III DOMENICA DI AVVENTO 2006

 

Luca 3, 7-17

 

Costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco

 

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Premessa

 

Con i vv. 3,1-6 Luca ha presentato la figura del Battista collegandola da un lato all’universalità della storia umana (Lc 3,1-2a) coniugata con quella divina (Lc 3,4-6), dall’altro quale attuazione della Parola, che trova nel Battista la sua dimora (Lc 3,2b) e si fa annuncio (Lc 3,3). Giovanni pertanto è divenuto il punto d’incontro del mondo umano con il progetto salvifico divino. In lui si sviluppa un dialogo salvifico tra Dio e gli uomini, che assume lo schema dell’annuncio (Lc 3,7-9) e risposta (Lc 3,10-14), che costituirà il tema dei vv. 3,7-14.

 

 

Il Testo di Luca 3, 7-17

 

 

[7]Diceva dunque alle folle che andavano a farsi battezzare da lui: <<Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira imminente?
[8]Fate dunque opere degne della conversione e non cominciate a dire in voi stessi: Abbiamo Abramo per padre! Perché io vi dico che Dio può far nascere figli ad Abramo anche da queste pietre.
[9]Anzi, la scure è gia posta alla radice degli alberi; ogni albero che non porta buon frutto, sarà tagliato e buttato nel fuoco>>.
 

[10]Le folle lo interrogavano: <<Che cosa dobbiamo fare?>>.
[11]Rispondeva: <<Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto>>.
[12]Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: <<Maestro, che dobbiamo fare?>>.
[13]Ed egli disse loro: <<Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato>>.
[14]Lo interrogavano anche alcuni soldati: <<E noi che dobbiamo fare?>>. Rispose: <<Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe>>.
 

[15]Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo,
[16]Giovanni rispose a tutti dicendo: <<Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
[17]Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile>>.

 

Introduzione ai vv. 3,7-20

 

Il v. 3,3b presenta in modo sintetico la predicazione di Giovanni che annuncia un battesimo di penitenza finalizzato al perdono dei peccati. Questo versetto costituisce una sorta di preambolo introduttivo ai vv. 3,7-14, che sono una specificazione dettagliata di tale preambolo e  assumono una forma dialogica di risposta esistenziale all’annuncio stesso.

 

La grande figura di Giovanni, riconosciuta pubblicamente anche da Gesù (Mt 11,11; Lc 7,28), trova un suo drastico ridimensionamento ai vv. 3, 15-17,  in cui il Battista misura tutta la sua distanza da Gesù, al quale non è degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali. Una figura che alla fine verrà completamente oscurata nel carcere di Erode (Lc 3,20), da cui non uscirà più, lasciando in tal modo l’intero palcoscenico a Gesù.

 

I vv. 3,7-14 sono strutturalmente divisi in due parti:

 

·         vv. 7-9 Luca si rivolge alle folle, diversamente da Matteo che invece predilige i farisei e i sadducei (Mt 3,7). Questi versetti costituiscono un appello alla conversione (v. 8). Tale appello è inquadrato su di uno sfondo  escatologico e apocalittico (vv. 7.9) dai toni molto duri e drastici, che non ammettono alcuna replica, ma consentono solo un’unica risposta: fare opere degne di conversione.

Questi versetti, a loro volta, sono disposti strutturalmente in modo concentrico nella forma di A) – B) – A’):

 

A) l’appello si apre con una sferzata violenta che si fonda su due elementi portanti: “Razza di vipere” e “ira imminente” (v. 7)

 

B) presenta il cuore dell’appello: “Fate dunque opere degne  della conversione” senza voler campare scuse. Tale appello è posto al centro del discorso escatologico del Battista per indicarne l’importanza. (v. 8)

 

A’) Il v.9 riprende la durezza del v.7 (A) specificando in che cosa consista l’ “ira imminente”: la scure è posta alle radici pronta a tagliare se non vi è quell’adeguata risposta indicata nel v.8 (B).

 

·         vv. 10-14  formano la risposta concreta all’appello e si strutturano su di una domanda fondamentale che si ripete per tre volte, indicandone in tal modo tutta l’importanza: “Cosa dobbiamo fare”; a questa segue immediatamente una triplice risposta, che testimonia l’immediatezza della risposta della Parola ad ogni esigenza umana e sulla quale l’uomo è chiamato in ogni momento a misurarsi. La questione quindi si pone su di un piano pratico e quindi morale, cioè riguarda strettamente il comportamento della persona.

Il tema di fondo che unisce tutte e tre le risposte è il proprio rapportarsi agli altri ed ha come sfondo l’amore concreto, colto nel suo dispiegarsi quotidiano: 1) la condivisione dei propri beni con chi è meno fortunato (Lc 3,11); 2) la correttezza e l’onestà nello svolgimento del lavoro e dei propri impegni sociali (Lc 3,13); 3) il rispetto delle persone e dei loro diritti, limitando le proprie esigenze e contenendo la propria cupidigia, che spesso è all’origine di comportamenti sociali vessatori, violenti e scorretti (Lc 3,14).

Gli attori principali sono le folle, i pubblicani e i soldati abbracciando in tal modo tutte le categorie sociali. Nelle “folle” Luca racchiude l’intero popolo, la cui totalità e variegata composizione sociale sono garantite dall’anonimato; mentre nei pubblicani e nei soldati l’evangelista indica le due componenti sociali più disprezzate e odiate, in quanto espressione del potere fiscalmente oppressivo (pubblicani) e repressivo (soldati) dei romani.

