IV DOMENICA DI AVVENTO 2006
Luca 1, 39-48
Beata colei che ha creduto nell’adempimento
della Parola del Signore
Premessa
Il passo del vangelo che la liturgia di questa IV domenica di Avvento ci propone è tratto dal vangelo dell’infanzia di Luca, che occupa i primi due capitoli. Vediamo da vicino, a grandi linee, come questi si strutturano per poter comprendere dove si colloca il nostro passo e quale teologia ne sgorga fuori.
La struttura dei capp. 1-2
Il Testo
I movimenti di Maria, movimenti di Dio
[39]In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in
fretta una città di Giuda.
[40]Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
La gioia esultante dell'antico Israele per la venuta del suo atteso Messia
[41]Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel
grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo
[42]ed esclamò a gran voce: <<Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto
del tuo grembo!
[43]A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?
[44]Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha
esultato di gioia nel mio grembo.
[45]E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore>>.
La celebrazione della storia della salvezza tra gli Anawim
[46]Allora Maria disse: <<L'anima mia magnifica il Signore
[47]e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore,
[48]perché ha guardato l'umiltà della sua serva. D'ora in poi tutte le
generazioni mi chiameranno beata.
Introduzione
Il racconto dell’incontro tra Maria ed Elisabetta[3] viene collocato da Luca immediatamente dopo i due racconti, tra loro paralleli e simili, dell’annuncio e concepimento di Giovanni e Gesù e ne costituisce una sorta di chiusura narrativa, ma nel contempo preannuncia il futuro incontro tra Giovanni e Gesù. Del resto tutto ciò che Luca narra nei suoi due primi capitoli è naturalmente proiettato verso il futuro dei due protagonisti principali della storia della salvezza, in qualche modo li anticipa e ne prepara gli sviluppi, fornendo al proprio lettore le coordinate per una corretta comprensione delle loro missioni all’interno di uno scenario storico entro il quale si colloca l’accadere e l’attuarsi del progetto salvifico di Dio.
Il convergere dei due racconti paralleli (annuncio e concepimento) in quello dell’incontro tra Maria ed Elisabetta dice il confluire dell’A.T. nel N.T. e la gioia per il realizzarsi delle attese messianiche di Israele. Ed è proprio la gioia, contrassegnata dai sussulti esultanti del bambino nel seno di Elisabetta e dal dono dello Spirito che la pervade interamente, che colloca questo incontro nell’ambito dei tempi messianici in cui Dio sarebbe venuto a visitare il suo popolo introducendolo nella salvezza promessa ad Abramo (Gen 12,1-3) e a Davide (2Sam 7,4-17).
Il tempo delle attese dunque si è compiuto (Mc 1,15a) e la discesa dello Spirito Santo su Elisabetta le consente di comprendere il compiersi, lì in quel momento, delle speranze di Israele.
A fronte del Dio che viene sgorga naturale la risposta dell’Israele in attesa, che Luca legge nella figura di Elisabetta, ed è un susseguirsi di benedizioni, di lodi e di proclamazione di beatitudini dal sapore profetico: “Benedetta tu fra le donne ...” , “ ... benedetto il frutto del tuo grembo” , “beata colei che ha creduto ...” , “il bambino ha esultato di gioia”. È la danza esultante dell’A.T. intorno alla “madre del mio Signore”, vera arca che contiene in sé l’Alleanza definitiva e perfetta tra Dio e gli uomini[4]. Sembra di assistere in qualche modo all’episodio del trasporto dell’arca dell’alleanza in Gerusalemme, ai tempi del re Davide (1010-970 a.C.), il quale esclama intimorito: “Come potrà venire da me l’arca del Signore?” , ma giunta che fu l’arca in Gerusalemme grande fu la gioia di Davide, che si mise a danzare con tutte le sue forze davanti al Signore presente nell’arca (2Sam 9.12b.14.a).
