Il buono e il cattivo uso della ricchezza
commento esegetico e teologico a
Luca 16, 1-13
(L'amministratore accorto)
Premessa
Prima
di affrontare la parabola dell'amministratore accorto, per averne una
più completa comprensione, è utile collocarla nel suo contesto
storico (sitz
im leben),
letterario (cap.16) e tematico (l'uso dei beni materiali). Quanto al
contesto storico, va tenuto presente che i vangeli non sono delle
biografie, non sono dei trattati di teologia o dottrinali, né tanto
meno sono libri di pietà o testi di morale. Essi sono innanzitutto
documenti pastorali, che testimoniano la fede e la comprensione di
Gesù da parte di coloro che li hanno scritti, secondo uno schema
teologico proprio. Gli evangelisti1
erano dei pastori, responsabili di comunità, che nello scrivere i
vangeli hanno tenuto presente i problemi, le difficoltà e le
esigenze delle proprie comunità, a cui questi scritti erano
indirizzati proprio per dare una risposta alle loro esigenze. Chi li
leggeva, poi, doveva ritrovarsi in essi e in essi trovare la risposta
ai propri problemi, causati dal nuovo stato di credente. I vangeli,
quindi, non sono stati scritti per noi, uomini del terzo millennio,
anche se in essi l'uomo di ogni epoca troverà sempre la verità che
cerca, poiché i vangeli parlano dell'uomo nel suo rapporto con Dio,
con se stesso e con gli altri e rispondono sempre a tutti i suoi
interrogativi esistenziali, perché i vangeli sono nati per l'uomo e
a lui si rivolgono, indipendentemente dalla sua fede.
Lo
sitz
im leben2
proprio di questa parabola doveva essere quello catechetico-formativo
di una comunità, quella lucana, proveniente prevalentemente dal
mondo pagano e che doveva avere dei problemi nel suo rapportarsi con
i beni materiali e con l'impegno profuso nel perseguirli e nel
gestirli. Come, dunque, conciliare l'interesse per questi beni
terreni con il proprio nuovo stato di vita di credente? Sono essi un
pericolo per la propria fede? Quanto è lecito il servirsene e come
servirsene? Come, infine, il nuovo credente doveva porsi di fronte ad
essi? Questa parabola, ma ancor meglio l'intero cap.16, che qui
analizzeremo limitandoci alla sua struttura, sono nati per rispondere
a questi interrogativi. Posta al di fuori di questo contesto, la
parabola, come il cap.16 che la contiene, diventano difficilmente
comprensibili e si ridurrebbero ad una sorta di lezioncina
moraleggiante. Si deve, poi, tener presente che il linguaggio dei
vangeli e, nel nostro caso quello della parabola, è squisitamente
metaforico e simbolico, l'unico linguaggio in grado di esprime con
parole umane realtà spirituali.
Introduzione
Il
tema della ricchezza non è nuovo in Luca. Già lo aveva affrontato
in 12,13-21, in cui egli stigmatizzava sia la sicurezza, che la sua
comunità riponeva nel possesso dei beni terreni, sia la cupidigia
nel perseguirli, quasi che fossero questi a garantire la vita: “[..]
Anima mia (diceva quell'uomo ricco) hai a disposizione molti beni,
per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli
disse: <<Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua
vita. E quello che hai preparato di chi sarà?>> ” (Lc
12,19-20). Il senso della parabola viene dato dal v.12,15, che la
introduce, così che la parabola ne diviene una sua drammatizzazione
esemplificativa: “E disse loro: <<Guardatevi e tenetevi
lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell'abbondanza,
la sua vita non dipende dai suoi beni>>”. La fiducia,
concluderà Luca, va riposta nell'amorevole provvidenza di Dio, che
ben conosce i bisogni dei suoi figli; l'attenzione e l'impegno vanno
posti nella ricerca del suo Regno, l'unica cosa che veramente vale,
poiché è l'unica, che a giochi finiti, rimane (12,22-31).
