I DOMENICA DI AVVENTO 2006

 

Luca 21, 25-28.34-36

 

“Alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”

 

 

 

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Premessa

 

 

Il passo del vangelo, che la liturgia ci propone come apertura del tempo di Avvento, è formato da un assemblaggio di due brevi pericopi[1] tratte dal cap. 21 di Luca, riguardante, quasi per intero (Lc 21, 5-36), il discorso escatologico che Gesù pronunciò nel Tempio e riportato indistintamente, sia pur con qualche variante e adattamento, sia da Marco[2] (Mc 13,1-37) che da Matteo (Mt 24,1-44).

 

Tuttavia a differenza del Gesù di Marco e di Matteo che riserva il suo discorso escatologico ad un gruppo ristretto di suoi intimi discepoli (Mc 13,1-4; Mt 24,1-2), il Gesù di Luca qui pronuncia un discorso rivolto alle folle[3] che si accalcano attorno a lui. Il particolare, come vedremo, non è indifferente.

 

Le due pericopi lucane pongono l’accento su due aspetti tra loro strettamente complementari che devono caratterizzare il vivere cristiano dopo la dipartita di Gesù e che rimandano ai tempi della Chiesa[4]: “... alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28b) e “State bene attenti ... Vegliate e pregate in ogni momento” (Lc 21,34a.36a). Le esortazioni pertanto assumono un tono universalistico che coinvolgono tutti i credenti di ogni tempo e di ogni latitudine fino al ritorno del “Figlio dell’uomo”.

 

Va infine rilevato che l’intero discorso escatologico è stato costruito dagli autori e difficilmente lo si può attribuire a Gesù. Esso sembra essere una variegata composizione di vari elementi propri dell’apocalittica giudaica frammistati da qualche detto di Gesù[5]. Si tratta quindi prevalentemente di una sorta di lettura interpretativa degli eventi difficili e drammatici che le prime comunità credenti erano chiamate a vivere; eventi che si pongono decisamente in tempi abbondantemente successivi a quelli del Gesù storico. Le guerre di cui si parla fanno riferimento alla guerra giudaica (66-73 d.C.); le persecuzioni a cui si accenna in 21,12 sono storicamente documentate[6], ma si pongono ampiamente dopo la dipartita di Gesù e in pari modo le difficoltà del vivere la nuova fede all’interno degli stessi gruppi familiari di cui si accenna al v. 21,16. L’ “essere odiati a causa del mio nome”, infine, ci pone decisamente in tempi successivi al 30 d.C. quando il credente professava la sua fede nel nome di Gesù, divenuto ormai oggetto di culto.

 

Benché questo discorso escatologico ci fornisca un sintetico quadro delle difficoltà, talvolta drammatiche, in cui si venivano a trovare le prime comunità ecclesiali nel tempo successivo a quello di Gesù, tuttavia esso contiene in sè un profondo significato teologico.

 

 

Introduzione

 

 

Il discorso escatologico del Gesù lucano (Lc 21, 5-38) si pone al termine dell’attività pubblica di Gesù e a pochi giorni dalla sua passione e morte. Tuttavia esso prende le mosse da molto lontano e si costituisce quale punto di arrivo di un lungo cammino che inizia con il v. 9,51 e termina al cap. 19,28.

 

Luca è l’unico degli evangelisti che inquadra l’attività missionaria di Gesù collocandola in un’ampia sezione, che comprende ben dieci capitoli del suo vangelo (Lc 9,51-19,28), caratterizzandola come un viaggio che Gesù compie verso Gerusalemme. Per ben tre volte Luca lo ricorda in 9,51; 13,22; 17,11. Si viene così a costituire una sorta di cornice teologica che fornisce la chiave di lettura dell’operare di Gesù.

Questo viaggio, geograficamente non ben definibile e alquanto complicato se non impossibile da seguire su di una carta topografica, ha un valore squisitamente teologico ed è definito soltanto dal suo essere diretto verso Gerusalemme, il luogo dove si compiono i misteri della salvezza. Questo viaggio pertanto dice lo svolgersi della missione di Gesù che ha come meta finale Gerusalemme, cioè la salvezza dell’umanità. Il camminare di Gesù verso Gerusalemme indica il quotidiano svolgersi del piano salvifico del Padre, il suo quotidiano attuarsi fino al suo compimento pieno e definitivo in Gerusalemme. Tutto ciò che Gesù compie durante questo viaggio va letto in chiave salvifica o, meglio, una salvezza in atto che si compie gradualmente con il muoversi di Gesù.

