La giustificazione è un dono
che si riceve per grazia
e non per meriti


Il fariseo e il pubblicano”

Commento a Luca 18, 9-14


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Introduzione

Quella del fariseo e del pubblicano è una parabola, che si pone in modo ambiguo al suo lettore. Essa, infatti, assieme alla parabola del giudice iniquo e della vedova (18,1-8), che immediatamente la precede, forma una sorta di piccola catechesi sulla preghiera, che deve essere persistente (18,1-8), umile e fiduciosa (18,9-14). Due parabole che, a loro volta, sono in qualche modo agganciate al breve discorso apocalittico (17,20-37), che le precede. Un aggancio che avviene sul tema della venuta del Signore e del giudizio (18,7-8) e della giustificazione (18,14a); e che vede nella preghiera assidua, umile e fiduciosa il giusto atteggiamento di attesa vigilante verso il Signore che viene (17,24.30). Ma nel contempo la parabola del fariseo e del pubblicano assume un tono squisitamente parenetico ed è improntata ad una attenta analisi del comportamento religioso dei due protagonisti, che qui rivestono casualmente le vesti del fariseo e del pubblicano. Non vi è, infatti, da parte dell'autore, nessuna evidente invettiva contro i Farisei o contro il giudaismo, che per l'autore riveste scarsa importanza. Luca, infatti, è un pagano convertito al cristianesimo e la sua cultura e squisitamente ellenistica e sta parlando ad una comunità proveniente prevalentemente dal paganesimo o comunque di cultura ellenistica. Nulla ha a che fare con il giudaismo, contrariamente a Matteo, un ebreo palestinese, che si rivolge alle sue comunità giudeocristiane, che sono in netta fase di rottura con il giudaismo. Per questo il suo vangelo è permeato da una evidente e incontenibile polemica, che trova il suo vertice nel cap. 23.

Tuttavia Luca qui non si limita al tema della preghiera, che deve alimentare il tempo di un'attesa vigilante, ma affronta anche quello della giustificazione, mettendo in rilievo il giusto atteggiamento per ottenerla (v.14a). Lo fa contrapponendo tra loro due comportamenti antitetici, presi dal mondo del giudaismo, senza tuttavia, come si è detto, voler innescare polemiche nei suoi confronti, non almeno in modo aperto. Il fariseo e il pubblicano, infatti, sono soltanto due figure tipo, due parametri con cui raffrontarsi, quasi due caricature, ma proprio per questo immediatamente coglibili dal lettore. Esse svolgono bene il loro ruolo pastorale all'interno di un raccontino, molto avvincente, incisivo e convincente. Il tono pastorale, tuttavia, si evince anche dalla stessa introduzione, caratteristica del modo lucano di narrare, una sorta di premessa, che anticipa il racconto e ne dà la chiave di lettura, ponendosi così in parallelo a quella della precedente parabola del giudice iniquo e della vedova (18,1). Così pure, Luca non dimentica di porre al termine del racconto un suo brevissimo commento (v.14a), seguito subito da una sorta di morale della favola, a mo' di sentenza o di proverbio, perché rimanga impressa nella mente del suo lettore: “Poiché chiunque si innalza sarà abbassato, ma chi si abbassa sarà innalzato” (18,14b). Un'espressione questa che Luca riprende da 14,11, in cui si narra la corsa ai primi posti degli invitati ad un banchetto (14,7-11).

La struttura della pericope (vv.9-14) è lineare e semplice:


A) v.9: Introduzione al racconto, che funge da chiave di lettura. La costruzione è redazionale ed è stata ricavata dal contenuto stesso del racconto. Ne è quindi una sorta di anticipazione, che aiuta il lettore a comprendere in modo inequivocabile il messaggio trasmesso;

B) vv.10-13: la parabola si suddivide in due parti: a) il v.10, che funge da cornice introduttiva; b) i vv.11-3, in cui vengono tipizzati i due personaggi, i quali, più che persone reali, sembrano incarnazioni di due comportamenti, oggetto della riflessione lucana;

C) v.14: la conclusione, scandita in due parti: a) il v.14a, che, a mo' di voce fuori campo, formula il giudizio sui due contrapposti comportamenti; b) il v.14b, che riporta, in forma sentenziale, una sorta di proverbio, che spiega le logiche divine, che sottendono il giudizio.


