LA VIGILANZA
Mc 13, 33-37
Premessa
Il passo che ci viene proposto dalla liturgia della I domenica di avvento è la parte conclusiva di un lungo discorso di Gesù, che occupa l'intero cap.13 e funge da transizione tra la vita pubblica di Gesù (cap.1,14-12,44) e il racconto della sua passione, morte (cap. 14-15) e risurrezione (cap 16,1--8).
Quando Gesù fa questo discorso, quindi, siamo già a ridosso della sua passione, che concluderà la sua vicenda terrena.
Il contesto in cui avviene questo discorso è l'uscita di Gesù dal tempio (Mc 13,1), che dice il definitivo abbandono del culto giudaico da parte di Gesù. Un culto che Gesù, nel racconto del fico sterile e dissecato (Mc 11,12-14.20-21), aveva già condannato per la sua sfarzosità, totalmente priva di frutti buoni.
Il discorso incomincia con l'annuncio della distruzione del tempio (Mc 13,2) e richiama e prelude, in qualche modo la morte in croce di Gesù. Da un punto di vista storico, la distruzione del tempio e la conseguente fine del culto giudaico avviene nel 70 d.C. ad opera dell'imperatore romano Vespasiano e di suo figlio Tito. Essa conclude la sanguinosissima guerra giudaica durata dal 66 al 70, con una propaggine fino al 73. Marco scriverà il suo vangelo proprio durante questo periodo (65-70) e questo discorso ne riflette il clima drammatico.
Secondo le credenze giudaiche, la fine del tempio avrebbe coinciso con la fine del mondo; da qui tutto il catastrofismo, di cui è permeato l'intero discorso apocalittico, che allude alla morte di Gesù e ne è, in un certo qual modo, una premessa. Vi è, dunque, uno stretto nesso e parallelismo tra la morte di Gesù e la fine della storia. Vedremo come proprio il v.35 richiamerà questo aspetto e le sue conseguenze all'interno della chiesa nascente.
Da un punto di vista liturgico, il breve passo evangelico di questa I° di avvento è stato preceduto e preparato da tre parabole, lette in queste tre ultime domeniche:
· Le vergini sagge e stolte (Mt 25,1-13), che delineano due comportamenti tipo tenuti nei confronti del Signore che viene: l'impegno operoso nella fede, nella speranza e carità; e la superficialità di chi, invece, si lascia trascinare dagli impegni della vita, senza preoccuparsi di dove sta andando e del senso del suo vivere. · I talenti (Mt 25,14-30), che sollecitano il credente ad un impegno proficuo e ad una operosità nel bene nell'attesa della venuta del Signore. · Il giudizio finale (Mt 25,31-46) che ha per tema l'oggetto del nostro impegno e del senso del nostro vivere: l'amore fraterno. L'amore verso Dio passa sempre attraverso l'amore verso il prossimo (1Gv 4,20-21), in cui è sacramentato Cristo stesso (Mt 25,40.45).
Nei versetti che mediteremo questa sera si parlerà del "vegliare", che sintetizza in sé le tre parabole precedenti.
Il Testo di Marco 13, 33-37
[33]State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso.
[34]E` come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vigilare.
[35]Vigilate dunque, poiché non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino,
[36]perché non giunga all'improvviso, trovandovi addormentati.
[37]Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!>>.
La struttura
Questi cinque versetti sono insistentemente percorsi da verbi imperativi ed esortativi:"State attenti", "siate insonni", "vegliate", accompagnati da suggerimenti che mettono in guardia: "voi non sapete quando ...", "giunge all'improvviso", "non vi trovi addormentati". C'è in tutto questo un allarmismo da ultimi tempi, il cui intento non è spaventare, ma una forte spinta a prendere coscienza del nostro modo di condurre la vita.
