ne fa comprendere il senso e il significato più vero e profondo apre Israele ad una relazione con Dio; pertanto, accedere al bene-dono per mezzo della legge, significa accedere e aprirsi ad una relazione.
Ed ecco che Israele nel suo peregrinare nel deserto scopre che ciò che lo fa camminare non è la soddisfazione di un bisogno contingente, sia pur esso vitale, ma sempre il mantenersi aperti ad una promessa, che fatta nel passato lo apre al futuro e gli dà forza nel presente.
La Legge, espressione di una relazione, si riferisce alla relazione per eccellenza, cioè all’Alleanza che è il termine ultimo di questo cammino. Un cammino di maturazione e di crescita spirituale al termine del quale la relazione-Alleanza si esprimerà a livelli molto elevati e che già sono preannunciati ai piedi del monte Oreb: “Mosè salì verso Dio e il Signore lo chiamò dal monte, dicendo : <<Questo dirai alla casa di Giacobbe e annuncerai agli Israeliti: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come io vi ho sollevati con ali di aquila e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti.>>” (Es. 19,3-6).
A questa Alleanza, tuttavia, partecipa come attore primo e diretto soltanto Mosè, il popolo, infatti, rimane ai piedi del Sinai. Mosè, mediatore e profeta di Dio in Israele, torna con le tavole della Legge che dona al popolo. Il dono impegna il popolo; da tale impegno nasce un rapporto, nasce una relazione: è l’Alleanza, il patto di amicizia nuovamente stabilito tra Dio e l’uomo dalla caduta di Adamo ed Eva.
Mosè, dunque, scende dal Sinai con le tavole della Legge. Espressione concreta dell’Alleanza: il Decalogo (Es. 22, 1-17) in cui si sviluppa un rapporto di alterità, che è relazione dell’uomo con Dio e dell’uomo con gli altri. Il contesto in cui viene presentata la Legge è l’Alleanza i cui si esplicita un rapporto (Dio-uomo; uomo-uomo) che la Legge, non regola, ma consente, per cui essa non è un intruso che limita il rapporto, bensì lo esalta nella sua più vera dinamica e natura, rendendolo genuino e libero da egoismi e interessi inquinanti. Il Decalogo è, quindi, sono una elencazione di principi che consentono lo svolgersi di un rapporto Dio-uomo e uomo-uomo costruttivo e realizzante l’uomo nel suo essere uomo elevandolo a livelli di spiritualità che gli permettono il rapporto e il dialogo con Dio.
Tutto l’esodo ha il suo vertice sul Sinai, cioè l’Alleanza (Es. 19,3-6), per cui il senso del cammino nel deserto è quello di accedere ad una relazione mediata da Mosè. Mosè scendendo dal Sinai porta con se le Tavole della Legge che diventano il tramite per stabilire la relazione; questo, dunque, il senso della Legge: chi la osserva entra in relazione con Dio e, quindi, l’osservanza diventa relazione e mi consente di rimanere all’interno dell’Alleanza, che forma il contesto in cui opera la Legge.
Il Decalogo nel contesto dell’Alleanza gr. deka logoi; ebr. ‘aseret haddebarim
L’Alleanza viene descritta usando lo schema di alleanza proprio del contesto culturale in cui essa è sorta e si sviluppa in cinque parti:
- Presentazione dei titoli dei contraenti (Titolatura) - Paragrafo storico (Memoria dei benefici concessi) - Dichiarazione di alleanza e clausole (Impegni reciproci) - Citazione dei testi - Conseguenze: benedizioni e maledizioni
Analisi del testo Es. 20,1-17
“Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Sono qui presenti le prime due parti: la titolatura, “Io sono il Signore, tuo Dio” che è strettamente legato ad un’azione storica sperimentata da Israele; è un titolo, quindi, non astratto, ma legato ad una esperienza viva. Per quanto riguarda Israele, il suo titolo è espresso in quel “tuo” che lascia intendere un rapporto precedentemente consolidato e che, come il primo, anch’esso si radica nella medesima esperienza. Ciò che è in causa, qui, è la reciproca identità, in cui Dio e Israele sono parti in causa. L’identità di Dio, qui, si definisce nel rendersi sperimentabile da Israele e nel suo impegno nei suoi confronti: “Io sono il Signore, tuo Dio”
C’è, inoltre, il paragrafo storico, “… che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù”. Esso esprime un credito storico nei confronti di Israele, che serve da giustificazione a quanto verrà dopo. Il Decalogo, quindi, non nasce dall’alto, né viene imposto inopinatamente, ma trova il suo naturale radicamento nell’esperienza storica di un Dio che, autonomamente, decide di liberare un gruppo di schiavi dandogli la dignità di popolo e creandogli una identità in mezzo agli altri popoli.
Ed ecco ora la terza parte: la dichiarazione di alleanza con le clausole: sono le dieci parole (‘aseret haddebarim).
Prima di iniziare l’analisi delle dieci parole, va fatta una precisazione sulle tavole di pietra contenenti le dieci parole. In Esodo 31,18 si parla di “due tavole” per indicare i comandi che riguardano la relazione con Dio (primi tre) e gli altri che riguardano le relazioni tra gli uomini. Tutti i comandi sono espressi in forma negativa, solo due hanno forma positiva: il terzo (“Ricordati del giorno di sabato per santificarlo”) e il quarto (“Onora tuo padre e tua madre”), legati tra loro perché richiamano il rapporto con Dio e con il prossimo. Il punto di contatto tra i due comandi è il verbo “Onora” che viene riferito ai genitori, ma che si attribuisce parimenti a Dio; infatti i genitori, come Dio, vanno onorati, perché, come Dio, essi sono preposti a dare la vita. Terzo e quarto comandamento sono, dunque, il punto di sutura tra le due tavole e stanno ad indicare che esse vanno prese inscindibilmente l’una e l’altra, poiché l’amore e il rispetto nei confronti di Dio va di pari passo con quello del prossimo e sono tra loro collegati. Le due tavole, quindi, mantengono la loro validità e la loro integrità solo nel complessivo rispetto di Dio nel prossimo e del prossimo in Dio. Esse formano un atto unico che esigono un reciproco e inscindibile rispetto.
Primo comando: “Non avrai altri dèi fuori di me”
E’ questo un forte richiamo più che al monoteismo all’enoteismo che costituisce la strada che porterà al monoteismo. E’ dunque un passo precedente a quest’ultimo. Il senso forte di questo comando è che tra i tanti dèi che popolano le religioni il culto va riservato al solo Dio che “ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla condizione di schiavitù” e non agli altri dèi. Per Israele il problema, pertanto, non è capire con quanti dèi si deve relazionare, ma con quale Dio si devo relazionare. Quindi, la questione è capire chi è questo Dio. La questione trova la sua risposta nell’esperienza di liberazione, per cui questo Dio, per Israele, diventa l’Assoluto tra tutti gli altri dèi. E’, quindi, per Israele la prima esperienza di enoteismo, primo passo verso il monoteismo.
Secondo comando : “Non ti farai idolo né immagine alcuna”
Rispetto al precedente, qui si va oltre. Il divieto non riguarda più la pluralità di divinità, sancito dal precedente, bensì le immagini che in qualche modo definiscono, dandole dei contorni storici, la divinità con il rischio di legarsi ad essa, compromettendo la purezza del rapporto con Dio che, invece, è puro spirito, e in purezza di spirito va raggiunto e onorato. Troverà questo aspetto la sua massima evoluzione ed espressione in Gesù, nel dialogo con la Samaritana: “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Gv.4,23). Il non farsi immagini esprime la fatica di Israele a non attaccarsi a qualcosa di sensibile e, quindi, di possederlo. La proibizione dell’immagine porta ad un rapporto più puro e immediato, senza, quindi, la mediazione concreta. Si fa appello, quindi, alla fede che trascende un semplice rapporto mediato. Dio, dunque, vuole distogliere Israele da ogni mediazione storica e materiale e indirizzarlo ad un rapporto diretto.
“Non ti prostrerai davanti a loro e no li servirai”
Il comando qui proclamato è un invito a non lasciarsi nuovamente asservire, a non permettere che questi dèi ti rendano nuovamente schiavo.
Terzo comando : “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo”
Il presente comandamento non ha alcuna connotazione cultuale. Il senso è di salvaguardare il rapporto tra Dio e l’uomo, che è mantenuto in vita da Dio. Si smette di lavorare per poter entrare nel sabato, e il celebrarlo è una professione di fede: il lavoro dell’uomo è conseguente a quello di Dio. Sospendere il lavoro di sabato vuol dire riconoscere che il lavoro di Dio precede quello dell’uomo, considerato una risposta a quello di Dio, suo completamento, sua collaborazione.
I sei giorni, quindi, stanno ad indicare il tempo dell’uomo, il tempo della storia che risulta incompleta e priva di senso se a completarla non c’è il tempo di Dio, che richiama l’ultimo tempo della storia che nel suo finire sfocia nell’eternità di Dio. E’ proprio questo a dare senso e completezza, riscattandolo, al tempo dell’uomo. I sette giorni, formati da un sei + uno, richiamano anche il tempo della storia umana che troverà la sua compiutezza nel tempo eterno di Dio.
La seconda tavola, riguarda i rapporti dell’uomo con se stesso e con gli altri in cui si concretizzano essenzialmente i suoi rapporti con Dio; in altri termini, la correttezza dei rapporti con Dio si riverserà inevitabilmente nei rapporti con gli altri, al punto tale che Giovanni nella sua prima lettera afferma: “Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.” (1Gv. 4,20) e troverà il suo perfezionamento e culmine nella solenne dichiarazione di Gesù : “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40), creando in tal modo una identificazione tra lui e il prossimo, tra Dio e il prossimo.
