LETTERA AI ROMANI
Traduzione e commento
esegetico e teologico
a cura di Giovanni
Lonardi
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Preambolo
Per poter comprendere in tutta la sua profondità anche una sola lettera di Paolo è indispensabile conoscere chi è Paolo, poiché quando egli scrive trasfonde in quella lettera non solo il suo pensiero, ma tutto se stesso, poiché non c'è distinzione tra il pensiero di Paolo e i suoi sentimenti, la sua emotività, la sua umoralità, la sua passionalità, la sua veemenza, che rasenta il fanatismo, cioè l'assolutizzazione della sua profonda passione per Cristo, che non conosce ostacoli e sfida ogni pericolo e ogni limite imposto dalla ragionevolezza umana. Le sue lettere, infatti, non sono dei freddi e razionali trattatelli di cristologia o di teologia, ma strumenti attraverso i quali Paolo si rende presente con tutto se stesso presso la comunità, a cui egli indirizza la sua lettera. Le sue lettere pulsano della vita stessa di Paolo, che definire un appassionato del Cristo risorto sarebbe alquanto riduttivo. Lo potremmo definire come un veemente e indomabile fanatico del Cristo risorto, per il quale sopporta ogni sofferenza e peripezia (Rm 8,35-39; 2Cor 11,23-27) e attraverso il quale egli vede e legge la realtà che lo circonda e la vita stessa in tutte le sue espressioni. Tutti i problemi che egli è chiamato ad affrontare all'interno delle comunità da lui fondate sono approcciati e risolti attraverso e nel Cristo risorto. E tutto ciò è possibile perché tra Paolo e Cristo vi è una sovrapposizione di persone, che arriva ad essere una identificazione. Significative e rivelative in tal senso sono le sue affermazioni con cui egli definisce se stesso: “Sono stato crocifisso con Cristo: ora non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19b-20a); e, similmente, in modo più lapidario e incisivo: “Per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21a). Qui c'è tutto Paolo.
Di seguito, pertanto, prima di introdurci alla lettura esegetica e al commento della Lettera ai Galati, cercherò di tratteggiare la figura di Paolo, la sua personalità, la sua esperienza con il Cristo risorto, la sua strategia missionaria, il suo pensiero, che sottende, qua e là, le sue lettere. Tutti elementi necessari per comprenderle, in particolare quella ai Galati, dove Paolo esprime con irruenza tutto se stesso. Una lettera importante, che formerà da base dottrinale a quella ai Romani, scritta circa un anno dopo quella ai Galati, tra il 57 e il 58 d.C., e ne riprende le tematiche dottrinali, dando loro uno sviluppo più organico e pacato e, quindi, molto più profondo. Del resto ben diversi tra loro erano i contesti in cui le due lettere erano sorte: di duro rimprovero e accorata difesa del Vangelo, che egli aveva predicato ai Galati, che lo avevano abbandonato per abbracciare il giudaismo, quella ai Galati; di conoscenza e richiesta di aiuto ad una comunità che egli non aveva fondato, ma di cui doveva avere l'appoggio economico e il sostegno spirituale per la sua futura missione in Spagna, quella ai Romani.
Note generali su Paolo
Dopo Gesù, Paolo è l’apostolo che maggiormente ha influenzato il pensiero cristiano; per alcuni è considerato il “fondatore del cristianesimo”, nel senso che il cristianesimo con Paolo uscì dai ristretti confini di Gerusalemme e della Palestina, staccandosi nettamente dal giudaismo ed aprendosi, invece, all’intero mondo dei Gentili, che costituiranno per Paolo un privilegiato terreno di conquista e di lavoro (Gal 2,7-9; Rm 1,5; 15,15-19).
Questa, infatti, è la specifica vocazione di Paolo, che egli stesso evidenzia in Gal 2,7-8: “ma per questo, avendo visto che mi fu affidato il vangelo dell'incirconcisione come Pietro (quello) della circoncisione, colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti”. E sarà proprio su questo terreno dei Gentili che Paolo dovrà scontrarsi con i giudeocristiani, che sostenevano la necessità di sottomettersi alla Legge di Mosè, tramite la circoncisione, per accedere alla salvezza in Cristo.
Un duro scontro questo, che farà soffrire non poco Paolo e che porterà al primo concilio della storia, quello di Gerusalemme nel 49 d.C., ricordato in At.15,1-33 e in Gal.2,1-10.
Egli è l’unico apostolo di cui abbiamo molta documentazione ed è il più commentato e conosciuto autore del N.T. Di lui o della sua scuola di pensiero si hanno complessivamente tredici lettere e numerosi riferimenti autobiografici, nonché ben 20 capitoli, che Luca dedica a Paolo e alla sua attività negli Atti degli Apostoli (capp.8-28). Neppure Pietro e Giacomo, che erano ritenute le colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), ebbero tanta risonanza. Di loro o comunque a loro attribuite ci sono rimaste soltanto due lettere di Pietro e una di Giacomo per complessivi 274 versetti.
Notevole il peso di Paolo e della sua scuola di pensiero, basti pensare che su 7957 versetti, che compongono l'intero Nuovo Testamento canonico, ben 20331 sono di Paolo o di scuola paolina, cioè il 25,55% dell'intero canone neotestamentario; mentre dei 27 libri di cui è composto il N.T. 13, quindi quasi il 50%, sono lettere di Paolo o di scuola paolina. Ma ciò che più lo contraddistingue è la profondità, la potenza e l'originalità di pensiero della sua teologia e della sua cristologia; nonché, da un punto di vista storico, le notizie che, tramite le sue lettere, ci pervengono circa la struttura, la vita e i problemi delle prime comunità credenti, cioè della chiesa nascente. Così che potremmo affermare, senza ombra di dubbio, che senza la persona di Paolo e della sua opera letteraria oggi il cristianesimo non avrebbe raggiunto la profondità del suo pensiero teologico e cristologico e probabilmente sarebbe stato fagocitato dal giudaismo o, quanto meno, avrebbe perso molto della sua originalità.
Una teologia e una cristologia quelle di Paolo del tutto originali e inedite. Basti pensare che, allorché Paolo scrive le sue lettere, tutte tra il 50 e il 60 d.C., i vangeli non erano stati ancora scritti. Il primo, quello di Marco, verrà composto tra il 65 e il 69 d.C., e Paolo, per primo, introdurrà le espressioni “vangelo” e “evangelizzare”, che ritroviamo nelle sue lettere, il primo, per ben 60 volte e 21 volte il secondo. Ed è sempre lui, per primo, a definire la sua predicazione come “il mio vangelo” (Rm. 2,16; 2Tm 2,8). Egli poi introdurrà nuovi termini e nuovi verbi, quindi, un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio per esprimere la novità dell'evento Cristo morto-risorto in quanto tale e in rapporto ai credenti.
Tuttavia le novità che Paolo predica non sono frutto di fantasia, ma si radicano nella fede, che egli ha acquisito e maturato presso le comunità credenti, che ruotavano attorno alle aree di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia, dove rimarrà per una decina d'anni dopo l'evento di Damasco (circa 35 d.C.), prima di intraprendere i suoi viaggi missionari (45-57 d.C.), e delle quali riporta sovente nelle sue lettere formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da queste comunità. Una fede, quindi, non improvvisata o inventata, ma che si radica in quella delle comunità credenti e, quindi, della Tradizione. Lo ricorderà due volte in 1Cor 11,23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore2 quello che a mia volta vi ho trasmesso”; e similmente in 1Cor 15,3: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto”. Ma ciò che Paolo trasmette non è una ripetizione meccanica e pedissequa di formule dottrinali, ma il tutto passa attraverso il potente filtro del suo pensiero innovativo e della sua esperienza del Cristo risorto. Paolo, dunque, riflette su quanto ha ricevuto e lo elabora personalmente, adattandolo alle varie situazioni delle comunità, che gli si presentano di volta in volta.
Le sue lettere, pertanto, scritte tutte tra il 50 e il 60, si presentano come delle risposte scritte a degli interrogativi posti dalle varie comunità o a loro problematiche interne. Lettere, quindi, occasionali. Di conseguenza la sua teologia e cristologia non si presentano come dei trattati dottrinali stesi a tavolino, ma nascono da situazioni contingenti e in risposta ai problemi posti dalle singole comunità.
Il linguaggio dei suoi scritti, pertanto, è caratterizzato dall’immediatezza, dalla spontaneità, dalla vivacità di espressione, che talvolta si carica di sentimenti forti e di emozioni violente, fino a sfociare nell’insulto verso i suoi detrattori. Ma questo modo di procedere pone dei limiti: infatti, non sempre conosciamo le circostanze che hanno prodotto le risposte di Paolo; del resto non era necessario che le precisasse in quanto erano ben conosciute dalle comunità interessate.
La profondità, la ricchezza, la complessità del pensiero di Paolo e il suo lungo periodare non sempre giocano a favore della sua chiarezza e della sua immediata comprensione. Ne dà testimonianza in tal senso l’autore della seconda lettera di Pietro: “… come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt. 3,15-16).
Tuttavia,
questa lettera, di autore anonimo, databile tra il 120 e 135 d.C.
circa, ci dà delle informazioni interessanti intorno agli scritti
paolini e precisamente afferma che:
esistono delle lettere di Paolo che circolano tra le comunità e sono gelosamente conservate da queste;
queste sono considerate “alla pari delle altre Scritture”, intendendo per Scritture l’A.T., evidenziando in tal modo l’autorevolezza e la sacralità del pensiero paolino tra le prime comunità credenti;
dicono
anche cose difficili, per cui molti le travisano. Fin da subito,
quindi, ci si è accorti della complessità del pensiero di Paolo e
della difficoltà di interpretazione di questi scritti.
Ed è proprio per questa complessità di un pensiero innovativo, creativo e dirompente che Paolo trova lungo il suo cammino di evangelizzazione numerosi avversari e detrattori, che formano una sorta di fronte antipaolino, una specie di task-force di contro-evangelizzazione, formata prevalentemente da giudeocristiani giudaizzanti, cioè da cristiani provenienti dal giudaismo, ma che, non avendo ancora compreso la novità dell'evento Cristo, continuavano a praticare la Legge mosaica e a predicare la necessità della circoncisione per poter accedere alla salvezza, subordinando in tal modo la novità dell'evento Cristo a Mosè. Ne troviamo traccia in 2Cor11,13-15.22-23; 12,11; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17-18; Col 2,8.
Questioni introduttive alla biografia paolina
A) Le fonti
Paolo, tra tutti i personaggi che si muovono nel N.T., è quello che storicamente ci offre una maggiore ricchezza di dati sia perché numerosi sono gli agganci storico-geografici che possiamo rilevare dai testi in nostro possesso, sia perché l’attività missionaria di Paolo fu piuttosto lunga e soprattutto straordinariamente densa (45-57 d.C.).
Due sono i pilastri fondamentali, che ci offrono il maggior numero di dati biografici di Paolo: da un lato, le sue Lettere, benché il quadro cronologico che ne risulta sia scarso e frammentario; dall'altro, gli Atti degli Apostoli, l'opera lucana che dedica ben 20 capitoli su 28, di cui e composta, alla figura di Paolo e alle sue imprese missionarie. Luca, tuttavia, per la sua opera usa fonti di seconda e terza mano, per cui non sempre i dati fornitici direttamente da Paolo coincidono esattamente da quelli offertici da Luca. In tal caso, la preferenza va sempre accordata alla testimonianza di Paolo. Vanno poi tenuti presenti gli intenti narrativi di Luca, che nel raccontare gli inizi della storia della chiesa, mostra maggiori interessi per gli aspetti teologici che biografici. In altri termini, Luca è si uno storico come egli reclama di essere nel suo prologo al vangelo (Lc 1,1-4), ma è uno storico interessato.
