La chiamata di Zaccheo,
l'inquietudine di un uomo
alla ricerca di Dio

Luca 19, 1-10


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi



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Premessa

Luca, un pagano convertito al cristianesimo1, cristiano di seconda o di terza generazione2, di lingua e cultura greca, aperto al mondo del suo tempo, concepisce la salvezza portata da Gesù come un dono offerto a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro estrazione sociale e dalla loro provenienza culturale. Fu probabilmente in origine quello che i giudei definivano un “timorato di Dio”, un uomo pio, ben disposto verso il giudaismo, ad esso favorevole, probabilmente un suo frequentatore3. Fu in questo modo che venne a conoscenza del mondo ebraico, quello della diaspora, della sua cultura e delle sue pratiche, anche se probabilmente non andò mai in Palestina, come lascia intravvedere la sua scarsa conoscenza geografica dei luoghi e dei modi di vivere dei giudei che emerge dai suoi scritti. Il diffondersi del cristianesimo lo portò ad abbracciarne la fede. Uomo di cultura e di scienza, come palesa il suo greco elegante e fluente, il suo modo di narrare affascinante e avvincente, mentre l'apertura del suo vangelo (1,1-4) e le modalità con cui circostanzia storicamente gli eventi (1,5; 2,1-2; 3,1-2) lo collocano nella categoria degli storici dell'epoca, mosso dal suo spirito di ricerca e di amore per la verità. Un uomo dallo spirito cosmopolita, ben addentro ai fatti e agli eventi del suo tempo, al cui interno colloca l'evento Gesù, dandogli in tal modo una dimensione universalistica. Il senso della sua universalità già lo si percepisce in 2,1 dove si parla di un censimento universale, di “tutta la terra abitata” (p©san t¾n o„koumšnhn, pâsan tèn oikuménen); ma anche l'incarnarsi della Parola nella storia del suo tempo prende un respiro universale in 3,1-2. La stessa missione di Gesù, inaugurata nella sinagoga di Nazareth e posta sotto il segno di Is 61,1-2 e 58,6, liberamente elaborato dall'autore, possiede una dimensione universale con un particolare riguardo ai poveri, ai diseredati, agli umili e ai semplici di cuore (4,16-19). Anche l'annuncio della nascita di Gesù rivolto ai pastori assume toni universalistici (2,14). Un annuncio affidato proprio a persone umili, che occupano gli ultimi posti nella società e considerati, a motivo del loro lavoro, ritualmente impuri e pertanto impossibilitati ad accostarsi a Dio; persone che la storia non la fanno, ma la subiscono. È questo il mondo di Luca, un mondo in cui i pubblicani sono visti con simpatia4 e i peccatori sono chiamati a condividere con Gesù il banchetto escatologico che egli è venuto ad inaugurare (5,29-30). Ed è in questo contesto che viene ad inserirsi il racconto di Zaccheo, che riflette i tratti salienti della teologia del suo autore.

Note generali a Lc 19,1-10

Il racconto di Zaccheo è l'ultimo episodio della vita pubblica di Gesù, che sta per concludersi a Gerusalemme, e si colloca alla fine del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme, iniziato in 9,51 e terminato in 19,28, e proprio per questo, come vedremo subito, diviene emblematico della teologia lucana. Un racconto quello di Zaccheo che trova il suo parallelo nella chiamata di Levi (5,27-32). Anche questi un pubblicano, che risponde positivamente alla chiamata di Gesù e lo invita insieme ad altri numerosi pubblicani ad un banchetto in casa propria, a cui fanno da contrappeso le critiche degli scribi e dei farisei. Un incontro che porta Levi a seguire Gesù, mentre Zaccheo modifica radicalmente il suo modo di porsi nei confronti del suo prossimo, con il quale condivide i propri beni (v.8). È significativo come il racconto della chiamata di Levi sia posto agli inizi dell'attività pubblica di Gesù, mentre quello di Zaccheo la chiude. Si viene in tal modo a creare una sorta di inclusione narrativa, che pone l'intera missione di Gesù sotto il segno distintivo dell'accoglienza divina, contraddistinta dal dono della misericordia e del perdono incondizionati per tutti. Una salvezza che per Luca non è posta nel futuro, ma assume nel presente il volto stesso di Gesù. “Oggi” (s»meron, sémeron), un termine che compare in Luca 11 volte ed è sempre legato alla dinamica della salvezza, che si compie nell'oggi. Similmente a Giovanni, potremmo parlare anche per Luca di una escatologia presenziale o già realizzata nell'evento Gesù.