Il v.9 funge da introduzione all'intera pericope, ma nel contempo fornisce la chiave di lettura al racconto, il cui messaggio viene qui anticipato. Si tratta, dunque, di un racconto, di una parabola, che viene narrata per stigmatizzare un certo comportamento. L'espressione, che dà il senso a questo racconto, è la preposizione “prÒj” (prós), che possiede in se stessa un senso avversativo. È una parabola, dunque, che va contro non tanto, come si vedrà, a delle persone, ma a dei comportamenti, che le animano. Le persone saranno giustificate o meno in base al loro conformarsi o meno a questi due personaggi tipologici, a questi due parametri di confronto. Il soffermarsi a lungo, per l'intero racconto, sulla descrizione di questi due contrapposti comportamenti dice come siano questi ad essere oggetto del giudizio e dell'attenzione dell'autore. Il comportamento assunto da certuni (tinaj, tinas), il cui anonimato garantisce l'universalità di quanto viene detto, è colto nel suo duplice modo di esprimersi, che per questo lo rende doppiamente esecrabile: a) “l'intima convinzione di essere giusti”; b) “il disprezzo degli altri”. La prima parte (a) esprime il giudizio estremamente positivo che viene dato su se stessi. Il verbo usato (pepoiqÒtaj, pepoitzótas) esprime la persuasione e l'invincibile convinzione del proprio essere giusti; l'espressione “™f' ˜auto‹j” (ef 'autoîs, “su se stessi”), inoltre, dice come come queste siano nate da un giudizio esclusivo, che essi hanno posto su se stessi, tutto a loro favore: “sono dei giusti” (e„sˆn d…kaioi, eisìn díkaioi). Si noti la gravità di questo comportamento: essi si sono sostituiti allo stesso giudizio divino; rivaleggiano, dunque, con Dio e pongono sugli uomini, a partire da se stessi, una discriminazione, che spetta soltanto a Dio. Questa tipizzazione, che Luca ai versetti successivi riferisce al fariseo, doveva rispondere alla realtà delle cose, se Paolo nella sua lettera ai Romani punta il dito contro questo modo di comportarsi, che caratterizzava non tanto il fariseo, ma il giudeo in quanto tale, che egli definisce per due volte con l'appellativo di “uomo che giudichi” gli altri, cioè i non ebrei (Rm 2,1.3). L'Apostolo descrive il comportamento presuntuoso, che il giudeo opponeva ai non giudei: “Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità...” (Rm 2,17-20). L'essere giusti, infatti, per il giudeo significava condurre una vita in conformità alla Legge. Tuttavia, Paolo ha dimostrato la vacuità di questa pretesa, a motivo della fragilità umana, che impedisce di vivere in piena e perfetta simbiosi con la Legge: “Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22-23)1.

