LA LETTERA DI GIACOMO
Premessa
Questa operetta, distribuita su 108 versetti raccolti in cinque capitoli, è definita come Lettera di Giacomo, anche se in realtà non ne possiede i requisiti per essere chiamata tale[1], mentre il suo autore ci è completamente sconosciuto.
Il tono generale è squisitamente parenetico, cioè esortativo, e si muove su di uno sfondo proprio della riflessione sapienziale e omiletica. Lo scritto si ripropone di affrontare questioni di vita pratica, colta nella sua quotidianità. Si tratta quindi di un insieme di tematiche morali, poste l’una accanto all’altra, senza avere la pretesa di sviluppare con logica coerenza precisi temi dottrinali o teologici. Bisogna quindi affrontare lo scritto senza prevenzione, senza cioè voler individuare dottrine e teologie particolari; ma con semplicità d’animo ci si addentra in una riflessione di tipo moralistico ed etico, in cui potremmo ritrovare anche noi stessi. L’autore, quindi, vola basso e si preoccupa principalmente di fornire ai suoi destinatari esempi concreti di come vivere la propria fede nella concretezza della quotidianità, denunciando le colpe e proponendo modelli di vita cristiana.
La Lettera ha avuto una lunga e difficile gestazione prima di essere partorita tra i libri canonici. Non ha mai inoltre suscitato un particolare interesse tra gli esegeti e i teologi sia per i suoi contenuti, quasi esclusivamente orientati agli aspetti morali del vivere cristiano, sia per la sua struttura che si presenta come una sorta di assemblaggio di tante piccole riflessioni dal sapore sapienziale su argomenti diversi apparentemente giustapposti l’uno accanto all’altro. Sembra quindi mancare di uno sviluppo logico di pensiero su un qualche tema teologico o dottrinale. Tuttavia il suo interesse venne alla ribalta nell’epoca moderna allorché Martin Lutero, che nella sua introduzione alla Bibbia, pubblicata a Wittemberg nel 1552, la definisce una “lettera di paglia”, cioè di poco conto e inconsistente, sia perché priva di cristologia, sia perché si pone in apparente rotta di collisione con Paolo circa la questione, sentita e vissuta da Lutero in modo ossessivo, della dottrina della giustificazione, argomento che affronteremo nel corso del commento esegetico della lettera (vv. 2,14-26).
Lo scritto fa parte delle sette “Lettere cattoliche[2]”, così chiamate perché indirizzate a dei destinatari imprecisati e quindi considerate rivolte a tutti i fedeli in genere. Oltre al nostro scritto, intestato a Giacomo, si annoverano in questo gruppo anche le due lettere di Pietro (1Pt; 2Pt), le tre lettere di Giovanni (1Gv; 2Gv; 3Gv) e la lettera di Giuda.
L’Autore, il luogo di composizione e la data
L’opera si apre con l’intestazione “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”. Ma di quale Giacomo si tratta? In tutto il N.T. il nome ricorre 38 volte e si riferisce ad almeno quattro personaggi diversi:
1) Giacomo, figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, che figurano tra i primi discepoli chiamati da Gesù (Mt 4,21; Mc 1,19) e vengono entrambi elencati da Matteo nel gruppo dei Dodici (Mt 10,2). Assieme a suo fratello Giovanni e a Pietro lo vediamo tra i testimoni più intimi dei momenti più significativi della vita di Gesù: nella Trasfigurazione (Mt 17,11; Mc 9,2), la risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,37), nell’ambito del discorso apocalittico (Mc 13,3), e nell’Orto del Getsemani (Mc 14,33). Egli è colui che assieme al fratello Giovanni chiede a Gesù di avere un posto di privilegio nel Regno (Mc 10,35ss) ottenendo il disprezzo degli altri discepoli (Mc 10,41). Stando alla testimonianza degli Atti degli Apostoli egli fu ucciso da Erode intorno all’anno 44 (At 12,1-2)
2) Giacomo, figlio di Alfeo, menzionato da Matteo nell’elenco dei Dodici (Mt 10,3). Egli figura tra il gruppo dei discepoli, che dopo l’ascensione di Gesù al cielo (At 1,9), si sono ritrovati presso la loro abitazione in Gerusalemme (At 1,13).
3) Giacomo il minore, menzionato da Marco e figlio di una certa Maria, testimone, assieme ad altre donne, della passione di Gesù (Mc 15,40) e della scoperta della tomba vuota (Mc 16,1).
4) Giacomo, il fratello di Gesù, menzionato da Marco (Mc 6,3) e da Paolo in alcune sue lettere (1Cor 15,7; Gal 1,19; 2,9.12). Egli non figura tra i discepoli di Gesù, ma è menzionato come il capo della Chiesa di Gerusalemme o comunque tra le persone che ne erano responsabili (At 12,17; 15,13-21; 21,17; 1Cor 15,7; Gal 2,9). Questi, in seguito definito “il giusto”, venne ucciso nel 62 d.C. dai giudei[3]
Per quanto riguarda i primi due Giacomo, entrambi apostoli, è improbabile che siano gli autori della lettera. In essa infatti non vi è alcun riferimento alla figura di Gesù, alla sua predicazione e alla sua missione in genere, ma solo un elenco di insegnamenti morali di tipo sapienziale, ben lungi dai contenuti propri del kerigma, di cui erano vivamente preoccupati gli apostoli e discepoli della prima ora (At 6,2-4). È improbabile poi che degli apostoli si qualifichino come “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”, tralasciando invece il loro titolo di “apostolo”, così importante, fondamentale e autorevole per la chiesa nascente.
Quanto al terzo Giacomo, il minore, considerata la sua scarsa e pressoché inesistente rilevanza nei testi biblici (è menzionato solo una volta indirettamente) è del tutto improbabile che sia l’autore della lettera indirizzata “alle dodici tribù disperse nel mondo”, la quale cosa richiede una certa autorevolezza, conoscenza e stima all’interno delle comunità.
Poco credibile risulta essere anche Giacomo, il fratello di Gesù. Infatti questo Giacomo, non rivestendo alcuna autorità apostolica, avrebbe dovuto in qualche modo evidenziare la sua parentela con Gesù. Inoltre egli è conosciuto all’interno della comunità di Gerusalemme e delle altre comunità con il suo appellativo di “fratello di Gesù o del Signore”. Perché allora si definisce come “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”?
Inoltre, l’autore si presenta come un maestro all’interno della comunità (Gc 3,1) e possiede un greco fluente ed elegante. Elementi questi che difficilmente si possono attribuire a un qualche Giacomo di nostra conoscenza, la cui cultura è squisitamente ebraica e di tipo popolare, limitata alla stretta cerchia della Palestina. Il nostro Giacomo invece sembra avere, da un lato, un respiro universalistico, rivolgendosi ai giudei-cristiani ellenisti nella diaspora; dall’altro una buona conoscenza delle problematiche che investono queste comunità, che sa trattare sia con riferimento alla tecnica delle omelie della sinagoga, sia alla diatriba cinico-stoica propria dell’ambiente ellenistico.
Il nostro autore inoltre, a mio avviso, non deve aver fatto neppure ricorso alla tecnica della pseudonimia, che attribuiva la propria opera a qualche personaggio importante, ponendola sotto la sua autorevolezza, per garantirsi la credibilità del proprio pensiero. Infatti se il nome Giacomo fosse uno pseudonimo, perché questo nome non è stato qualificato con qualche titolo autoritativo, quale quello di “apostolo” o “fratello del Signore”, facendolo in tal modo risalire a personaggi certamente molto noti, rispettati e carichi di autorità apostolica, ma semplicemente si è definito come “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo”. Un titolo certamente pregevole, che lo qualifica all’interno della sua comunità o tra le comunità, ma non autorevole.
È quindi probabile che questo autore si sia chiamato effettivamente Giacomo e si sia autodefinito con un titolo, che forse gli era riconosciuto all’interno della sua comunità e tra le altre comunità e che comunque lo poneva in una posizione di riguardo, considerato che egli è in mezzo ai credenti un maestro (Gc 3,1) a servizio di Dio e del Signore Gesù Cristo.
La quasi certezza, poi, che questo Giacomo non sia uno pseudonimo di riferimento, ma probabilmente il vero nome dell’autore stesso viene dal fatto che all’interno della Chiesa questa sua opera è stata accolta tra i testi canonici neotestamentari solo molto tardivamente, verso gli inizi del V sec., dopo lunghe discussioni e molti dubbi mai fugati. Se fosse vero che in qualche modo l’operetta fosse sorta ad opera di uno dei Giacomo noti, apostoli o fratello di Gesù che siano, o comunque in qualche modo sotto la loro tutela, certamente questo ritardo di secoli non si sarebbe verificato.
Chi è dunque questo Giacomo? Senz’altro è un ebreo che si rivolge ad una o più comunità di origine esclusivamente ebraica. Infatti rivolgendosi a loro afferma senza mezzi termini: “Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull'altare?” (Gc 2,21). C’è quindi una comune origine ebraica che li lega.
Sembra essere un responsabile di comunità, al cui interno si presenta come maestro (Gc 3,1), rispettato e venerato come “servo di Dio e del Signore Gesù Cristo” (Gc 1,1), un titolo questo che lo qualifica notevolmente tra le comunità credenti e gli riserva un particolare posto di attenzione. Egli sembra essere un ebreo-ellenista, dando a vedere, da un lato, la sua disinvolta conoscenza delle Scritture, con particolare riferimento alla traduzione greca dei LXX, e la sua conoscenza di testi evangelici che già circolano tra le comunità, in particolare quello di Matteo, capp. 5-7, ai quali si riferisce numerose volte; dall’altro, la sua conoscenza perfetta della lingua greca con la quale si rivolge al mondo giudeo-cristiano che si pone al di fuori dei ristretti confini della Palestina e ne conosce i problemi. Deve esser inoltre un personaggio di elevata cultura se si qualifica come maestro tra le comunità; usa un greco fluente e conosce il mondo della retorica e quello filosofico greco, del quale sa usare il metodo della diatriba. Si avvicina inoltre, per stile e contenuto, ad opere come il Pastore di Erma (100-150 d.C.) e la Lettera di Clemente ai Corinti (96 d.C.). L’opera quindi si pone verso la fine del primo secolo o forse inizi del secondo. È ancora molto viva infatti la convinzione del ritorno imminente del Signore (Gc 5,8-9), che ha dominato tutto il primo secolo. L’opera sembra essere stata composta negli ambienti della Siria o della Palestina o in Egitto, dove appaiono le prime testimonianze a favore dello scritto.
I destinatari dello Scritto
La loro origine e i rapporti con Giacomo
La lettera esordisce “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute” (Gc 1,1). L’autore dunque, con un formulario tipico della tradizione giudaica, si rivolge a degli ebrei convertiti al cristianesimo, ma si rivolge a loro in greco fluente e citando la Scrittura greca (la LXX), utilizzando letterariamente giochi retorici propri della diatriba filosofica greca, senza escludere il ritmo dell’omelia ebraica della sinagoga. Ci troviamo di fronte quindi ad una o forse a più comunità (Gc 1,1), che Giacomo probabilmente conosceva bene e con cui doveva aver instaurato un rapporto abbastanza profondo e di fiducia, se li chiama fratelli miei amatissimi, nonché autorevole (Gc 1,1; 3,1-2), i cui componenti sono giudeo-cristiani ellenisti. L’autore si pone nei confronti di questi giudeo-cristiani come un padre che ha cura dei suoi figli, che egli considera come un nuovo Israele, eredi di quello antico. La lettera infatti inizia con il nome significativo dell’autore “Giacomo” ('I£kwboj - Iàkobos), che è una deformazione del nome ebraico “Giacobbe” ('I£kwb - Iàkob), cioè il patriarca, capostipite delle dodici tribù di Israele. Infatti egli si pone nei loro confronti come un maestro e padre che si sente responsabile e sente gravare su di il giudizio divino (Gc 3,1-2). Inoltre egli si dichiara “servo di Dio” (Gc 1,1), un titolo questo che viene attribuito nell’A.T. esclusivamente a Mosè[4]. Segno questo che egli si pone nei loro confronti come guida verso la nuova Terra Promessa, dando a tutto lo scritto un peso squisitamente esortativo e paterno e in cui egli si qualifica come una guida.
Ma se da un lato il rapporto è segnato da una responsabilità paterna di guida e di maestro, dall’altro essi sono sentiti come fratelli amatissimi (agapetoi)[5], ai quali si sente profondamente legato per la doppia paternità che li accomuna entrambi, costituendoli doppiamente fratelli: quella di “Abramo, nostro padre” (Gc 2,21) e quella di Dio stesso (Gc 1,17.27; 3,9). È pertanto da escludere che i destinatari siano comunità miste di giudeo-cristiani ed etnico-cristiani. L’autore è dunque un ebreo-ellenista che si rivolge a giudeo-cristiani di cultura greca.
I mali della comunità e il motivo dello scritto
I componenti di queste comunità credenti dovevano essere di un livello sociale ed economico medio-basso e soffrivano per le angherie imposte loro dalla classe dei ricchi (Gc 2,1-8) contro la quale l’autore si scaglia con veemenza (Gc 5,1-6).
Non è da escludere, inoltre, che questi giudeo-cristiani fossero in qualche modo perseguitati o avessero una vita difficile in mezzo ad una società pagana, se Giacomo li esorta a considerare “perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2).
Una comunità, comunque, che ascoltava la Parola, ma viveva difformemente ad essa (Gc 1,22-25; 2,14-26), lasciandosi andare a preferenze e favoritismi nei rapporti con i membri della comunità (Gc 2,1-13).
Una comunità, inoltre, in cui ci dovevano essere frequenti litigi, contese, invidie e battibecchi (Gc 4,1), dettati da gelosie, spirito di contesa (Gc 3,14-16) e da maldicenze e calunnie (Gc 4,11-12) che portavano divisioni tra loro, se Giacomo si è sentito in dovere di esortarli ad essere pronti ad ascoltare, lenti nel parlare e lenti all’ira (Gc 1,19-20). Doveva, infatti, essere proprio la lingua la causa fondamentale delle loro divisioni e discordie[6] : “Se qualcuno pensa di essere religioso, ma non frena la lingua e inganna così il suo cuore, la sua religione è vana.” (Gc 1,26). E proprio a seguito di questo clima esasperato di contese e passioni violente che avvenivano anche fatti gravi come l’omicidio (Gc 4,2).
Una comunità quindi piuttosto arrogante e violenta (Gc 4,16), che si opponeva in tal modo a Dio (Gc 4,7.11) e si sentiva padrona del proprio destino (Gc 4,13-15).
La canonicità dello scritto
Già si è accennato nella Premessa come la canonicità di questo scritto abbia avuto una lunga gestazione, durata circa tre secoli, e un sofferto travaglio prima di essere partorito definitivamente, agli inizi del V sec. d.C. , tra gli Scritti neotestamentari canonici[7], anche perché la Lettera di Giacomo non compariva nell’elenco degli Scritti neotestamentari riportati nel canone muratoriano[8]. La lettera è sconosciuta alle chiese dell’Africa, appartenenti alla Chiesa Latina d’Occidente, e si deve attendere la fine del IV e inizi del V sec. perché la sua canonicità venga pienamente accolta anche in Occidente, nella Chiesa Latina. Girolamo[9] (347-420), nella sua opera Viris Illustris, è a conoscenza ancora di dubbi e perplessità circa l’autenticità di questa lettera. Presso la Chiesa di Alessandria invece, nel III sec. , Origene[10] afferma l’autenticità di questo scritto, contrariamente a Teodoro di Mopsuestia[11], che contesta l’autenticità di tutte le lettere non appartenenti al corpus paolinum[12]. Questa fase di incertezza sulla canonicità della lettera di Giacomo presso la Chiesa d’Oriente viene anche testimoniata da Eusebio di Cesarea[13] nella sua opera monumentale “Historia Ecclesiastica”. A conclusione della storia sul martirio di Giacomo, fratello di Gesù, egli afferma : “A lui è attribuita la prima delle lettere, dette cattoliche. Bisogna però osservare che tale epistola non è autentica. Infatti pochissimi degli antichi la ricordano ... Sappiamo tuttavia che vengono lette anch’esse insieme alle altre in un gran numero di chiese” [14].
Lo scritto: macrostruttura e contenuto
La lettera di Giacomo si presenta nell’apparenza come un assemblaggio di vari temi di vita cristiana, giustapposti l’uno accanto all’altro, che si muovono su di uno sfondo di tipo parenetico-sapienziale e profetico. Questi temi, pur avendo una loro unità interna, sembrano privi di una loro unità globale e appaiono slegati l’uno dall’atro, così che l’opera dà un’impressione di disordine tematico e di esposizione[15].
Un’attenta analisi, tuttavia, smentisce, a nostro avviso, nettamente questa impressione di disordine generale e lascia intravedere gli intenti dell’autore e lo sviluppo del suo pensiero.
Innanzitutto Giacomo ci fornisce, già dal primo versetto, una chiave di lettura: “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute.” (Gc 1,1). Egli si definisce in un duplice modo: “servo di Dio” e “servo del Signore Gesù Cristo”. Ora l’espressione “servo di Dio” si ritrova in tutto l’A.T. soltanto sei volte[16] e tutte sono riferite esclusivamente a Mosé[17]. L’autore, quindi, che si rivolge alle dodici tribù d’Israele, in qualche modo assimila se stesso a Mosè; come lui infatti egli traghetta il nuovo Israele verso una Nuova Terra Promessa nella quale va riletta e ricompresa l’intera Torah e di conseguenza i codici di comportamento morale e del proprio relazionarsi a Dio. Non a caso l’intera lettera è cosparsa di numerose citazioni dirette e indirette delle Scritture, che vengono reinterpretate in un’ottica cristologica ed escatologica.
Nel contempo, però, Giacomo si autodefinisce anche “servo del Signore Gesù Cristo”. Ora l’espressione “servo del Signore” si ritrova nell’A.T. 22 volte di cui diciannove volte sono rivolte a Mosè, due a Davide (Sal 17,1; 35,1) e una al popolo d’Israele (Is 42,19). Giacomo quindi continua ad essere, come Mosè, “servo del Signore” a cui però aggiunge “Gesù Cristo”. La divinità e la signoria di Jhwh, di cui Mosè era servo, ora viene attribuito a Gesù Cristo. C’è dunque un passaggio di divinità e signoria: da Jhwh a Gesù Cristo, che porta ad una sorta di identificazione tra i due. Ebbene, anche l’autore, dichiarandosi servo di Jhwh e di Gesù Cristo, opera un passaggio importante: egli vuole con questo suo scritto traghettare i giudeo-cristiani verso una nuova comprensione del proprio modo di relazionarsi esistenzialmente, non più basato su codici veterotestamentari, ma su questi, trasformati e rinnovati nel Dio-Signore Gesù Cristo, di cui egli si pone a servizio.
Una seconda chiave di lettura dello scritto ci viene offerto dai vv. 1,2-4 . 5,7-11. Questi, benché posti all’inizio e alla fine della lettera, formando in tal modo una sorta di inclusione che abbraccia l’intera opera, costituiscono di fatto un’unica unità letteraria, che per maggior comprensione riportiamo di seguito: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla. [ ... ] Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore. Guardate l'agricoltore: egli aspetta pazientemente il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le piogge d'autunno e le piogge di primavera. Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori, perché la venuta del Signore è vicina. Non lamentatevi, fratelli, gli uni degli altri, per non essere giudicati; ecco, il giudice è alle porte. Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione e di pazienza i profeti che parlano nel nome del Signore. Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione.” (Gc 1,2-4.5,7-11). Questi otto versetti possono essere letti continuativamente senza che si possa rilevare in qualche modo uno stacco tra le due pericopi, anzi l’una confluisce e si completa naturalmente nell’altra. Il legame tra le due non è soltanto tematico (la pazienza collocata in una prospettiva escatologica), ma anche letterario. L’aggancio delle due pericopi, infatti, è costituito dalle espressioni: “... siate perfetti ed integri, senza mancare di nulla ... Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore”. Questa espressione, che salda tra loro le due pericopi, richiama da vicino l’espressione di Paolo nella lettera ai Filippesi: “ ... perché possiate distinguere sempre il meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, ...” (Fil 1,10). La perfezione, l’integrità e l’irreprensibilità sono le qualità di vita che devono distinguere il credente in cammino verso la venuta del Signore. Si parla quindi qui di un comportamento squisitamente morale, di un vivere etico che rende la persona perfetta e pronta per abbracciare il suo Signore, che sta per venire.
Posta in questo contesto la pazienza si qualifica come un’instancabile attesa verso la venuta del Signore, che fa superare le difficoltà che il credente è chiamato ad affrontare quotidianamente nella vita, caratterizzata da un atteggiamento di speranzosa attesa dell’avvento finale del Signore. Lo sfondo, quindi, è squisitamente escatologico e proietta il credente verso il compimento finale in Cristo Gesù. Da qui sgorga, si struttura e si ricomprende tutto il discorso etico che l’autore rivolge ai giudeo-cristiani, che egli interpreta come il nuovo Israele in cammino verso la Nuova Terra Promessa.
Definite le due chiavi interpretative, sul cui sfondo si muove l’intera opera, proponiamo ora uno schema di lettura.
A nostro avviso essa si distribuisce su sei temi fondamentali che vengono trattati secondo il seguente schema di fondo: “apertura e impostazione del tema” e “completamento e definizione dello stesso” successivamente. Per cui si avrà nei primi due capitoli (capp. 1-2) l’introduzione e impostazione dei sei temi, mentre nei successivi tre capitoli (capp. 3-5) vi è la ripresa e il completamento, così come di seguito:
1. La pazienza nelle prove : 1,2-4 - 5,7-11
2. La sapienza : 1,5-8 - 3,13-17
3. I ricchi : 1,9-11 - 5,1-6
4. Le passioni : 1,12-16 - 4,1-5
5. Lingua e Parola : 1,18-27 - 3,1-12
6. Rapporti sociali : cap. 2
Fede ed opere
Da questa breve esposizione della macrostruttura, che segue uno sviluppo tematico, rileviamo come tutti i temi annunciati ed impostati nel cap. 1 vengono poi ripresi e completati nei capp. 3-5. Soltanto il tema del cap. 2 si esaurisce entro tale capitolo senza avere sviluppi successivi, configurandosi come tema centrale a se stante attorno al quale girano e dal quale attingono in vario modo tutti gli altri temi: il rapporto tra fede ed opere, che trova la sua funzione e la sua esplicitazione primarie nell’ambito del comportamento etico. È infatti, questa di Giacomo, una piccola trattazione del vivere cristiano come espressione della fede colta nella concretezza della quotidianità, proiettata verso l’imminente ritorno di Gesù. Definiamo pertanto il cap. 2 come il cuore della stessa lettera, da cui traggono giustificazione e vengono illuminate tutte le altre tematiche.
Capitolo Primo
Introduzione
L’operetta di Giacomo si apre con un conciso ma significativo prescritto (Gc 1,1) che le dà un’apparente sembianza di lettera. Già abbiamo visto però che non si tratta di una lettera[18], quanto piuttosto, secondo la definizione data da Adolf Deissemann, di un’epistola, cioè un piccolo trattato di pratica di vita cristiana, dai toni esortativi che si muovono su di uno sfondo profetico-sapienziale ed omiletico, e che l’autore sottopone alla riflessione delle varie comunità credenti provenienti dal giudaismo. Queste probabilmente facevano capo a lui o, in qualche modo, egli ne era un responsabile (Gc 3,1).
Dopo il primo versetto l’autore entra subito, quasi in modo brusco e inaspettato, nel vivo dei problemi, i cui temi di fondo dividono strutturalmente in due parti il primo capitolo:
1. Le prove della vita generano la pazienza, la quale rende perfetta la vita del credente nel suo rapporto verso Dio (Gc 1,2-17).
2. La forza della Parola, che genera il credente come nuova creatura, lo spinge a conformare la quotidianità del proprio vivere alle sue esigenze (Gc 1,18-27).
La prima parte (1,2-17) presenta una struttura piuttosto articolata e complessa nel suo modo di procedere, che sinteticamente potremmo così illustrare:
1. vv. 2-4 enunciazione del tema: la prova genera la pazienza e questa rende perfetto il vivere del credente nel suo cammino verso il Signore che viene;
2. vv. 5-8 enunciazione del primo sotto-tema: è necessaria la sapienza di origine divina per comprendere il senso della prova e poterla accettare. I vv. 6-8 costituiscono uno sviluppo del sotto-tema: come chiedere la sapienza divina.
3. vv. 9-11 enunciazione del secondo sotto-tema: in ogni condizione di vita (poveri o ricchi) essere sempre disponibili ad accogliere con serenità e gioia quanto la vita ci riserva, sia il bene che la sventura.
4. v. 12 costituisce una sorta di inclusione, di ripresa e di completamento del v. 2 in cui l’autore sviluppa una breve riflessione di tipo sapienziale[19].
5. vv. 13-17 una doverosa precisazione: da dove ha origine la prova. Essa non proviene da Dio, ma dalla nostra natura segnata dalla colpa (concupiscenza). Questi versetti chiudono il tema sulla prova e sono preparatori al tema successivo (Gc 1,18-27) sulla necessità di spogliarsi del proprio modo di vivere per conformarsi alle esigenze della Parola.
La seconda parte del primo capitolo (Gc 1,18-27) presenta la seguente struttura:
1. v. 18 enunciazione del secondo tema: siamo stati generati dalla Parola di Dio come primizie di una nuova creazione;
2. vv. 19-20 le conseguenze: necessità di modificare il proprio comportamento relazionale, mettendo a freno l’ira, passione dirompente, che toglie la ragionevolezza all’uomo e lo apre al peccato.
3. v. 21 ripresa e completamento del v. 18: in quanto rigenerati dalla Parola, va deposto l’uomo vecchio con le sue passioni.
4. vv. 22-27 sottotema: necessità di conformare il proprio agire all’ascolto della Parola, mantenendosi ad essa fedeli, perché il nostro ascoltare non sia vano e la nostra religiosità non sia illusoria. Questi versetti potremmo definirli di transizione in quanto chiudono il tema della Parola e introducono quello fondamentale del cap. 2: il rapporto tra fede ed opere.
Commento al Capitolo primo
Giacomo, servo di Dio .... : per il commento di questo primo versetto vedasi il terzo capoverso sotto il titolo “Lo scritto: macrostruttura e contenuto”. Quanto all’identità dell’autore vedasi il titolo “L’Autore, il luogo di composizione e la data”.