Il racconto di Zaccheo, proprio perché posto a conclusione dell'attività pubblica di Gesù e al termine del suo viaggio verso Gerusalemme, diventa il punto di convergenza e di sintesi di altri racconti come quelli della pecora ritrovata (15,3-7), della dramma ritrovata (15,8-10) e del figlio ritrovato (15,11-32), tutti segnati dalla gioia escatologica di un regno che si sta realizzando in mezzo agli uomini, così come Zaccheo fu ritrovato da Gesù, un incontro anche qui posto sotto l'egida della gioia (v.6); nella parabola dell'amministratore abile Luca addita la sua scaltrezza e il suo darsi da fare (16,1-8), così come Zaccheo si dà da fare per vedere Gesù (19,3-4); mentre la parabola del ricco e di Lazzaro, posta sotto il segno dell'egoismo, del disprezzo per il povero e della giustizia divina (16,19-31), trova invece in Zaccheo il riscatto di un amore che si fa condivisione di beni e di vita (19,8) e che diventa salvezza (19,9); similmente il racconto della guarigione dei dieci lebbrosi ingrati trova solo in un Samaritano, un personaggio inviso ai giudei e disprezzato, colui che va verso Gesù e gli rende gloria (17,11-19), così come Zaccheo, un pubblicano peccatore odiato dalla sua gente, cerca Gesù, lo accoglie nella sua casa, ne viene guarito e gli rende gloria con un radicale cambiamento di vita; anche la parabola del giudice iniquo e della vedova che con la sua preghiera insistente ottiene giustizia (18,1-8), trova in Zaccheo il prototipo della vera preghiera, sia pur inconsapevole, che si fa desiderio e ricerca di Gesù e trovatolo ottiene la salvezza. Così pure la dura sentenza posta da Gesù sui ricchi, che difficilmente entreranno nel regno di Dio a motivo del loro attaccamento ai beni terreni (18,18-25), viene rivisitata e mitigata in Zaccheo, anch'egli uomo ricco (19,2a), ma che ha saputo, dopo l'incontro con Gesù, condividere i propri beni con gli altri; la ricchezza così condivisa diviene per Zaccheo fonte di salvezza e non più una minaccia. Ed infine il racconto del cieco di Gerico (18,38-43), posto a ridosso a quello di Zaccheo, ne diviene una sorta di premessa: entrambi, il cieco e Zaccheo, sono mossi verso Gesù dal loro desiderio di “vedere” (18,41; 19,3a), che nel linguaggio dei vangeli è sinonimo di credere; una fede che si fa sequela nel cieco (18,43) e condivisione di vita in Zaccheo (19,8).

Tre i personaggi che animano il racconto: da una parte Zaccheo, inarrestabilmente sospinto verso Gesù, supera ogni ostacolo che vi si frappone e accoglie con gioia Gesù nella sua casa e la sua vita subisce un radicale capovolgimento; dall'altra Gesù, che qui è colto in tre movimenti: entra a Gerico e la attraversa, quasi alla ricerca dell'uomo presso cui “deve fermarsi”; lo trova e lo sollecita a lasciare quanto prima la sua posizione per poterlo accogliere in sé; ed infine la constatazione di una salvezza realizzata. Di mezzo una folla ostile che rende difficile l'incontro tra i due; ma l'amore di Dio per l'uomo, che lo cerca e lo desidera, supera e vince ogni ostacolo e diventa per lui evento di salvezza in Gesù. Tre personaggi, tre ruoli che si rincorrono e narrativamente si intrecciano tra loro in un gioco che è proprio della vita e della storia di salvezza, che raggiunge e interpella ogni uomo, cogliendolo nel suo variegato e talvolta complesso vivere quotidiano.

Commento a Lc 19,1-10

Testo5

1- Ed entrato, attraversava Gerico.
2- Ed ecco, un uomo chiamato con (il) nome (di) Zaccheo, ed egli era capo dei pubblicani ed egli (era) ricco.
3- E cercava di vedere chi è Gesù e non poteva a causa della folla, poiché era piccolo di statura.
4- E corso avanti, salì su di un sicomoro per vederlo, poiché stava passando di lì.
5- E quando arrivò sul luogo, volto lo sguardo verso d lui Gesù disse: <<Zaccheo, affrettandoti scendi, perché oggi devo fermarmi nella tua casa>>.
6- E affrettandosi, scese e lo accolse gioendo.
7- E quelli che videro, tutti mormoravano dicendo che entrò ad alloggiare presso un uomo peccatore.
8- Ma Zaccheo, stando (ritto), disse verso il Signore: <<Ecco, la mia metà di ciò che possiedo, Signore, do ai poveri, e se frodai qualcosa di qualcuno, restituisco il quadruplo>>.
9- Quindi Gesù disse verso di lui che oggi avvenne salvezza a questa casa, poiché anche lui è figlio di Abramo;
10- Infatti, il Figlio dell'uomo venne a cercare e a salvare ciò che era perduto.