La seconda parte (b) potremmo definirla come una conseguenza della prima (a): l'esaltazione di se stessi porta ineluttabilmente al confronto, necessariamente vincente, del proprio IO con gli altri; questo si tradurrà in un loro sminuimento, che si fa inevitabilmente disprezzo degli stessi. È interessante rilevare la finezza narrativa di Luca, che per indicare “gli altri” non usa il termine “¥lloi” (álloi), che significa in senso generale gli altri ed è il più appropriato per esprimere i diversi da se stessi, bensì ricorre al termine “loipo” (loipoí), che significa “i restanti, i rimanenti”. Il termine usato porta a pensare che per questo tipo di persone il mondo sia diviso in due parti: il proprio IO e ciò che resta al di là. Una posizione questa che che vede al centro di tutto il proprio IO, mentre gli altri sono percepiti come una sorta di suo contorno. Essa rispecchia con nitidezza la mentalità ebraica, secondo la quale il mondo era diviso in due parti: gli ebrei, prediletti da Dio, eredi della promessa, partners nell'Alleanza con Dio, edotti nella sapienza divina (Rm 2,17-20); e gli altri, i pagani, definiti i cani, considerati impuri e destinati alla perdizione2. Un muro invalicabile, la Torah, separava i due mondi3, tant'è che lo stesso Gesù matteano rifiuterà per ben due volte l'evangelizzazione al mondo pagano, ritenendosi inviato per il solo Israele (Mt 10,5; 15,24). Non stupiscono, quindi, i ragionamenti che il fariseo lucano elabora su se stesso e sul pubblicano, poiché rientrano nelle logiche proprie del giudaismo.

Il v.10 funge da cornice introduttiva al racconto: vengono presentati due personaggi, la cui definizione Luca dosa con gradualità, andando dal generico allo specifico. Si parla dapprima di due uomini, in cui tutti gli uomini possono riconoscersi; questi poi salgono al tempio a pregare e questo restringe il campo a delle persone pie e devote, appartenenti al mondo giudaico. Si parla, infatti, di tempio, di preghiera e di salire, la quale cosa fa pensare al tempio di Gerusalemme, posto ad un'altezza di circa 750 mt sul livello del mare, e presso il quale il pio israelita si recava almeno una volta all'anno e, là dove possibile, anche quotidianamente per la preghiera ufficiale (At 2,46; 3,1; 5,42). Questa si svolgeva due volte al giorno, alle 9,00 del mattino e alle 15,00 del pomeriggio, benché si potesse frequentare il tempio per la preghiera personale in qualsiasi momento della giornata. Infine i due uomini vengono tipizzati nella figura di un fariseo e in quella di un pubblicano. Un accostamento simile, così stridente e contrastante, introduce subito il lettore nel mondo dell'allegoria, dove la realtà diventa simbolo e, proprio per questo, universale, in cui ognuno vi si può rispecchiare. Le due figure hanno in comune il loro essere uomini, il loro salire al tempio e il loro comune intento di pregare, il loro unico e comune Dio. Ciò che li differenzia è la loro posizione sociale e il loro diverso modo di intendere il proprio rapporto con Dio, che nasce da una diversa coscienza di se stessi, da una diversa esperienza di vita e da una diversa percezione di Dio. Sarà compito dei vv.11-13 precisare tutto questo.

I vv.11-13 costituiscono il cuore del breve racconto e delineano i due comportamenti che caratterizzano le due figure, quella del fariseo e quella del pubblicano; ne danno forma e sostanza, svelando il tipo di religiosità e il modo di relazionarsi a Dio dei due personaggi, che agli occhi degli uomini sono così lontani tra loro, anzi, contrapposti: il fariseo per definizione è un puro, uno scrupoloso osservante della Torah, un maestro in Israele, profondo conoscitore della Legge, ammirato e ben voluto dalla gente, in mezzo alla quale amava stare; il pubblicano era considerato un impuro, perché aveva stretti rapporti con il mondo pagano di Roma, si era messo al suo soldo e spremeva i propri connazionali con le tasse a favore dell'invasore romano. Era, dunque, considerato un traditore, un essere immondo e un peccatore, posto ai margini della società sia civile che religiosa.