Tuttavia,
da una prudente combinazione di questi Scritti, integrati da altre
fonti storiche esterne, possiamo stilare, con discreta certezza, un
quadro biografico abbastanza soddisfacente, in particolar modo per
quello che va dall'evento di Damasco fino all'arrivo a Roma di Paolo
come prigioniero. Rimangono fuori dal quadro biografico il periodo
antecedente la sua conversione, al di là di qualche cenno, fornitoci
in parte dagli Atti e in parte dallo stesso Paolo, e quello dei due
anni successivi al suo arrivo a Roma, di cui si possono fare solo
delle ipotesi.
B)
I cardini della cronologia paolina
Benché
la questione sulla cronologia sia un problema di difficile soluzione
per la lacunosità delle fonti, tuttavia vi sono negli scritti di
Paolo, in particolare nella Lettera ai Galati 1,11-2,14 e negli Atti
degli Apostoli, dei punti di riferimento storici certi, ragionando
sui quali si può ottenere, con discreta precisione una soddisfacente
cronologia della vita di Paolo.
2Cor. 11,32-33: “A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così fuggii dalle sue mani”.
Il re qui menzionato è Areta IV, monarca del regno dei Nabatei, che governò dal 9 al 39 d.C. e al quale Caligola (37-41 d.C.) affidò il controllo, almeno parziale, della città di Damasco, inglobata nella provincia romana di Siria, per il periodo 37-39 d.C. Pertanto questa fuga di Paolo, calato dalla finestra in una cesta per sfuggire al re Areta, avvenne in questo periodo, probabilmente nel 38 d.C., ossia dopo tre anni dalla conversione, avvenuta intorno al 35 d.C.
Gal 1,13-2,14 in cui Paolo riporta le tappe fondamentali da prima della sua conversione fino all’anno 49 circa, anno in cui avvenne il primo concilio di Gerusalemme, il primo della storia della chiesa. Dopo la sua conversione, avvenuta nell'anno 35 d.C. e che egli legge alla maniera degli antichi profeti (Gal 1,15-16), mentre era diretto a Damasco, fu folgorato dall'incontro con il Cristo risorto. Rimane presso la comunità credente di Damasco per tre anni, durante i quali, compie, di sua iniziativa, un viaggio missionario in Arabia, facendo poi ritorno a Damasco (Gal 1,17).
Tre anni dopo (qui il dopo va sempre riferito al “dopo l'evento di Damasco”), quindi nel 38 d.C., fa la sua prima visita a Gerusalemme per conoscere i capi della chiesa madre, Pietro e Giacomo e vi rimane quindici giorni (Gal 1,18). Poi riprende la sua attività missionaria, sempre di sua iniziativa nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21)
Quattordici anni dopo l'evento di Damasco (35 d.C.), quindi nel 49 d.C., torna nuovamente a Gerusalemme, assieme a Barnaba e a Tito, per dirimere una questione di vitale importanza, a motivo della quale tutti i responsabili della chiesa di Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni si ritrovarono assieme per prendere una decisione comune. La questione era se i pagani, convertiti alla fede in Cristo, dovessero essere circoncisi e, quindi, sottoposti alla Legge mosaica (Gal 2,1-10).
At
18,1-2:
“Dopo
questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto.
Qui
trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco
prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di
Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da
loro”.
Di
questo decreto di Claudio (41-54) parla anche Svetonio nella sua
opera “Vita
dei Cesari”
nella parte riferita a Claudio, il quale “Judeos
assidue tumultuantes impulsore Chresto Roma expulit”3.
La
data di questo editto di espulsione è solitamente posta nel 49 d.C.
At 18,12-17: “Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo…”
Lucio Giunio Gallione, fratello di Seneca, era proconsole a Corinto tra il maggio del 51 e il maggio del 52. La data si ricava da un’iscrizione epigrafica trovata a Delfi nel 1905, che riporta il testo di una lettera di Claudio allo stesso Gallione. In questa lettera Claudio menziona di essere stato proclamato imperatore per la 26^ volta. Questa 26^ acclamazione ebbe luogo tra il gennaio e l’agosto del 52. Ora, poiché il proconsolato durava un anno a partire da aprile, il rescritto può essere giunto a Gallione o all’inizio o alla fine del suo proconsolato. Nel primo caso la data è 52-53 nel secondo caso, più probabile, tra il 51 e il 52. È, dunque, in questo periodo, probabilmente agli inizi del 52 che Paolo viene accusato davanti a Gallione.
L'episodio qui riportato concorda con il secondo viaggio missionario di Paolo (49-52 d.C.), che in quell'occasione visitò Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto.
Deduzioni e tentativo di costruire una cronologia
Alla
luce di questi quattro punti cronologici di riferimento e con l’aiuto
di un certo ragionamento storico, si può tentare di stilare una
cronologia
paolina
di massima. Ogni data qui proposta va, quindi, sempre accompagnata da
un ”circa”:
Nel 5 d.C. Paolo nasce a Tarso
Nel 30 d.C. morte di Gesù
Nel 35 d.C. evento di Damasco e conversione di Paolo che per circa dieci anni rimane all’interno delle comunità cristiane di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia a maturare la propria fede.
Nel 38 d.C. dopo tre anni dall'evento di Damasco, primo viaggio a Gerusalemme dove incontra Pietro e Giacomo e vi rimane quindici giorni. (Gal.1,18).
Tra il 45 e il 48 d.C. primo viaggio missionario: visita Cipro, Antiochia di Psidia, Listra e Derbe.
Nel 49 d.C. dopo quattordici anni dalla conversione (Gal.2,1), secondo viaggio a Gerusalemme, dove, insieme a Barnaba e a Tito, partecipa al primo concilio di Gerusalemme per la questione della circoncisione dei convertiti dal paganesimo, la quale cosa comportava la sottomissione alla Legge mosaica;
Tra il 49 e il 52 d.C. secondo viaggio missionario: visita Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto. Durante questo secondo viaggio Paolo, casualmente, a seguito di una malattia, fonda la chiesa della Galazia;
Tra il 53 e il 57 d.C. terzo viaggio missionario: visita Efeso, Troade, Filippi, Corinto, Mileto. Fulcro di questo viaggio è Efeso, dove rimane circa tre anni e dove scrive la lettera ai Galati;
Tra il 58 e il 60 d.C. terzo viaggio a Gerusalemme e suo arresto a Cesarea
Tra il 61 e il 63 d.C. viene trasferito da Cesarea a Roma dove, dopo due anni di prigionia, morirà martire, sotto la persecuzione di Nerone, che durò circa un anno a partire dal luglio del 64 d.C.
Per altri, invece, Paolo dopo i due anni di prigionia compie altri viaggi che si collocano tra il 63 e il 67, anno in cui muore martire4
Cenni biografici di
Paolo
Sulla base della cronologia qui sopra ipotizzata e con l'aiuto delle due fonti a nostra disposizione, Lettere paoline e Atti degli Apostoli, cercherò di delineare alcuni cenni biografici di massima su Paolo.
Paolo nasce tra il 5 e 10 d.C. a Tarso, capoluogo della Cilicia, posta sul fiume Cidno, che collega il Mediterraneo con l’interno. Tarso è un importante centro commerciale e di cultura greca (At 22,39a).
Egli appartiene alla tribù di Beniamino, da cui uscì il primo re di Israele, Shaul, di cui assume il nome, grecizzato, poi, in Saulos e latinizzato in Paulus (At 13,9a).
Il triplice nome, ebraico, greco e romano stanno ad indicare le tre culture che si incrociano in Paolo, rendendolo un cosmopolita, e che si rifletteranno nelle sue lettere e nel suo annuncio.
La famiglia di Paolo proviene dalla diaspora e il padre, cittadino romano per acquisizione, trasmette al figlio la cittadinanza romana, di cui Paolo si avvarrà davanti al tribuno (At 22,24-28). Viene educato al rigore della Legge ebraica e, ancora adolescente, il padre lo invia a Gerusalemme per una più completa formazione nelle tradizioni dei padri. Suo maestro, qui, sarà, Gamaliele (At 22,3), discepolo di Hillel, capostipite della corrente giudaica più moderata e più aperta, che si contrapponeva a quella più rigorista e tradizionalista di Shammai.
È da pensare, pertanto, che Paolo abbia acquisito da Gamaliele un giudaismo più moderato ed aperto, benché, poi, il suo carattere impulsivo e passionale ne abbia accentuato ed esaltato i toni, divenendo un fariseo intransigente fino a spingersi a perseguitare attivamente i cristiani di Gerusalemme e a “votare la condanna a morte contro di loro”. Questo particolare (At 26,9-10) fa pensare che egli facesse parte del Sinedrio, che solo aveva il potere di deliberare le condanne a morte.
In questo contesto di fanatismo religioso, Paolo presenziò e condivise la lapidazione di Stefano avvenuta, probabilmente tra il 35 e il 36 (At 22,20).
Fu proprio in questo periodo che Paolo, diretto a Damasco per eseguire dei mandati di cattura contro i cristiani, viene folgorato dall’incontro con il Cristo risorto, che lo chiama a diventare “ministro e testimone delle cose che hai visto” (At 26,9-16). Un’esperienza questa che ha radicalmente sconvolto l’esistenza di Paolo e che Luca richiama nei suoi Atti per ben tre volte (At 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20), benché Paolo non si riferisca spesso a questo episodio e quando lo fa (1Cor.15,5-8 e Gal. 1,12-17) è solo con una pallida allusione, quasi impercettibile.
Paolo visse questa esperienza del Cristo risorto come una chiamata (Gal 1,15-16), che produsse in lui un traumatico e radicale capovolgimento esistenziale, che lo portò ad una successiva maturazione della propria fede, inizialmente, all’interno della comunità credente di Damasco.
Infatti, Paolo inizierà il suo primo viaggio missionario nel 45. Fino ad allora egli rimane sostanzialmente in silenzio all’interno delle comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che diverrà poi, quest’ultima, la sua base logistica, da cui partirà per compiere i suoi viaggi missionari.
All’interno di queste comunità egli acquisirà gli elementi fondamentali della fede, che poi trasmetterà ai pagani. Egli stesso, infatti, in 1Cor 11,23 attesta: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”, dove per “Signore” va inteso la comunità credente nel Signore e che si rifà alla tradizione fatta risalire al Signore stesso; e similmente in 1Cor 15,3 afferma che “Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto”. Le sue stesse lettere, del resto, denunciano la sua dipendenza dalle comunità, che egli ha frequentato durante il decennio di silenzio, che ha preceduto i suoi tre viaggi missionari. In esse, infatti, vi sono riportate formule e professioni di fede, formule kerigmatiche, testi liturgici, inni e parenesi, che Paolo non si è inventato, ma che ha mutuato da queste comunità, dislocate nelle aree di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia.
Dopo l’esperienza di Damasco Paolo si recherà subito in Arabia (Gal 1,17) e nella stessa Damasco annuncerà il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire, calato in una cesta dalle mura della città (2Cor 11,32-33).
Trascorsi tre anni dalla sua conversione, siamo intorno all'anno 38 d.C., Paolo si reca a Gerusalemme, una prima volta, per un incontro con Pietro e Giacomo e qui vi rimane 15 giorni (Gal 1,18-19). E qui vi ritornerà, saltuariamente, a predicare il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire perché gli ebrei lo vogliono uccidere (At 9,28-29). Dovrà fuggire, pertanto a Tarso, dove rimarrà in silenzio per alcuni anni (At 9,30).
Da qui sarà recuperato da Barnaba e condotto nella comunità di Antiochia, che diverrà la sua comunità di riferimento per tutta la sua attività missionaria e dove rimase un anno (At 11,25-26).
