Lo stile di vita del credente:
vigilante nell'attesa,
attivo nel bene


Le dieci vergini” e “I talenti”

Commento a Mt 25,1-30



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Introduzione

Le due parabole, sulle quali svilupperemo la nostra riflessione, fanno parte del quinto e ultimo grande discorso di Gesù1, che occupa per intero i capp.24 e 25. Esso è una sorta di testamento spirituale, sotto forma di parenesi, lasciato alle comunità post-pasquali, che dovevano proseguire il loro cammino nella storia, ora, senza la presenza tangibile di Gesù. Anche se il linguaggio escatologico ed apocalittico sembra voler predire la catastrofica fine del mondo, non bisogna lasciarsi trarre in inganno. Matteo non è Nostradamus, non è una Cassandra, ma un pastore d'anime e un teologo, che sta parlando alle sue comunità, che si trovavano in un contesto storico particolarmente difficile2 e molto instabile sia politicamente che socialmente3, a cui allude con il cap.24. La finalità primaria dei due capitoli, pertanto, è quella di sollecitare all'interno delle comunità credenti lo stato di attenzione e di vigilanza, senza lasciarsi distrarre o travolgere da situazioni difficili, cercando di mantenersi saldi nella fede, nell'attesa della venuta di Gesù, che era sentita imminente. Il cap.24, infatti, forma da prologo e da premessa a quello che è il tema principale dei capp.24-25, enunciato al v. 24,42: “Vigilate, dunque, perché non sapete in quale giorno viene il Signore vostro”. Il tono dell'intero cap.24 è parenetico e didascalico. Infatti, ricorrono sovente espressioni come “Fate attenzione”, “Badate”, “non credeteci”, “ve l'ho preannunciato”, “imparate”, “quando vedrete”, “la sua venuta è come la folgore”, “quanto a quel giorno e ora nessuno sa”, “vigilate”, “siate pronti”. Questi pressanti solleciti, variamente sparsi all'interno di enunciazioni di guerre (vv.24,6-8), di persecuzioni (vv.24,9-13), di devastazioni e dissacrazioni (vv.24,15-22), che molto probabilmente si rifacevano ad eventi reali, di recente passato. Si pensi alle alle devastazioni/dissacrazioni, avvenute con la sanguinosissima guerra giudaica, di cui abbiamo testimonianza nell'omonima opera di Giuseppe Flavio; si pensi ancora alle persecuzioni nate dai conflitti con il giudaismo, destinati a creare un forte clima di tensione all'interno delle prime comunità credenti, compattandole tra loro, stimolandole a dare con forza la loro testimonianza di fede. Un assaggio di questo clima difficile per i nuovi credenti ci viene dalla Prima Lettera di Pietro: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che i vostri fratelli sparsi per il mondo subiscono le stesse vostre sofferenze” (1Pt 5,8-9).

In questo duro e difficile contesto di scontro, in cui si sollecita un'attenta vigilanza, vengono inserite le due parabole, rivolte indistintamente a tutti i nuovi credenti e precedute da un paterno sollecito (24,45-51), che l'evangelista riserva in via esclusiva ai suoi collaboratori e ai suoi corresponsabili nella gestione delle comunità, affinché veglino su di esse con cura e attenzione: “Chi è, dunque, quel servo fedele e saggio, che il padrone ha posto sopra i suoi servi, con il compito di dare loro cibo nel tempo opportuno?” (24,45). Versetto quest'ultimo che funge da intestazione della pericope 24,45-51, indicandone i destinatari.

Le due parabole, pertanto, sono finalizzate a sollecitare la vigilanza nell'attesa della venuta del Signore, anche se questa sembra tardare (Le dieci vergini); mentre la seconda (I talenti) dice come deve essere questa attesa: solerte e impegnata nel far fruttificare il bene. La prima, dunque, trova il suo completamento nella seconda.


La parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-13)


Racconto veramente starno questo di Matteo. Un racconto che non è né carne né pesce. Non sembra essere una vera e propria parabola, ma si avvicina molto di più ad una allegoria4, anche se non ne possiede pienamente il titolo, nella quale l'autore trasfonde in modo simbolico la realtà della sua comunità, a cui si sta rivolgendo. I personaggi si muovono sullo sfondo di un corteo nuziale5, ma in realtà non sembrano aver nulla a che fare con questo e si relazionano tra loro in modo anomalo. Non c'è la sposa6, di cui le dieci fanciulle dovrebbero formare il corteo nuziale, ma stranamente sono proprio queste amiche della sposa, che hanno a che fare direttamente con lo sposo. Sembrano queste ad aspettarlo e non la sposa. Strano poi che lo sposo venga annunciato anziché dal corteo festoso degli amici, danzanti e cantanti inni sponsali, da una voce anonima, molto minacciosa, che irrompe d'improvviso nella notte, in modo del tutto anomalo. Non si capisce, poi, perché lo sposo giunga in piena notte ed entri subito in conflitto con le amiche della sposa, che nulla hanno a che vedere e a che fare con lui. Il suo apparire, poi, più che un festoso e gioioso evento sembra l'irrompere di un giudice tutto solitario, che crea sconquasso tra le amiche della sposa. Dall'insieme, è evidente che l'autore si è servito dello sfondo nuziale, che tale non è, soltanto per lanciare il suo messaggio alla sua comunità.

Due sono i punti cruciali di questo racconto: l'olio e il ritardo dello sposo. Tutta la parabola gira attorno a questi due elementi, che producono tra le dieci fanciulle un duplice comportamento, che le contrapporrà e sarà causa di due destini divergenti. Ci sono, come si vede, elementi parabolici, ma anche allegorici. È un racconto, che si lega strettamente a quello precedente (24,45-51) e si muove, di fatto, sullo stesso binario, benché diversi siano i destinatari (24,45). Vengono, infatti, delineati anche qui due contrastanti comportamenti di due servi, messi a capo degli altri servi: saggio e previdente il primo (24,45-46); stolto e malvagio il secondo (24,48-49); anche qui contrastanti comportamenti, che si delineano di fronte al ritardo del padrone (24,48b). Anche qui il racconto si chiude con un giudizio (24,47.51).

Lo sitz im leben7, da cui è nato questo racconto tutto matteano, sembra essere la difficile situazione in cui si muovevano le prime comunità credenti, da un lato, sottoposte a forti pressioni esterne (24,6-13); dall'altro tese verso la venuta finale del Risorto, che di fatto non veniva. Si insinuava, quindi, in esse il dubbio, la delusione e la speranza si affievoliva. Ma c'era anche chi, ritenendo ormai imminente la fine dei tempi, viveva in modo disimpegnato e disordinato, creando confusione e disturbo all'interno della comunità e della stessa società. Di questo clima di attesa e da fine dei tempi abbiamo testimonianze nelle stesse lettere di Paolo, che invitava la sua comunità di Corinto ad usare delle cose di questo mondo come se non le usasse, cioè con distacco, perché ormai “il tempo si è fatto breve” (1Cor 7,29-31); mentre l'autore della Seconda Lettera ai Tessalonicesi redarguisce duramente chi, ritenendo ormai giunta la fine, aveva deciso di smettere ogni sua attività e ogni suo contributo alla comunità e alla società, e sollecitava, invece, tutti ad un serio impegno nel bene: “chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2Ts 3,10b-13). Un ulteriore spunto, che aiuta a capire il clima in cui vivevano le prime comunità credenti, ci viene offerto dalla Seconda Lettera di Pietro, rivolta indistintamente a tutti i credenti, in attesa di una venuta che non arrivava (2Pt 1,1), cercando una ragione del ritardo. Si tratta, quindi, di un richiamo generale a tutte le comunità: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c'è in essa sarà distrutta. Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi così, quali non dovete essere voi, nella santità della condotta e nella pietà, attendendo e affrettando la venuta del giorno di Dio, nel quale i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno! E poi, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate d'essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace” (2Pt 3,8-14).