I vv.11-12 riportano, da un lato, il modo di porsi del fariseo di fronte a Dio (v.11a), dall'altro il contenuto della sua preghiera, che Luca presenta in due tempi: la prima parte (v.11b) esprime un giudizio negativo e, di fatto, di condanna verso tutti gli uomini; la seconda parte (v.12) riporta le opere di giustizia compiute dal fariseo. Il v.11a, con due semplici tocchi, fotografa in modo magistrale la figura del fariseo: a) egli sta in piedi davanti a Dio; b) prega fra sé. Le due espressioni in italiano dicono molto poco rispetto a quelle in greco. Lo stare in piedi è reso in greco con un participio aoristo passivo “staqeˆj” (statzeìs), che significa porsi con fermezza, con sicurezza, in modo deciso e stabile, quasi in uno sfrontato atteggiamento di sfida. L'uso dell'aoristo4 passivo dice come il comportamento del fariseo non sia occasionale, ma pregresso, lasciando in tal modo intuire un suo stile di vita e un suo modo di intendere la religione e i suoi rapporti con Dio. È uno, in buona sostanza, che si ritiene certo della propria salvezza e come questa dipenda esclusivamente dalla sua bravura, dalle sue opere di giustizia e dalle sue innate capacità di persona giusta e onesta. Per cui potremmo tradurre quello statzeìs con “postosi in piedi con fermezza”, un porsi in piedi che esprime il suo modo di essere. Molto significativo è anche quel pregava “fra sè”, reso in greco con “prÕj ˜autÕn” (pròs eautòn), che letteralmente significa “rivolto verso se stesso”. Il fariseo, dunque, si pone davanti a Dio e apparentemente gli rivolge una preghiera, ma in realtà egli sta parlando a se stesso (pròs eautòn), non c'è rapporto con Dio, ma solo con se stesso, egli non rende culto a Dio ma soltanto al proprio Io. In realtà la preghiera del fariseo è soltanto un monologo e Dio fa da sfondo e da contorno religioso; essa è soltanto l'occasione in cui tessere i propri elogi, da cui ricava la propria sicurezza religiosa, il senso della sua santità e la certezza della propria salvezza. Va tuttavia precisato come l'ebreo in genere, salvo casi eccezionali, non pregava mai in ginocchio, ma stando in piedi, ed elevando le mani verso il cielo. Tuttavia, se Luca sottolinea questo modo di pregare significa che nel suo racconto intende attribuire a questo atteggiamento orante del fariseo un significato particolare, che viene poi precisato sia da quel pròs eautòn che dal contenuto della preghiera stessa. Infatti, quando viene presentata la figura del pubblicano non si dice che egli, alla pari di ogni ebreo, stava in piedi a pregare, riservando invece lo statzeìs soltanto al fariseo. Segno questo che per Luca quello statzeìs aveva un significato particolare e voleva indicare tutta l'alterigia del fariseo. Per il pubblicano Luca si limita a dire che non osava alzare gli occhi; ma certamente il pubblicano pregava, alla pari del fariseo e di ogni altro ebreo, stando in piedi.

I vv.11b-12 riportano i contenuti della preghiera del fariseo e, come si è detto sopra, sono scanditi in due parti: con la prima il fariseo traccia un profilo decisamente negativo dell'umanità, che egli sente estranea a se stesso e che con distacco e anonimamente definisce come “oƒ loipoˆ”, cioè “i restanti”, sui quali egli sopravanza senza paragone; mentre stabilisce un confronto diretto con l'esattore delle tasse, definendolo “questo pubblicano” (oátoj Ð telènhj, ûtos o telónes), in cui l'aggettivo dimostrativo “questo” (ûtos) assume un senso spregiativo. La sottolineatura gli serve per mettere in risalto la sua santità. In altri termini egli rileva le tenebre dell'umanità e in particolar modo la notoria fama di peccatore, che aveva il pubblicano, per far splendere ancor maggiormente la sua luce. Per quanto gli riguarda, egli evidenzia le sue opere di giustizia; sono soltanto due, ma sono molto significative, poiché non sono per lui obbligatorie. Tuttavia, esse indicano, se praticate con costanza, la perfezione della propria vita religiosa, lasciando intendere come l'osservanza della Torah fosse fedelmente praticata, per cui si aveva ben ragione di pensare di essere un giusto davanti a Dio, ma soprattutto davanti agli uomini. Il fariseo sottolinea che egli digiuna due volte la settimana5;