Al canto esultante dell’A.T. fa eco l’esultanza del N.T. che si sta compiendo in Maria: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore ... ha soccorso Israele suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per sempre” (Lc 1,46.54-55). Elisabetta e Maria, l’A.T. e il N.T. si alternano in un duetto stupendo che celebra la grandezza dell’onnipotenza di Dio. È l’intera storia, avvolta in un manto di gioia e di luce, che qui canta la salvezza compiuta e che richiama da vicino l’esultanza del terzo Isaia, che annuncia il compiersi della salvezza di Dio e vede il sorgere di una nuova Gerusalemme in mezzo all’Israele, che ritornato dall’esilio babilonese (538 a.C.), trova una patria devastata e sconsacrata dalla presenza di popolazioni pagane, nella quale ogni culto a Jhwh si era spento: “Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli” (Is 61,10). È il canto esultante per il compiersi della salvezza, figura di un’altra salvezza, celebrata da Maria ed Elisabetta.
Commento di Luca 1, 39-49
In quei giorni ... l’espressione “in quei giorni” se da un lato si rifà al ritmo narrativo con il quale l’evangelista introduce un nuovo racconto, dall’altro richiama un tempo particolare in cui si compie un evento salvifico o che in qualche modo ha attinenza con la salvezza. Indica quindi lo svolgersi di un piano salvifico divino che si compie nella storia[5]. È pertanto un’espressione caratteristica di Luca, che si presenta come il teologo della storia della salvezza.
Maria si mise in viaggio verso ... il testo greco dice : “alzatasi Maria in quei giorni fu fatta partire verso una regione montuosa”. Due sono i verbi di movimento che qualificano Maria: uno all’attivo (alzatasi) e un altro al passivo (fu fatta partire). Il verbo al passivo (gr. eporeùze) nel linguaggio biblico[6] indica l’intervento di Dio che opera nella persona che subisce l’azione. Il muoversi di Maria dunque non è un moto spontaneo, ma va letto come il compiersi di un disegno divino, che per attuarsi abbisogna anche della collaborazione dell’uomo. Ecco quindi il verbo all’attivo: “alzatasi”. Questo movimento di Maria segue immediatamente l’annunciazione di Gabriele, che qualifica Maria come lo spazio vitale di Dio qui nella storia, in cui Dio abiterà in mezzo agli uomini. Essa trova in qualche modo la sua prefigurazione nella tenda di Dio posta in mezzo agli uomini (Es 40,34-35; Dt 31,15), la sua arca dell’Alleanza dove Dio colloca la sua presenza (Es 25,22; Nm 7,89). Maria, dunque, diventa la madre messianica, la nuova Gerusalemme da cui uscirà una nuova umanità: “Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine.” (Lc 1,31-33). Collocato in questa cornice, l’alzarsi di Maria può acquisire un duplice significato: da un lato è il mettersi in moto di Dio, che risponde alle attese di salvezza del suo popolo: “Sorgi, Signore, alza la tua mano, non dimenticare i miseri” (Sal 9,33). L’alzarsi di Maria, nuova dimora di Dio in mezzo agli uomini, dice quindi l’alzarsi stesso di Dio, quale risposta alle promesse fatte ai Padri. Dall’altro, l’alzarsi di Maria e il suo mettersi in cammino diventa una risposta al Dio che viene. È il nuovo Israele, l’Israele delle attese, il popolo che non ha mai dubitato delle promesse del Signore e che Luca ben delinea nelle figure profetiche del vecchio Simeone e della profetessa Anna (Lc 2,22-39). Questo Israele, figura dei nuovi credenti che attendono sempre fiduciosi la venuta del loro Salvatore, non si lascia cogliere di sorpresa. Ed ecco che il loro rialzarsi e il rimettersi in cammino dice l’aprirsi di un nuovo tempo, di una nuova era, che è lo spazio, la dimensione stessa di Dio, entro la quale essi sono collocati fin da subito in virtù della loro persistente fede, che ha creduto oltre ogni attesa, sicuri che il loro Dio non li avrebbe mai abbandonati. In questo alzarsi pieno di speranza e di gioia per la salvezza che si sta attuando risuona forte e deciso l’invito stesso di Isaia: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere.” (Is 60,1-3). È il pressante invito che il terzo Isaia rivolge agli israeliti ritornati da poco dall’esilio babilonesi e prostrati per la devastazione morale e spirituale che avevano trovato in patria.