 

E’ un cammino che Gesù non compie da solo, ma assieme a lui si muove molta gente[7], che Luca in 19,37, quindi al termine del viaggio, non esiterà a definire “folla di discepoli”. Gesù dunque si muove verso Gerusalemme associando a sé, lungo il suo cammino, queste folle che egli, nuovo Mosè, quasi come in un nuovo esodo, sta traghettando verso la nuova creazione, che sarà inaugurata a Gerusalemme per mezzo della croce. Il suo muoversi verso Gerusalemme quindi non è una marcia trionfale, ma un camminare verso la sofferenza, illuminata dalla risurrezione. Significativa in tal senso è l’espressione che Luca usa nel v. 9,51 che inaugura questo lungo viaggio di Gesù: “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal  mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme”. Questa espressione “si diresse decisamente”, così tradotta dalla versione C.E.I., viene resa in greco con “egli rese duro il suo volto per partire verso Gerusalemme”. Con tale strano modo di esprimersi l’evangelista richiama qui il canto del Servo sofferente di Jhwh, che ci ricorda da molto vicino la passione di Gesù: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto confuso, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare deluso” (Is 50,6-7). In tal modo Luca ci offre la corretta lettura di questo viaggio: esso è un cammino di sofferenza che culminerà con la morte. Durante tale cammino redentivo Gesù raccoglie attorno a sé numerose folle, associandole in tal modo alla sua passione, morte  e risurrezione. Questa idea di associazione dell’uomo alla passione e morte di Gesù non è nuova nei vangeli. Il Gesù giovanneo, infatti, rivolto alla folla annuncia: “<<Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me>>. Questo diceva per indicare di quale morte doveva morire.” (Gv 12,32-33). Anche Paolo ricorderà questo evento dell’associazione al mistero salvifico di Cristo: “Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione.” (Rm 6,4-5).

 

Al termine di questo viaggio redentivo Gesù entra trionfalmente a Gerusalemme, dove la gente che lo aveva accompagnato stende a terra in modo significativo i suoi mantelli. Il mantello nel linguaggio biblico, tra i vari significati, può assumere anche quello di “persona”[8] come in questo caso. Lo stendere a terra davanti al maestro i propri mantelli dice la piena e fedele accoglienza di chi lo ha seguito lungo il cammino redentivo e il mettersi a sua disposizione e al suo servizio. Al termine di questo viaggio questa folla anonima, che ha accompagnato Gesù, si trasforma in “folla dei discepoli” (Lc 19,37). Una folla che si è esistenzialmente associata a Gesù e si è lasciata attirare da lui.

 

Ed è proprio alla fine di questo viaggio, dopo qualche giorno, che Gesù pronuncerà il discorso escatologico rivolto alla folla dei suoi discepoli, cioè di coloro che sono stati associati al suo destino di morte e risurrezione.

 

Le sofferenze descritte nel discorso escatologico vanno lette e comprese, dunque, come l’essere associati alla passione e morte redentive del Maestro. Nella sofferenza del discepolo è Gesù stesso che rivive la sua passione e morte o, viceversa, il discepolo nel suo soffrire per Cristo vive in sé la passione e morte del suo Maestro a cui la fede lo ha associato anche esistenzialmente.

 

Non a caso, infatti, tale discorso è stato posto dagli evangelisti al termine dell’attività pubblica di Gesù e ad un passo dalla sua passione e morte creando in tal modo un parallelismo convergente tra le sofferenze dell’umanità e quelle di Gesù, quasi a dire che i discepoli sono stati associati a lui nella sua morte; essa distrugge in sé  l’uomo vecchio per inaugurarne uno completamente nuovo[9], rigenerato secondo il progetto iniziale del Padre[10], che ha voluto l’uomo a sua immagine e somiglianza[11].

 

 

IL TESTO di Luca 21, 5-36

 

 

vv. 5-7: l'introduzione

 

[5]Mentre alcuni parlavano del tempio e delle belle pietre e dei doni votivi che lo adornavano, disse:
[6]<<Verranno giorni in cui, di tutto quello che ammirate, non resterà pietra su pietra che non venga distrutta>>.
[7]Gli domandarono: <<Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?>>.
 

vv. 8-19: i segni premonitori

 

[8]Rispose: <<Guardate di non lasciarvi ingannare. Molti verranno sotto il mio nome dicendo: "Sono io" e: "Il tempo è prossimo"; non seguiteli.
[9]Quando sentirete parlare di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate. Devono infatti accadere prima queste cose, ma non sarà subito la fine>>.
[10]Poi disse loro: <<Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno,
[11]e vi saranno di luogo in luogo terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandi dal cielo.
[12]Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome.
[13]Questo vi darà occasione di render testimonianza.
[14]Mettetevi bene in mente di non preparare prima la vostra difesa;
[15]io vi darò lingua e sapienza, a cui tutti i vostri avversari non potranno resistere, né controbattere.
[16]Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e metteranno a morte alcuni di voi;
[17]sarete odiati da tutti per causa del mio nome.
[18]Ma nemmeno un capello del vostro capo perirà.
[19]Con la vostra perseveranza salverete le vostre anime.
 