un digiuno che la tradizione fissava il lunedì e il giovedì6. La Torah faceva obbligo di digiuno (Lv 16,29-31) soltanto un giorno all'anno, nello Yom Kippur7, il giorno dell'espiazione, che si celebrava il 10 di Tishri, tra settembre-ottobre. La seconda pratica, ostentata dal fariseo, era lo scrupoloso pagamento della decima sull'intero suo guadagno8. Questa era richiesta al contadino sui prodotti della sua terra, compreso i primogeniti del bestiame (Lv 27,30.32; Dt 14,22). Nell'incertezza che il contadino vi avesse assolto, il fariseo pagava di tasca propria la decima su tutti i prodotti della terra, che egli comperava al mercato; anzi, dal racconto si evince che egli la pagava su tutti i suoi guadagni, andando ben oltre a quanto la Torah richiedeva. Bastano queste due semplici citazioni per mettere in rilievo la perfezione religiosa del fariseo, che lo circonda di un alone di santità. Benché impeccabile e inattaccabile sull'esecuzione delle prescrizioni della Torah, Matteo punterà il dito contro gli scribi e i farisei, pignoli nell'eseguire anche le più insignificanti sfaccettature della Legge, ma gravemente negligenti sull'osservanza della sua sostanza: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell'anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle” (Mt 23,23). Erano le contraddizioni proprie di una religione fondata sul legalismo e sull'esecuzione delle disposizioni della Legge.

Il v.13 si apre con una particella avversativa, che dà un senso di contrapposizione all'intero versetto: “Ð de telènhj” (o telónes), “Ma il pubblicano”. La preghiera del pubblicano non è fatta di molte parole, anzi è appena accennata e si contrappone a quella eccessivamente verbosa del fariseo, che occupa ben due versetti (vv.11-12). Con questa il pubblicano rimette la sua triste condizione di peccatore nelle mani di Dio. Egli ha la piena coscienza della sua fragilità, sa che la sua santità e la sua santificazione e, quindi, la sua giustificazione non dipendono da lui, ma da Dio. Da lui dipende solo il peccato, anzi si definisce peccatore, cioè un facitore di peccati, e questo dice quanto sia radicato il male in lui; per questo egli si dichiara bisognoso della bontà misericordiosa di Dio (ƒl£sqht… moi, ilástetí moi). La potenza della sua invocazione, che gli varrà la giustificazione (v.14a), è fatta precedere dalla descrizione del suo atteggiamento interiore, condensato in tre tratti: a) stava lontano, b) non voleva alzare gli occhi al cielo, c) si percuoteva il petto. Quel “stare lontano” (makrÒqen ˜stëj, makrótzen estòs), così indefinito, non indica una posizione fisica o topografica, bensì una posizione morale e spirituale, e cioè tutta la distanza che intercorreva non solo tra sè e il fariseo, ma anche tra se stesso e Dio, che nella sua santità era per lui irraggiungibile. È dalla coscienza del proprio niente morale e spirituale, che dipenderanno anche i due passi successivi, per cui egli “non voleva” (oÙk ½qelen, uk étzelen) neppure alzare gli occhi al cielo, sede della dimora divina, quasi che questo suo gesto avesse potuto contaminare in qualche modo Dio o forse perché lo riteneva spiritualmente irraggiungibile. Il senso della santità di Dio nasce per lui proprio dalla coscienza della sua indegnità e dal suo stato di peccatore, che crea tra i due un divario umanamente incolmabile. Di conseguenza egli si percuote il petto, un gesto questo che esprimeva dolore, senso di colpa e pentimento e che nel N.T. era talvolta legato al giudizio divino9.