Questo era il contesto storico in cui viveva anche la comunità matteana: un clima di attesa e da fine dei tempi, ma che non giungevano mai. All'interno di questo contesto va letta e compresa la parabola delle “Dieci vergini”, così come anche quella immediatamente successiva dei “Talenti”.

La struttura del racconto si snoda su cinque parti:

A) vv.1-4: la cornice introduttiva, in cui vengono presentati i personaggi e il contesto in cui questi sono collocati;

B) vv.5-6: l'evento inatteso: il ritardo dello sposo e la sua improvvisa venuta nel pieno della notte;

C) vv.7-9: agitazione e tensione nel gruppo delle fanciulle;

D) vv.10-12: la doppia e contrapposta conclusione: chi entra e chi rimane fuori.

E) v.13: l'insegnamento.


Il v.1a si apre con l'avverbio temporale “Tòte” (tote, allora), che aggancia questa parabola, in senso lato, con l'intero cap.24, dai toni fortemente apocalittici ed escatologici; e in senso più immediato, con la precedente pericope 24,45-51, e ne fa una sorta di sua continuazione. Il tema, infatti è identico: la necessità della vigilanza e della messa a frutto del tempo di attesa, di cui si dovrà rispondere; cambiano soltanto i destinatari: là abbiamo i responsabili della comunità; qui è la stessa comunità, che viene redarguita. Il contesto, quindi, è fortemente escatologico, rafforzato anche dalla presenza del verbo posto al futuro passivo “Ðmoiwq»setai” (omoiotzesetai, sarà reso simile).

I vv.1b-4 presentano gli attori del racconto, molto curati nei dettagli. Questa particolare attenzione, a loro riservata, dice che l'autore qui sta rivolgendosi a delle persone precise, individuate dai tratti propri dei personaggi allegorici di questa parabola. Si tratta di dieci fanciulle8, che dopo aver preso le lampade, escono per andare incontro allo sposo. Tutte sono accomunate da tre particolari: a) sono vergini, b) hanno preso una lampada, c) sono dirette incontro allo sposo; ma, nel contempo, sono contrapposte in due gruppi, che le distanziano, assegnando loro destini contrapposti: il gruppo delle stolte e quello delle sagge. Il contesto è qui quello delle nozze, che nell'A.T. definiscono il rapporto di alleanza tra Jhwh e il suo popolo, in cui Dio è lo sposo e Israele, a seconda del suo comportamento nei confronti di Jhwh, era, di volta in volta, la sposa o la prostituta9. Le fanciulle erano, nell'ambito delle nozze, le amiche della sposa, che dovevano accompagnare in un corteo gioioso alla casa dello sposo. Ma qui la sposa non c'è e il rapporto così diretto e così intenso tra le fanciulle e lo sposo lascia intendere come in realtà siano proprio esse la sposa. Le fanciulle, infatti, sono qualificate da un numero, il dieci, che nel linguaggio biblico indica la compiutezza, la pienezza. Questo gruppo, quindi, è il gruppo perfetto, compiuto, che ha raggiunto la sua piena maturità e la sua pienezza; esso è composto da fanciulle, che Matteo definisce “vergini”, cioè persone che sono riservate in via esclusiva allo sposo e per questo grava su di loro una sorta di consacrazione. Ciò che le ha rese tali è l'aver preso la fiaccola, che nella metafora biblica allude a Dio e alla sua Parola10. Si tratta, quindi, di una scelta esistenziale che queste hanno compiuto, uscendo così incontro allo sposo, cioè orientando la loro vita verso Cristo, a cui l'hanno consacrata nella loro scelta di fede. Questa, ora, illumina i loro passi verso lo sposo, la cui venuta era sentita in quel tempo come imminente. Matteo, dunque, sta qui parlando della nuova comunità messianica, della sua comunità. Un'immagine questa non inconsueta nel N.T. e che ritroviamo, pari pari, nella Seconda Lettera ai Corinti, dove Paolo, rivolto alla propria comunità dichiara: “Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi a un unico sposo, per presentarvi quale vergine casta a Cristo” (2Cor 11,2). Ma il motivo veterotestamentario delle nozze, dello sposo e della sposa subisce nel N.T. una rilettura e una ricomprensione: Gesù è il nuovo sposo11, mentre il Battista è visto come “l'amico dello sposo” (Gv 3,29) e la nuova comunità messianica, la chiesa, è sentita come la sposa12. Ma è proprio in questo andare verso lo sposo, che sta per venire, che divergono i comportamenti: c'è chi si mostra saggio e chi stolto. L'elemento discriminante e che genera i due contrapposti comportamenti è l'olio: alcune lo presero con sé; altre lo trascurarono. L'olio, utilizzato in molti modi nell'antichità13, serviva anche per alimentare le lampade, che, qui, metaforicamente si è visto essere l'immagine di Dio, quale contenuto vivo e vivente della fede. L'olio, dunque, in questo contesto, va colto come la metafora dell'alimento spirituale, che serve a tenere sempre viva la fiamma della fede, perché essa non si affievolisca e non venga meno. L'elemento fondante della fede e tale da generarla, generando in tal modo il nuovo credente, era considerato la Parola14, a cui i primi apostoli dedicarono in via esclusiva il loro ministero15. L'importanza della Parola nella vita del nuovo credente e della stessa comunità ci viene testimoniata dall'angelo della chiesa di Sardi16. Questi la sollecitava a ravvivare la parola che aveva accolto, l'unica in grado di tenerla vigilante, evitando così la condanna: “Svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato le tue opere perfette davanti al mio Dio. Ricorda dunque come hai accolto la parola, osservala e ravvediti, perché se non sarai vigilante, verrò come un ladro senza che tu sappia in quale ora io verrò da te” (Ap 3,2-3). Anche l'autore della Lettera ai Colossesi sollecita la sua comunità affinché “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali” (Col 3,16); mentre Luca ci testimonia come le prime comunità erano assidue nell'ascolto della parola e nella frazione del pane (At 2,42).

Ciò che crea, dunque, la discriminante tra la stoltezza e la saggezza nel vivere cristiano è la Parola di Dio. La sua assenza nella vita del credente dice stoltezza, poiché la Parola è l'unica in grado di fargli comprendere le realtà di Dio, che sono state messe in lui per mezzo della fede e del battesimo. Essa è l'unica in grado di dargli l'autentica identità di credente e la coscienza del suo essere cristiano. E che alla Parola Matteo stesse pensando, mentre scriveva dell'olio, lo lascia intendere l'altra parabola, quella della casa costruita sulla roccia (7,24-27) a cui questa delle dici vergini è strettamente legata sia dal verbo “Ðmoiwq»setai” (omoiotzésetai, sarà reso simile), che, in questa forma, compare in tutto il N.T. soltanto nelle due parabole; sia dai termini “fron…moj” (fronímos, saggio) e “mwrÒj” (morós, stolto), con cui vengono definiti gli attori di entrambe le parabole. In entrambi i casi l'elemento di discriminazione tra la saggezza e la stoltezza è sempre la Parola.