Se
in 12,13-31 l'evangelista puntava il dito contro la sete dei beni
materiali, che droga la vita e che l'autore della lettera ai
Colossesi definiva come una forma di idolatria (Col 3,5b), poiché
distoglie il credente da ciò che più conta per lui, la ricerca del
Regno, nel cap.16 Luca intrattiene la sua comunità sull'uso delle
ricchezze, presentando due atteggiamenti opposti: chi spende i beni
materiali a favore degli altri, pensando al suo futuro, come l'abile
amministratore, lodato dal padrone (vv.1-8); chi, invece, li spende
soltanto pensando alla propria pancia, lasciando gli altri a deperire
ai margini della vita, come il ricco epulone (vv.19-31). Per Luca,
quindi, le ricchezze non sono un male, ma è il loro uso e
l'atteggiamento che si assume nei loro confronti, che costituiscono
un fatto moralmente rilevante e determinante. Sulla ricchezza e sui
beni materiali in genere l'autore non emette nessun giudizio
negativo, ma solo esortazioni a non lasciarsi coinvolgere e
condizionare da queste (v.12,15.29-30). Essi sono un bene e
certamente sono di sostentamento all'uomo nel suo cammino storico
verso l'eternità di Dio. Ed è proprio perché il credente è in
cammino verso Dio, che deve rivedere il proprio atteggiamento verso i
beni terreni, alla luce della sua meta finale. Il nostro aldilà
dipende unicamente ed esclusivamente dal nostro “di qua”, da come
abbiamo giocato la nostra partita qui sulla terra, poiché
nell'aldilà saremo pienamente e unicamente ciò che noi siamo stati
durante questo nostro cammino storico, che il credente è chiamato ad
illuminare e a sostanziare con la Parola di Dio (Sal 118,105; Ger
15,16).
Il
cap.16 si struttura su quattro parti, che sono disposte in modo
speculare ed hanno come unico tema l'uso della ricchezza. Il
capitolo, infatti, è formato da due parabole, una posta all'inizio e
l'altra alla fine, intermezzate da una raccolta di detti di Gesù, il
cui intento è di fornire la corretta comprensione delle due
parabole, che, come si è detto, delineano due diversi e contrapposti
atteggiamenti nei confronti dei beni materiali:
A) vv.1-8: la parabola dell'amministratore accorto, in cui si elogia la previdenza e l'impegno attivo dell'amministratore, che opera nel presente pensando al suo futuro. L'elemento che caratterizza il racconto è una visione dinamica nell'uso dei beni, che non sono trattenuti e accumulati dall'amministratore, ma fatti defluire verso i debitori e, quindi, a favore degli altri.
B) vv.9-13: prima tornata di detti di Gesù, giustapposti l'uno accanto all'altro, tra loro legati tematicamente. Essi costituiscono uno sviluppo riflessivo e un approfondimento sulla prima parabola.
La nostra riflessione si fermerà qui.
B') vv. 14-18: seconda tornata di quattro detti di Gesù, dei quali soltanto i primi tre sono legati alla seconda parabola e la introducono; il quarto (v.18) ha solo un lontano legame tematico con questa seconda parte del cap.16 (vv.14-31) e inerisce, invece, al tema della reinterpretazione della Torah e delle disposizioni mosaiche alla luce della novità dell'evento Gesù (v.16). Essi, in qualche modo, si agganciano alla seconda parabola, in quanto sottolineano il nuovo modo di approcciarsi alle cose, stigmatizzando un comportamento egoistico nel gestire i propri beni terreni.
A') vv.19-31: la parabola del ricco epulone e di Lazzaro, in cui viene denunciato e condannato l'uso egoistico delle ricchezze. Qui i beni si arrestano e vanno ad arricchire chi ricco lo è già, a tutto danno dei bisognosi. Si ha, pertanto, una visione statica dell'uso dei beni, a favore esclusivo di se stessi.
Il Testo: L'amministratore accorto3
1Diceva
anche ai discepoli: "C'era un uomo ricco che aveva un
amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i
suoi averi.
2Lo
chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto
della tua amministrazione, perché non puoi più essere
amministratore.
3L'amministratore
disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie
l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno.
4So
io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato
dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua.
5Chiamò
uno per uno i debitori del padrone e disse al primo:
6Tu
quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli
disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta.
7Poi
disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli
disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.
8Il
padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con
scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono
più scaltri dei figli della luce.
9Ebbene,
io vi dico: Procuratevi amici con la iniqua ricchezza, perché,
quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
10Chi
è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel
poco, è disonesto anche nel molto.
11Se
dunque non siete stati fedeli nella iniqua ricchezza, chi vi affiderà
quella vera?
12E
se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la
vostra?
13Nessun
servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro
oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete
servire a Dio e a mammona".
Commento al cap. 16, 1-13
vv.1-8:
questa pericope riporta la parabola dell'amministratore astuto. Un
racconto questo che lascia perplessi non solo per le lodi che il
signore ha dato al suo amministratore, licenziato per negligenza,
incapacità o per imbrogli amministrativi4
(non ci è dato di sapere il vero motivo), ma anche per il modo
tronco con cui termina la parabola, che lascia in sospeso la
conclusione: come è andata finire? Non ci è dato di sapere e ogni
ipotesi è destinata a rimanere tale. Infatti l'ultima scena, che
viene proposta, è quella di un amministratore che sta trattando con
i debitori del suo padrone, cercando di volgere a suo favore tale
debito. Ma forse non è giusto aspettarsi una conclusione, poiché
l'autore ha voluto lasciare al suo lettore proprio questa immagine
dell'amministratore: quella di uno che si sta dando da fare per
trarsi dai guai e assicurarsi il futuro; quella di uno che si sta
impegnando nel suo oggi pensando al suo domani. In tal modo la
parabola prende un chiaro taglio escatologico. L'intento
dell'evangelista, infatti, è quello di esortare e di spronare la sua
comunità all'impegno, qui, nell'oggi della storia, ma tenendo fisso
lo sguardo alla venuta finale di Gesù, con cui ogni credente è
chiamato a fare i conti. Si tratta, quindi, di un futuro, di una
escatologia, che proietta la sua luce sul presente e lo condiziona in
sua prospettiva. Ed è proprio questo il messaggio che Luca voleva
trasmettere alla sua comunità di etnocristiani5.