vv. 20-28: la risposta al "quando accadrà"

 

[20]Ma quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina.
[21]Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città;
[22]saranno infatti giorni di vendetta, perché tutto ciò che è stato scritto si compia.
[23]Guai alle donne che sono incinte e allattano in quei giorni, perché vi sarà grande calamità nel paese e ira contro questo popolo.
[24]Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri tra tutti i popoli; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti.
[25]Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti,
[26]mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
[27]Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
[28]Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina>>.
 

vv. 29-33: l'invito a leggere i segni dei tempi

 

[29]E disse loro una parabola: <<Guardate il fico e tutte le piante;
[30]quando gia germogliano, guardandoli capite da voi stessi che ormai l'estate è vicina.
[31]Così pure, quando voi vedrete accadere queste cose, sappiate che il regno di Dio è vicino.
[32]In verità vi dico: non passerà questa generazione finché tutto ciò sia avvenuto.
[33]Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
 

vv. 34-36: l'esortazione a vigilare

 

[34]State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso;
[35]come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
[36]Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo>>.

 

 

Lo schema del discorso escatologico (Lc 21, 5-36)

 

 

I vv. 5-6 fungono da cornice introduttiva:

 

v.5 “Alcuni” parlano della bellezza grandiosa del Tempio. Si noti qui come Luca, a differenza di Marco e Matteo, non parla di “discepoli”, ma di “alcuni”. Per Luca infatti la sequela di Gesù e la salvezza non sono riservate soltanto agli ebrei, ma a tutti gli uomini ed è rivolta quindi anche ai pagani[12].

 

v.6  Gesù risponde preannunciando la fine del Tempio che da un lato dice la fine del culto giudaico e dall’altro preannuncia la morte stessa di Gesù, che ha definito se stesso e il suo corpo come un tempio (Gv 2,19-21). Il discorso escatologico, quindi, ha una stretta attinenza con l’imminente passione e morte di Gesù. Esso pertanto va letto entro la cornice teologica dell’associazione dei discepoli e dell’intera umanità a tale morte redentrice, che li coinvolge direttamente.

 

v.7 La domanda che qui viene rivolta a Gesù contiene lo schema strutturale su cui si snoderà l’intero discorso: “Maestro, quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?”.  Quando e quale sono i due momenti che scandiscono l’intero discorso. A questi si aggiungono una parabola (21,29-33) e un’esortazione a vigilare (21,34-36).

 

Il corpo del discorso escatologico (vv. 8-28)

 

I vv. 8-19 rispondono alla domanda “quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?”

 

Luca, rifacendosi ampiamente all’apocalittica giudaica e alle difficili situazioni in cui vivevano le prime comunità di quel tempo, fa un elenco di segni che preludono alla fine della storia e preparano l’imminente ritorno di Gesù[13]:

 

-          Esortazione a non lasciarsi ingannare da falsi annunci (v.8);

-          Rumori di guerre, rivoluzioni, sollevazioni di popoli (vv. 9-10);

-          Terremoti, carestie, pestilenze (v.11);

-          Persecuzioni e tradimenti da parte dei famigliari e di amici vv.12-16);

-          Odio diffuso per coloro che credono nel nome di Gesù (vv.17-19).

 

I vv. 20-28 rispondono alla domanda “Quando accadrà questo?”

 

Luca, riprende qui in qualche modo il lamento di Gesù sulla pervicacemente incredula Gerusalemme (Lc 19,43-44) e vede la guerra[14], che ha devastato Gerusalemme e l’intera Palestina, come il giudizio di Dio posto sulla città e l’intero Israele per la sua ostinata incredulità.

Unitamente alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio Luca nei vv. 25-26 parla anche degli sconvolgimenti che sconquasseranno la volta celeste e che preludono all’imminente fine del mondo[15].

 

I vv. 29-33 contengono la parabola del fico e degli alberi a cui Gesù rimanda per l’interpretazione dei segni. Un invito a saper leggere i segni che si pongono nella storia per sapervi cogliere il compiersi del disegno salvifico di Dio. Il v.33 contiene in forma solenne la firma di Gesù che suggella la veridicità di quanto lui ha detto: “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”.