v.1: Il racconto esordisce con una precisazione geografica: Gesù “Entrato, attraversava Gerico”. Narrativamente il v.1 costituisce il momento di transizione tra il racconto del cieco di Gerico (18,35-43) e quello di Zaccheo, ma nel contempo ne crea una solida continuità non solo narrativa ma anche teologica. Due racconti che presentano tra loro molte analogie, così che quello del cieco guarito costituisce una sorta di premessa a quello di Zaccheo e ne fornisce la chiave di lettura. Il racconto del cieco infatti inizia con Gesù che si avvicinava a Gerico ed è qui, nel suo avvicinarsi, che incontra un cieco che con insistenza grida a Gesù di rendergli la vista; un gridare che mette a disagio gli astanti, ma che dice anche tutta la determinazione del cieco nel voler incontrare Gesù, nonostante la folla tentasse vanamente di zittirlo. Così anche nel racconto di Zaccheo vediamo questo personaggio molto attivo che si dà da fare per poter vedere Gesù, cercando di superare, a modo suo, l'ostacolo della folla che si intrometteva tra i due, finché Gesù non gli indirizza la sua attenzione, guarendolo dalla sua cecità spirituale. E Zaccheo incomincerà a vedere la vita sotto un altra dimensione, quella dell'amore che si fa concreta condivisione.

Il racconto inizia con l'espressione “Ed entrato” (Kaˆ e„selqën, kaì eseltzòn), che crea una continuità sia geografico-temporale che narrativa con il racconto precedente. La congiunzione “Kaˆ” (kaì, e), infatti, si aggancia al racconto immediatamente precedente e ne dà continuità, rafforzata da quel “entrato” che conclude l'azione di avvicinamento a Gerico con cui era iniziato il racconto del cieco (18,35a), che in qualche modo confluisce e si completa ora in quello di Zaccheo; due racconti che offrono al loro lettore due soluzioni diverse all'incontro con Gesù: nel cieco la sua guarigione lo porta a rendere gloria a Dio nella sequela di Gesù (18,43a); mentre in Zaccheo tale rendimento di gloria si concretizza in un radicale cambiamento di vita (v.8).

Il v.1a fa proseguire ora l'azione di Gesù all'interno di Gerico: “attraversava Gerico”. Gerico, antica città cananea6, situata a circa 13 Km a Nord del Mar Morto e ad una decina ad Ovest del Giordano, si trova a 259 mt sotto il livello del mare ed è la città geograficamente più depressa del mondo. Tuttavia in essa sgorga la fonte di Eliseo, con un gettito d'acqua di circa 4.500 litri al minuto, che crea un'oasi subtropicale con una rigogliosa vegetazione. Nell'A.T. essa è indicata come la “città delle palme”7. Una sorta di paradiso terrestre posto a ridosso del deserto di Giuda. La città è un passaggio e una tappa obbligati per le carovane dei pellegrini e dei commercianti che provengono dal nord, dalla Perea e dall'Arabia ed è un importante centro di commercio della Giudea e di tutte le regioni sud orientali. Proprio per la sua posizione e per la sua ricchezza qui vivono e prosperano gli esattori delle tasse, di cui Zaccheo è un importante e ricco capo ed esponente8.

I vv.2-4 dipingono con tre passaggi magistrali la figura di Zaccheo, il suo dramma interiore e la soluzione che egli tenta di dare al suo problema:

Già il nome di questo personaggio racchiude in se stesso il senso dell'intero racconto. Zaccheo, infatti, è il diminutivo grecizzato del nome ebraico “Zaccaria”, che significa “Dio si è ricordato” o “Dio ha pensato (a qualcuno)”9. Zaccheo è dunque qui l'obbiettivo primario del piano salvifico di Dio, che opera in Gesù. Significativo è in tal senso quanto Gesù dice a Zaccheo: “oggi devo fermarmi nella tua casa”. Quel “devo” (de‹, deî), che nel linguaggio evangelico lascia intendere che quanto avviene qui obbedisce ad un piano divino che si sta attuando nell' “oggi” dell'evento salvifico Gesù. Entrambi i personaggi, dunque, Gesù e Zaccheo si stanno muovendo secondo lo schema di un piano divino, che fin dall'eternità Dio ha elaborato nel suo Cristo, ancor prima della creazione del mondo, per ciascun uomo (Ef 1,4), in modo cosciente per Gesù; mosso da una profonda inquietudine interiore Zaccheo, sottolineata dal suo iperattivismo: egli cerca di vedere, ma ne viene impedito dalla folla e dalla sua piccola statura; non si arrende e corre in avanti, cerca di superare Gesù, dribblando la folla, e sale su di un sicomoro, aspettandolo al varco. Un incontro quello di Gesù e Zaccheo, dunque, che trova le sue radici più vere e più profonde nel progetto divino di salvezza universale, ma che interpella nell'oggi ogni singolo uomo.