Considerate perfetta letizia ... : già il tema della gioia compare nei saluti con i quali Giacomo si rivolge alle dodici tribù “cairein” (cairein), che letteralmente significa “gioire, rallegrarsi”. Una gioia che nasce non dal piacere del soffrire, poiché nel soffrire non vi è alcun piacere, bensì dall’aver compreso il senso della sofferenza e della prova alle quali la vita ci sottopone nel suo naturale decorso. Ecco perché Giacomo invita i credenti, ai quali si rivolge, a chiedere la sapienza divina con fermezza di fede (Gc 1,5-8); essa infatti è l’unica in grado di farci cogliere il senso del nostro esistere, sia nella gioia che nel dolore.
La sofferenza e le prove, colte in una cornice squisitamente cristiana, perdono pertanto la loro insensatezza e la loro crudeltà per acquisire un significato squisitamente salvifico[20]. Infatti se da un lato il credente viene assimilato al suo maestro, dall’altro esse, se colte nel giusto senso, favoriscono e spingono verso un irrobustimento della propria fede. Infatti le prove della vita mettono in discussione la fede, la nostra adesione a Cristo, e ci costringono ad una continua scelta nei suoi confronti e ad un continuo ripensamento del nostro essere per Cristo. In altri termini, la fede acquisita non è mai definitivamente acquisita, ma richiede un continuo ripensamento, un continuo decidersi per o contro Cristo. Ciò significa che ogni prova mette continuamente in discussione la nostra scelta di credenti e ci spinge, di volta in volta, a rileggere e a ristabilire a livelli diversi e dinamicamente sempre in evoluzione, positiva o negativa, nei confronti di Dio. Una fede pacificamente acquisita e che non dà mai problemi è soltanto una fede bambina, che ci relaziona in un modo sbagliato nei confronti di Dio, creandoci un’illusione di vera vita cristiana e di santità.
La fede è un dono, nessuno se la può dare, ma spetta a ciascuno di noi far si che questo dono non si perda nella prova. Paolo fu provato duramente nel suo spendersi per Cristo e ne dà testimonianza nella sua seconda lettera ai Corinti: “ ... Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. Chi è debole, che anch'io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema? Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco.” (2Cor 11,24-31). Nonostante la durezza incredibile delle prove, Paolo concluderà qualche anno più tardi nella sua lettera ai Romani[21]: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.” (Rm 8,35-39)
La persistenza nella fede provata produce la pazienza, cioè la capacità di sopportazione, che trova la sua forza e la sua più profonda motivazione soltanto nell’amore per Cristo: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?”. Ed è proprio questa paziente persistenza, nonostante tutto, che deve qualificare il vivere credente, cioè il vivere per Cristo, orientati esistenzialmente verso di lui. È questo atteggiamento esistenziale che, afferma Giacomo, “completa l’opera sua in voi”. Ciò che completa in noi l’opera della paziente sopportazione è proprio il perfezionarci esistenzialmente in vista di Lui, facendo della vita un dono e un’offerta per Cristo, trasformandola in tal modo in un atto di culto e in un’azione liturgica di lode e ringraziamento nell’attesa della sua venuta.
Sulla stessa linea si trova anche Pietro, che rivolto alla sua comunità esorta: “Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po’ afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime.” (1Pt 1,6-9). Ogni prova, ogni sofferenza, segno della nostra natura decaduta, ma riscattata nella croce di Cristo, diventa motivo di perfezione e di salvezza. Tant’è che Paolo, rivolto alla comunità di Roma, ricorda: “Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.” ( Rm 8,18-23). La prova e la sofferenza, che da essa ne viene, vengono viste da Paolo come la condizione propria dell’uomo e con lui dell’intera creazione, che segue lo stesso destino dell’umanità per un principio di solidarietà che lega profondamente i due. Questa sofferenza tuttavia è colta da Paolo non come una condanna per l’uomo segnato dal peccato, ma, proprio perché questa sofferenza è stata riscattata da Cristo, essa è percepita come le doglie di un parto, che preannuncia sempre l’avvento di una nuova vita. Nella prova sofferta, quindi, c’è per Paolo, ma anche per Giacomo (Gc 5,7-9), una prospettiva escatologica, che apre il credente ai cieli nuovi e ad una terra nuova (Ap 21,1) dove Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>” (Ap 21,4-5).
Se qualcuno di voi manca di sapienza ... con la tecnica retorica dell’allitterazione[22], Giacomo introduce il v. 5, che enuncia il primo sotto-tema: la necessità della sapienza che proviene da Dio. Soltanto, infatti, tale sapienza è in grado di illuminare il cammino dell’uomo e l’aiuta a comprendere le cose di Dio. Una sapienza che va contro le logiche umane, perché essa viene dal Padre e non dal sapere umano: “In quello stesso istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: "Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto.” (Lc 10,21; Mt 11,25). Queste sono le logiche di Dio. Egli si serve infatti di ciò che è umile, nascosto, disprezzato e rifuggito dagli uomini per attuare il suo piano di salvezza. Ed è proprio per questo che è importante chiedere a Dio la luce di questa sua Sapienza divina, che sa vedere e leggere là dove altri falliscono.
Proprio in tal senso Paolo pone a confronto tra loro le due sapienze, quella umana e quella divina, da cui traspare tutta la illogicità della sapienza divina letta dalla prospettiva di quella umana, ma che alla fine risulterà vincente: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli cha vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.” (1Cor 1,18-25). Ed è significativo come Paolo riesca a vedere e a far risiedere la sapiente sapienza divina proprio la dove quella umana ne vede il fallimento: la sofferenza della croce.
La domandi però con fede, senza esitare ... : è questa una sapienza che non si apprende sui testi di filosofia, ma, proprio perché fuori dalla logiche umane e in contrasto con esse, deve essere donata da Dio. Giacomo precisa “senza esitare”. Quest’ultima espressione, che qualifica il significato di “chiedere con fede”, è per l’autore determinante nella domanda della sapienza al punto tale che egli vi dedica i successivi due versetti e mezzo (vv. 6b-8). L’assenza di esitazione dice la stabilità del credente nel suo atteggiamento di fiducia nei confronti di Dio. Significativo in tal senso, infatti, è il testo greco: “la chieda però nella fede[23]”, cioè rimanendo in un persistente atteggiamento di fiducia verso Dio, senza voler giudicare o sindacare[24], ma abbandonandosi a Lui. Il significato di questo atteggiamento fiducioso, così come lo intende Giacomo, viene messo in maggior risalto per contrapposizione dal v. 8: “un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni”. Questi per Giacomo è l’esatto opposto della vera fede-fiducia nel Padre.
Il fratello di umili condizioni ... con il v. 9 inizia il secondo sotto-tema: in ogni condizione di vita e qualsiasi sia la sorte che essa riservi deve sempre prevalere un atteggiamento di dignitosa serenità, anzi di vanto. Giacomo contrappone due estremi con situazioni invertite: il povero elevato dalla sorte; il ricco abbattuto. L’esempio è tratto dall’ambiente sapienziale e richiama da vicino l’inno lucano del Magnificat (Lc 1,52-53), in cui l’attore principale delle sorti dell’uomo è Dio, che opera nella storia, conducendola sapientemente ad un fine di salvezza. Del resto anche il verbo che accompagna i due esempi è posto all’imperativo passivo: “kaucasqw” (kaukàsto), che nel linguaggio biblico indica sempre l’azione di Dio. Il verbo usato da Giacomo con riferimento al ricco e al povero, che pur nelle contrapposte condizioni, sono da esso accomunati, è kaucaomai (kaucàomai), che letteralmente significa “vantarsi”, “essere orgoglioso”, “gloriarsi” ed è lo stesso che Paolo usa nella sua 2Cor nei capp. 11-12, dove parla del vanto che egli ha per le sue debolezze e le sue prove: “ ... Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte.” (2Cor 12,9b-10).
Giacomo, quindi, vede nel vantarsi del credente in ogni condizioni di vita l’intervento dell’azione di Dio, che lo ha illuminato con la sua sapienza, lo aiuta a comprendere e lo sostiene nel suo cammino verso di Lui. Questo vanto dunque non nasce da uno stato di esaltazione mentale, ma dall’aver compreso il più vero e profondo senso della storia, rivolta verso il Padre, che con mano amorosa l’accompagna verso il suo compimento di salvezza. Tutto ciò che quindi qui accade non deve turbare il vero credente, ma anzi rallegrarsi perché tutto ciò che gli capita fa parte di un progetto di salvezza.
Deve vantarsi dunque il misero perché gli eventi della vita lo hanno favorito; ma deve ugualmente trovare vanto anche il ricco nella sua decadenza. Il motivo del suo vantarsi viene spiegato con tono sapienziale[25] da Giacomo: “ ... perché passerà come fiore d'erba. Si leva il sole col suo ardore e fa seccare l'erba e il suo fiore cade, e la bellezza del suo aspetto svanisce. Così anche il ricco appassirà nelle sue imprese.” . Il ricco dunque deve avere questa comprensione della sua sventura, che richiama da vicino la pessimistica visione della vita e delle cose di Qoèlet: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità” (Qo 1,2).
Beato l’uomo che sopporta la tentazione ... con questo v. 12 l’autore chiude la sua riflessione sulla prova, che deve essere affrontata con serenità, anzi con vanto. Questo atteggiamento tuttavia è possibile solo dopo aver chiesto con fiduciosa fermezza a Dio la sua sapienza. Essa è l’intelligenza di Dio, che aiuta a leggere gli eventi della storia in senso teologico, come il compiersi del disegno divino.
La conclusione di questo versetto è una beatitudine dai toni squisitamente sapienziali, che ricalca una forma tradizionale nell’A.T. , ripresa anche nel N.T. : il premio con il quale il giusto viene coronato per la sua serena e fiduciosa fedeltà a Dio[26] anche nella prova.
Nessuno quando è tentato ... i vv. 13-17 sono una sorta di appendice al tema della prova. La struttura di questa breve pericope rispecchia il modo di procedere dell’autore:
· v. 13 : esposizione del tema: Dio non può tentare, perché non è soggetto al male né spinge al male;
· v. 14 : contrapposizione al tema: è la fragilità propria dell’uomo e la concupiscenza che lo spingono al male;
· vv. 15-16: sviluppo del v. 14 ed esortazione a non stravolgere le cose, dando colpe a Dio anziché alla propria fragilità.
· v. 17 : ripresa e completamento del v. 13. Il v. 17 è di transizione. Da un lato, infatti, conclude l’appendice, dall’altro introduce al tema successivo, sviluppato dai vv. 18-27.
Era convinzione propria del pio ebreo che tutto provenisse da Dio, non solo il bene, ma anche le tentazioni e le sventure della vita. Ne dà significativa testimonianza il Libro di Giobbe là dove la moglie di Giobbe invita il marito a maledire Dio che lo aveva colpito con tante disgrazie e sfortune (Gb 2,9), “Ma egli le rispose: <<Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?>>. In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra” (Gb 2,10). Giacomo contrappone a questa credenza, che spostava le proprie responsabilità da se stessi a Dio, con un’affermazione che si radica in una corretta comprensione della natura di Dio: Dio è Bene e Bontà assolute, pertanto Egli non può essere sfiorato dal male e tanto meno spingere le sue creature verso il male. Ben diversa è la fonte delle sventure dell’uomo: la concupiscenza[27], cioè la sua naturale inclinazione al male dovuta ad una natura profondamente ferita dalla colpa originale, che lo ha trasformato in un essere decaduto[28], soggetto alle leggi della carne e non a quelle dello Spirito[29]. La fonte del peccato, da cui proviene la morte, pertanto, non è in Dio, ma nell’uomo decaduto. In tal senso Paolo rivolto ai Romani sottolinea come: “ ... il salario del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore.” (Rm 6,23).
Ecco dunque la conclusione di Giacomo: “ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall'alto e discende dal Padre della luce, nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento” (Gc 1,17). In altri termini: Dio è la fonte di ogni bene e in Lui non c’è il male.
Con questa ultima considerazione, l’autore chiude la sua ampia riflessione sul tema della prova (1,1-17) e nel contempo introduce il tema della seconda parte del primo capitolo: Siamo stati rigenerati dalla Parola, che proviene da Dio, deponiamo dunque il nostro modo di operare secondo le logiche umane per rivestirci della Parola stessa.
SECONDA SEZIONE DEL CAPITOLO PRIMO
Con il v. 18 si apre la seconda sezione del primo capitolo (1,18-27) dedicato interamente alla Parola di Dio colta nel suo rapporto esistenziale con l’uomo.
Questa sezione possiamo sinteticamente dividerla in tre parti:
1. vv. 18-21 : questi versetti fungono da enunciazione del tema: la vita nuova per mezzo della Parola e nella Parola. Giacomo, infatti, rifacendosi alla catechesi battesimale (vv. 18.21), presenta la novità di vita in cui è posto ogni credente, generato a vita nuova per mezzo della Parola di vita.
2. vv. 22-25: la Parola che ci ha generati ha un senso e produce i suoi frutti solo se praticata.
3. vv. 26-27: la vera religione.
Di sua volontà egli ci ha generati con una parola ... : l’espressione greca dice “essendo stato voluto egli ci generò per mezzo di una parola di verità per essere la primizia delle creature”. All’origine della nostra salvezza, dunque, c’è un preciso atto di volontà di Dio. Quel “essendo stato voluto” lascia intendere che esiste un piano salvifico preciso che si è rivelato e attuato per mezzo della nostra generazione alla vita divina nella Parola. Paolo nella sua lettera agli Efesini riprende questo concetto di piano salvifico primordiale, esistente ancor prima della creazione del mondo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, ...” (Ef 1,4-5). Se all’origine di questo piano ci sta una volontà precisa e innegabile, al suo centro c’è la Parola attuatrice di questo piano salvifico, un piano che è vivificante e rigenerante per mezzo della potenza dello Spirito. Questo ci riporta al primordiale atto creativo di Dio che si è manifestato e attuato per mezzo della Parola[30], quando ancora lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gen 1,2b). Una generazione, che ci fa figli nel Figlio, “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna” (1Pt 1,23). Questa generazione alla vita divina per mezzo della Parola vivente ed efficace (Eb 4,12) e nella Parola, ha come conseguenza immediata quella di essere anche noi pienamente riconosciuti legittimamente da Dio quali suoi figli adottivi ed eredi del suo mondo di vita eterna: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio” (Gal 4,4-7). Figli dunque nel Figlio.
La conseguenza immediata e pratica di questa nostra nuova condizione di vita è il deporre “ogni impurità e ogni resto di malizia”. Infatti, se è vero che Dio ci ha riscattati nel Figlio per mezzo della potenza dello Spirito, facendoci accedere alla sua stessa vita divina, è altresì vero che non ci ha tolti dalla nostra condizione naturale di peccato, che si manifesta nella concupiscenza e nelle passioni, che qui Giacomo sintetizza nella parola orgh (orghè), cioè nell’ira, che letteralmente significa, oltre che ira, anche disposizione naturale, temperamento, indole, carattere; un qualche cosa quindi che ha a che fare con la nostra realtà più profonda e costitutiva del nostro essere. Non a caso infatti nel N.T. l’ira è catalogata assieme ai più bassi e impulsivi comportamenti dell’uomo e quale fonte di peccato [31].
È necessario quindi che il credente, rigenerato dalla forza viva della Parola (Gc 1,18; 1Pt 1,23), si spogli dell’uomo vecchio, fatto di passioni (Ef 4,22; Col 3,9), crocifisso con Cristo e distrutto sulla croce (Rm 6,6) per rivestirsi di Cristo[32], poiché in lui siamo diventati nuove creature (Gal 6,15).
Il v. 21b chiude la prima parte con una esortazione: “ ... accogliete con docilità la parola che è stata seminata in voi e che può salvare le vostre anime”, e introduce nel contempo il tema successivo sulla necessità di praticare (incarnare) la Parola nella propria vita. Che cosa significhi infatti “accogliere con docilità la Parola” ci viene detto di seguito nei vv. 22-25, che costituiscono la seconda parte.
Siate di quelli che mettono in pratica la parola ... secondo il suo stile Giacomo apre con l’enunciazione del tema (v. 22), che poi svilupperà nei versetti immediatamente seguenti (vv. 23-25): “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi”.
Giacomo è un ebreo, la cui cultura non gli permette di concepire una semplice contemplazione della Torah. La Legge è data per essere praticata, poiché in essa è racchiusa la Volontà divina e in quanto volontà, questa va solo eseguita, non meditata[33]. L’ebraismo infatti è la religione dell’ortoprassi, cioè della corretta esecuzione di ogni lettera della Torah[34].
Tuttavia, anche se il sottofondo culturale è squisitamente ebraico, Giacomo rilegge la necessità di incarnare la Parola nella propria vita alla luce di Cristo, seguendo il cammino della catechesi battesimale (vv.18.21): poiché siamo stati rigenerati da una Parola di Verità si rende necessario un radicale cambiamento di vita, conformando l’esistenza alle esigenze della Parola stessa. Se ciò non avviene inganniamo e illudiamo noi stessi.
Giacomo mette in risalto le esigenze di questo imperativo religioso (praticare-incarnare la Parola) attraverso un gioco chiasmico e di contrapposizioni operato nei vv. 22 e 23, caratteristico della retorica ebraica:
· v. 22: (1) “mettere in pratica la parola” (2) “non soltanto ascoltatori”
· v. 23: (2) “ascolta soltanto” (1) “non mette in pratica la parola”
La necessità del praticare, tuttavia, rientra nella logica cristiana ed è ritenuta indispensabile da Gesù stesso per poter accedere al Regno: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. Molti mi diranno in quel giorno: Signore, Signore, non abbiamo noi profetato nel tuo nome e cacciato demoni nel tuo nome e compiuto molti miracoli nel tuo nome? Io però dichiarerò loro: Non vi ho mai conosciuti; allontanatevi da me, voi operatori di iniquità. Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande>>” (Mt 7,21-27). Saremo dunque misurati sul piano del “fare”, sul nostro impegno di vita quotidiana, poiché la sola preghiera o il solo riempirci la bocca di Dio e di Gesù Cristo non ci salverà. La vita deve essere radicata in Cristo e deve esprimersi nel nostro orientamento esistenziale verso Dio, così che da essa traspaia un nuovo stile di vita, che soddisfi le esigenze divine rivelateci nella Parola.
Questa seconda parte si chiude, come di consueto in Giacomo, con una sorta di riflessione sapienziale e una beatitudine: “Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (v. 25).
La legge di cui Giacomo parla è definita da due attributi: “legge perfetta” e “legge di libertà”. Di quale legge dunque si parla? Giacomo è un ebreo che sta parlando a degli ebrei è logico quindi che egli pensi alla Torah[35]. Ma il suo pensare alla Torah è fatto in prospettiva cristiana, così che la Legge è da lui definita perfetta (gr. teleios), cioè una Legge pienamente compiuta e che trova il suo teleios, il suo fine e la sua perfezione in Cristo, la cui parola è definita di verità (Gc 1,18). Per questo la “legge perfetta” è “legge di libertà” perché vincola il credente all’amore di Dio e del prossimo, superando in tal modo l’aridità della lettera, che soffoca in sè lo Spirito. Una posizione questa fortemente sostenuta da Paolo: “Ora però siamo stati liberati dalla legge, essendo morti a ciò che ci teneva prigionieri, per servire nel regime nuovo dello Spirito e non nel regime vecchio della lettera” (Rm 7,6). Anche se apparentemente Giacomo sembra opporsi a Paolo, che dichiara libero il nuovo credente dalla Legge, mentre Giacomo lo vincola ancora, tuttavia tra i due vi è una perfetta identità di pensiero. Infatti sia per Giacomo che per Paolo la Legge ha acquisito una nuova prospettiva in Cristo, che non è venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (Mt 5,17). Erano proprio questo compimento e questa pienezza che mancavano alla Legge mosaica, la quale vincolava l’uomo alla lettera, rendendolo incapace, per la sua natura umana profondamente segnata dal peccato, di accedere alla vita divina; per cui la Legge diventava un atto di accusa verso l’uomo, impedendogli ogni riscatto nei confronti di se stesso e di Dio[36]. Ma ora l’uomo, rinnovato in Cristo e in lui divenuto nuova creatura, è liberato da questa Legge ed è chiamato a servire Dio in una nuova Legge rinnovata e trasformata dallo Spirito. Per questo Giacomo la definisce Legge di libertà, proprio perché svincola l’uomo dalla laccio della lettera, aprendolo alle nuove prospettive dello Spirito, capaci non solo di affermare l’uomo nella pienezza della sua umanità, ma anche di rigenerarlo alla vita divina stessa. Per questo Paolo, proprio contro il giogo della lettera che umilia l’uomo, esorta i Galati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù” (Gal 5,1); per questo secondo Paolo, il vero “Giudeo è colui che lo è interiormente e la circoncisione è quella del cuore, nello spirito e non nella lettera; la sua gloria non viene dagli uomini ma da Dio” (Rm 2,29). La Legge mosaica, pertanto, cristificata non guarda più all’osservanza esterna, ma alla rettitudine del cuore dell’uomo, poiché è proprio da questo che “provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt 15,19). In Cristo pertanto si sono attuati i tempi nuovi, i tempi della libertà e dell’affermazione della dignità umana e che Ezechiele aveva profetizzato al popolo: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” (Ez 36,25-27). La Legge di libertà pertanto svincola l’uomo dalla schiavitù della lettera e lo apre al mondo dello Spirito, che opera nel cuore di ogni uomo e punta ad affermarlo nella sua dignità di uomo, spingendolo verso la pienezza della sua umanità. Per questo Giacomo afferma che “Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”, proprio perché conformando la propria vita alla Legge dello Spirito, l’uomo non solo ritrova se stesso, ma in essa ritroverà anche la pienezza della sua umanità.
La Gaudium et Spes evidenzia proprio questa libertà liberante e realizzante che viene donata all’uomo dalla Legge di Cristo: “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo. Partendo da questa fede, la Chiesa può sottrarre la dignità della natura umana al fluttuare di tutte le opinioni che, per esempio, abbassano troppo il corpo umano, oppure lo esaltano troppo. Nessuna legge umana è in grado di assicurare la dignità personale e la libertà dell'uomo, quanto il Vangelo di Cristo, affidato alla Chiesa. Questo Vangelo, infatti, annunzia e proclama la libertà dei figli di Dio, respinge ogni schiavitù che deriva in ultima analisi dal peccato onora come sacra la dignità della coscienza e la sua libera decisione, ammonisce senza posa a raddoppiare tutti i talenti umani a servizio di Dio e per il bene degli uomini, infine raccomanda tutti alla carità di tutti” (GS § 41).
Se qualcuno pensa di essere religioso, ma ... con questi due versetti (26-27), legati tra loro da una allitterazione[37], si chiude il primo capitolo con una considerazione sulla vera religiosità che deve animare il credente e che deve costituire il vero sostegno su cui egli fonda il suo vivere cristiano.
Giacomo fa consistere la vera religione nel tenere a freno la lingua, al punto tale che chi crede il contrario inganna il proprio cuore, cioè se stesso, rendendo inutile la sua religiosità. L’autore anticipa già qui un tema che verrà ripreso e trattato più ampiamente nel cap. 3: “Così anche la lingua: è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose. Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare! Anche la lingua è un fuoco, è il mondo dell'iniquità, vive inserita nelle nostre membra e contamina tutto il corpo e incendia il corso della vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna. Infatti ogni sorta di bestie e di uccelli, di rettili e di esseri marini sono domati e sono stati domati dalla razza umana, ma la lingua nessun uomo la può domare: è un male ribelle, è piena di veleno mortale.” (Gc 3,5-8). Di certo l’autore non vuole stigmatizzare la lingua come un membro cattivo del corpo, ma essa diviene una sorta di metafora del mondo interiore dell’uomo, attraverso la quale egli si esprime, spargendo il male che è dentro di sè. Gesù usa un linguaggio simile “Invece ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende immondo l'uomo” (Mt 15,18) e quindi vana la sua religiosità, che si esprime nella pratica della Legge, e che, al contrario, deve innanzitutto radicarsi nella sincerità del proprio cuore, altrimenti anche la pratica perde di significato e di valore e noi in tal modo inganniamo noi stessi. Su questo tono si muove l’intero cap. 23 di Matteo, in cui Gesù inveisce contro l’ipocrisia degli Scribi e Farisei, rigorosamente ligi alla lettera della Legge, ma decisamente lontani dal suo spirito.
Quale dunque la religione che piace a Dio? Giacomo non ha esitazioni: “Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27). L’autentica religiosità per l’autore si basa su due elementi fondamentali: una particolare sensibilità verso chi è nell’indigenza[38] e il preservarsi incorrotti nei rapporti con il mondo. Anche se apparentemente i due elementi primi della vera religiosità sembrano giustapposti l’uno accanto all’altro senza alcuna particolare relazione, in realtà essi sono tra loro strettamente connessi. Giacomo, infatti, con questo versetto (v. 27) sta introducendo il secondo capitolo, il più importante dello scritto, verso il quale gli altri convergono e trovano la loro giustificazione. Nel secondo capitolo infatti Giacomo si scaglia contro quei credenti i quali creano delle discriminazioni nelle loro relazioni sociali, preferendo il bel mondo da cui trarre dei propri vantaggi, piuttosto che quello degli umili e dei bisognosi, comportandosi in tal modo alla stregua dei ricchi che cercano nelle loro relazioni sociali solo chi porta loro dei vantaggi. In tal senso l’amore verso il prossimo viene contaminato da una mentalità perversa, propria di questo mondo. Quindi la vera religione è quella che si basa sull’amore per il prossimo, ma questo non deve essere inquinato da interessi personali. Si torna quindi sempre alla sincerità di cuore. Proprio in tal senso Paolo mette in guardia i cristiani di Roma: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).
Serve pertanto una continua revisione e una costante manutenzione del proprio comportamento religioso, tenendo come parametro fisso di confronto la Parola di Dio. Soltanto così il nostro comportamento sarà perfetto, poiché solo “Chi fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla.” (Gc 1,25).
Capitolo Secondo
Introduzione
Il capitolo secondo, già lo si è detto nell’analisi della macrostruttura[39], costituisce una sezione a se stante ed è centrale in quanto imposta e sviluppa un tema fondamentale da cui l’intera lettera, nelle sue molteplici tematiche morali, in vari modi attinge: la necessità che le opere sostanzino la fede e, quindi, coerenza tra fede e vita.