I vv.5-6 introducono il lettore in una nuova scena. Nella pericope precedente (vv.1b-4) Matteo delineava due atteggiamenti presenti nella sua comunità: chi fondava e alimentava la propria fede nella parola accolta, tenendola viva nella propria vita; e chi, invece, una volta abbracciata la fede, l'aveva tralasciata, non facendosene più un punto di riferimento, ma lasciandosi trascinare da regole e tram-tram spirituali, riducendo il vivere cristiano ad una mera esecuzione di prescrizioni. Ora l'evangelista apre un nuovo scenario inatteso, ma che comunque ha il suo riferimento nel contesto storico delle prime comunità credenti: il tanto atteso Signore, che sembrava dovesse ritornare da lì a poco, ritarda, contraddicendo tutte le aspettative e tutte le previsioni e lasciando interdetti gli stessi responsabili del nascente cristianesimo. Essi, a fronte di questo inspiegabile e imbarazzante ritardo, cercavano di abbozzare le prime risposte, intensificando le esortazioni alla perseveranza (2Pt 3). Il ritardo, oltre che frustrare le attese di una venuta sentita e annunciata come imminente, metteva in dubbio la stessa scelta di fede e i nuovi credenti, sotto la sferza delle persecuzioni e delle tensioni sociali, incominciavano vacillare (Eb 10,23-25). Ce ne dà testimonianza la stessa lettera agli Ebrei: “Richiamate alla memoria quei primi giorni nei quali, dopo essere stati illuminati, avete dovuto sopportare una grande e penosa lotta, ora esposti pubblicamente a insulti e tribolazioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in questo modo. Infatti avete preso parte alle sofferenze dei carcerati e avete accettato con gioia di esser spogliati delle vostre sostanze, sapendo di possedere beni migliori e più duraturi. Non abbandonate dunque la vostra fiducia, alla quale è riservata una grande ricompensa. Avete solo bisogno di costanza, perché dopo aver fatto la volontà di Dio possiate raggiungere la promessa. Ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire, verrà e non tarderà. Il mio giusto vivrà mediante la fede; ma se indietreggia, la mia anima non si compiacerà in lui. Noi però non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione, bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima” (Eb 10,32-39); e similmente l'autore della Seconda di Pietro lascia intendere come ormai attorno alla speranza e all'attesa del ritorno imminente del Signore si stava creando scetticismo e sarcasmo: “Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: <<Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione>>” (2Pt 3,3-4 ). Un'altra testimonianza ci viene offerta dalla Seconda ai Tessalonicesi, in cui l'autore stigmatizza il comportamento di chi, nell'attesa di una venuta imminente del Signore, viveva disordinatamente, creando imbarazzo e difficoltà alla propria comunità: “Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2Ts 3,11-13). In questo contesto si collocano i nostri vv.5-6, che sono contrapposti l'uno all'altro: nel primo si parla di un ritardo e delle sue conseguenze in mezzo alla ancor fragile comunità dei credenti; nel secondo dell'improvviso irrompere dello sposo nella buia notte di un'attesa senza fine.

Il ritardo della venuta del Signore ha indistintamente provocato in tutti dubbi, incertezze e un conseguente rilassamento spirituale. Tutte le dieci fanciulle, infatti, si sono assopite e poi addormentate. Il verbo dormire qui è posto all'imperfetto indicativo (™k£qeudon, ekátzeudon), che indica uno stato di vita persistente e quindi l'andazzo che era venuto a crearsi all'interno delle prime comunità cristiane. Il sonno si contrappone alla veglia ed è il tempo in cui il nemico viene per seminare la zizzania tra il buon grano (13,25); è il tempo in cui il credente si espone alla tentazione rimanendone vittima. Gesù, infatti, ammonisce i suoi: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41). Il sonno, infatti, è l'immagine del peccato, che rende ciechi e insensibili alle esigenze di Dio, sordi ai suoi richiami (Is 29,10). Per questo Paolo si rivolge con forza e determinazione alla comunità di Roma e con fare sferzante la esorta: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri” (Rm 13,11-14). E sempre Paolo, rivolto alla sua carissima e ancora imberbe comunità di Tessalonica, che ha dovuto abbandonare repentinamente per un'improvvisa persecuzione, alla quale tuttavia i Tessalonicesi hanno saputo resistere con determinazione, esorta: “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti voi ben sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore. E quando si dirà: "Pace e sicurezza", allora d'improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà. Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno possa sorprendervi come un ladro: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno; noi non siamo della notte, né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma restiamo svegli e siamo sobri” (1Ts 5,1-6).

Con il v.6 si introduce un secondo elemento nuovo: nel pieno della notte irrompe inatteso un grido, che annuncia lo sposo. Quel “Ecco lo sposo” dice come la notte dell'attesa sia finita e la presenza dello sposo si impone di prepotenza (“Ecco”, “vi fu un grido”), come un cuneo che penetra nella ciocca e la spacca in due. È pensabile, considerato il contesto nuziale, che questo grido, che lacera una lunga notte di attesa, sia verosimilmente la voce dell'amico dello sposo, il fidato e intimo cerimoniere delle nozze, che doveva poi attestare pubblicamente anche la verginità della sposa e che il quarto evangelista identificava nel Battista: “Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta17” (Gv 3,29). È un grido, quindi, carico di gioia, ma porta con sé anche un giudizio escatologico (Mt 3,1-12).

I vv.7-9 riportano il drammatico effetto che la venuta improvvisa dello sposo ha causato all'interno del gruppo delle dieci fanciulle. La scena si svolge in due tempi: a) tutte indistintamente si risvegliarono e prepararono le lampade (v.7); b) tutte si predispongono ad alimentare le loro lampade con l'olio. Ma è proprio qui che esplode improvviso il dramma: cinque di esse si accorgono di non avere olio sufficiente per ravvivare la fiamma (vv.8-9), che metaforicamente indica tutta la debolezza spirituale di una fede non alimentata dalla Parola e che rende incapaci di accogliere il Signore che viene; rende incapaci di leggere i segni dei tempi, di leggere la storia della salvezza, ignorando, in tal modo, il ruolo che ogni credente è chiamato ad avere al suo interno. Sono i credenti, che privi dell'olio della Parola, vivono meccanicamente la loro fede come una mera esecuzione di culti e di riti, di festività da celebrare, come un'osservanza di norme e di regole, ma al proprio interno sono spenti. Vivono, quindi, una fede apparente. Non vi possono essere tra i credenti trasfusioni spirituali, ma soltanto testimonianza, poiché la crescita spirituale dipende esclusivamente dall'accoglienza della Parola e dallo spazio che ognuno riserva ad essa. Per questo chi possedeva l'olio della Parola e con saggezza l'aveva sempre portata con sé fin dall'inizio della propria vita credente, rimanda le stolte, che l'avevano tralasciata, all'origine della loro fede, quando, dopo aver accolto la Parola, erano divenute credenti. Da quel momento, infatti, la loro crescita spirituale si era fermata, perché non più alimentata dall'olio della Parola, essendo del tutto insufficiente la mera sacrementalità del vivere cristiano. Si tratta, in buona sostanza, della denuncia di un fallimento spirituale, poiché la loro casa è stata costruita sulla sabbia di norme, regole e sacramenti.