Due le qualifiche sociali di Zaccheo: era il capo dei pubblicani (¢rcitelènhj, architelónes) ed era ricco. Il sistema fiscale romano10 prevedeva per la riscossione delle tasse locali l'appalto. Gli appaltatori, organizzati in società, anticipavano di tasca propria i pesanti tributi richiesti da Roma, che poi recuperavano con interessi e non di rado con frodi sui cittadini. Essi erano seduti ai loro banchi (Mt 9,9) nei posti strategici della città: alle porte di entrata, agli imbocchi dei ponti, agli inizi delle vie o ai loro angoli, nelle piazze, così che nessuno poteva sfuggire alle loro dure e pesanti richieste. Zaccheo era un elemento di spicco all'interno di questo opprimente sistema tributario e gestiva probabilmente una società di riscossione, da cui traeva, anche in modo illecito (v.8), il suo arricchimento. Una simile categoria di persone era chiaramente invisa se non odiata dalla gente sia perché messasi al servizio del nemico invasore, sia per il loro stato di impurità, acquisito dai loro rapporti con i pagani, considerati impuri (Gv 18,28), e ai quali talvolta erano associati (Mt 18,17). Nei racconti evangelici i pubblicani compaiono quasi sempre accomunati ai peccatori11, mentre nella breve parabola lucana del fariseo e pubblicano saliti al tempio (18,10-13) è lo stesso pubblicano che si riconosce peccatore (Lc 18,13).

Il v.2 presenta il dramma di Zaccheo, che “cercava di vedere”, ma la folla glielo impediva a motivo della sua piccola statura. Già si è sopra accennato come il verbo “vedere” nel linguaggio della narrativa neotestamentaria assume il significato di “credere”. I racconti di guarigione di ciechi nei vangeli sono sempre metafora di guarigione dall'incredulità12, che consente di cogliere (vedere) nella persona di Gesù la sua dimensione messianica e divina, nonché il senso della sua stessa missione e di conseguenza di dare la giusta risposta esistenziale alla sua proposta di salvezza. Mentre la cecità è sempre indice di incredulità. In Giovanni il tema del “vedere” nel senso dell'aprirsi con la mente e il cuore alla comprensione e alla contemplazione del Mistero del Logos Incarnato (1,14), acquista una complessità ed una profondità, che seguono i ritmi stessi della vita e della maturazione della fede. Egli usa tre verbi per indicare il “vedere” che si apre gradualmente alla fede: “blépo”, che indica un vedere fisico, che non va oltre le apparenze di ciò che si vede ed è il primo stadio della fede: l'incontro con l'evento divino umanamente inspiegabile e incomprensibile; il secondo verbo è “tzeoréo”, che parla di un vedere che, di fronte al Mistero che si dispiega, si interroga, indaga, va alla ricerca; ed infine “oráo”, l'ultimo stadio del vedere, quello che sa andare oltre le apparenze, che sa cogliere il Mistero del Logos Incarnato; esso esprime il senso della fede compiuta.

Nel racconto di Zaccheo il verbo “vedere” è preceduto e dipende dal verbo “cercare”, posto all'imperfetto indicativo, “cercava” (™z»tei, ezétei), un tempo che indica la persistenza e la continuità di questa ricerca. Esso dice come all'interno di questo pubblicano vi fosse una forte spinta di evoluzione spirituale verso l'alto, il desiderio di un diverso modo di vivere e di relazionarsi con la sua vita e con quella degli altri; per questo egli “cercava di vedere”, di fare luce dentro di sé. Si tratta di una sete di Dio che lo muove nella sua ricerca, quella sete cantata dal Salmista: “La mia anima ha sete di Dio, del Dio Vivente, quando vedrò il suo volto?” (Sal 41,3), così come altrove esprime il suo anelito verso Dio: “O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua.” (Sal 62,2). Il desiderio di Zaccheo, infatti, si badi bene, non è quello di vedere Gesù, ma “chi è Gesù” (t…j ™stin, tís estin, chi è); il testo greco letteralmente dice “cercava di vedere Gesù, chi (egli) è”. L'obbiettivo finale di Zaccheo dunque andava ben oltre alla persona di Gesù, egli voleva coglierne l'essenza, il Mistero: “chi (egli) è”, desiderava entrare in contatto con il mondo di Dio. Ma a questa sua ricerca spirituale ed esistenziale si frappongono due ostacoli: la sua bassa statura, che, ben lungi dall'essere in senso fisico, dice tutta la sua pochezza spirituale, tutta la sua povertà morale, che egli riconoscerà apertamente poi al v.8. È questa che gli impedisce un approccio con il mondo di Dio; anzi essa è tale che lo colloca ai limiti esterni della stessa folla, che lo spingeva ai margini della vita sociale per il suo sporco lavoro di collaborazionista dell'occupante romano, considerato impuro e immondo per definizione, nonché per la sua scarsa comprensione che egli aveva verso gli altri suoi concittadini nello svolgere il suo lavoro. Egli infatti era noto presso tutti come un “uomo peccatore” (v.7). Il peccato per l'ebreo non aveva soltanto una dimensione spirituale o morale, ma anche sociale, poiché il peccatore, e tale era chi persisteva in comportamenti contro la Torah e che lo ponevano fuori di essa, era di fatto un escluso dall'Alleanza, con tutte le conseguenze che tale esclusione comportava: l'allontanamento dalla vita sociale e l'esclusione dal culto; era una sorta di morte civile.