Le lodi date ad un amministratore chiaramente disonesto, che all'insaputa del suo padrone sta perpetrando l'ultimo imbroglio, cambiando le carte in tavola e giocandosele a suo favore, a tutto danno del suo signore, non devono trarci in inganno. Luca, infatti, accentra l'attenzione del suo lettore non sull'operato dell'amministratore, chiaramente riprovevole e che egli stesso ha definito come “amministratore dell'ingiustizia” (o„konÒmon tÁj ¢dik…aj, oikonómon tês adikías – v.8a), mettendo in rilievo, in tal modo, tutta la sua perversità, bensì su ciò che lo ha mosso: l'intelligenza, la scaltrezza, la furbizia, l'abilità, la capacità e la determinazione di dare corpo al suo progetto, la definizione dell'obiettivo da raggiungere e la profusione del suo impegno per attuarlo. Tutte queste cose sono valori apprezzabili, anche se sono state poste a servizio del crimine. Certo, sono state usate male, ma non per questo esse perdono di valore e di significato. Ed è proprio su questo che Luca vuole accentrare l'attenzione della sua comunità, che a quanto pare sembra piuttosto proclive a disperdersi nelle faccende e negli affari quotidiani, dimenticandosi che, ora, come credente deve tenere lo sguardo rivolto al Dio che viene, nella coscienza che essa sta vivendo negli ultimi tempi, nel tempo dell'escatologia, in cui il giudizio di Dio si sta compiendo. Il verbo che l'autore usa, infatti, è “dissipare” (diaskorp…zwn, diascolpízon, v.1b), lo stesso identico verbo che egli ha usato per descrivere il comportamento del figlio minore nella parabola del “Figlio prodigo” (15,13), associando in qualche modo tra loro i due comportamenti, probabilmente per colpire più a fondo un vivere troppo dispersivo della sua comunità, che come il Figliol prodigo si stava allontanando dalla casa del Padre, disperdendo i beni della nuova fede nella materialità del suo vivere.
La parabola si struttura su cinque parti:
A)
v.1:
presentazione dei due personaggi principali, l'uomo ricco e il suo
amministratore. Tra questi risalta subito il nostro eroe, per così
dire, attorno al quale gira l'intero racconto: è un amministratore
accusato di dissipazione;
B)
v.2:
viene presentata l'immediata risposta del ricco signore alle accuse,
di cui era gravato il suo uomo di fiducia, gestore dei suoi beni.
L'aria che qui si respira è quella propria di un tribunale, in cui
si sta svolgendo un giudizio senza appelli;
C)
vv.3-4:
è questo il momento cruciale, quello in cui l'amministratore, resosi
conto della sua difficile situazione, rientra in se stesso, si
interroga sul suo immediato futuro … ed ecco, come d'improvviso, la
soluzione: “So cosa farò”;
D)
vv.5-7:
l'attuazione del piano criminoso, progettato ai vv.3-4; i vv.5-7
sono, quindi, lo scioglimento narrativo di quel “So cosa farò”;
E) v.8: l'inattesa conclusione: le lodi del signore per l'abilità dimostrata dal suo amministratore (v.8a). Il versetto si conclude con una riflessione propria dell'autore, quasi un rimprovero che egli muove alla sua comunità, che non sa gestire la ricchezza del dono della fede e vive ancora come se non l'avesse, dissacrandola (v.8b).
Seguono, infine, i vv.9-13, dal sapore sapienziale e sentenziale, che costituiscono lo sviluppo riflessivo sulla parabola.
Il
v.1a
presenta i destinatari della parabola: i discepoli, cioè, nel nostro
caso la comunità di Luca6.