Il v.10 di fatto chiude in bellezza il racconto delle vergini, che si sono fatte trovare pronte alla venuta dello sposo e con lui sono entrate a prender parte alle nozze messianiche, per partecipare a quel banchetto dalle grasse vivande, che con ampio respiro profetico, all'interno di una grandiosa visione escatologica, aveva preannunciato Isaia: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti” (Is 25,6-7); quel banchetto che Gesù era venuto ad inaugurare, accogliendo attorno a sé, insieme ai suoi discepoli, anche pubblicani e peccatori (Mt 9,10). Il v.10 si conclude con la porta che si chiude e che dice non solo la fine della storia della salvezza, ma anche l'impossibilità di una seconda chance per chi è rimasto fuori. Sarà proprio questa porta chiusa che renderà drammatici gli ultimi due versetti del racconto.

vv.11-12: il v.11 si apre con l'avverbio di tempo “Ûsteron” (ísteron, dopo, più tardi) che prelude al dramma: in seguito, cioè dopo che la porta fu chiusa, arrivano anche le altre fanciulle. La situazione, si intuisce subito, è disperata, poiché quella porta chiusa toglie loro ogni altra possibilità di accesso alla salvezza. Esse, alla pari delle altre, erano “vergini”, cioè consacrate allo sposo, avevano accolto la lampada della fede, si erano incamminate incontro allo sposo; alla pari delle altre, si erano addormentate nell'attesa di uno sposo, che sembrava non venire. Similmente ad esse avevano vissuto una vita apparentemente credente, ma asfittica perché non alimentata da quella Parola che avevano inizialmente accolto, ma poi tralasciato. Matteo, a tal punto, fa un gioco letterario: a) mette sulla bocca delle stolte la supplica “Signore, Signore”; b) fa rispondere lo sposo “In verità, in verità vi dico, non vi conosco”, agganciando in tal modo questa drammatica conclusione ai vv.7,22-23 dove dice esattamente le stesse parole in un identico contesto: “Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità”. Seguirà, poi, a questi versetti la parabola delle due case, quella costruita sulla roccia e quella sulla sabbia (Mt 7,24-27), sottolineando una volta di più come il vero discepolo e l'autentica sequela è caratterizzata da un ascolto accogliente della Parola nella propria vita.

La parabola si chiude con una sentenza finale dal sapore sapienziale: “Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora”. Ora il nuovo credente è ammonito e comprende come il vegliare consista nell'accogliere in sé quella Parola di vita eterna, che è lampada ai suoi passi e lo sostiene nel cammino verso il suo Signore e lo aiuta a coglierlo mentre gli passa accanto, tendendogli la mano finché può. Il deutero-Isaia, rivolto alla comunità d'Israele in esilio a Babilonia, la esortava: “Cercate il Signore, mentre si fa trovare, invocatelo, mentre è vicino” (Is 55,6). Similmente Sant'Agostino affermava: “Timeo Dominum transeuntem et non revertentem”, “Temo il Signore che passa e non torna indietro”, sottolineando l'unicità della grazia e della chance, che viene offerta finché c'è tempo, poiché i giochi della nostra salvezza si fanno “hinc et nunc”, qui e ora, dopo la porta sarà chiusa e il tempo del ripensamento sarà finito. Non si deve pensare ad un Dio bonaccione, che ci salva sempre e comunque, poiché, ricorda sempre Sant'Agostino, che quel Dio che ci ha creato senza di noi non può salvarci senza di noi. Quello che Dio doveva fare, lo ha fatto, inviando suo Figlio, “perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16b). Ora i giochi sono in mano nostra ed Egli ci assiste con la sua Parola, l'unica in grado di illuminare la nostra vita, conformandola alle esigenze di Dio. Dopo la porta sarà chiusa per sempre, come ammonisce il drammatico dialogo tra Abramo e il ricco, che supplicava Abramo perché inviasse lo spirito di Lazzaro dai suoi fratelli per ammonirli, ma “Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro. E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti sarebbero persuasi” (Lc 16,27-31). La Parola, dunque, è ciò che dà al credente la coscienza della sua vera identità e lo conforma alle esigenze di Dio, aprendogli le porte della salvezza.


La parabola dei talenti (Mt 25, 14-30)


La parabola delle dieci vergini terminava con la sentenza: “Vigilate, poiché non sapete né il giorno, né l'ora” (v.13). Questa dei talenti inizia con due avverbi significativi ““Wsper g¦r” (Osper gàr, Infatti [sarà] come), che agganciano questa parabola alla precedente, così che quella dei talenti diventa una sorta di ripresa e di sviluppo di quella delle dieci vergini. Il punto cruciale dell'aggancio va a cadere proprio sul v.13, sul tema della vigilanza. Se l'esortazione, infatti, è “Vigilate” si tratta ora di capire che cosa significa vigilare e quali atteggiamenti assumere, tali da essere compatibili con lo stato di vigilanza. Di questo si fa carico la parabola dei talenti.


Questa dei talenti è una parabola molto nota e popolare, che è sempre stata interpretata come un sollecito a mettere a frutto le nostre doti e i nostri beni, senza disperderli e senza oziare, tanto che il termine “talento” è passato nella nostra lingua come “dote, capacità, beni”, in particolare riferiti alla singola persona, di cui ancor oggi si dice “persona di talento” o “persona che ha molti talenti o di pochi talenti”. La dimensione, quindi, qui è squisitamente morale, poiché sollecita l'impegno al buon impiego delle nostre qualità e delle nostre risorse. Su questa linea è anche l'autore della Prima Lettera di Pietro che, rivolto ai cristiani dispersi nelle varie regioni dell'Asia18, li esorta: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1Pt 4,10-11). Tuttavia l'interpretazione del termine “talenti” deve essere ricompreso all'interno del contesto della parabola matteana, che certamente, come vedremo, non favorisce una simile interpretazione19.

Il quadro, entro cui è posta la parabola, la quale ha tratti fortemente allegorici, è squisitamente escatologico e fa pesare sull'intero racconto il giudizio finale, che occupa una parte preponderante del racconto stesso (vv.19-30). L'aria, quindi, che si respira è molto simile a quella delle dieci vergini e, del resto, non poteva essere diversamente, considerato lo stretto rapporto che intercorre tra le due parabole. Tuttavia, qui, l'aspetto escatologico e del giudizio che verrà è percepito come un qualcosa che si riflette sul presente, sentito come il tempo dell'attesa, durante il quale le dieci vergini, anziché vegliare, si erano addormentate (v.5b). La parabola dei talenti dà, invece, peso all'operatività e all'impegno in questo tempo. Che cosa significhi questo, molto dipende dal significato che l'autore attribuisce al termine “talenti”.