 

I vv. 34-36 contengono l’esortazione conclusiva dell’intero discorso escatologico: “State bene attenti ... Vegliate e pregate”. Essa fa da eco alla prima esortazione con cui si è aperto il discorso: “Guardate di non lasciarvi ingannare” (Lc 21,8a). Si forma in tal modo una inclusione che abbraccia l’intero discorso escatologico e ne evidenzia il significato: sollecitare i credenti a non abbandonare la fede in mezzo a tante sventure, ma, al contrario, di stare attenti e vigilare in una preghiera costante: “Vegliate e pregate in ogni momento”.

 

 

Il commento a Luca 21, 25-28.34-36

 

 

Il vangelo che la liturgia ci propone in questa I Domenica di Avvento si colloca all’interno del grande discorso escatologico, che come abbiamo visto si pone al termine di un lungo viaggio (Lc 9,51-19,28) che Gesù compie verso Gerusalemme, cioè verso la sua morte e risurrezione. Durante tale cammino redentivo Gesù associa a sé e al suo mistero di morte e risurrezione folle intere di persone, che Luca, alla fine di questo cammino definirà “folla di discepoli” (Lc 19,37). E’ un cammino quindi che comporta anche una trasformazione di chi ha scelto di seguire Gesù sulla via della croce, secondo la regola aurea della sequela dettata da Gesù stesso: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). L’essere quindi associati a lui nella morte comporterà anche la certezza di essere uniti a lui nella risurrezione (Rm 6,5).

 

vv. 25-28

 

Suddivideremo questi quattro versetti in due parti:

 

-  la prima (vv. 25-27) è rivolta agli uomini in genere e presenta un linguaggio squisitamente apocalittico, che riscontriamo sostanzialmente identico nella stessa Apocalisse (Ap 6,12-17)[16], per descrivere il coinvolgimento dell’intero cosmo nella morte di Gesù. Questo disfacimento cosmico rinserrerà l’intera umanità in un’angoscia mortale, che l’aprirà alla comprensione finale del disegno di salvezza. Tale disfacimento ricadrà su di lei sotto forma di giudizio divino per non aver creduto alla rivelazione del Padre nel Figlio. Questi comparirà, come in una nuova trasfigurazione, rivestito di potenza e di gloria, cioè di tutti i suoi attributi divini che saranno riconosciuti da tutti.

Vi è dunque uno stretto parallelismo tra il racconto di questa fine del mondo che si conclude con il riconoscimento universale della divinità del Gesù giudice e quanto i vangeli raccontano sulla morte di Gesù. Anche qui il sole si oscura e tutta la terra viene avvolta dalle tenebre e scossa da un terremoto, che squarcia le rocce[17]; il velo del tempio, come la terra, si squarcia[18] per indicare la fine del culto giudaico, che nel nostro racconto escatologico corrisponde alla distruzione del Tempio (Lc 21,6), poiché sulla croce si è inaugurato un nuovo culto e un nuovo sacerdozio in cui la Vittima e il Sacerdote si identificano[19]. Anche qui, ai piedi della croce, gli uomini, vedendo i prodigi che stavano accadendo, vengono presi da una grande paura (Mt 27,54a) e riconoscono in Gesù, nella cui morte si compie il giudizio divino sull’intera umanità (Rm 4,25; 1Gv 4,10), il Figlio di Dio (Mt 27,54b; Mc 15,39) e il Giusto (Lc 23,47b).

 

-   La seconda parte (v. 28) si rivolge ai credenti, che intorpiditi nelle fede, vengono esortati ad alzarsi e a rivolgere lo sguardo verso il Cristo che viene nella sua potenza per compiere su di loro la piena e definitiva liberazione da questa umanità decaduta, assimilandoli alla propria risurrezione.

 