Ebbene, a tutti questi problemi di ordine squisitamente morale e spirituale, con inevitabili riflessi sociali, che gli impedivano ogni accesso a Gesù, Zaccheo cerca di dare una sua risposta, descritta al v.4: “E corso avanti, salì su di un sicomoro per vederlo, poiché stava passando di lì”. Non vi è qui nessun atto di sincera conversione, che invece apparirà dopo l'incontro con Gesù (v.8) e che vede l'uomo affidarsi a Dio e alla sua esclusiva capacità di redenzione. Egli qui tenta la scalata a Dio con le sue sole forze: da un lato egli corre in avanti, vuole precedere Gesù; dall'altro sale su di un sicomoro. Egli dunque prende posizione nei confronti di Gesù: egli lo vuole vedere; è lui dunque che vuole cogliere il Mistero che si muove in Gesù e gli tende una sorta di agguato spirituale: raggiungere Dio con le sole proprie forze. Si rispecchia in lui il limite stesso del giudaismo che con la sola scrupolosa osservanza della Legge e l'attuazione pignolesca delle opere da essa dettate pretendeva da Dio la propria salvezza, come in una sorta di scambio spirituale: do ut des, io ti osservo la Legge e tu mi devi dare la salvezza, che era considerata implicita all'osservanza della Legge e quindi di Dio, in un certo qual senso, se ne poteva fare anche a meno. Era solo una questione di osservanza o meno della Legge e non di rapporto con Dio. In realtà il giudaismo non aveva nessun rapporto con Dio, ma soltanto con la Legge: dalla sua osservanza o meno dipendeva la salvezza. Non è un caso infatti che nella lingua ebraica non esista il sostantivo religione, che dice il rapporto dell'uomo con Dio; esso è sostituito dal termine mutuato dalla lingua persiana “dat”, che significa “legge, ordinanza, disposizione”13. La scalata che Zaccheo dà, dunque, al sicomoro è in realtà una sorta di scalata che egli vuole dare alla redenzione e al riscatto di se stesso con il suo solo impegno umano: basta essere buoni, onesti, generosi e sei salvo. Ma se così fosse, Gesù che cosa è venuto a fare e che senso dare allora alla sua morte e risurrezione se l'uomo basta a se stesso? E infatti Zaccheo per incontrare Gesù dovrà scendere dal suo sicomoro ed accoglierlo nella casa della propria vita. Anzi sarà Gesù stesso che lo inviterà con autorevolezza a scendere da quella sua posizione spirituale che lo rende di fatto inavvicinabile a lui (v.6).