In tale spettro sociale così ampio Luca vuole sottolineare come l’appello alla salvezza è rivolto non soltanto ad Israele, ma all’intera umanità, indipendentemente dalla posizione sociale in cui venga a trovarsi ogni suo membro.

 

·         vv. 15-17 I tre versetti costituiscono delle entità letterariamente ben circoscritte:

 

- il v.15 è probabilmente di tipo redazionale[1], cioè costruito appositamente da Luca, da un lato per staccare la predicazione dei vv. 3,7-14 di tipo etico; dall’altro per introdurre una seconda fase della predicazione il cui tema verte sul confronto delle due figure di Giovanni e Gesù.  Potremmo quindi definirlo come un inciso di passaggio.

Il versetto si apre presentando il popolo in uno stato di attesa messianica, mentre si interroga sull’identità di Giovanni. Questa troverà una duplice risposta nei vv. 16 e 17: l’una riguarda un confronto differenziante tra Giovanni e il Cristo (v.16); l’altra consiste in una breve presentazione del Messia, dipinto con tratti escatologici, portatori di un giudizio divino (v.17).

- il v.16 pone il confronto su di un duplice aspetto: personale, tra Giovanni e Gesù e, conseguentemente sul radicale e sostanziale diverso senso del loro operare, evidenziato dal tipo di battesimo: l’acqua per il Battista, Spirito Santo e fuoco per il Messia.

- il v.17 è totalmente riservato alla figura del Messia, presentato con tratti squisitamente escatologici su di uno sfondo di giudizio universale.

 

·    v. 18 questo versetto, che con linguaggio tecnico viene definito “sommario”, chiude l’attività del Battista e prelude alla sua fine, che verrà illustrata nei vv. 19-20. Si tratta dunque di un versetto di transizione verso la conclusione definitiva della sezione riguardante Giovanni Battista.

 

·    vv. 19-20  con questi versetti Luca presenta il contesto storico e le motivazione dell’imprigionamento di Giovanni, vittima innocente della scelleratezza del potere. Con tale escamotage Luca ottiene e raggiunge un duplice obiettivo: a) preannuncia in Giovanni la triste fine di Gesù e lo presenta come sua figura; b) togliendo dalla scena storica l’ingombrante figura del Battista, libera il campo, riservandolo totalmente al suo personaggio principale, Gesù.

 

 

 

Il commento di 3, 7-17

 

 

Diceva dunque alle folle  ...  diversamente da Matteo che riserva questo deciso richiamo di Giovanni ai farisei e ai sadducei (Mt 3,7), Luca indirizza l’esortazione dai duri toni escatologici alle folle. La diversità dei destinatari denuncia le diverse posizioni storiche e culturali dei due evangelisti. Matteo, in quanto ebreo che viene a trovarsi in un’epoca di forte contrasto e di rottura con il giudaismo (75-80 d.C.), è fortemente polemico con il culto e con il potere giudaici, per cui si scaglia contro i loro rappresentanti, facendo pesare su di loro il giudizio divino per la loro caparbia incredulità. Luca è un convertito dal paganesimo ed è di cultura greca. I suoi interessi lo aprono al mondo intero, superando le ristrette polemiche proprie delle prime comunità cristiane poste all’interno del giudaismo. Il suo respiro quindi si fa universale: le folle, il cui anonimato è sinonimo e garanzia di universalità. Il messaggio evangelico di salvezza quindi per Luca è rivolto a tutti indistintamente.

 

... che andavano a farsi battezzare da lui  questa espressione in greco viene resa con un participio presente medio-passivo “ekporeuomenois” che letteralmente significa “che escono, che si allontanano”, dando l’idea di un distacco. Questo movimento delle folle verso un battesimo di penitenza e di conversione dice il senso della conversione: un uscir fuori e un allontanarsi da un proprio modo di vivere non più confacente agli ultimi tempi, che Giovanni annuncia e che trovano il loro inizio e il loro compimento nella figura di Gesù, il vero inviato uscito dal Padre (Gv 5,36; 6,57; 16,28; 20,21), venuto per ricondurre gli uomini in seno a Dio. Gesù pertanto è il vero “escaton”, cioè l’ultimo discorso che il Padre rivolge agli uomini e, proprio perché ultimo, è anche un giudizio che viene posto su di loro. Di fronte all’ “escaton” l’uomo è chiamato a prendere posizione e dare la sua risposta esistenziale. Il verbo posto al participio presente dice come questa azione di riorientamento della propria vita verso Dio non è un atto compiuto una volta per sempre, ma è un continuo rivolgersi a Dio, un continuo allontanarsi e un continuo uscir fuori dalla propria fragilità per conformare il proprio vivere alle esigenze del Padre manifestate nel Figlio.