L’importanza è tale che l’autore ne ha anticipato il tema nei vv. 1,22-25, che si aprono con un’appassionata esortazione: “Siate di quelli che mettono in pratica la parola e non soltanto ascoltatori, illudendo voi stessi” (Gc 1,22).
L’intero capitolo coniuga in sè sia la necessità di mantenere l’equità nelle relazioni sociali all’interno della comunità, una equità che Giacomo fonda su giustificazioni teologiche (v. 2,5) e scritturistiche (v. 2,8); sia la conseguente necessità di incarnare fattivamente nella propria vita la fede (2,14-26), acquisita per mezzo della Parola di verità (1,18).
Anche questo capitolo, quindi, può essere diviso in due sezioni:
- vv. 1-13 : attraverso l’esemplificazione dei “favoritismi personali” (vv. 1-4) Giacomo sottolinea la necessità di motivare e sostanziare il proprio comportamento nei confronti dei fratelli con le Scritture, conformando il proprio vivere ad esse. In altri termini si tratta di incarnare nella quotidianità del proprio rapporto con gli altri le esigenze di Dio, la cui volontà si manifesta attraverso le Scritture.
Questa riflessione costituisce una sorta di preambolo al successivo tema fondamentale del rapporto fede e opere (2,14-26). I punti qualificanti di questa prima sezione, che preludono al tema successivo sono due: a) il difforme comportamento tra l’operare di Dio nei confronti dei poveri e quello della comunità (2,5-7); b) la denuncia della violazione sul piano comportamentale delle Scritture (2,9-11), che impongono di amare il prossimo come se stessi (2,8).
- vv. 14-26 : in questa seconda sezione si tratta del tema centrale di tutta la lettera: il rapporto tra fede ed opere, ossia della necessità di sostanziare e testimoniare con le opere la fede che vive in ogni credente. Senza questa esternazione fattiva la fede diventa un intimo e vacuo sentimento religioso (1,26), che illude il seguace di Cristo (1,22).
Non è da escludere, a mio a avviso, in questi versetti anche un’accentuata polemica che Giacomo muove contro Paolo, con particolare riferimento a Gal 2,16. e che analizzeremo più avanti.
Ogni sezione si muove secondo una struttura propria, caratteristica del modo di procedere del pensiero dell’autore: a) enunciazione del tema; b) eventuali sotto-temi; c) sviluppo del tema; d) conclusione.
Struttura della Prima Sezione
- v. 1: enunciazione del tema: i favoritismi personali e i propri personali interessi non possono convivere con la fede né la devono inquinare nel suo esprimersi;
- vv. 2-3: esposizione esemplificativa del tema;
- v. 4: conclusione: evidenzia l’incongruità del comportamento di una fede spogliata dalle opere, formulando nel contempo una sorta di atto accusatorio.
Questi versetti hanno la seguente struttura:
v. 5 : la motivazione teologica che sostanzia l’amore dei poveri;
v. 6a: viene denunciato il comportamento scorretto delle comunità, che viene confrontato con quello di Dio, sul quale le comunità devono riparametrarsi: Dio li ama – Voi li disprezzate;
vv. 6b-7: la comunità, formata prevalentemente da poveri o da persone poco abbienti, viene equiparata nel suo comportamento proprio a quei ricchi dai quali essa stessa riceve quotidiane angherie. Quindi anche il suo comportamento nei confronti di Dio è blasfemo come quello dei ricchi
v. 8: la motivazione scritturistica dell’amore verso il prossimo: il più importante comandamento ordina di amare il prossimo come se stessi;
v. 9: denuncia del comportamento che viola le Scritture: la discriminazione tra persone;
v. 10: la conseguenza della violazione anche di un solo comportamento;
v. 11: motivazione a supporto della tesi sostenuta al v. 10: perché la violazione anche di un solo comandamento viola l’intera Torah;
Struttura della Seconda Sezione
dimostrazione e sviluppo del tema enunciato:
Questa conclusione si pone in apparente collisione con la dottrina della giustificazione annunciata da Paolo (Rm 3,28; Gal 2,16). Tuttavia, benché non ci sia contraddizione, vi si legge una spiccata polemica contro Gal 2,16.
Commento al Capitolo Secondo
Fratelli miei, non mescolate a favoritismi personali ... : già nei versetti 1,26-27, che chiudono il capitolo primo, l’autore sottoponeva all’attenzione della comunità il vero senso della religione, colta come atto di culto esistenziale a Dio[40]: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e mantenersi puri da questo mondo. Al centro della vera religiosità ci stanno dunque due cose fondamentali: l’attenzione verso i deboli e la cura che il credente deve mettere per non lasciarsi assimilare dalla mentalità di questo mondo, rimanendone vittima. Questo, infatti, porterebbe il credente a vedere e a giudicare le cose dalla prospettiva umana e non da quella divina, vanificando in tal modo la vera religiosità che lo deve contraddistinguere in mezzo al mondo. In tal senso Paolo rivolto ai Filippesi li sollecita a mantenere una condotta degna del proprio essere seguaci di Cristo: “ ... siate irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo, tenendo alta la parola di vita. ...” (Fil 2,15-16a); mentre rivolto ai Romani esorta: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2)
Poste queste premesse, Giacomo apre il cap. 2 con un’esortazione: “non mescolate a favoritismi personali la vostra fede”. La fede infatti ci qualifica come appartenenti a Dio e il nostro vivere come atto di culto a Lui. Essa dunque ci pone dalla parte di Dio e ci fa sue creature, in quanto “generati dalla Parola di verità” (Gc 1,18). Non è quindi conciliabile la nostra appartenenza a Dio con il nostro modo di ragionare umano. Il credente deve porsi nel mondo come nuova creatura (Gc 1,18b) e deve trasparire da lui quella luce divina di cui è permeato in virtù della propria fede. Egli pertanto deve operare in se stesso una scelta esistenziale, che lo deve qualificare e caratterizzare nel suo vivere quotidiano. Il Gesù giovanneo porrà come segno inconfondibile del vero discepolo proprio l’amore: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35); un amore che trova il suo parametro di raffronto in Cristo stesso: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34). Non si tratta, quindi, di un generico amore, di un sentimento umano, ma di un atteggiamento esistenziale che assimila il vero credente a Cristo, il quale si è fatto pane che si spezza per tutti e che troverà la sua più piena espressione sulla croce. È dunque quello cristiano un amore che supera le anguste prospettive umane per aprirci agli spazi e alle dimensioni divine, qualificandoci come veri figli dell’unico Padre: “ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti.” (Mt 5, 44-45).
La fede di cui Giacomo parla, secondo la traduzione C.E.I., è quella “nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria”. Il testo greco dice: “la fede del Signore nostro Gesù Cristo della gloria”. La differenza non è trascurabile, poiché la fede per Giacomo oltre che designare un atteggiamento di fiducia verso Dio (Gc 1,3.6; 5,15), è anche il dono della vita stessa di Dio che egli ci ha elargito in Cristo (Gc 2,5) e che deve modellare il nostro modo di vivere (Gc 2,14.18.20.22). Quindi, quando Giacomo parla della fede “del Signore nostro Gesù Cristo della gloria”, parla di una vita nuova che è in noi e che ci fa appartenere alla dimensione nuova del Gesù risorto, in cui siamo già collocati (Col 1,13). Questo Gesù risorto è definito “della gloria”, cioè appartenente alla dimensione di Dio che in lui si è già pienamente realizzata e definitivamente compiuta, alla quale noi siamo già fin d’ora associati in prospettiva futura (Ef 2,6; Col 2,12). C’è dunque in questo nuovo modo di vivere la fede una dimensione escatologica che si sta realizzando proprio nel nostro vivere il dono della vita stessa di Dio che palpita in noi e che chiede e ci spinge ad attuarlo nella nostra quotidianità e nel nostro relazionarci agli altri. Infatti, Paolo ci ricorda che noi non apparteniamo più a noi stessi, ma al Signore: “perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,8) [41]. Per questo Giacomo esorta i credenti a “non mescolare ai favoritismi personali la fede”, proprio perché in noi già vive la nuova vita di Dio che ci ha già collocati nella sua dimensione, anche se non ancora in modo pienamente compiuto. In tal senso Paolo esorta i Corinti a togliere “il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità.” (1Cor 5,7-8).
Supponiamo che entri ...: l’autore, dopo aver enunciato il tema al versetto precedente, passa ora alla sua trattazione che compie in tre fasi successive: a) l’esemplificazione[42] (vv. 2-3), riportando come esempio probabilmente un modo di comportarsi delle stesse comunità a cui si sta rivolgendo[43]; b) l’esortazione conclusiva (v. 4); c) la doppia motivazione, teologica (vv. 5-7) e scritturistica (vv. 8-11), a sostegno della sua tesi.
L’esempio si gioca tutto sull’evidente contrasto che punta a mettere in rilievo il comportamento iniquo: “anello d’oro al dito”, “splendidi abiti” - “povero”, “abiti logori”. Sono i simboli di condizioni di vita decisamente contrapposte, a cui seguono i contrapposti comportamenti: “siediti comodamente” – “sta in piedi” o “siediti ai piedi del mio sgabello”.
Non fate voi stessi preferenze ...: il comportamento, così efficacemente illustrato, è conseguente ad un giudizio che si è compiuto nell’animo del credente e che noi sappiamo essere iniquo per le eclatanti e sproporzionate differenze che mettono due persone, pur pari nella loro dignità di persone, ma che la sorte ha diversamente colpito, su due posizioni opposte: siediti comodamente – sta in piedi. Questo modo di agire segue le logiche dell’interesse umano, ma va in diretta collisione sia con quello di Dio che con quello delle Scritture; per questo tali credenti si pongono a giudici perversi e iniqui, perché la motivazione del loro comportamento non ha come riferimento le logiche divine, ma quelle umane; e ciò contrasta con la novità di vita che la fede ha posto in loro. La fede dunque deve guidare la quotidianità del proprio vivere e deve essere alla base delle nostre scelte e Cristo deve diventare la nostra forma mentis.
Ascoltate, fratelli carissimi: Dio non ha forse scelto ...: dopo aver stigmatizzato un comportamento discriminatorio nei confronti delle persone, che viola la legge della fede, cioè della nuova vita divina in cui ogni credente è collocato e coinvolto esistenzialmente (vv. 1-4), ora l’autore fornisce nei versetti successivi sia la motivazione teologica (vv. 5-7) che quella scritturistica (vv. 8-11) per giustificare e sostenere un amore indiscriminato verso tutti gli uomini con particolare riguardo verso quelli meno fortunati.
Il v. 5 enuncia il comportamento di Dio nei confronti dei poveri: i poveri sono gli eletti del Signore[44] ad essi è riservato il Regno di Dio[45]. Quest’affermazione diviene il parametro di confronto sul quale la comunità è chiamata a misurarsi.
Voi invece avete disprezzato il povero ...: i vv. 6-7 si contrappongono al v. 5 e mettono in rilievo il comportamento dissacratore del credente, che si discosta dalle logiche della storia della salvezza, la quale vede proprio nel povero il fondamento principale su cui essa si regge (Lc 1,46-55). Una contrapposizione il cui accento viene fatto cadere sul quel “voi invece” (umeij de - imeis de), che dà ai vv. 6-7 un tono di profondo scostamento dal comportamento di Dio e che pregiudica la salvezza stessa del credente. Tale affermazione diviene un atto di accusa nei confronti di quelli che disprezzano i poveri, atteggiamento questo che colloca il credente nella triste categoria dei ricchi oppressori, contro i quali Giacomo riserverà una dura requisitoria di condanna in 5,1-6. Non c’è dunque distinzione tra ricchi e poveri che opprimono i poveri così che entrambi sono accomunati in un unico giudizio di condanna, poiché il loro comportamento è blasfemo nei confronti di Dio, che viene offeso nel povero in cui egli ha assicurato la sua particolare presenza (Mt 5,40.45). Un comportamento questo che è dissacratore e profanatore del nuovo stato di vita in cui il credente è stato collocato con il battesimo. Non è possibile quindi per chi è stato segnato con il nome di Gesù tenere comportamenti contrari a tale nome.
Certo, se adempite il più importante dei comandamenti ...: con il v. 8 l’autore introduce la motivazione scritturistica del rispetto dei poveri e si rifà al comandamento centrale di tutta la Legge: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Lv 19,18), una centralità che anche Gesù riconoscerà: “E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di questi” (Mc 12,31). Una posizione che viene confermata dallo stesso Paolo: “Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,14). Da questo comandamento infatti dipende ogni comportamento dell’uomo verso il suo simile e ogni precetto è racchiuso in esso: “Infatti il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso.” (Rm 13,9).
La centralità di questo comandamento tuttavia trova la sua origine e il suo radicamento in un altro comandamento simile: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti.” (Mt 22,37-38). L’amore di Dio dunque passa attraverso l’amore del prossimo e in esso trova la sua concretizzazione, che Giovanni mirabilmente esprime: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede.” (1Gv 4,20). L’uno dunque non può sussistere senza l’altro ed entrambi si coniugano assieme.
Ma se fate distinzione di persone ...: il v. 9 si apre con una particella avversativa “ma se” (ei de) che dà un forte tono di contrapposizione all’intero versetto. La distinzione di persone pertanto si oppone all’amore. Qui non si tratta di un’azione puntuale nel tempo, nata da una situazione occasionale, ma di una presa di posizione esistenziale, di un atteggiamento di vita sbagliato, che si radica e trova la sua motivazione in un’egoistica ricerca dei propri interessi a danno degli altri. Infatti l’espressione seguente “commettete un peccato” è resa in greco con “¡mart…an ™rg£zesqe” (amartìan ergàzeste). Il verbo ergazomai dice molto di più di un semplice “commettere”; esso significa “lavorare, produrre, essere operosi, darsi da fare”. Sono tutte espressioni queste che indicano una particolare attività esistenziale orientata a produrre un atteggiamento di peccato. Il termine peccato, in oltre, viene espresso in greco con il sostantivo amartìa, che deriva dal verbo “amartano” che significa principalmente “deviare, non cogliere, fallire, errare dal vero, da ciò che è giusto, mi rendo colpevole, m’inganno”. Dall’insieme dei significati il senso di peccato è essenzialmente una colpevole deviazione dalla verità, che comporta in sé un orientamento di vita sbagliato.
Quindi, ciò che qui Giacomo mette in rilievo non è una semplice violazione della Legge, sia pur grave, ma un atteggiamento esistenziale, che si radica nell’egoismo, che antepone il proprio Io alle esigenze degli altri e a danno degli altri. Del resto se l’autore spende parte della sua lettera a stigmatizzare questi atteggiamenti ricorrenti, significa che questi hanno caratterizzato il modo di comportarsi delle comunità, tanto da farne uno stile di vita.
Poiché chiunque osservi tutta la Legge, ma ...: con il v. 10 l’autore introduce una questione di principio propria del giudaismo: la fondamentale unità della Torah, così che il violare anche un solo comandamento significava violare l’intera Torah (Dt 27,26; Gal 3,10). La Torah infatti è l’espressione dell’unica volontà divina, da cui essa discende. Quindi pur essendo formata da tanti comandamenti possiede in sé una profonda unità, che si radica nell’unicità di Dio, per cui ogni sua violazione, benché minima, è un attentato alla sua integrità. Del resto questa profonda unità viene in qualche modo sancita dalla stessa affermazione che il comandamento dell’amore è la sintesi di tutta la Legge, così che osservare l’amore del prossimo e di Dio significa osservare l’intera Torah (Gal 5,14), poiché “Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,40). Vero però è anche il contrario, come sottolinea Giacomo che “chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo, diventa colpevole di tutto”. Si tratta dunque di una profonda offesa dettata non da un occasionale scatto d’ira, ma da una posizione esistenziale consolidata che allontana l’uomo da Dio.
Parlate ed agite come persone che ...: se dunque è vero che il violare anche un solo comandamento comporta l’attentare all’integrità dell’intera Torah e quindi un’opporsi esistenzialmente contro Dio, non c’è più speranza per l’uomo, segnato profondamente dalla sua fragilità di vita (Rm 7).
Giacomo pertanto esorta a staccarsi da una Legge che pesa gravemente sull’uomo, per aprirsi ad un’altra Legge, quella rivisitata alla luce di Cristo, che la libera dalla rigidità della lettera per aprirla all’ampia dimensione dello Spirito, dove l’uomo è affermato nella sua dignità proprio da questa Legge liberata. Paolo scrivendo ai Galati, che dopo aver ricevuto il messaggio liberante del Vangelo, lo avevano abbandonato per ritornare alla lettera della Legge, li esortava: “Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge. Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c'è legge.” (Gal 5,16-23). Vediamo come i frutti dello Spirito fanno leva proprio sulla parte migliore dell’uomo e lo affermano nella sua dignità, facendolo sempre più uomo. L’uomo, quindi, illuminato e redento da Cristo diventa la misura su cui siamo chiamati a misurarci e su cui saremo misurati[46].
Giacomo riassume la grandezza dell’uomo redento e dominato dalla Legge di libertà con l’espressione “usare misericordia”, perché è proprio in questa “misericordia” che è condensato il comandamento dell’amore, che racchiude in se stesso, a sua volta, l’intera Torah rivisitata e liberata dal messaggio di perdono e di riconciliazione sgorgato dalla croce e dalla risurrezione. Non a caso, infatti, il Risorto apparendo ai suoi discepoli li saluta per ben tre volte con “Pace a voi” (Gv 20,19.21.26), in cui è racchiuso l’atto di perdono e di riconciliazione tra Dio e gli uomini e gli uomini tra di loro. Non vi può infatti essere perdono né riconciliazione con Dio se questi non vengono estesi da noi anche agli altri (Mt 18,23-35).
Che giova, fratelli miei, se uno dice ...: con il v. 14 l’autore apre la seconda sezione di questo capitolo e introduce il tema del rapporto tra fede ed opere, che ha fatto precedere da un ampio trattato sull’amore concreto rivolto alle persone più umili e bisognose, motivandolo sia teologicamente che scritturisticamente (2,1-13). Questa forma di amore, colto nella durezza della sua quotidianità, ora viene ripreso e collocato nell’ambito del tema di fondo che caratterizza l’intera lettera, per far vedere come esso debba essere speso e come questo suo spendersi sia una manifestazione ed una attuazione della fede, cioè della nuova vita in Cristo, di cui ogni credente è permeato e in cui è collocato. Senza questa manifestazione operativa e concreta la fede diventa soltanto un puro atto accademico, privo di senso e di vita propria, che non giova per la propria salvezza e soprattutto ci illude sul nostro essere cristiani (1,22).
Infatti, in modo significativo, l’autore rivolge alle sue comunità la domanda fondamentale, che apre e introduce la questione: “Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?” (2,14). Il problema sta tutto qui: una fede non supportata dalle opere. È la contrapposizione di due comportamenti, che si incentra tutta su quel “ma”: “uno dice di avere” “ma” “non ha”. L’autore punta il dito contro una fede proclamata a parole, una fede chiacchierata, ma lontana dalla quotidianità della vita. Siamo nel cuore del pensiero dell’autore. Per Giacomo, infatti, al di sotto dei vari problemi, che affliggono le comunità giudeo-cristiane, ci sta un problema di fede scollegata con la quotidianità del vivere.
Se un fratello o una sorella sono senza ...: non va mai dimenticato che Giacomo pur essendo un cristiano ellenista è anche culturalmente e religiosamente un ebreo. La religione ebraica è sostanzialmente un’ortoprassi, cioè una corretta esecuzione della Legge, in cui è espressa la volontà di Dio. Gli aspetti pratici del vivere questa religiosità occupano quindi un posto preminente nel credo ebraico. Le prediche dei rabbini si snodano proprio sulla concretezza degli esempi illustrati e poi spiegati. È il metodo di procedere di Giacomo. Egli da buon ebreo sente forte la spinta a vivere concretamente la fede, come prima si preoccupava di vivere concretamente la Torah, che oggi egli non disdegna, ma che ha rivisitato alla luce della nuova fede.
L’esempio riportato si struttura su due punti fondamentali: a) enunciazione del problema: situazione di indigenza in cui versa una persona; b) risposta al problema fondata sul “dire” (dice loro), ma non sul “fare” (ma non date). Anche qui l’accento cade sul “ma” che mette in rilievo la contrapposizione dei comportamenti e l’inadeguatezza della risposta allo stato di difficoltà dei fratelli.
È questo in fondo lo schema della nostra vita quotidiana, che costantemente ci pone di fronte a continui problemi, piccoli o grandi, a cui siamo chiamati a dare una risposta, che rivela il nostro essere più profondo e il nostro modo di pensare e sentire le cose. È proprio in queste nostre scelte che emerge la qualità della nostra fede, che ci qualifica o come dei ciarlatani della fede o come veri credenti. Se Cristo non costituisce la nostra forma mentis e non è in grado di incidere nelle scelte della nostra vita quotidiana, allora significa che la nostra fede ci riempie la bocca, ma non la vita, dandoci l’illusione di essere bravi credenti.
L’esempio, che occupa i vv. 15-16, termina con un interrogativo con cui Giacomo aveva aperta la questione del rapporto opere e fede al v. 14: “Che giova?” L’espressione interrogativa forma un’inclusione, una sorta di parentesi che abbraccia i vv. 14-16 e ne dà il tono. La domanda è chiaramente retorica, contenendo già in se stessa la risposta; essa vuole sottolineare la vacuità di un comportamento basato su di una fede priva di opere.
Così anche la fede ...: l’esempio che Giacomo ha riportato nei vv. 15-16 non era fine a se stesso, ma finalizzato ad evidenziare l’assurdità di un certo comportamento, che affronta i bisogni degli altri a parole, dimenticando i fatti. Esso costituisce una sorta di parametro di riferimento, un termine di paragone su cui confrontare l’altra questione più viva e che più interessa al nostro autore: “così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa”. Questa espressione, che apre il v. 17, forma inclusione con quella che, invece, chiude il v. 26, abbracciando in una sorta di parentesi i vv. 17-26 all’interno dei quali si tratterrà la questione dell’inconsistenza e della vacuità di una fede non sostanziata dalle opere, il cuore dell’intera Lettera di Giacomo. Questa inclusione dunque dà il tono a tutta la pericope (vv. 17-26).
Al contrario uno potrebbe dire: ...: con i vv. 15-18 e i successivi vv. 19-23.25 l’autore sta costruendosi gradualmente le basi motivazionali su cui fonderà poi tutto il suo ragionamento successivo per poi arrivare al vertice del v. 24. Le motivazioni sono di tre tipi: la prima (vv. 15-17), è di tipo pragmatico e si basa su di un fatto concreto; la seconda (v. 18) è di tipo sacramentale, con cui si dimostra la necessità dell’incarnazione di un evento spirituale (la fede) nei fatti, così che questi diventino segno concreto di una realtà spirituale e ad essa rimandino; la terza (vv. 21-23.25) è di tipo scritturistico, richiamandosi agli episodi di Abramo e della prostituta Raab.
Mentre con l’esempio riportato nei vv. 16-17 l’autore evidenzia l’assurdità e la vacuità di un certo tipo di fede, ora con il v. 18 pone l’accento sulla capacità di testimonianza della fede. Questa infatti essendo di ordine spirituale non è dimostrabile se non attraverso la sua incarnazione nelle opere. Ecco quindi questo secondo esempio, mutuato dalla diatriba della filosofia greca, che pone a confronto diretto la fede con le opere, dal quale usciranno vincenti le opere, in quanto che una fede che non si esprime e non si rivela nella concretezza del vivere quotidiano diventa impercettibile nella sua inutile intimità. Infatti per Giacomo la fede non soltanto è fiducia in Dio, ma soprattutto è la vita divina stessa che palpita nel credente e che per sua natura tende a coinvolgere l’uomo nella sua integralità e ad ogni livello esistenziale. Se l’uomo non lascia trasparire dalla sua vita le nuove realtà in cui è stato collocato e dalle quali è permeato, il suo essere credente è ipocrita e certo non gli gioverà per la salvezza e il dono della vita divina è in lui inutile. Ecco dunque la sfida impossibile, il cui esito è scontato: mostrami la tua fede senza le opere e io con le opere ti mostrerò la mia fede. Preminenza dunque delle opere sulla fede.
Tu credi che c’è un Dio solo? Fai bene; ...: la diatriba ipotetica, innescata con il v. 18, continua ancora su di un piano ideale nei vv. 19-20 e Giacomo pone in bocca al suo ipotetico interlocutore[47], che non sembra darsi per vinto, l’obiezione che egli comunque crede in un solo Dio[48]. Un tipo di fede questa che viene immediatamente sminuita e banalizzata con una contro-obiezione: “anche i demoni lo credono e tremano”, equiparando in qualche modo l’interlocutore al diavolo. Una fede dunque inutile. Per diventare utile deve essere spostata da un piano intellettivo o di coscienza ad uno fattivo ed operativo.
Ma vuoi sapere, o insensato, come la fede ...: prosegue la diatriba con l’ipotetico interlocutore, che viene definito per la sua pretesa fede “in un Dio solo” come “insensato”. L’espressione greca è decisamente più significativa: “ð ¥nqrwpe kenš” (ò àntzrope kené), che letteralmente significa uomo vuoto, vacuo, frivolo, futile, senza successo, senza fondamento. La definizione di un simile credente stigmatizza nel contempo, allo stesso modo, anche la sua religiosità. Religiosità vacua dunque quella del nostro interlocutore. Non conta nulla credere in Dio con professioni di fede, serve invece professarlo con la vita.
Ed ecco che Giacomo qui introduce la terza motivazione, quella scritturistica, la più importante, nella quale vengono analizzate sinteticamente due figure veterotestamentarie: quella di Abramo e di Raab, la prostituta. La motivazione è preceduta al v. 20 da un’affermazione indiretta: “come la fede senza le opere è senza calore”. Ciò che è senza calore nell’ambito dell’uomo è soltanto il cadavere; come dire dunque che la fede senza le opere è morta. Questa identica espressione, che ritroviamo al v. 26, chiude il cap. 2 formando in tal modo un’inclusione che dà il tono generale alla pericope (vv. 20-26), nella quale viene dimostrata scritturisticamente l’importanza delle opere nell’agire della fede.