I vv.5-6 costituiscono il vertice dell'intero racconto: l'incontro di Gesù con Zaccheo, il momento in cui il dono di grazia accolto trasforma e rigenera la vita di Zaccheo. Con questi versetti l'azione e la parola ora passano a Gesù. Tre sono i movimenti descritti dal v.5: Gesù giunge sul luogo, volge lo sguardo verso Zaccheo e “dice”. Il primo movimento definisce il luogo dell'incontro, dove Zaccheo aspetta Gesù e Gesù trova Zaccheo; un appuntamento tra Dio e l'uomo, pensato dal Padre fin dall'eternità, che in Gesù ci ha scelti ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4). Gesù è dunque quel luogo in cui Dio si incontra con l'uomo e gli tende la mano. Il secondo movimento dice il rivolgersi di Gesù verso Zaccheo, indica in particolar modo il senso della missione di Gesù, venuto per incontrare l'uomo e ricondurlo in seno al Padre; mentre il terzo movimento è il “dire” di Gesù rivolto a Zaccheo, che lo invita a rientrare nella casa del Padre; un “dire” quello di Gesù che indica il dono della sua Parola donata all'uomo e lasciata in sua eredità, perché nel suo ascolto accogliente egli si converta, riorientando la sua vita verso quel Dio da cui è drammaticamente uscito e in cui, ora, nella persona di Gesù e nell'adesione alla sua Parola è chiamato a ritornarvi (Gv 14,6). Il sollecito del v.5b è inequivocabile: “Zaccheo, affrettandoti scendi, perché oggi devo fermarmi nella tua casa”. Zaccheo, l'uomo di cui Dio si è ricordato, è chiamato ad affrettarsi a scendere, cioè a lasciare le sue posizioni e le sue sicurezze legate ad una umanità corrotta dal peccato e decaduta per passare dalla parte di Dio e incominciare a vedere e a sentire le cose dalla sua prospettiva; mentre quell'affrettarsi dice come il tempo opportuno sia giunto con l'evento Gesù; con la sua venuta il tempo dell'attesa è finito ed è giunto il tempo della scelta escatologica, quella definitiva, quella che porta già in sé il giudizio di Dio; si tratta di una scelta radicale, che non ammette tentennamenti o incertezze: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30). Il motivo dell'invito a scendere e a farlo con molta fretta sta nel fatto che Gesù sta passando in quel momento (v.4b), un momento che diviene il tempo opportuno dell'incontro tra Dio e l'uomo, il tempo della grazia, il tempo della propria vita: “poiché oggi devo fermarmi nella tua casa”. Una frase teologicamente molto densa, già a partire da quel “g¦r” (gàr, infatti, poiché, perché, giacché) che possiede un senso esplicativo e introduce la motivazione del perché è necessario che Zaccheo scenda con urgenza dal sicomoro: “oggi devo fermarmi a casa tua”. In Luca, già lo si è accennato sopra, quell'oggi allude all'oggi della salvezza, che si è resa presente nella persona di Gesù; una salvezza, dunque, che con la venuta di Gesù non ha più da essere attesa, ma si è pienamente e definitivamente compiuta in lui. L'evento Gesù, dunque, è un evento escatologico, cioè ultimo, perché definitivo. Egli, Parola del Padre, è l'ultimo discorso che Dio rivolge all'uomo, l'ultima mano tesa, e proprio perché ultimo e definitivo porta con sé e in sé il giudizio divino. Ora i giochi passano da Gesù in mano all'uomo, che con il compiersi del suo evento è chiamato a prendere posizione nei suoi confronti; anche l'indifferenza o la tiepidezza nella scelta sono passibili di condanna. Alla chiesa di Laodicea, tiepida e incerta nella testimonianza della sua fede, il Risorto si rivolge con parole molto dure: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15-16). Nell'oggi, dunque, si compie la salvezza, che consiste in un progetto divino che si è attuato in Gesù: “devo fermarmi a casa tua”. Ed è proprio quel “devo” che lascia intendere come il fermarsi di Gesù presso Zaccheo non è stato un semplice caso, una coincidenza, una fatalità, ma rientra in un piano divino. Il piano consiste nel fermarsi di Gesù nella casa di Zaccheo. Letteralmente il testo greco dice: “devo far rimanere me nella tua casa”. Un'espressione che richiama molto da vicino quella di Giovanni: “Se uno mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo a lui e faremo dimora presso di lui” (Gv 14,23). L'ascolto accogliente della Parola ha come conseguenza il trasformarsi del credente in abitazione di Dio, tempio del suo Spirito, così che l'uomo torna ad essere nuovamente incandescente di Dio, come lo era nei primordi, allorché Dio, dopo aver creato tutte le cose, constatò come queste fossero tutte quante molto buone (Gen 1,31), cioè esse riflettevano Dio stesso poiché erano conformi al suo volere. E sarà proprio così anche per Zaccheo che da questo incontro verrà pienamente rigenerato ad una nuova vita.

Il v.6 riporta la risposta di Zaccheo: “E affrettandosi, scese e lo accolse gioendo”. Il versetto si apre con un “kaˆ” (kaì, e), che lega la risposta di Zaccheo all'invito di Gesù e ne fa sua conseguenza. È interessante notare come questa risposta non avviene attraverso le parole, ma con l'adeguare il proprio comportamento alle parole di Gesù, segno che la Parola si è incarnata e ha preso possesso di Zaccheo. Non è un caso, infatti, se il v.6 descrive il comportamento di Zaccheo riprendendo il comando di Gesù, quello di scendere affrettandosi. Zaccheo “scende” dal sicomoro, abbandona, cioè, il suo comportamento e la sua condotta disdicevole, creando in tal modo in se stesso uno spazio accogliente per la Parola, che è entrata in lui rigenerandolo ad una nuova vita che porta con sé la gioia, che è sinonimo di vita divina condivisa con l'uomo; tema quest'ultimo che percorre l'intero vangelo lucano ed è sempre legato al compiersi della salvezza nell'oggi dell'evento Gesù, che vede l'uomo ricondotto in seno al Padre. È quella gioia che riempie le visioni messianiche ed escatologiche dei profeti per il compiersi della salvezza. Quella gioia che investì la stessa Elisabetta e il bambino che portava nel grembo nel momento dell'incontro con la “Madre del mio Signore” (1,43-44); quella gioia di cui gioì lo stesso padre Abramo nel vedere il giorno della venuta di Gesù (Gv 8,56).