Dalla stessa comunità di Antiochia Paolo e Barnaba furono inviati in missione. (At 13,2-4). Siamo nel 45 d.C. Inizia così il primo viaggio missionario di Paolo che durerà fino al 48 d.C. (At 13,1-14,28). I punti toccati dai due furono: Cipro, Attalia, Perge, dove Marco, cugino di Barnaba, lascerà i due (At 13,13), Antiochia di Psidia, Iconio, Listra, Derbe, quindi il ritorno per le stesse località.
Al loro rientro Paolo e Barnaba trovano peggiorate le relazioni tra i giudeocristiani e gli etnococristiani al punto da creare una rilevante crisi all’interno della chiesa primitiva: Paolo e Barnaba non esigevano la sottomissione dei pagani convertiti alla circoncisione e, di conseguenza, alla Legge di Mosè; mentre i giudeocristiani, in particolare il gruppo che faceva a capo a Giacomo, richiedevano la circoncisione.
Il dissidio fu tale che si ritenne necessario un vertice a Gerusalemme tra i vari responsabili della chiesa madre. A tale incontro vennero inviati dalla comunità di Antiochia Paolo e Barnaba. Fu il primo concilio, che si tenne a Gerusalemme nel 49 (At 15,1-33; Gal 2,1-10) che chiarì, in linea di principio, la questione, ma non risolse di fatto il problema, sul quale Paolo tornerà nella sua lettera ai Galati.
Rientrati ad Antiochia, Paolo, ormai abbandonato anche da Barnaba (At 15,37-39), parte con Sila, suo nuovo compagno (At 15,40-41), per il suo secondo viaggio missionario, che durerà dal 49 al 52 (At 15,36-18,22) e risultò importante per la fondazione delle comunità cristiane in Grecia e nella Galazia.
Il percorso di questo viaggio portò Paolo lungo il cammino delle precedenti comunità (At 15,36), che aveva fondato nel primo viaggio (45-48 d.C.). A Listra si unì a lui anche Timoteo che, pur di avere con sé, accettò di farlo circoncidere (At 16,1-3).
Diretto
a Troade, per un’improvvisa malattia, Paolo fu costretto a deviare
sull’altipiano della Galazia, dove fondò le prime comunità
cristiane (Gal 4,13). Proseguì, infine, per Troade da dove toccò
Neapolis, Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto, Efeso e
ritorno a Cesarea e da qui a Gerusalemme, per relazionare del suo
viaggio agli anziani della chiesa madre.
Il terzo viaggio, avvenuto tra il 53 e il 57 (At 18,23-21,15), fu prevalentemente di ricognizione tra le varie comunità fondate e per rinsaldare i rapporti tra loro. Le città presso cui si fermerà più a lungo saranno Efeso e Corinto. Durante questo viaggio Paolo raccoglierà presso tutte le comunità da lui fondate una colletta per i poveri della chiesa di Gerusalemme, alla quale egli attribuisce un valore importante, perché la sua accettazione da parte dei responsabili della chiesa madre di Gerusalemme significava che i cristiani provenienti dal paganesimo erano definitivamente accettati in seno ad essa.
Dopo
questo terzo viaggio Paolo viene fatto prigioniero a Cesarea nel 60 e
da qui trasferito a Roma, dove rimase per due anni in uno stato di
semilibertà. Muore martire sotto Nerone intorno al 67.
Note su alcune
particolarità di Paolo
L'evento di Damasco
Un’attenzione particolare va data all’evento di Damasco, meglio conosciuto come la “conversione di Paolo”, per l’importanza fondamentale che questo ha avuto nella sua vita, sulla quale ha inciso profondamente, trasformandola radicalmente e improvvisamente.
Due sono le fonti testimoniali: gli Atti e gli stessi scritti di Paolo.
Gli Atti degli Apostoli ci forniscono tre diverse narrazioni (9,1-30; 22,3-21; 26,9-20) alquanto particolareggiate, dove viene messa in evidenza l’iniziativa di Dio. Sono racconti non sempre tra loro concordanti e dal sapore popolare, costruiti da Luca sulla falsariga delle chiamate bibliche:
Manifestazione di Dio
Dialogo all’interno della teofania
Incarico e missione
Nell’ambito di questa chiamata Luca introduce anche la figura di Anania, che fa da tramite tra Paolo e la comunità credente di Damasco e che, man mano che i racconti procedono, lentamente scema fino a scomparire completamente nel terzo racconto di At 26,9-20. Questi è definito come un discepolo della comunità di Damasco (At 9,10) e “un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei là residenti” (At 22,12).
Quanto agli Scritti di Paolo, questi ricordano l'evento, ma sempre con toni molto sobri, talvolta solo allusivi, e in modo strettamente personale. Dell’evento Paolo non parla mai in modo narrativo, ma mettendo in rilievo gli aspetti di grazia, di dono e di chiamata, che lo ha costituito missionario e apostolo. Il testo più significativo è quello di Gal 1,11-17, in cui Paolo si pone sulla linea delle chiamate profetiche. Egli, infatti, parla di “rivelazione”, di “una sua elezione fin dal seno di sua madre”, di “una chiamata per grazia”, di “una compiacenza di Dio nel rivelargli suo Figlio”. E quando Paolo parla di “compiacenza” allude ad un preciso disegno di Dio. A tutto ciò Paolo lega la sua missione di apostolo dei pagani. Un pensiero e una convinzione questi, che Paolo lascia trasparire chiaramente in apertura della lettera ai Galati, come una sorta di sua carta d'identità, mettendo in rilievo come il suo essere apostolo gli viene direttamente da Cristo e da Dio, suo Padre: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1).
Una maggiore precisazione sull’evento, Paolo la aggiunge in 1Cor 9,1 e 15,8-9, in cui parla rispettivamente di “aver veduto” e di “apparizione”.
Quanto alla sconvolgente rottura con il passato, che tale esperienza ha provocato in lui, ne fa accenno in Fil. 3,7-11, così che tutti i valori del suo passato, in cui ha creduto fermamente, gli sembrano ora spazzatura.
Come, dunque, interpretare l’evento di Damasco? Parlare di semplice conversione è del tutto inadeguato. Qui c’è un’evidente frattura esistenziale tra il prima e il dopo evento, che segnerà non solo la sua intera esistenza, ma tutta la sua teologia, il suo modo di pensare. Non si tratta, dunque, di una lenta e graduale maturazione interiore di certi valori, bensì di una radicale e improvvisa rottura con il suo passato e di un nuovo e improvviso riorientamento esistenziale e modo di pensare.
Paolo e la comunità cristiana primitiva
Dopo la sua esperienza di Damasco, Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che sono nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco, dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia, da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario.
La dipendenza di Paolo da queste comunità si riscontra anche nelle sue lettere, dove riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici, che egli ha ricevuto come eredità di fede dalle comunità stesse (1Cor 11,23; 15,3). Così che si può ben dire che Paolo non fu il fondatore del cristianesimo, bensì il suo instancabile propagatore e il suo potente propulsore, ma sempre in una linea di continuità con la chiesa originale, da cui ha ricevuto la fede e in cui, per circa un decennio (35-45 d.C.), prima dei suoi viaggi missionari (45-62 d.C.), è stato formato.
Il metodo missionario di Paolo
Come sua strategia missionaria, Paolo sceglie sempre delle comunità che non hanno mai sentito parlare di Cristo. Lo attesterà apertamente in Rm 15,20: “Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui”. Il motivo di tale scelta probabilmente è duplice: a) non perdere tempo ad annunciare Cristo là dove è già stato annunciato. Una scelta dettatagli dalla convinzione, molto diffusa nella chiesa del I sec., dell'imminenza della parusia e, pertanto, l'urgenza di diffondere quanto più possibile, prima del ritorno di Cristo, il suo annuncio; b) la novità del “suo vangelo”, inoltre, rischiava di contrastare con le visioni forse meno aperte di altri missionari fondatori, con il rischio di creare turbamento e confusione nelle comunità fondate da altri. Farà tuttavia un'eccezione per la comunità di Roma, che lui non ha fondato, ma alla quale, come vedremo, tiene particolarmente.
Nel suo annuncio Paolo è mosso sempre da una sua personale convinzione circa un piano di salvezza prestabilito da Dio, che vede annunciare la salvezza prima al Giudeo e poi al Greco: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16), seguendo in tal modo la logica della storia della salvezza, secondo la quale Dio ha rivelato se stesso e conclusa la sua Alleanza prima con Israele, mostrando tutta la sua predilezione per questo popolo che si è scelto, costituendolo, dopo la sua liberazione dalla schiavitù egiziana, sua proprietà tra tutti i popoli, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Soltanto a seguito del rifiuto operato da Israele, l'annuncio della salvezza verrà esteso ai pagani, così che il rifiuto di Israele era diventato motivo di salvezza per gli altri (Rm 11,11-12). Una teologia questa che egli svilupperà meglio in Rm 9-11.
Per questo motivo Paolo, nell'annuncio del suo Vangelo, punta sempre sui grandi centri urbani, caratterizzati dalla presenza di ebrei e di sinagoghe, alle quali volge per prime il suo annuncio e, soltanto dopo il loro rifiuto, si rivolge al mondo dei pagani, seguendo così le logiche di ciò che egli riteneva fosse un piano di salvezza prestabilito da Dio.
Le comunità da lui fondate non sono, nel loro nucleo originale, numerose, ma si tratta di poche persone, qualche famiglia, che deve, quasi sempre, abbandonare precipitosamente per le ostilità degli ebrei lì presenti. In genere lascia sul posto o invia successivamente uno o più collaboratori perché completino l’opera da lui iniziata. Poi si incontrerà di tanto in tanto con i suoi collaboratori e, in base alle informazioni ricevute, scrive le lettere.
Paolo non è un pastore d'anime, ma un indomito annunciatore della parola. Rivelativa in tal senso è l'attestazione di 1Cor 1,14-17: “Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo”.
Queste
comunità credenti che egli riesce a fondare con la sua predicazione
non sono da lui ritenute sua proprietà o sua conquista. Non sono
chiese fondate in opposizione ad altre chiese, ma desidera
che queste siano legate con la chiesa madre di Gerusalemme, per la
quale fa raccogliere una colletta,
segno di comunione e di riconoscenza per la fede da essa donata.
La colletta per la chiesa madre di Gerusalemme
È necessario spendere una parola sulla colletta, un gesto di carità verso la chiesa madre di Gerusalemme, nei confronti della quale tutte le comunità credenti sono debitrici per la fede ricevuta. Ma, al di là dell'impegno che egli si è preso personalmente davanti ai responsabili della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,10), per aiutare i poveri di questa chiesa, colpiti da una grave carestia (At 11,28-30), Paolo vede nella colletta uno strumento di solidarietà e di comunione di tutte le comunità credenti con la chiesa madre di Gerusalemme. La colletta, pertanto, diventa per Paolo uno strumento missionario ed ecclesiologico, per legare in un'unica comunione di carità in Cristo tutte le chiese, indipendentemente dalla loro formazione giudeocristiana o etnocristiana.
La sua importanza è rilevata dal fatto che il tema della colletta viene ripreso ripetutamente da Paolo in varie sue lettere: Rm 15,25-26; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10, qualificandola come "servizio", "comunione", "grazia", "atto di culto".
Essa è un gesto di carità;
E', inoltre, un impegno che egli si era assunto di fronte ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,10) in occasione del Concilio (49 d.C.);
Ma, soprattutto, per Paolo assume, da un lato, un significato di comunione tra la Chiesa madre di Gerusalemme e le Chiese periferiche da lui fondate, costituite da etnico-cristiani; dall'altro, ciò che per Paolo è più importante, diventa un riconoscimento ufficiale della Chiesa madre della missione di Paolo presso il mondo pagano.
La motivazione che sottende la colletta è triplice:
Cristologica: Cristo si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (2Cor.8,9);
Ecclesiologico-sociale: non si tratta di rendersi poveri per arricchire gli altri, ma un atto di uguaglianza (2Cor 8,13);
Teologico-scritturistica:
Dio ama chi dona con gioia: “ha
largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in
eterno” (2Cor 9,7-9)
Paolo,
tuttavia, teme che la colletta, a cui lui attribuisce un grande
valore e significato, possa anche non essere accolta (Rm 15,30-31).