È a lei che l'autore indirizza questa parabola, ma non solo. Vi
sono, infatti, anche altri ascoltatori, che si muovono di sottofondo
e che compariranno soltanto al v.14: “i farisei, che ascoltavano
tutte queste cose”. Lo lascia intendere, oltre che il v.14, anche
la congiunzione “kai”
(anche), posta davanti al sostantivo “discepoli”. Tuttavia i due
gruppi di ascoltatori sono differenziati tra loro e a ciascuno di
essi è dedicata una parabola. La prima, quella dell'amministratore
astuto, è una sorta di benevola e ferma esortazione, che
l'evangelista rivolge alla sua comunità (i discepoli); la seconda,
invece, quella del ricco epulone e Lazzaro, è dedicata ai “farisei,
che sono amanti del denaro” (v.14) e porta in sé il peso della
condanna (vv.22-23) per l'uso egoistico dei beni materiali. La platea
degli ascoltatori, quindi, è duplice: la comunità lucana, per la
quale le parabole hanno un valore prevalentemente esortativo; e i
farisei, che per il loro atteggiamento beffardo verso Gesù e il loro
amore per il denaro (v.14), rifiutano il messaggio della prima
parabola (“si beffavano di lui”v.14), venendo, in tal modo,
condannati nella seconda (vv.22-23).
vv.1b-2: questa breve, ma densa pericope innesca lo scenario di un processo in piena regola: a) c'è un signore-giudice e c'è un imputato; b) vi è un'accusa di dispersione di beni. Il verbo che la indica è “diaskorp…zw” (diaskorpízo), molto intenso nel suo significato: disperdere, dissipare, scialacquare, dilapidare, e lascia intendere un comportamento superficiale, irresponsabile, dissennato, che circoscrive l'uomo nel mondo effimero del presente, precludendogli ogni futuro; c) vi è la convocazione davanti al giudice (“chiamatolo gli disse”); d) l'interrogatorio circa il suo operato; e) ed infine, la condanna senza appello: “non potrai ancora amministrare”. La particolare cura che l'evangelista ha riservato al tema del giudizio, al cui interno è già stata collocata una sentenza di condanna, indica come il credente sia già entrato negli ultimi tempi, nella fase escatologica, entro la quale egli è chiamato a dare la sua risposta esistenziale già fin d'ora, poiché il giudizio si è già compiuto. La mancata risposta equivale alla dispersione dell'offerta di salvezza avvenuta nel Cristo morto-risorto.
Molto interessanti, in tal senso, sono le due figure poste a confronto: il ricco proprietario, che verrà definito al v.8a con il titolo di “Ð kÚrioj” (o kírios), “il signore”, titolo che per eccellenza veniva riferito a Dio; e il suo amministratore, che non è definito né da un nome né da un articolo determinativo, dando in tal modo il senso dell'universalità della figura. Il rapporto, che intercorre tra i due, richiama da vicino quello di Gen. 2,15: “Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”. Due verbi questi che pongono l'uomo a fianco di Dio e lo rendono responsabile di una creazione, che non è sua, ma della quale è stato investito come amministratore unico; due verbi che stridono con la dispersione dei beni operata dall'amministratore lucano. La grandezza di questo rapporto genesiaco viene cantata dal salmista ai vv.8,5-9: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli,di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti,tutte le bestie della campagna; Gli uccelli del cielo e i pesci del mare,che percorrono le vie del mare”. Nel creare l'uomo, dunque, Dio lo ha fatto a sua immagine e a sua somiglianza; ha creato, pur a livello creaturale, un altro se stesso. Per questo il salmista lo vede ricoperto di gloria e di onore, perché assimilato a Dio, vivente di Lui e in Lui, suo partner nella creazione e, ora, suo amministratore. Ma l'uomo ha tradito la consegna, travolgendo l'intera creazione nel degrado del suo peccato (Gen 3,4-7a; Rm 5,12). Infatti: “Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: <<E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra>>” (Gen 6,12-13). Ma la venuta di un Goel, di un riscattatore, di un redentore, che ha ricapitolato tutte le cose in sé (Ef 1,10), distruggendo nella sua carne crocifissa il vecchio Adamo e con lui l'intera creazione (Rm 6,6), rinnovandoli nello Spirito (2Pt 3,13; Ap 21,1.5a), ha ricollocato l'uomo in Dio, restituendogli in Cristo la sua primordiale dignità perduta. Questa operazione di salvezza ha comportato per l'uomo una grave responsabilità, per la quale è chiamato a prendere esistenzialmente posizione nei confronti dell'offerta di salvezza, affinché questo bene non sia disperso. Da questo momento non vi è più per lui una seconda chance. Infatti, Dio ha mandato suo Figlio perché “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,18). Ed è proprio quel “è già stato condannato” che ci riporta al giudizio di condanna posto sull'amministratore lucano perché ha disperso, scialacquato, dilapidato i beni del suo Signore, perdendo l'ultima occasione che gli era stata offerta.