Con il v.7 la parola passa ora alla folla. Si tratta di una folla ostile, che dapprima aveva ostacolato l'incontro tra Zaccheo e Gesù ed ora lo critica. Ma in realtà qui c'è ben più di una semplice critica, c'è un atto di rivolta verso il progetto salvifico di Dio in nome della Tradizione, che escludeva dalla salvezza tutti coloro che uscivano dai suoi schemi e che Gesù squalificò definendola come “precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7), che vanificavano la stessa Parola di Dio (Mt 15,6b). Compare qui, infatti, il verbo “diegÒgguzen” (diegónghizen), mormorare, che nei racconti del Pentateuco ricorre 20 volte e indica l'opposizione di Israele a Dio durante il suo cammino nel deserto e che porta Dio a pronunciare la sua sentenza di condanna contro quella generazione di israeliti che Dt 32,5 definisce “tortuosa e perversa”: “Fino a quando sopporterò io questa comunità malvagia che mormora contro di me? Io ho udito le lamentele degli Israeliti contro di me. Riferisci loro: Per la mia vita, dice il Signore, io vi farò quello che ho sentito dire da voi. I vostri cadaveri cadranno in questo deserto. Nessuno di voi, di quanti siete stati registrati dall'età di venti anni in su e avete mormorato contro di me, potrà entrare nel paese nel quale ho giurato di farvi abitare, se non Caleb, figlio di Iefunne, e Giosuè figlio di Nun” (Nm 14-27-20). Il richiamo di questo verbo, posto all'imperfetto indicativo per definire la persistenza di questo mormorio, non è dunque casuale, ma va a stigmatizzare nella folla quell'atteggiamento di chiusura e di rivolta contro Dio che già aveva caratterizzato i loro padri.

Il v.8 si apre con la particella avversativa “ma”, che contrappone questo versetto a quello precedente: da un lato la folla che si pone in un atteggiamento critico e di chiusura nei confronti di Gesù e di Zaccheo (v.7), dall'altro la disponibilità accogliente di Zaccheo che “stando (ritto), disse verso il Signore: <<Ecco, la mia metà di ciò che possiedo, Signore, do ai poveri, e se frodai qualcosa di qualcuno, restituisco il quadruplo>>” (v.8). Il versetto è scandito in due parti: la prima descrive l'atteggiamento di Zaccheo nei confronti di Gesù: “stando (ritto) disse verso Gesù”. Quel “stando (ritto)” allude alla rinascita di Zaccheo, una sorta di risurrezione, che rigenera l'uomo alla vita divina. Egli ora si è risollevato dal suo degrado morale e, ancor prima, spirituale. Egli è ora una nuova creatura rigenerata dall'incontro con Gesù, verso il quale è ora orientata la sua vita. Il suo dire, il suo testimoniare, infatti, è rivolto verso Gesù. La seconda parte è conseguente alla prima e mostra i frutti della novità di vita in cui Zaccheo ora si trova: egli riparerà concretamente il male fatto condividendo i suoi beni con i poveri e restituendo il mal tolto nella misura di quattro volte a coloro che aveva defraudato. Il suo gesto va pertanto ben oltre a quanto stabilito dalla Legge14. Un comportamento quello di Zaccheo che riflette la predicazione del Battista, che sollecitava quali frutti degni di conversione la condivisione e la correttezza nei rapporti con gli altri, rispettandoli nella loro dignità di persone e nei loro diritti (Lc 3,7-14).

Il racconto lucano termina, da un lato, con una constatazione di Gesù sugli esiti dell'incontro con Zaccheo (v.9); dall'altro con una sentenza dai ritmi sapienziali che si ispira ad Ez 34,16a e che mette in luce la finalità della missione di Gesù (v.10).

Il v.9 riassume la teologia lucana della salvezza, che viene offerta nell'oggi di Gesù, ma che è comunque sempre offerta e raggiungibile nell'oggi di ogni uomo attraverso il dono della Parola, che lo interpella nel suo vivere quotidiano ed esige da lui una presa di posizione esistenziale; una salvezza tuttavia che non è imposta o automatica e che non ha nulla di magico, ma esige sempre la risposta dell'uomo, poiché, ricorda S.Agostino, parlando della necessità della nostra risposta al dono della salvezza offertoci per grazia da Dio: “Chi ti ha formato senza di te, non ti renderà giusto senza di te. Perciò (colui che) ha creato chi non c'era a saperlo, fa giusto chi c'è a volerlo”15. E Zaccheo ha dato la sua risposta non a parole, ma con i fatti (v.8); l'ha data impegnandosi a livello esistenziale, riorientando la sua vita verso Dio, accogliendo la luce della sua Parola in se stesso e riflettendola nel suo modo di vivere e di relazionarsi. Da quel momento Zaccheo ha incominciato a ragionare e a vedere le cose dalla prospettiva di Dio e non più dalla propria. In tal modo egli viene reinserito a pieno titolo nella storia di Israele: “poiché anche lui è figlio di Abramo”. Zaccheo è l'uomo che non solo ha saputo sfruttare il tempo opportuno, che Dio riserva a tutti gli uomini indistintamente, ma si è anche dato da fare per trovarlo, lo ha cercato e lo ha trovato e non ha esitato (vv.3-4.6.8).