Abramo, nostro padre non fu forse ...: la prova scritturistica si compie in due momenti: il primo con riferimento all’episodio di Abramo, a cui Dio aveva ordinato di sacrificare suo figlio Isacco (Gen 22,1-18); il secondo con riferimento all’episodio di Raab, la prostituta (Gs 2,1-24)[49].
I due episodi sono disposti in modo tale che il tema fondamentale della lettera (la giustificazione per mezzo delle opere e non per la sola fede) sia collocato tra i due racconti, quasi a garantire l’autenticità dell’enunciato, radicandolo scritturisticamente. Per cui si avrà il seguente schema:
Il primo episodio è il più importante e Giacomo vi dedica ben tre versetti disposti, anche questi, in modo che al centro risulti una riflessione che l’autore trae dall’episodio di Abramo e che gli serve per dimostrare come in Abramo la fede non era disgiunta dalle opere e che proprio per questo l’operare di Abramo fu da Dio considerato perfetto. Per cui si avrà:
Tutti tre i versetti, molto densi, si incentrano sulla giustificazione proveniente da una fede operosa, che rende perfetto l’operare del credente davanti a Dio e perciò meritevole di salvezza. La salvezza dunque scaturisce soltanto da una fede operosa.
Vedete che l’uomo viene giustificato ...: ed ecco giunti finalmente, dopo un lungo preambolo curato molto scrupolosamente dall’autore, al cuore del cap. 2 e dell’intera Lettera:
La giustificazione dell’uomo dunque non viene dalla fede, ma in base alle opere. In altri termini l’uomo è reso giusto, quindi riconosciuto da Dio degno di salvezza, in base alle opere.
Fu proprio in base a questa affermazione, che si metteva contro la teologia paolina della giustificazione, che Lutero rifiutò la canonicità di questa lettera, definendola una lettera di paglia.
Si rende pertanto necessario un chiarimento tra questa affermazione di Giacomo e quella opposta di Paolo. Due affermazioni che sono tra loro inconciliabili e irriducibili l’una all’altra.
Cosa dice Paolo
Paolo nella Lettera ai Romani afferma: “Noi riteniamo infatti che l'uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge” (Rm 3,28)
e ancora in Galati: “sapendo tuttavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16).
Cosa dice Giacomo
“Vedete che l'uomo viene giustificato in base alle opere e non soltanto in base alla fede” (2,24)
La spiegazione
La soluzione dell’apparente contraddizione va trovata nell’ambito della diversità del quadro teologico in cui i due autori si collocano: dottrinale per Paolo, etico per Giacomo.
L’espressione di Giacomo si inquadra nell’ambito di un orizzonte squisitamente morale ed esortativo e in tale ambito va letto il senso in essa contenuto; mentre quella di Paolo è squisitamente di tipo dottrinale e si pone nell’ambito di una diatriba che vedeva contrapposti tra loro la Legge mosaica e il Cristo risorto, quali fonti contrapposte ed esclusive di salvezza.
Analizziamo, ora, i termini delle due espressioni tenendo presenti gli ambiti da cui sono sorte e in cui si muovono.
Giustificazione: per Paolo è l’atto iniziale costitutivo della vita cristiana, grazie al quale l’uomo è posto gratuitamente nel giusto rapporto con Dio per mezzo della morte e risurrezione di Cristo in cui è inserito per mezzo del battesimo.
Per Giacomo, invece, giustificazione significa semplicemente salvezza, che nella dinamica del vivere cristiano è l’obiettivo finale verso cui ogni battezzato tende.
Opere: Paolo associa sempre tale termine alla parola legge. Egli, infatti, parla sempre di opere della legge, intendendo con questo il vivere ancora alla vecchia maniera, in conformità alla legge mosaica, che comporta un chiaro rifiuto di Cristo. In Paolo “Legge” e “Cristo” sono due termini tra loro sempre contrapposti e irriducibili l’uno all’altro, così che Paolo non esita ad affermare che “… se la giustificazione viene dalla Legge, Cristo è morto invano” (Gal. 2,21).
Giacomo, invece, non associa mai il termine opere alla parola legge. Per lui le opere sono il corpo visibile della fede. In altri termini, la fede deve concretizzarsi in un chiaro stile di vita cristiano e lo deve caratterizzare. Si nota qui la preoccupazione del pastore che ha davanti a sé una comunità il cui vivere è in netta dissonanza con quanto credono. È importante, dunque, per Giacomo che la fede permei l’intera vita del cristiano e che, proprio attraverso le opere, sia testimoniata.
Fede: per Paolo è una scelta radicale che investe interamente il credente in ogni sua dimensione; è un decidere la propria vita per Dio e un orientarsi a Lui. È un aprirsi esistenzialmente alla sua proposta salvifica. Va da sé, quindi, che le opere, cioè lo stile di vita, accompagnino il credente.
Essa, pertanto, si pone come l’unica via per accedere alla giustificazione.
Per Giacomo, invece, la fede è tutto ciò in cui il cristiano crede e a cui deve conformare anche la sua vita perché la sua fede non si riduca ad un semplice atto intellettuale. Questo è il timore di Giacomo: che la “fides qua creditur”, cioè la fede per mezzo della quale si crede e sulla quale il credente modella la sua vita, non si trasformi semplicemente in un vacuo “fides quae creditur”, cioè una semplice serie di verità a cui aderire intellettivamente, ma dalle quali la concretezza del vivere è ben lontana.
Il v. 24 quindi non è uno squalificare la fede, intesa come apertura esistenziale a Dio per mezzo di Cristo, ma un suo avvalorarla, spingendo il credente a conformare il proprio vivere alle verità-realtà che palpitano in lui in virtù del battesimo.
Non c’è dunque contraddizione tra Paolo e Giacomo, ma solo due prospettive diverse nel considerare il rapporto tra fede ed opere.
Va tuttavia rilevato come il tono generale della lettera di Giacomo e in particolare i vv. 2,14-26 e al loro interno il v. 2,24 costituiscono, a mio avviso, un’accesa quanto innegabile polemica con la dottrina della giustificazione di Paolo e in particolare Giacomo puntava a screditare dottrinalmente Gal 2,16, che rappresenta un po’ la punta di diamante di tale dottrina. Due sono gli elementi che me lo fanno pensare:
Ðr©te Óti dikaioàtai ¥nqrwpoj ™x œrgwn (Gc 2,24a)
e„dÒtej (d) Óti oÙ dikaioàtai ¥nqrwpoj ™x œrgwn nÒmou (Gal 2,16a)
Da questo confronto si rileva come Giacomo riprende esattamente la frase di Gal 2,16a togliendo da essa la particella negativa oÙ, assegnando in tal modo alla frase stessa un senso positivo e quindi esattamente contrapposto a quanto Paolo voleva affermare. Non si tratta quindi di una semplice coincidenza, ma considerato l’uso che Giacomo fa delle stesse parole impiegate da Paolo, capovolgendone il senso da negativo in positivo, mi pare evidente che Giacomo abbia voluto deliberatamente colpire, motivandola scritturalmente (Gc 2,21-23.25), il cuore stesso della dottrina paolina della giustificazione.
In altri termini Giacomo toglie l’assolutizzazione della fede in materia di giustificazione, come invece affermava Paolo: “ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo” (Gal 2,16b).
L’intera frase paolina di Gal 2,16 viene quindi letteralmente ripresa da Gc in 2,24 e capovolta.
Mi pare quindi innegabile la polemica tra Giacomo e Paolo in tema di giustificazione, anche se dottrinalmente, per quanto sopra dimostrato, entrambe corrette[50].
Così anche Raab, la meretrice, ...: con i vv. 21-23 Paolo ha già fondato ampiamente la sua motivazione scritturistica, così che questo secondo esempio va letto in modo complementare al primo a supporto e a rafforzamento del precedente.
Infatti come il corpo senza lo spirito ...: il v. 26 chiude la lunga riflessione sul tema del rapporto tra fede ed opere. Esso si fonda su di un paragone dato dalle particelle “come ... così”: come il corpo se non è sostanziato e permeato dallo spirito è morto, così anche la fede, privata dalle opere, è morta. La fede pertanto non è soltanto un credere in Dio (2,19), ma essa deve trovare la sua sacramentalizzazione, la sua incarnazione nelle opere del nostro vivere quotidiano. Pensare diversamente significa ingannare noi stessi (1,26b) ed illuderci sul tenore del nostro cristianesimo (1,22b).
Il nostro vivere quotidiano pertanto deve riflettere in se stesso la luce della fede, accesa in noi dal battesimo e vivificata dalla potenza dello Spirito. Vivere la fede significa pertanto conformare e sintonizzare il nostro vivere a quelle realtà divine in cui siamo stati collocati. Ma per poterlo fare si rende necessario conoscere queste realtà spirituali e l’unico strumento capace di farcele conoscere è la Parola di Dio.
Quale rapporto dunque ci lega a tale Parola?
Capitolo terzo
Introduzione
Dopo la parentesi del cap. 2 in cui l’autore aveva affrontato il tema del rapporto tra fede ed opere, preceduto e preparato da quello che proclamava la necessità di un amore concreto e fattivo, motivandolo sia teologicamente (2,5-7) che scritturisticamente (2,8-11), ora con il cap. 3 e seguenti si riprendono i temi già introdotti nel cap. 1.
In questo terzo capitolo Giacomo affronterà su di un piano concreto un problema che doveva affliggere le varie comunità.
Anche questo capitolo possiamo dividerlo in due sezione:
Struttura della Prima Sezione
Questa prima sezione si suddivide in tre parti, che sviluppano il tema della lingua sotto tre aspetti diversi:
1. La necessità di tenere a freno la lingua (vv. 1-5a);
2. Gli effetti devastanti dell’uso improprio della lingua (vv. 5b-8);
3. Contraddizioni disdicevoli nell’uso della lingua (vv. 9-12).
vv. 1-2a: denuncia del problema che affligge varie comunità: vi sono troppe persone al loro interno che vogliono primeggiare e farsi maestri degli altri;
v. 2b: enunciazione del tema: è perfetto chi sa tenere la lingua a freno;
vv. 3-4: costituiscono da un lato lo sviluppo del v. 2b; dall’altro formano l’elemento di paragone su cui dovrà misurarsi il successivo v. 5a.
v. 5a: il v. 5 si può considerare un versetto di passaggio perché da un lato conclude i vv. 2b-4, dall’altro crea al proprio interno un parallelismo che prepara e introduce i vv. 6-8. Esso può essere suddiviso in due parti: v. 5a, che si pone a conclusione di 2b-4 e introduce inoltre al v. 5b e con lui forma un parallelismo introduttivo ai versetti seguenti (vv. 6-8):
- piccolo membro (v. 5a) / piccolo fuoco (v. 5b);
- vantarsi di grandi cose (v. 5a) / grande foresta può incendiare (v. 5b);
v. 5b: metafora della lingua che introduce lo sviluppo dei vv. 6-8;
vv. 6: è il versetto che si pone al centro di tutto il discorso sulla lingua (vv. 1-12) e quindi nelle intenzioni dell’autore il più importante. È un elogio al negativo della lingua, che si conclude al v. 8 con un’amara considerazione sulla indomabilità della lingua, quale espressione del peccato che l’uomo si porta dentro fin dal suo nascere.
v. 7: costituisce una sorta di paragone con il v. 8 e serve ad accentuarne la negatività: ogni animale può essere domato (v. 7), ma la lingua no (v. 8);
v. 8: completa il v. 7 e chiude la considerazione sulla pericolosità della lingua iniziata con il v. 5b.
vv. 9-12: la lingua è fonte di bene e di male ed esprime il contrasto in cui vivono alcuni membri delle varie comunità che si atteggiano a maestri di sapienza cristiana, ma che in realtà puntano a primeggiare tra tutti, creando contrasti e divisioni all’interno.
Struttura della Seconda Sezione
v. 13: enunciazione del tema: il vero maestro non è colui che si proclama tale, ma chi vive saggiamente. Si richiama al v. 3,1 e lo sviluppa sotto il profilo della sapienza; tema quest’ultima che già l’autore aveva impostato e definito in 1,5-8.
v. 14: contro-tema: gelosia e spirito di contesa non favoriscono la vera sapienza di cui ogni maestro e ogni credente dovrebbe essere rivestito;
Le due sapienze a confronto: umana e divina
vv. 15-16: i tratti della sapienza umana: terrena, carnale, diabolica; i frutti di tale sapienza: amara gelosia, spirito di contesa, disordine e ogni sorta di cattive azioni;
v. 17: i tratti della sapienza divina: pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti.
v. 18: chiude i vv. 13-17 e con i vv. 14-17 introduce il tema del cap. 4: le passioni che agitano le comunità credenti, da cui nascono liti, contese, divisioni, discordie, invidie.
Commento al Capitolo Terzo
Fratelli miei, non vi fate maestri in molti, sapendo che ...: il v. 1 apre una questione scottante: molti dovevano essere quelli che si ponevano all’interno della comunità come maestri o quanto meno amavano essere ritenuti sapienti e intelligenti, persone dotte, degne di attenzioni da parte dell’intera loro comunità. Di certo in tutto ciò non c’era uno spirito di servizio nei confronti degli altri, quanto piuttosto una ricerca di un loro riconoscimento che li ponesse ad un buon livello di visibilità all’interno della comunità. Questi “maestri” svolgevano quindi un servizio a se stessi e al centro dei loro interessi c’era il proprio Io e non certo Dio o gli altri. Era gente questa che si destreggiava bene nella parola, che veniva spesa a loro favore e spesso a danno degli altri, creando discordie, divisioni e gelosie (Gc 3,14.16). Un cattivo uso dunque della parola e, in genere, della lingua.
Giacomo cerca di far capire che l’occupare determinati posti di rilievo all’interno della comunità comporta anche una corrispondente responsabilità ed espone il maestro ad un doppio giudizio: quello degli uomini, verso i quali egli si rivolge, e verso Dio, nel cui nome dovrebbero ammaestrare. Tuttavia la maggiore severità di giudizio non deriva soltanto dalla doppia valutazione umana e divina, ma anche dal fatto che chi si dichiara maestro si pone come un sapiente in mezzo ai fratelli e quindi deve avere, di conseguenza, anche un comportamento irreprensibile, che egli però non ha per la sua fragilità (v. 2a).
La posizione di prestigio dunque deve essere sempre accompagnata dalla coscienza della propria missione, che si origina da una vocazione per il servizio e dall’umiltà, ben sapendo che una simile posizione di responsabilità è sempre posta in vasi d’argilla. In tal senso Paolo, parlando ai Corinti della propria missione (l’annuncio del Cristo risorto), mette in rilievo la sproporzione sussistente tra la grande vocazione che gli è stata donata e la sua fragilità: “Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore; quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù. E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo. Però noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi.” (2Cor 4,5-7).
Una profonda lezione di umiltà e di maturità cristiana e umana per chi si pone all’interno della comunità con l’intento di svolgere un qualche servizio, in umile disponibilità verso l’altro.
Questo problema, denunciato dai vv. 3,1-2a, occuperà l’intero capitolo terzo e già in qualche modo era stato preparato sia da 1,5-8 (la necessità della sapienza e come ottenerla che si aggancerà a 3,13-18, illuminandoli con una nuova luce) sia da 1,18-27 (rapporto tra Parola/parola e lingua, che si rifletterà su 3,1-12, dandone una nuova comprensione).
Se uno non manca nel parlare, è un uomo perfetto ...: con un gioco di allitterazione[51] l’autore introduce il tema della perfezione del vero maestro, la quale consiste nel non mancare nel parlare. Perché Giacomo definisce “uomo perfetto” (tšleioj ¢n»r - téleios anér) colui che non erra nella parola? Il termine téleios (tšleioj) viene usato dall’autore cinque volte[52] e ha a che fare sempre con l’azione di Dio sull’uomo o comunque è posto in relazione a Dio. Esso indica la compiutezza dell’uomo nel disegno di Dio, che estende in lui per mezzo di Cristo, Parola eterna del Padre, la sua pienezza di vita divina. Una prospettiva questa che Giacomo aveva già anticipato nel v. 1,18: “Di sua volontà egli ci ha generati con una parola di verità, perché noi fossimo come una primizia delle sue creature”. C’è dunque una stretta relazione tra la Parola generante di Dio e la perfezione dell’uomo, che è chiamato a modellare il suo parlare sulla Parola che genera la vita nuova di Dio in lui. L’uomo quindi, secondo Giacomo, generato dalla Parola, è ad essa conformato e il suo parlare deve essere vitalizzante come quello della Parola da cui proviene e da cui trae la sua forza. Per questo tale uomo, che l’autore definisce anér e non antzropos[53], è capace di tenere a freno il proprio corpo, proprio perché egli è un generato dalla Parola e vive secondo le logiche dello Spirito e “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio” (Rm 8,14) e appartengono quindi alla sua dimensione. Infatti, continua Paolo, “ ... se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi” (Rm 8,11). Grazie alla sua generazione divina per mezzo della Parola l’uomo di Giacomo possiede in sé anche la vitalità dello Spirito che lo spinge a vivere secondo le logiche di Dio. Il conformare pertanto il proprio parlare alla Parola generante, significa lasciarsi configurare esistenzialmente da questa Parola, che dona lo Spirito di una vita nuova.
La forza quindi che nasce dal saper configurare la propria parola alla Parola è la stessa forza che aiuta l’uomo a configurare anche la propria corporeità alle esigenze della Parola che genera per mezzo dello Spirito.
Quando mettiamo il morso in bocca ai cavalli ...: dopo aver enunciato il tema di fondo (v. 3,2b), Giacomo passa, secondo il suo stile, all’esemplificazione e parla di cavalli e di navi e rispettivamente di morso e timone. La scelta degli esempi non è casuale: il cavallo esprime la vitalità, l’istintualità, l’energia e l’irruenza delle passioni e si richiama in qualche modo alla passionalità dell’ira, delle gelosie da cui nascono disordini, contese e divisioni (1,19-20; 3,14.16; 4,1ss); mentre la nave è la metafora dell’uomo che si muove nel mare della vita. Così che il controllo della parola e della lingua per mezzo della Parola, che ci ha generati (1,18) e in quanto da Lei generati per mezzo dello Spirito, costituisce per l’uomo da un lato un freno all’istintività passionale che si esprime attraverso il parlare, aprendolo all’ira (1,19), dall’altro si propone come guida nel cammino della vita. Ed ecco il timone del suggerimento di 1,19-20: “... sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare, lento all'ira. Perché l'ira dell'uomo non compie ciò che è giusto davanti a Dio.” (Gc 1,19-20).
Se da un lato gli esempi costituiscono una sorta di metafora dell’agire dell’uomo, dall’altro essi indicano come da piccoli oggetti come il morso per i cavalli e il timone per le navi possano derivare il pieno governo sia dei cavalli che delle navi.
Con questi esempi del morso e del timone, quali piccole cose che hanno influenza sulle grandi, l’autore sta preparando il più ampio discorso sulla lingua. Anche questa è un piccolo strumento che può avere un effetto nefasto sull’intero comportamento dell’uomo e può essere di sua rovina.
Così anche la lingua: è un piccolo membro ...: il v. 5 può essere considerato di transizione poiché da un lato chiude la riflessione dei vv. 2b-4 e dall’altro introduce una seconda riflessione, più diretta e specifica sui mali della lingua, trattati nei versetti centrali 6-8.
Il v. 5 presenta la seguente struttura:
- v. 5a: Così anche la lingua: è un piccolo membro e può vantarsi di grandi cose.
- v. 5b: Vedete un piccolo fuoco quale grande foresta può incendiare!
Il v. 5a con l’espressione “così anche” si ricollega alle metafore di 2b-4 (cavalli/navi; morso/timone) e li aggancia in qualche modo al v. 5b. Tutto il gioco è impostato sul contrasto di piccolo-grande e come proprio ciò che è “piccolo” può avere una notevole influenza su ciò che è invece “grande”.
Il v. 5 crea in se stesso una sorta di parallelismo, che predispone al discorso sulla lingua dei vv. 6-8 e seguenti; per cui si avrà:
- “piccolo membro” che si aggancia a “piccolo fuoco”
- “vantarsi di grandi cose” che si associa a “grande foresta può incendiare”
Gia da qui cominciamo a capire come la lingua (piccolo membro) è considerata da Giacomo come un “piccolo fuoco”, che può provocare però un grande incendio con il suo grande vantarsi, cioè una grande devastazione all’interno della comunità.
Il lettore è dunque preavvisato e predisposto alla comprensione dei versetti che seguono.
Anche la lingua è un fuoco ...: i vv. 6-8 costituiscono il cuore di questo terzo capitolo e puntano a far risaltare la grande e determinate importanza che la lingua ha nell’ambito del comportamento di ciascuno.
Il v. 6 si apre con “la lingua è un fuoco” e si chiude con “traendo la sua fiamma dalla Geenna[54]”. La lingua dunque non è un fuoco qualsiasi, ma alimenta la sua fiamma da quella della Geenna. Si tratta dunque di un fuoco perverso, demoniaco, dissacratore, che Giacomo definisce come “mondo dell’iniquità”, che non ci è estraneo, ma permea l’intero nostro essere poiché è inserito in noi, fa parte di noi, siamo noi. Questo nostro membro “vive inserito nelle nostre membra”. Non si tratta dunque di un qualcosa di inerte, ma vive e quindi si esprime dinamicamente quasi con una sua vita propria e autonoma che ci condiziona e ci controlla, ci governa. Giacomo la presenta come un essere demoniaco che si nasconde tra le pieghe della nostra vita contaminandoci nel nostro vivere quotidiano e “incendiando il corso della nostra vita”. Questo essere malvagio e subdolo, che appartiene al fuoco della Geenna e riversa su di noi tutta la sua iniquità, non è dunque una realtà temporanea od occasionale, ma ci accompagna e ci affligge lungo tutto il cammino della nostra vita. Da qui la necessità di una vigilanza costante.
Infatti, ogni sorta di bestie ...: l’autore sospende per un momento la sua inquietante descrizione della lingua e benché sembra darci un momento di tregua con il v. 7, in realtà sta preparando il colpo finale che verrà con il v. 8, un colpo che sarà appesantito proprio dalla apparentemente innocua riflessione di questo v. 7: la razza umana è riuscita a dominare ogni specie di animali, che si trovano in cielo (uccelli), sulla terra (rettili) e negli abissi marini (esseri marini). Brava e forte la razza umana, razza superiore. Ma è proprio vero?
Ma la lingua nessun uomo la può domare ...: il v. 8 si apre con una particella avversativa “ma”, che agganciandosi al v. 7 gli si oppone decisamente e segna, aggravandola, la sconfitta dell’uomo: egli sa dominare tutto e tutto riduce al suo servizio, ma di fronte alla sua lingua egli è un perdente: nessun uomo la può domare, perché essa possiede in sé una forza che si radica nella fragilità stessa dell’uomo: il peccato. Una lingua che è definita come “un male ribelle”, cioè una realtà negativa radicata profondamente nello stesso male dell’uomo, la colpa originale, che ne ha fatto un essere decaduto e fragile; da ciò essa trae la sua forza e per questo è invincibile.
Paolo esprime questo dramma invincibile dell’uomo in una sua pessimistica visione della colpa che ha travolto l’uomo: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,15-24).
Con essa benediciamo il Signore, ...: dopo la prima riflessione sulla lingua (vv. 6-8), che ne ha rilevata tutta la negatività spesa a danno dell’uomo, ora con i vv. 9-12 l’autore inizia la sua seconda riflessione sulla lingua con la quale evidenzia l’uso contraddittorio che se ne fa.
Questi versetti hanno la seguente struttura:
- Enunciazione del tema: ambiguità e contraddizioni della lingua (v. 9)
- Considerazione sul v. 9 e conclusione: benedizone-maledizione convivono nella lingua. Questo è inaccettabile (v. 10).
- Ripresa e sviluppo metaforico del v. 10: la sorgente e le sue acque; il fico, la vite e i loro frutti.
Nel v. 6 Giacomo aveva definito la lingua “il mondo dell’iniquità” e in quanto tale essa rispecchia in se stessa tutta la contraddittorietà e la fragilità del Male. Per esprimere questa contraddittorietà Giacomo ricorre, non a caso, ad un esempio che ci riporta alle origini dell’umanità, proprio là da dove ha avuto l’origine del Male primordiale, che affligge l’uomo decaduto e di cui la lingua è viva espressione: “Con essa benediciamo il Signore e Padre e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio”. Dio qui è definito nella sua prerogativa di “Signore” e quindi padrone assoluto di tutto, ma anche “Padre” degli uomini, in quanto queste creature sono sgorgate da una sua precisa volontà divina: “E Dio disse: <<Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra>>” (Gen 1,26).
La contraddizione sta proprio qui: Dio è il Padre degli uomini nei quali egli si riflette e si riconosce perché fatti a sua somiglianza e a sua immagine. Nel creare l’uomo Dio ha creato, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso, costituendolo suo partner nella creazione (Gen 2,15). Benedire Dio, quindi, e maledire l’uomo esprime tutta la contraddizione perché l’uomo è l’immagine di Dio. Non si può dunque benedire Dio e maledire l’uomo, perché questo è il riflesso stesso di Dio, quasi un suo prolungamento (Sal 8,5-9).
Ma la contraddizione si fa ancor più evidente nel successivo v. 10, quando benedizione e maledizione vengono estrapolati dal contesto delle due frasi precedenti e poste direttamente a confronto tra loro: dalla stessa bocca esce benedizione e maledizione. Unico è il luogo da cui esse provengono, la bocca, ma diversi, anzi opposti e inconciliabili sono gli effetti tra loro. L’accostamento di maledizione-benedizione che escono da un unico luogo dicono tutta la contraddittorietà che è propria del peccato, che lacera nel suo interno l’uomo stesso, relegandolo nel mondo del male.
Giacomo lancia un forte richiamo: “Non dev’essere così”. Un imperativo che sembra quasi voler spezzare questa spirale perversa e invincibile (v. 8) del male che tiene prigioniero l’uomo, ma che nel contempo preannuncia e contiene racchiusi in sé i vv. 13-18, nei quali si parla della sapienza quale antidoto a questo mondo di male, da cui deriva ogni contraddizione e ogni divisione nell’uomo, che lo mettono in uno stato di schizofrenia spirituale ed esistenziale, nella quale egli perde la sua identità divina di immagine e somiglianza con Dio.