Dietro questo suo timore intuisce che qualcosa possa andare storto:
egli non vede chiaro nel suo futuro, per la difficoltà dei rapporti
con la Chiesa madre di Gerusalemme.
Il
pensiero di Paolo e il suo Vangelo
Paolo fu certamente un teologo originale, profondo, fuori dagli schemi, ma non fu un pensatore sistematico. Il suo pensiero è occasionale e frammentario, variamente sparso tra le sue lettere, e ciò non permette di organizzarlo compiutamente.
Il nucleo centrale del pensiero di Paolo è il Cristo risorto. E non poteva essere diversamente, considerata l'esperienza da cui egli proviene.
Attorno al Cristo risorto Paolo sviluppa tutta una serie di tematiche ad argomenti prevalentemente contrapposti, sulle quali fonda tutta la vita morale e cristiana: fede e legge, luce e tenebre, carne e spirito, uomo vecchio e uomo nuovo, giustificazione e peccato, vita e morte, risurrezione, battesimo, ecc. Alla base di queste contrapposizioni ci sta probabilmente l'antitesi cristologica e pasquale “morte-vita”, “crocifissione-risurrezione”. Tuttavia, pur nella sua originalità e profondità di pensiero, Paolo si pone sempre nell'ambito dottrinale della Tradizione, che è già proprio del cristianesimo primitivo e che lo stesso Paolo testimonia nelle sue lettere, che riportano inni cristologici e formule di fede, che egli trova già elaborati nelle comunità credenti, che ha frequentato per un decennio dopo l'evento di Damasco. Del resto egli stesso attesta come la sua predicazione sia una sorta di trasmissione di ciò che anch'egli ha ricevuto, ponendosi in tal modo sulla linea della Tradizione cristiana (1Cor 11,23; 15,3).
Il pensiero e il Vangelo di Paolo si potrebbero così sinteticamente riassumere:
“Nel
suo grande disegno salvifico, Dio offre la sua salvezza a tutti,
ebrei e gentili, in Cristo e per Cristo morto e risorto. Si diventa
partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede e il
battesimo, morendo con lui al peccato e partecipando, così, alla sua
risurrezione. Tuttavia, la salvezza, già presente, non è ancora
definitiva finché egli venga. Ma, nel frattempo, colui che vive in
Cristo è già stato liberato dal potere del peccato e della Legge e
diventa un uomo nuovo, una creatura nuova, per opera dello Spirito
Santo. Di conseguenza la condotta del credente deve adeguarsi alla
nuova realtà, che è stata posta in lui dal battesimo e per mezzo
della fede”.
Le lettere
Il pensiero di Paolo è raccolto ed esposto nel Corpus paulinum, che comprende 14 lettere a cui, idealmente, ne va aggiunta anche qualcun’altra andata perduta e della cui esistenza siamo a conoscenza, perché citata dallo stesso Paolo nelle sue lettere.
Quelle in nostro possesso sono in tutto tredici, alle quali se ne è aggiunta una quattordicesima, la Lettera agli Ebrei, di autore ignoto. Di queste, sette sono attribuite a Paolo, mentre le rimanenti sei sono di scuola paolina.
L’insieme di queste 14 lettere forma il Corpus paulinum, suddiviso in tre aree: le grandi lettere, sono le sette attribuite a Paolo, alle quali alcuni esegeti aggiungono anche la seconda ai Tessalonicesi; le lettere ecclesiologiche ai Colossesi e agli Efesini; le lettere pastorali, 1-2 Timoteo e Tito.
Tutte le lettere attribuite a Paolo sono state scritte tra il 50 e il 60 d.C. e costituiscono la primissima letteratura cristiana e tra queste, prima in senso assoluto, è la Prima ai Tessalonicesi, composta a Corinto nel 50 d.C.
Esse sono state scritte tutte in modo occasionale, in risposta ai problemi sorti, di volta in volta, nelle comunità che Paolo stesso aveva fondato e sono una sorta di prolungamento del dialogo pastorale.
Il linguaggio, pertanto, è spontaneo, immediato, vivace, appassionato e passionale, spesso polemico, sicuramente molto sentito e, per questo, molto avvincente. Certamente il tono non è mai meditativo e i contenuti non sono esposti in modo sistematico, ma buttati giù di getto e risentono molto della occasionalità e della contingenza del momento.
Esse, come già si è sopra accennato, sono caratterizzate da molteplici antitesi, come ad es. Adamo-Cristo; carne-Spirito; fede-opere; sapienza-stoltezza; uomo vecchio-uomo nuovo. All’origine di tutte queste antitesi c’è l’antitesi per eccellenza, quella cristologica e pasquale, da cui tutte le altre derivano: morte-vita. Sono giochi di chiari-scuri finalizzati a mettere meglio in evidenza il tema trattato.
Tutte
le lettere di Paolo sono scritte nel greco della koinè e si
strutturano essenzialmente in quattro parti: 1) il prescritto,
che riporta il mittente, il destinatario e il saluto; 2)
rendimento di grazie 3) corpo della lettera 4) conclusione
o postscritto, comprendente le ultime raccomandazioni e i saluti
finali. Unica eccezione a questo schema viene fatta dalla Lettera ai
Galati, nella quale viene saltato il secondo punto: il rendimento di
grazie, sia per la foga con cui Paolo si accosta ai Galati in questa
occasione, e sia perché, visto il tradimento perpetrato alle sue
spalle da queste comunità da lui fondate e particolarmente amate,
non c'era proprio niente da rendere grazie.
Corpus
paulinum:
1 Lettera ai Tessalonicesi (scritta da Corinto tra il 50-51)
1 Lettera ai Corinti (scritta da Efeso tra il 53-54)
2 Lettera ai Corinti (scritta da Filippi tra il 55-56)
Lettera ai Filippesi (scritta da Efeso tra il 54-55)
Lettera a Filemone (scritta da Efeso tra il 54-55)
Lettera ai Galati (scritta da Filippi tra il 56-57)
Lettera
ai Romani (scritta
da Corinto tra il 57-58)
2 Lettera ai
Tessalonicesi (di dubbia autenticità: scritta in ambiente di Ts
fine I sec.)
Lettere ecclesiologiche
Lettera agli Efesini (di dubbia autenticità: scritta in ambiente di Efeso tra l’80 e il 90)
Lettera ai Colossesi (di dubbia autenticità: scritta ad Efeso verso l’’80)
Lettere pastorali
1 Lettera a Timoteo (non autentica: scritta in ambiente di Efeso fine I sec.)
2 Lettera a Timoteo (non autentica: scritta in ambiente di Efeso fine I sec.)
Lettera
a Tito (non
autentica: scritta in ambiente di Efeso fine I sec.)
Lettera
agli Ebrei
Le lettere, poste sotto il titolo “Scritti di scuola paolina”, sono considerate come scritti pseudepigrafici, redatti nel contesto della tradizione paolina allo scopo di garantire e consolidare il pensiero di Paolo anche dopo la sua morte.
La pseudepigrafia era un fenomeno molto diffuso nell’antichità e consisteva nel porre dei propri scritti sotto il nome di personaggi importanti per dare valore e credibilità alla propria opera, agganciandola alla tradizione, verso cui si nutriva particolare rispetto.
I parametri per valutare l’autenticità o meno di uno scritto sono, in genere, lo stile, il vocabolario e la coerenza teologica, nonché il contesto a cui fanno riferimento.
Sono Scritti questi tenuti in notevole considerazione presso le comunità cristiane e, trattando tutti gli aspetti e le tematiche della vita cristiana, sono stati sentiti come normativi per il vivere cristiano.
Essi hanno certamente dettato legge a tutta la teologia successiva. Una teologia quella paolina complessa e profonda e, proprio per questo, si poteva prestare ad interpretazioni diverse, talvolta anche contrapposte, come si rileva dalla già citata 2Pt 3,15-16.
Un’ultima questione, posta dal Deissmann5, è la distinzione tra “Lettera” ed “Epistola”. Secondo il Deissmann la “Lettera” è uno scritto privato, occasionale, vivace, immediato e mirato, il cui contenuto è prevalentemente comprensibile solo al destinatario. Mentre l' “Epistola” è una sorta di composizione letteraria, elaborata a tavolino con una esposizione di tipo sistematico e ragionato, rivolta ad una grande cerchia di persone. Un esempio di queste sono le “Lettere a Lucilio” di Seneca.
Le
lettere di Paolo si pongono in una via di mezzo: sono sicuramente
delle Lettere, ma non vi è esclusa la forma epistolare. Si prenda,
ad esempio, la Lettera ai Romani, dove agli aspetti personali,
rivolti ai destinatari, come nella sezione parenetica (12,1-15,13),
si accompagna la sezione dottrinale (1-8).
COMMENTO ALLA LETTERA AI ROMANI
PARTE INTRODUTTIVA
La lettera ai Romani è lo scritto paolino più importante non solo per la sua lunghezza (16 capitoli e 433 versetti), ma anche per il suo spessore teologico e dottrinale unico nel suo genere, sviluppato in modo ampio e sistematico, dopo la lettera ai Galati, dove quella ai Romani affonda le sue radici, ripescando ed approfondendo in modo mirabile il tema della giustificazione per fede e non per mezzo delle opere della Legge. Un ripescaggio, avvenuto circa un anno dopo (57/58) la Lettera ai Galati (56/57), dettato probabilmente dalla medesima problematica, che Paolo ha dovuto affrontare in entrambe le comunità: il giudeocristianesimo giudaizzante che si era imposto presso le comunità della Galazia, ma che costituiva motivo di scontro con il prevalente etnocristianesimo presso la comunità di Roma.
Una Lettera quella ai Romani dove sono trattati i grandi temi della teologia occidentale: fede-opere, legge-grazia, predestinazione e responsabilità, destando sempre e ovunque grande interesse presso gli esegeti di ogni tempo. Fu commentata dai padri della Chiesa come Origene (185-253), Giovanni Crisostomo (349ca-407), Teodoreto (393-466), Agostino (354-430), Pelagio (360-420), Abelardo (1079-1142), Tommaso d'Aquino (1225-1274).
Sul piano storico essa ebbe una notevole risonanza in tutti i tempi della Chiesa e, in particolare, nelle sue svolte storiche che l'hanno segnata in modo significativo, come quella dell'eresia pelagiana del V sec., controbattuta da Agostino. Altro momento cruciale fu quello della Riforma, i cui inizi teologici e dottrinali trovano il loro fondamento proprio nel commento di Lutero (1486-1546) alla Lettera ai Romani (1516), seguito poi da quello di Giovanni Calvino, che con la Lettera ai Romani affinò il suo pensiero dottrinale.
Non va dimenticato, però, nel nostro tempo, Karl Barth (1886-1968), il cui commento alla Lettera ai Romani (1919) ebbe un influsso determinante sul pensiero teologico contemporaneo.
È
significativo, infine, come i traduttori della TOB (Traduction
Oecuménique de la Bible),
la Traduzione Ecumenica della Bibbia, abbiano iniziato il loro lavoro
di traduzione proprio dalla complessa e non semplice traduzione della
Lettera ai Romani, considerandola una sorta di test ecumenico.