 

Razza di vipere ...  l’espressione è molto dura e non trova un suo equivalente nell’A.T. né, al di fuori di qui, nel N.T. Il testo greco dice “ghennémata echidnòn”, che letteralmente significa “generazione, figlio, prole, progenie di vipere”. Il riferimento alla vipera, che possiede in sé un veleno mortale e della quale le folle, cioè l’umanità, sono discendenti diretti, rimanda al primordiale serpente genesiaco che ha inoculato nel primo uomo il veleno della rivolta contro Dio (Gen 3, 4-5), producendo la sua fuoriuscita dal paradiso terrestre (Gen 3, 23-24), cioè dalla stessa dimensione divina, perdendo la sua somiglianza con Dio. Ebbene queste folle sono definite da Giovanni come ribelli a Dio e possiedono nelle loro vite questo tipo di veleno mortale che non dà loro più nessuna speranza. Esse sono le eredi dirette della colpa, che con il loro modo di vivere seminano il veleno del peccato, sono produttrici di morte. Sono quindi figli di satana, di quel serpente primordiale.

Questa immagine trova la sua analogia nei testi del Qumran, dove si parla della banda di Belial (satana, il diavolo) definita come un nido di vipere[2]. Su questa generazione pesa la maledizione divina posta sul serpente antico (Gen 3,14), poiché essi ne sono i discendenti.

 

L’ira imminente  l’antico Israele non era nuovo all’ira di Dio. Tale termine ricorre in tutto l’A.T. circa 300 volte. Il motivo di fondo prevalente di tale ira trova la sua matrice primordiale nell’infedeltà del popolo dalla “dura cervice” nei confronti di Jhwh: “Allora il Signore disse a Mosè: <<Và, scendi, perché il tuo popolo, che tu hai fatto uscire dal paese d'Egitto, si è pervertito. Non hanno tardato ad allontanarsi dalla via che io avevo loro indicata! Si son fatti un vitello di metallo fuso, poi gli si sono prostrati dinanzi, gli hanno offerto sacrifici e hanno detto: Ecco il tuo Dio, Israele; colui che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto>>. Il Signore disse inoltre a Mosè: <<Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione>>.” (Es 32, 7-10). E’ questa ottusità nei confronti di Dio che provoca la violenta reazione divina.

Non molto diversamente va nel N.T. nel quale l’ira di Dio è sempre associata alla impermeabile e impenetrabile chiusura dell’uomo nei confronti di Dio che gli tende la mano e al suo percorrere strade che lo allontanano da Lui (Gv 3,36; Rm 2,5.8; Col 3,6).

 

Tale ira tuttavia è qui qualificata come “imminente”. Non si parla dunque di un’ira che Dio manifesta occasionalmente o che ha manifestato in passato, quale risposta a comportamenti infedeli dell’uomo. Questa imminenza ci colloca in un contesto di regolamento di conti finale e si muove sullo sfondo di un giudizio che non ammette più appelli e, quindi, definitivo. L’appello dunque alla conversione assume toni drammatici e definitivi e annuncia l’avvento del tempo del giudizio, che troverà in Gesù il suo inizio: “Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: <<Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo>>.” (Mc 1,14b-15).

 

Fate dunque opere degne della conversione  il verbo “fate”, un imperativo esortativo, è reso in greco con “poiésate”, un aoristo di tipo ingressivo, che indica l’inizio di un processo di conversione, che deve coinvolgere l’uomo fin da subito. Tale conversione si pone sul piano del “fare”; si tratta dunque di un concreto impegno esistenziale che deve produrre un visibile cambiamento nello stile di vita e nel modo di comportarsi. Si tratta di un “fare” che indica un deciso cambiamento di rotta e un riorientamento esistenziale verso Dio. L’uomo quindi è chiamato ad un cambiamento di mentalità (metànoia) ad un diverso ed opposto modo di porsi di fronte alla vita e a Dio. Si noti come il testo greco non dice “eis metanoian” la quale cosa indicherebbe un comportamento che condurrà alla conversione e, quindi, preparatorio ad essa, ma dice “tès metanoìas” un’espressione che indica la natura stessa di questo fare: esso deve esprimere e testimoniare una reale ed intima conversione che coinvolge l’uomo nel profondo del suo cuore.

 

Quel “dunque” (gr. oun) posto all’interno dell’esortazione stessa dice come questo cambiamento debba essere la conseguenza diretta dell’appello divino alla conversione e, quindi, la giusta risposta esistenziale che l’uomo è chiamato a dare per evitare un giudizio di condanna, poiché con l’avvento di Gesù è iniziato il tempo del giudizio.

 

E non incominciate a dire in voi stessi ...  era profondamente radicato nell’ebreo il senso della sua appartenenza al popolo eletto e dell’essere il diretto erede delle promesse che Dio aveva fatto ad Abramo. Da ciò il popolo traeva la conclusione che, ipso facto, era salvo e salvaguardato da Dio da tutti i suoi nemici, indipendentemente dal proprio comportamento (Ger 7,1-12; ). La risposta dura di Giovanni è che “Dio può far nascere figli di Abramo anche da queste pietre”. In altri termini, l’essere “figli di Abramo” non costituisce davanti a Dio nessun titolo di merito e tantomeno è garanzia di salvezza, poiché i veri “figli di Abramo sono quelli che vengono dalla fede.” (Gal 3,7). Con questa espressione Paolo definisce il nuovo discendente e quindi il vero erede delle promesse che Dio ha fatto ad Abramo. Non è più dunque l’appartenenza carnale ad Israele o il suo conformarsi alla Torah che salverà l’uomo, ma la sua apertura esistenziale al Dio che si è manifestato in Cristo: “Infatti, Giudeo non è chi appare tale all'esterno, e la circoncisione non è quella visibile nella carne; ma Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio.” (Rm 2, 28-29). Con la venuta di Cristo dunque cambiano i parametri del proprio rapportarsi a Dio ed essi risiedono tutti nell’accogliere Cristo e nel conformarsi alle esigenze di Dio in lui rivelate. Il convertirsi quindi comporta un rivedere in modo sincero e radicale il nostro modo di essere nei confronti di Dio, nella coscienza che Egli guarda alla sincerità del cuore, al di là di ogni configurazione storica in cui l’uomo si pone o ama fregiarsi: “Pietro prese la parola e disse: <<In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto.” (At 10,34-35).