Vi saranno segni nel sole, ...  nei vv. 25-26 vengono elencate le tre parti fondamentali del cosmo allora conosciuto: “sole, luna, stelle” (il cielo); la terra con i suoi popoli e il mare con i suoi flutti. E’ dunque l’intera creazione che viene coinvolta e associata alla morte di Cristo. Si realizza qui quanto il Gesù giovanneo promette: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Sulla croce Gesù diventa dunque il polo catalizzatore della vecchia creazione genesiaca decaduta per il peccato, il mondo del vecchio Adamo, che assieme a lui muore e viene definitivamente distrutto sulla croce; mentre nella risurrezione Gesù diventa il centro cosmico in cui si compie il passaggio dalla vecchia alla nuova creazione. Questo, secondo la visione paolina, è il grande disegno del Padre che si è rivelato e si è compiuto in Cristo nella pienezza dei tempi, cioè quello “di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra.” (Ef 1,10). La morte di Gesù opera distruttivamente sulla vecchia creazione e su quanti si identificano in essa; per questo Luca afferma che “Le potenze dei cieli saranno sconvolte”. In quel termine “potenze dei cieli” non è compreso soltanto il cosmo spaziale, ma anche tutto quell’infimo mondo para-spirituale fatto di idoli, di astrologie, di maghi, di occultismo e di credenze a cui l’uomo, incredulo e chiuso all’annuncio salvifico rivelatosi in Cristo, si è affidato rimanendone schiavo, rifiutando di fatto la nuova creazione attuatasi nel Cristo morto-risorto. L’espressione greca infatti “dinameis ton uranon” (potenze dei cieli) non indica soltanto i movimenti degli astri, ma anche le energie cosmiche spirituali che si frappongono, secondo la credenza degli antichi, tra il cielo, dimora di Dio, e la terra, abitazione degli uomini[20].  Anche su queste potenze a Cristo è stato dato ogni potere (Fil 2,9-10; 1Cor 15,25-28) nel momento della sua risurrezione, così che egli è stato costituito Signore del cielo e della terra (At 2,36).

 

Gli uomini, votati a questo cosmo sconfitto nella morte e risurrezione di Cristo, di fronte all’infrangersi delle loro sicurezze terrene e celesti in cui hanno vanamente confidato, sono ora presi dall’angoscia, poiché sono privati di ogni speranza.

 

Allora vedranno il Figlio dell’Uomo ...  il v.27 si colloca di mezzo tra i vv.25-26 in cui si parla dell’umanità incredula e nemica di Dio e il v.28 che presenta invece coloro che appartengono a Dio. Esso quindi funge da elemento di separazione tra due contrapposti tipi di umanità. Questa sua azione discriminante assegna al personaggio (Figlio dell’uomo), che qui viene presentato, la funzione di giudice. Non è un personaggio statico, ma dinamico, colto nel suo “venire”. Ciò sta a significare come questa sua azione del giudicare è sempre presente, anzi la sua presenza funge da discriminante costante in mezzo agli uomini, spingendoli ad una risposta esistenziale radicale: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30). Non ci sono vie di mezzo, poiché anche l’indifferenza costituisce una discriminante negativa: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.” (Ap 3,15-16). È il rigetto da parte di Dio di coloro che vivono un rapporto con Lui fatto di compromessi e banalità.

 

Il versetto si apre con il verbo “vedranno” (òpsontai) il cui soggetto non è ben definito, dando in tal modo al verbo stesso un accento di universalità. In greco il verbo è “orao” (vedo) che nel linguaggio neotestamentario dice il vedere della fede, un vedere quindi che va al di là delle semplici apparenze terrene. Il verbo posto al futuro sottintende, da un lato, come le cose alla fine dei tempi saranno chiare per tutti, dall’altro, che qui nel presente una parte dell’umanità, quella incredula, non vede. Tuttavia all’apparire del Cristo risorto nelle sue sembianze di gloria anche questa umanità incredula verrà posta di fronte ad una realtà spirituale incontestabile, che genererà in lei, a diversità dell’umanità credente, angoscia e paura.

 

Lo strano personaggio che qui viene presentato è rivestito di “potenza e gloria grande” ed è posto su di una nube. Sono tutti segni che qualificano questo “Figlio dell’uomo” come appartenente alla dimensione divina. La “potenza e la gloria grande” lo identificano come il risorto, mentre la nube, simbolo della presenza di Dio in mezzo agli uomini (Es 16,10; 19,9; 20,21), lo associa a Dio stesso. Una nube che nel N.T. ci richiama in qualche modo da vicino la Trasfigurazione (Lc 9,28-35), in cui l’uomo Gesù si rivelò nella sua gloria divina; allo stesso modo nel racconto dell’Ascensione è presente la nube, che accoglie in sé il risorto, qualificandolo come appartenente al mondo divino (At,19). Ma sarà lo stesso Luca, sempre negli Atti, richiamandosi proprio a questo passo del vangelo, quasi come in una grande inclusione, che ricorderà ai discepoli per mezzo dell’Angelo: <<Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo>> (At 1,11). Ciò sta a significare che Luca pone in uno stretto rapporto l’Ascensione al cielo di Gesù con il suo ritorno. Ascensione e ritorno, infatti, segnano i due confini entro cui si colloca il tempo della Chiesa, in cammino verso il Suo Signore che viene.