I vv.3-4 vedono questo amministratore, scialacquatore e dissipatore di beni che non gli appartenevano, rientrare in se stesso in un'autoanalisi introspettiva (“disse tra sè”), che lo porta a valutare attentamente la sua situazione e per la prima volta a prendere coscienza della sua posizione nei confronti del suo padrone. È questo il primo passo verso la conversione, che richiama da vicino, per la seconda volta, il comportamento del figlio prodigo, che dopo aver anche lui dissipato i beni del padre (15,13b), rientra in se stesso e prende la sua decisione con fermezza: “Levandomi, partirò verso mio padre e gli dirò ...” (15,18). Ma qui, nella parabola dell'amministratore astuto, non vi è un lieto fine; non vi è la decisione di recarsi dal suo padrone per invocare il suo perdono, poiché su di lui era già stata posta la sentenza di condanna: “non potrai ancora amministrare” (v.2b). Segno che il tempo della misericordia e dell'attesa, il tempo del ritorno dell'uomo a Dio è finito e che con questi ultimi tempi l'uomo è già stato posto sotto il segno del giudizio, il cui esito dipende soltanto dalla sua risposta esistenziale: “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (Lc 11,23). Gesù, dunque, è l'elemento di discriminazione, il giudizio posto sugli uomini. L'uomo, pertanto, è posto davanti ad un aut, aut. Marco in apertura del suo vangelo riassume il senso della missione di Gesù in 1,15: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Il tempo compiuto dice come l'uomo, con la venuta di Gesù, ha terminato il suo tempo di attesa ed è ora posto di fronte ad una scelta esistenziale di fondo; è chiamato a prendere posizione di fronte al Regno di Dio, che in Gesù si è fatto vicino all'uomo. In altri termini, Dio, dopo la cacciata dei progenitori dal Paradiso terrestre, è ritornato in mezzo agli uomini e nella persona di Gesù tende loro la mano. Di fronte a questo evento unico e irripetibile, per questo escatologico, l'uomo è chiamato a prendere esistenzialmente posizione: “convertitevi e credete al vangelo”. La risposta della fede, della propria apertura esistenziale a Dio, conformando la propria vita al lieto annuncio, è l'unica possibilità che gli viene offerta, perché su di lui non pesi la medesima condanna posta sull'amministratore astuto, ma pur sempre “amministratore di malvagità” (v.8), perché non ha saputo cogliere l'opportunità della salvezza, scialacquando e disperdendo il tempo della sua vita, che era spazio per la sua salvezza.
L'amministratore, ora, di fronte al giudizio di condanna, si interroga, oggi, qui, nel suo presente, prospettando il suo futuro: “Che farò?”. La risposta gli viene da un'attenta analisi del suo presente in riferimento alle sue capacità: “A zappare non ho la forza, a mendicare mi vergogno”. Ed ecco, proprio da questo suo rientrare in se stesso, dal suo prendere coscienza di ciò che è e di ciò che gli aspetta scatta la soluzione: “So che cosa farò”. In questo verbo posto al futuro è racchiuso il suo progetto di salvezza, che lo impegna fin da subito, nella prospettiva di un futuro sicuro: “mi accolgano nelle loro case”. Un invito che Luca, da buon pastore, sta rivolgendo a quella parte della sua comunità, che di fronte al bene della salvezza, che le è stato affidato nel momento in cui essa ha accolto la nuova fede, non lo disperda nel disimpegno spirituale di un vivere superficiale e troppo legato alla materialità, ma come l'amministratore astuto, cerchi, nel gestire i beni materiali, il proprio interesse spirituale e organizzi la propria vita in funzione di questo, affinché il giudizio di condanna, che già pesa su di sé per il modo dissipato del proprio vivere, non si risolva in un fallimento totale.