Forse una sorgente può far sgorgare ...: con i vv. 11-12 si chiude il tema sulla lingua. Il diretto accostamento benedizione-maledizione del v. 10, che ne mette in evidenza il contrasto, viene qui ripreso con il linguaggio proprio della metafora che punta ad evidenziare una volta di più la contraddizione insita nel perverso mondo della lingua, in cui si riflette quello del peccato che permea la decaduta natura umana. Alla fine si capisce bene come questa lingua si identifica con l’uomo stesso e con la sua fragilità determinata dal peccato, anzi la lingua è solo uno strumento che lascia trasparire tutta la decadenza dell’uomo.
Sorgente, fico e vite caratterizzano l’esperienza quotidiana dell’ebreo, ma essi in qualche modo simboleggiano anche il popolo di Israele stesso, che nella sorgente (gr. phg¾ - peghè) si richiamava a quella di Giacobbe, capostipite di Israele, nella quale egli abbeverava le sue greggi ed era venerata dal popolo[55]; così come il fico, molto diffuso in Israele al punto tale da caratterizzarlo[56]; del fico, quale figura del popolo, parla anche Gesù quando si rivolge ad Israele per rimproverarlo per la vacuità del suo culto e della sua religiosità[57]; così parimenti la vite simboleggia, sia nell’A.T.[58] che nel N.T.[59], il popolo d’Israele nei suoi difficili rapporti con Dio.
Non è pertanto da escludersi che Giacomo con questi tre metafore, così specifiche, in qualche modo puntasse il dito contro le contraddizioni che caratterizzavano questi giudeo-cristiani che usavano il benedire e il maledire con molta disinvoltura a seconda delle circostanze, qualificando il loro comportamento come ipocrita e pertanto avverso a Dio. Tuttavia non è da escludersi, a mio avviso, che Giacomo si scagliasse contro quei giudeo-cristiani che, pur avendo abbracciata la nuova fede nel Risorto (1,18), vivevano ancora in conformità alle prescrizioni mosaiche.
Chi è saggio e accorto tra di voi? ...: con questo v. 13 si apre la seconda sezione (3,13-18) del capitolo terzo, dedicato interamente al tema della sapienza, che si sviluppa in un confronto tra la sapienza umana (3,15-16) e quella “che viene dall’alto” (3,17-18). Essa completa la lunga riflessione sulla lingua (3,1-12) e nel contempo riprende il tema della sapienza che già era stato introdotto in 1,5-8, dove se ne illustrava la necessità e il modo con cui chiederla a Dio.
Ora il v. 3,13 si apre riferendosi direttamente al v. 3,1 e, riprendendolo, lo completa collocandolo entro la cornice della sapienza. In 3,1 Giacomo denunciava il problema del sorgere all’interno delle comunità di numerosi sedicenti maestri che con il loro blaterare facevano sfoggio della loro presunta sapienza, ma che invece creavano scompiglio, rivalità, gelosie all’interno delle loro comunità (3,14-16). La parola umana, dunque, ancora una volta divide, anche se apparentemente rivestita di saggezza, poiché in essa il presunto maestro ricerca se stesso e si pone in rivalità con gli altri. Giacomo riconduce ancora una volta la questione dal piano della parola a quello delle opere, che per l’autore sono il banco di prova della verità che uno si porta dentro (3,14). Chi si ritiene sapiente, pertanto, si mostri saggio vivendo concretamente da tale e producendo opere di sapienza (3,13). Le opere pertanto devono essere “ispirate a saggia mitezza”, la quale deve trasparire da esse. Con quest’ultima espressione l’autore anticipa in qualche modo il v. 3,17 in cui si parla della vera sapienza e di ciò che la caratterizza.
Ma se avete nel vostro cuore ...: per Giacomo le opere sono la sincerità della vita perché mostrano davanti a tutti quello che uno porta dentro di sé. È dunque importante da un lato vivere con verità, cioè conformare il proprio vivere con ciò che si porta dentro, e dall’altro capire che cosa uno tiene nel suo cuore, se una “saggia mitezza” o, invece, “gelosia amara e spirito di contesa”, un’espressione quest’ultima che anticipa in se stessa il tema delle passioni di 4,1-4.
La “saggia mitezza” o la “gelosia amara e spirito di contesa” sono le due verità tra loro contrapposte che Giacomo svilupperà nei vv. 3,15-17, in cui si porranno a confronto le due sapienze e le loro conseguenze sulla vita vissuta.
“Ma se avete ...”, è proprio questo “ma” che dà un tono avversativo all’intero v. 14, contrapponendolo all’esortazione del vivere saggiamente del v. 13. è questa doppiezza di vita, questa schizofrenia tra il vivere in un modo e l’essere un altro che qui Giacomo condanna: non vantatevi e non mentite contro la verità. La verità che il credente porta dentro di sé è la novità di vita che è stata generata in lui dalla “Parola di verità” (1,18), del tutto incompatibile con il vivere alla maniera umana. È necessario quindi che il credente deponga il suo modo di vivere umano per lasciar trasparire nelle sue opere la luce della vita nuova (1,21). Se invece lascia prevalere la sua umanità corrotta dal peccato, fatta di gelosie e di spirito di contesa, egli mente, una menzogna esistenziale che lo escluderà dalla salvezza. Nessun vanto dunque perché la verità della luce di cui il credente è rivestito è caratterizzata dalla “saggia mitezza (1,13). Il vantarsi infatti è espressione di arroganza (4,16) e punta all’affermazione del proprio Io a danno degli altri; esso quindi è incompatibile con le qualità della vera sapienza che viene dall’alto: essa infatti è pacifica, mite e arrendevole.
Non è questa la sapienza ...: con i vv. 15-16 Giacomo apre il confronto tra le due sapienze: quella umana e quella divina. Il contrasto tra le due è immediato e inconciliabile: “Non è questa la sapienza che viene dall'alto: è terrena, carnale, diabolica” (3,15), come dire che tutto ciò che obbedisce alle logiche umane non proviene dall’alto. Vi è dunque una forte esclusione tra le due posizioni, che le rendono irriducibili l’una all’altra. Questa inconciliabilità è resa dall’espressione “viene dall’alto”, che indica la dimensione propria di Dio, e dal susseguirsi degli attributi con i quali è definita tale sapienza: terrena, carnale, diabolica. È un crescendo di definizioni sempre più peggiorative che termina con il “diabolica”, quasi a dire che tutto ciò che sottende l’esprimersi alla maniera terrena e carnale è il diavolo, una realtà questa che per sua natura è opposta inconciliabilmente a Dio. Si noti come Giacomo usi il termine “carnale” anziché “umana”. Certo, quando si parla di “carne” in senso biblico si parla di uomo. Ma la carnalità in Giacomo assume un significato tutto particolare: essa non solo si contrappone a tutto ciò che è spirito, come in Paolo, ma esprime nel suo intimo le passioni, che a tale carnalità sono legate e dalla quale traggono il loro vigore. Come si vede l’autore con i vv. 3,14-17 sta preparando un po’ alla volta il capitolo seguente, che si apre con una forte denuncia contro comportamenti violenti e passionali, che turbano gravemente le comunità, alle quali egli rivolge questo scritto.
I frutti di questa sapienza carnale e diabolica non si fanno attendere: gelosia, spirito di contesa, disordine e ogni sorta di cattive azioni, che pongono le basi a 4,1ss. Un elenco che, similmente, anche Paolo sottopone all’attenzione dei Galati: “Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,19-22).
Le passioni, che si radicano nella carne, dunque, non producono niente di buono se non “ogni sorta di cattive azioni” e tra queste Giacomo ha posto la passione simbolo: l’ira, poiché essa “non compie ciò che è giusto davanti a Dio” (1,19-20).
La sapienza che viene dall’alto ...: da buon retore Giacomo accosta tra loro gli elementi contrastanti per mettere in risalto le loro inconciliabili e contrapposte qualità, rendendo in tal modo più incisivo il suo pensiero. Se l’autore si limita a definire la sapienza umana con tre semplici ed efficaci attributi: terrena, carnale e diabolica, quanto alla sapienza divina, che definisce “dall’alto” per contrapporla a quella che proviene “dal basso”, indicando in tal modo tutta la distanza che intercorre tra le due, egli si sofferma più a lungo sugli attributi di quest’ultima: “è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia” (3,17) un elenco che stigmatizza e si contrappone ai comportamenti rimproverati ai giudeo-cristiani, ai quali questo scritto è rivolto.
L’elenco è suddiviso in due parti dalle espressioni avverbiali greche “pròton” (innanzitutto) ed “épeita” (poi); il primo avverbio si riferisce a “pura”; il secondo invece introduce l’elenco delle altre qualità, staccandolo dall’attributo “pura”.
La sapienza divina è, dunque, innanzitutto pura. Il termine usato da Giacomo è agné, che in greco ha due accezione: puro, casto e santo. Con il primo significato (puro, casto) il riferimento è rivolto alle passioni e alla carnalità; il secondo, invece, si apre alla santità che è la dimensione propria di Dio. Egli è Santo proprio perché è tutt’altro dall’uomo, non ha nulla a che vedere con la sua carnalità e le sue passioni. Quindi per Giacomo la sapienza ha come caratteristica principale la purezza perché libera dalle passioni e dalla carnalità, dalla quale esse provengono, radicandosi invece nella dimensione propria di Dio, da cui proviene per la sua santità. La sapienza divina dunque ha un’origine completamente diversa.
Le restanti qualità sono elencate in numero di sette, numero che indica pienezza e perfezione. Esse sono tutte accomunate da un comune denominatore: l’amore di Dio che si fa amore per il prossimo (2,8), cioè la carità. Esse dunque sono sfaccettature e specificazioni proprie dell’amore. Anche Paolo nel suo stupendo inno alla carità (1Cor 13,1-13) compie un elenco di attributi propri della carità che richiamano da molto vicino il pensiero del nostro autore: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine” (1Cor 13,4-8).
Un frutto di giustizia viene seminato ...: il v. 18 chiude l’intero cap. 3 e sintetizza in sé gli effetti della vera sapienza che proviene dall’alto. Essi si contrappongono a quelli della sapienza umana. I frutti della sapienza umana sono gelosia amara e spirito di contesa, disordini e ogni sorta di azioni malvagie, i cui effetti devastanti saranno descritti da Giacomo in 4,1-4. Diverso e contrapposto è il frutto che sgorga dalla vera sapienza e che Giacomo in modo efficace sintetizza nella parola “pace”, che per l’ebreo esprimeva ogni bene e ogni dono provenienti da Dio, la pienezza della vita.
Quest’ultimo versetto, posto in chiusura del cap. 3, costituisce anche un parametro di confronto-scontro con quanto seguirà in apertura del cap. 4.
Capitolo Quarto
Introduzione
Nel cap. 3 Giacomo aveva accennato ai grandi mali che può procurare la lingua (3,5), definita “mondo dell’iniquità” e indomabile male ribelle pieno di veleno (3,6-8), a cui si può porre rimedio soltanto conformando il proprio vivere alla sapienza che viene dall’alto (3,13). Essa infatti è libera dalle passionalità che inquinano l’uomo e viziano gravemente i suoi rapporti sociali, perché appartiene al mondo divino e ha come parametro di riferimento l’amore di Dio che si fa amore per il prossimo (3,17). Ora nel quarto capitolo l’autore, riprendendo idealmente i vv. 3,6-8 e in particolare 3,16, dimostra gli effetti nefasti e distruttivi a cui le comunità, mosse al proprio interno dalla gelosia e dallo spirito di contesa, vanno incontro, effetti che in 3,16b sintetizza e in qualche modo anticipa con l’espressione “c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni”.
La struttura del Quarto Capitolo può essere suddivisa in due sezione:
Prima Sezione: vv. 1-12 in cui vengono presentati nella loro cruda durezza i mali che affliggono le comunità (vv. 4,1-3), qualificate come adultere poiché si sono conformate alle logiche del mondo tradendo le aspettative di Dio (v. 4,4). Ecco dunque la necessità di una radicale conversione, intesa come un umile ritorno a Dio, purificando (vv. 4,5-10) i propri cuori dalla nefasta sapienza umana, che è terrena, carnale e demoniaca (3, 15). Il tutto si chiude con un’accorata esortazione del pastore che invita le comunità a non sparlare gli uni degli altri, sostenendo il richiamo con una motivazione teologica (4,11-12).
Seconda Sezione: con i vv. 13-17 l’autore mette in rilievo l’orgogliosa sicurezza con cui queste comunità si stanno muovendo, ritenendosi padrone dei propri destini. Anche questa sezione si chiude con un’esortazione a compiere il bene di cui esse sono capaci in virtù del loro nuovo stato di vita (1,18.21).
Struttura della Prima Sezione
La prima Sezione si suddivide in due parti:
· Prima Parte: la denuncia dei mali e la necessità della conversione (vv. 1-10);
· Seconda Parte: l’esortazione teologicamente fondata (vv. 11-12).
La prima parte si snoda su tre momenti che mettono in rilievo la gravità dello stato di vita in cui le versano le comunità:
A) vv. 1-3: descrivono i mali che le affliggono: guerre, liti, passioni, bramosie, omicidi, invidie, incapacità a chiedere le cose di cui abbisognano, poiché tutte intente a soddisfare i propri piaceri. Uno stato di vita quindi del tutto incompatibile con le novità spirituali a cui sono state generate dalla Parola (1,18).
B) v. 4: Definizione dell’identità negativa di queste comunità, che Giacomo qualifica come adultere, perché, abbandonato il mondo di Dio in cui sono state collocate per mezzo della fede e del battesimo, sono ritornate al vecchio modo di vivere.
A’) vv. 5-10: appello scritturistico alla conversione e all’umile ritorno a Dio.
La struttura di questa prima parte è concentrica: alla denuncia dei mali (A) corrisponde il forte appello alla conversione (A’). Al centro si colloca la vera identità di queste comunità, che ne definisce la natura: sono traditrici e adultere (B).
La seconda parte è costituita da un’esortazione (v. 11a) che viene motivata teologicamente (vv. 11b-12). Con questa esortazione Giacomo chiude la Prima Sezione e lascia intuire in quella domanda finale: “ma chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?” l’orgoglio e l’arroganza che agitano gli animi delle comunità e che costituiranno l’oggetto di riflessione della Seconda Sezione (vv. 13-17).
Struttura della Seconda Sezione
Senza voler scendere in ulteriori dettagli, potremmo dire che questa sezione è composta da due momenti fondamentali: a) un’analisi del comportamento arrogante delle comunità (vv. 13-16); b) una dichiarazione conclusiva dell’intero cap. 4 dal forte sapore sapienziale-moralistica: “Chi sa fare il bene e non lo compie, commette peccato” (v. 17).
Commento al Capitolo Quarto
Da che cosa derivano le guerre ...: già con il cap. 3 Giacomo aveva posto in rilievo le fonti del disordine morale che agitavano le comunità: “Non è questa la sapienza che viene dall'alto: è terrena, carnale, diabolica; poiché dove c'è gelosia e spirito di contesa, c'è disordine e ogni sorta di cattive azioni.” (Gc 3,15-16). C’è dunque una sapienza che nasce dall’uomo, un uomo che è decaduto e quindi facile preda della sua passionalità e della sua carnalità. Questa sapienza si contrappone a quella che “viene dall’alto”, per questo è definita “terrena”, provenendo essa dal basso. È una sapienza che è inquinata dalla carnalità delle passioni e dunque è priva di quella lucidità superiore che consente al vero saggio di cogliere il senso più autentico delle cose, in cui Dio ha inscritto una legge naturale che le conduce al loro naturale compimento. Una sapienza che si basa sui ragionamenti umani che spesso sono offuscati da rivalità, prese di posizione, malinteso senso del progresso, gelosie, spirito di contesa; tutte cose queste dalle quali proviene ogni disordine e ogni sorta di cattive azioni. Che cosa sia dunque questo disordine e quali siano le cattive azioni, a cui l’autore fa riferimento, vengono ora introdotte nel cap. 4.
Il tono di questo capitolo si fa molto duro con tratti polemici; l’espressione “fratelli miei” o “fratelli miei carissimi”, che in tutta la lettera ricorre quindici volte, soltanto in questo capitolo compare una volta sola (v. 11a), mentre per la prima volta Giacomo si rivolge ai membri di queste comunità definendoli “adultere” (moicalìdes). Un capitolo questo che si costituisce come una vera e propria requisitoria e un formale atto di accusa, appena stemprato dall’esortazione di 11a.
Giacomo con una doppia domanda retorica entra subito nel vivo della questione: con la prima domanda definisce il problema che affligge la comunità: litigi e guerre, denunciando implicitamente i forti stati di agitazione che sconquassano queste comunità; con la seconda domanda ne indica l’origine: le passioni che sono nelle vostre membra. La situazione che agita queste comunità è radicata profondamente nelle comunità stesse e ha il suo epicentro nel cuore dei suoi membri. Questo profondo radicamento viene definito da Giacomo con una duplice espressione “en imìn” che viene tradotto “in mezzo a voi”, ma che letteralmente significa “in voi”, e con “en toìs mélesin imòn” (nelle vostre membra). La particella “en” indica uno stato in luogo e quindi il luogo stabile di una dimora, la profonda interiorità dove hanno sede i contrasti che stanno turbando queste comunità. È dunque dall’interno dell’uomo che escono ogni agitazione e ogni cosa cattiva, infatti: “... non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo.” (Mc 7,15). Ed è quindi dal suo interno che bisogna partire per rinnovare i rapporti sociali e le strutture della società, poiché la decadenza di ogni civiltà e di ogni società ha la sua origine primaria nel cuore dell’uomo decaduto. È questo che bisogna rigenerare a vita nuova alimentandolo alla sorgente della Parola, che fa dell’uomo umano una nuova creatura rigenerata in Cristo.
Proprio in tal senso la Gaudium et Spes[60] afferma al § 22: “In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm5,14) e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo a se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione. Nessuna meraviglia, quindi, che tutte le verità su esposte in lui trovino la loro sorgente e tocchino il loro vertice. Egli è “ l'immagine dell'invisibile Iddio ” (Col 1,15) è l'uomo perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio, resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato”. Per questo, conclude il Vaticano II (1962-1965) al § 41 : “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo”.
Bramate e non riuscite a possedere e uccidete ...: con i vv. 2-3 Giacomo illustra brevemente gli effetti di questo disordine interiore che si riflette e si espande nelle relazioni sociali inquinandole profondamente. Il dramma di questo modo di comportarsi, che è proprio di una situazione di peccato, dell’uomo vecchio, che si muove ancora secondo le vecchie logiche della carne, sono sinteticamente espresse in alcuni verbi: “Bramate”, “invidiate”, “combattete e fate guerra”, “uccidete”, “non chiedete”, “chiedete male”. Si noti come l’autore al sostantivo (bramosie, invidia, omicidio, domanda) preferisce usare il verbo che esprime sempre un’azione in atto e contiene in se stesso un suo dinamismo perverso che opera costantemente, creando quell’agitazione e quel disordine che sta distruggendo queste comunità. È l’azione stessa del peccato, inteso come modo sbagliato di vivere che degrada l’uomo, togliendogli ogni dignità, che invece il salmista gli aveva riconosciuto fin dalla sua origine e che Cristo è venuto a ristabilire: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato ...” (Sal 8, 5-6).
... per spendere per i vostri piaceri: questa espressione in greco è introdotta dalla particella “ina” che dà all’intera frase un senso finale e di scopo. Ecco dunque giunti all’epicentro di tutto questo terremoto che sta sconquassando intere comunità: il soddisfacimento dei propri piaceri, in ultima analisi del proprio Io. Il termine greco usato per indicare i piaceri è “edoné”, che indica il piacere carnale o che ha attinenza con questo. Sono dunque comunità che si muovono non più secondo le logiche dell’uomo nuovo, che cammina nello Spirito, ma obbediscono alla legge della carne, che Paolo così sintetizza: “Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come gia ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5,19-21). Tutto ciò è sotteso da un orientamento di vita sbagliato che ha come meta finale il culto del proprio Io e il soddisfacimento delle sue esigenze anziché di quelle di Dio. Pertanto serve dare urgentemente un senso nuovo, un nuovo orientamento al nostro vivere se vogliamo salvare l’uomo decentrato da Dio perché incentrato su se stesso. Ecco dunque l’esortazione dell’autore della Lettera agli Efesini: “Ma voi non così avete imparato a conoscere Cristo, se proprio gli avete dato ascolto e in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, per la quale dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera. Perciò, bando alla menzogna: dite ciascuno la verità al proprio prossimo; perché siamo membra gli uni degli altri. Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date occasione al diavolo. Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità. Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo” (Ef 4,20-32).
Gente infedele! Non sapete ...: come dunque definire una comunità che dopo aver conosciuto il mondo di Cristo e dello Spirito, lo abbandona per ritornare all’uomo vecchio, fatto di carne e di passioni? È lo stesso lamento che Paolo rivolge alle comunità della Galazia: “ora invece che avete conosciuto Dio, anzi da lui siete stati conosciuti, come potete rivolgervi di nuovo a quei deboli e miserabili elementi, ai quali di nuovo come un tempo volete servire? [...] Temo per voi che io mi sia affaticato invano a vostro riguardo” (Gal 4,9.11).
Ecco perché Giacomo si rivolge in modo significativo a queste comunità definendole “moicalìdes”, cioè adultere[61]. Il termine non è usato a caso dall’autore. Egli è un ebreo che sta parlando a dei giudeo-cristiani, quindi a persone che provengono dal giudaismo e conoscono bene come questo si fondi sull’Alleanza, che definisce i rapporti tra Dio e il suo popolo come un matrimonio in cui Dio è lo sposo e il popolo la sposa[62]. Con questa espressione i profeti (e qui Giacomo, come nei versetti seguenti, ricalca le orme degli antichi profeti) definivano le infedeltà del popolo, che abbandonava il vero culto a Dio per dedicarsi a quelli cananei, commettendo ogni sorta di nefandezza[63].
Ecco dunque il senso vero di questo adulterio e infedeltà: amare il mondo e odiare Dio. Si noti come qui l’autore usi termini fortemente contrastanti e contrapposti tra loro: amore-odio, mondo-Dio, per mettere in rilievo la gravità del comportamento di queste comunità. Esse si trovano di fronte ad una scelta esistenziale: il mondo, da cui provengono, o Dio, a cui erano stati generati con una Parola di verità ed erano divenuti per questo nuove creature in Cristo (1,18). Qui non si tratta di una qualche violazione della Torah o di un qualche occasionale comportamento disdicevole per la nuova fede in Cristo, ma di un vero e proprio abbandono della Parola di verità per riorientare le proprie vite verso il passato, adottando una condotta in totale dissonanza con la nuova vita a cui appartenevano. Un comportamento questo che fu duramente stigmatizzato da Gesù stesso: “Ma Gesù gli rispose: <<Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio>>” (Lc 9,62).
O forse pensate che la Scrittura dichiari ...: l’autore riprende il linguaggio dei profeti che concepiscono il rapporto tra Dio e il suo popolo in termini sponsali. Ed ecco che l’amore offeso e tradito si trasforma in gelosia di Dio nei confronti di coloro che Egli ha amato e fatto suoi. il tema della gelosia di Dio ripercorre tutte le pagine più significative dell’A.T.[64] e compare sempre là dove vi è stata violazione grave dell’Alleanza, mentre Dio stesso si definisce come geloso, anzi il suo nome è Geloso: “Tu non devi prostrarti ad altro Dio, perché il Signore si chiama Geloso: egli è un Dio geloso” (Es 34,14) per questo Dio avverte duramente il suo popolo: “Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano” (Es 20,5). Dio dunque non ammette concorrenti nel suo rapporto con Lui.
Fin dagli inizi della creazione Egli ha posto dentro di noi uno Spirito che ci ha fatti sua immagine e somiglianza[65] rendendoci compartecipi in tal modo della sua stessa vita divina, e configurandoci a Lui. Questa creazione primordiale, rovinata dalla colpa, è stata rigenerata dalla risurrezione di Cristo e costituita nuovamente in Dio per mezzo di Cristo e del suo Spirito[66]. L’uomo pertanto, ristabilito nuovamente ad immagine e somiglianza di Dio in Cristo è nuovamente chiamato, in quanto nuova creatura, a conformare il suo stile di vita alle nuove realtà generate nuovamente in lui da Cristo per mezzo del suo Spirito[67]. A ragione dunque Giacomo conclude al v. 6a : “Ci dá anzi una grazia più grande”, la grazia della nuova vita in Cristo, dandoci come caparra, come anticipo di questa nuova vita il suo stesso Spirito (Ef 1,13-14).
Sottomettetevi dunque a Dio ...: con i vv. 7-10 l’autore riporta numerose citazioni scritturistiche veterotestamentarie che dovevano ricorrere in modo abbastanza usuale tra le comunità, poiché le ritroviamo anche nella Prima Lettera di Pietro e dovevano in qualche modo far parte del patrimonio catechistico impartito ai catecumeni. Il percorso catecumenale, che durava all’incirca tre anni, era un cammino di profonda conversione che doveva portare ad un radicale cambiamento di vita, per entrare in una nuova dimensione esistenziale, rigenerata dalla luce del Risorto e scandita dall’amore vicendevole. Sono versetti dal forte sapore sapienziale che parlano della necessità di un deciso e forte cambiamento di rotta e che sintetizzano l’intera predicazione dei profeti.
Il primo invito è quello di sottomettersi a Dio. Il richiamo, qui, ai vv. 4,13-16, che presentano una comunità arrogante, piena di orgoglio e che ritiene di possedere nelle sue mani i propri destini, è molto forte. La conversione comporta dunque una rinuncia al proprio Io per mettere al centro della propria vita Dio con le sue esigenze. Ci deve essere quindi un riorientamento della propria vita dall’Io a Dio.
... resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi: un’esortazione questa che segue immediatamente quella del sottomettersi a Dio e forma con essa un unico versetto (v. 7). È quanto mai significativo questo accostamento: sottomettersi a Dio e resistere al diavolo. C’è qui implicito un richiamo al dramma del Paradiso Terrestre, là dove il serpente antico, ma sempre nuovo, spinge i nostri progenitori non solo a ribellarsi a Dio, ma mettersi al suo posto: “Ma il serpente disse alla donna: <<Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male>>” (Gen 3,4-5). È la spinta dell’uomo a diventare completamente autonomo da Dio. È questa la radice e la matrice di una vita impostata sul peccato: disconoscere il proprio stato di creaturalità, dichiarando la propria indipendenza da Dio, anzi conducendo una vita in sua opposizione. Gli esiti di questo comportamento sono devastanti poiché portano l’uomo a perdere la propria identità di creatura, e disconoscendo ogni limite e ritenendo di essere lui il fautore dei propri destini, arriva alla distruzione di se stesso e della sua società. È il mito della Torre di Babele (Gen 11,1-9) che si ripete drammaticamente nel corso della storia dell’umanità, la quale a causa della sua ribellione a Dio viene afflitta dalla confusione delle lingue, perde cioè la sua identità, la sua capacità di relazionarsi e di comunicare, perde il senso del proprio vivere e va alla deriva. Fine della storia!