 

L’immagine del Figlio dell’uomo che appare sulla nube nello splendore della sua potenza viene mutuata dall’apocalittica giudaica a partire da Daniele (Dn 7,13); tuttavia nel corso del tempo ha subito all’interno del giudaismo una sua evoluzione: con essa si definiva il Messia, il discendente di Davide, l’inviato da Dio a favore del suo popolo. Con l’avvento del cristianesimo le prime comunità credenti identificheranno questo “Figlio dell’uomo” con Cristo. Gesù poi riferirà a sè questa immagine escatologica ed apocalittica[21]

 

Quando incominceranno ad accadere ... Il v.28 in greco suona così: “Quando incominceranno ad accadere queste cose, fatevi coraggio e sollevate la testa, poiché la vostra redenzione si avvicina”. Gli eventi catastrofici, che preludono alla fine dei tempi e che creano angoscia nell’umanità incredula, non devono turbare il credente perché egli sa che quanto sta accadendo è il preambolo alla nascita di un mondo nuovo, è la sofferenza del parto che prelude alla nascita di una vita nuova (Rm 8,22-23) e di cui egli già fa parte in virtù della sua fede (Ef 2,6; Col 1,13). Ecco quindi l’esortazione a farsi coraggio, a non lasciarsi abbattere, ma con fare deciso andare verso il Dio che viene.

 

Quando parliamo di discorso escatologico, cioè delle cose ultime che devono accadere, la nostra sensibilità e la nostra razionalità post illuministe ci spingono a pensare ad un futuro lontano e che tutto sommato non ci riguarda affatto. È necessario pertanto ridefinire e ricomprendere il senso delle cose ultime, dell’escatologia[22]. La realtà delle cose ultime è gia incominciata. Già siamo entrati negli ultimi tempi e già li stiamo vivendo e sono stati inaugurati da Cristo con la sua morte e risurrezione. Il suo nascere, il suo camminare e il suo vivere tra gli uomini hanno innescato un processo inarrestabile di assimilazione del cosmo intero a Cristo (Ef 1,10). Il racconto che Luca fa del “viaggio di Gesù verso Gerusalemme” (Lc 9,51-19,28), accompagnato dalle folle e l’affermazione del Gesù giovanneo di attirare tutti a sè quando sarà elevato da terra (Gv 12,32) stanno ad indicare proprio questo processo di assimilazione. Proprio in virtù di questa assimilazione e incorporazione a Cristo, di questa cristificazione l’intera umanità e con lei l’intero cosmo sono stati portati sulla croce e sono con-morti assieme a Gesù e con-risorti con lui. In termini molto più semplici significa che il vecchio mondo adamitico, decaduto e profondamente segnato dal peccato, è definitivamente morto in Cristo. Il degrado umano e ambientale che ci circonda, la sofferenza, le ingiustizie, le guerre, l’inevitabile morte e tutto ciò che essa esprime ad ogni livello vanno ricompresi come il nostro vivere la morte di Cristo in noi o, per meglio dire, Cristo ci sta vivendo tutti nella sua morte e in tal modo sta distruggendo in noi l’umanità decaduta. In tal senso Paolo afferma: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me.” (Gal 2,20). Crocifissi quindi con Cristo, uniti alla sua morte in modo inscindibile (Rm 5,5) non siamo più noi che viviamo, ma lui ci sta vivendo tutti nella sua morte. Ma è certo che se siamo morti con lui siamo anche con lui risorti (Rm 6,4-5). Non è dunque la nostra una morte che va verso il nulla o un inutile soffrire, ma va verso quel mondo nuovo che è stato inaugurato dalla risurrezione stessa. Pertanto già stiamo vivendo queste nuove realtà, che sono escatologiche, cioè realtà ultime perché rimarranno per sempre e in cui noi già ci troviamo anche se non ancora pienamente e definitivamente.

 

Ecco quindi il senso dell’esortazione di Luca “fatevi coraggio e sollevate la testa”. È la certezza del nuovo mondo, in cui siamo già entrati in virtù della fede e del battesimo, che ci deve animare nel nostro cammino verso il Cristo che viene. Da qui l’esortazione di “sollevare la testa”, cioè di riorientare i nostri interessi verso il Dio che viene. Paolo stigmatizza bene questa nostra condizione esistenziale: “... Perché molti, ve l'ho gia detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.” (Fil 3,18-21).