I vv.5-7 presentano l'immediata attuazione del progetto di questo amministratore, che, ora, in modo capillare e attento, senza nulla trascurare (“chiamati a sé uno per uno”), passa in rassegna i debitori del suo padrone7. Il tempo, infatti, stringe, non c'è più tempo da perdere, bisogna passare subito all'azione, perché il giudizio di condanna già pesa sull'amministratore, che sta per essere espulso dai beni del suo padrone. Lo si percepisce sia dall'immediata messa in opera del suo progetto, sia dal sollecito che egli rivolge al primo debitore: “scrivi, presto, cinquanta”. Quel “tacšwj” (takéos), presto, dice tutta l'urgenza del momento, denuncia che ormai il tempo è scaduto, esprime l'ansia del momento presente, poiché il giudizio del Signore ora si sta attuando su chi ha dissipato i suoi beni. Un'urgenza che rispecchia da vicino il sentire della chiesa del primo secolo, tutta protesa nell'attesa dell'avvento finale del Signore, che sentiva imminente: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio si è fatto vicino” (Mc 1,15a), che si tradurrà nell'invocazione finale dell'ultimo libro della rivelazione: Marana tha. Vieni Signore!, che taluni esegeti leggono Maran atha, il Signore viene! E il Signore risponde alla sua comunità “Si, vengo presto”(Ap 22,20); mentre Paolo, rivolto alla sua comunità di Corinto, la sollecita dicendo: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!” (1Cor 7,29-31). Tutto questo significa quel “takéos”, l'ansia di una venuta imminente, che dà peso e valore all'oggi, dominato da un futuro che si sta compiendo, che è già in qualche modo qui e che sospinge anche i più riottosi ad un impegno sollecito, qui, ora, perché il giudizio si sta compiendo. Un sentire questo che permea il vangelo di Giovanni, dominato da una escatologia presenziale, cioè da una escatologia e da un giudizio che il quarto evangelista vede già in atto. Per Giovanni le realtà future si sono compiute in Cristo e sono state rese presenti nell'oggi dell'uomo. Non a caso l'evangelista usa molto spesso il presente indicativo per indicare le dinamiche della salvezza. Anche l'amministratore, rivolgendosi ai debitori del suo signore usa tutti verbi al presente indicativo: “Prendi, scrivi” per indicare come è nell'oggi dell'uomo che si gioca tutto il suo futuro e come questo futuro ormai stia diventando sempre più presente fino a identificarsi in esso. Si comprende, quindi, perché quell'amministratore, che fin qui ha sperperato avventatamente i beni del suo signore, ora cerca di farli fruttare in qualche modo a suo vantaggio: “Quanto devi al mio signore?”. Si noti come l'amministratore, pur condannato, si rivolge al padrone con il titolo di “mio signore”, la quale cosa lascia intendere come questa condanna lasci ancora uno spazio di salvezza, che è appartenenza al Signore (mio), in cui l'amministratore ancora si riconosce. È interessante notare qui come questo amministratore non cerca di accaparrarsi dei beni del suo padrone, del resto non lo ha mai fatto, infatti si dice che li ha sperperati, ma non rubati. Ora questi beni non li trattiene per sé, ma, per l'ultima volta, li dà agli altri, nella speranza di rendere i debitori del suo signore debitori di se stesso. Luca fa filtrare alla sua comunità il messaggio che soltanto il dono dei beni materiali a chi è nel bisogno (debitori) produce un indubbio vantaggio a se stessi. Soltanto una gestione positiva, dinamica della ricchezza pensata per gli altri, arricchisce veramente se stessi.
Il v.8 è scandito in due parti:
a) nella prima parte viene riportata la lode del padrone nei confronti di questo “amministratore dell'ingiustizia” (“o„konÒmon tÁj ¢dik…aj”, oikonómon tês adikías). Luca qui usa un semitismo molto forte per lasciar intendere come la lode non cade sull'operato dell'amministratore, bensì sulle sue capacità e sul suo impegno di organizzare rapidamente il suo futuro, “poiché ha agito saggiamente” (v.8a). Il suo modo di agire viene definito con l'avverbio “fron…mwj” (fronímos), che significa “in modo assennato, saggio, accorto, intelligente, giudizioso”. Ed è proprio questo avverbio che diventa il parametro con il quale la comunità matteana è chiamata a misurarsi e a fare proprio;
b) nella seconda parte viene riportata una sorta di considerazione, che sembra essere dello stesso evangelista. Questa richiama da vicino la comunità di Qumran, la quale definiva i suoi membri come i “figli della luce”, contrapposti ai “figli di questo mondo”8 o figli delle tenebre, quelli, cioè, che non appartenevano alla loro comunità escatologica. Anche qui ritorna, questa volta sotto forma di sostantivo, l'avverbio fronímos, “fronimèteroi” (fronimóteroi), posto al comparativo: “più saggi, più avveduti”, innescando un confronto tra i figli della luce e quelli delle tenebre, costringendo in tal modo la comunità lucana a trarre il bene dal modo di gestire il male dei figli di questo secolo.
Con i vv.9-13 l'evangelista riporta, giustapponendoli l'uno accanto all'altro, tre detti di Gesù, materiale questo tratto in parte da quello proprio (vv.9-12) e in parte dalla fonte Q (v.13), che Luca ha in comune con Matteo (Mt 6,24). Sono tre detti, il cui intento è stimolare una riflessione della comunità lucana sul significato e il senso dei beni materiali e, di conseguenza, l'uso proprio che ne deve essere fatto. In tutti tre i detti viene posto in rilievo lo stretto legame che intercorre tra l'uso dei bene terreni e le realtà spirituali, che investono il nuovo credente.
Il v.9 riporta il primo detto, il più vicino al senso della parabola e forse quello che meglio la interpreta e che potremmo definire, con un nostro modo di dire, come “la morale della favola”: “E io vi dico, fatevi degli amici dal mammona dell'ingiustizia9, affinché quando verrà a mancare, vi accolgano nelle tende eterne”. Risalta subito l'accoppiamento tra il “mammona dell'ingiustizia”, altro semitismo lucano, che richiama da vicino “l'amministratore dell'ingiustizia”, con le “tende eterne”, che indicano l'eternità di Dio, e, quindi, la sua stessa vita, l'aldilà. Come dire che la buona gestione delle cose materiali, in ultima analisi, della propria vita terrena, spese a favore degli altri10 costituiscono moneta utile per accedere alla vita eterna, che è vita stessa di Dio. Il tempo presente, dunque, risulta essere decisivo per il nostro futuro di eternità.