Ecco dunque il pressante invito: “resistete al diavolo”. Un’esortazione questa che viene riportata sostanzialmente identica anche in 1Pt: “Siate temperanti, vigilate. Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede ...” (1Pt 5,8-9a). Ecco pertanto le armi che il credente deve usare: temperanza, vigilanza e saldezza nella fede, intesa come un deciso orientamento esistenziale a Dio e una costante apertura di vita alle sue esigenze rivelate nella Parola. Temperanza e vigilanza richiamano una moderazione e un’attenzione nel condurre la propria vita, per evitarne una futile e banale dispersione nelle cose di tutti i giorni, che rischiano di assorbirci allontanandoci lentamente e impercettibilmente da Dio. La parabola delle dieci vergini (Mt 25,1-12) insegna: non dobbiamo mai lasciar spegnere la lampada della fede, che va costantemente alimentata dall’olio della Parola di Dio.
Avvicinatevi a Dio ed Egli si avvicinerà a voi: il termine peccato in greco si dice amartìa e deriva a sua volta dal verbo amartàno che significa fallire, non raggiungere, deviare da ciò che è giusto e vero. Ecco che cos’è il peccato: una colpa esistenziale, un’impostazione sbagliata del nostro modo di vivere, che ci fa deviare dal senso più vero e profondo della vita stessa e ci porta al mancato raggiungimento e al conseguente fallimento degli obiettivi che la vita stessa racchiude in sé e che è la piena affermazione della nostra umanità, del nostro essere uomini; proprio per questo Dio si è incarnato per svelare all’uomo il suo mistero e il senso del suo esserci e del suo esistere e quali sono i suoi destini verso i quali è incamminato. Ecco quindi l’esortazione di Giacomo: “avvicinatevi a Dio”. Si tratta dunque di un ritorno alla Verità del nostro vivere, di una ricerca del Senso del nostro esistere, di una riscoperta del nostro Destino. Avvicinarsi a Dio e Lui si avvicinerà a noi. È questo il cuore della parabola del Figlio prodigo (Lc 15,11-32). Dopo che il figlio si è allontanato dal padre, sperperando tutte le sue sostanze, decide il suo ritorno alla casa paterna. Nel frattempo il padre non va alla ricerca del figlio, ma rimane in attesa, poiché è il figlio che deve capire l’errore e maturare la sua decisione. Soltanto quando il figlio fa il suo ritorno alla casa, il padre gli corre incontro. Dipende dunque dall’uomo decidere il suo ritrovarsi con Dio, poiché Dio quello che doveva fare lo ha già fatto: ha inviato il suo Figlio, ha riscattato l’umanità dal suo invincibile fallimento, le ha consegnato la sua Parola perché in essa ritrovasse il cammino del ritorno alla casa paterna, da cui si era allontanato. Ora Dio, il Padre, è in attesa, ma la salvezza dipende soltanto da noi e ce la stiamo giocando qui, ora, in questa nostra vita; poi, quando il nostro tempo sarà finito, non ci sarà più tempo e le nostre chances finite . Dio non può più fare niente per noi. Egli dunque si avvicinerà nuovamente a noi se noi intraprendiamo il nostro cammino verso di Lui. La strada ci è indicata nella Parola. Nella parabola lucana del ricco e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31) il ricco, nei tormenti dell’inferno, chiede ad Abramo di inviare Lazzaro alla casa dei suoi fratelli perché, vedendo apparire un morto che li ammonisce, si ravvedano per tempo. Ma Abramo gli risponde laconicamente: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. Il cammino della nostra salvezza sta dunque nella Parola.
Purificate le vostre mani ... e santificate i vostri cuori: dopo aver indicato alle sue comunità la necessità di ritornare a Dio, Giacomo ne indica la strada con un forte richiamo in cui risuona l’esortazione del profeta Isaia: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,16-17). Al forte sollecito di purificare il proprio modo di vivere fa da riscontro immediato e conseguente la necessità di santificare il proprio cuore. Un imperativo questo che viene diretto dal Levitico: “Il Signore disse ancora a Mosè: <<Parla a tutta la comunità degli Israeliti e ordina loro: Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo.” (Lv 19,1-2). Non è dunque sufficiente smettere di fare il male, bisogna incominciare a fare il bene. Non si tratta qui di fare qualche opera buona, cercando di evitare qualche cattiveria, ma deve innescarsi un processo di evoluzione interiore che ci porta nella stessa dimensione divina, configurando il nostro vivere alle esigenze di Dio, rivelateci nella sua Parola. Vediamo infatti come Isaia con una serie di verbi, che esprimono il mettersi in moto di un certo dinamismo interiore che si fa azione manifesta, crea una gradualità evolutiva del proprio vivere che impegna sempre più l’uomo a livello esistenziale: si va dallo smettere certi comportamenti, che ci qualificano negativamente, per arrivare all’interessamento fattivo del più debole e bisognoso, passando attraverso un esercizio quotidiano del bene e una ricerca dello stesso bene, che ci deve qualificare esistenzialmente. L’ammonizione del Levitico: “Siate santi ...” innesca in noi un processo di conversione continua che ci spinge a conformare il nostro vivere alle esigenze di Dio, che per sua natura è il Santo.
L’ammonizione del v. 8 termina con l’espressione “o irrisoluti”, indicando lo stato di vita vacillante di quelle comunità: avevano abbracciato la nuova fede in Cristo, in loro era stata innestata una nuova vita, ma vivevano ancora alla maniera umana. Questa incertezza nel porsi davanti a Cristo, questa irrisolutezza nello schierarsi decisamente a suo favore, ma cedendo spesso ai ricordi della vita passata non ancora pienamente superata, doveva essere una caratteristica delle prime comunità credenti se Giovanni nell’Apocalisse rileva il duro monito di Dio a queste comunità che vivevano tiepidamente il loro cristianesimo: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca.” (Ap 3,15-16).
Nel cristianesimo non c’è spazio per le incertezze o per i mezzi toni, poiché tali comportamenti sono già un porsi contro Dio: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde.” (Mt 12,30). Non ci sono vie di mezzo o in qualche modo accomodanti.
Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà: il v. 10 chiude questa prima sezione dedicata all’arroganza di queste comunità così litigiose e instabili pur nella novità di vita che avevano abbracciato: “umiliatevi davanti a Dio ed egli vi esalterà”. Anche questa espressione doveva far parte della catechesi catecumenale, che accompagnava i candidati all’entrata nella nuova comunità messianica degli ultimi tempi. Sostanzialmente identica la troviamo in 1Pt: “Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio, perché vi esalti al tempo opportuno” (1Pt 5,6). Umiliarsi davanti a Dio non significa disprezzare se stessi, ma riconoscere il proprio stato di creaturalità, riconoscere che l’uomo non ha tutte le risposte in se stesso, ma che il suo vivere dipende da altri e che sopra di lui e al di là di lui esistono realtà che lo sovrastano, delle quali è già in qualche modo partecipe e verso le quali è in cammino. L’umiltà dunque diventa un vero atto d’intelligenza, di comprensione dello stato delle cose e del come noi ci collochiamo in esse e in quale modo ad esse ci dobbiamo relazionare. Dall’umiltà nasce la saggezza del vivere. Per questo la contropartita di tale nostra coscienza e del nostro conseguente modo di vivere sarà l’esaltazione. Essa, infatti, è la conseguenza del nostro aderire a Cristo, lasciandoci assimilare a lui esistenzialmente poiché ci assicura Paolo che “Se siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6,5-8). Il credente dunque è chiamato a lasciarsi assorbire da quel processo di umiliazione-esaltazione che ha segnato l’intero vivere di Cristo e che Paolo ricorda nel suo stupendo inno cristologico: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò[68] se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 5-11). Cristo dunque ha operato uno svuotamento di se stesso per conformarsi al disegno del Padre e questo comportò un suo totale abbassamento che lo portò ad una tra le più umilianti e crudeli morti, quella di croce. Ma fu proprio questo suo conformarsi esistenzialmente al disegno del Padre (Gv 4,34) che lo aprì alla pienezza della vita. Vivere Cristo, lasciarsi assimilare a lui significa lasciar operare in noi proprio questo processo di umiliazione-esaltazione che non porta all’offesa della dignità umana, ma alla sua riabilitazione in Cristo.
Non sparlate gli uni degli altri, fratelli: il tema della lingua in Giacomo è centrale; ne ha accennato in 1,19 dove invita ad esser pronti ad ascoltare, ma lenti nel parlare; in 1,26 dove dichiara vacua la religiosità di chi non frena la lingua; in 3,1-2 dove invita a non farsi maestri in mezzo agli altri, considerando perfetto colui che non manca nel parlare, ed ampiamente poi ne tratta nei versetti seguenti 3,3-12 nei quali il tema della lingua trova la sua centralità in 3,6-8 e infine ne fa vedere gli esiti nefasti in 4,1-12. Perchè tanta preoccupazione? Con questo scritto Giacomo si rivolge agli ebrei i quali probabilmente si facevano saccenti tra gli etnocristiani, cioè cristiani provenienti dal paganesimo. Questi giudei infatti erano già ammaestrati nelle cose di Dio, conoscevano la Torah, erano figli dell’Alleanza, avevano lunghe e ben radicate tradizioni religiose e si sentivano per questo superiori ai pagani convertiti e nei loro confronti si ergevano a sapienti e maestri, provocando la naturale reazione degli altri. Da qui liti, discordie e discriminazioni. Doveva essere questo un comportamento piuttosto diffuso tra i giudeo-cristiani se anche Paolo ne fa cenno nella sua lettera ai Romani: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi[69]; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. [...] Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità...” (Rm 2,1.17-20). Come si vede il problema non era da poco e la questione dei rapporti tra giudeo-cristiani ed etno-cristiani, piuttosto tesi, verrà affrontato anche dall’autore della Lettera agli Efesini che cercherà di far capire ad entrambi come ogni ostacolo che li separava e li contrapponeva (la Torah) era stato tolto di mezzo da Cristo che ha riconciliato tutti in se stesso facendo dei due (ebrei e non ebrei) un unico popolo redento (Ef 2,10-18)[70]. Non c’era più dunque motivo di sparlare gli uni degli altri perché tutti erano stati introdotti da Cristo nella nuova dimensione di uomini redenti, figli di un unico Padre.
Chi sparla del fratello o giudica il fratello ...: nel v. 11b Giacomo stabilisce un interessante parallelismo tra il “fratello” e la “legge”. Il parallelismo è dato dagli stessi verbi “sparlare-parlare contro” e “giudicare” parimenti rivolti sia al fratello che alla legge, creando tra loro una sorta di identità. Non vi è pertanto differenza per l’autore tra Legge e Fratello sia perché la Torah prevedeva di amare il proprio prossimo come se stessi (Lv 19,18), sia perché il Fratello era investito dalla stessa Legge che lo tutelava e, quindi, ne faceva in qualche modo parte. Offendere pertanto il fratello era porsi contro la Legge e giudicarlo era un giudicare e mettere in discussione la stessa Legge che comandava di amarlo. Pertanto questo modo di porsi nei confronti del Fratello denunciava un comportamento arrogante e presuntoso, che urtava fortemente contro l’esortazione del v. 4,10a: “Umiliatevi davanti al Signore”. Questo atteggiamento arrogante e superbo inoltre andava a porsi in diretta concorrenza, entrando in collisione, con un altro giudice e legislatore supremo, la cui volontà si rispecchiava nella Legge stessa. In ultima analisi si trattava di porsi contro Dio stesso. Un confronto questo tra Dio e l’uomo che ci riporta ancora una volta al dramma del Paradiso Terrestre, dove l’uomo si misurò con Dio e ne uscì tragicamente perdente. Del resto anche Gesù porrà una sorta di identità tra il prossimo e se stesso, così che nell’altro il credente è invitato a vedere la sacramentalizzazione stessa del suo Maestro: “In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.” (Mt 25,40.45).
E ora a voi che dite: <<Oggi o domani andremo ...: i vv. 11b-12 e la loro conclusione “chi sei tu che ti fai giudice del tuo prossimo?” lasciavano trasparire tutta l’orgogliosa arroganza e tutta la protervia di questi giudeo-cristiani, introducendo in tal modo i vv. 13-16. Questi versetti, che sviluppano nel loro interno una sorta di processo, hanno questa struttura:
a) v. 13: viene enunciato il comportamento presuntuoso di chi ritiene di possedere i propri destini;
b) v. 14: costituisce il momento centrale del discorso e mette in rilievo il tallone d’Achille di questi presuntuosi che credono poter gestire il loro futuro;
c) v. 15: viene illustrato il comportamento del vero saggio, cosciente dei propri limiti. Questo versetto si contrappone al v. 13.
d) v. 16: chiude il discorso, emette un giudizio e va a sentenza: ogni vanto di questo genere è iniquo.
Con il v. 13 l’autore denuncia in modo specifico l’arroganza che sottende il comportamento di queste comunità, che formulano con decisione e sicurezza progetti per il loro domani, come fosse un tempo questo ormai solidamente acquisito, trattando in tal modo il futuro come uno spazio che appartiene pacificamente a loro. È sempre l’eterno conflitto dell’uomo che si oppone a Dio e ritiene di poterne fare a meno, grazie alla sua scienza e alla sua tecnologia, che formula calcoli, emette valutazioni, calcola budgets, opera proiezioni, accaparrandosi spazi che ancora non gli appartengono: il futuro. Queste certezze future che l’uomo accantona qui nel presente, ritenendole dati già acquisiti, sono in realtà soltanto delle ipotesi molto fragili; una fragilità che nasce proprio dal fatto che nessuno conosce il proprio domani. Ecco il grande limite dell’uomo: passato e futuro non gli appartengono: egli può vivere soltanto nella fragile, fuggevole e irrefrenabile precarietà del suo presente. L’uomo è padrone in realtà soltanto di un presente che continuamente gli sfugge di mano.
Ecco pertanto il vero comportamento saggio: “Se il Signore vorrà, vivremo e faremo ...”. Quel “Se” posto davanti a dei verbi al futuro dice quanto questo sia condizionato e di fatto inaccessibile all’uomo e come tale futuro in realtà dipenda da Dio. L’autore con queste sue valutazione non vuole precludere ogni spazio futuro ai doverosi progetti dell’uomo, né tantomeno lo vuole rinchiudere in un presente così sfuggevole ed aleatorio. L’uomo, proprio per la sua natura fornita di autocoscienza e di intelligenza, supportate da una capacità di autodeterminazione, ha il dovere di proiettarsi nel futuro verso il quale è incamminato, ma non deve mai dimenticare la sua condizione di creaturalità per cui tutto per lui è relativo e contingente ed egli è come un fiore del campo che al mattino germoglia e fiorisce e alla sera è falciato e dissecca (Sal 89, 5-6; Is 40,6); infatti, ricorda Pietro “ ... tutti i mortali sono come l'erba e ogni loro splendore è come fiore d'erba. L'erba inaridisce, i fiori cadono, ma la parola del Signore rimane in eterno. E questa è la parola del vangelo che vi è stato annunziato” (1Pt 1,24-25).
Ed ecco quindi la considerazione conclusiva che contiene in sè la sentenza finale di condanna: “ ... ogni vanto di questo genere è iniquo”, poiché esso è un atto che si pone in opposizione a Dio ed entra in concorrenza con Dio stesso, riproducendo in se stesso il dramma del Paradiso Terrestre: “sarete come Dio”.
Chi dunque sa fare il bene ...: il v. 17 chiude il quarto capitolo e sintetizza in sè il comportamento del vero credente: “Chi dunque sa fare il bene e non lo compie, commette peccato”. Questa massima dal sapore sapienziale enuncia il principio del dovere morale di compiere il bene. Secondo la prospettiva di Giacomo tale principio coinvolge il credente sul piano del fare. È pertanto un principio etico che ne deve guidare la vita, ma che possiede in sè una profonda radice teologica.
Il saper fare il bene indica nel credente una capacità intrinseca di poterlo fare. Nessuno dunque è fondamentalmente cattivo, pur possedendo in se stesso tutta la fragilità della sua natura decaduta. Ogni credente infatti è stato generato dalla Parola di verità e quindi possiede in se stesso il DNA spirituale di questa Parola, che lo fa appartenere al mondo dello Spirito e lo costituisce una nuova creatura (1,18). Egli è una persona consacrata a Dio nel battesimo e nella cresima, appartenente al Signore (Rm 14,8), e in quanto tale è chiamato ad essere operatore di bene. Questa sua capacità che è propria della sua natura di redento e partecipe già fin d’ora della stessa dimensione divina (Col 1,12-14) non gli dà però la certezza di compiere il bene che dovrebbe. Questo tesoro infatti è posto in un vaso di creta (2Cor 4,7). Tale profondo contrasto tra la capacità di bene e l’incapacità di farlo a causa della nostra natura di peccato, è drammaticamente lamentata da Paolo: “infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” (Rm 7,19-24). È tutto qui il dramma dell’uomo che si muove tra la sua capacità di fare il bene, ma è portato a non compierlo, cioè a non lasciar trasparire, conformandone la vita, quelle realtà divine in cui è stato collocato per mezzo della fede e del battesimo; esse infatti urtano contro una natura decaduta, che ha logiche completamente diverse da queste realtà dello Spirito che vivono in noi. Fare il bene non è facile perché si scontra con questa nostra caducità; tuttavia ogniqualvolta che noi compiamo il bene generiamo al mondo un po’ di quella nuova dimensione spirituale che è stata inaugurata in noi da Cristo nella risurrezione. Paolo ricorda questo particolare nella sua lettera ai Romani: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” (Rm 8,22-23). Questi gemiti di sofferenza nascono proprio dallo stridente contrasto tra le esigenze delle realtà spirituali che vivono in noi e quelle della carne, che invece ha desideri contrari allo Spirito. Generare il bene è sempre un parto difficile. Il credente quindi vive in uno stato permanente e continuo proprio della partoriente, che è impegnata nella sofferenza a generare una nuova vita. Infatti sottolinea Paolo “la carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.” (Gal 5,17). Gesù stesso rileverà questo contrasto quando nel Getsemani trova i suoi discepoli addormentati: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Mt 26,41).
Conclude Giacomo, chi non compie il bene che sa fare commette peccato. Quest’ultima espressione in greco è resa in modo più significativo ed efficace: “amartìa autò estìn”[71], che un po’ liberamente potremmo tradurre “il peccato gli appartiene”, indicando in tal modo la sua dimensione di appartenenza, che lo contrappone esistenzialmente a Dio. Ancora una volta va precisato che ciò che contrappone l’uomo a Dio non è tanto il non compiere una qualche azione buona o il compierne una cattiva, ma è l’impostazione di vita, l’orientamento esistenziale che colloca l’uomo nel mondo del peccato e lo rende intrinsecamente cattivo, precludendogli ogni spazio di salvezza.
Quinto Capitolo
Introduzione
Il cap. 5 potremmo definirlo come il capitolo delle raccomandazioni finali di questa ipotetica lettera[72] che l’autore scrive ai giudeo-cristiani. Esso si suddivide in quattro parti:
1. vv. 1-11 con i quali l’autore riprende e completa i temi già introdotti con 1,9-11; 2,6a-7 (denuncia dei ricchi e implicita condanna del loro deprecabile comportamento) e con 1,2-4 (la necessità della pazienza, intesa come atteggiamento di attesa fiduciosa verso la venuta del Signore), il tutto collocato in una prospettiva escatologica.
2. v. 12 introduce la questione sul giuramento, ma in realtà sottende un tema più profondo: la correttezza e la reciproca fiducia nei rapporti sociali; con esso l’autore introduce il tema dei rapporti tra il credente e la società civile, mentre con i successivi vv. 13-20 Giacomo delinea alcuni aspetti nei rapporti interni alla comunità;
3. vv. 13-18 affrontano il tema della condivisione del proprio vivere la fede con la comunità in ogni situazione, sia lieta che triste;
4. vv. 19-20 si pongono a completamento e a conclusione dei vv. 13-18: la correzione fraterna nei confronti di sbaglia.
La prima parte, vv. 1-11, è scandita da due momenti: a) la denuncia dell’iniquo e detestabile comportamento dei ricchi (vv. 1-6); b) la risposta cristiana sia a questo deprecabile comportamento che alle inevitabili difficoltà della vita che, più in generale, colpiscono i credenti, in particolar modo quelli del ceto più debole (vv. 7-11).
Vi è dunque una sostanziale unità e una complementarietà letteraria e tematica in questa pericope (vv 1-11) dettate da tre elementi:
· La venuta del Signore che si preannuncia di condanna per i ricchi (vv. 3b; 5b) e di giustizia per gli oppressi (vv. 7; 8; 9);
· La pazienza quale risposta all’iniquo comportamento dei ricchi è giustificata dall’imminente ritorno del Signore, giusto giudice;
· La particella “oân” (ùn, pertanto), che lega strettamente il secondo momento (vv. 7-11) con il primo (vv. 1-6).
La seconda parte, composta dal solo v. 12, si colloca sostanzialmente al centro di tutto il quinto capitolo e funge da trait-d’union tra la prima parte (vv. 1-11) e la terza-quarta parte del capitolo. Il tema affrontato è quello dei giuramenti, che all’interno del mondo giudaico si sprecavano, ma che nascondevano un problema più profondo: la scorrettezza e la diffidenza nei rapporti sociali sia nei confronti del mondo pagano (vv. 1-11) sia nei confronti degli stessi membri che formano le comunità credenti (vv. 13-20). Il vero credente deve sempre tenere un comportamento corretto e onesto, improntato alla fiducia reciproca.
La terza parte, costituita dai vv. 13-18, è interamente dedicata ai rapporti interni alla comunità cristiana, che devono essere improntati alla condivisione della comune vita di fede. Gioia e sofferenza devono essere motivo di preghiera comune, che qui l’autore sembra collocare in una prospettiva di celebrazione liturgica comunitaria. Anche la malattia, sia essa spirituale (il peccato) che fisica (stato di salute precario) deve costituire un elemento di condivisione con la comunità. Di conseguenza chi è ammalato grave deve convocare gli anziani della comunità perché preghino su di lui a nome di tutta la comunità; così come chi è colpito dalla malattia del peccato è chiamato a rendere partecipe del suo stato di vita i propri fratelli nella fede, che a loro volta confessano il loro. Questa reciproca confessione delle proprie debolezze trova la sua radice nel fatto che la comunità stessa è la depositaria della salvezza e del perdono.
La quarta parte, formata dai vv. 19-20, è anch’essa riferita ai rapporti interni tra i credenti. Il comportamento di questi non deve mai essere indifferente agli altri, poiché ogni credente è reso responsabile della salvezza degli altri suoi fratelli. Vedremo nei commenti come questa regola comunitaria del richiamo fraterno sarà ricordata anche da Matteo (Mt 18,15-18).
Commento al Capitolo Quinto
E ora a voi, ricchi, piangete e gridate ...: che Giacomo non prediligesse particolarmente i ricchi già lo si era intuito nei capitoli precedenti, in cui si preannunciava come questi sarebbero svaniti assieme alle loro imprese come un fiore d’erba (1,10-11), mentre il comportamento iniquo, che profanava il loro appartenere a Cristo (ovviamente qui l’autore si riferiva ai convertiti), viene denunciato con fermezza (2,6-7). Ora Giacomo riserva a questa categoria una dura requisitoria, che ha il tono di un giudizio e di una condanna senza appello.
Il linguaggio usato è quello proprio degli antichi profeti, quando questi si scagliavano contro i misfatti della classe dirigente e benestante che angariavano e calpestavano i poveri[73] e che il Gesù lucano riprenderà rivolgendosi proprio a coloro che vivevano una vita agiata soddisfatti di loro stessi (Lc 6,24-26). Di certo l’essere ricchi e il possedere molti beni non si pone contro il vivere cristiano, ma è l’uso smodato e iniquo di questi beni, il fondare la propria sicurezza su di essi, la loro ricerca che si pone al centro della propria vita e dei propri interessi che allontanano il credente dai veri beni spirituali di cui egli è rivestito e verso i quali è incamminato. Gesù stigmatizza questo comportamento nella parabola lucana del ricco stolto[74]: “Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia. Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà? Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Lc 12,19-21). La motivazione che deve spingere il cristiano a pensare alle cose di lassù più che a quelle della terra ci viene offerta dall’autore della lettera ai Colossesi: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l'ira di Dio su coloro che disobbediscono. Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova, per una piena conoscenza, ad immagine del suo Creatore” (Col 3,1-10).
La prospettiva è dunque escatologica: il credente vive in questa dimensione spazio-temporale, ma il suo essere è già proiettato nel mondo futuro, che lo deve condizionare nel suo oggi. Le realtà ultime pertanto devono illuminare il vivere del credente e a queste egli deve conformarsi esistenzialmente.
Questa invettiva che Giacomo scaglia contro i ricchi li colpisce in duplice modo:
a) nei loro beni, ai cui hanno consacrato la loro vita; questi vengono definiti come già imputriditi, divorati dalle tarme, consumati dalla ruggine. Un linguaggio chiaramente metaforico per indicare la vacuità di questi beni e tutta la loro inconsistenza, poiché tutto ciò che è posto in questa nostra dimensione spazio-temporale è soggetto al divenire, che inevitabilmente consuma e distrugge tutto. Niente resiste al logorio del tempo e tutto ciò che in esso esiste è relativo. Ed è proprio questa fragilità del nostro vivere e delle cose che ci accompagnano in questo nostro breve passaggio terreno che farà esclamare a Qoelet[75]: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? [...] Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qo 1,2-3.14).
b) nel loro comportamento improntato alla più profonda iniquità e superficialità del vivere: defraudano i lavoratori del loro giusto salario, gozzovigliano e si saziano di piaceri, condannano e uccidono il giusto, che non può opporre loro resistenza. L’autore punta il dito su due livelli di comportamento: individuale, in cui si stigmatizza la sfrenata ricerca del soddisfacimento delle proprie esigenze al di là del giusto bisogno, cosicché questa si traduce in iniquità nei rapporti sociali attraverso un proprio arricchimento speso a danno dei propri subalterni, costretti a porsi a loro servizio per sopravvivere; e per mezzo di ingiusti processi contro i più deboli, che non riescono, a motivo della loro precaria condizione, a far valere le proprie ragioni, per cui soccombono ingiustamente. Non si tratta dunque di una qualche mancanza in cui inevitabilmente si cade per la fragilità della propria natura umana, bensì di un comportamento tale che diventa stile di vita, modo di comportarsi e qualifica la persona per la sua iniquità di fondo con cui normalmente opera.