Il punto di congiunzione e di identificazione tra i doveri verso Dio e verso il prossimo sta proprio nel terzo e quarto comando. Quindi, questi costituiscono il punto di sutura tra la prima e la seconda tavola, la tavola di Dio e quella dell’uomo. Il corretto rapporto con Dio garantisce l’identità dell’uomo e, di conseguenza, l’uomo con se stesso e nel rapporto con gli altri.
Quarto comando: “Onora tuo padre e tua madre”
“Onorare” è il verbo che viene utilizzato anche nei confronti di Dio. Esso, quindi costituisce uno stretto legame tra Dio e i genitori, rivestiti della sua stessa autorità, e chiamati a collaborare con Dio nel generare la vita. In essi, dunque, c’è un’impronta di Dio e il rispettarli si otterrà la stessa ricompensa riservata a chi onora Dio: “… perché si prolunghino i tuoi giorni”. La lunga età, infatti, è un segno di benedizione divina, riservata al giusto che onora Dio. Viene, quindi, imbastito uno stretto collegamento tra Dio e i genitori, che diventano essere, dunque, la sua impronta eterna nel tempo.
Questa seconda tavola, dunque, riguarda i soli rapporti con gli uomini; i comandi, qui, sono semplici e chiari, non sono legati a nessuna specificazione o giustificazione, perché essi sono già giustificati nell’essere stesso dell’uomo e dal suo rapporto vincolante ed essenziale con Dio. Sono comandi che fanno parte della vita stessa, sono la “conditio sine qua non”; sono comandi che mi consentono di dare e ottenere rispetto, di giustificare nell’altro quel diritto che ritrovo in stesso per me stesso.
Quindi ecco il “non uccidere” che salvaguarda la fisicità dell’altro e di me stesso nelle nostre relazioni. Ciò significa che la presenza dell’altro mi impegna in una relazione tale che mi fa responsabile dell’altro e mi spinge alla sua tutela fisica e alla sua integrità.
Il comando, tuttavia, va ben al di là dell’uccisione fisica dell’altro; infatti la sua vita fisica è testimonianza anche della vita fisica che è in me, e la sua offesa è uno sminuire anche me stesso. Bene diceva Hemingway : quando senti suonare la campana non chiederti per chi suona, essa suona anche per te. Diceva, inoltre, una canzone degli anni settanta: “Quando ti dicono uccidi, tu uccidi una parte di te”. Troverà questo comando la sua pienezza e il suo più profondo senso in S.Paolo nella sua lettera ai Galati : “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal. 3,28).
Il non uccidere non riguarda solo la soppressione fisica di una persona, testimone della vita, ma anche in modi che pur lasciandole integra la sua fisicità, tuttavia ne viene menomata la sua dimensione morale, spirituale e psicologica. Anche questo aspetto troverà la sua piena conferma in Gesù : “Avete udito che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. [...] Ma io vi dico: chiunque si adiri con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio.” (Mt.5,21-22).
Quindi, tutto ciò che mira a sopprime o a sminuire la vita in ogni suo aspetto è soggetto al quinto comando.
Dietro la forma negativa del comando, c’è anche tutta l’altra forma positiva: l’altro va tutelato perché esso non è una minaccia, bensì una promessa e una testimonianza di vita e di valori per me; l’altro fa parte del patrimonio dell’umanità e mi appartiene; l’altro fa parte di me; è sacramento di Dio che mi interpella nell’amore.
Tutti gli altri comandamenti seguenti sono dei derivati che completano quell’unico comando “Non uccidere” che viene ora ripreso sotto i suoi vari aspetti e le sue varie forme del “Non commettere adulterio; non rubare; non pronunziare falsa testimonianza contro il tuo prossimo; non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo.”
“Non commettere adulterio” sottolinea la tutela della dignità dell’altro anche negli sviluppi che questa relazione può portare, cioè quella di una nuova vita che in tal caso subirebbe il defraudo di avere una propria vita protetta nella normalità e nella dignità sociale. “Non rubare” anche qui c’è una forma di tutela e di rispetto verso l’altro. Ogni furto, infatti, diventa una diminuzione del patrimonio materiale che può, in certi casi, essere strettamente legato a quello esistenziale e di sussistenza; è, comunque, un violare l’integrità di una persona nel suo senso lato, in quanto ogni persona lega necessariamente il suo vivere anche ad un patrimonio materiale che, in quanto tale, fa parte della sua vita anche psichica, morale e spirituale, sicché una persona defraudata del proprio patrimonio, in tutto o in parte, si sente anche intimamente violata.
“Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo” poiché, emessa davanti ad un tribunale, può anche uccidere, ma può anche togliere dignità e spingere una persona a gesti disperati, togliendole la serenità di vita.
Con tale comando si vuole, inoltre, tutelare anche la dignità e la qualità della parola attraverso la quale io mi relaziono e mi comunico all’altro carpendone, se non corretta, la buona fede e defraudandolo nella sua dignità e intimità.
Va colto, quindi, come del resto ogni altro comandamento, al di là di ciò che esprime la semplice lettura della lettera.
“Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, …”
Il desiderio è un atto che nasce nell’intimo dell’uomo e si formula, poi, nel pensiero. Per gli ebrei, che per propria cultura concepivano tutto al concreto, non esistevano i peccati di pensiero o di sentimento, poiché pensiero e sentimento sono già atti concreti che precedono immediatamente l’atto e a questo sono strettamente legati. Infatti per gli ebrei il pensiero e il sentimento sono già, di per se stessi, degli atti non incarnati.
Il desiderio, quindi, è già un atto concreto, la strada che porta alla sua attualizzazione.
Anche Gesù stesso darà spiegazione di tale comando in questo senso: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico che chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore.” (Mt. 5,27-28) Quindi, anche per Gesù, da buon ebreo, il desiderio è già atto concreto e per ciò stesso condannabile e perseguibile.
Infine, il fatto che tale comando sia posto per ultimo, non significa che esso ha meno valore, ma, al contrario, esso viene messo in rilievo in quanto esso è il riassunto di tutti gli altri.
Tale comando non è un invito a moderare asceticamente i propri desideri, ma è un limite posto a ogni uomo per consentire agli altri di esistere.
Già il tema del desiderio viene trattato in Gn. 3,6 dove si parla del desiderio della conoscenza del bene e del male: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza”. E’ l’albero che permette l’accesso al tutto (del bene e del male) a cui solo Dio può accedere.
Il divieto posto da Dio di non mangiare dell’albero, è il limite posto all’uomo che lo definisce nella sua identità di creatura. Il limite mi fa, quindi, cogliere la mia creaturalità e mi consente di vivermi pienamente solo nell’ambito di tale mia condizione. Pertanto, il limite imposto, ben lungi dall’essere una coartazione dell’uomo, ne esalta la sua peculiarità, gli garantisce l’integrità impedendogli l’autodistruzione. Quindi, moderazione e limite in tutto perché il tutto non uccida l’uomo incapiente. Egli nel suo profondo aspira alla perfezione, all’assoluto e all’infinito, ma è vincolato dalla sua creaturalità che deve essere riconosciuta, pena il suo fallimento. Il divieto, pertanto, in senso generale evidenzia la mia creaturalità, mi fa scoprire l’alterità che come tale va tutelata.
Tale saggezza divina venne espressa anche da Ovidio che bene ha colto in tale espressione la natura profonda dell’uomo e ne ha fatto una spicciola filosofia di vita : Est modus in rebus, sunt certi denique fine, quos ultra citraque nequit consistere rectum”
Il limite, pertanto, modera il desiderio, ne fa riconoscere il confine, mi fa fermare davanti all’altro lasciandogli il suo spazio vitale. Un desiderio violato nel suo limite porta Davide a impossessarsi di Betsabea e lo spinge all’omicidio; così come avvenne per il re Acab nei confronti di Nabot per impossessarsi della sua vigna.
Il desiderio è un motore potente che se non limitato porta l’uomo a non rispettare la propria creaturalità, a non riconoscere l’alterità, perde il confine tra sé e l’altro da sé, si spezza la propria identità e, non ritrovandosi più, si disintegra degenerando nel male.
Il comando è sempre fondato nell’esperienza storica, nell’esperienza di una relazione tra Dio e il popolo; ed è proprio all’interno di questa relazione che nasce l’esperienza morale. La storia, pertanto, diventa una realtà viva perché in essa si svolge la rivelazione che ha come interlocutore Dio e come interloquito l’uomo. In questa rivelazione Dio si dona all’uomo e questi deve rispondere, prendere posizione, deve impegnarsi. Da questa relazione, quindi, nasce la base per la morale.
IL MESSAGGIO MORALE NEL NUOVO TESTAMENTO
Gesù Cristo è il contenuto e la norma della vita morale; cercare, quindi, nel N.T. dei comandamenti per costruirci sopra una vita morale non è adeguato, poiché la rivelazione piena di Dio non si esprime limitatamente a questi comandamenti, ma si manifesta totalmente e in modo definitivo nella persona di Gesù; è proprio lui la norma che impegna l’uomo nella fede. Gesù, infatti, non chiede mai di credere alle sue parole, ma di aderire esistenzialmente alla sua persona che si concretizza nella sequela: “Se vuoi essere perfetto, va, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi” (Mt. 19,21). Inoltre, prima di compiere il miracolo Gesù chiede sempre un atto di fede nella sua persona: “… e incontratolo gli disse:<< Tu credi nel Figlio dell’uomo?>>. Egli rispose:<< E chi è, Signore, perché io creda in lui?>>. Gesù gli disse:<<Colui che parla con te, è proprio lui>>. Ed egli disse :<<Io credo, Signore!>>. E gli si prostrò innanzi. (Gv. 9,35-38).