In quell’alzarsi di Maria dunque c’è l’intero Israele, l’intera umanità, che prostrata dalla colpa, viene ora rimessa in cammino da Dio verso una nuova terra promessa che troverà la sua realizzazione nello stesso Cristo risorto, che ha dato inizio ai cieli nuovi e ad una terra nuova, metafora della vita divina in cui il nuovo credente è stato collocato da Dio stesso nella persona del suo Figlio.
Significativo diventa poi quel salire di Maria verso una regione montuosa per visitare la “casa di Zaccaria”, che metaforicamente rappresenta il vero Israele in attesa. Questo movimento di Maria richiama da vicino il grido di gioia del secondo Isaia che si rivolge al messaggero che annuncia il ritorno dei deportati da Babilonia e la ricostituzione di Gerusalemme come centro di salvezza di tutti i popoli: “Sali su un alto monte, tu che rechi liete notizie in Sion; alza la voce con forza, tu che rechi liete notizie in Gerusalemme. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: <<Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con potenza, con il braccio egli detiene il dominio. Ecco, egli ha con sé il premio e i suoi trofei lo precedono. Come un pastore egli fa pascolare il gregge e con il suo braccio lo raduna; porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri>>” (Is 40,9-11). Luca vede dunque in Maria la messaggera di lieti eventi e il compiersi delle promesse divine e il realizzarsi finalmente dei tempi messianici (Ger 33,14).
... e raggiunse in fretta ...: Questo movimento frettoloso di Maria ci ricorda l’ormai imminente compiersi delle promesse a cui l’uomo deve dare già da subito la sua risposta esistenziale; i tempi dell’attesa infatti si sono ormai accorciati e il Dio che viene sta per entrare nella storia dell’umanità e già si rende in qualche modo visibile in Maria, che Elisabetta scopre come “la madre del mio Signore”. Maria dunque è l’impronta di Dio che inizia il suo cammino qui nella storia. L’assillo del Dio che sta per venire ha caratterizzato l’intera Chiesa del primo secolo e la sospingeva a modificare radicalmente i propri interessi riorientandoli dalle cose terrene verso il Veniente. L’urgenza di un radicale cambiamento trova la sua eco in Paolo: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!” (1Cor 7,29-31).
... una città di Giuda: Si noti come Luca non dice che Maria raggiunse una città della Giudea, ma di Giuda. La località indicata è la stessa. Tuttavia la prospettiva cambia radicalmente. La Giudea è il nome civile e politico del territorio di Giuda[7]. Tale nome quindi appartiene alla storia dell’uomo e rientra sotto il suo potere. Ma qui l’evangelista sta parlando della storia di Dio in mezzo agli uomini e pertanto, con il nome di Giuda, si ricollega ad essa e da essa riprende le fila di un disegno antico. La lettura pertanto qui si fa squisitamente teologica. L’intento lucano quindi è quello di collegare la figura di Maria e il suo muoversi all’interno della grande storia della salvezza, che viene giocata attorno al nome di Giuda, che nell’A.T. ha un’ampia risonanza, comparendo ben 888 volte. Giuda infatti è il luogo dell’elezione divina, in cui i profeti vedono il realizzarsi delle promesse e dove il Promesso di Dio prenderà dimora e da dove estenderà il suo regno sull’intera umanità redenta[8].
Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta: Maria, raffigurata nel messaggero che sale sul monte per recare liete notizie in Sion, annunciando la venuta in mezzo ad Israele della potenza di Dio, di cui essa è ricoperta (Lc 1,35), entra “nella casa di Zaccaria”, nella casa del “Dio che si è ricordato” del suo popolo (Es 2,24; 6,5). L’allusione ad Israele è evidente. Questo entrare di Dio in mezzo al suo popolo dice il compiersi delle promesse e annuncia che il tempo delle attese è terminato e che la salvezza si sta compiendo, ora, nella casa di Israele.