 

State bene attenti ...  questi ultimi tre versetti (34-36) costituiscono una potente esortazione a rivedere il nostro camminare in questo mondo. Essi sono intrisi di esortazioni “State bene attenti” (lett. badate a voi stessi), “i vostri cuori non si appesantiscano”, “vegliate e pregate in ogni momento”. Il motivo di tanta esortazione sta nel fatto che “quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso”. Il giorno di cui qui si parla è il giorno del Signore, che nel linguaggio profetico si richiama al giorno del giudizio in cui l’umanità è chiamata a rendere conto del suo operato. Un giudizio che si pone alla fine dei tempi, una fine dei tempi che è gia incominciata con la morte-risurrezione di Cristo. Sono i nostri tempi. Tale giudizio pertanto è insito nell’agire stesso dell’uomo e si compie nella nostra quotidianità. In altri termini: il comportarsi bene o male non è indifferente, poiché nel nostro agire è già presente la ricompensa. E’ un giudizio quindi che si accompagna al nostro vivere e già da subito ci colloca con Dio o contro di Lui. Non a caso Luca chiude la sua esortazione con il v.36 “Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza ... di stare[23] davanti al Figlio dell’uomo”. Lo “stare davanti al Figlio dell’uomo” nel linguaggio biblico significa l’impegno del vero credente a conformare la propria vita alle esigenze di Dio manifestateci in Cristo.

Il “vegliare e pregare”, sottolinea Luca, deve essere “in ogni momento”, sollecitando più che un’ossessiva vigilanza o preghiera, un orientamento esistenziale che ci colloca davanti a Dio, così che tutta la nostra vita diventi una perenne liturgia di lode e ringraziamento a Dio. Lo stile del vivere cristiano ci viene ricordato da Paolo nella sua lettera ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.” (Rm 12,1-2). Dobbiamo pertanto “badare a noi stessi” affinché i nostri “cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita.” perché, ci avverte Paolo, circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio.” (Gal 5,21b). In altri termini, il credente, divenuto nuova creatura in Cristo, già entrato nella dimensione divina, nel nuovo mondo inaugurato nella morte-risurrezione e già facendone parte, deve conseguentemente conformare la sua vita, il suo modo di sentire, vedere e di esprimersi alle nuove realtà che sono state poste in lui per mezzo della fede e del battesimo e in cui già vive anche se non ancora pienamente.

 

L’attenzione di questi tre versetti si accentra tutta sul v.35: “come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia della terra” Il soggetto di questo versetto è il “giorno del Signore”. Non ci è dato di sapere quando questo avverrà, afferma Luca, per questo il nostro livello di attenzione deve essere “in ogni momento”, facendo si che il nostro vigilare diventi un inconfondibile stile di vita che ci distingue da “coloro che abitano sulla faccia della terra”, cioè da coloro che hanno deciso la propria vita per le cose di questo mondo. Questi saranno colpiti all’improvviso e in modo inaspettato dal “giorno del Signore”. Tale giorno è già incominciato con Cristo, il quale si costituisce in mezzo agli uomini come radicale discriminante di chi è con Dio o contro di Lui. Non vi sono alternative di mezzo. Il giudizio divino è già in atto.

 

Per questo l’esortazione si fa pressante, perché, senza avvedercene, rischiamo di conformare il nostro vivere agli abitanti della terra.

 

Paolo, rivolto alla comunità di Roma e in essa ad ogni credente ci esorta: “Questo voi farete, consapevoli del momento: è ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie. Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne nei suoi desideri.” (Rm 13,11-14).

 

Verona, 27 novembre 2006

 

                                                                                                              Giovanni Lonardi

 

 

 

 

 

 

 N O T E


 

[1] Il termine pericope deriva dal verbo greco “pericopto” che significa “tagliare intorno”. Letterariamente esso designa il ritagliare una parte di un brano o di un racconto estraendolo in tal modo dal suo contesto naturale. Nel nostro caso le due pericopi sono state tratte dal capitolo 21, 5-36 di Luca e precisamente i vv. 21, 25-28.34-36 .-

[2] I discorsi escatologici riportati in Matteo e Luca hanno la loro fonte primaria in Marco, il primo evangelista che compose il suo vangelo a ridosso dell’anno 70 e risente fortemente dei drammatici eventi di quel tempo. Luca nel suo vangelo a partire dal cap. 19,29 (entrata trionfale di Gesù in Gerusalemme) e fino a tutto il cap. 21 segue quasi pedissequamente Marco.

[3] Luca parla infatti non parla mai di qualche discepolo, ma di “folla di discepoli” (Lc 19,37b) che hanno accompagnato l’entrata di Gesù in Gerusalemme, mentre in 21,38 afferma che “tutto il popolo veniva a lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo”.