 

Anzi , la scure è già posta  alla radice ...  l’ira imminente contenuta del v.7 trova qui la sua esplicitazione. L’imminenza è data dal fatto che la scure è già pronta per troncare gli alberi che non portano frutto, richiamandosi ai “frutti degni di conversione” del v.8. La metafora di questo v.9 quindi sintetizza i due versetti precedenti (vv. 7-8) e proprio per la sua immagine così dura, drastica e immediata va a colpire direttamente il cuore dell’uomo.

 

Le folle lo interrogavano: “Che cosa dobbiamo fare?” ...  il v.8 si apriva con l’esortazione “fate dunque frutti degni della conversione”. Quali siano questi frutti viene detto ora. L’orizzonte entro cui si muovono questi versetti (vv. 10-14) è squisitamente etico[3] e fa pensare ad una catechesi che Luca sta impartendo alla sua comunità. Si tratta quindi di una sorta di appello pressante a condurre una vita in conformità del battesimo con cui sono stati segnati i nuovi credenti[4]. L’essere battezzati infatti non è garanzia di salvezza, come non lo era per gli ebrei l’essere “figli di Abramo”. Solo la coerenza e la conformità della vita alle realtà di cui siamo stati rivestiti nel battesimo ci aprono alla salvezza.

 

Il tema di fondo su cui vertono le domande è l’amore colto nel suo dispiegarsi quotidiano e fatto di piccoli atti concreti che vanno dalla condivisione dei propri beni al rispetto delle persone, della loro dignità e dei loro diritti; dall’onestà e correttezza nei rapporti sociali al porre freno alla propria cupidigia, ingordigia e all’arrivismo sociale, che portano inevitabilmente alla sopraffazione e al calpestamento dello spazio esistenziale degli altri i cui confini nessuno può in qualsiasi modo violare.

 

Luca quindi pone come parametro di raffronto della sincerità della propria conversione l’etica dell’amore, che trova il suo fondamento nell’affermazione dell’altro, colto come un valore per me e che deve guidare i rapporti sociali e personali del nuovo credente. È la regola aurea che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). Un amore che va al di là di ogni sentimento, simpatia o emozione e si definisce come un atteggiamento esistenziale di totale apertura e donazione di sé all’altro, di piena accoglienza dell’altro in se stessi.

 

Poiché il popolo era in attesa ...  il v.15 introduce il tema delle identità di Giovanni e di Gesù e del senso delle loro missioni. Esso è scandito in tre parti: le prime due distinte da due verbi con diverso soggetto (a: “il popolo era in attesa”; b:tutti si domandavano”); la terza parte presenta il tema che verrà trattato nei due versetti successivi (vv. 3,16.17): la questione dell’identità di Giovanni: si deve definire se egli è il Cristo, cioè il preannunciato Messia atteso dalle genti.

Il v. 15 si apre presentando un “popolo in attesa”.  Tale popolo, qualificato dall’attesa, è lo stesso Israele, che dal tempo della profezia di Natan al re Davide[5] (1010-970 a.C.) attendeva la venuta di un messia liberatore e restauratore del regno di Israele.

Questo stato di attesa già in qualche modo era stato metaforicamente anticipato da Luca al v. 1,21 quando Zaccaria, entrato nel tempio per compiere il sacrificio, ebbe l’annuncio della nascita di Giovanni e tardava ad uscire: “Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria, e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio”. Il popolo era raccolto davanti al tempio in preghiera (Lc 1,10) e attendeva che Zaccaria, il cui nome significa “Dio si è ricordato”, uscisse finalmente dal tempio per mostrarsi alle loro attese. Il popolo dunque attendeva in qualche modo che Dio si ricordasse delle promesse fatte a Davide e gli si manifestasse; un’attesa fatta di preghiera davanti a Dio, simboleggiato qui dal Tempio. Un’attesa che viene sottolineata da Luca anche nel vecchio Simeone (Lc 2,25) figura del pio israelita, e dall’annuncio della profetessa Anna : “Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.” (Lc 2,38).

Tale attesa che pervade profondamente l’anima del popolo definisce tutta la sua disponibilità (Lc 1,17) ad accogliere con gioia il Dio che viene e a lasciarsi plasmare dalla sua Parola[6].