La morale, quindi, ha come riferimento una persona e la sua storia, l’agire e il pensare di quella persona e la fede in questa persona; è proprio lui la norma che impegna l’uomo nella fede, un lui concreto che impegna concretamente l’uomo nel suo vivere, proprio per questo la morale ha risvolti pratici e concreti. La nostra considerazione morale, pertanto, parte da Gesù-culmine, cioè dal Gesù risorto; un Gesù che è compimento della Legge e pienezza della Rivelazione che diventa un appello alla coscienza dell’uomo.
Il messaggio morale di Gesù traspare dalla persona stessa di Gesù e non solo dalle sue parole. Per messaggi morali non si intendono dei messaggi particolari formulati in frasi. Il messaggio si distingue in tre parti :
- L’Annuncio - L’Insegnamento intorno alla fede - Chiamata alla sequela
Il primo aspetto riguarda l’Annuncio, cioè la proclamazione del Regno di Dio. L’indicativo di salvezza precede sempre l’imperativo etico, cioè l’annuncio di salvezza precede l’impegno, quale risposta alla proposta salvifica.
Ciò che caratterizza l’annuncio di Gesù è il dono del Regno che impegna totalmente l’uomo nella sua vita. Non si tratta, quindi, di vivere delle formule alla cui fine c’è un premio, ma di entrare in una nuova prospettiva di vita.
Ecco, quindi, l’annuncio: “Il tempo è compiuto, il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. 1,15) In questo annuncio vengono scanditi i momenti fondamentali della conversione a cui l’uomo è chiamato: Pienezza del tempo, nel senso che il tempo della misericordia di Dio è arrivato; è il cairoj che si compie secondo il mistero di salvezza nascosto in Dio da sempre. Accadere del Regno, che si attua nella persona e nell’opera di Gesù. Tale accadimento è affermato da Gesù stesso, rivolto ai farisei :”Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto in mezzo a voi il Regno di Dio” (Mt. 12,28). E’ un Regno, quindi, già presente, che porta la liberazione dal male e instaura la Signoria di Dio in mezzo agli uomini. Impegno alla conversione, è la risposta all’accadere del Regno, un accadere che interpella l’uomo e lo spinge a decidersi per Dio, a intraprendere un cammino di preparazione alla venuta di Dio. Tutto è correlato al Tempo.
Ogni indicazione etica è legata all’esperienza e al tempo, quindi, è di tipo storico.
Qui non si è più in attesa di una promessa, ma è un tempo compiuto che spinge all’impegno etico: convertitevi e credete al vangelo, cioè cambiate vita e decidetevi per Dio, poiché la venuta di Gesù comporta anche un giudizio sul mondo: chi non è con me è contro di me. E’, pertanto, una adesione che coinvolge l’uomo nella sua totalità e nell’immediato. Il tempo dell’attesa è finito, infatti, è compiuto.
Fede e conversione, pertanto, sono due facce della stessa medaglia, due strumenti che coinvolgono l’uomo nella sua totalità, una totale adesione esistenziale.
Tra annuncio e risposta non c’è un prima e un dopo, ma una relazione più stretta e immediata: l’annuncio è già un attuarsi e nel suo attuarsi già interpella l’uomo. Infatti, l’annuncio del Regno è fatto da quello che dice e da quello che fa.
Quello che dice: il Regno di Dio è vicino, indica cioè la presenza. Quando parliamo del Regno parliamo solo di un evento, cioè di un dato di fatto che si è compiuto ed è presente e con la sua presenza interpella l’uomo.
Che cosa manca, dunque, perché il Regno sia già qui? Da parte di Dio non manca nulla, ma solo la decisione dell’uomo di aderirvi esistenzialmente. Quindi, solo nella mia decisione di aderire il Regno di Dio si compie e appare.
L’annuncio del Regno domanda sempre una risposta da parte dell’uomo che si esplica nell’esigenza del credere e del convertirsi. È l’annuncio di un Regno che viene indicato come Regno presente, Regno futuro, Regno che sta per venire. Proprio questa diversità di porsi del Regno nei confronti dell’uomo fa comprendere quale rapporto c’è tra il dono della salvezza e l’impegno: una risposta che deve essere adeguata all’apparire del Regno.
Come il Regno ci viene annunciato e come si propone a noi al fine di una sua comprensione e conseguente decisione, lo si evince non solo dalle opere di Gesù, ma anche dalle parabole.
È proprio l’insegnamento per mezzo delle parabole che ci fa comprendere non solo la struttura e la dinamica di questo Regno, ma anche quelle dell’esperienza morale come risposta al Regno che si pone nell’annuncio.
La parabola non si pone solo come insegnamento, ma è innanzitutto un annuncio che rende presente il Regno, invita l’uomo a riflettere e a decidersi per Dio. Essa è uno strumento che viene utilizzato da Gesù per rendere più avvicinabile la realtà del Regno che, per la sua natura trascendentale, sfuggirebbe alla nostra comprensione. Tuttavia essa non ha una funzione didascalica; prova ne è che Gesù chiama a sé i discepoli per spiegare loro le parabole: “Senza parabole non parlava a loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa” (Mc. 4,34). Da ciò si evince che la parabola non era immediatamente coglibile, ma aveva la necessità di essere chiarita per essere pienamente compresa.
Perché allora Gesù parlava in parabole? Perché la parabola era una particolare forma di annuncio che tiene conto di un ascoltatore poco disponibile all’ascolto; pertanto essa è usata per rendere disponibile l’ascoltatore al contenuto del messaggio. La parabola in tal modo non diventa ad essere una spiegazione, una didascalia, bensì un percorso che, stimolando l’attenzione dell’ascoltatore, lo conduce, passo dopo passo, alla comprensione del messaggio che provoca in lui una presa di posizione, cioè si decide di fronte al messaggio annunciato.
La parabola, quindi, cerca di creare un’intesa, un feeling tra Gesù e l’ascoltatore di modo che il messaggio scorra verso l’altro e provochi in lui una decisione. Essa, pertanto, diventa una pedagogia del Regno: l’ascoltatore entra nel percorso, nelle logiche della parabola e in questo ambito viene coinvolto, prende posizione e si decide.
L’annuncio, quindi, diventa comprensibile solo quando io riesco a coinvolgere l’interlocutore e portarlo a prendere posizione. Ciò sta a significare che le parabole sono comprese solo da chi è disposto a prendere posizione di fronte al Regno.
Si torna, quindi, al rapporto tra offerta del Regno di Dio, dono di salvezza e risposta, conversione dell’uomo. Tra le due cose c’è un rapporto molto stretto perché è proprio nell’aprirmi all’annuncio e nel mio conformarmi esistenzialmente ad esso che il Regno appare. Tuttavia non possiamo mai pensare al Regno in termini esteriori o quantitativi, non è, cioè, una situazione esteriore. Che Dio sia presente non lo vediamo nella qualità dei fatti esterni o degli eventi storici, non possiamo fare il computo di quanto sia cresciuto valutando la situazione esterna; non possiamo dire che oggi la situazione è migliore di duemila anni fa dal punto di vista della qualità delle relazioni umane e della situazione sociale. Il Regno non è quantificabile. Come, dunque, possiamo indicarne la presenza.
Il senso del Regno consiste nel fatto che ad ognuno è stata data la possibilità di decidersi e di vivere per Dio dando credito a questo Regno. Esso si esprime nella vita di ognuno che lo ha accolto in sé per mezzo della santità, per cui la presenza di santi, non solo quelli canonizzati, testimonia la presenza del Regno; una presenza che, trascendendoci, non sarebbe diversamente percepibile se non nella testimonianza di un certo stile di vita e attraverso segni concreti di presenza.
La presenza del Regno, dunque, è dentro la decisione di qualcuno che orienta la propria esistenza verso Dio; non è, dunque, un evento esterno, ma non è neppure un fatto intimistico del tipo “Gesù che viene nei nostri cuori”, ma esso si realizza proprio nella decisione dell’uomo, nel suo impegno per Dio, nel suo orientarsi esistenzialmente verso Dio. Questo diventa segno della presenza del Regno.
La presenza del Regno non si vede al di fuori della presenza di qualcuno che si è deciso per il Regno; con ciò non significa che la mia decisione fa accadere il Regno, ma semplicemente ne mette in evidenza la presenza, dato che la mia decisione è sempre conseguente, è sempre una risposta a qualcosa che c’era già prima.
Ogni decisione di una persona avviene nella prospettiva di una realizzazione di sé, per cui se io decidessi di buttare via la mia vita, compio una decisione sbagliata; ma se il mio decidere è in funzione di una mia realizzazione, allora ciò che faccio è bene. Così è sia che la realizzazione del Regno, per cui mi decido, sia già presente, sia che io decida aspettandolo nella promessa di Gesù.
Su tale prospettiva di un Regno già presente di fatto o nella promessa, il mio decidere acquista un senso che trova la sua giustificazione nella promessa che mi anticipa la realtà per cui mi decido.
Ciò che io riconosco nell’annuncio di Gesù è che questo Regno non è detto come futuro, ma come presente, una presenza che è tale sia di fatto che nella promessa che in essa già si attua.
Posto, ora, questo annuncio dobbiamo pensare a come porre la risposta, poiché il discorso morale consiste proprio qui: nel dare la risposta all’annuncio. Non si tratta di mettere in pratica l’annuncio, la quale cosa impoverirebbe la mia risposta e, quindi, l’esperienza morale. C’è una risposta più qualitativa da dare, ed è la decisione che ci impegna in un modo più profondo così che diventa l’unica decisione entro cui noi viviamo la nostra vita.
In tal modo l’interlocutore della parabola diventa parte in causa del messaggio, nel senso che egli non comprenderà il messaggio se no vi prende posizione.
L’opera di Gesù
L’opera di Gesù ha qualità di annuncio e di conseguenza, come per la parabola, solo chi risponde implicandosi in tale opera la comprende.