La parabola dei talenti ha il suo parallelo in Lc 19,11-27 e benché simili tra loro, tuttavia divergono notevolmente sia per il contesto in cui il racconto è inserito, sia per gli elementi stessi che compongono il racconto e sia per il tema su cui va a cadere l'accento. In Matteo il contesto è squisitamente escatologico e la parabola intende rispondere al tema del come vigilare nell'attesa del ritorno del Signore. In Luca il contesto è dato dal v.19,11, che introduce la parabola e ne funge da chiave di lettura: era diffusa convinzione che il regno di Dio si dovesse manifestare da un momento all'altro e ci si attendeva che Gesù ne fosse l'inauguratore e il re nel contempo (Lc 19,37-38). Per disilludere queste attese, Gesù racconta la parabola, che si muove su due livelli, del re che va a ricevere l'investitura e delle dieci mine. Si tratta, come si vede di due racconti paralleli, ma che si intersecano e si integrano a vicenda. La finalità della parabola è far capire come la venuta del regno sia ancora molto lontana e che l'attesa del suo avvento doveva essere caratterizzata dalla fedeltà, stigmatizzando da un lato il giudaismo, che ha disconosciuto e rifiutato il messianismo e la regalità di Gesù (Lc 19,14.39) e dall'altro il comportamento fedifrago di un discepolato negligente e disattento (Lc 19,20-23). Anche gli elementi interni del racconto sono molto diversi, pur muovendosi su strutture simili o parallele. In Matteo abbiamo un ricco signore, che distribuisce tutti i suoi beni in modo diseguale e secondo le capacità di ciascuno. In Luca c'è un principe di nobili origini, che va in un paese lontano ad assumere il titolo di re e dà soltanto dieci mine ai suoi dieci servi, una mina a ciascuno, senza distinzioni. Un valore del tutto irrisorio rispetto ai talenti matteani20; inoltre in Matteo non vi è l'esortazione a farli fruttificare, ma semplicemente vengono dati, lasciando alla libera iniziativa di ciascun servo, in tal modo, responsabilizzandolo. In Luca, invece, vi è l'esortazione a far fruttificare le mine, facendo così gravare l'impegno di ogni servo nei confronti del loro re. Vi è, inoltre, in Luca l'atto di ribellione dei cittadini contro il re, totalmente assente in Matteo. Il racconto in Matteo termina con la condanna del servo infedele e negligente (Mt 25,30), mentre quello lucano termina con la cattura e l'uccisione dei cittadini ribelli, mentre il servo infedele, dopo essere stato privato della mina, viene totalmente ignorato e non se ne conosce la sorte. Segno che importanti in questa parabola non erano i dieci servi, ma il rifiuto del re da parte dei suoi cittadini, che allude al rifiuto di Gesù da parte dei suoi e che ricorderà anche Giovanni nel suo prologo al vangelo (Gv 1,11). Luca, del resto, è l'evangelista dei pagani. Tutto proteso verso di essi,li vede di buon grado e con occhio benevolo, e tutto a scapito del mondo giudaico.

La struttura e la dinamica delle due parabole, tra loro molto simili, ma nel contempo molto diverse, fanno pensare che entrambe abbiano un ceppo unico originale, da cui sono state attinte e poi profondamente rimaneggiate per adattarle ai propri intenti. Riteniamo che la fonte primaria sia Mc 13,34: “<<State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. E' come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare. Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino, perché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!>>21.

La parabola matteana dei talenti si struttura in quattro parti:


A) vv.14-15: cornice introduttiva, che colloca la parabola in un contesto ecclesiale postpasquale;

B) vv.16-18: il diverso impegno dei tre servi di fronte ai talenti affidati;

C) vv.19-27: il ritorno del padrone e il giudizio;

D) vv.28-30: la sentenza di condanna.


I vv.14-15 formano il quadro introduttivo della parabola e definiscono sia il contesto entro cui il racconto si svolge (v.14) che i destinatari (v.15). Il v.14 si apre, come abbiamo visto, con due avverbi, che agganciano questo racconto a quello delle dieci vergini e funge da suo sviluppo complementare, indicando quale sia il giusto atteggiamento da tenere nell'attesa della venuta del Signore. Il contesto storico, a cui qui Matteo allude, è quello del tempo postpasquale. Si tratta, infatti, di un uomo ricco che parte per un lungo viaggio, metafora del Gesù morto-risorto e tornato al Padre. Egli prima di andarsene consegnò ai suoi servi (i discepoli) i suoi averi. È interessante notare come il verbo greco usato è paršdwken, (parédoken), tradotto con “consegnare o dare”. Se la traduzione italiana è corretta, tuttavia essa non esprime l'intensità del verbo greco. Non si tratta, infatti, di una donazione o di una semplice rimessa in custodia dei beni, ma di una consegna che presuppone un potere reale su questi beni e, quindi, una capacità giuridica di gestione degli stessi. In altri termini, i servi vengono resi capaci di operare in nome e per conto del loro padrone. Legato a questa consegna, dunque, c'è un reale potere. Il verbo, infatti, possiede in sé anche il significato di “dare in mano, dare in balia, dare in potere, rimettere, cedere”. E ciò che il signore dà ai suoi servi, in realtà, non sono dei talenti, anche se poi si parla di talenti. Questi, in realtà, sono chiamati in causa soltanto per quantificare il valore di questi beni assegnati ad ogni servo. Infatti, qui si parla dei “beni” del padrone (suoi) in senso generale, la quale cosa lascia supporre che questo padrone non abbia lasciato soltanto dei soldi da gestire, ma tutti i suoi averi (Øp£rconta, ipárconta), tutto ciò che gli apparteneva e su questi ha dato ai servi ogni potere. Questo pieno potere è il presupposto per cui i servi possono gestire liberamente questi beni, come meglio credono e, pertanto, sono anche resi pienamente responsabili della loro gestione. Tutto ciò è la premessa su cui poi si baseranno e si giustificheranno le pretese, prima, e il giudizio, poi, del padrone. Matteo sembra qui anticipare, in qualche modo, la parte finale del suo vangelo, là dove il Gesù glorioso e plenipotenziario, rivolto ai suoi discepoli, assegna loro il mandato, composto da tre elementi fondamentali: ammaestrare, battezzare, insegnare ciò che egli ha insegnato e, quindi, di trasmettere: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>” (Mt 28,18-20).

Se il v.14 indicava il contesto storico proprio della comunità matteana, il v.15 introduce il lettore all'interno di questa; una comunità che si presenta già strutturata gerarchicamente e con regole proprie interne. Già si parla, infatti, di chiesa istituzionalizzata in Mt 16,18-19 e di poteri assegnati a Pietro, colto come fondamento della istituzione ecclesiale. Al suo interno ci sono già delle figure di profeti, maestri, sapienti, giusti, scribi e discepoli22, anche se ancora non ne comprendiamo bene l'area di azione e di collocazione all'interno della comunità. È una comunità che ha già delle sue regole interne sia nel relazionarsi con i vari membri della comunità e sia delle regole liturgiche proprie23. Non stupisce quindi la diversa quantità di talenti, distribuiti ai vari servi, che quantificano il diverso grado di responsabilità ricoperto da ciascuno all'interno della comunità stessa24. Ognuno, secondo il proprio ruolo e le proprie capacità, è chiamato a gestire il dono che Dio, in Gesù, gli ha assegnato. Quale, dunque, il significato del talento ricevuto? In Mt 10,7-8 Gesù, nel dare il mandato ai suoi discepoli, li esortava: “E strada facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. L'annuncio del Regno, accompagnato dalle guarigione, faceva toccare con mano la forza rigeneratrice della Parola, che stava generando un'umanità nuova (1Pt 1,3.23). Un dono che essi avevano ricevuto dall'amore gratuito di Dio, manifestatosi in Gesù, e che essi avevano l'obbligo morale e istituzionale di trasmettere agli altri. Così similmente in Mt 13,11-12 Gesù, rispondendo ai discepoli che gli chiedevano perché parlasse in parabole, osservava: “Perché a voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. In questo contesto di rivelazione-dono e di annuncio-missione non è difficile individuare come gli averi, i beni di questo ricco signore sono i beni dello Spirito e del Regno, che egli, ritornandosene da dov'era venuto (Gv 16,28), lasciava in eredità ai propri discepoli; ciascuno responsabile in base al ruolo ricoperto, ma, infine, tutti egualmente responsabili di fronte all'unico e comune Signore, al quale tutti sono chiamati parimenti a rendere conto, poiché tutti hanno comunque ricevuto la loro parte di beni da far fruttificare.