Sia i beni che il comportamento sono colti dall’autore in una prospettiva escatologica di giudizio finale che si sta compiendo fin da subito, ponendo in stretta relazione ciò che si compie nell’oggi con il domani, anzi il domani si sta già formando e costruendo nell’oggi. È questo il senso del duplice avvertimento lanciato da Giacomo: per quanto riguarda i beni: “Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni”, ben sapendo che questi tesori sono in se stessi bacati e vacui così che essi si leveranno a testimonianza contro chi li ha perseguiti per tutta la vita, spendendola inutilmente per beni inconsistenti; per quanto riguarda il comportamento: “Vi siete ingrassati per il giorno della strage”, cioè avete alimentato la vostra vita, l’avete ingrassata con comportamenti iniqui che sono già giudicati come degni di strage. Con questa espressione l’autore si rifà al duro linguaggio profetico del Giorno del Signore[76], colto come il momento in cui Dio compirà la sua giustizia contro le iniquità di un modo di vivere che ha portato Israele lontano dal Signore.
Il vivere del credente dunque non deve mai esser così immanentistico, cioè così addentro alle cose, da far dimenticare i propri destini che si stanno compiendo proprio nel suo oggi. Il domani pertanto è già presente nel nostro oggi e l’uomo sarà nel suo domani pienamente e definitivamente ciò che è stato nel suo oggi. La vita dunque va sempre vissuta in una prospettiva escatologica, che deve illuminare il proprio vivere presente, poiché questa escatologia, queste realtà future sono già in qualche modo presenti in noi per mezzo del battesimo e della cresima e si stanno compiendo nel presente, trovando la loro piena e definitiva attuazione quando la storia entrerà nell’eternità di Dio, in cui già viviamo anche se non ancora compiutamente. In tal senso Paolo ci sollecita: “Per questo non ci scoraggiamo, ma se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne” (2Cor 4,16-18).
Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore: il v. 7 apre e dà l’intonazione alla breve pericope (vv. 7-11) in cui dominante è il tema della pazienza. Su cinque versetti il termine compare sei volte, otto volte in tutta la lettera. L’argomento non è nuovo, già lo si è trovato in 1,2-4 in cui l’autore ha presentato la sopportazione della prova della propria fede come l’origine della pazienza e come quest’ultima sia la forza che sostiene il credente nel suo cammino verso il pieno compimento in sè dell’opera di Cristo. Due sono pertanto i tratti fondamentali della pazienza: la sua origine sta in una fede provata; ed è nel contempo una forza spirituale che deve caratterizzare il vivere del cristiano. Essa è un po’ la sua spina dorsale che lo sostiene fiducioso nel suo cammino.
L’esortazione del v. 7 con quel “oân” (ùn, pertanto) iniziale pone la breve pericope (vv. 7-11) in stretta relazione con quanto fin qui detto circa le sofferenze prodotte dagli iniqui comportamenti di certe categorie di persone. Il contenuto di questa pericope pertanto costituisce la risposta cristiana alle difficoltà della vita: la pazienza. Essa non va colta come una semplice virtù umana che sovente è sottesa da uno stato di rassegnazione e di sconfitta, ma è una dinamica risposta esistenziale alle difficoltà della vita ed apre alla speranza di un mondo diverso, inaugurato dal Cristo risorto; un mondo che si sta costruendo nel silenzio e nella sua apparente sconfitta: il bene spesso viene umiliato, mentre il male e la prepotenza dei potenti prevalgono. Ma è solo un’apparenza. Non a caso infatti il v. 7 si apre con un’esortazione che pone la pazienza in stretta relazione con la venuta del Signore: “Siate dunque pazienti, fratelli, fino alla venuta del Signore”. È pertanto una pazienza che non è rassegnazione o dichiarazione di resa, ma essa è animata dalla speranza, che è certezza, di un evento che si va compiendo proprio nell’ambito di questa pazienza ed è da essa sostenuto. Il compiersi di questo evento spinge il credente ad aprirsi verso il compiersi di questo evento, generando in se stesso un atteggiamento di vigile e di speranzosa attesa. La pazienza cristiana è quindi animata da un atteggiamento di attesa, che dice il proiettarsi del credente verso quei cieli nuovi e quella terra nuova entro i quali già siamo collocati anche se non ancora in modo definitivo. La pazienza cristiana pertanto non ripiega il cristiano su se stesso, ma lo lancia in avanti in un fattivo impegno esistenziale sapendo che “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).
Guardate l’agricoltore: egli aspetta pazientemente ...: dopo aver enunciato il tema in 7a Giacomo prosegue illustrando con un esempio significativo il senso della pazienza cristiana. Il contadino estirpa le erbe dal campo, lo ara, lo semina, lo abbevera, pota i tralci delle vigne e i rami degli alberi da frutto. Il suo impegno è notevole, pieno di sacrifici e di incertezze, ma ciò non lo fa desistere; al contrario egli si prende cura perché tutto giunga al suo giusto compimento e la terra, così curata e amata, dia il frutto sperato, che Giacomo definisce “prezioso” sia per l’impegno profuso sia per le giuste attese che su di esso sono state riposte. Ma in tutto ciò c’è un margine notevole che non dipende dal contadino, ma dagli eventi naturali. Ecco pertanto l’attesa paziente, benché velata da una certa preoccupazione, tuttavia è marcatamente segnata da un’ottimistica speranza: che madre natura completi la sua opera dando soddisfazione alle sue attese. È indispensabile l’apporto della preventiva opera del contadino, perché senza di questa la terra non darà il suo frutto. Similmente il credente è chiamato ad un impegno esistenziale senza risparmio di energie, poiché egli sa che il suo lavoro di persona consacrata al Signore contribuirà in modo determinante all’affermazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini anche se ben sa che l’efficacia del suo operare dipende tutto da Dio, il quale ha lasciato nei nostri cuori la promessa di cieli nuovi e di una terra nuova. Ed è proprio su questa promessa che il credente deve fondare l’impegno della sua vita. La venuta del Signore infatti non è un fatto puntuale nel tempo, ma è un evento che va compiendosi lentamente e gradualmente e passa attraverso un preventivo e proficuo impegno esistenziale da parte del cristiano; un impegno che spesso è disseminato da incertezze, da sofferenze, da delusioni, poiché i tempi, i ritmi e le attese dell’uomo non sono quelli di Dio. La pazienza del credente, dunque, è animata dalla speranza, che genera in lui l’attesa del compiersi delle promesse del Signore e dal sapere che la sua opera è indispensabile perché il progetto salvifico di Dio si compia in mezzo agli uomini. Non a caso infatti Giacomo paragona la venuta del Signore al frutto prezioso della terra.
Siate pazienti anche voi, rinfrancate i vostri cuori ...: con quel “anche voi” Giacomo sollecita le sue comunità a rivestirsi di paziente attesa verso la venuta del Signore, il frutto che la terra attende. Il verbo greco che traduce “siate pazienti” possiede in sè una ricchezza che la traduzione italiana ha un po’ offuscato. Esso significa letteralmente “essere longanimi, tolleranti, costanti”. Il verbo greco, a sua volta, nasce da una composizione di due termini “macròs” e “tzimòs” che letteralmente significa “grande” e “animo”. L’esortazione dunque di Giacomo è quella di coltivare in se stessi un grande animo, poiché ogni credente possiede in sè il respiro stesso di Dio, lo Spirito, che allarga gli orizzonti dell’uomo proiettandolo verso un mondo nuovo dove Dio “... tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci. ... >>” (Ap 21,4-5). Questa è la nuova dimensione che Dio ha posto nei nostri cuori, al centro della nostra vita. Essa accende le attese e le speranze di ogni uomo, mentre il credente è chiamato ad annunciarla con una vita improntata alla speranza che tutto spera contro ogni sperare perché essa poggia sulla certezza di Dio. Che cosa significa essere longanimi, tolleranti, uomini dal grande animo, uomini che possiedono in se stessi il grande Respiro di Dio? Paolo lo prospetta nella sua esortazione alla comunità di Roma in questi termini: “La carità non abbia finzioni: fuggite il male con orrore, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno, gareggiate nello stimarvi a vicenda. Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità. Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un'idea troppo alta di voi stessi. Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all'ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,9-21). Ed è proprio in questo stile di vita che il credente deve consolidare in se stesso, rendendo salda la propria vita nel Signore. Il motivo di tutto ciò è la venuta del Signore. Vediamo come Giacomo richiama questo evento, che la Chiesa del primo secolo sentiva in modo forte e molto profondo, per ben cinque volte in sette versetti (vv. 3-9) e in funzione di questo evento l’autore invita a regolare il proprio tenore di vita e a pensare il proprio presente. Il Dio che viene pertanto se costituisce per alcuni motivo di timore e di condanna (vv. 1-6), per altri, i credenti che hanno deciso la loro vita per Cristo, deve essere motivo di forza e di coraggio per affrontare ogni avversità della vita (vv. 7-11). L’attesa del Signore deve pertanto modellare il proprio modo di vivere e creare nelle nostre vite una forte tensione verso quelle realtà spirituali che già vivono in noi e che siamo chiamati a generare al mondo.
Prendete, o fratelli, a modello di sopportazione ...: Giacomo ora si richiama alle grandi figure bibliche che hanno formato la coscienza del popolo ebreo: i profeti. Questi personaggi per la loro funzione incarnavano da un lato la voce di Dio in mezzo al popolo e dall’altro spingevano il popolo a guardare in avanti, cercando di evitare di perdersi nelle cose del presente. Erano persone che prospettavano una salvezza che si collocava sempre più in là dei ristretti spazi in cui Israele viveva e in cui spesso si perdeva, alimentando la speranza nel popolo e rincuorandolo nel suo difficile cammino verso il Signore, perché Dio mantiene sempre le sue promesse. Ma proprio perché il profeta parlava di dimensioni che spesso esulavano dall’angusto spazio del presente, egli non era capito, spesso perseguitato o ucciso; era un uomo solitario perché portava in sè e annunciava una speranza che era stata perduta, parlava un linguaggio, quello di Dio, che ormai non era più capito. Ma il profeta pur nella sofferenza non veniva mai meno nella sua testimonianza e nel suo servizio alla Parola di Jhwh, che abitava in lui e lo tormentava: “Mi dicevo: <<Non penserò più a lui, non parlerò più in suo nome!>>. Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo” (Ger 20,9). Geremia, l’uomo della Parola per eccellenza, si rivolge a Jhwh nel suo lamento: “Tu lo sai, Signore, ricordati di me e aiutami, vendicati per me dei miei persecutori. Nella tua clemenza non lasciarmi perire, sappi che io sopporto insulti per te. Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome, Signore, Dio degli eserciti. Non mi sono seduto per divertirmi nelle brigate di buontemponi, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno. Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido, dalle acque incostanti” (Ger 15,15-18). Sofferenza, solitudine, senso dell’abbandono, difficoltà d’ogni genere hanno sempre costellato il vivere dei veri profeti, che portano in se stessi una Parola che non è d’uomo e che non scende a compromessi. Essi sono portati da Giacomo come esempi del vero vivere credente.
Ecco, noi chiamiamo beati ...: con questa espressione Giacomo si richiama al v. 1,12: “Beato l'uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano”. Questo versetto (1,12) forma con il presente (v. 5,11) un’inclusione, abbracciando l’intero scritto e ponendolo sotto il segno della paziente perseveranza, sostenuta dalla certa speranza che la promessa del Signore di celi nuovi e di una nuova terra si compirà, anche se ciò avverrà nelle doglie di un parto (Rm 8,22-23).
Giacomo termina questa lunga riflessione sulla pazienza con un ultimo esempio tratto dagli antichi personaggi veterotestamentari: Giobbe, che nonostante la sua drammatica situazione (da uomo ricco e potente si ridusse, per una serie di sventure, a vivere pieno di pustole su di un letamaio abbandonato da tutti) rimase sempre fedele a Dio e Dio lo premiò restituendogli moltiplicate la sua ricchezza e la sua potenza primitive. Con questo esempio l’autore vuol sottolineare come la sofferenza e la prova sopportata con fedeltà a Dio non è vana, ma porta in sè il premio e la riconoscenza di Dio.
Soprattutto, fratelli miei, non giurate ...: questa esortazione di Giacomo rientra nella tradizione cristiana dei primi tempi ed è riportata sostanzialmente identica in Matteo (Mt 5,34-37), che alla pari di Giacomo è un ebreo che si rivolge ad una comunità di giudeo-cristiani.
Il giuramento, espressione sacrale della parola data, ha una stretta attinenza con le relazioni sociali, che devono essere improntate alla massima onestà e correttezza.
Benché il giuramento sia sempre stato presso gli uomini di ogni tempo un istituto per avvalorare la loro parola, caricandola di un senso sacrale, poiché con questo veniva convocato a testimonianza Dio stesso, tuttavia presso gli ebrei doveva essere una sorta di consuetudine, che spesso degenerava in abuso. Lo stesso Marziale nella sua opera Epigrammi (XI, 94) se la prendeva con gli ebrei per la loro propensione sfrenata al giuramento[77]. E così doveva essere se il Siracide[78] sollecitava a "non abituare la bocca al giuramento, non abituarti a nominare il nome del Santo" (Sir 23,9) e questo perché "Un uomo dai molti giuramenti si riempie di iniquità ..." (Sir 23,11a); infatti "il linguaggio di chi giura spesso fa rizzare i capelli, e le loro questioni fan turare gli orecchi" (Sir 27,14).
Si giurava per tutto e su tutto. Giuravano gli uomini, ma anche Dio caricava le sue promesse o legava la sua parola al giuramento[79].
Agli ebrei era fatto divieto di giurare per gli dèi stranieri (Gs 23,7), mentre dovevano riferirsi sempre e soltanto al nome del Signore (Dt 6,13; 10,20).
Poiché il giuramento chiama in causa sempre un'Entità superiore a se stessi, Dio non può che giurare per se stesso[80] o per la sua santità (Sal 88,36; Am 4,2) o per il suo stesso nome (Ger 44,26) o per la sua stessa vita (Ez 14,16; 17,16).
La formula del giuramento era molto semplice e varia. In genere si introducevano le parole da avvalorare dalla formula "giuro per Dio" (Gen 21,23), "giuro per il Terrore" (Gen 31,33); "giuro per il Signore" (2Sam 19,8); oppure con formule un po' più elaborate come "Com'è vero che vive il Signore che ci ha dato questa vita ..." (Ger 38,16), "Giuro per colui che vive in eterno" (Dn 12,7), "Per la vita del Signore, con verità, rettitudine e giustizia" (Ger 4,2).
Matteo e Giacomo si richiamano a delle formulazioni di giuramento correnti nel loro tempo: il giurare per il cielo, trono di Dio; per la terra, considerata sgabello dei piedi del Signore; per Gerusalemme, sua città santa e luogo della sua dimora; per la propria testa o per la propria vita, sulle quali l'uomo non ha alcuna disponibilità.
Il giuramento assumeva talvolta la forma di un'imprecazione: "Il Signore faccia di te un oggetto di maledizione e di imprecazione in mezzo al popolo, facendoti avvizzire i fianchi e gonfiare il ventre" (Nm 5,21), "Maledetto davanti al Signore l'uomo che ..." (Gs 6,26), "Maledetto chiunque ..." (1Sam 14,24).
Il giuramento veniva in genere accompagnato da una gestualità per rimarcarne anche esteriormente l'importanza, mettendo una mano sotto la coscia di colui al quale si prestava il proprio giuramento (Gen 24,9), oppure alzando una mano, probabilmente la destra (Es 6,8; Ez 20,58); dando la mano destra a colui al quale si dava il proprio giuramento (Ez 17,8; 2Mac 14,33); talvolta alzando la mano su colui o coloro a cui si dava il giuramento (Sal 105,26) o alzando il braccio e la mano destra (Is 62,8; Ez 20,3) o più semplicemente alzando le mani verso il cielo (Dn 12,7).
Il significato e il valore del giuramento, specialmente se reciproco, assumeva una valenza di promessa solenne, di alleanza che univa inscindibilmente i due contraenti e rendeva debitore il giurante verso l'altro che beneficiava del giuramento e che lo costituiva in qualche modo creditore. Era quindi una sorta di patto[81].
Lo spergiuro era caricato di negatività e di sventure che si abbattevano su di lui (Sir 23,11) perché offendeva il nome stesso di Dio, chiamato in causa quale garante (Lv 19,12) per ciò che aveva giurato.
Ma il mancato giuramento su di una qualunque cosa veniva anche punito pecuniariamente con la restituzione di ciò per cui si era giurato, aggiungendovi anche un quinto del suo valore, ed erano previsti dei sacrifici di riparazione ed una specifica ritualità di espiazione (Lv 5,24-26).
Giuramenti che diventavano strumenti di oppressione nei confronti del popolo[82]. Si era infatti stabilito, attraverso sottili distinzioni che riflettevano i dibattiti delle varie scuole farisaiche, ciò che rendeva valido un giuramento, per cui se si giurava per l'oro del tempio o per le offerte poste sull'altare, l'ebreo rimaneva vincolato al suo giuramento, mentre se giurava per il tempio o per l'altare questo non lo impegnava. In tal modo la validità del giuramento veniva legata al valore venale delle cose, trascurando invece ciò che le rendeva sante e dava loro validità spirituale e dignità morale: il tempio e l'altare.
Contro questo sofisticato sistema di giuramenti e contro questo diffuso malvezzo dei giuramenti, spesso ingannatori, Gesù si impone con autorità: "Ma io vi dico di non giurare affatto" (Mt 5,34a), riconducendo l'uomo alla sincerità del proprio cuore: "sia la vostra parola si si, no no; il superfluo viene dal maligno".
Probabilmente questo detto di Gesù è autentico, se trova la sua eco sia in Giacomo che in Matteo.
L’esortazione dunque dell’autore è quella di riportare i propri rapporti interpersonali alla sincerità del cuore, poiché al di fuori di questa semplice e genuina verità, che deve sgorgare dal cuore, c'è soltanto la menzogna, che ha per padre satana stesso "perché è menzognero e padre della menzogna" (Gv 8,44).
Chi tra di voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi: i vv. 5,1-11 riguardavano i singoli credenti ed erano un’esortazione alla pazienza e alla sopportazione in vista della venuta del Signore. Con l’intermezzo del giuramento, poi, Giacomo ha introdotto gli aspetti riguardanti le relazioni sociali in genere. Ora con questi ultimi vv. 13-20 l’autore affronta sul come relazionarsi all’interno delle singole comunità credenti. L’impostazione è squisitamente liturgica: sia nel dolore che nella gioia il credente è chiamato ad esprimersi attraverso la preghiera che si fa canto d’invocazione (preghi) e di lode (salmeggi). Pertanto ogni evento che si compie all’interno della comunità non è mai un fatto privato o individuale, ma in qualche modo coinvolge l’intera comunità e tutti sono chiamati a partecipare e a condividere questi eventi. La preghiera e il canto dei salmi richiamano infatti l’azione liturgica che è propria della comunità.
Chi è malato, chiami a sè i presbiteri della Chiesa e ...: ora Giacomo prende in esame un caso particolare di chi è nel dolore: la malattia. Da come questa viene affrontata e dalle indicazioni date deve trattarsi di una malattia di una certa gravità: devono essere chiamati gli anziani della comunità. Si parla quindi di una comunità che è già in qualche modo strutturata, probabilmente sulla falsariga della sinagoga: un responsabile, attorniato da un consiglio di anziani per dirimere le questioni interne alla comunità stessa e poterla governare saggiamente secondo i dettami del Signore. Questi anziani, ai quali è demandato l’incarico dell’intervento sull’ammalato, devono compiere due azione: pregare su di lui, probabilmente imponendo le mani sull’ammalato, dopo averlo unto con l’olio. Il tutto deve essere compiuto “nel nome del Signore”. Ci troviamo pertanto di fronte ad un’azione liturgica di tipo sacramentale. L’impiego dell’olio nei casi di malattia o ferite era ricorrente nell’antichità (Mc 6,13; Lc 10,34), ma qui l’azione dell’ungere assume una valenza sacramentale perché è un ungere “nel nome del Signore” che opera sull’ammalato per mezzo degli anziani, trasfondendo quindi nell’ammalato non soltanto una guarigione corporale, ma anche soprattutto spirituale.
E la preghiera fatta con fede salverà ...: il testo greco dice “la preghiera della fede”, cioè la preghiera che viene compiuta nella comunità credente unita e qualificata dall’unica fede nel Risorto, che opera sacramentalmente e spiritualmente nella comunità convocata nel suo nome. La preghiera della fede viene qui personificata da Giacomo ed essa è il soggetto che produce la salvezza: “salverà il malato”. È la comunità credente che si fa preghiera per un proprio membro. Ed ecco l’effetto: “Il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati”. Giacomo accosta la preghiera della comunità all’azione stessa del Signore: è lui dunque che opera nella comunità, è lui che rialza e salva. La comunità, qualificata dalla sua fede nel Risorto, diventa pertanto il luogo della salvezza. Si noti come l’azione del Signore è scandita da due momenti fondamentali: “lo rialzerà” e “ gli saranno perdonati” i peccati. È la stessa azione che Gesù compie nei confronti del paralitico: egli perdona i suoi peccati: “Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: <<Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati>>” (Mt 9,2) e a testimonianza della riconciliazione avvenuta con Dio il paralitico è guarito anche fisicamente: “Ora, perché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati: alzati, disse allora il paralitico, prendi il tuo letto e và a casa tua>>” (Mt 9,6). C’è dunque uno stretto accostamento tra malattia e peccato, cosicché questa diventa il segno di quello (Gv 5,14; 9,1).
Ma nelle due azioni di Gesù, rialzare e perdonare i peccati, c’è anche un implicito richiamo agli effetti della risurrezione di Gesù. Il verbo greco usato per dire “lo rialzerà” è “egherei”, un verbo tecnico che nella Chiesa primitiva veniva usato per indicare la risurrezione di Gesù. Ecco pertanto che la guarigione dell’ammalato ha una stretta attinenza con il Risorto e su di lui si riproducono i due effetti principali della risurrezione: la salvezza (lo salverà) e il perdono dei peccati (gli saranno perdonati), per questo l’ammalato sarà risollevato e rimesso in grado di riprendere il suo cammino all’interno della comunità e insieme ad essa verso il Signore che viene.
Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri ...: Giacomo nel v. 15 aveva parlato del perdono dei peccati dell’ammalato grazie all’intervento della comunità nella persona dei suoi anziani; ora con un discorso più generale, egli riprende le fila del perdono dei peccati all’interno della comunità: “Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri”. Vi è dunque nella comunità un male oscuro che la inquieta, che la rende litigiosa, gelosa, pronta alle divisioni e alle preferenze e perfino omicida (Gc 2,1-4; 4,1-3). Sono i mali che stravolgono queste comunità. Confessarsi reciprocamente le colpe significa ammetterle e riconoscersi peccatori, aprendosi ad un impegno comune per superare il male che le tormenta e che le chiude a Dio nel loro orgoglio, da cui ogni peccato ha la sua origine. Il riconoscersi peccatori all’interno della comunità significa predisporsi al perdono di Dio e dei fratelli. È l’azione che noi compiamo nella liturgia della messa con il “confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli” e la supplica che segue da parte del celebrante sull’intera comunità ci dà il perdono delle nostre colpe e ci riconcilia tra di noi, una riconciliazione che si esprime anche nel segno della pace e nella comune preghiera del Padre nostro.
L’esortazione di Giacomo a confessarsi reciprocamente le proprie colpe trae origine dalla convinzione delle prime comunità cristiane che il luogo privilegiato del perdono dei peccati è la comunità stessa, concepita come la depositaria sia della fede che del mandato del Signore circa il perdono dei peccati. Sulla chiesa nascente infatti il Risorto soffia il suo Spirito e lascia il comando di rimettere le colpe (Gv 20,22-23). Anche la letteratura epistolare neotestamentaria, in particolar modo quella paolina, ci presenta la comunità cristiana come il luogo privilegiato del reciproco aiuto per convertirsi, come spazio di reciproco perdono e di riconciliazione:
· "Confessate i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti" (Gc 5,16);
· "Se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che colui che riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati" (Gc 5,19-20)
· "Qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza ... Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la Legge di Cristo" (Gal 6,1-2);
· "Vi esortiamo fratelli: correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti" (1Ts 5,14);
· "Sono anch'io convinto ... che siete capaci di correggervi l'un l'altro" (Rm 15,14)
· "Rivestitevi, dunque, come eletti di Dio, santi ed amati, di sentimenti di misericordia, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente ... Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione" (Col 3, 12-14);
La comunità viene vista da Paolo come il luogo dove dimora lo Spirito di Dio e l'amore di Cristo. Su questi due parametri fondamentali, su cui ruota l'intera comunità, deve attuarsi la reciproca accoglienza che si fa perdono e riconciliazione. Il credente deve avere la consapevolezza che lui per primo è stato perdonato da Cristo e riconciliato a Dio per opera sua. Pertanto, amato deve amare, perdonato deve perdonare, riconciliato deve riconciliare.
Questi principi fondamentali su cui si reggono i reciproci rapporti all’interno della comunità costituiscono la base teologica su cui si svolge l'intera dinamica del perdono all'interno della comunità. Si tratta ora di stabilire una regola, una procedura per dare corpo al perdono e alla riconciliazione con la comunità. Chi pecca, infatti, si pone fuori dalla comunità ed è quindi la comunità, sacramento dell'amore di Cristo, la titolare del diritto del perdono e della riconciliazione.