Ma in che cosa consiste l’opera di Gesù? Essa consiste nel guarire, perdonare e accogliere; un accogliere che è rivolto ai poveri e ai più piccoli.
Gesù viene presentato nel Vangelo come un guaritore. Come va intesa questa azione di Gesù?
I miracoli sono presentati nel Vangelo sempre come segni del Regno, in particolar modo nel Vangelo di Giovanni essi sono qualificati come segni, mentre nei sinottici sono preferibilmente indicati con il termine dun£meij, cioè atti di potenza.
In genere si dà al miracolo una valenza apologetica, cioè un atto dimostrativo della mia potenza e che dimostra chi sono io, quasi un’azione di forza che costringe uno a credere: visto che non ti ho convinto a parole, allora faccio il miracolo.
Non è questo il senso del miracolo.
Esso è innanzitutto un annuncio, un segno della presenza del Regno. E proprio chi presta credito al miracolo ne capisce il senso e vede che il Regno è presente, e nel riconoscerlo presente può, allora, anche leggere il significato della guarigione, che mi attesta la presenza del regno.
Infatti, questi segni sono dati da Gesù solo là dove egli incontra la fede, perché solo nella fede l’interlocutore si mette nella giusta posizione per comprendere il senso del miracolo. Infatti, Marco al cap. 6,5-6a precisa che “… non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità”.
Sembra essere un testo contraddittorio perché afferma di non operare nessun prodigio, mentre, in realtà, opera delle guarigioni che di per sé sono già dei miracoli. Ma perché allora si afferma che Gesù non compì prodigi? Il miracolo, sia esso di guarigione o d’altro, si trasforma in prodigio solo quando si incontra con l’attestazione di fede. E’ questa che trasforma il miracolo in prodigio, cioè gli dà un senso e riesce a cogliere il messaggio contenuto nel miracolo: la presenza del Regno. Altrimenti il miracolo diventa solo un gesto utilitaristico privo di qualsiasi significato.
E’, quindi, proprio, proprio l’incredulità che blocca il senso del miracolo e non permette che questo da semplice miracolo si trasformi in prodigio, cioè un’attestazione della presenza del Regno.
Quindi, la questione che qui viene posta non è tanto la guarigione come miracolo, ma l’attestazione della presenza del Regno che non è resa possibile perché non incontra chi le presta fede, per cui la guarigione perde il suo contenuto di prodigio.
È, dunque, la fede che attiva la potenza di Dio e consente che la presenza del Regno sia manifestata.
In tal senso è significativo quanto Gesù dice alla emoroissa: “Figlia, la tua fede ti ha salvata” (Mc. 5,34); e l capo della sinagoga a cui annunciarono la morte della figlia, Gesù dice: “Non temere, continua solo ad aver fede.” (Mc. 5,36)
Da ciò si deduce che solo dove si incontra la fede si trova il miracolo.
Viene ripetuta, quindi, la stessa struttura dell’annuncio: come l’annuncio del Regno è comprensibile solo là dove qualcuno gli presta credito, così l’annuncio che Gesù compie attraverso la sua opera è sempre visibile là dove qualcuno gli presta credito.
C’è, quindi, bisogno di qualcuno che creda perché l’opera di Gesù, cioè il miracolo, sia riconosciuta come segno del Regno e non una semplice guarigione qualsiasi così come operata da altri guaritori. Quindi, non è l’opera che Gesù compie che attesta che lui è l’unico, ma chi con la propria fede riesce a leggere nella sua opera la presenza del Regno. In altri termini, non esiste il miracolo che converte da solo, se uno non vuol aprirsi; mentre se uno ha disponibilità ad aprirsi, quel segno diventa un segno del Regno. Dipende, quindi, tutto dalla disponibilità interiore dell’interlocutore.
In tal senso, per chi crede ogni evento della vita può diventare segno che attesta la disponibilità di ognuno di noi ad aprirsi al messaggio in esso contenuto.
Infatti, a fronte di ogni evento io posso leggerlo come una casualità del destino; in tal caso il suo vero significato, se ce n’è uno, mi rimane sconosciuto. Oppure posso leggere in esso un messaggio che mi è destinato e che mi si pone lungo il cammino della mia vita. Ad esempio, io esisto: ciò lo posso leggere come una semplice combinazione di eventi, ma, in un’ottica di fede, come espressione di una volontà creatrice che ha pensato a me per attuare su di me il suo disegno, presente in lei fin dall’eternità.
Così è nel porsi davanti a Gesù: per chi gli presta credito il miracolo diventa un segno di presenza del Regno. Quindi, Gesù ha bisogno di qualcuno che gli presti credito perché l’accadere del Regno si renda manifesto.
L’altra opera di Gesù è quella del perdonare. Come per il miracolo di guarigione, anche l’opera del perdonare non è da intendersi semplicemente come una buona azione che Gesù compie. Se così fosse, come per il miracolo inteso semplicemente come un qualcosa di utilitaristico, impoverirebbe l’azione del perdonare di Gesù.
L’opera del perdonare è, dunque, ancora una volta, un annuncio.
Il perdono nell’operare di Gesù trova un senso e un aspetto del tutto nuovi; esso è presentato come esperienza di un intervento gratuito da parte di Dio.
Questo viene significato da Gesù in modo molto forte con il suo sedersi a mensa con i peccatori, quasi una chiamata al banchetto escatologico che egli è venuto ad inaugurare. Il gesto del perdono, quindi, acquista una valenza escatologica e profetica: indica la presenza di Dio in mezzo agli uomini, la sua volontà di recuperare tutti a sé e di riconciliare ogni uomo con Dio.
Il sedersi a mensa con i peccatori, quale gesto profetico, annuncia che il perdono di Dio è accordato in modo gratuito a tutti, senza chiedere a nessuno un cammino ascetico di conversione, come era, invece, inteso dagli scribi e i farisei.
Un modo questo per annunciare a tutti che il Regno di Dio avviene sotto forma di perdono e di riconciliazione. Solo a partire da questa consapevolezza, dal credere a questo intervento di Dio che si qualifica come perdono, come disponibilità incondizionata da parte di Dio, è possibile una risposta che si concretizza in uno stile di vita nuovo, che prescinde da ogni cammino ascetico o, comunque, preparatorio al perdono.
Ancora una volta trova qui l’applicazione della formula: annuncio del Regno, dono di salvezza e risposta esistenziale dell’uomo. Là dove il Regno è annunciato c’è qualcuno che accoglie e solo nell’accoglienza riesco cogliere le qualità del Regno; in altri termini, ho bisogno che un peccatore si converta per capire che il Regno di Dio è perdono e riconciliazione.
Da ciò si evince come il Regno, pur essendo una realtà presente, ha sempre bisogno di testimoni per essere storicamente percepito.
Un esempio di annuncio del Regno, quale dono di salvezza offerto al peccatore, si trova nel racconto di Zaccheo (Lc. 19,1-10) che si conclude con le parole di Gesù: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa”. Ed è proprio in Zaccheo, nella sua decisione di prestar credito alla persona di Gesù, che si manifesta l’accadere del Regno che consiste nella conversione di Zaccheo.
Ecco, così accade la salvezza, un modo nuovo di vivere che, abbandonata la mentalità umana, sposa quella di Dio.
Gesù, quindi, ha bisogno della conversione di Zaccheo per mostrare l’accadere del Regno sotto forma di conversione, perdono e riconciliazione.
L’insegnamento di Gesù
Gesù non solo annuncia il Regno per mezzo del suo operare, ma anche insegna. Quanto fin qui esposto dice l’accadere del Regno, dice che cos’è la risposta senza dilungarsi a spiegarlo nel suo contenuto. La risposta dell’uomo la si può definire come una decisione che coinvolge tutta la sua vita. Come, dunque, si può riconoscere questa decisione che coinvolge la totalità della vita dispiegata nelle sue diverse forme, nel suo svolgersi concreto quotidiano.
E’ proprio l’insegnamento di Gesù che ci dice come il Regno accade nelle diverse forme del vivere quotidiano e di conseguenza come l’impegno deve essere sviluppato nelle diverse forme e situazioni della vita. Ora è proprio la Legge che ha a che fare con queste differenti situazioni della vita; per questo l’insegnamento di Gesù ha come punto di riferimento la Legge e quando si parla di insegnamento di Gesù parliamo di un insegnamento attorno alla Legge.
Quindi riepilogando possiamo dire che la decisione buona si esplicita in fede e conversione che devono a loro volta manifestasi nelle diverse situazioni concrete della vita. Ora, proprio perché queste molteplicità del manifestarsi hanno a che fare con la Legge, l’insegnamento di Gesù verte intorno ad essa.
Una riflessione sull’insegnamento di Gesù intorno alla Legge richiede di situare Gesù nel suo contesto storico-culturale.
Gesù non è un anarchico che se la prende con la Legge, ma, al contrario, è proprio uno dei maestri della Legge.
I Vangeli ci presentano un insegnamento di Gesù fortemente polemico nei confronti di un tipo di insegnamento: quello rabbinico.
C’è contemporaneamente anche un altro insegnamento di Gesù che mira a dire il vero contenuto della Legge.
L’atteggiamento polemico di Gesù nei confronti dei farisei è da comprendere come in parte vera e in parte caricaturale.
La polemica va contro l’interpretazione casistica della Legge che viene insegnata dalla tradizione rabbinica, con particolare riferimento alla halakah.
L’interpretazione rabbinica dell’antico testamento conosce due percorsi: la haggadah, che sono dei racconti illustrativi, delle narrazioni degli eventi salvifici di Israele; e la halakah che altro non è che il commento della Legge e ne definisce in concreto i precetti, 613, che costituivano un punto di riferimento dell’insegnamento che si esplicitava in casistica per dire che cosa va fatto o non fatto in ogni situazione della vita e quindi illustrare in modo preciso ciò che impegna la vita di una persona.