 

Il v. 15 prosegue dicendo che “tutti si domandavano”. Se il termine “popolo” definisce storicamente Israele, l’espressione “tutti” è onnicomprensiva e abbraccia oltre che il popolo anche tutti coloro che, pur ponendosi vicino ad Israele, tuttavia se ne stanno fuori. Luca è il teologo della storia della salvezza universale, la quale pur partendo da Israele si espande “fino ai confini della terra” (At 1,8). Pertanto, se da un lato l’attesa era propria di Israele, dall’altro l’interrogarsi sull’identità di Giovanni apparteneva all’intera umanità credente. Il verbo greco, che è stato tradotto con “si domandavano”, è “dialoghizoménon” che letteralmente significa: “pensare, giudicare, valutare, discutere, computare, calcolare”. Non si trattava quindi semplicemente di qualche interrogativo che ci si poneva intimamente, ma di un vero e proprio dibattito che coinvolgeva interamente ogni uomo ed era posto al centro della sua vita[7]. L’attesa del Messia spingeva dunque il popolo e tutti i timorati di Dio[8] ad interrogarsi e ad interpretare i segni dei tempi in un ampio dibattito comunitario. La ricerca di Dio non è mai un fatto privato e benché possa coinvolgere intimamente ogni uomo, deve poi sfociare in un confronto con la fede della comunità, poiché il cammino della salvezza è sempre un cammino comunitario.

 

Giovanni rispose a tutti dicendo:  la risposta che qui Giovanni dà non è rivolta al popolo, ma a “tutti”, che sopra sono stati qualificati come “coloro che si domandavano”. Se quel “tutti” da un lato dice l’universalità della risposta che li coinvolge, dall’altro questa risposta non è rivolta a tutti indistintamente, ma a “tutti coloro che si interrogavano” e quindi coloro che cercavano Dio nella loro vita. Il punto di partenza di ogni ricerca è l’interrogarsi sul senso della propria vita e l’interrogare la Parola di Dio, da cui esce la risposta chiarificatrice ed illuminante. Questo è ciò che deve qualificare il tempo dell’attesa.

 

Io vi battezzo con acqua, ma ...     il v.16 riguarda interamente il confronto personale tra Giovanni e Gesù, due figure che fin da subito Luca contrappone l’una all’altra[9]. Le grandezze dei due personaggi e delle epoche, che essi in qualche modo incarnano,, sono definite dalle espressioni:

 

·         " ... è più forte di me" (ischiroteros mu);

·         " ... non sono degno di togliere i calzari".

 

Il termine “ischiroteros” (più forte), posto al comparativo, introduce il confronto e caratterizza il tratto centrale del v.16. Il significato primario della parola “ischiros”, riferito al corpo, è "forte, vigoroso, robusto"; in senso traslato va inteso come "potente, autorevole, forte, grande"; tutte definizioni attribuibili a Dio.

 

Nell'AT il termine “ischiros” viene riferito a Dio numerose volte, quale attributo proprio della sua dimensione divina[10], mentre altre volte l'aggettivo sostituisce il nome stesso di Dio[11], divenendone un sinonimo.

 

Quale senso, dunque, dà Luca al termine? Certamente il confronto tra Giovanni e Gesù non viene posto sul piano fisico, ma in senso squisitamente morale, anzi, vedremo subito, ontologico, e sottolinea la primarietà assoluta di colui che viene.

 

Il termine “ischiroteros” (più forte), pertanto, esprime una netta e inequivocabile superiorità vincente di Gesù sul Battista, al punto tale che questi dichiarerà di non essere neppure degno "di togliere i calzari", compito questo riservato agli schiavi.

Tale precisazione evidenzia tutta la distanza che intercorre tra Gesù e il Battista, specificando in tal modo il senso di quel "più forte". Tuttavia il rapporto tra i due non è paragonabile neppure a quello tra padrone e schiavo. Infatti, mentre ciò che distanzia il padrone dallo schiavo è soltanto la posizione sociale dell'uno verso l'altro, qui la distanza si pone su di un piano ontologico. In ciò, sia pur velatamente, viene affermata la divinità di Gesù, che, dopo la risurrezione, quando ormai già appartiene pienamente e totalmente al mondo di Dio, esorterà la Maddalena a non toccarlo (Gv 20,17).

 

La diversità sostanziale dei due personaggi, che Luca pone tra loro a confronto, e la distanza che li separa vengono rilevate anche dalla sostanziale diversità dei due battesimi: "Io vi battezzo nell'acqua  ... costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco".

 

Il confronto tra i due battesimi è incluso da due verbi che definiscono l’azione dei due personaggi, la cui diversità sostanziale è qualificata dal diverso tempo del loro battezzare: l’uno è posto al presente “io vi battezzo con acqua”, l’altro al futuro: “costui vi battezzerà con Spirito santo e fuoco”. Diverso poi è lo strumento con cui si battezza: il primo è dato dall’acqua; il secondo dallo Spirito santo e dal fuoco. Si noti poi come il nome del concorrente con cui Giovanni si confronta non viene mai rivelato, ma a lui si fa riferimento attraverso due espressioni: “è più forte di me” (gr. ischiròteros mu) e “non sono degno di sciogliere il legaccio dei sandali”. L’alone di mistero e di inconoscibilità che circonda il misterioso innominato ci rimanda al mistero stesso di Dio, conoscibile dal suo operare (Rm 1,20), ma irraggiungibile nel suo Nome, che rivela l’essenza stessa del suo Essere.