L’entrare di Maria nella casa di Zaccaria richiama da vicino il racconto tutto lucano di Zaccheo, nome che è un diminutivo grecizzato di quello di Zaccaria[9]; il racconto termina con la constatazione di Gesù: “Oggi la salvezza è entrata in questa casa, perché anch'egli è figlio di Abramo; il Figlio dell'uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc 19,9-10).
Ed entrando Maria saluta Elisabetta, figura del pio israelita in attesa, su cui si è posato lo sguardo di Dio, liberandolo dalla sterilità di un culto vuoto e ricollocandolo nel nuovo ciclo vitale divino. In essa Luca sembra vedere il realizzarsi della profezia di Geremia: “Ecco verranno giorni dice il Signore nei quali renderò feconda la casa di Israele e la casa di Giuda per semenza di uomini e di bestiame.” (Ger 31,27). Il saluto di Maria a Elisabetta è dunque l’abbraccio di Dio al suo popolo. Per molto tempo Dio ha atteso questo momento. Dapprima egli si era rivolto al suo popolo in modo mediato per mezzo degli antichi Padri e dei profeti, ma ora Egli lo fa in modo diretto nel proprio Figlio (Eb 1,1-2).
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto ...: Elisabetta ode il saluto di Maria e Giovanni esulta nel seno materno. È la Parola che, entrata nella casa di Israele, fa udire il suo suono primordiale e creativo (Gen 1,3) ed è accolta dall’Israele che l’attendeva. La risposta alla Parola che viene a visitare e redimere il suo popolo (Lc 1,68) è una grande gioia. Il tema della gioia e dell’esultanza per il Dio che viene a liberare e redimere il suo popolo risuona in tutto l’A.T.[10] e Luca vede nel sussulto del bambino, l’ultimo profeta veterotestamentario, l’esultanza dell’A.T. per il compiersi della salvezza tanto attesa.
Elisabetta fu piena di Spirito Santo: la Parola che Maria porta nel suo seno emette il suo suono che Elisabetta ode. Ma il suo non è un semplice udire fisico, bensì un ascoltare (il testo greco usa infatti il verbo akuein: ascoltare) che dice l’accogliere in sé, nella propria vita la Parola che viene, una Parola che è creativa (Gen 1,3), viva ed efficace (Eb 4,12) per questo Elisabetta è ripiena dello Spirito Santo, così come lo è Maria, adombrata dalla potenza dell’Altissimo (Lc 1,35).
... ed esclamò a gran voce: ...: in Lc 3,2b leggiamo che “la Parola di Dio scese su Giovanni ... ed egli percorse tutta la regione del Giordano predicando ...” (Lc 3,2b.3). è l’investitura profetica di Giovanni, che al discendere della Parola su di lui le dà voce.
Non molto dissimilmente anche per Elisabetta c’è un’investitura profetica in piena regola: c’è la Parola che entra in lei ed è subito investita dallo Spirito. La conseguenza di ciò è la proclamazione delle meraviglie di Dio. Elisabetta dunque proclama sotto l’azione dello Spirito che irrompe potente nella “casa di Zaccaria” : “ed esclamò a gran voce”. Questa espressione dice tutta la potenza dell’irrompere della Parola, ripiena dello Spirito, in mezzo al suo popolo.