La capitale dell'Impero agli inizi dell'era cristiana era una metropoli di circa un milione di abitanti. La maggior parte della popolazione apparteneva agli strati più bassi della società (plebei, schiavi e liberti). Tra questi rilevante era il numero degli immigrati, artigiani, commercianti o prigionieri di guerra e loro discendenti. Tra gli immigrati numerosi erano quelli che provenivano dalle regioni orientali e si concentravano in quartieri diversi della città a seconda della loro zona di provenienza. Già a partire dal III sec. a.C. Roma era divenuta, infatti, un centro di attrazione di genti provenienti da diversi popoli e di ogni estrazione etnica, a seguito anche delle numerose conquiste e dell'allargarsi dell'Impero romano. Tra questo grande afflusso di genti provenienti da ovunque non vanno trascurati gli immigrati di origine semitica, tra questi gli ebrei. Immigrazione quest'ultima che non sfuggì all'acuto e caustico Giovenale (50ca-127 d.C.), che nelle sue satire annotò come “Ormai da tempo l'Oronte di Siria sfocia nel Tevere e con sé rovescia idiomi, costumi, flautisti, arpe oblique, tamburelli esotici e le sue ragazze costrette a battere nel circo” (Sat. 3,62-65).
La comunità ebraica
Tra questi immigrati, spiccava una numerosa colonia ebraica formata da circa cinquantamila persone. Una presenza quella ebraica a Roma, che andò rafforzandosi allorché Pompeo nel 63 a.C. assoggettò la Siria e la Palestina.
A testimonianza di questa consistente presenza, conosciamo il nome di ben tredici sinagoghe, attorno alle quali si raggruppavano almeno altrettante comunità ebraiche, autonome l'una dall'altra.
Da un punto di vista sociale gli ebrei appartenevano alle classi più povere e, a parte la pratica della circoncisione e l'osservanza del sabato, non vi sono indizi di una vita religiosa particolarmente vivace.
La comunità cristiana
Gli inizi della comunità cristiana in Roma non ci sono noti; probabilmente è all'interno della diaspora giudaica che si devono cercare gli inizi del cristianesimo. Paolo, comunque, scrive ad una comunità già solidamente costituita e che, a quanto pare, conosce molto bene pur non essendoci mai stato, probabilmente, come si può leggere nei saluti (16,1-23), ha parecchie conoscenze e collaboratori all'interno della comunità romana, che devono averlo informato circa i problemi di cui soffriva la comunità stessa. Una comunità la cui antichità è testimoniata dallo stesso Paolo il quale, scrivendo ai Romani, intorno al 57/58, afferma che “già da parecchi anni” (¢pÕ pollîn ™tîn, apò pollôn etôn) desiderava andare da loro (Rm 15,23).
Rimane il fatto che quando Paolo scrive alla comunità di Roma vi erano presenti fondamentalmente due gruppi all'interno della comunità credente: uno formato da giudeocristiani giudaizzanti, cioè di cristiani provenienti dal giudaismo, ancora strettamente legati alla Legge mosaica e alle sue prescrizioni; e uno da etnocristiani, cioè di cristiani provenienti dal mondo pagano. Gruppo quest'ultimo che sembra essere maggioritario all'interno della comunità di Roma. Tra questi due gruppi non doveva correre buon sangue, per l'ancestrale attaccamento alle tradizioni ebraiche del gruppo dei giudeocristiani. A tale contrapposizione fa riferimento Paolo nella sezione 14,1-15,7, dove parla di “forti” e “deboli” con riguardo ai cibi (14,1-3.20-23; 15,1) e all'invito di accogliersi reciprocamente: “Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo ha accolto voi per la gloria di Dio” (15,7).
Una comunità quella di Roma, inizialmente di prevalente presenza giudeocristiana, che doveva avere dei seri conflitti con le comunità giudaiche, anche queste presenti in Roma. Conflitti che dovevano creare dei seri problemi di ordine pubblico all'interno della città, all'epoca dell'imperatore Claudio (41-54), se Svetonio, nella sua “Vita dei Cesari”, ci informa che Claudio “Judaeos assidue tumultuantes, impulsore Chresto, Roma expulit”6. Conflitti sorti probabilmente per la presenza di giudeocristiani, attivi nel loro proselitismo, e che aveva dato luogo ad accese discussioni, che sfociavano sovente in tumulti nel ghetto giudaico a Roma. Due gruppi che mal si sopportavano, considerato che i giudeocristiani erano considerati degli apostati e dei traditori della Tradizione dei Padri e contro i quali era prevista dal giudaismo la pena di morte.
Di questo decreto di espulsione di Claudio, emanato nel 49 d.C., abbiamo notizia anche negli Atti degli Apostoli (At 18,1-2), là dove si parla dell'incontro che Paolo fece a Corinto con Aquila e Priscilla, due coniugi giudeocristiani espulsi da Roma a seguito di tale decreto di Claudio, e che Paolo ricorda in Rm 16,3-4 come suoi stretti collaboratori, che per lui hanno rischiato anche la vita.
A seguito di questa espulsione, che coinvolse oltre che i giudei anche i giudeocristiani, è probabile che siano rimasti a Roma quasi esclusivamente gli etnocristiani, cioè i cristiani provenienti dal paganesimo, che avrebbero mantenuto la loro prevalenza numerica anche dopo il ritorno dei giudeocristiani, morto Claudio.
Pare,
comunque, che la comunità ebraica, sia giudei che giudeocristiani,
ai tempi della Lettera fosse piuttosto consistente se Paolo, nel suo
scritto, rivolge a loro una particolare attenzione e una lunga
riflessione sul ruolo e i destini di Israele nel piano di Dio (Rm
9-11).
Perché
una lettera ai Romani?
Quali sono i motivi che spingono Paolo a scrivere una lettera, peraltro così sostanziosa e complessa, alla comunità di Roma, che non aveva fondato lui e che non aveva mai vista, ma di cui aveva certamente sentito parlare più volte (1,8) e con cui, forse, ha tenuto dei limitati rapporti, considerato che egli conosce un certo numero di persone, si contano circa una trentina di nomi, ivi residenti e che elenca nel cap.16 e ne conosce le problematiche interne là dove parla, in 14,1-15,7, di “forti” e “deboli”.
I motivi per cui Paolo scrive questa lettera ai Romani sono precisati nella lettera stessa ai capp. 1,11-15 e 15,14-32.
Paolo ha terminato la predicazione del Vangelo da Gerusalemme all'Illiria (15,19), pertanto, ora, mosso da un suo antico desiderio (15,23), vuole soffermarsi qualche tempo presso questa comunità prima di proseguire per la Spagna (15,24). Spera, quindi, di trovare a Roma un qualche aiuto per la sua nuova missione.
Ma i suoi intenti non sono puramente sentimentali e di interesse logistico (aiuti per il suo viaggio in Spagna), egli vuole anche soffermarsi un po' per predicarvi il vangelo, ma soprattutto per effettuare un fruttuoso scambio di doni spirituali con questa comunità e rinfrancarsi reciprocamente nella comune fede (1,11-15).
Tuttavia, prima di soddisfare questo suo desiderio, egli deve recarsi a Gerusalemme per consegnare agli anziani della comunità la colletta (15,25) a cui Paolo ha attribuito un'enorme importanza: dall'accettazione o meno di questa colletta, infatti, si vedrà la riuscita o meno del suo stesso apostolato tra i gentili. Accogliere questa colletta, effettuata tra le comunità dei pagani, significava, infatti, che la Chiesa di Gerusalemme accettava di entrare in comunione con le comunità fondate da Paolo e, quindi, implicitamente, riconoscere l'apostolato stesso di Paolo, che certamente non era fondato su di un mandato della chiesa madre di Gerusalemme, ma, come attesta Paolo stesso in Gal 1,1, di origine divina: “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti”; mentre qui in Rm 1,1 si definisce apostolo per chiamata divina e destinato all'annuncio del Vangelo di Dio.
Vista,
dunque, l’importanza della colletta, Paolo cerca di farsi conoscere
e accettare dalla comunità di Roma perché essa, considerata la sua
importanza e la sua notevole influenza sulle chiese del Mediterraneo
(1,8) e comunque, quale comunità della capitale di un potente Impero
come quello romano, divenga un solido sostegno per lui quando
rientrerà a Gerusalemme. Forse anche per questo egli cita quei 27
nomi nel cap.16, persone che egli ha probabilmente conosciuto nei
suoi viaggi e che ora, citandoli, indica alla comunità di Roma come
garanti della sua persona; e forse anche per questo, al di là degli
interessi spirituali (1,11-12), egli presenta a questa comunità,
fondata sicuramente da giudeocristiani della diaspora e, quindi,
d'impronta giudaizzante, il suo Vangelo, che espone con cura nei
primi otto capitoli e mettendo in rilievo il ruolo di Israele nel
piano salvifico di Dio nei capp.9-11, cercando di farglielo
accettare, così come similmente aveva fatto presso i capi della
chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,1-2). Se così è, Paolo ha
conquistato la più grande e potente comunità credente del mondo
occidentale, che gli servirà non solo per la sua missione in Spagna,
ma anche come trampolino di lancio per la sua missione verso il mondo
occidentale.
La lettera, ultima in ordine di tempo, è stata scritta da Paolo durante un suo soggiorno di tre mesi a Corinto (At 20,1-3) tra l’inverno e la primavera del 57-58 presso la casa di Gaio ed è dettata al segretario Terzo (Rm 16,22-23).
È una lettera molto complessa e alquanto articolata nel suo svolgersi, che non si può definire, come per le altre, occasionale, presentandosi più che altro come un trattatello dottrinale molto elaborato, che riprende le tematiche di fondo della Lettera ai Galati. Sembra esser l'esposizione dettagliata di ciò che Paolo chiama in Rm 2,16 e 2Tm 2,8 “il mio Vangelo”. Una sorta di presentazione del suo pensiero e del suo annuncio ad una comunità, quella romana, che è stata fondata e catechizzata quasi certamente dai giudeocristiani, probabilmente con tendenze giudaizzanti. Egli cerca, pertanto, di presentare di far conoscere la novità del suo pensiero e del suo annuncio, perché venga in qualche modo approvato dalla comunità, a cui egli si appresta a chiedere ospitalità e appoggio logistico ed economico per la sua nuova missione in Spagna e verso il mondo occidentale, avendo già conclusa quella dell'area orientale (Gerusalemme, Asia minore e mondo greco). Egli, sta dunque, presentando le sue credenziali di pensiero e di fede, accompagnate da quel lungo elenco di nomi (16,1-27) posti in qualche modo a garanzia della sua persona.
È una Lettera complessa che adotta un modo particolare di procedere e di sviluppare il proprio pensiero e le tematiche che la sostanziano, quello delle “domande retoriche”, che si trovano numerose nell'ampia sezione dottrinale (1,18-8,39) e nella sua appendice (9,1-11,36). Queste servono a Paolo sia per precisare il suo pensiero precedente, che potrebbe in qualche modo essere frainteso; sia per introdurre e approfondire una questione enunciata dalla stessa domanda retorica.
Molto
usate, poi, sono le parole
aggancio con cui si termina un'argomentazione e se ne apre
un'altra, dando in tal modo una concatenazione ed uno sviluppo logico
al pensiero.
La complessità della Lettera, il modo di procedere di Paolo nello sviluppo del suo pensiero, molto articolato, e la profondità dello stesso, rendono difficile stabilire una comune lettura della struttura della Lettera, se non nelle sue linee generali.
Essa inizia con il consueto prescritto di 15 versetti (1,1-15), di cui i primi sette sono di indirizzo (vv.1-7), in cui compaiono il mittente e i destinatari, mentre i rimanenti 9 versetti (vv. 8-15) sono di ringraziamento, una sezione quest'ultima che caratterizza le lettere paoline, con l'unica eccezione di quella ai Galati; e termina con un lungo epilogo (15,14-33) in cui Paolo accenna ai suoi progetti di viaggio; e si chiude con i saluti finali, in cui destinatari menzionati sono 27 persone. Il corpo della lettera (1,18-15,13) si suddivide in tre parti: quella dottrinale, riguardante i temi della giustificazione per mezzo della fede e non per mezzo delle opere della Legge (1,18-8,39); un'appendice alla sezione dottrinale, riguardante il ruolo di Israele nella storia della salvezza, che si sviluppa più come una sofferta riflessione personale di Paolo, alla ricerca delle ragioni del fallimento di Israele, su cui non sa capacitarsi (9,1-11,36), più che una vera e propria trattazione dottrinale; e la parte parenetica in cui vengono affrontate diverse questioni che investo la comunità nei suoi rapporti intracomunitari, sociali e con le autorità (12,1-15,13).