[4] L’opera di Luca si compone di due libri: il Vangelo propriamente detto, che parla della missione di Gesù, e gli Atti degli Apostoli, che raccontano la vita delle prime comunità cristiane e il formarsi della Chiesa primitiva. In tal modo Luca vede la Chiesa come la prosecuzione storica della missione di Gesù, nella quale Gesù continua la sua opera. Non vi è quindi, per Luca, distinzione tra l’operare di Gesù e quello della Chiesa, ma questa è la sacramentalizzazione stessa di Gesù. Il vangelo lucano pertanto va letto in una prospettiva ecclesiologica e universalistica.

[5] Cfr. Gerard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Ed. Città Nuova, Roma 1992

[6] In merito alle persecuzioni si pensi a quelle giudaiche contro Pietro (At 4,1-3), Stefano (At 6,8ss) e la stessa Chiesa di Gerusalemme (At 8,1) o quella del 64 di Nerone in Roma o quella di Domiziano del 95.

[7] Durante il viaggio, definito nei capp. 9,51-19,28, il termine folla/folle o gente viene nominato circa una decina di volte.

[8] Cfr J.Mateos - F.Camacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella Editrice, Città di Castello 1997

[9] Rm 6,6

[10] Ef 1,4-7

[11] Gen 1,26

[12] L’universalità della salvezza è caratteristica del sentire teologico di Luca, che negli Atti degli Apostoli fa dire a Pietro, in casa del centurione romano Cornelio: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35).

[13] Fino a tutto il primo secolo le prime comunità cristiane erano convinte dell’imminente ritorno glorioso di Gesù che avrebbe posto fine alla storia e avrebbe sottomesso e giudicato tutti i suoi nemici. Luca quando scrive il suo vangelo si trova intorno agli anni 80-85 d.C. e respira questa aria di fine e, utilizzando le immagini dell’apocalittica giudaica, cerca di dare una lettura ai drammatici eventi che stanno sconquassando le prime comunità credenti. La situazione è identica anche per Marco e Matteo.

[14] Quella di cui Luca e gli altri evangelisti parlano è la guerra giudaica, iniziata nel 66 d.C. e terminata nel 70 con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio da parte delle truppe romane, comandate da Vespasiano e Tito per sedare una violenta rivolta dei giudei. Tale guerra avrà una sua propaggine fino al 73 contro la fortezza erodiana di Masada in cui erano asserragliati circa un migliaio di ribelli che piuttosto di consegnarsi prigionieri ai romani preferirono suicidarsi in massa. L’intera vicenda bellica viene raccontata in un’apposita opera di Flavio Giuseppe “Guerra Giudaica”.

[15] Secondo le credenze giudaiche, la fine del Tempio avrebbe coinciso con la fine del mondo; da qui tutto il catastrofismo cosmico, di cui è permeato l'intero discorso apocalittico.

[16] “Quando l’Agnello aprì il sesto sigillo, vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, [...] il cielo si ritirò come un volume che si arrotola e tutti i monti e le isole furono smossi dal loro posto. Allora i re della terra e i grandi, i capitani, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo e libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; e dicevano ai monti e alle rupi: Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, perché è venuto il gran giorno della loro ira, e chi vi può resistere?” (Ap 6,12-17)

[17] Mt 27,45.51b; Mc 15,33; Lc 23,44-45a.

[18] Mt 27,51a; Mc 15,38; Lc 23,45b

[19] 1Gv 2,2; 4,10; Eb 2,17; 5,5; 7,24; 9,14

[20] In tal senso la lettera agli Efesini afferma: “Anche voi eravate morti per le vostre colpe e i vostri peccati, nei quali un tempo viveste alla maniera di questo mondo, seguendo il principe delle potenze dell'aria, quello spirito che ora opera negli uomini ribelli.”.  Secondo gli antichi l’aria si estende dalla terra alla luna. Per l’autore della lettera agli Efesini  questo spazio è il regno delle potenze nemiche di Dio che si frappongono tra Dio e gli uomini.

[21] In tutti i Vangeli l’espressione “Figlio dell’uomo” riferita a Gesù ricorre 79 volte.

[22] Escatologia è un termine che deriva dalla composizione di due parole greche: “escaton” e “logos” che letteralmente significa “discorso sulle cose ultime”.

[23] La C.E.I. ha tradotto l’espressione greca “stazenai emprosten” con “comparire davanti” dando il senso del giudizio divino posto su ogni uomo. Io ho preferito tradurre con “stare davanti” sia perché il verbo greco“istemi” dà l’idea del porsi fermo, dello stare lì, sia perché il senso del vegliare e dello stare attenti è quello di fare si che l’uomo non cada nella dissipazione, ma conduca sempre la propria vita davanti a Dio, cioè alla luce della sua volontà, rimanendo saldo in Lui.