I vv.16-18 delineano i due diversi atteggiamenti, che probabilmente emergevano all'interno della comunità matteana. C'era il proficuo impegno di chi aveva delle responsabilità a diversi livelli (i cinque e i due talenti) e chi, invece, non avendo responsabilità comunitarie, in quanto semplice fedele, non si sentiva per questo chiamato ad un serio impegno (un talento). Si noti come Matteo enumeri in tutto otto talenti, contrariamente a Luca che conta dieci mine, che indicano una quantità piena, compiuta. Il riferimento all'otto definisce non solo la quantità dei talenti, ma anche, in particolar modo, la qualità e il tipo dei talenti e, quindi, una volta di più va a precisarne il significato. Nel N.T. il numero otto ha una stretta attinenza con la risurrezione di Gesù25 che avvenne “il primo giorno dopo il sabato”26, segnando l'inizio di una nuova settimana creativa. Il settimo giorno della creazione Dio portò a compimento la creazione, cessando la sua attività creativa e consacrandolo a se stesso (Gen 2,1-3). Con il settimo giorno, quindi, viene posta una conclusione alla prima creazione; ma con l'ottavo giorno, quello dopo il settimo, quello della risurrezione, Dio diede inizio ad una nuova creazione (Ap 21,1), avendo ricapitolato in Cristo tutte le cose, quelle del cielo e quella della terra (Ef 1,10), e della quale il Risorto è la primizia (1Cor 15,20.23). In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e con lui ci ha fatti nuove creature (2Ts 2,13; Gc 1,18). Una nuova primizia all'interno di una nuova creazione (Gal 6,15; Ef 2,15; 4,24), che ha come fondamento unico Cristo stesso (1Cor 3,11), che tutti indistintamente accorpa a sé (Gal 3,28; Col 3,11). Gli otto talenti, dunque, alludono a tutti i beni spirituali, che Gesù ha inaugurato con la sua risurrezione e che ha posto in seno alla prima comunità messianica, chiamata, ora, in vario modo e secondo diverso e vario grado di responsabilità (cinque, due, uno), a gestirli e a testimoniarli, facendone dono al mondo. Con il battesimo il credente è stato cristificato, rivestito di Cristo come di un abito nuovo (Gal 3,27). In lui vive una nuova realtà e ad essa è stato conformato, al punto tale che non è più lui che vive, ma Cristo vive ed opera in lui (Gal 2,20a). È, dunque, compito di ogni credente prendere coscienza di questo suo nuovo stato esistenziale, acquisito nella fede e nel battesimo; è suo dovere conoscerlo attraverso la Parola, dalla quale è stato generato ad una vita nuova (1Pt 1,23); essa è l'unica in grado di farci vedere e comprendere il mondo spirituale in cui siamo stati collocati e chiamati a testimoniarlo, incarnandolo nella propria vita, lasciandolo trasparire nel proprio vivere quotidiano. A tutti sono consegnati questi beni spirituali, nessuno ne è escluso e la modica quantità non esime il credente dal suo impegno nei confronti di quei beni, di cui egli è depositario e custode. Tutti, in pari modo, secondo il proprio ruolo, ne sono responsabili. La sottolineatura che i primi due hanno raddoppiato i beni loro affidati, da un lato, dice il massimo impegno profuso nella gestione dei beni spirituali, di cui erano depositari; dall'altro, narrativamente, serve a creare il maggior contrasto possibile con il terzo servo, mettendo così in rilievo la sua negligenza e, quindi, tutta la sua colpevolezza27.

I vv.19-27 formano un'ampia pericope, composta di nove versetti, interamente dedicati al giudizio e, di questi, ben quattro riservati esclusivamente al servo neghittoso, facendo in tal modo pesare il giudizio di condanna su questo. La pericope è particolarmente elaborata; ciò significa che l'autore ha affidato ad essa il suo messaggio, volendo attirare l'attenzione del suo lettore su ciò che gli deve aspettarsi in base al suo comportamento. Come dire: bada bene che su di te pesa il giudizio divino; che non abbia a capitarti come al terzo servo.

Il v.19 è scandito in tre parti: a) si parla di un tempo molto lungo. Un'annotazione temporale questa che si richiama al tempo della storia presente, che è, infatti, un tempo molto lungo, ma quel “dopo” (met¦, metà) rilancia questo tempo presente al momento successivo a quello della sua fine, introducendo in tal modo il lettore nei tempi escatologici: “Dopo molto tempo” (v.19a); b) “Viene il padrone” (v.19b). Si noti il verbo al presente indicativo e non al futuro, segno questo che l'evangelista sente il tempo presente già proiettato in un contesto escatologico, in cui è sentita ormai presente la venuta del Signore; c) questa terza parte presenta la motivazione di questa venuta: “e fa i conti con loro” (v.19c). Anche qui il verbo è posto al presente indicativo, per dare il senso dell'imminente giudizio, che si sta per compiere. Matteo, dunque, con il v.19 proietta il suo lettore in un contesto escatologico che non verrà, ma che viene, anzi, è già di fatto presente e il giudizio sui credenti si sta compiendo, poiché la venuta di Gesù ha posto una discriminante in mezzo agli uomini e in mezzo agli stessi credenti (Mt 12,30). Un forte richiamo, dunque, a prender coscienza degli ultimi tempi, in cui sono già posti i nuovi credenti, sollecitandoli a dare una ferma e decisa risposta esistenziale all'indicativo di salvezza rivelatosi in Gesù: i misteri del Regno, di cui la comunità matteana, come la comunità credente di ogni tempo, è depositaria.

I vv.20-23 sono riservati a quel discepolato, che, cosciente dei tempi e del suo ruolo di testimone, ha dedicato tutto se stesso per far fruttificare al meglio i beni del suo padrone. Questo tipo di discepolato è definito con due attributi “buono e fedele”, con i quali viene in qualche modo assimilato a Dio, l'unico che per definizione è il Buono28 e il Fedele29. Si tratta, dunque, di un servo che ha conformato la sua vita alle esigenze del Buono e del Fedele per antonomasia, lasciandolo riflettere e risuonare nella propria vita. Di conseguenza, anche il servo è definito “buono e fedele”, riflesso della bontà e della fedeltà di Dio, che in lui si rispecchia. Per questo il padrone lo invita a prendere parte alla sua gioia, la quale è la dimensione escatologica del tempo metastorico, che introduce nella vita stessa di Dio. Proprio perché questo servo ha conformato se stesso a Dio nella bontà e nella fedeltà, ora può partecipare a pieno titolo della sua stessa vita, che già in qualche modo aveva fatto sua qui nella storia.