La struttura di questi versetti è a spirale, cioè, una volta annunciato il tema nel v.33, questo è continuamente ripreso e sviluppato nei versetti successivi, fino a raggiungere il vertice in quel “Vegliate!” finale del v.37
Il v.33 annuncia il tema: vegliate perché non sapete quando verrà il momento.
Il v.34 riprende il tema e lo sviluppa sotto forma di parabola, che prelude ai tempi dei credenti del dopo Gesù, i nostri tempi.
I vv.35-36 riprendono e sintetizzano in sé i due versetti precedenti dandone un annuncio completo, chiaro e definitivo.
Il v.37 chiude l'esortazione allargando ed estendendo l'orizzonte dai primi discepoli a tutti i credenti futuri e, quindi, anche a noi. Esso termina con un verbo all'imperativo esortativo: "Vegliate!", che sintetizza in sé il significato e il senso più profondi dell'intero discorso di Gesù, che dovrebbe qualificare e caratterizzare lo stile di vita di ogni cristiano.
E' questo un passo molto denso e incalzante, che non lascia respiro e spinge il credente a rimboccarsi le maniche e a guardare in avanti, verso la meta finale, senza perdersi nelle cose.
Il commento
State attenti, vegliate: il v.33 si apre con due esortazioni molto forti. La prima è un richiamo generale all'attenzione degli ascoltatori su quanto viene detto di seguito. Il verbo greco usato qui è "blépete" e si trova 8 volte nel vangelo di Marco, di cui 4 soltanto nel cap.13. Questo ci dice l'urgenza di distogliere la nostra attenzione dalle cose per volgerla altrove. Non si tratta, qui, di trascurare la nostra quotidianità, ma di non lasciarci assorbire totalmente da essa. Si tratta di dare il giusto valore alle cose e di saperle leggere ed usare nella prospettiva di Dio. Paolo ce lo ricorda nella sua lettera ai Romani: "Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto" (Rm 12,2).
La seconda esortazione, che rafforza la prima, è "vegliate". Il verbo greco qui è "agripnéite", cioè "astenetevi dal sonno", "siate insonni". Il sonno di cui si parla è quello di chi si lascia assorbire dalle cose al punto tale da dimenticarsi che il suo vivere qui non è una stabile dimora, ma un semplice cammino. Siamo tutti di passaggio. Paolo, proprio in un contesto simile, ci ricorda che bisogna usare delle cose come se non le usassimo: "Il tempo, ormai, si è fatto breve; d'ora innanzi coloro che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e coloro che godono come se non godessero; quelli che usano del mondo come se non lo usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!" (1Cor 7,29-31). Paolo, qui, non incita al disprezzo delle cose di questo mondo e di quelle che la vita onesta ci offre, ma ci sollecita a non farne il fondamento esclusivo della nostra vita, a non lasciarci distrarre da queste. Il motivo principale di tutto questo è che "ormai il tempo si è fatto breve". Paolo, come tutta la chiesa del primo secolo, era convinto dell'imminente ritorno di Cristo e, quindi, la fine del mondo e della sua storia. Benché ciò non sia accaduto, tuttavia la validità del richiamo non viene meno, poiché lo spazio della nostra vita, per quanto ampio, è sempre molto ristretto e la salvezza ce la giochiamo in questo breve spazio esistenziale.
Perché non sapete: questa espressione, ripetuta due volte, costituisce il perno centrale attorno a cui ruota l'intero passo ed è la motivazione per cui bisogna che il credente si attivi in una vita attenta e operosa nel bene. Non si conosce il momento del ritorno, per questo bisogna essere sempre pronti e attenti per non farci prendere in contropiede. Non si tratta qui di vivere nell'ansia, come chi sente su di sé una sorta di spada di Damocle, che può caderci addosso da un momento all'altro. Il non sapere ci deve essere soltanto di sprone ad un maggiore impegno, a dare alle cose il loro giusto valore, ravvivando in noi la coscienza del nostro essere credenti, perché pur appartenendo a questo mondo e vivendo in esso, siamo già cittadini del cielo. Per questo Paolo ci esorta a pensare alle cose di lassù e non a quelle della terra, fornendocene anche la motivazione: "Siete dunque risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi, infatti, siete morti e la vostra vita ormai è nascosta con Cristo in Dio!" (Col 3,1-3). E' proprio il fatto di essere stati cristificati nel battesimo, che ci deve spingere a vivere la nostra vita e le realtà di questo mondo nella prospettiva e secondo le logiche di Cristo, poiché non siamo più noi che viviamo, ma Cristo vive in noi (Gal 2,20).