Benedetta tu fra le donne e benedetto ....: sotto l’azione dello Spirito la Parola compie in Elisabetta il suo primo annuncio. Esso è un’azione di benedizione[11] che risuona all’interno della “casa di Zaccaria”, cioè in mezzo al nuovo Israele credente, che ha saputo attendere e accogliere in sé la Parola del Signore. La benedizione nella cultura ebraica è un sinonimo di fecondità, di fertilità e dice pienezza di vita (Gen 1, 22.28a; 9,1; 12,2; 17,20) e ha a che fare in qualche modo con la vita stessa di Dio. Elisabetta con questa sua azione benedicente riconosce e proclama la potenza feconda e generatrice di Dio che opera sia su Maria che sul bambino, che forma un tutt’uno con lei. Maria e Gesù sono dunque associati e accomunati tra loro dall’unica benedizione divina che li avvolge e dei due ne fa un unico capolavoro divino. Essi diventano pertanto il segno della fecondità divina in mezzo agli uomini, la potenza generatrice di Dio da cui uscirà una nuova umanità. Gesù e Maria, il nuovo Adamo con la nuova Eva, madre di tutti i viventi, su cui risuona nuovamente la primordiale Parola benedicente, fecondatrice e rigenerante di Dio: “Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen 2,28a). Gesù e Maria sono i semi di una nuova umanità fecondata dalla potenza dello Spirito (Lc 1,35; 4,1.18). Essi sono il settimo giorno della creazione, lo spazio divino che Dio consacrò, riservandolo per se stesso, e lo riempì della sua benedizione fecondatrice, segno della presenza della vita divina, e in cui porta a compimento il suo progetto di salvezza di una nuova creazione segnata dallo Spirito: “Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò ...” (Gen 2,2-3).
Il grido di Elisabetta di fronte a Maria, che porta in sè la presenza vivente di Dio, quasi come una sorta di Sacra Arca, su cui dimora la gloria di Dio, richiama da vicino i festeggiamenti che gli Israeliti rivolgevano all’arca dell’alleanza nelle celebrazioni liturgiche: “Tutto Israele accompagnava l'arca dell'alleanza del Signore con grida, con suoni di corno, con trombe e con cembali, suonando arpe e cetre.” (1Cr 15,28) e similmente anche in 1Cr 16,4.5.42. Luca quindi colloca il racconto dell’incontro tra Elisabetta e Maria in un contesto dal sapore fortemente liturgico di lode benedicente.
A che debbo che la madre del mio Signore ...: il v.43 si apre con una nota di stupore. Sospinta dall’azione dello Spirito, dopo essere esplosa in un grido incontenibile di gioia benedicente e di lode al Dio d’Israele, che veniva a visitare il suo popolo (Lc 1,68), ora Elisabetta esprime tutto il suo stupore per l’improvviso venire di Dio verso il suo popolo: “A che debbo che la madre del mio Signore venga verso di me?”. Non c’è più qui un rapporto parentale tra le due donne[12], ma di un suddito che si rivolge al suo re. L’espressione pertanto assume toni regali e il termine madre, qualificato dall’espressione “del mio Signore”, posiziona Maria nell’ambito della regalità messianica. Questo incedere solenne verso Elisabetta, figura del vero Israele credente e in attesa del suo Signore, assume toni di maestosità regale.
Il grido iniziale di Elisabetta (Lc 1,42) assume qui un sapore tutto cristiano. Maria è definita “madre del mio Signore”. Con il termine “Signore” le prime comunità credenti si riferivano al Cristo risorto, costituito Signore della storia, per mezzo del quale Dio aveva posto la sua signoria universale (1Cor 15,20-28). L’espressione “mio Signore” o parimenti “nostro Signore” è caratteristica dell’invocazione cristiana del primo secolo, con cui il credente si riconosceva come appartenente al Risorto e partecipe della sua vita divina. L’espressione era quindi un riconoscimento della supremazia del Cristo sulla comunità credente, a lui consacrata e sottomessa nella fede[13].
Ecco, appena voce del tuo saluto è giunta ...: la profonda e intensa sacralità dei vv. 42-43, che celebravano benedicenti le figure di Maria e di Gesù, viene qui stemprata con la ripresa del v.41. Si forma in tal modo una inclusione[14] che chiude un’azione di celebrazione liturgica di ringraziamento e di lode al Dio di Israele, che in Maria, la “madre del mio Signore, è venuto a visitare e redimere il suo popolo (Lc 1,68). Le promesse fatte ad Abramo e a Davide trovano oggi il loro compimento nel seno di Maria.