I vv.24-27 riportano il giudizio contro il servo infedele, definito anch'esso con due attributi: “malvagio e neghittoso”, che valgono per lui un giudizio di condanna, poiché in essi si riflette il suo comportamento. È un malvagio, infatti, perché pur sapendo (è qui infatti che cade l'accento) della durezza e delle pretese del suo padrone, anziché conformare la sua vita alle sue esigenze, ha preferito scegliere la via più comoda e meno impegnativa, la via meno rischiosa e più tranquilla: mettere al sicuro questo bene spirituale sotto terra, ritenendosi così al sicuro anche lui. Per questo è definito anche neghittoso. Matteo sembra qui alludere a quei membri della sua comunità, formata prevalentemente da giudeocristiani, probabilmente giudaizzanti, che pur avendo abbracciato la novità del messaggio di Gesù e l'esclusività della sua persona umano-divina e del suo messianismo, tuttavia vivono queste nuove realtà ancora entro la ristretta cornice del legalismo mosaico; o coniugano queste nuove realtà all'interno di un formalismo rituale e cultuale, ereditato dal giudaismo, di cui si sentono ancora figli30. Un esempio di questo modo di vivere ci viene offerto da Paolo che, rivolto ai Galati, li redarguiva con dura fermezza per aver abbandonato il vangelo da lui predicato e averne abbracciato un altro (Gal 1,6), quello dei cristiani giudaizzanti. Questi volevano ricondurre la novità dell'evento Cristo all'interno del giudaismo mosaico (Gal 3). Paolo li esorta, con asprezza, ad abbandonare definitivamente la Legge mosaica per abbracciare Cristo: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 1,1-4). Matteo, ma in genere la chiesa primitiva, si trovava di fronte a questo fenomeno, che riguardava i convertiti provenienti dal giudaismo. Questi non riuscivano a staccarsi da esso anche perché non avevano colto il mistero della persona di Gesù e la verità profonda del suo messaggio. Essi, dunque, sono stati paragonati da Matteo a quel servo che, ricevuto il bene del mistero di Cristo e della sua predicazione, spaventato dalla sua esigente novità rivoluzionaria, che lo staccava e lo contrapponeva al legalismo mosaico, preferì seppellirlo nel giudaismo, cercando di non staccarsi da esso, ma di adattare Gesù e la sua predicazione alle ragioni del mosaismo, vanificandone la novità e l'efficacia (Gal 5,2-3).

I vv.28-30 portano a conclusione, in modo drammatico, la triste vicenda del servo neghittoso e malvagio. Vengono riportate due sentenze, che Matteo recupera da 13,12 e 22,13, accomunando, in tal modo, questo servo a quei contesti. In 13,12 il contesto era quello del parlare in parabole di Gesù, con il quale egli criptava i segreti del Regno. Il motivo viene detto al v.13,15, che richiama Is 6,10: “Perché il cuore di questo popolo si è indurito, son diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani”. È, dunque, la durezza di cuore, cioè la testardaggine del voler rimanere legati al mosaismo e al suo legalismo, che rende il giudeocristiano giudaizzante incapace di aprirsi pienamente alla novità dell'evento Gesù. In 22,13 il contesto è quello di quel tale che ha risposto all'invito del re a partecipare al banchetto di nozze del proprio figlio, ma non aveva indossato la veste nuziale della nuova fede, rimanendo ancora con i propri vestiti del legalismo giudaico. Una situazione inaccettabile perché incompatibile con il nuovo stato di vita. Ed è questo stato di incompatibilità che determinerà l'espulsione dalla nuova comunità credente colui che, rimanendo legato ancora al giudaismo, di fatto ha rifiutato la novità di Gesù. Paolo lo ricorderà ai Galati: “Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla” (Gal 5,2). Durezza di cuore, dunque, rifiuto, pertinaci legami con il passato hanno decretato sia l'impossibilità di comprendere la nuova fede, sia l'impossibilità di partecipare alla nuova vita. Il talento donato a questo terzo servo, dunque, gli viene tolto e dato a chi ne ha di più, che nel linguaggi metaforico della parabola indica il responsabile della comunità. In altri termini, i misteri della nuova fede vengono trattenuti e rimessi all'interno della comunità, che, raccolta attorno ai suoi responsabile, ne è la depositaria prima.


                                                                                                                         
                                                                                                                           Giovanni Lonardi




NOTE

1Il vangelo di Matteo si struttura su cinque grandi discorsi, che raccolgono numerosi detti e parabole di Gesù e sono intervallati tra loro da quattro grandi sezioni narrative. Essi, a nostro avviso, formarono il primo nucleo redazionale del vangelo matteano (75-80 d.C.), di cui ci dà testimonianza lo stesso Papia, vescovo di Gerapoli tra il 110 e il 130 d.C.- Il Vangelo di Matteo, così com'è giunto a noi (cinque grandi discorsi + quattro sezioni narrative) ha conosciuto una redazione molto tardiva, tra la fine del I sec. e i primi decenni del II sec. - Per una più approfondita riflessione si cfr. la Parte Introduttiva dell'opera “Il Vangelo di Matteo” alla voce “Luogo e data di composizione”

2Quando Matteo scrive il vangelo, le sue comunità di giudeocristiani avevano già rotto con il giudaismo e si era innescata una forte conflittualità sia sul piano sociale che religioso con lo stesso. I giudei convertiti alla nuova fede venivano espulsi dalla sinagoga, la quale cosa significava decretare una sorta di morte civile e religiosa (Gv 9,22; 12,42). E' di questo periodo (circa 80 d.C) la formulazione della dodicesima “benedizione” dello Shemonè esré, un eufemismo per indicare la maledizione lanciata contro gli eretici, cioè contro i giudei convertiti al cristianesimo. Essa recitava testualmente: “Per gli apostati non ci sia speranza e il regno insolente [cioè l'impero romano] venga presto sterminato, nei nostri giorni. I nazareni [i giudeocristiani] e gli eretici periscano subito e siano abrasi dal libro della vita, né siano iscritti insieme ai giusti. Benedetto sei tu Signore, che umili l'insolente.”.

3Quanto agli aspetti politici e sociali non va dimenticato che, mentre Matteo scrive il vangelo, la Palestina era uscita da poco dalla prima guerra giudaica (66-73), che aveva provocato stragi e distruzioni su tutto il territorio e in particolare la distruzione di Gerusalemme, quella del Tempio e, di conseguenza, aveva decretato la fine del sacerdozio e del culto incentrati sul Tempio e sui sacrifici. Nascerà da questo disastro civile e religioso una nuova forma di giudaismo, fondato sulla Torah, sul suo studio e sulla sua interpretazione. Il sacerdozio verrà sostituito dal rabbinismo, dando origine ad una nuova forma di giudaismo, quello rabbinico (70-110 d.C.).

4La parabola potremmo definirla come un racconto costruito con logiche proprie interne, finalizzato a coinvolgere l'ascoltatore nel dramma narrato e spingendolo ad esprimere un suo personale giudizio sui personaggi e sulle situazioni di cui essi sono i protagonisti. Si tratta, dunque, di una sorta di fiction, molto vicina alla metafora, che innesca di fatto nell'ascoltatore un processo di proiezione e di identificazione di se stesso nei personaggi e nelle vicende narrate, così che egli, alla fine, scoprirà di essere lui il protagonista di quella vicenda. Tutto ciò favorisce la comprensione di questioni per loro natura di difficile comprensione, come, a titolo esemplificativo, le parabole del Regno. La parabola differisce dall'allegoria, poiché quest'ultima è una sorta di trasposizione della realtà in simboli, in cui essa viene criptata.