... quando sarà il momento preciso: l'espressione greca dice "quando è il tempo giusto". Il verbo non è al futuro, ma al presente e richiama l'attenzione e l'impegno del credente nell'oggi e non nel domani. L'espressione che dice "il tempo giusto", in greco è "kairòs", un termine che nel N.T. si riferisce normalmente al tempo di Dio, il momento in cui si compie l'azione di Dio. Ebbene, questo "kairòs", questo "tempo di Dio" è stato inaugurato da Cristo, che ha posto fine al tempo dell'uomo con la sua morte in croce e ne ha inaugurato uno totalmente nuovo, divino, con la sua risurrezione. Un nuovo tempo, un nuovo spazio in cui l'uomo è chiamato ad entrare e a vivere "oggi", poiché nessuno sa quando questo spazio si chiude definitivamente per lui. Per cui se uno vi è entrato vi rimane, ma se non vi è entrato, perché si è addormentato nelle cose, rimane fuori. E' la parabola delle dieci vergini sagge e stolte, che ci sollecita alla vigilanza, per non trovarci fuori alla venuta dello sposo.
E' come uno che è partito ... il v.35 presenta una breve parabola che trova il suo parallelo in Mt 25,14 e Lc 12,35-38. Essa allude chiaramente al tempo del dopo Gesù, al tempo della chiesa, al nostro tempo. Non va dimenticato che quando Gesù fa questo discorso si trova a pochi giorni dalla sua passione e morte. E' lui, infatti, quel "uno che è partito", lasciando il suo messaggio e il suo testamento spirituale e salvifico in mano alla chiesa. Per Marco il termine "casa" indica quasi sempre la comunità credente. La dipartita di Gesù, tuttavia, non è un abbandono dei suoi discepoli, ma lascia "ai suoi servi il potere". Il potere di cui si parla qui è lo stesso che Gesù possedeva durante la sua vita terrena e che gli è stato dato da suo Padre a favore degli uomini (Mt 11,27a; Gv 10,18; 17,2). Si noti come il potere è stato dato ai servi. Il termine "potere", quindi, viene abbinato alla parola "servi". Si tratta, quindi, non di un potere coercitivo, ma di un servizio che il credente, da Gesù in poi, è chiamato a compiere all'interno della chiesa e a favore degli uomini. Gesù, infatti, è la testimonianza concreta, storica di questo servizio divino speso a favore degli uomini (Fil 2,6-8). In Gesù, infatti, è Dio che si pone a servizio degli uomini e si spende per la loro salvezza.
... a ciascuno il suo compito: è la logica conclusione delle due battute precedenti: il padrone, a motivo di un viaggio[1], lascia la sua casa, cioè la comunità credente che si è costituita attorno a lui, e la fornisce di adeguati poteri finalizzati al servizio dell'uomo e alla sua salvezza, perché in ciò venga prolungata l'opera del padrone assente. Ognuno, all'interno della comunità credente, ha le sue responsabilità, definite dal suo status sociale, che le vicende della vita gli hanno assegnato. All'interno di questo egli deve operare responsabilmente secondo le proprie capacità e in funzione dei compiti, che la vita gli ha affidato, vivendoli secondo le logiche e l'insegnamento del padrone di casa, a cui dovrà rispondere (Mt 25,14-30). In proposito, l'autore della prima "lettera di Pietro", che scrive in un contesto fortemente segnato da una fine sentita ormai imminente, dice, rivolto alla sua comunità: "La fine di tutte le cose è vicina. ... Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo ..." (1Pt 4,7a.10-11).