Benché il v.41 sia sostanzialmente identico al v.44, formando in tal modo una inclusione che racchiude e conclude l’azione dei vv. 42-43, tuttavia cambia radicalmente il modo di esprimersi.
Nel v.41 si diceva: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria”; qui nel v.44 si dice: “appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi”. Il significato delle due espressioni è identico, ma la forma cambia. Cambia innanzitutto il soggetto: in 41 abbiamo Elisabetta che ode; qui in 44 è la voce del saluto di Maria che raggiunge Elisabetta. Elisabetta dunque assume qui una posizione passiva rispetto a prima, mentre la voce che prima era udita da Elisabetta ora diventa attiva e va verso Elisabetta. Con questo gioco chiasmico[15] Luca delinea i due movimenti della storia della salvezza: nell’A.T. Dio si pone davanti al popolo con la sua parola per mezzo della Legge e dei Profeti, per cui l’antico Israele è qualificato come il popolo dell’ascolto e della Parola. Soggetto dell’azione salvifica veterotestamentaria è il popolo che ode la parola di Dio e la mette in pratica (Es 19,8; Es 24,7; Dt 5,27), come Elisabetta al v.41 ode la parola di Maria. Nel N.T. Dio viene verso il suo popolo e senza i mezzi mediatici della Legge e dei Profeti raggiunge direttamente Israele (Eb 1,1-2), così come la voce di Maria va verso Elisabetta e la raggiunge direttamente.
Il sussulto del bambino, inoltre, nel v.41, posto ancora in un contesto veterotestamentario, era percepito come un puro movimento fisico all’interno del seno di Elisabetta, mentre ora, lo stesso sussulto, posto in un contesto neotestamentario, viene percepito come una gioiosa esultanza. Viene pertanto qui riletto l’A.T. alla luce del N.T., che getta una nuova luce.
E beata colei che ha creduto ...: il testo greco letteralmente dice: “Felicità a colei che credette che sarà dato compimento a quanto viene detto dal Signore”. Il tono di questo versetto cambia radicalmente: si passa dal pronome “tu” con cui Elisabetta si era rivolta a Maria fino ad ora ad uno impersonale posto alla terza persona singolare, assumendo in tal modo una prospettiva di universalità. Con queste parole ispirate e dall’intonazione profetica, Elisabetta, superando la condizione contingente della maternità di Maria, dichiara la beatitudine di ogni credente. Maria dunque viene inserita nel ciclo dei beati a motivo della fede. Il credente pertanto è per sua natura beato, cioè partecipe in virtù della sua fede alla stessa vita divina, colta come luogo di beatitudine. La fede pertanto introduce il credente nel ciclo vitale di Dio[16], per questo egli è beato, cioè collocato in Dio.
Questa dichiarazione universale di beatitudine, in cui ogni credente è coinvolto, trova la sua eco in Lc 11,27-28: “Mentre diceva questo, una donna alzò la voce di mezzo alla folla e disse: <<Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!>>. Ma egli disse: <<Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!>>.” Con questa dichiarazione di beatitudine Gesù sposta il tiro dalla dimensione umana, che limita la beatitudine ad una determinata condizione esclusiva e propria di una persona (maternità di Maria), ad una dimensione universale e divina: ascolto e osservanza della Parola.
Si noti come in entrambi i versetti (Lc 1,45 e 11,27-28) si lega la maternità, cioè la capacità generativa di una nuova vita, non più ad una condizione carnale, bensì spirituale, aperta ad ogni credente, che si fonda sull’ascolto-accoglienza della Parola. Ogni credente pertanto, fecondato dalla Parola, diventa madre della stessa Parola, cioè diventa capace, una volta accolta la Parola nella propria vita, di generarla agli altri. In tal modo la maternità di Maria, portatrice e generatrice della Parola divina all’intera umanità, viene estesa ad ogni credente.