I vv.10-12 sono una piccola pericope, dal sapore sentenziale e sapienziale, che si sviluppa su di un duplice livello: il primo formato dal detto vero e proprio (v.10), il secondo è uno sviluppo riflessivo su questo, finalizzato ad approfondirlo (vv.11-12).
Il v.10, nel riportare il secondo detto di Gesù, lo espone nella duplice forma positiva e negativa, che caratterizza la retorica ebraica: “Chi è fedele in una cosa minima, è fedele anche in una cosa grande, e chi è ingiusto in una cosa minima, è ingiusto anche in una cosa grande”. L'intento di questo detto è costituire un parametro di raffronto per la comunità lucana: come sapere se una persona si comporta bene ed è gradita al suo Signore? Ebbene, dice il Gesù lucano, guardate come essa si comporta e come si muove nella quotidianità della sua vita, come gestisce i suoi beni terreni (la cosa minima), perché in questo si rifletteranno anche le realtà superiori, quelle spirituali (cosa grande).
I vv.11-12 costituiscono uno sviluppo riflessivo sul detto e ne sono la spiegazione. Viene, infatti, sciolto l'enigma di ciò che si intende per “cosa minima” e “cosa grande”; la minima corrisponde al mammona dell'ingiustizia, cioè ai beni materiali; mentre la grande corrisponde alla “vera ricchezza”, cioè le realtà di Dio, i beni spirituali, che il Gesù matteano definirà come il vero tesoro, il quale né la ruggine né il ladro in nessun modo possono alienare (Mt 6,19.20).
Il v.13 riporta il terzo detto di Gesù, che pone la comunità lucana di fronte ad un aut-aut, che per sua natura è radicale e non ammette vie di mezzo. La nuova fede, a cui essa ha aderito, l'ha posta in una dimensione completamente nuova, molto impegnativa ed esigente, poiché è la dimensione stessa di Dio, che nel suo Cristo ha fatto nuove tutte le cose (Ap 21,1.5). Non si può, quindi, rimanere con il piede su due staffe, poiché la tiepidezza, l'indifferenza schierano l'uomo contro Dio. Giovanni, infatti, scrivendo alla chiesa di Laodicea, la rende partecipe del messaggio che Dio le ha riservato: “All'angelo della Chiesa di Laodicea scrivi: Così parla l'Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,14-16). Si è chiamati, pertanto, ha compiere la propria scelta radicale, poiché non si può servire a Dio e a mammona; mentre Gesù, sia lucano che matteano, sottolinea con forza che “Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23). Gesù, dunque, diviene l'elemento discriminante, il giudizio che Dio ha già posto sull'uomo, chiamato a convertirsi e a credere al vangelo, perché il tempo è compiuto (Mc 1,15).
È
la radicalità del vivere cristiano, che affonda la sua verità nelle
antiche radici della stessa gelosia di Dio, che non ammette rivali o
concorrenti attorno a sé, ma pretende dal suo popolo l'esclusiva:
“Non
ti prostrerai davanti a loro (divinità
pagane)
e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio
geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e
alla quarta generazione, per coloro che mi odiano”
(Es 20,5). Anzi, Dio stesso si fa chiamare “Geloso”: “Tu
non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama
Geloso: egli è un Dio Geloso”
(Es 34,14). La gelosia di Dio trova la sua origine nell'identità
stessa di Israele, che Egli ha costituito come sua proprietà in
mezzo agli altri popoli e facendolo un popolo santo, un regno di
sacerdoti (Es 19,5-6).
- Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma 1992;
- Rinaldo Fabris, Luca, Ed. Cittadella Editrice, Assisi (PG), 2003;
- Angelico Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, Messaggero di S:Antonio Editrice, Padova 1997;
- Graham Stanton, La verità del Vangelo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 1998;
- Giorgio Jossa, La verità dei Vangeli, Gesù di Nazaret tra storia e fede, Carrocci Editore, Roma 1998;
- Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, a cura di Pietro Rossano, Gianfranco Ravasi, Antonio Girlanda, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1988;
- Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (AL), 2005.
- Luigi Moraldi, I Manoscritti di Qumran, Ed. TEA, Milano 1994.