e ha ordinato al portiere di vigilare: il testo greco dice "ha dato disposizioni al portiere affinché vigilasse". Ciò significa che quanto Gesù è venuto a dirci è finalizzato a creare in noi un atteggiamento di attenzione e di insonne vigilanza. In altri termini, siamo chiamati a vivere nel mondo pur non appartenendo al mondo (Gv 15,19; 17,14.16), con la coscienza che, in virtù del battesimo siamo stati cristificati e, pertanto, apparteniamo a Cristo. Le logiche del mondo, quindi, ci devono apparire del tutto estranee. L'autore della lunga lettera a Diogneto[2], parlando dei cristiani, dice di loro: "Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo" (Diogneto V,8-9) e ancora: "... come è l'anima nel corpo, così sono i cristiani nel mondo ... l'anima abita nel corpo, ma non è del corpo; così i cristiani, abitano nel mondo, ma non sono del mondo" (Diogneto VI,1.3a). Per questo Gesù, rivolto ai suoi, li sollecita a rinnegare se stessi e prendere la croce. Soltanto a queste condizioni essi possono seguire Gesù e definirsi suoi veri discepoli (Mc 8,34).
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!: se le disposizioni impartite circa il vegliare sembrano, al v. 34, rivolte al portiere, cioè al responsabile della comunità, qui, questo limite viene decisamente superato: quello che dico a voi, lo dico a tutti. L'esortazione a "Vegliare!", inizialmente affidata al ristretto gruppo dei suoi discepoli, qui li travalica per estendersi a tutte le future generazioni dei credenti, fino ai nostri giorni.
Il lungo discorso di Gesù, iniziato in 13,5, termina con un imperativo esortativo: "Vegliate!", che riassume in sé il significato più profondo dell'intero discorso. Ma vuole anche essere un aggancio e una preparazione alla imminente passione e morte di Gesù. Non a caso, infatti, quando Gesù si ritroverà nell'orto del Getsemani, solo con i suoi discepoli, gli stessi a cui aveva rivolto questo discorso, Pietro, Giacomo e Giovanni (Mc 13,3; 14,33), per ben tre volte ricorderà a loro la necessità di vegliare e di pregare per non cadere in tentazione (Mc 14,34.37.38).
In tal modo, proprio attraverso la parola chiave "Vegliate", Marco collega gli eventi catastrofici, che coinvolgeranno anche i suoi discepoli, alla passione e morte di Gesù. Come dire che le sofferenze e le persecuzioni che i discepoli, di ogni tempo e latitudine, dovranno sopportare a causa del nome di Gesù e del suo Vangelo li assoceranno alla passione e morte redentive del loro Maestro.
Il modo per affrontare la prova del vivere con costante quotidianità il proprio essere cristiani è il "Vegliare". Che cosa questo significhi, ce lo ricorda Paolo nella sua lettera ai Romani: "Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi, invece, del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri" (Rm 13,11-14).
[1]La missione di Gesù, colta come un viaggio, è espressa molto bene nel vangelo di Giovanni. Egli concepisce la presenza di Gesù come una sorta di movimento pendolare, che traspare un po' in tutto il suo vangelo: Gesù esce dal Padre, entra nel mondo, si presenta in esso come il rivelatore per eccellenza del Padre, compie le sue opere e, infine, se ne torna al Padre. Il passo più significativo, che esprime questo concetto di pendolarità, è Gv 16,28: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo, e vado al Padre". [2]L'autore della lettera, databile al II sec., è sconosciuto, mentre il destinatario, Diogneto, non è identificabile. La lettera, più che tale, sembra essere un piccolo trattato illustrativo del vivere cristiano nel mondo ed è rivolta a coloro che, guardando benevolmente al mondo dei cristiani, desiderano farne parte. |