Allora Maria disse: <<L’anima mia magnifica il Signore ... : alla proclamazione profetica di beatitudine, sgorgata da Elisabetta sotto l’azione dello Spirito Santo, fa eco l’inno salmico di Maria che proclama le grandezze di Dio che opera nel nascondimento e nell’umiltà dei suoi servi.
L’inno che Luca pone sulle labbra di Maria non è certo di Maria, ma è una composizione salmica la cui origine va colta nel contesto liturgico delle prime comunità cristiane formatesi in Palestina ed è un inno di lode e ringraziamento per la salvezza che Dio ha operato a favore dei poveri e degli umili. Esso quindi trova la sua origine negli Anawim, cioè i poveri di Jhwh. Essi rappresentano in qualche modo il “resto d’Israele”, che si è mantenuto fedele a Dio nonostante le traversie drammatiche nelle quali Israele è stato travolto nel corso dei secoli fino alla venuta di Gesù. Luca dunque ha preso un cantico già esistente adattandolo al suo contesto teologico. L’inno si presenta come una variegata composizione caratterizzata da un costante ricorso alle Scritture[17]. In esso Luca vede l’attuarsi delle promesse che Dio ha fatto ad Abramo e a tutta la sua discendenza (Lc 1,55). Potremmo definirlo un inno che canta e rivela il modo di agire di Dio nella storia attraverso gli umili, i poveri, i diseredati, coloro che non fanno la storia, ma che invece la subiscono. I veri protagonisti di questa storia pertanto non sono i potenti, i ricchi. È dunque una storia che non è fatta e non si compie secondo le logiche umane, ma quelle divine, che operano nel nascondimento e che apparentemente escono sempre sconfitte. L’emblema di questa storia trova il suo significato più vero e profondo nella croce, che apparentemente decreta la sconfitta di Dio, ma che trova il suo pieno riscatto nella sfolgorante vittoria della risurrezione, da cui sgorgano quei cieli nuovi e quella terra nuova vaticinati da Isaia (Is 65,17-18; 66,22) e contemplati da Giovanni nell’Apocalisse (Ap 21,1); una nuova creazione alla quale i veri credenti già appartengono in virtù della loro fede, anche se non ancora in modo pienamente compiuto. Per questo “secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali avrà stabile dimora la giustizia. Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate d'essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace.” (2Pt 3,13-14).
Verona 18 dicembre 2006
Giovanni Lonardi
NOTE
[1] Lo schema in genere, con qualche variazione e adattamento, segue in tutto o in parte questo percorso: 1) impossibilità di poter concepire in genere per sterilità o per vecchia; 2) intervento miracoloso di Dio che preannuncia la nascita del figlio desiderato del quale viene stabilito fin da subito il nome; 3) nell’ambito dell’annuncio viene svelata la grandezza del figlio e la sua futura missione, che rientra nei piani di Dio; 4) il genitore, depositario dell’annuncio, pone delle domande di chiarimento; 5) come promesso da Dio avviene il concepimento e la nascita; 6) lode di ringraziamento a Dio da parte dei genitori, che gli consacrano il figlio.