Perché questa polemica contro l’insegnamento dei rabbini?
Ce lo dice Gesù stesso: “Trascurando il comandamento di Dio, voi insegnate la tradizione degli uomini” (Mc. 7,8).
La questione di fondo che viene messa in evidenza è che nella interpretazione rabbinica della Legge si rischia di perdere il vero senso della Legge e il suo collegamento con i comandamenti di Dio, diventando così solo insegnamento di uomini.
Infatti l’interpretazione della Legge da parte dei rabbini più che portare l’uomo a coltivare la propria obbedienza a Dio e mettersi, così, in un giusto rapporto con lui per mezzo della fede, lo spinge, invece, a misurare la qualità e la bontà delle proprie azioni che gli danno la misura della sua correttezza nei confronti di Dio e, quindi, della sua bravura.
Viene perso, in tal modo, il senso più vero della Legge che viene ridotta ad una osservanza formale entro cui valutiamo quanto siamo o non siamo bravi. È evidente che in questa prospettiva viene perso il mio rapporto con Dio e l’esigenza di una mia continua conversione a Lui.
È proprio verso questo modo di comprendere e vivere la Legge che verte la polemica di Gesù.
L’insegnamento intorno alla Legge chiede di prendere in considerazione due aspetti:
- La polemica antifarisaica; - L’atteggiamento propositivo nei confronti della Legge.
L’aspetto propositivo è raccolto in Mt. 5,17-48 , esso incomincia con “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare compimento” e termina con “Siate, dunque, perfetti come è perfetto il Padre mio che è nei cieli”.
Esso è preceduto dalle Beatitudini (Mt. 5,1-12), che sono per Matteo quello che è per Marco l’annuncio del Regno (Mc. 1,15), rivolto ai discepoli che sono chiamati sale della terra e luce del mondo, e in cui si incomincia a vedere la realtà degli uomini dalla parte di Dio e secondo la sua prospettiva. E’ proprio la presenza dell’evento Regno che dà un nuovo senso alle cose e alla storia. Quindi, nell’annuncio del regno e delle Beatitudini si ha l’irrompere nella storia di una nuova prospettiva, una nuova angolatura da cui osservare la storia e le cose degli uomini: quella di Dio e che porterà Paolo, nella sua lettera ai Filippesi ad esclamare: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil. 2,5), cioè rinnegate la vostra mentalità di uomini per assumere quella di Dio.
Il brano in questione (Mt. 5, 17-48) si esprime per antitesi e incomincia con due affermazioni che formano da premessa e da cornice entro cui va, poi, letto tutto il contenuto seguente:
- Gesù non è venuto ad abolire la Legge, ma a darne compimento - Per entrare nel Regno dei cieli bisogna che la giustizia dei discepoli di Gesù sia superiore a quella degli scribi e farisei.
Entrambe hanno a che fare con il Regno e delineano l’atteggiamento di Gesù di fronte alla Legge.
Ma perché Gesù precisa che non è venuto ad abolire la Legge?
L’espressione può ingenerare degli equivoci. Infatti, con quel “Ma io vi dico” Gesù va oltre la Legge e l’andare oltre significa abolirla o, quanto meno, mostrare una pericolosa superiorità a Mosè e alla Legge stessa, che nessuno poteva permettersi di modificare. C’è, quindi, necessità di precisare che Gesù non è venuto ad abolire, né a modificare, ma solo a dare compimento.
Ora cosa significa “compimento”?
Il termine compimento può essere inteso come aggiunta, quasi che alla Legge mancasse qualcosa, per cui Gesù è venuto a completare. Un comportamento del genere sarebbe stato blasfemo, perché agli occhi dei presenti avrebbe posto Gesù al di sopra di Mosè e della Legge stessa. Ma non è questo il senso.
Compimento può essere inteso come interpretazione della Legge, la quale cosa avrebbe posto Gesù alla pari di tutti gli altri Rabbi del tempo, il cui compito, appunto, era di approfondire e interpretare la Legge per poi poterla scodellare al popolo e permettergli di viverla in profondità. Era, quindi, un’azione di studio, ma anche pastorale. Ma ancora una volta non fu questo il senso dato da Gesù.
Compimento, invece, va inteso con riferimento alla persona di Gesù. E’ lui, la sua persona che costituisce compimento della Legge e dei Profeti. In altri termini Gesù viene posto qui come il senso pieno ed ultimo della Legge e dei Profeti. In altri termini, la Legge e i Profeti, quali pedagoghi, hanno condotto il popolo d’Israele fino alla pienezza dei tempi, fino all’incontro con il Verbo incarnato il quale dà senso e pienezza a tutto l’A.T. Infatti, sarà Gesù stesso che per interpretare e spiegare la sua figura e il senso della sua missione ai due discepoli di Emmaus ricorrerà alle Scritture e ai Profeti.
In altri termini, se la Legge e i Profeti avevano il compito di mantenere il popolo nell’ambito dell’Alleanza e di sviluppare dei corretti rapporti con Dio, ora Gesù si qualifica quale profeta escatologico e pienezza della rivelazione, sacramento di incontro pieno e definitivo di Dio con gli uomini. Pertanto, egli è venuto a dare compimento, cioè pienezza alle attese di tutto l’A.T.
La seconda affermazione (“se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e farisei non entrerete nel Regno dei cieli”) parla di un superamento dell’insegnamento degli scribi e farisei. Si parla, quindi, di una giustizia superiore, nel senso di una qualità diversa.
Qual’era, dunque, la giustizia dei farisei?
L’impegno dei farisei era quello di approfondire sempre più la Legge che consente una maggiore comprensione e, quindi, un migliore comportamento più affine alla volontà di Dio espressa, appunto nella Legge, e ciò faceva sentirsi a posto con Dio, ci si sentiva “giusti” davanti a Dio.
Sennonché, il limite di tale giustizia è quello di produrre all’infinito interpretazioni e normative che, per quanto numerose, non arrivavano mai ad esaurire il contenuto della Legge e, invece, gravavano come pesanti fardelli sulle spalle della gente (Mt. 23,4). Una Legge, quindi, che, per quanto interpretata e capita, non arrivava mai a dare la perfezione, era, quindi, una Legge imperfetta, illudendo la gente di sentirsi a posto davanti a Dio e di essere giusta per il solo fatto di osservarla. E sarà questo il senso che Gesù sottolineerà al giovane ricco che gli chiede che cosa deve fare per avere la vita eterna. Gesù gli risponde, dopo averlo invitato ad osservare i comandamenti: “se vuoi essere perfetto”, riconoscendo in tal modo che la Legge era imperfetta.
La superiorità della giustizia, invece, viene realizzata dall’evento del Regno nella persona di Gesù, qualificatasi quale “compimento” della Legge. In altri termini egli è colui che dà un senso nuovo alla Legge stessa, colui che mette nella giusta relazione gli uomini con Dio. La Legge, infatti, proprio perché, come si è visto, è imperfetta non poteva che realizzare un rapporto imperfetto con Dio; in Gesù, invece, compimento della Legge, l’uomo non solo trova il giusto rapporto con Dio, ma entra nella pienezza di tale rapporto e della vita stessa di Dio.
Quindi, non è l’uomo con i suoi sforzi che si rende giusto davanti a Dio, ma è la presenza del Regno in Gesù che lo abilita al giusto rapporto con Dio.
Analisi della struttura del testo
Il brano in esame, Mt. 5,17-48, si compone di sei antitesi che vengono introdotte con quel “mai io vi dico”.
Ci sono due gruppi di antitesi: primarie e secondarie. Le primarie si trovano anche negli altri sinottici; mentre quelle secondarie solo in Mt.
Inoltre, tre antitesi si trovano nel decalogo, mentre altre tre sono interpretazioni di questo.
La prima antitesi è costituita in forma casistica (ma io vi dico che chiunque si adira contro il proprio fratello …, ecc.). Qui Gesù sembra contraddirsi con il suo precedente atteggiamento di critica contro i farisei per il loro proliferare di “casi”. In realtà non è così. Infatti, Gesù non crea dei nuovi casi, ma sono solo indicazioni paradigmatiche per meglio comprendere il senso della Legge. Infatti, l’interpretazione casistica pretende di definire i casi all’interno della Legge, mentre il paradigma è puramente indicativo. Con tale prospettiva paradigmatica, quindi, Gesù non vuole creare altri casi in cui incasellare l’uomo, ma vuole semplicemente raggiungere l’uomo nel suo cuore e riorientarlo a Dio. Pertanto, ciò che conta qui è l’intenzione il cuore dell’uomo che Gesù cerca di raggiungere.
Gesù, pertanto, punta alla vera osservanza della Legge, che è quella dell’Amore che mi apre all’altro.
Le ultime due antitesi (“non opponetevi al malvagio” e “Amate i vostri nemici”) costituiscono una novità assoluta che trascende la Legge stessa. Infatti, la Legge con il suo “occhio per occhio e dente per dente” costituiva un argine al dilagare del male entro cui si può vivere riconciliati. A fronte di una Legge-argine come si pone la novità? Essa consiste proprio qui: nel non arginare il male, ma di vincerlo: amate i vostri nemici e non opponetevi al malvagio. E’, quindi, un qualche cosa che va al di là; questa è la condizione nuova: un cambio di prospettiva: da una giustizia-vendetta (occhio per occhio) alla logica dell’amore in cui viene superato l’argine difensivo e contenitivo per accedere ad un livello superiore di affermazione dell’altro verso cui mi tengo, comunque, aperto.
Si arriva, dunque, alla conclusione: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei cieli”. E’ proprio la presenza del Regno, che è presenza totale, piena e indivisa che interpella l’uomo e gli chiede una risposta altrettanto piena, indivisa e radicale. E’, quindi, la perfezione del Padre che chiede all’uomo una risposta perfetta, cioè totale e piena, che è la risposta adeguata alla presenza del Regno.