Matteo, che scrive il suo vangelo intorno agli anni 80, quando ormai la comunità cristiana ha già assunto una sua stabile struttura, ci riporta una procedura del perdono articolata in quattro gradi progressivi finalizzati, da un lato, al perdono e al recupero del fratello che ha sbagliato, dall'altro, alla salvaguardia dell'intera comunità:
· Ammonizione personale e individuale, fatta a quattr'occhi;
· Ammonizione fatta davanti a due testimoni;
· Denuncia davanti all'assemblea;
· Extrema ratio, espulsione dalla comunità. (Mt 18, 15-18)
La comunità è vista come depositaria del perdono divino e dotata, in proposito, di uno speciale potere divino, per cui assolvere o condannare spetta alla comunità: "In verità vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato anche nel cielo e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto anche in cielo" (Mt 18,18).
Allontanarsi, quindi, dalla comunità significa allontanarsi da Dio; riconciliarsi con la comunità significa riconciliarsi con Dio, poiché Cristo è presente nella sua comunità. Infatti, "... dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro" (Mt 18,20).
Alla reciproca confessione delle proprie colpe, in cui mettiamo a nudo tutta la nostra fragilità riconoscendola, segue, come per l’ammalato, la preghiera che ha potenza salvifica ed è posta in vista del superamento del nostro male oscuro, il peccato; essa è quindi capace di rigenerarci a Dio. La preghiera per sua natura infatti ci orienta a Dio, ci fa entrare nella sua dimensione e stabilisce una relazione Lui, facendoci partecipi della salvezza che da Lui promana. La caratteristica di questo tipo di preghiera, indirizzata all’ottenimento del perdono dei peccati, è la reciprocità: “pregate gli uni per gli altri”, poiché all’interno di una comunità credente ognuno deve prendersi cura ed aver cura del proprio fratello, stabilendo in tal modo una dimensione di amore all’interno della quale si muove la comunità, che proprio dall’amore reciproco viene qualificata: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).
Commenta Giacomo che la preghiera del giusto, fatta con insistenza, vale molto (5,16b). Il giusto non è il santo canonizzato, ma colui che è stato giustificato da Cristo e conduce la sua vita all’interno di questa giustificazione ricevuta, che è il nostro essere stati collocati nella stessa dimensione divina. Noi siamo già giusti, siamo già santi perché già siamo stati giustificati e rigenerati alla nuova vita dal Risorto, per questo in Lui abbiamo acquisito il diritto di cittadinanza nei cieli e siamo diventati familiari di Dio stesso (Ef 2,19), in quanto in noi scorre il suo stesso DNA. Siamo diventati pertanto suoi figli nel Figlio e nel Figlio beneficiamo di tutti i diritti della figliolanza divina propria di Cristo (Gal 4, 4-7). Per questo l’autore della Lettera agli Ebrei ci sollecita “Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno” (Eb 4,16).
Fratelli, se uno di voi si allontana dalla verità ...: il tema della malattia, del peccato, del reciproco perdono che hanno caratterizzato questi ultimi versetti (vv. 5,13-18), ora si completa con quest’ultima esortazione a prendersi cura di chi si è allontanato dalla verità. Già nella comunità di Matteo si erano stabilite delle regole apposite in tal senso (Mt 18, 15-18). La verità da cui ci si allontana va intesa, a mio avviso, non tanto come una qualche colpa, per la quale è sufficiente l’ammonizione o il richiamo fraterno accompagnato dalla preghiera, di cui si è parlato in 5,16, bensì di una vera e propria deviazione dalla Verità, che è Cristo e la fede stessa della comunità. Il verbo greco usato infatti è planào che significa trarre in errore, ingannare, mentre il verbo che esprime l’allontanamento dalla verità è amartano, in cui è intrinseco il concetto di peccato. Inoltre il verbo planào è posto al passivo (planetzé) per cui il senso non è tanto di uno che si allontana dalla verità, bensì di chi viene tratto in errore, ingannato e sviato dalla verità. Si tratta quindi di una persona che dopo aver incontrato Cristo e averlo abbracciato nella fede, ora, allettato da nuove filosofie, dottrine o eresie, si lascia sviare dalla strada che aveva rettamente imboccato. Il recuperare quindi il fratello alla verità significava ricondurlo all’interno della comunità messianica e salvifica, aprendolo nuovamente alla salvezza. Qui Giacomo definisce chi ha abbandonato la Verità come amartolòn, è uno che ha sbagliato e che si pone quindi in uno stato di morte spirituale, perché dopo aver conosciuto la Verità di Cristo lo ha abbandonato per altre strade. Il farlo ritornare significa il trarlo dalla morte (ek tzanàtou). La particella ek (da) indica il moto da luogo e quindi sottintende un processo di recupero e di rigenerazione della persona errante che richiama da vicino l’effetto della risurrezione stessa, concepita come un passaggio dalla morte alla vita. Per questo Giacomo conclude che tale ritorno copre una moltitudine di peccati. Ma di chi sono questi peccati che sono coperti da questo atto rigenerativo? Non è facile individuare il beneficiario di questa remissione, ma è probabile che Giacomo si riferisca ad entrambi gli attori di tale risurrezione, non avendola specificata con un qualche aggettivo possessivo (autoù). L’azione del credente infatti verso il fratello, in quanto persona consacrata a Dio e cristificata, si costituisce come l’azione redentiva di Cristo stesso che opera per mezzo dei suoi fedeli e della comunità. Già in tal senso si era espresso Giacomo circa l’ammalato ponendo in parallelo e in stretta relazione l’azione della comunità, che si esprime nella preghiera della fede, con l’agire stesso di Cristo (5,15).
Verona, 26 marzo 2007
Giovanni Lonardi
[1] Le caratteristiche che definiscono uno scritto come “lettera” sono essenzialmente tre: 1) il prescritto, composto dal mittente, il destinatario, i saluti iniziali, ai quali Paolo aggiunge sempre, con eccezione per la Lettera ai Galati, i ringraziamenti; 2) il corpo della lettera, in cui si rilevano le motivazioni dello scritto e si accenna in genere ai rapporti tra lo scrivente e il destinatario; 3) ultime disposizioni conclusive e saluti finali.
Adolf Deissemann pone una distinzione tra “Lettera” ed “Epistola”. La prima è uno scritto occasionale, privato, vivace ed immediato, con argomenti comprensibili soltanto al mittente e al destinatario; mentre la seconda ha un forma più asettica e assomiglia più ad una piccolo trattato destinato ad un’ampia cerchia di anonimi lettori.
La nostra operetta, pur aprendosi con un prescritto, tuttavia non possiede le caratteristiche di una vera e propria lettera, sia perché non ha una conclusione né i saluti finali, sia perché il contenuto dell’opera assomiglia più che altro ad una sorta di riflessione morale-sapienziale ed è indirizzata a dei destinatari del tutto anonimi (“alle dodici tribù disperse nel mondo). Pertanto essa può definirsi “lettera” soltanto per convenienza, ma non certo da un punto di vista propriamente tecnico.
[2] Il termine “cattolico” deriva dal greco e significa letteralmente “universale”.
[3] Cfr. Eusebio di Cesare, Historia Ecclesiastica, II, 1,2-3; 23,4-18; Flavio Giuseppe, Antichità Cristiane, XX, 9,1, §§197-203.
[4] Cfr. 2Re 18,12; 1Cr 6,34; 2Cr 1,3; 24,9; Ne 10,30; Dn 9,11.
[5] L’autore si rivolge ai cristiani delle sue comunità chiamandoli per quindici volte “fratelli” o “fratelli miei” o “fratelli miei amatissimi”.
[6] Cfr. anche Gc 3,1-12
[7] Tra la fine del I sec. d.C. e fino a tutto il II sec., per la rilevante quantità di scritti sorti intorno alla figura di Gesù, alla sua opera e alla sua predicazione, si era reso necessario definire quali fossero i testi su cui fondare con certezza la propria fede e tali da poter essere utilizzati pacificamente nelle liturgie, nel culto, nelle catechesi, negli annunci. Tre furono sostanzialmente i criteri o regole (canoni) su cui si riparametrarono i libri attendibili per la fede: 1) l’Apostolicità, cioè lo scritto doveva essere fatto risalire in qualche modo agli apostoli o ai loro diretti collaboratori o discepoli; 2) la Veridicità, cioè i contenuti degli scritti dovevano essere conformi alla dottrina e alla fede e non essere in conflitto, quanto a contenuto, con altri scritti definiti canonici; 3) l’Universalità, cioè dovevano essere largamente diffusi e accettati presso le varie comunità e utilizzati normalmente nelle celebrazioni liturgiche, nelle catechesi, nella vita di comunità in genere.
Benché le linee generali fossero già state sostanzialmente definite nel corso del II sec., tuttavia il dibattito proseguì a lungo fino al IV sec. . Si considerò convenzionalmente, anche per motivi di semplicità, la chiusura del canone neotestamentario l’anno 367 d.C., anno in cui il vescovo Atanasio, patriarca di Alessandria, scrisse la sua XXXIX lettera pasquale. In tale lettera egli riconosce come “fonte della salvezza” i 27 libri che compongono il N.T. e li elenca: 4 Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le 7 lettere cattoliche, le 14 lettere di Paolo, in cui si includeva anche quella agli Ebrei, e l’Apocalisse.
[8] Ludovico Antonio Muratori, nato a Vignola (MO) il 21 ottobre 1672 e morto a Modena il 23 gennaio 1750, fu un ecclesiastico erudito. Egli scoperse presso la Biblioteca Ambrosiana un frammento in latino del VII sec. d.C. , traduzione di un altro testo in greco che si fa risalire intorno all’anno 170 d.C. A tale data si è giunti in quanto il testo fa riferimento al pontificato di Pio I (142-147), come “evento recente”. Tale frammento, pubblicato nel 1740, contiene un elenco dettagliato degli scritti neotestamentari.
[9] Sofronio Eusebio Girolamo, nato a Stridone in Dalmazia nel 347 e morto a Betlemme nel 420, fu un padre della chiesa a cui papa Damaso I affidò nel 380 la traduzione della Bibbia dal greco e dall’ebraico in latino. Egli è venerato dalla Chiesa cattolica come Santo.
[10] Origene, nato ad Alessandria intorno all’anno 185, fu un maestro eminente e un grande erudito della Chiesa antica. Dotato di grande personalità e di una cultura enciclopedica, è annoverato tra i pensatori più grandi che abbia mai avuto l’umanità. Morì a Tiro nell’anno 253, all’età di 66 anni.
[11] Teodoro nacque ad Antiochia nel 350 d.C. Dopo un’incertezza sulla propria vocazione, che lo portò ad abbandonare il monastero, fu ordinato sacerdote nel 383 da Flaviano, vescovo di Antiochia, e nel 392 fu consacrato vescovo di Mopsuestia in Cilicia e morì nel 428, dopo aver raggiunto una grande fama di scienza ed ortodossia. Fu molto stimato dai suoi contemporanei e fu un insigne rappresentante della scuola esegetica di Antiochia. Venne tuttavia condannato come eretico 125 anni dopo la sua morte.
[12] Il corpus paolinum comprende 14 lettere di cui soltanto sette sono riconosciute dalla critica odierna come autentiche di Paolo (1Tessalonicesi; 1Corinti; 2Corinti; Galati; Romani; Filippesi e Filemone). Sei sono considerate di scuola paolina (Efesini, Colossesi, 2Tessalonicesi, 1Timoteo, 2Timoteo e Tito). L’ultima, quella agli Ebrei, benché inserita nel corpus, non appartiene né a Paolo né alla sua scuola.
[13] Eusebio nacque a Cesare, in Palestina, intorno all’anno 263 d.C. Fu un grande storico e apologista e primo cronista ed archivista della Chiesa. Fu eletto vescovo di Cesarea nel 313 e ben presto, in quanto vescovo, fu coinvolto nella controversia ariana, che credette di poter risolvere consigliando un accordo di compromesso tra le opposte fazione, dimostrando in tal modo di non aver capito l’importanza della questione ariana. Morì nel 340 circa. Sua è un’opera monumentale, Ekklhsiatikh istoria, scritta in greco, composta di dieci libri, che narrano le vicende della Chiesa dalla sua fondazione fino ai suoi giorni.
[14] Cfr. Historia Ecclesiastica II, 23,24b-25.
[15] Cfr. Ugo Vanni, Lettere di Pietro, Giacomo e Giuda, Ed. Queriniana, Brescia 1995. – Cfr. anche Bibbia TOB, commento a Lettera di Giacomo, Ed. Elle Di Ci, Leumann (TO) – 1992.
[16] Cfr. nota n.4.
[17] Nel N.T. l’espressione “servo di Dio” ricorre quattro volte: Tt 1,1, attribuito a Paolo, ma il titolo è accompagnato da quello di “apostolo di Gesù Cristo”; in Gc 1,1, oggetto della nostra riflessione; in Ap 15,3 ed è attribuito ancora una volta a Mosè; in Ap 22,9 ed è attribuito all’angelo rivolto a Giovanni e che viene, comunque riconosciuto anche ad altre figure che si sono consacrate al servizio del Signore e della sua Parola.
[18] Cfr. nota n. 1
[19] Cfr. Sap 5,15-16; 10,17; Is 49,4; 62,11;
[20] Similmente a Giacomo, anche Paolo nella sua lettera ai Romani afferma: “noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.” (Rm 5,3-5).
[21] Paolo scrive la Seconda Lettera ai Corinti da Filippi tra il 55 e il 56 d.C.; quella ai Romani viene scritta da Corinto nel 57-58.
[22] L’allitterazione è una figura retorica che consiste nell’accostamento di due parole o frasi tra loro simili, così che la seconda riprende la prima. Nel nostro caso si ha il v. 4 che termina con “ ... senza mancare di nulla”; il v. 5 si apre con “Se qualcuno di voi manca ...”.
[23] Il concetto di fede in Giacomo è decisamente diverso da quello di Paolo. Per Giacomo la fede dice soltanto un atteggiamento di fiducia in Dio; per Paolo indica un atteggiamento esistenziale di apertura e di accoglienza di Dio in Cristo e per mezzo di lui ed è determinante per la salvezza al di là della stessa osservanza scrupolosa della Legge. La questione verrà comunque trattata a fondo nel cap. 2.
[24] L’espressione “senza esitare” o “chi esita” viene resa in greco con il verbo “diakrinw”, che significa appunto giudicare, voler disquisire, sindacare. Il verbo posto al participio presente indica un persistente comportamento di sfiducia nei confronti di Dio.
[25] Cfr. Sal 90,5-6; 1Pt 1,24
[26] Cfr Sap 5,15-16; Is 61,1-3; Mt 5,11-12; 2Tm 4,7-8; 1Pt 5,4.
[27] Il termine epiqumia che la C.E.I. tra duce con “concupiscenza”, letteralmente significa “brama, desiderio, voglia, passione”. è importante precisare il termine che troverà il suo sviluppo nei vv. 1,18-21.
[28] Cfr. Gen 3,1-24; Rm 5,12-19
[29] Cfr. Rm 7,18-25.
[30] La creazione genesiaca (Gen 1,1-2,4) è scandita per otto volte dal verbo “disse”, fatto seguire immediatamente dall’atto creativo. È la Parola dunque l’attuatrice e la rivelatrice della volontà del Padre Creatore. Essa è pertanto a ragione il Dabar del Padre, cioè l’azione stessa del Padre che rivelandosi nella Parola, attua contemporaneamente la sua volontà. Questa Parola troverà la sua piena e completa manifestazione nella persona di Gesù, Parola-Azione del Padre, in cui il Padre non solo si rivela, ma si manifesta nel Figlio, in cui si attua e si compie pienamente il suo progetto salvifico.
[31] Cfr. Ef 4,26.31; Col 3,8; 1Tm 2,8.
[32] Cfr. Rm 13,14; Gal 3,27; Ef 4,24.
[33] Cfr. Es 24,3.7; Dt 5,27.
[34] Cfr Paolo de Benedetti, Introduzione al Giudaismo, Ed. Morcellania – Roma – Seconda Edizione 2001;
Antonio Rodriguez Carmona, La Religione ebraica, Storia e Teologia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) - 2005
[35] Nella Lettera di Giacomo il termine legge ricorre nove volte e dall’insieme dei contesti si evince che egli si riferisce ai comandamenti che regolamentano il vivere dell’ebreo e in particolare quelli che disciplinano i rapporti sociali. In particolar modo cfr. Gc 2,8-11.
[36] Cfr. Rm 7
[37] Cfr. nota n. 20. Qui l’allitterazione è data dal susseguirsi delle due espressioni ripetute “la sua religione è vana” seguita immediatamente da “una religione pura”.
[38] Nel mondo antico orfani e vedove erano le categorie più deboli della società. Nelle Scritture essi si trovano sempre citati in coppia.
[39] Macrostruttura, termine che definisce l’analisi della struttura dell’intera opera.
[40] Il termine greco che definisce la parola “religione” è qrhskeia, che significa anche “rito religioso, atto di culto, adorazione”, mentre il verbo qrhskeuw, da cui deriva il sostantivo, indica l’attendere al culto religioso, venerare.
[41] Cfr. anche Rm 7,4; 1Cor 6,19; 2Cor 10,7; Gal 3,29.
[42] Il modo di spiegare le cose esemplificando o raccontando anedotti significativi era caratteristico del predicare dei rabbini ebraici.
[43] L’autore infatti fa riferimento nell’esempio agli incontri comunitari: “entri in una vostra adunanza”.
[44] Il tema dei poveri, quali eletti di Dio e verso i quali Dio volge la sua attenzione, riempie le pagine di tutto l’A.T. (Es 22,21; Dt 10,18; 14,29; 24,17.19-21; Sal 9,33.38; 11,6; 21,27; 24,9; 68,34;71,4.13; 111,9; Pvr 29,7) in particolar modo i profeti, Isaia, Amos e Geremia, si scagliarono duramente contro gli oppressori dei poveri (Is 1,10-17; 3,13-15; 5,8; 10,1-4; 49,13; 58,6-7; 61,1; Am 2,6; 3,10.15;4,1; 5,11; Ger 34,8).
[45] Cfr. anche Mt 5,3; 11,5; Lc 4,18; 6,20; 7,22.
[46] Cfr. la Gaudium et Spes §§ 22, 38, 41
[47] Non è da escludere che in questi esempi e ipotetiche diatribe l’autore riporti reali obiezioni che le varie comunità gli contrapponevano.
[48] Con l’espressione “in un solo Dio” sembra che questo interlocutore, giudeo-cristiano, voglia vantarsi della sua fede in Jhwh, che il credo ebraico con vanto proclamava “uno”: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo.” (Dt 6,4).
[49] L’episodio di Raab, la prostituta, è tratto dal Libro di Giosuè. Giosuè, successore di Mosè, si stava apprestando a conquistare Gerico. Mandò per questo due suoi uomini perché spiassero la città. Il re di Gerico, venutolo a sapere, cerca le due spie per ucciderle, ma esse vengono salvate da Raab, una prostituta che abitava nei pressi della mura della città e nottetempo calò da queste i due uomini e li salvò. Grazie a questo suo gesto lei e la sua famiglia vennero salvate nell’attacco contro la città. Giacomo la prende come esempio di fede operosa perché Raab riconobbe in Israele la mano del Signore ed espose la sua vita pur di assecondarne il disegno.
[50] È probabile che Giacomo abbia frainteso quanto Paolo voleva dire con queste sue affermazioni. Del resto sembra che le lettere di Paolo, circolanti tra le comunità cristiane della prima ora, non fossero sempre ben comprese, anzi risultassero di difficile comprensione e quindi male interpretate, come ci è testimoniato dalla seconda lettera di Pietro: “La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt 3,15-16).
[51] Cfr. nota n. 20. In questo caso l’allitterazione è data da “tutti quanti manchiamo in molte cose” e “se uno non manca”. Si gioca tutta quindi sul verbo “mancare.
[52] Téleios o il verbo corrispondente téleo compare in 1,4; 1,17; 1,25; 2,8; 3,2.
[53] Il greco conosce due modi per dire uomo: ¢n»r (anér) e ¥nqrwpoj (àntzropos). Mentre il primo significa l’uomo valoroso, virtuoso, l’uomo per eccellenza, con riferimento alle sue qualità morali migliori (esso è strettamente imparentato con il termine andreia che significa virilità, coraggio, forza d’animo, valore), il secondo si riferisce soltanto all’uomo comune, l’uomo qualunque, l’uomo della strada.
[54] La Geenna, dall’ebraico “ghe-Hinnom” (valle del fiume Innom), è una sorta di precipizio posto a sud-ovest di Gerusalemme. In questa valle anticamente si erano eretti dei templi al dio Moloch al quale venivano sacrificati dei bambini, secondo riti pagani cananei ai quali partecipavano anche gli ebrei. Il re Giosia (640-609 a.C.) nel riformare e nel ristabilire il vero culto a Jhwh, fece abbattere questi templi e ridusse la valle ad un deposito di immondizie e di cadaveri che non potevano avere sepoltura e dove il tutto veniva bruciato. Il fuoco qui dunque era perenne. Da qui, per similitudine, la Geenna divenne la rappresentazione del luogo di ogni impurità sottoposto ad un fuoco eterno, cioè l’Inferno. Questo concetto è stato ripreso nel N.T. in cui il termine Geenna ricorre 12 volte e indica il luogo della perdizione eterna.
[55] Cfr. Gv 4,6-12
[56] Cfr. Manfred Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo (MI) - 1990
[57] Cfr. Mt 21,19; Mc 11,13-14; Lc 13,6-9.
[58] Cfr. Is 5,1-7; Ger 2,21; 6,9; 8,13; Na 2,2.
[59] Cfr. Mt 21,33-41; Mc 12,1-9; Lc 20,-16.
[60] La Gaudium et Spes è la costituzione pastorale conciliare sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
[61] Con i vv. 4-10 l’autore si rifà al linguaggio dei profeti che richiamavano il popolo alla conversione.
[62] Cfr. Is 54,5; 61,10; 62,4-5; Ger 2,1-3.32; 3,1; Os 2,21;
[63] Cfr. Is 57,3; Ger 3,9; 5,7; Ez 16,32; 16,38; 23,37; Os 2,4; 3,1.
[64] Cfr. Es 34,14; Dt 4,24; 5,9; 6,15; 29,19; 32,21; Gs 24,19; Sal 77,58; Is 26,11; Na 1,2;
[65] Cfr. Gen 2,7
[66] Cfr. Is 65,17; 66,22; Ap 21,1.5
[67] Cfr. Rm 6,4; 1Cor 5,7; 2Cor 5,17;
[68] Il verbo “spogliò” in greco è reso con “ekénosen” che letteralmente significa “svuotò” se stesso. L’incarnazione di Dio pertanto non fu una semplice formalità, come quella di togliersi l’abito regale per rivestirsi di uno più povero, ma comportò un radicale e profondo mutamento nella natura stessa di Dio e del suo modo di essere Dio, che ha conosciuto in se stesso la drammatica povertà di una natura di peccato.
[69] Con l’espressione “uomo che giudichi” Paolo si riferisce al giudeo il quale si poneva in un atteggiamento di superiorità e critico nei confronti degli altri popoli pagani che non possedevano la Torah, non avevano beneficiato dell’elezione divina ed erano esclusi dall’Alleanza. Gli ebrei avevano inoltre un atteggiamento di disprezzo nei confronti degli altri popoli che ritenevano impuri (Gv 18,28) e che definivano “cani”, animali considerati impuri. Anche Gesù, rivolto alla cananea, seguirà questa tradizione: “<<Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini>>” (Mt 15,26; Mc 7,27).
[70] “]Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo. Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini. Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito” (Ef 2,10-18)
[71] Ci troviamo nel caso di un dativo di possesso per cui la traduzione letterale è “il peccato è a lui” o “egli possiede il peccato”.
[72] Cfr. n. 1 dell’introduzione alla Lettera di Giacomo.
[73] Cfr. Is 1,10-23; 3,14-15; 5,8-10; 10,1-4; Ger 5,25-30; Am 2,6-7; 4,1-3; 5,11-12; 8,4-6;
[74] Cfr. Lc 12,16-21.
[75] Qoelet è un libro sapienziale. Il nome deriva dall’ebraico qahal che significa assemblea. Nella traduzione greca dei Settanta, il libro è chiamato ekklesia, ossia assemblea. L’autore del libro si presenta con lo pseudonimo di Qoelet, che definisce la sua funzione di colui che preside dell’assemblea. Lutero definirà il Libro con il titolo di “Predicatore”, poiché il libro si svolge come una lunga predica di tipo sapienziale, una riflessione sulla vita.
[76] Sul Giorno del Signore cfr. Is 2,12; 13,6.9; Ez 13,5; 30,3; Gl 1,15; 2,1.11; 3,4; 4,14; Am 5,18.20; Abd 1,15; Sof 1,7.14
[77]"Perché ci invidi molto e ovunque sminuisci i nostri libretti, ti perdono: o poeta circonciso, sei astuto. Anche di questo non mi preoccupo, quando mi saccheggi prendendo i miei carmi: così, o poeta circonciso, sei astuto. Questo mi secca, poiché tu, nato nella stessa Gerusalemme, violenti il mio schiavetto, o poeta circonciso. Ecco, neghi e giuri per i templi di Giove Tonante. Non ti credo: giura, o circonciso, per Anchialo" (Marziale, Epigrammi, Libro XI, 94).
[78]Il Siracide, opera sapienziale, è datato intorno all'anno 180 a.C., scritta da Gesù ben Sirach per contrastare l'espandersi della cultura e della filosofia ellenistica. La Tradizione cristiana, a partire da Cipriano (200/210-258 d.C.), denominò quest'opera con il titolo di Ecclesiastico o Libro della Chiesa, riconoscendogli un ruolo importante nell'istruzione dei catecumeni.
[79] Cfr. Es 33,1; Dt 4,21.31; 7,12; 31,20; 34,4; Sal 88,36; Is 45,23; 62,8; Ger 22,5; Ez 14,16; 17,16; 20,23; Am 4,2
[80] Cfr. Gen 22,16, Es 32,13; Is 45,23; Ger 22,5; 49,13
[81] Cfr. Gen 26,28.31; 50,24; Es 33,1; Dt 7,12; 8,18; 9,5; 31,20; Gs 9,15; 1Sam 20,42; 2Sam 21,7; 1Cr 16,16; Ne 10,30; 1Mac 6,61; Sal 104,9; Sir 41,20
[82]Cfr Ortensio da Spinetoli, Matteo, op. cit.; Angelico Poppi, I Quattro Vangeli, op. cit.