Il v.10 fornisce la chiave di lettura dell'intero racconto e lascia intravvedere il senso della missione di Gesù, facendo intuire come l'incontro di Zaccheo, così come quello con ogni uomo, non è avvenuto per caso o per fatalità, ma per un progetto divino che ha assunto qui nella storia il volto di Gesù. E che così sia già lo si era intuito in quel “oggi devo fermarmi nella tua casa”.


Bibliografia essenziale




NOTE

1La profonda conoscenza che l'autore ha della Bibbia come pure del metodo midrashico, potrebbe far pensare ad un giudeocristiano della diaspora, ma il fatto che talvolta egli mostri di non capire certe espressioni ebraiche e regole grammaticali va a favore di un etnocristiano, cioè di un cristiano proveniente dal mondo pagano più che di un giudeo ellenista. Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, III edizione 2001 – pag.8, nota 3

2Così si definiscono i credenti successivi ai primi discepoli e agli apostoli, cioè a quelli che furono i testimoni diretti dell'evento Gesù.

3 Erano definiti dai giudei come “timorati di Dio” quelle persone, pagane per nascita, che si erano in qualche modo integrate nella comunità ebraica, pur non essendo circoncise ed essere divenute quindi proselite, le quali, invece, ad ogni effetto erano considerate Giudei. Questi “timorati” guardavano con favore la comunità giudaica per la loro pietà, per il loro culto monoteistico, per la loro condotta morale esemplare e la rigorosa osservanza della Torah. Esempi in tal senso si trovano in At 10,2.22 e 13,16.26. Ma tracce di questa presenza di “timorati di Dio” se ne trovano già nell'A.T., che ne dà testimonianza in Es 12,19.48.49; 20,10; Lv 16,29; 18,26; 22,18; Gs 8,33. Sulla questione cfr. anche la voce “Timorati di Dio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

4Il termine pubblicano in Luca ricorre 11 volte e sempre in contesti favorevoli a questa categoria di persone.

5Il testo è stato da me tradotto dal greco seguendo più il criterio della rigida fedeltà al testo greco che quello del buon italiano; la mia traduzione poi è stata confrontata con quella ottima di A. Poppi, Sinossi quadriforme dei quattro Vangeli, greco-italiano, Edizioni Messaggero di S.Antonio, Padova1999

6Il nome “Gerico”, in ebraico “yeriho” o “yereho”, deriva quasi certamente da “yareah”, luna, che sembra legare la città al culto della dea lunare cananea.

7Cfr. Dt 34,3; Gdc 1,16; 3,13; 2Cr 28,15

8Cfr. la voce Gerico in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato 2005; R. Fabris, Luca, Cittadella Editrice, Assisi 2003

9Cfr. le voci “Zaccaria” e “Zaccheo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

10Sul sistema fiscale romano cfr. J.S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pagg. 192-201

11Cfr. Mt 9,11; 11,19; Mc 2,15.16; Lc 5,30; 7,34; 15,1

12Cfr. J. Mateos – F. Canacho, Vangelo: figure e simboli, Cittadella Editrice, Assisi II edizione 1997; cfr. la voce “Cecità” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1990

13Cfr.G. Stemberger, La religione ebraica,Centro editoriale dehoniano, Bologna 1998

14 La Torah prevedeva la restituzione del quadruplo soltanto nel caso di furto di bestiame minuto, mentre in tutti gli altri casi era prevista la restituzione soltanto del doppio; quanto alla riparazione dei danni conseguenti al furto era previsto in aggiunta alla restituzione un quinto del valore della cosa rubata. È probabile, tuttavia, che qui Zaccheo, quando parla della restituzione del quadruplo per quanto ha frodato, si riferisca alla legge romana, che serviva e che doveva conoscere a sufficienza. Questa prevedeva per l'appunto la restituzione del quadruplo in caso di furto conclamato. Quanto alla donazione volontaria dei propri beni ai poveri, la tradizione giudaica prevedeva un'offerta massima di un quinto dei propri beni. Questa enormità di ricchezze accumulate da Zaccheo vanno tuttavia comprese nell'ambito del lavoro che egli faceva. In quanto appaltatore era richiesto da parte dei Romani l'anticipo delle tasse stabilite, alquanto ingenti, che poi l'appaltatore doveva recuperare presso la gente. Tuttavia, potevano accadere situazioni particolari come pestilenze, carestie, guerre o condizioni climatiche sfavorevoli così che il pagamento delle tasse anticipate ai Romani non erano più recuperabili per intero, generando in tal modo una perdita secca, che poteva portare anche al fallimento, con gravi conseguenze personali e familiari.

15Cfr. Discorso 169: 11,13