[2] Cfr G.Rossé, Il Vangelo di Matteo, Ed. Città Nuova, III ed. – Roma, 2001
[3] Il racconto dell’incontro tra Maria ed Elisabetta sembra trovare le sue radici più che nella realtà storica in quella teologica. Se l’incontro fosse realmente avvenuto questo andrebbe contro a molte incongruenze. Innanzitutto non è credibile che una ragazzina incinta di circa 12-16 anni si sia posta in viaggio, percorrendo una distanza di oltre 150 Km che separano Nazaret dalla Giudea e che richiede dai tre-quattro giorni di cammino. Una soluzione questa di estrema pericolosità, anche se percorsa con una ipotetica e non meno pericolosa carovana, che in genere raccoglieva gente non sempre fidata. Se inoltre l’incontro fosse avvenuto realmente tra le due parenti, così come Luca ce lo racconta, come è possibile che Giovanni non abbia riconosciuto in Gesù il vero Messia (Mt 11,3; Lc 7,19-20)? Perché Elisabetta non gli ha spiegato chi realmente fosse Gesù? Come poi spiegare la rivalità tra i discepoli di Giovanni e di Gesù (Gv 3,22-4,1-2), se i due erano tra loro in qualche modo parenti? Che senso ha poi il fatto che Maria percorra un lungo viaggio per aiutare Elisabetta, là vi rimanga tre mesi e poi se ne vada via solo qualche giorno prima del parto della stessa Elisabetta (Lc 1,56)? Probabilmente il racconto è un’invenzione di Luca, che gli è servito per sviluppare la sua teologia. (Cfr. G.Rossé, Il Vangelo ... op. cit.
[4] Cfr Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20; cfr anche Lumen Gentium 2,9.
[5] L’espressione “in quei giorni” si trova circa 25 volte in tutto il N.T. di cui 18 solo in Luca.
[6] Tecnicamente viene definito passivo divino o teologico
[7] Giuda è uno dei dodici figli di Giacobbe, dai quali nacquero le dodici tribù d’Israele. Il popolo, fuggito dall’Egitto, entra in Palestina, che viene suddivisa in dodici parti, una per ogni tribù. Alla tribù di Giuda è assegnato la regione posta a sud della Palestina e che ha per capitale Gerusalemme. Proprio qui hanno sede i luoghi più sacri della storia della salvezza, come Betlemme, Ebron e Gerusalemme.
[8] Cfr. Sal 68,36; 77,68; 96,8; 113,2; Is 5,7; 22,20-24; 65,9; Ger 31,31; 33,7; 33,14; 33,16
[9] Cfr. A.A. , Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato, Ed. Piemme, Casale Monferrato (AL) – Nuova edizione 2005
[10] Cfr. Sal 13,7; 27,7; 30,8; 34,9; 149,2; Is 25,9; 44,23; 61,10; Sof 3,14; Zc 2,14; 9,9a.
[11] Luca riprende qui la tradizione veterotestamentaria di benedizione riservata a donne di particolare rilievo storico all’interno della vita d’Israele come nel Libro dei Giudici: “Sia benedetta fra le donne Giaele, la moglie di Eber il Kenita, benedetta fra le donne della tenda!” (Gdc 5,24) o, similmente, nel Libro di Giuditta: “Ozia a sua volta le disse: <<Benedetta sei tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra e benedetto il Signore Dio che ha creato il cielo e la terra e ti ha guidato a troncare la testa del capo dei nostri nemici.” (Gdt 13,18). In tal modo Luca colloca Maria tra quelle donne che hanno contribuito alla salvezza d’Israele.
[12] Cfr Lc 1,36 in cui l’evangelista sembra stabilire un non ben precisato rapporto di parentela tra maria ed Elisabetta.
[13] L’espressione “mio Signore” si trova in Giovanni 20,13b.28; Fil 3,8; mentre “nostro Signore” più largamente impiegata riecheggia in At 15,26; Rm 1,4; 4,24; 5,21; 6,23, 7,25; 8,39; 16,18; 1Cor 15,31; Ef 3,11; Gd 1,25.
[14] L’inclusione è una figura letteraria in cui la ripetizione di una stessa parola o, come in questo caso, di una stessa frase racchiude, come tra due parentesi, un testo assegnandogli un valore e un significato che la stessa parola o frase esprime.
[15] Il chiasmo è una figura letteraria in cui due parole poste in un certo ordine in una frase (es. A e B) vengono ripetute in un’altra frase con ordine inverso (es. B e A) così da formare una sorta di incrocio tra loro.
[16] Cfr. Gv 3,16.36; 5,24; 6,40.47; 11,25-26;
[17] Cfr. G.Rossé, Il Vangelo di Luca, pagg.. 69-70 e 74 – op. cit.