 

L’azione del battezzare di Giovanni è posta nel presente, che è il tempo proprio in cui egli opera, cioè quello veterotestamentario; un tempo che trova in lui il suo compimento e la sua conclusione. La sua azione pertanto è il preannuncio di un’altra azione che si pone nel futuro e che richiama l’agire ultimo e definitivo di Dio. Per questo Luca dice “costui vi battezzerà”, perché il futuro è lo spazio di Dio. È il confronto quindi di due tempi: l’uno preparatorio (A.T.) all’altro (N.T.), l’uno che confluisce e trova la sua pienezza nell’altro. Il primo tempo (A.T.) è caratterizzato dall’acqua, il secondo (N.T.) dallo Spirito Santo e dal fuoco.

 

La figura di Gesù è caratterizzata da due verbi uno posto al presente (“viene uno”), l’altro al futuro (“costui vi battezzerà”). I due movimenti sono tra loro strettamente correlati dallo stesso soggetto. Il presente indicativo “viene” dice il dinamismo di una costante presenza operante in mezzo agli uomini. Questa tuttavia non si esaurisce nel presente, ma si proietta verso il futuro ed è strettamente legata ad esso. L'azione del suo venire è quindi proiettata dinamicamente in avanti quasi a significare come l'evento Gesù, con il suo venire, apre già nel presente uno spazio futuro, o per meglio dire, il futuro dell'uomo è già coglibile nella presenza di Gesù. L'agire di Gesù quindi è un operare nel presente, ma contiene già in sé spazi futuri; o se vogliamo, è un futuro che già opera nel presente. Vediamo, dunque, come questo venire di Gesù, legato al futuro, è fortemente pregno di un profondo senso escatologico, che proietta fin d'ora il presente dell'uomo nel futuro compiuto di Dio, di cui Gesù è la porta aperta (Gv 14,6).

 

L’attività di Giovanni si incentra oltre che nella predicazione-annuncio (kerussein) anche nel “battezzare”, che caratterizza la sua figura così da essere chiamato il “Battista”, cioè il battezzatore. Di quale tipo sia la sua predicazione già è stato detto nei vv. 3,7-14; ora viene evidenziato il senso del suo battezzare, mettendone in rilievo la natura: l’acqua che lo diversifica, ma non lo contrappone allo Spirito Santo e fuoco del battesimo proprio di Gesù.

 

Acqua e Spirito non sono pertanto due realtà contrapposte, ma complementari, l’una richiama da vicino l’altra e ne è una sorta di prefigurazione. Già nella prima pagina della Bibbia Acqua e Spirito sono poste in uno stretto connubio: “Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque.” (Gen 1,2). L’acqua primordiale, simbolo del caos, viene associata allo Spirito di Dio e da questo connubio sgorga la primitiva creazione, che Dio definisce “molto buona” (Gen 1,31), simbolo e figura di una nuova creazione che si sarebbe realizzata nella risurrezione per intervento dello Spirito sul corpo di Gesù, distrutto nella morte, figura della prima creazione rovinata dal peccato, ma rigenerato nello Spirito (Rm 1,4).

Anche in Ezechiele l’acqua viene abbinata allo Spirito e prelude ad una nuova creazione, che rigenererà l’uomo a Dio: “Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi.” (Ez 36, 24-27).

Più vicino a noi è il Gesù giovanneo che cerca di far capire a Nicodemo della necessità di una nuova nascita che non ha origine dalla carne, ma è frutto di un nuovo connubio tra l’acqua e lo Spirito: “Gli rispose Gesù: <<In verità, in verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quel che è nato dalla carne è carne e quel che è nato dallo Spirito è Spirito …>>” (Gv 3,5-6).

 

L’acqua veterotestamentaria è figura pertanto dello Spirito che viene donato da Dio a tutti i credenti rigenerandoli al suo mondo e ricollocandoli nella stessa dimensione divina. Essa parla di una nuova creazione che troverà il suo compimento soltanto per mezzo dello Spirito, di cui essa è figura. L’azione del battezzare[12] dice proprio questo immergere l’uomo nelle realtà che l’acqua simboleggia e preannuncia. Essa, parafrasando un’espressione della lettera ai Colossesi, è “ombra delle cose future; ma la realtà invece è Cristo! “ (Col 2,17).

 

È significativo poi come Luca giochi sul termine “battezzare con”: Giovanni battezza con acqua. L’espressione greca dice “battezza per mezzo dell’acqua” (ego men udati baptizo umas); mentre quando parla del futuro battesimo, quello che si colloca negli ultimi tempi, quelli di Dio, l’espressione greca dice: “vi immergerà nello Spirito Santo e nel fuoco”. La differenza è sostanziale. Nel primo caso l’acqua è soltanto uno strumento simbolico, che pur predicando il futuro dello Spirito, tuttavia non produce nessun effetto; mentre nel secondo caso vi è un’azione divina diretta che colloca l’uomo nel mondo dello Spirito, che è la dimensione stessa di Dio.

 

L’azione battezzatoria di Gesù oltre che dallo Spirito Santo è caratterizzata anche dal fuoco.

 

Il termine fuoco compare 436 volte nell'AT e 68 nel NT. Quasi sempre esso ha che fare con il mondo del divino e il culto sacrificale.

 

Talvolta esso rappresenta Dio stesso, ne è simbolo e metafora[13] come la nube che di notte illuminava il cammino di Israele e lo difendeva dagli assalti degli Egiziani (Es 13,21; 14,24); esso accompagna la venuta di Dio (Is 4,5; 66,15) e costituisce quasi il suo habitat naturale, esprimendone la presenza[14]. Sovente le sembianze di Dio e il suo potere sono raffigurati con il fuoco[15] e la sua azione e il suo giudizio vengono normalmente espressi con il fuoco[16].