Sarà proprio la sequela ad incarnare la radicalità e la totale pienezza della risposta.
LA COSCIENZA
Per trattare il tema della coscienza, si riprende il tema iniziale in cui, dopo una introduzione su che cos’è la Teologia Morale Fondamentale, si è passati a trattare della libertà responsabile, quale presupposto per la riflessione morale. Infatti si parla di morale perché si parla dell’uomo come essere libero e responsabile il cui compito primario è quello di attuare la propria libertà che è sempre, comunque, libertà creaturale che si muove tra la necessità e possibilità, tra infinito e finito. E’ possibile muoversi con successo entro queste direzioni solo quando la libertà è accompagnata da una esperienza di senso e a fronte della disperazione viene offerta la speranza che è animata dal senso a cui la libertà si rivolge.
Dalla libertà responsabile creaturale si è passati alla ermeneutica del messaggio morale biblico, come cioè nella storia di Israele e nel N.T. ci è presentata la rivelazione e come l’uomo a fronte di tale rivelazione risponde. Tale ermeneutica si inserisce proprio là dove la libertà responsabile creaturale pone una domanda di senso: a che cosa è aperta la nostra libertà. La rivelazione, quale dono di salvezza, offre la risposta che dà senso alla nostra libertà.
Fatte queste premesse, si passa ora a considerare le categorie morali fondamentali.
La libertà che coglie il senso offerto dalla rivelazione cristiana e una libertà che fa riferimento essenzialmente alla coscienza in cui cogliamo e ascoltiamo questo senso in ragione del quale possiamo decidere di noi stessi. La libertà, che si fa ascolto, chiama in causa la coscienza, quale voce che chiede di essere ascoltata e capace di dirigere la nostra libertà. Si inserisce, quindi, proprio qui il tema della coscienza, quale sorgente della decisione morale.
La coscienza è proprio la libertà nel momento in cui questa si sente interpellata; così che si potrebbe dire che coscienza e libertà sono dei sinonimi, nel senso che la coscienza è proprio la libertà quando è chiamata in causa ed è posta di fronte ad una scelta che deve operare.
Un altro modo di intendere la coscienza è quella di pensarla in termini funzionali.
Quando si parla in termini di “coscienza e libertà” mi porta a dire che “Io sono” la mia coscienza e mi identifico in essa; mentre parlando in termini funzionali sono portato a dire non tanto “Io sono”, ma “Io ho” una coscienza, cioè sono un soggetto che possiede la coscienza che ha una funzione: quella di esprimere un giudizio, una valutazione sulle mie azioni in termini di bene o male. Funziona, in buona sostanza, come un mio tribunale interiore.
Questi due modi di intendere la coscienza sono tra loro interconnessi, ma l’uno dipende dall’altro, cioè il secondo dal primo. Infatti se io affermo che “Io sono la mia coscienza” posso anche dire, poi, nelle varie situazioni che “la mia coscienza” mi suggerisce di fare o non fare, mi dice ciò che è bene o male creando in tal modo una sorta di sdoppiamento del mio “Io”; è evidente, però, che se manca la prima affermazione “Io sono la mia coscienza” , la seconda diventa incomprensibile, dato che la coscienza non è mai un qualcosa di aggiunto, ma fa parte del mio stesso essere persona.
Questi due modi di intendere la coscienza fanno riferimento a due correnti di pensiero.
La prima concepisce la coscienza come “ontologia trascendentale dell’autocoscienza umana”, in altri termini è la voce interiore che si lascia cogliere attraverso una meditazione o una riflessione introspettiva.
“Ontologia trascendentale” significa riferirsi all’uomo non in quanto coglibile nel suo divenire storico, ma nella sua ricchezza del “suo essere uomo”, che è sempre un qualcosa che va oltre la semplice dimensione storica. Trascendentale fa sempre riferimento ad una realtà che non è immediatamente percepibile nell’ambito di quella storica, per cui uno non è solo quello che dice o fa, ma in lui c’è una realtà più profonda che non è immediatamente coglibile, ed è ciò che costituisce la ricchezza del suo essere persona. Questo è l’aspetto trascendentale dell’uomo.
In tale orizzonte la coscienza viene percepita, quindi, come una capacità dell’uomo di cogliere la propria voce interiore attraverso una riflessione introspettiva, una voce che nasce nel suo intimo più profondo, attraverso cui il trascendente si lascia cogliere nell’immanenza. È un processo, quindi, introspettivo.
In tal senso S.Agostino affermava: “Noli foras ire in te ipsum redii, in interiore homine habitat veritas” Quindi, è proprio nell’intimità dell’uomo che si coglie il senso più vero e profondo delle cose.
La seconda concepisce la coscienza come una voce che mi viene dall’esterno, che mi interpella e mi scuote. È, quindi, un appello che mi viene dall’altro, inteso come prossimo o come Trascendenza.
In questo caso il punto di riferimento non è più l’interiorità dell’uomo in cui egli coglie la propria voce interiore, ma è l’altro/Altro che costituisce per me l’appello , in quanto valore in sé che mi si pone di fronte e che mi raggiunge dall’esterno e mi interpella.
Il punto di partenza di questo appello lanciatomi dall’altro/Altro, ancor prima di essere la legge naturale, è il Comandamento di Dio che diventa un appello per me. Il Comandamento di Dio non va inteso come un ordine impartito da Dio a cui io devo obbedire, ma esso è, innanzitutto, la sua presenza che in quanto tale mi interpella e diventa per me appello e si traduce in una esperienza credente.
Elementi dalla storia della dottrina cristiana
Due sono i nomi di riferimento: Agostino (V sec.) e Tommaso (XII sec.)
In Agostino troviamo forte il tema della interiorità dell’uomo all’interno della quale troviamo la sua autenticità; ed è proprio all’interno di questa interiorità che Dio si fa cogliere e ascoltare. Il tema della voce di Dio e della coscienza dell’uomo compare per la prima volta in S.Agostino che nelle sue Confessioni racconta il suo cammino interiore verso Dio, quale dialogo intimistico con Dio e in cui scopre un Dio che lo interpella e lo chiama.
Significativa in tal senso è la sua affermazione: “Noli foras ire in te ipsum redii, in interiore homine habitat veritas”.
Con S.Tommaso siamo in piena scolastica e ci viene offerto, per la prima volta, un pensiero teologico in una forma scientifica.
Nelle sue considerazioni sulla coscienza S.Tommaso parte da una posizione più oggettivistica, nel senso che la realtà che ci sta di fronte la possiamo conoscere e descriverla; cosa che, invece, il pensiero moderno metterà in crisi.
Tommaso pensa alla coscienza all’interno della relazione tra la “synderesis”, cioè la capacità connaturale all’uomo di conoscere in modo certo i principi morali, e la “conscientia”, intesa come la coscienza calata nella specifica situazione. Essa, quindi, è la facoltà che applica nelle singole situazioni i principi dell’agire morale. Pertanto, si avrà che mentre la synderesis esprime la capacità innata nell’uomo di conoscere i principi dell’agire morale, la conscientia esprime la capacità dell’uomo di applicare nelle singole situazioni tali principi morali. Va precisato, tuttavia, che proprio perché le situazioni contingenti sono mutevoli, la conscientia non gode dell’infallibilità della synderesis, poiché, considerata la contingenza entro cui si muove, può giungere ad una valutazione non sempre precisa.
Continua S.Tommaso affermando che la coscienza produce un “sapere che razionale pratico”; la pensa, quindi, in termini di sillogismo pratico che denota un certo intellettualismo, cioè poiché l’uomo “sa che cosa è bene”, proprio perché lo sa può anche viverlo; quindi l’intelligenza precede e fonda la volontà. Da qui ne nasce che la coscienza è la capacità di conoscere che cosa è bene e male, una conoscenza di tipo pratico, nel senso che se l’uomo sa che cosa è bene o male deve anche adeguarsi di conseguenza. Quindi, la coscienza non è solo conoscenza, ma ha a che fare anche con la decisione; pertanto, è un conoscere in funzione di un decidere che deve essere a senso unico: verso il bene percepito.
Un altro aspetto della dottrina morale cristiana è la “casistica” (XVI-XVIII sec. e in buona parte anche ai nostri giorni).
Con la casistica la teologia morale non è più impegnata a riflettere sull’agire dell’uomo e sulle sue motivazioni, ma semplicemente su che cosa l’uomo deve fare non fare per non commettere il peccato mortale o veniale. Si sviluppa, quindi, una serie di casi su cui si dibatte della liceità dell’azione, studiando i confini tra il peccato veniale e quello del mortale. L’agire dell’uomo, pertanto, viene scomposto in tanti casi su cui si emette a priori una valutazione morale.
In tale contesto la coscienza viene ridotta ad una mera applicazione della norma, impoverendo il suo ruolo essenziale di fornire gli elementi e i valori fondamentali per l’orientamento della propria esistenza e su cui si impernieranno tutte le scelte del quotidiano.
Quale contemporaneo di Tommaso, Abelardo reagisce alla posizione tradizionale classica rappresentata da Bonaventura secondo cui la Legge costituiva il parametro di raffronto insostituibile per la valutazione morale, nel senso che veniva imputato l’errore anche a chi violava la legge, pur convinto in coscienza di far giusto.
Contro tale concezione morale oggettivistica che prescindeva dalle convinzioni di coscienza personali, Abelardo afferma, invece, la preminenza delle convinzioni personali, soggettivistiche, indipendentemente da ciò che dice la legge. Quindi si passa da una concezione oggettivistica di coscienza ad una squisitamente soggettivistica.
Tommaso presenta una posizione di equilibrio tra le due posizioni.
La concezione moderna della coscienza
Il pensiero moderno dà una svolta a questo modo di pensare la morale spostando la sua attenzione dall’agire dell’uomo, scomposto in mille casi moralmente già preconfezionati, sul soggetto.