Fatta
questa generica suddivisione, sulla quale sostanzialmente tutti sono
d'accordo, molto più discussa è quella complessiva della lettera,
in particolar modo nella sua sezione dottrinale. Qui di seguito,
pertanto, presenterò una mia proposta di struttura, molto
dettagliata, rafforzata dalla specificazione dell'argomento che in
essa viene trattato, per dare evidenza allo sviluppo e alla
concatenazione logica del pensiero che in essa si muove e per
spiegare perché Paolo compie determinati passaggi e compie
determinati ragionamenti, che altrimenti rimarrebbero probabilmente
incompresi.
Per
cui si avrà:
A)
Introduzione alla Lettera (1,1-15)
Il prescritto (1,1-7), in cui vengono presentati il mittente e i destinatari e che cosa Paolo intende per “Vangelo di Dio”, che egli definirà in 2,16 il “suo Vangelo”;
Il rendimento di
grazie (1,8-15) per la fede della comunità di Roma e il
desiderio di incontrarla presto , argomento quest'ultimo che
riprenderà in chiusura della Lettera (15,20-23)
B)
Parte dottrinale (1,16-8,39)
Enunciazione del
tema (1,16-17): il Vangelo è potenza di Dio per la salvezza di
tutti i credenti, giustificati per mezzo della sola fede;
Enunciato
il tema, Paolo, ora, ne sospende lo sviluppo per dare spazio ad una
serie di argomentazioni (1,18-3,20), che gli forniranno le
giustificazioni della sua attestazione dottrinale, che riprenderà,
svilupperà e porterà a conclusione in 3,21-31. Egli
deve dimostrare, infatti, come la giustificazione per fede sia
universale e riguarda tutti, indipendentemente dalla loro
appartenenza, sia giudei che greci, perché tutti hanno peccato.
L'ira di Dio sui pagani, perché, pur conoscendolo per vie naturali, lo hanno rifiutato (1,18-32);
L'ira
di Dio sui Giudei,
perché pur conoscendo la sua volontà nella Legge, l'hanno
trasgredita (2,1-29)
A
tal punto Paolo fa un'altra pausa ed affronta alcune
questioni preliminari,
per rafforzare le sue conclusioni: a)
nessuna superiorità del Giudeo sul pagano, perché entrambi hanno
peccato in egual modo; b)
Dio è fedele indipendentemente dalla fedeltà dell'uomo e giudica
tutti in egual modo, perché tutti in egual modo hanno peccato
(3,1-20)
Ripresa del tema enunciato in 1,16-17 tramite la parola aggancio “giustizia”, presente in 1,17 e in 3,21: la giustizia si ottiene per mezzo della fede nel Vangelo (1,17), cioè in Cristo (3,22) ed è offerta indistintamente a tutti perché tutti hanno peccato (3,21-31). E che si ottenga per fede e non in altro modo è provato scritturisticamente dalla figura di Abramo, argomento affrontato nel cap.4.
La prova scritturistica dell'attestazione di 3,21-31 è affidata all'intero cap.4, dove Abramo fu giustificato per fede e non per le opere; suoi veri discendenti non sono i circoncisi, ma i credenti.
Gli effetti della giustificazione (5,1-11) ottenuta per fede in Cristo: riconciliazione con Dio e partecipazione alla sua vita. Frutto primario dell'amore di Dio (5,8);
Raffronto Adamo e Cristo (5,12-21): il primo ha introdotto il peccato nel mondo e con il peccato la morte; il secondo ha introdotto la vita per mezzo della giustificazione ottenuta con la fede. Tale accostamento tra i due personaggi serve a Paolo per dimostrare come tutti si era peccatori e come da tale stato di vita si è passati ad essere amici e figli di Dio in e per Cristo.
La dinamica del passaggio da morte a vita (6,1-7,6). Paolo ora deve provare le attestazioni del cap.5 e lo fa in questa sezione (6,1-7,6): inseriti con il battesimo in Cristo siamo con-morti con lui al peccato, al vecchio Adamo (6,1-7), ma con-viventi in e con lui risorto in e per Dio. Non siamo più, dunque sotto il peccato e sotto la Legge, ma sotto il regime della grazia (6,8-14). Siamo, pertanto, chiamati a servire Dio con tutto noi stessi, poiché siamo, ora, sotto il regime della grazia e non più del peccato (6,15-23), che si alimenta con la Legge, dalla quale siamo liberati grazie alla morte di Cristo, al quale apparteniamo per servire Dio in novità di vita (7,1-6).
Rapporto Legge-peccato (7,7-25) da come Paolo ha parlato della Legge in 7,1-6 può sembrare che la Legge sia un male. Deve, dunque, ora dimostrare che non solo la Legge non è un male, ma qual è il suo ruolo. La funzione della Legge è quella di mettere in rilievo il peccato (7,7-13), che dà la morte e opera in me inclinandomi al male e di cui sono vittima. La Legge, dunque, funge da parametro tra il “bene”, che la Legge ci prospetta, e il “male” che invece e in me (7,14-23). Solo Cristo, dunque, ci può liberare da questo male insito in noi e che si esprime sotto forma di peccato (7,24-25) e costituire in noi quella giustizia che la Legge non è in grado di darci per la fragilità dell'uomo? (8,3).
La
vita nello Spirito
(8,1-39)
è incompatibile con la vita secondo la carne (8,1-17);
anche la creazione è solidale con l'uomo nella dialettica
Spirito-carne (8,18-25);
l'azione dello Spirito a favore dei santi (8,26-27),
la cui identità è specificata in 8,28-30;
con lo Spirito e nello Spirito nulla ci potrà separare dall'amore
di Cristo, perché Dio è con noi e per noi (8,31-39).
Appendice
alla sezione dottrinale:
una lunga e sofferta riflessione personale di Paolo sulla posizione e
il ruolo di Israele nella storia della salvezza (9,1-11,36)
Preambolo introduttivo (9,1-3);
Lo stato di privilegio di Israele (9,4-5)
La vera discendenza di Abramo: Isacco e Giacobbe sono i veri figli di Abramo secondo la promessa di Dio, che opera la storia della salvezza in piena libertà e liberalità (9,6-21);
Libertà e liberalità di Dio: in questo contesto Dio ha chiamato non solo Israele, di cui si è riservato un resto, ma anche altri che Israele non sono (9,22-29);
Motivazioni storiche per cui Israele non ha conseguito la salvezza che, invece, altri hanno conseguito (9,30-33);
Conclusione di 9,30-33 e preambolo a 10,4,21: contrapposizione tra grazia e opere della Legge nel conseguimento della giustizia
Il fondamento della fede non sono le opere, ma la Parola del Vangelo, piantata nel cuore di ogni credente, mediante l'annuncio accolto che va testimoniato con le labbra e la vita (10,4-21);
La durezza di cuore di Israele non fa fallire il piano di salvezza di Dio, ma questo prosegue con un resto (11,1-10);
Il
senso della caduta di Israele:
la caduta di Israele andò a beneficio delle genti. Quindi la sua
caduta rientra nel piano salvifico di Dio per la salvezza di tutti,
ma alla fine anche Israele sarà salvato (11,11-36)
Sezione
parenetica (12,1-15,13)
Il culto a Dio con la propria vita nel rinnovamento dello spirito (12,1-2);
La vita
intracomunitaria e le relazioni con gli altri (12,3-21);
I rapporti con l'autorità (13,1-7);
I rapporti sociali (13,8-10);
Comportarsi da figli della luce (13,11-14);
I rapporti intracomunitari tra i “forti” e i “deboli” (14,1-15,13);
Epilogo (15,14-33);
I saluti (16,1-27)
Prescritto
ed Esordio (1,1-15)
Parte
dottrinale
(1,16 - 11,36)
A)
La
giustificazione mediante la fede (1,16 - 5,21)
• Enunciazione del tema in senso negativo (1,16-17)
• La rivelazione dell'ira di Dio sui pagani (1,18-32) e sui giudei (2,1-29)
• Colpevolezza universale: "tutti sono sotto il dominio del peccato" (3,1-20)
• Ripresa e nuova enunciazione in senso positivo (3,21-31)
• Prova scritturistica : l'esempio di Abramo (4,1-25)
• Effetti della giustificazione: - pace con Dio (5,1-11)
- liberazione dal peccato (5,12-21)
B) Peccato e salvezza: la nuova realtà del credente (cc 6 - 8)
• Morte con Cristo e liberazione dal peccato (6,1-14)
• Liberazione dalla Legge (6,15 7,6)
• Peccato e Legge prima di Cristo ( 7,7-25)
• La vita nello Spirito (8,1-39)
C) La sorte di Israele (9,1 - 11,36)• I veri discendenti di Abramo (9,1-33)
• L'ostacolo di una giustizia fondata sulle opere (10,1-21)
• La conversione finale di Israele (11,1-36)
Parte parenetica (12,1 - 15,13)
A) Il culto spirituale (12,1-2) e i rapporti intracomunitari (12,3-21)
B)
I doveri verso gli altri (13,1-14)
• Sottomissione all'autorità (13,1-7)
• L'amore fraterno (13,8-10)
• Comportarsi come figli della luce (13,11-14)
C) L'accoglienza vicendevole (14,1 - 15,13)
• I "forti" e i "deboli" (14,1-23)
• "Giudeo-cristiani" ed "etnico-cristiani" (15,1-13)
Epilogo, postscritto E SALUTI (15,14 - 16,27)
PARTE ESEGETICA E TEOLOGICA
Testo
a lettura facilitata
Il mittente (v.1)
1- Paolo servo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, scelto per il vangelo di Dio,
Le origini del vangelo nella storia della salvezza (v2)
2- che aveva preannunciato per mezzo dei suoi profeti nelle sacre scritture
Il contenuto del Vangelo di Paolo (vv.3-4)
3-
circa suo Figlio, nato da stirpe di Davide secondo la carne,
4-
stabilito Figlio di Dio con potenza secondo (lo) Spirito di santità
da(lla) risurrezione (dei) morti, Gesù Cristo nostro Signore,
Apostolicità e missione di Paolo (vv.5-6)
5-
per mezzo del quale ricevemmo grazia e apostolato per l'obbedienza
(della) fede in tutti i popoli per il suo nome,
6-
tra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo,
I destinatari
della Lettera (v.7)
7- a tutti quelli che sono in Roma, amati da Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e (dal) Signore Gesù Cristo.
Note
generali
Sullo stile delle lettere di quel tempo anche Paolo apre questa sua ai Romani con un prescritto dove compaiono gli elementi essenziali, che le caratterizzano e le qualificano come tali7: mittente (1,1) e destinatari (1,7). Tuttavia, diversamente da quelle, Paolo qui intercala tra il mittente e i destinatari alcuni elementi che anticipano in qualche modo il tema della Lettera (1,2-6), precisando il significato del termine vangelo, dove questo affonda le sue radici, il suo contenuto e la sua finalità. Non manca, poi, di precisare il senso di quel “chiamato” e di quel “scelto”, posti in apertura della Lettera, con il v.1,5, dove lascia trasparire l'impronta divina sia sul suo vangelo (2,16) che della sua stessa missione, finalizzata alle genti, per cui anche il suo rivolgersi a loro, benché questa comunità di Roma non sia stata da lui fondata, non è un abuso o una sua indebita intrusione, ma rientra nel sua missione, precisa in 1,6 che tra queste genti ci sono anche loro, i Romani. Paolo, quindi, si pone di fronte a questa comunità, che non ha mai visto, ma che desidera vedere, con una velata autorità, che gli viene dalla sua posizione di “apostolo per le genti”, facendola rientrare in qualche modo nella sua “giurisdizione missionaria”, benché in 15,20 attesti che non è nel suo stile predicare il vangelo dove altri lo hanno predicato.