 

Nel NT  il termine "fuoco" assume gli stessi significati dell'AT, ma cambia il soggetto di riferimento: se là, nell'AT, è Jhwh, qui, nel NT, è la persona di Gesù, colta come l'azione di Dio in mezzo agli uomini. Su 68 volte che il termine compare ben 32 fanno riferimento al giudizio di Dio. Il fuoco, dunque, è primariamente, e in particolar modo nei Vangeli, il luogo attraverso cui si compie il giudizio divino[17] e qualifica lo stesso agire di Dio sull'uomo e assume, talvolta, il significato di un'azione di giudizio, che si compie[18]. La cornice entro cui viene citato è quasi sempre squisitamente escatologica. Talvolta, ma raramente, simboleggia Dio stesso, come in Eb 12,18.19, anche se va precisato che qui l'autore si riferisce a passi veterotestamentari, altre volte richiama le qualità divine, come in Ap 1,14; 2,18; 10,1; 19,12 ed allude, talvolta, anche alla prova a cui si è sottoposti[19]

 

Gesù, dunque, battezzerà in Spirito Santo e fuoco, cioè immergerà l'uomo in una nuova dimensione, quella divina, che Luca, come Matteo, associa qui al fuoco, richiamandosi sia al giudizio a cui l'uomo sarà sottoposto, sia all'azione stessa di Dio. Non a caso lo Spirito Santo scenderà nel giorno della pentecoste sotto forma di lingue di fuoco (At 2,3), poiché il fuoco è il luogo in cui si compie e si manifesta l'agire di Dio e che meglio lo esprime.

Tuttavia, il significato di questo "fuoco", in Lc 3,16c, assume la valenza preminente del giudizio divino, che accompagna e qualifica l'agire di Dio, che si compie e si manifesta in Gesù.

Infatti, abbiamo qui una inclusione formata dal termine "fuoco” in 3,16c e 3,17b, che funge da chiave di lettura e punto di imbastitura dei due vv. 3,16.17. Ciò significa che la venuta di Gesù, qualificato come colui che viene, comporta per l'uomo un cambio di paradigma storico: dal mondo simbolico e metaforico dell'AT, in cui il regno di Dio e la salvezza erano solo annunciate, preparate, simboleggiate e colte solo in prospettiva futura, ad un mondo in cui tale salvezza e tale regno sono di fatto compiute nella persona stessa di Gesù (Mt 5,17). Ma proprio per questo all'uomo è chiesto di compiere una scelta radicale e definitiva, poiché tale passaggio non è scevro dal giudizio divino, che è già posto su di lui. L'uomo, dunque, è avvertito: il tempo si è compiuto, il regno di Dio è giunto (Mc 3,15), per questo egli deve dare la sua risposta e su di essa verrà misurato.

 

Il battezzare di Gesù, pertanto, non è soltanto la porta che introduce l'uomo nella dimensione ultima e definitiva di Dio, ma anche lo sottopone, conseguentemente, al suo giudizio. L'ultimo tempo, pertanto, è segnato da due elementi fondamentali: a) la venuta di Dio in mezzo agli uomini e operante nella persona in Gesù, definito come colui che costantemente viene, oggi sotto forma di Parola e di sacramento, e interpella direttamente ogni uomo, spingendolo a prendere una sua posizione; b) il giudizio, che discrimina l'umanità in base alla risposta data.

 

Egli ha in mano il ventilabro ...  Il significato del battezzare con Spirito Santo e fuoco viene qui ripreso e inquadrato come l’azione propria del giudizio di Dio posto sugli uomini per mezzo dello Spirito.

L’immagine che viene riportata è tratta dal mondo agricolo del tempo ed è una metafora del giudizio finale, proprio degli ultimi tempi. Il contadino dopo aver mietuto il grano[20] lo raccoglie sull’aia. Il grano, avvolto dalla pula, abbisogna di esserne liberato. Pertanto il contadino prende il ventilabro, una pala in legno, e getta in aria il grano. Il vento porta via la pula, mentre il grano ripulito cade nuovamente sull’aia. La pulitura del grano quindi è l’ultimo atto prima che il buon grano venga riposto nei granai. L’azione quindi si pone come l’ultimo atto del giudizio divino iniziato con la venuta di Gesù.

Ciò che opera tale pulitura dalle scorie del grano è il vento, che nel linguaggio biblico talvolta indica il giudizio divino[21] altre volte è figura stessa dello Spirito Santo[22]. È lo Spirito pertanto che opera tale giudizio sull’uomo, liberandolo dalla pula del peccato per renderlo degno di essere raccolto nel granaio di Dio. Così il buon grano, ripulito dallo Spirito e toccato dal suo soffio divino dà frutti degni dello Spirito: “Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come gia ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge. Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito” (Gal 5,16-25).

 

Il giudizio pertanto si sta compiendo e il parametro di discriminazione è proprio lo Spirito Santo, che è stato effuso su di noi nel battesimo e nella cresima. Esso ci ha già collocati nella dimensione divina, ci ha già resi santi e ci chiede ora di conformare le nostre vite a tali realtà spirituali in cui già viviamo anche se non ancora pienamente. Se ci conformiamo al vento dello Spirito esso ci rende grano degno per il Signore, diversamente Esso diventerà fuoco bruciante che ci divora come pula per l’eternità.