Rappresentanti di questo filone di pensiero sono Cartesio e Kant.
Il punto di partenza, pertanto, è il soggetto che è autocosciente (Cogito, ergo sum). Nell’età moderna, dunque, l’uomo con la sua soggettività è riportato al centro dell’attenzione ed è rivalutato come soggetto pensante, capace di scelte determinate proprio dalla sua soggettività, dalla sua storia e condizionate dal contesto storico culturale in cui è chiamato a vivere. Pertanto, l’agire dell’uomo non è più scollegato dalla sua soggettività e dall’ambiente entro cui l’agire i quali l’agire si produce, ma viene riferito ad essi.
In questo ambito la coscienza viene concepita come riflessione su di sé, presa di coscienza del proprio Io come individualità.
Dalla coscienza del proprio Io si passa rapidamente a formulare il concetto di autonomia, quale punto di riferimento che mette in risalto la dignità della coscienza dell’uomo. Pertanto ogni esperienza morale che fa riferimento ad una istanza esterna, eteronoma, non dà ragione della dignità della persona umana; mentre ciò che costituisce l’istanza morale è proprio l’autonomia della persona; l’imposizione, quindi, non viene da fuori, ma è l’uomo stesso che si decide per un determinato agire.
Nell’ambito del pensiero che determina una svolta al soggetto e il nascere dell’autocoscienza, si sviluppa un pensiero critico della coscienza stessa (Marx, Freud, Nietzsche).
Marx afferma che non è la coscienza che determina l’essere dell’uomo, ma è proprio l’essere dell’uomo che determina la coscienza e ciò che costituisce l’essere dell’uomo sono l’intreccio dei suoi rapporti sociali che sono rapporti di produzione. Ciò che l’uomo conosce come bene, lo traduce, poi, in rapporti sociali e sono i rapporti di produzione che determinano le formulazioni della coscienza.
Con Freud si ha un’analisi della coscienza che concepisce non come un qualcosa che l’uomo ha innato, ma essa è soltanto introspezione e dettami prodotti dai rapporti sociali e, in particola modo, parentali. Coscienza, quindi, come introiezione delle norme del Super Ego. La coscienza, pertanto, non è un qualcosa che fa riferimento al valore dell’uomo, ma è solo rapporti sociali introiettati e condensati nel Super Ego. Afferma Freud che se non ci fosse la coscienza noi cadremmo nella barbarie; pertanto in Freud la coscienza trova una funzione sociale; ma riducendola a funzione sociale, la coscienza perde la sua assolutezza, divenendo una funzione socialmente utile in quanto che l’introiezione di queste norme permette una convivenza pacifica e ordinata.
Per Nietzsche la formulazione della coscienza nasce dal pensiero platonico, prima, e cristiano, poi; pensiero che ha impedito l’espressione dell’uomo autentico, della sua volontà di potenza che, invece, è il costitutivo dell’uomo. Volontà di potenza non come volontà di imporsi sugli altri, ma come volontà di vita. La coscienza serve solo ai deboli per ottenere quello che la volontà di potenza ottiene con il solo suo imporsi. In tal modo, secondo il Nietzsche, il debole utilizzando la coscienza ha sempre avuto modo di prevalere, riducendo tutto a istanze di valore, di bene e di male, mentre l’uomo nietzschiano si pone al di là del bene e del male, quindi, privo di ogni istanza morale se non quale unica regola l’affermazione della propria volontà di potenza che si concretizza nel super uomo.
Teologia della coscienza morale Indicazioni del Vaticano II
Quando si parla di teologia morale il paragrafo n.16 della G.S. costituisce un importante punto di riferimento. Tale testo lascia trasparire in modo forte una comprensione di coscienza che fa riferimento all’aspetto fondamentale e non semplicemente funzionale, limitantesi ad applicare all’agire umano una legge esterna.
“Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi […] L’uomo ha, in realtà, una legge scritta da Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato” Un concetto questo che viene riportato anche nella Dignitatis Humanae, riguardante la libertà religiosa. Infatti la libertà religiosa lo si può capire proprio partendo dalla dignità e libertà della coscienza intesa come capacità che l’uomo ha di aprirsi interiormente alla verità. Una verità che l’uomo non si crea poiché essa è “Legge scritta da Dio” e, quindi, non è arbitraria e lasciata alla libera inventiva dell’uomo; infatti, si sottolinea che questa legge “si scopre”, lasciando intendere chiaramente che essa esiste già. Chi la scopre è appunto la coscienza, cioè l’interiorità dell’uomo, quale punto di contatto tra l’essere umano e Dio.
Parlare di coscienza, pertanto, non significa parlare di una istanza soggettivistica aperta alla arbitrarietà, ma di una predisposizione connaturale all’uomo di aprirsi a questo incontro con Dio che si attua nell’intimo segreto di sé.
Questa Legge, pertanto, in quanto connaturale, viene data all’uomo indipendentemente dalla sua predisposizione ad accoglierla, dal suo aprirsi o meno alla Verità. Essa, comunque, è data perché in essa è racchiusa la chiave fondamentale della realizzazione stessa dell’uomo; potremmo dire quasi un codice genetico in cui è già scritto il cammino che lo conduce alla sua realizzazione.
Pertanto, la Verità o Legge di Dio si attua nella misura in cui chi la scopre in sé, si apre anche ad essa. Ciò implica un concetto di relazione tra Verità e Uomo, tra Legge di Dio e Uomo. Essa non viene vanificata nella misura in cui l’uomo si rende disponibile ad entrare in relazione con essa e, quindi, ad aprirsi.
Una Legge che non si impone dal di fuori, ma che interpella l’uomo nel suo interiore ed è proprio di questo interiore, di questa coscienza scoprirla e attuarla. Questo è ciò che dà dignità all’uomo, una dignità che non è quantificabile come lo può essere l’intelligenza. La dignità c’è o non c’è, non c’è possibilità di graduare. Ogni persona è dotata totalmente di dignità e in questa risiede la sua capacità di scoprire tale Legge; tale Legge appare evidente nella nostra storia perché c’è qualcuno che vi si apre e la attua nella propria vita.
Prosegue il testo: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria.”
La coscienza è il nucleo più segreto della persona e coincide con la persona stessa, nel senso che la persona è coscienza.
Pertanto, posta questa identificazione tra coscienza e persona, si pone una base universale di dialogo con tutti gli uomini.
Prosegue, infatti, il testo: “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità tanti problemi morali, che sorgono tanto nella vita dei singoli quanto in quella sociale”.
Infatti, la coscienza nasce ed è la comprensione che io ho di me stesso e che mi fa capire che io non mi sono fatto da solo, ma c’è un altro/Altro da me a cui io mi rapporto e mi fa da riferimento ultimo. In questa dinamica relazionale si inserisce la Legge morale naturale o meglio connaturata all’uomo, che, proprio perché tale, non mi chiede una scelta di fede, ma fa parte del mio patrimonio personale e, in quanto tale, mi chiede solo di riconoscerla e di accettarla.
Proprio per questo, proprio, cioè, perché naturale, o meglio, connaturata a tutti gli uomini mi apre al dialogo con tutti gli uomini, in particolare a quelli di buona volontà, perché in tutti è presente e tutti ne sono interpellati.
E ancora: “Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia, succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità retta”
La coscienza retta o invincibilmente erronea ha a che fare con l’esperienza, in quanto a questo livello si attiva non solo la coscienza più profonda e fondamentale, ma anche quella funzionale, finalizzata, cioè, alla valutazione dell’agire e che Tommaso chiama conscientia.
Quando si parla di coscienza retta significa che essa conosce quel che deve fare e lo conosce in modo ben chiaro e distinto e si traduce, pertanto, in modo normativo: fai il bene; fuggi il male. In tal caso si parla anche di coscienza certa perché è una coscienza che sa che cosa si deve o non si deve fare. Qui si fa riferimento ad una dimensione più soggettiva e personale, cioè ad una coscienza che non solo conosce la Legge, ma sa anche come comportarsi o non comportarsi, sfociando, in tal caso, in una situazione di perplessità e incertezza.
La coscienza invincibilmente erronea è il contrario di quella retta o certa.
La coscienza erronea è quella che non sa che determinate cose sono male, per cui, di conseguenza, si vivono certe situazioni errate, ma che non sono percepite come tali.
Invincibilmente erronea va intesa nel senso che non è consentito alla coscienza di sapere che la situazione che vive è erronea; in questo caso essa è impossibilitata a conoscere che tale situazione è erronea. Tuttavia, anche se inconsapevolmente erronea, la coscienza può essere comunque colpevole qualora la sua ignoranza sia voluta o dovuta a colpevole negligenza. In tal caso si parla di ignoranza colpevole.
Comunque, qualunque sia la posizione in cui la coscienza viene a trovarsi, essa rimane sempre un valore fondamentale per l’uomo.
L’opzione fondamentale
La coscienza morale è il luogo della decisione morale che mi indirizza nelle scelte che si traducono in agire e, quindi, in esperienze morali.
Tuttavia, l’esperienza morale, concepita come un insieme di tante piccole esperienze morali, dà una visione frantumata e distorta della vera esperienza morale, sottesa dalla vera scelta morale che, proprio perché tale, è fondamentale.
In questa scelta o opzione fondamentale l’agire morale, benché scomposto in mille piccole scelte ed azioni, trova qui la sua unità di fondo. In tal modo tutte le mie azioni e, ancor prima, tutte le mie scelte sono sostanziate e assumono il colore da questa mia scelta di fondo che si concretizza in un orientamento esistenziale.