Ci troviamo, dunque, di fronte ad un prescritto molto denso e molto articolato, che si snoda secondo la seguente struttura, già anticipata nella sezione “Testo a lettura facilitata”:
Il mittente (1,1)
Le origini del vangelo nella storia della salvezza (v.1,2)
Il contenuto del Vangelo di Paolo (vv.1,3-4)
Origine divina dell'apostolicità e missione di Paolo (1,5-6)
I destinatari della lettera (v.1,7)
Commento
ai vv. 1,1-7
La lettera ai Romani si apre in modo incisivo presentando le credenziali del suo autore, delle quali si verrà a scoprire subito dopo (1,5) la natura, presentata in modo velato, quasi sfuggevole. Diversamente dal modo con cui si apre, invece, la Lettera ai Galati, nella quale affonda le sue radici questa ai Romani, scritta circa un anno dopo (57/58) quella ai Galati (56/57) e dottrinalmente strettamente imparentata a questa, in cui Paolo presenta subito l'origine divina sia del suo Vangelo che della sua apostolicità e della sua missione (Gal,1-2.15-16), imponendosi autorevolmente alle comunità della Galazia, che, dopo aver accolta la predicazione di Paolo, l'abbandonarono per seguire il giudeocristianesimo giudaizzante. Qui la presentazione delle sue credenziali ai Romani è molto più velata, non c'è in gioco, infatti, come per quella ai Galati il Vangelo. Questa comunità, infatti, è sconosciuta a Paolo, non l'ha fondata lui e, pur non nascondendo l'origine della sua identità di apostolo e della sua missione e del suo vangelo, tuttavia la presenta in termini più contenuti,quasi sfuggevoli. Qui Paolo non deve imporre la sua autorità di apostolo, ma deve farsi accettare da questa comunità, che probabilmente neppure lo conosceva se non, forse, per sentito dire. Paolo. Infatti, fino a quel momento, egli ha sempre operato nell'area orientale (Gerusalemme, Asia minore, Grecia), ma ora ha bisogno di questa comunità per i suoi progetti missionari, avendo terminata la sua missione in quelle terre (15,19b.23-24). Egli deve farsi accettare da questa ricca, benestante e potente comunità di Roma, figlia della capitale dell'impero, la cui fama era nota “in tutto il mondo” (1,8b). Godeva, probabilmente, di una certa autorevolezza presso le altre comunità credenti sparse nell'impero.
Paolo, quindi, si affaccia a questa comunità bussando sommessamente, poiché ne ha bisogno. Lo fa in triplice modo: presentando le sue credenziali, esponendo il suo Vangelo (1,16-11,36) e citando una serie di ben 27 nomi di personaggi conosciuti dalla comunità romana, quali eventuali referenti circa la sua persona (16,1-20).
Egli si presenta con tre titoli quale “servo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, scelto per il vangelo di Dio”. Per chi conosce Paolo ben sa che il suo apostolato e la sua missione sono di elezione divina (Gal 1,1-2), ma non lo sanno i Romani, quindi, Paolo qui si presenta in tono dimesso e con espressioni che potrebbero essere equivocate. Egli è “servo di Cristo Gesù”, qualificando la sua posizione nei confronti di quel Gesù che egli riconosce quale Cristo, cioè quale Messia inviato dal Padre. È una sorta di professione di fede nel Gesù storico. Egli è “servo”, titolo che se, da un lato, dice la sua totale adesione e dedizione a Cristo, che serve con la sua vita, mettendola totalmente a sua disposizione, quasi in una sorta di atto di consacrazione, e la sua totale dipendenza da lui, lasciando trasparire, quasi in filigrana, il Sal 122,2; dall'altro, il titolo di “servo” nel contesto della letteratura veterotestamentaria, l'ebed, in riferimento a Dio, era considerato un titolo onorifico, poiché conteneva implicitamente in se stesso una scelta divina finalizzata ad una missione. Sono, dunque, persone totalmente dedicate a Dio, su cui pesa una sorta di consacrazione divina e godono di rappresentanza divina. Dio stesso parlando di Abramo, Mosè o di Davide e simili personaggi li definisce “il mio servo”8. E così, similmente, allorché si parla dei profeti o dei Patriarchi, quali Abramo, Isacco e Giacobbe. Tutti personaggi che hanno fatto la storia della salvezza, in modo rappresentativo di Dio. In questo contesto di storia della salvezza, anche Paolo si sente inserito quale “servo”. E lo dice esplicitamente in Gal 1,15, parlando della sua identità e della sua missione, e ponendosi alla stregua degli antichi profeti, si richiama alla vocazione di Isaia (Is 49,1): “Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque”. Paolo, quindi, ha una coscienza netta e molto spiccata di sé nel contesto della storia della salvezza e in tale contesto conosce il suo ruolo: egli sa di essere stato scelto e chiamato direttamente da Dio e la sua missione proviene da lui, così come il suo Vangelo gli è stato rivelato e non lo ha appreso da nessuno (Gal 1,1-2.11-12.15).
Il suo titolo di “servo”, viene subito affiancato ed esplicitato in quello di “chiamato apostolo”. Un'espressione quest'ultima che ricorre anche in 1Cor 1,1 e che nelle traduzioni italiane viene risolta in “apostolo per vocazione”. Se il senso è sostanzialmente questo, tuttavia il testo greco parla solo di “klhtÕj ¢pÒstoloj” (kletòs apóstolos), cioè “chiamato apostolo”. Un'espressione equivoca, che soltanto 1,5 risolverà dandole la sua giusta collocazione. Paolo non vuole presentarsi alla chiesa di Roma come l'inviato speciale di Dio, come invece è avvenuto per i Galati (Gal 1,1-2), ma come un “chiamato apostolo”, che potrebbe anche significare “conosciuto come apostolo” o insignito della funzione di apostolo, come era consuetudine presso le comunità credenti (Ef 4,11). Una funzione, quindi, affidatagli da una qualche comunità credente, quale poteva essere la chiesa madre di Gerusalemme o quella sua di provenienza, Antiochia. Soltanto con il v.1,5 il v.1,1 acquisterà il suo vero significato, di un apostolato legato ad un mandato divino, finalizzato all'annuncio del Vangelo di Dio, per questo egli è stato “scelto” e quindi, riservato, consacrato per una missione specifica: “scelto per il Vangelo di Dio”. Espressione questa che ricorre altre sei volte in 2Cor e 1Ts9. Un Vangelo che egli pone non solo quale fine ultimo della sua esistenza e della sua missione, egli, infatti è stato appositamente scelto per questo e in virtù di questo egli si fregia del titolo di “servo” e di “apostolo”, ma anche quale punto di arrivo dell'intera storia della salvezza veterotestamentaria, dalla creazione del mondo alla venuta di tale Vangelo. Tale Vangelo, infatti, era già stato “preannunciato per mezzo dei suoi profeti nelle sacre scritture”. Una visione in tal senso ci vene da Col 1,16b “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui”, mentre Ef 1,4a colloca questo “Vangelo” ancor prima della creazione del mondo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”. Così che questo Vangelo diviene il vertice e lo spartiacque dell'intera storia della salvezza, il punto di arrivo della vecchia creazione e il punto di partenza della nuova creazione. Un concetto questo che Paolo lascerà intendere in 5,14-19 ed affronterà in 6,3-14.
Ma cosa intende Paolo per “Vangelo di Dio”? Ai tempi in cui Paolo scrive i vangeli ancora non esistevano. Il primo sarà quello di Marco, scritto tra il 65-69 d.C., gli altri tre canonici seguiranno nel cinquantennio successivo. Paolo qui per primo usa il termine Vangelo di Dio, cioè un lieto annuncio che non solo appartiene a Dio, ma che proviene direttamente da Dio e che riecheggia nella predicazione, perché ognuno vi possa aderire (10,10,13-17). Il Vangelo, dunque, proviene per Paolo da Dio stesso ed è opera di Dio. Egli lo può testimoniare di persona e lo attesta in Gal 1,11-12: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull'uomo; infatti io non l'ho ricevuto né l'ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo”. Quando, dunque, Paolo parla di “Vangelo di Dio” e del “suo Vangelo” (2,16) intende proprio questo: ciò che gli è stato rivelato da Dio stesso.
Ma che cosa Dio ha rivelato a Paolo, qual è il contenuto di questo Vangelo di Dio, che egli chiama il “mio Vangelo”. Due sono gli elementi fondamentali che formano il cuore del Vangelo stesso. Tutto il resto gira attorno ad essi ed è sostanziato da questi: “circa suo Figlio, nato da stirpe di Davide secondo la carne, stabilito Figlio di Dio con potenza secondo (lo) Spirito di santità da(lla) risurrezion (dei) morti, Gesù Cristo nostro Signore” (vv.3-4).
Si tratta in buona sostanza di una sorta di formula di fede, che forma il pilastro fondamentale non solo della nostra fede, ma anche dell'intera storia della salvezza: l'incarnazione del Figlio di Dio, storicamente discendente dalla stirpe di Davide, al quale Dio promise, per mezzo del profeta Natan, una discendenza, alla quale avrebbe reso stabile per sempre il suo regno e Dio stesso le sarebbe stato Padre (2Sam 7,12-16). Storicamente la promessa che Dio fece a Davide si riferiva al figlio, suo successore, Salomone, che costruì il primo Tempio e il suo regno divenne stabile e apprezzato in mezzo alle genti e fu un regno di pace. Ma tale annuncio-profezia venne colto da Israele e successivamente dalle prime comunità credenti come la promessa di Dio, da cui Israele attendeva il Messia liberatore, che avrebbe ricondotto il regno di Israele agli splendori della gloria davidica; mentre la chiesa primitiva vide il realizzarsi di questo profezia nella persona stessa di Gesù, detto il Cristo, di discendenza davidica, secondo la linea storica e carnale e che riecheggerà, quale atto di fede, anche nei vangeli10. Questo Gesù viene colto dalla chiesa quale Figlio di Dio fattosi carne. Un passaggio importante e fondamentale nella storia della salvezza, poiché con la sua incarnazione il Figlio di Dio, storicamente conosciuto come Gesù e riconosciuto come il Cristo, cioè il Messia promesso e atteso, in cui si sono realizzate tutte le attese e tutte le promesse, questo Figlio di Dio, incarnandosi, ha assunto su di sé l'intera umanità adamitica (Gv 12,32), corrotta dal peccato, e condottala sulla croce, venne distrutta nella e con la morte di questo “Figlio-di-Dio-Gesù”. Il vecchio Adamo, quindi, di cui il nuovo Adamo si era rivestito con l'incarnazione, è morto sulla croce ed ora non esiste più. Per questo le donne, il mattino dopo il sabato, entrando nella tomba non trovano più Gesù, perché loro cercavano il Gesù rivestito del vecchio Adamo. Questo non c'era più. Un passaggio questo che Paolo ricorderà in 6,6: “sapendo questo, che il nostro uomo vecchio è stato concrocifisso (con lui), affinché sia reso inefficace il corpo del peccato, affinché noi non serviamo più al peccato”.