5Le nozze, sia nell'A.T. che nel N.T., non avevano connotazioni religiose, ma si esprimevano in una ritualità civile e popolare, che sanciva l'unione dei due fidanzati. La formula del matrimonio, come risulta dai contratti di Elefantina, in Egitto, dove viveva una colonia giudaica (V sec. a.C.), era molto semplice: “Essa è mia moglie e io sono suo marito da oggi e per sempre”. Altra formula, molto sintetica, trovata nel deserto di Giuda e risalente al II sec. d.C. attesta “Tu sarai mia moglie”. Quanto alla cerimonia, alla vigilia del matrimonio, il fidanzato, accompagnato dagli amici al suono di tamburelli e musiche, canti ed inni (2Mac 9,39), si recava alla casa della fidanzata, ornato con un diadema (Is 61,10; Ct 3,11). Si formava così un corteo sotto la direzione dell'amico dello sposo (Gv 3,29), che era una sorta di cerimoniere, che stava sempre al fianco dello sposo e badava a tutto. La fidanzata, con i capelli sciolti sotto il velo (Ct 4,1.3; 6,7)), che si toglieva solo nella camera nuziale, era riccamente vestita e ornata di gioielli (Sal 45,14-15; Is 61,10). Essa, accompagnata dalle amiche (Sal 45,15), era portata in casa dello sposo, dove i genitori pronunciavano una formula di benedizione. Si cantavano canti d'amore (Ger 16,9), che celebravano le doti e le virtù dei due sposi, dei quali abbiamo delle testimonianze nel Sal 45 e nel Cantico dei Cantici. - Per questa nota cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Ed. Casa Editrice Marietti, Genova 2002; H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, Ed. Arnoldo Mondadori Editore Spa,Cles (TN) 1999.

6Alcuni codici maiuscoli, tra i quali D hanno completato il quadro inserendo la figura della sposa: “uscirono incontro allo sposo e alla sposa”. Un'aggiunta inutile poiché la figura della sposa non ha alcuna rilevanza nell'economia del racconto, anche perché se le fanciulle formano il corteo della sposa non vanno incontro ad essa, bensì sono con lei. - In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo; O. da Spinetoli, Matteo. Tutte le opere citate.

7L'espressione tedesca “Sitz im leben” letteralmente significa “Il posto nella vita” ed è usata dagli esegeti per indicare il contesto storico e vitale in cui è nato un determinato racconto.

8Il termine greco “parqšnoij” (parténois) più che “vergini” si è preferito tradurlo con fanciulle, poiché il termine ha perso nel tempo il significato di donna fisicamente integra e indica più semplicemente una categoria sociale di persone: fanciulle, giovinette, ragazze, donne da marito, fidanzate. Il termine “parqšnoj” va invece tradotto con “vergine” solo nel caso in cui si riferisca esplicitamente ad una donna fisicamente integra, la quale cosa si può ricavare dal contesto o dalle chiare intenzioni dell'autore. In tal senso si cfr. Gen 24,14.16; 34,3; 2Cr 36,17; 2Mac 3,19; 5,13; Sir 42,10; Is 23,4; Ez 9,6; Amos 8,13; Zc 9,17; Lc 2,36; At 21,9; 1Cor 7,36.37.38.

9Cfr. Is 54,5-8; 62,3-5; Ger 2,2; 3,20; Ez 16,3-15; 23,2-9; Os 2,2-10

10Cfr. Sal 17,29; 18,9; 26,1; 35,10; 42,3; 43,4; 88,16; 103.1-2; 117,27; 118,105; Prv 6,23; Is 2,5; 9,1; 51,4; 60,1.19.20; Mi 7,8; Ab 3,4;.-

11Cfr. Mt 9,15; Mc 2,19-20; Lc 5,34-35; Gv 3,29

12Cfr. Ef 5,22-32; Ap 19,7; 21,2.9; 22,17;

13 L'olio, che nella Bibbia viene citato duecentoquattro volte, assume significati diversi a seconda dei casi. Nell'antichità era impiegato molto per curare le ferite e le malattie; basti pensare che a Babilonia il medico era chiamato “asu”, cioè conoscitore di oli. Il suo uso, inoltre, serviva per consacrare i re, i sacerdoti e gli oggetti destinati al culto; era anche segno della predilezione divina e segnava una sorta di spartiacque tra l'unto e il resto del popolo. L'atteso inviato di Jhwh era chiamato l'Unto, per eccellenza, Mashiah, tradotto in greco con Cristo. Era anche, assieme al grano e al vino, segno dell'abbondanza e della benedizione divina. Esso faceva parte anche del sacrificio delle primizie e dei primogeniti e veniva incluso nel pagamento delle decime. Era ampiamente e variamente usato in ogni situazione. - Sulla questione si cfr. la voce “Olio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e in M. Lurker, Dizionario dell Immagini e dei Simboli Biblici. Tutte le opere citate.

14Cfr. At 8,14; 11,1; 12,24; 13,49; 14,21; Rm 10,14-17; Ef 1,13-14; Col 3,16; 1Ts 2,13; Tt 1,1-3; 1Pt 1,23; Gc 1,18;

15Cfr. Mt 28,19a.20a; At 5,20; 6,3-4; 14,7; 18,5; 1Cor 1,17a.;

16Sardi era una città della provincia romana dell'Asia, ad ovest dell'attuale Turchia. Essa era la capitale dell'antico regno di Lidia, che fu il più potente che i Greci trovarono sul loro cammino nella loro prima colonizzazione dell'Asia Minore. Essa, sotto il re Creso, divenne proverbiale per la sua ricchezza e il suo benessere, fondato sul commercio di stoffe pregiate e sull'oro, che veniva ricavato dal fiume Pactolo. Venne sconfitta dal re Ciro nel 546 a.C., dopo un duro assedio, e da allora non si riebbe più.

17Il versetto allude ad una funzione dell'amico dello sposo, quello di attestare la verginità della sposa. Si parla, infatti, qui dello sposo che possiede la sposa, alludendo all'atto sessuale, e l'amico dello sposo è lì presente, fuori dalla porta della stanza da letto, e attendeva la voce dello sposo che con gioia attestava la verginità della sua sposa. In tal senso cfr. Yves Simoens, Secondo Giovanni, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna 2002.

18Il prescritto della 1Pt si apre indirizzando lo scritto “ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell'Asia e nella Bitinia” (1Pt 1,1).

19Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.516 – op. cit.

20Una mina equivale a 100 denari ed è pari ad un sessantesimo di un talento, che equivale pertanto a 6.000 denari. Per capirne le dimensioni reali, basti pensare che un denaro corrispondeva al salario di una giornata di lavoro di un operaio (Mt 20,2).

21In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo; G. Rossé, Luca; R. Fabris, Luca. Tutte le opere citate.

22Cfr. Mt 10,10,40-42; 23,8.10.34;

23Cfr Mt 5,23-24; 18,15-17; 28,19-20a;

24Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, pag.666 – op. cit.

25Cfr. la voce “Numeri” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, op. cit.

26Cfr. Mc 16,2.9; Lc 24,1; Gv 20,1.19

27Il sotterramento dell'unico talento da parte del terzo servo sembra seguire le disposizioni rabbiniche secondo le quali chi sotterra un deposito è sollevato da ogni responsabilità. In tal senso si cfr. la nota n. 4, pag. 517 dell'opera di R. Fabris, Matteo – op. cit.

28Cfr. 1Cr 16,34; 2Cr 5,13; 7,3; 30,18; Sal 24,8; 33,9; 85,5; 99,5; 102,8; 105,1; 115,5; 134,3; 144,9; Ger 33,11; Na 1,7; Dn 3,89; Sap 15,1. - Cfr. anche il commento al v.19,16 della presente opera.

29Cfr. Dt 7,9; Sal 17,51; 30,6; 32,4; 85,15; 142,1; 145,6; Sap 15,1; Is 49,7; 65,16; Dn 9,4; Os 12,1; 1Cor 1,9; 10,13; 1Ts 5,24; 2Ts 3,3; 2Tm 2,13; 1Pt 4,19; Ap 1,5; 3,14; 19,11.

30Cfr. R. Fabris, Matteo, pag.517; op. cit.