Le due preghiere, poste al confronto, rilevano nella prima, quella del fariseo, la predominanza dell'Io e un'eccessiva verbosità, estensione e manifestazione del proprio Io, già sopra ricordata; quella del pubblicano, invece, ha come predominanza soltanto Dio, colto come attore unico ed esclusivo della propria salvezza; mentre in quella del fariseo l'attore unico è il suo Io, le opere di giustizia che egli compie, per cui pone Dio nella posizione di debitore nei suoi confronti. Sono queste, secondo la logica farisaica, che salvano l'uomo e lo giustificano davanti a Dio. Due posizioni antitetiche, dunque, che richiamano da vicino quanto Paolo, già negli anni 56-58 andava dicendo alle due comunità, quella della Galazia e quella di Roma, ricordando loro che la giustificazione viene soltanto dalla fede in Cristo e non dalle opere della Legge: “sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16). Ed esorta, dunque, i Galati: “[...] se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. […] Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,2.4). E così similmente, a conclusione di un lunghissimo ragionamento che coinvolge ben tre capitoli (Rm 1,18-3,28), egli dichiara nella sua lettera ai Romani: “Infatti in virtù delle opere della legge nessun uomo sarà giustificato davanti a lui, perché per mezzo della legge si ha solo la conoscenza del peccato. Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù. Dove sta dunque il vanto? Esso è stato escluso! Da quale legge? Da quella delle opere? No, ma dalla legge della fede. Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,20-28). La giustificazione, dunque, ci viene per fede, qui intesa, nella nostra parabola, quale atto di esclusiva remissione di se stessi a Dio, nella piena coscienza della nostra povertà e del nostro niente.

Termina qui il racconto dei due uomini, attori di due contrapposti atteggiamenti religiosi, che li relazionano a Dio l'uno in modo errato, poiché pone la fiducia nelle sue capacità di salvezza, nella convinzione di saper compiere opere di giustizia; per questo non ha bisogno di Dio, che sente come suo debitore. L'altro in modo giusto, poiché è animato dalla coscienza della sua creaturalità decaduta e incapace anche solo di rivolgersi a Dio, se non è lui che gli tende la mano. Il primo impedisce a Dio di salvarlo, perché di fatto non gli riconosce il suo potere salvifico, che egli ritiene essere in se stesso; il secondo, invece, si dispone ad accogliere in sè il dono della salvezza, nella coscienza della sua estrema povertà morale e spirituale.

Il v.14, posto a conclusione del breve racconto, si divide in due parti: la prima (v.14a) ha un carattere squisitamente teologico e dottrinale. Si parla, infatti di giustificazione ottenuta per grazia10, un tema questo molto caro a Paolo, come si è visto nel commento al v.13. Mentre la seconda parte (v.14b) ha un carattere più sentenziale e sapienziale. Sembra più un proverbio, che risponde meglio e in modo più diretto alle premesse poste nel v.9 e inerisce più che a una questione dottrinale o teologica ad una morale.

Il v.14a, certamente redazionale, come il v.9, conclude la parabola, indicando i diversi destini dei due uomini, esclusivamente dipendenti dalla diversa risposta che ognuno di loro ha dato al dono salvifico di Dio, parimenti offerto ad entrambi. Questa prima parte del v.14 stigmatizza in tal modo il comportamento del fariseo, indicando invece come esemplare quello del pubblicano, che occupa quasi per intero il v.14a, mettendo così in rilievo l'unico parametro vincente sul quale il nuovo credente è chiamato a configurare la propria vita. Il dono di Dio, pertanto, opera la salvezza solo c'è accoglienza, indipendentemente dall'essere ritenuti santi o peccatori, poiché la salvezza è offerta a tutti, ma dipende da come ci si pone nei suoi confronti.