N O T E
1I vangeli, giunti a noi con i nomi di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, in realtà sono nati anonimi, all'interno delle varie comunità che popolavano la Palestina, la Siria, Efeso, Antiochia e il mondo ellenistico e romano del primo e secondo secolo. I nomi comparvero soltanto nel II secolo per esigenze prevalentemente di canone, che selezionava i numerosi scritti neotestamentari, dando loro il proprio imprimatur secondo tre criteri fondamentali: 1) L'apostolicità: lo scritto doveva essere fatto risalire direttamente o indirettamente agli apostoli; 2) L'universalità: lo scritto doveva essere largamente diffuso e usato dalle varie comunità; 3) La coerenza teologica e dottrinale: lo scritto doveva essere nei suoi contenuti conforme al pensiero teologico e dottrinale della Chiesa.
2L'espressione tedesca Sitz im Leben è un termine tecnico, che letteralmente significa “Il posto nella vita”. Esso appartiene alla scuola della Formgheshichte (Studio delle forme) ed è stato inventato dal teologo protestante tedesco Hermann Gunkel (1862-1932), per indicare la situazione storica specifica, in cui sono nate le varie e numerose unità letterarie, di cui i vangeli sono composti. Essa indica l'uso che ne facevano le singole comunità al loro interno: per motivi catechetici, liturgici, apologetici, polemici e simili. Ogni unità narrativa, pertanto, rispecchia in se stessa un po' della comunità che l'ha generata.
3Il testo di Lc 16,1-13 è stato tratto dalla traduzione C.E.I., mentre le citazioni riportate all'interno del commento sono state tratte da Angelo Poppi, Sinossi quadriforme dei quattro vangeli, greco-italiano, Messaggero di S. Antonio – Editrice, Padova 1999, la cui traduzione è molto fedele al testo greco.
4La parabola si rifà ad un contesto storico ben conosciuto nella Palestina del I sec. dove grandi latifondi erano non di rado mal gestiti dagli amministratori, spesso stranieri, a cui venivano affidati.
5Gli etnocristiani erano cristiani provenienti dal paganesimo e si distinguevano dai giudeocristiani, che erano convertiti provenienti dal giudaismo. Due provenienze che spesso generavano conflittualità per i diversi ed opposti ambienti culturali di provenienza, mettendo talvolta a dura prova l'unità delle stesse comunità.
6Va sempre tenuto presente, come si è detto nella Premessa, che i vangeli non sono biografie, non sono trattati dottrinali o teologici, ma scritti pastorali, in cui la comunità testimonia la sua esperienza di fede in Gesù e trova in lui le risposte ai problemi del suo quotidiano vivere. L'evangelista, infatti, nello scrivere il suo vangelo, sviluppa il racconto secondo le sue comprensioni e convinzioni teologiche su Gesù, tenendo conto, in primis, dei problemi della sua comunità, a cui il suo vangelo è indirizzato. È necessario, quindi, che ogni esegesi tenga presente il contesto, entro cui sono nati i vangeli.
7Chi siano i debitori del padrone non ci è dato di sapere. Tuttavia è pensabile che questi fossero dei mezzadri, i quali dovevano consegnare i prodotti dei campi al padrone; o forse dei mercanti o dei grossisti, ai quali sono stati venduti dei prodotti agricoli, che dovevano pagare. Il primo deve consegnare 100 barili d'olio, corrispondenti all'incirca a 36 ettolitri, pari alla produzione di circa 140 ulivi. Il secondo debitore deve 100 misure di grano, corrispondenti a circa 550 quintali, la produzione di 42 campi. In genere era il debitore stesso a scrivere la somma dovuta, diventando in tal modo una sorta di autocertificazione inoppugnabile del debito. - In tal senso cfr. G.Rossé, Il Vangelo di Luca, op.cit.
8Cfr. 1QS I, 9; CD XX, 34, a cura di Luigi Moraldi, I Manoscritti di Qumran, Ed. TEA, Milano 1994.
9Questo termine compare nel N.T. soltanto in Mt 6,24 e qui, nel passo parallelo di Lc 16,9.11.13. Si tratta di una trascrizione dall'aramaico māmōnā', il cui significato si avvicina molto al nostro “patrimonio”. La parola, pertanto, non indica propriamente le ricchezze, ma anche i beni accumulati e qualsiasi tipo di proprietà. Per Gesù mammona possiede il potere di ammagliare l'uomo e di allontanarlo da Dio; per questo egli sollecita: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove ladri non scassinano e non rubano. Perché là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21). - Cfr. la voce “Mammona” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (AL), 2005.
10In tal senso Giovanni nella sua prima lettera sottolinea che “Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,20-21). Similmente il Gesù matteano, in un contesto di giudizio universale, pone come parametro di valutazione del corretto agire dell'uomo l'amore verso il prossimo, posto in stretta relazione con quello di Dio: “[...] ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45). In altri termini, l'amore di Dio passa soltanto attraverso l'amore del prossimo, in cui Gesù si è identificato (“l'avete fatto a me”).