Ma da dove è nato il concetto di opzione fondamentale? Da una questione di tipo teologico: come si po’ dire che anche un non battezzato si può salvare? Su questa questione è sorta l’opzione fondamentale: il non battezzato aprendosi al bene verso se stesso e gli altri compie un’opzione fondamentale, orientando la sua vita, in questo caso, al bene.
Quindi questa apertura di fondo caratterizza la vita di una persona e traspare in ogni scelta ed azione che si compie. Si è detto sopra che ogni conoscenza presuppone sempre una pre-comprensione che mi inserisce nella conoscenza. Ciò riguarda anche la decisione, nel senso che quando io decido sono già orientato non tanto sul che cosa farò, ma sul senso da dare a quello che farò. Si può, dunque, parlare di una pre-decisione con cui entro nelle situazioni concrete.
Con l’opzione fondamentale, dunque, indico il livello più profondo di ogni persona e di ogni sua scelta.
L’opzione fondamentale, dunque, è un orientamento esistenziale che sostanzia le mie singole azioni che possono far apparire, ma anche contraddire l’Opzione fondamentale.
Cosa si intende per Opzione fondamentale
Il concetto di opzione fondamentale abbraccia l’uomo nella sua totalità e getta necessariamente la sua luce su altri aspetti della vita morale, dando loro un significato nuovo. Non si può, quindi, parlare di opzione fondamentale trascurando di parlare di coscienza, da cui l’O.F., di peccato e di conversione che vanno ricompresi alla luce dell’O.F.
La coscienza
La Gaudium et Spes, al punto 16, sottolinea come nel proprio intimo l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma a cui è spinto ad obbedire e che gli dice di amare, di fuggire il male e di fare il bene. Questa è la voce della coscienza, intesa quale nucleo più segreto, quale sacrario dell’uomo dove egli si trova solo con Dio in un intimo colloquio.
S.Agostino nelle sue Confessioni affermava: “Noli foras ire, in te ipsum redii, in interiore hominis habitat veritas”
Ed è proprio qui che si aggancia il concetto di Coscienza fondamentale, da cui, poi, nasce l’O.F., quale risposta esistenziale alla Veritas scoperta nel proprio intimo.
Ma in che cosa consiste questa Veritas?
Per noi cristiani è il Dio che si è fatto carne, è morto e risorto per noi uomini, e ha inviato su di noi il suo Spirito.
Con la sua morte è morto il vecchio mondo adamitico, corrotto dal peccato; con la sua risurrezione ha operato una nuova creazione, un nuovo Adamo, da cui discende una nuova umanità.
In lui risorto sono stati anticipati i cieli nuovi e la terra nuova in cui noi siamo già viventi, anche se non ancora pienamente.
Di queste nuove realtà anticipate in Cristo e che già vivono in noi, noi dobbiamo dare testimonianza. E ciò che Paolo chiama la vita nello Spirito e secondo lo Spirito.
Questa è la Veritas che costituisce la nostra coscienza fondamentale, coscienza che è un contenitore di verità che illumina la nostra esistenza e ci spinge a conformare la nostra esistenza a questa Veritas.
Ed è proprio a tal punto che nasce la risposta esistenziale, cioè la decisione di incarnare nella mia vita questa Veritas e di conformare la mia vita ad essa.
Da qui nasce l’Opzione Fondamentale.
Che cos’è, dunque, questa O.F.? Da dove nasce? Essa nasce dalla scoperta di questa Veritas, dalla consapevolezza di esserne parte così da diventarne una risposta che mi coinvolge esistenzialmente fin nel mio più profondo essere e si manifesta nel concreto in tutte le mie azioni quotidiane, piccole o grandi che siano.
È, dunque, un orientamento esistenziale verso Dio e che tende ad attuarsi in ogni in ogni mia scelta particolare, così che queste mie scelte, ben lungi dall’essere una serie di azioni frammentate mosse dalla occasionalità e dall’interesse del momento, hanno tutte un leit-motiv, un motivo conduttore unico. Da esse si rileva uno stile di vita da cui, come in filigrana, traspare quella Veritas che anima e costituisce la mia scelta di fondo a cui vanno ricondotte e in cui si radicano tutte le mie scelte periferiche.
Essa da il “La” alla mia vita e a tutte le mie scelte.
Questa O.F. non va intesa come un semplice atto intellettuale che fatto una volta non si fa più.
Anzi, al contrario, l’O.F. presuppone un lungo cammino di maturazione interiore, umano e spirituale.
Comporta, inizialmente, la scoperta di valori che devo sentire come valori per me; comporta una comprensione approfondita di questa Veritas e di tutte le sue conseguenze e implicazioni per me.
Da qui una lenta e graduale maturazione interiore che sfocerà in una decisione radicale per Dio, in un orientamento esistenziale verso di Lui.
Essa, pertanto, è costituita da una sedimentazione profonda di valori cristiani che, come in una osmosi spirituale, permeano ogni fibra del mio essere così che, come dice Paolo nella lettera ai Galati, “Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me” (Gal. 2,20)
Tuttavia, questa O.F., una volta acquisita, non è garantita per sempre, ma bisogna alimentarla, manutenderla attraverso un costante rapporto con la Parola di Dio, con i sacramenti, la preghiera e lo studio. È proprio in questo continuo lavorio interiore che essa rimane viva, si alimenta e si rinforza.
Il Peccato
Nell’ambito dell’O.F., per fragilità umana, si possono anche operare scelte, compiere azioni che sono contrarie alla mia O.F. Queste sono scelte, azioni sbagliate. Si apre, dunque, il problema di peccato e quanto esso può incidere negativamente sull’O.F. fino ad ucciderla.
Che cos’è, dunque, il peccato? Nella teologia morale tradizionale lo si è sempre inteso come una violazione, più o meno grave, alla Legge di Dio. Una definizione questa che, seppur vera, sa molto di legalismo e non coglie pienamente la devastazione spirituale e morale che il peccato compie nella vita dell’uomo; certamente non è condivisibile nell’ottica dell’O.F.
Il termine peccato è espresso in greco con la parola ¢mart£nw che tra i vari significati, tutti simili, dice anche “devio”, “sbaglio strada”, “devio dal giusto, dal vero”.
Si parla, dunque, di una deviazione, di un allontanamento da ciò che è giusto e vero.
Esso, pertanto, va concepito come un orientamento esistenziale sbagliato che va ad intaccare l’intima interiorità dell’uomo e ne corrompe tutte le espressioni, comprese quelle buone.
Pertanto, quando qui si parla di peccato, non si parla delle singole azioni, che possono essere oggettivamente e intrinsecamente cattive, ma che non necessariamente vanno ad intaccare l’O.F., che, come abbiamo visto, è una profonda sedimentazione di valori che si è formata nel corso di un lungo cammino spirituale. Esso va piuttosto recepito come espressione della fragilità umana, ma non è tale da intaccare quello che è il mio consolidato orientamento esistenziale.
Quando qui si parla di peccato, si intende uno stato di vita deviato che va ad intaccare e corrompere ogni espressione di vita dell’uomo, anche le sue buone azioni, che diventano una ipocrisia esistenziale, perché non esprimono la vera condizione spirituale di chi le compie.
Infatti, per Giovanni come per Paolo, non esistono i peccati, ma il peccato, come sinonimo di ingiustizia che ci mette in una condizione esistenziale sbagliata nei confronti di Dio. È uno stato di vita da cui nascono gli atti peccaminosi e che ci pone contro Dio.
Quindi, il peccato, ben lungi dall’essere una semplice violazione della Legge, è essenzialmente un porre la propria vita al di fuori di Dio e del suo mondo, un rifiutare la relazione di un Dio che si propone all’uomo e lo invita a far parte del suo mondo.
Distinzione tra peccato mortale e veniale
Tale distinzione è strettamente legata ad un problema pratico: per il peccato mortale ci vuole la confessione, per quello veniale no.
Il peccato mortale è uno stato di vita rivoltato contro Dio e segna la rottura del rapporto con Lui. Con il peccato mortale si attua una vera inversione di marcia: da verso Dio a verso le creature. Sotto ci sta un mutamento di O.F.
Il peccato veniale è un peccato impropriamente detto tale, poiché esso non comporta un cambiamento di rotta, ma è solamente espressione di fragilità e che, comunque, non va ad intaccare la decisione fondamentale.
Criteri di valutazione
La teologia tradizionale offre tre criteri di valutazione:
- Materia grave; - Piena avvertenza; - Deliberato consenso.
La gravità è sempre in rapporto alla persona e la coinvolge nella sua totalità. Va detto, inoltre, che la gravità della materia può orientarmi nella valutazione morale, ma essa non è mai determinante per stabilire la certezza della gravità della colpa. Infatti esiste sempre un livello opzionale fondamentale da valutare che, comunque, non può mai essere mutato da una semplice azione per quanto grave essa sia.
In altri termini, bisogna vedere quanto quell’azione rispecchia il senso e l’orientamento della mia vita.
In tal senso, anche il peccato veniale, preso come abitudine, può cambiare il mio atteggiamento di fondo.
Bisogna comunque vedere quanto quell’azione o quelle azioni rispecchiano o esprimono la mia vita, per cui anche una semplice azione può assumere un aspetto di gravità; mentre un’azione buona può perdere totalmente di senso ed efficacia se non è espressione di un certo orientamento esistenziale che la sostanzia.
La Conversione
Essa è l’inverso dell’¢mart…a: qui c’è una deviazione esistenziale che si pone contro Dio; là, invece, un riorientamento esistenziale e si esprime esistenzialmente in ciò che gli è contrario: la fede, come un mio decidermi esistenzialmente per Dio.
La conversione, tuttavia, non è mai una decisione dell’uomo, ma un dono di Dio. In tal senso Geremia affermava: “Fammi tornare, Signore, e io ritornerò” (Ger. 31,18)
In questo ambito, Cristo diventa ad essere la mia pace, il sacramento di incontro e riconciliazione con Dio.
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