Il v.14a si apre con una dichiarazione solenne di Gesù: “vi dico”. Si tratta di una dichiarazione conclusiva e per questo acquista un peso morale ragguardevole, poiché in essa è contenuto il principio stesso della giustificazione. La via per raggiungerla è indicata nel comportamento del pubblicano. Esso, dunque, funge da via maestra e paradigmatica per i nuovi credenti. Tuttavia mi sembra anche di poter dire come questa conclusione, così come la dinamica del racconto stesso, nascondano una punta, quasi impercettibile, di polemica contro il mondo giudaico e contro i giudeocristiani giudaizzanti11. Luca è l'evangelista del mondo dei pagani, di quelli che erano ritenuti dai giudei dei cani, degli impuri, degli esclusi dalla salvezza, che si poteva ottenere sottomettendosi alla Legge di Mosè, che soltanto loro possedevano e ne erano i depositari. Luca, invece, con questa parabola evidenzia come la giustificazione è ottenuta non da chi si ritiene giusto, privilegiato da Dio, figlio di Abramo, membro dell'Alleanza, ma da chi, come il pubblico peccatore, nella coscienza della sua condizione di bisogno, si rimette nelle mani di Dio, riconoscendo in lui l'unica fonte della propria salvezza. Per questo egli è stato giustificato, cioè è stato posto nella giusta relazione con Dio. È probabile che Luca, seguace e discepolo di Paolo, nonché suo ammiratore, al quale, di fatto, ha dedicato i suoi Atti degli Apostoli12, avesse presente il tema della giustificazione, ottenuta non per mezzo delle opere, bensì per mezzo della fede ed abbia in tal modo elaborato questo stupendo quanto piacevole raccontino, che in ultima analisi si rifà proprio al tema paolino della giustificazione, ottenuta per grazia e non per meriti.

Il v.14b, dai toni sentenziali e sapienziali, conclude il racconto ed è stato mutuato da Luca da 14,11, posto a conclusione della parabola degli invitati che cercavano i primi posti (Lc 14,7-11); un'espressione questa che troviamo anche in Mt 23,12. Ma mentre la prima parte del versetto è, come si è visto, più teologica e dottrinale, questa seconda parte, più parenetica, tende a sottolineare l'aspetto morale e umano di un certo comportamento, invitando all'umiltà non solo nei rapporti con Dio, ma anche con gli altri. Nessuno deve sentirsi così perfetto da umiliare e disprezzare gli altri; nessuno può porsi davanti a Dio trattandolo come un suo debitore. Tutto ciò che si riceve da Lui è dono di grazia e di amore. Solo così si arriva al cuore di Dio, che si dona ai piccoli (Lc 10,21), ma disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, innalzando gli umili (Lc 1,51-52).


                                                                                                       
                                                                                                           Giovanni Lonardi




BIBLIOGRAFIA


N O T E


1Per una migliore comprensione della questione si legga il capa.7 della lettera ai Romani.

2In tal senso si cfr. Mt 7,6; 15,26.27; Mc 7,27.28; Fil 3,2; Ap 22,15; Gv 18,28.

3Cfr. Ef 2,12-16

4L'aoristo in greco è un tempo verbale che corrisponde al nostro passato remoto ed indica un'azione puntuale nel tempo.

5Nel N.T. all’annuale digiuno dello Yom Kippur si associa ormai con regolarità il digiuno settimanale con cadenza il lunedì e il giovedì, praticato da ogni pio ebreo (Lc 18,12). Assieme alla preghiera il digiuno diviene uno strumento per impetrare grazie e illuminazioni nelle scelte di una certa gravità o importanza (At 13,2-3; 14,23); esso rientra nell’ambito di preparazioni a festività o ricorrenze e nelle celebrazioni di rituali penitenziali (Mt 9,14; Mc 2,18) e di culto (At 13,2), negli esorcismi (Mt 17,21) o anche in occasione di lutti. Tale pratica è sentita come una sorta di sottomissione a Dio ed esprime il costante servizio della propria vita a Lui dedicata (Lc 2,37).