 

 

Verona, 11 dicembre 2006

 

 

                                                                                                                                           Giovanni Lonardi

 

 

                                                                                    

 

 

N O T E

[1] Cfr  Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, III edizione,  Ed. Città Nuova, Roma 2001

[2] Cfr  Gérard Rossé, Il Vangelo di ... op. cit.

[3] L’esortazione a “Fare frutti degni della conversione” (Lc 3,8a) e il triplice “Che cosa dobbiamo fare” dei versetti seguenti (Lc 3,10.12.14) lasciano chiaramente intendere che la questione qui non è teologica, ma squisitamente etica, cioè ha a che fare con il comportamento dei credenti nei confronti degli altri.

[4] Cfr G. Rossé, Il Vangelo di ... op. cit.

[5] L’attesa di un messia che avrebbe reso stabile e forte il Regno d’Israele trova la sua origine nella promessa che il profeta Natan aveva rivolto a Davide: “Ora dunque riferirai al mio servo Davide: Così dice il Signore degli eserciti: Io ti presi dai pascoli, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi il capo d'Israele mio popolo; sono stato con te dovunque sei andato; anche per il futuro distruggerò davanti a te tutti i tuoi nemici e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo a Israele mio popolo e ve lo pianterò perché abiti in casa sua e non sia più agitato e gli iniqui non lo opprimano come in passato, al tempo in cui avevo stabilito i Giudici sul mio popolo Israele e gli darò riposo liberandolo da tutti i suoi nemici. Te poi il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. Se farà il male, lo castigherò con verga d'uomo e con i colpi che danno i figli d'uomo, ma non ritirerò da lui il mio favore, come l'ho ritirato da Saul, che ho rimosso dal trono dinanzi a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre». Natan parlò a Davide con tutte queste parole e secondo questa visione.” (2Sam 7,8-17)

[6] Lc 2,10; 7,1.29; 18,43; 19,48; 20,1.45; 21,38; 23,27

[7] L’espressione “in cuor loro” non significa intimamente, ma interamente, pienamente. Il cuore non è per l’ebreo la sede dei sentimenti, ma esprime l’interezza della persona, la centralità della sua vita.

[8] Con l’espressione “timorati di Dio” venivano definiti tutti i pagani che pur non appartenendo al popolo ebraico, tuttavia ne erano simpatizzanti e si aggregavano al culto di Jhwh osservandone la Legge.

[9] La contrapposizione tra Giovanni e Gesù è significata in greco dalle due espressioni “egò mèn ùdati baptìzo umàs [...]. érchetai iscuròteros mu”. Le due particelle “mèn” e “” evidenziano la contrapposizione dei soggetti ai quali sono riferite: la prima riguarda Giovanni, la seconda Gesù. Nella traduzione italiana la contrapposizione è resa con il “ma”.

[10]Cfr Dt 10,17; 2Sam 22,48; Ne 1,5; 9,32; 2Mac 1,24; Sal 7,12; Sir 15,18; Ger 39,18; Dn 9,4.

[11]Cfr  2Sam 22,31.33; Ne 9,31; Gb 33,29; 37,5.

[12] Il verbo battezzare deriva dal greco “baptizo” che significa immergere.

[13] Dt 4,24; 5,25; 9,3; Is 33,14; Ger 20,9; 23,29; Ml 3,2 Eb 12,29.

[14] Es 3,2; 19,18; Dt 4,33; 9,10; 10,4; Is 30,30; Dn 7,10; Gl 2,3.

[15] Ez 1,27; Ap 1,14; 2,18; 10,1; 19,12; Dn 7,9.

[16] Gen 19,24; Lv 10,2; Nm 11,1; Is 66,16; Ger 4,4; 44,6; Ez 21,36; 22,20; 28,18; Sof 8,18.

[17]Cfr Mt3,10.12; 5,22; 7,19; 13,40; 18,8.9; 25,41; Mc 9,22.43.48; Lc 3,9.17; 17,29; Gv 15,6; 2Ts 1,8; Eb 6,8; 10,27; Gc 5,3; 2Pt 3,7; Gd 1,23; Ap 14,8; 15,2; 17,16; 20,10.14.15; 21,8.

[18]Cfr Mt 3,11; Lc 3,16; 9,54; 12,49; At 2,3.19; 1Cor 3,13.15; 2Pt 3,7; Gd 1,7; Ap 6,4; 8,5.7.8; 9,17.18; 11,5; 14,10; 16,8; 18,8.

[19] Mc 9,49; 1Pt 1,7; Ap 3,18;

[20] La mietitura del grano è un’altra immagine, un’altra metafora del giudizio finale. Cfr  Ger 51,33; Os 6,11; Mt 13,30.39; Mc 4,29; Gv 4,35.  Il fatto che il grano sia qui già posto sull’aia significa che è già avvenuta la mietitura, che ora si completa con la pulitura del grano. Il quadro quindi che Luca ci presenta è squisitamente escatologico.

[21] Per il vento come metafora del giudizio divino cfr  Sal 11,6; Is 59,19; Ger 4,12; 13,24; 15,7; 18,17; Ez 5,2;  Os 13,15.

[22] Per il vento metafora dello Spirito Santo cfr Gv 3,8; At 2,2;