6Anche i cristiani digiunavano due volte la settimana, ma con cadenze di giorni diversi per distinguersi dal giudaismo. In tal senso la Didaché suggerisce ai nuovi credenti il seguente consiglio: “I vostri digiuni non avvengano nello stesso periodo degli ipocriti: questi digiunano il secondo e quinto giorno dopo il sabato; voi, invece, digiunate nel quarto e nel giorno della preparazione al sabato” (Did. 8,1). Nota: Gli ipocriti, qui nominati dalla Didaché, sono quei giudeocristinai che continuano la pratica del digiuno secondo le regole e le cadenze giudaiche. Per questa nota cfr. Didaché, dottrina dei dodici apostoli – a cura di Simona Cives e Francesca Moscatelli, Ed San Paolo Srl – Cinisello Balsamo (MI) 1999.

7Questo giorno è ancor oggi tra i più importanti e solenni delle festività ebraiche. Esso si pone a conclusione di dieci giorni penitenziali ed è definito come “il Giorno” per eccellenza in cui Israele è liberato dai suoi peccati e ricostituito davanti a Dio come una nuova creatura. In questo giorno si pone il digiuno della durata di 24 ore, da sera a sera. Esso è sentito come il giorno in cui Dio riprende il suo cammino di alleanza con il popolo, nonostante le sue infedeltà. In questo giorno Dio rigenera il suo popolo, ne fa una sorta di nuova creazione e ristabilisce con lui il suo patto di Alleanza violato dalle colpe del popolo. Il perdono pertanto viene vissuto dall’israelita come la forza rigenerante e ricreante di Dio che non si rassegna al fallimento della storia umana. – Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, op. cit.

8La decima era una tassa, corrispondente al nostro dieci percento, posta sul patrimonio e sul reddito. Era questa una pratica molto diffusa nell'antichità e si riscontrava presso i Fenici, i Cartaginesi, i Babilonesi, i Persiani, gli Arabi e anche presso i Greci e i Romani. Anche Israele la praticava, ma qui essa assumeva una duplice valenza: teologica, in quanto si riconosceva come i beni della terra fossero dono gratuito di Jhwh e, pertanto, a Lui andavano restituiti in parte; e sociale, per il sostentamento dei poveri, per un principio di solidarietà, che legava tra loro tutti i membri dell'Alleanza. La decima trovava il suo fondamento biblico in Lv 27,30.32 e in Dt 14,22 e doveva essere consegnata, secondo Nm 18,21, ai Leviti per il servizio reso nel culto. Tuttavia, ogni tre anni, doveva essere consegnata, oltre che ai Leviti, anche al forestiero, all'orfano e alla vedova (Dt 26,12). Nel periodo intertestamentario, nel N.T e anche successivamente esistevano tre tipi di decime: la prima sui cereali e sulla frutta, spettante ai Leviti; la seconda riservata al Tempio e la terza, ogni tre/sei anni destinata ai poveri (Tb 1,6-8). Quest'ultima era sostitutiva di quella del Tempio. - Cfr. il termine “Decima” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; op. cit.

9Cfr. Is 32,12; Na 2,8; Mt 24,30; Lc 23,27.48; Ap 1,7.

10La giustificazione ottenuta per grazia la si evince dal termine “giustificato” con riferimento al comportamento del pubblicano, qui posto in contrapposizione con quello del fariseo (“a differenza di quello”).

11I giudeocristiani giudaizzanti erano i convertiti al cristianesimo provenienti dal giudaismo, ma che erano ancora legati alle disposizioni mosaiche e tendevano a leggere la novità dell'evento Gesù e del suo messaggio all'interno delle logiche mosaiche.

12Ben 20 capitoli dei 28 che compongono gli Atti degli Apostoli, sono dedicati esclusivamente a Paolo e alla sua attività missionaria.