Il secondo elemento, molto più stravolgente, è l'attestazione che questo Figlio di Dio incarnato, di nome Gesù, è stato riconosciuto e costituito pienamente dal Padre quale Figlio di Dio incarnato. In altri termini, il Figlio di Dio fin da principio fu generato dal Padre e riconosciuto dal Padre quale suo Figlio (Gv 1,1-2). Ma questo Figlio divenne carne (Gv 1,14), subendo in tal modo, con la sua incarnazione, una mutazione sostanziale. Il Figlio di Dio, infatti, non si è incarnato in un uomo di nome Gesù, ma Egli, il Figlio di Dio, è diventato Gesù, il Dio fatto carne, che il Padre riconobbe nel battesimo e nella trasfigurazione quale suo Figlio e lo ha costituito tale nella risurrezione. Così che ora non vi è più il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma il Padre, il Risorto e lo Spirito Santo. In un certo qual senso il Padre, con la risurrezione avvenuta per mezzo della potenza dello Spirito Santo, lo ha in qualche modo nuovamente generato a Sé. Un passaggio estremamente importante questo, poiché il credente in virtù della sua fede e del battesimo è stato inserito in Cristo, è stato permeato di lui, è stato cristificato, così che ora, per Cristo, con Cristo e in Cristo egli è stato inserito nel ciclo vitale della Trinità, vivendo, per partecipazione, la stessa vita di Dio, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti, così com'era nei primordi dell'umanità (1Cor 15,28)11.
Il terzo momento, che chiude il v.4, è di fatto un'attestazione di fede, che riconosce nel Risorto “Gesù Cristo nostro Signore”, una formula con cui si riconosce in Gesù il Figlio di Dio incarnato, quale Messia inviato dal Padre per restaurare non il regno davidico, così come sperato da Israele, ma il Regno di Dio in mezzo agli uomini. In lui Dio è tornato in mezzo agli uomini, chiamandoli a raccolta in Gesù Cristo. Un Gesù divenuto lo spazio storico e di azione del Padre e in lui tende nuovamente la mano agli uomini, perché tutti siano nuovamente uno in Lui, riconoscendolo “nostro Signore”. In altri termini, riconoscendo nel Risorto la ristabilita signoria di Dio sugli uomini, in cui, in quel “nostro”, va letta la nostra appartenenza a Lui, così come egli, ora, appartiene a ciascun credente, che è a lui configurato nella fede e nel battesimo.
Il v.5, agganciandosi alla formula finale del v.4, riprende il v.1 dove si vedeva un Paolo “servo chiamato apostolo”, attribuendo, ora, a questi suoi due titoli il loro vero significato: essi sono “grazia”, cioè atto di benevolenza, ma nel contempo di investitura, che egli ha ricevuto da Dio stesso per mezzo del Risorto. Il suo essere servo e il suo essere apostolo, dunque, hanno un'origine divina e portano l'imprimatur stesso di “Gesù Cristo nostro Signore”. In Gal 6,17 già aveva attestato di aver impresse nel suo corpo il sigillo del suo essere stato concrocifisso con Cristo, le stigmate: “D'ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: difatti io porto le stigmate di Gesù nel mio corpo”. Grazia e investitura apostolica finalizzate a portare tutti i popoli all'obbedienza, cioè alla sottomissione a Dio, per mezzo della fede, intesa quale risposta alla sua chiamata, che avviene per mezzo della Parola accolta. Il tutto avviene “per il suo nome” dove quel “Øper” (ipèr, per) dice il movimento a favore verso il nome di Gesù, cioè la sua stessa persona, considerato che per gli antichi non vi è differenza tra il nome e la persona, che anzi si esprime ed è sostanziata nel proprio nome. Si tratta, dunque, di riconoscer in Gesù il Cristo Figlio di Dio.
Ed è a tal punto che Paolo gioca la sua “carta giuridica” vincente per farsi accettare dai Romani, che per loro natura sono pagani e fanno parte, quindi, di quelle Genti che sono state affidate da Dio stesso a Polo (v.5). In tal modo Paolo presenta ai Romani la sua credenziale divina di “apostolo delle Genti”, che gli fornisce il titolo di accesso alla comunità di Roma, in qualità di apostolo delle Genti per decreto divino, a cui ha alluso al v.5: “tra i quali siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo” (v.6). Quindi anche la comunità di Roma, benché non fondata da Paolo e mai da lui conosciuta è soggetta in qualche modo al suo apostolato. Posizione questa che Paolo ribadirà e farà valere in 1,11-12.15.
Il v.7 chiude il prescritto con i destinatari della Lettera: “a tutti quelli che sono in Roma, amati da Dio, chiamati santi, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e (dal) Signore Gesù Cristo”. Un versetto di indirizzo molto denso, rivolto a “tutti quelli che sono in Roma”. Il riferimento qui, considerata la titolatura che segue subito, è ai membri della comunità credente di Roma, qualificati con due titoli: “amati da Dio” e “chiamati santi”. Quel “amati” dice lo stato di predilezione divina di cui beneficiano i credenti e che li ha in qualche modo predestinati a partecipare della vita stessa di Dio. Una predilezione ed una predestinazione che Ef 1,4-5 attesta essere avvenuta ancor prima della creazione del mondo ed operata dal Padre in e per Cristo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. Ed è proprio questo amore di Dio, che li ha predestinati a partecipare alla sua vita fin d'ora in Cristo, con Cristo e per Cristo, che li ha anche resi “santi”. Quel “chiamati” dice lo stato di salvezza, che colloca i credenti nel ciclo vitale di Dio stesso, proprio perché amati e predestinati dall'amore di Dio, che è attrattivo, per sua natura, per i credenti, rendendoli partecipi della sua vita divina che per antonomasia è “santa”. Santi, dunque, perché partecipi della santità di Dio, che attua nel credente, per mezzo di Cristo, l'imperativo di Lv 19,2: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”. Per questo sono chiamati, cioè definiti da Dio quali “santi”, riconoscendo Dio in essi se stesso.
In questo contesto
di predilezione e di santità, che collocano i credenti in Dio, Paolo
augura loro “grazia e pace”. Un termine, quel “grazia”, che
dice ogni bene nella pienezza della vita di Dio; mentre quel “pace”
attesta la piena riconciliazione avvenuta tra Dio e il credente in
Cristo, che diviene, a sua volta, comunione di vita divina.
Il
rendimento di grazie a Dio (1,8-15)
Testo
a lettura facilitata
Il rendimento di grazie a Dio per la fede della comunità di Roma (1,8)
8- Innanzitutto ringrazio (il) mio Dio per mezzo di Gesù Cristo a motivo di tutti voi, poiché la vostra fede è manifesta in tutto quanto il mondo.
Il vivo desiderio d'incontrare la comunità di Roma nelle preghiere di Paolo (vv.1,9-10)
9-
Mi è infatti testimone Dio, che servo nel mio spirito nel vangelo di
suo Figlio, come incessantemente faccio memoria di voi
10-
chiedendo sempre nelle mie preghiere se già in qualche modo, una
volta, riesca, per volontà di Dio, a venire da voi.
Il vivo desiderio di un incontro di condivisione e comunione di fede (vv.1,11-12)
11-
Desidero, infatti, vivamente vedervi per farvi partecipi di un
qualche dono spirituale perché voi siate fortificati,
12-
anzi, è questo, l'essere (io) chiamato assieme tra di voi, per mezzo
della reciproca fede, vostra quanto anche mia.
Paolo pronto ad annunciare il vangelo presso la comunità di Roma, superate le difficoltà (1,13-15)
13-
Ma non voglio, fratelli, che voi ignoriate che (mi) sono proposto di
venire presso di voi e (ne) fui impedito fino ad ora, per avere un
qualche frutto anche tra di voi, così come anche tra gli altri
popoli.
14-
Sono debitore ai Greci quanto anche ai Barbari, ai sapienti quanto
anche agli stolti,
15- così che, per
quanto sta in me, (sono) pronto ad annunciare il vangelo anche a voi
che (siete) in Roma.
Note
generali
Questa sezione di rendimento di grazie, interessante nel suo modo di procedere e svilupparsi, rivela, in parte, le motivazione per cui Paolo ha scritto questa Lettera ai Romani.
Il primo interesse di Paolo nei confronti di questa comunità è essenzialmente spirituale e missionario. Il suo intento principale, che Paolo rivela alla fine di questa sezione del rendimento di grazie, è quello di ricatettizzare questa comunità, dichiarandosi “pronto ad annunciare il vangelo anche a voi che (siete) in Roma” (1,15), la quale cosa contrasta con quanto egli afferma alla fine di questa Lettera in 15,20, dove dichiara di farsi un vanto di non seminare dove altri hanno già seminato: “così da farmene un vanto di evangelizzare (soltanto) dove non fosse invocato il nome di Cristo, per non edificare sul fondamento altrui”. Ma Paolo, qui, è pronto a eludere questo suo principio, per il motivo che lascia intendere in apertura di questa sezione: “Innanzitutto ringrazio (il) mio Dio per mezzo di Gesù Cristo a motivo di tutti voi, poiché la vostra fede è manifesta in tutto quanto il mondo”. La comunità di Roma non è una comunità qualsiasi, è la comunità della capitale di un potente e grande impero, dove si decidono le sorti del mondo; dove c'è gente che conta. Una piattaforma, dunque, privilegiata da cui annunciare il suo Vangelo. Una comunità che, proprio in virtù della sua posizione, probabilmente detta regole e controlla in qualche modo anche altre comunità dell'impero. La tentazione per Paolo è troppo forte. Egli, infatti, nel suo annuncio cerca sempre le grandi piazze e le grandi platee, per dare risonanza all'annuncio del Vangelo, che dichiara di servire nel suo spirito (1,9).
Ma perché Paolo intende ricatechizzare questa comunità? Il motivo è semplice. Questa comunità non l'ha fondata lui, ma certamente dei giudeocristiani giudaizzanti, che hanno impresso un loro cristianesimo e una loro organizzazione ancora legata alle regole mosaiche, soffocando in tal modo la novità dell'evento Cristo. È, quindi, importante per Paolo rimodulare i parametri dottrinali di questa comunità così importante, per darle una nuova prospettiva. È importante che egli annunci, così, il “suo Vangelo” (2,16).
Di certo non lo fa brutalmente, quasi passando un colpo di spugna sulla fede di questa comunità, la cui solidità è nota in tutto il mondo (1,8) ed anche perché ne otterrebbe un rifiuto o quanto meno delle esistenze, ma lo fa in modo velato, esprimendo un suo desiderio di condividere un qualche dono spirituale di quell'unica fede che li accomuna. Lo fa dopo aver premesso come egli abbia il titolo di apostolo per chiamata divina (1,1.5), la cui missione, affidatagli da Dio stesso, è ricondurre alla fede i Gentili (1,5), tra i quali, sottolinea, ci sono anche loro, i Romani (1,6), e quindi egli ha titolo e autorità per poter accedere a loro e non può essere considerato un intruso. E il suo intento viene rivelato dalla struttura stessa con cui si sviluppa questa sezione del rendimento di grazie e in particolar modo per come essa si conclude:
La sezione si apre con un rendimento di grazie a Dio per la fede di questa comunità, la cui solidità è nota in tutto il mondo, sottolineando la sua universalità e la sua importanza (1,8);
attesta a questa comunità come essa sia sempre presente nelle sue preghiere a Dio, rilevando il suo interesse per essa e accennando appena al suo desiderio di venirla a trovare (1,9-10);
anzi non c'è soltanto un desiderio spirituale e aleatorio, questo desiderio è proprio vivo in lui e questa comunità suscita in lui grande interesse e vorrebbe incontrarla per condividere con lei doni spirituali che provengono (si noti il tocco) dalla “comune fede”. Paolo dunque non vuole cambiare la loro fede e la sua non è diversa dalla loro. Ma desidera un interscambio di esperienze spirituali (1,11-12);
anzi, proprio per la missione che gli è stata affidata, egli si
sente in debito sia ai Greci che con i Barbari, cioè con tutto il
mondo pagano, tra cui ci sono anche i Romani, “così che, per
quanto sta in me, (sono) pronto ad annunciare il vangelo anche a voi
che (siete) in Roma”, come dire: se voi accettate di ascoltare
anche il “mio Vangelo”, io sono pronto ad annunciarvelo. E qui
Paolo, concludendo il suo approccio missionario con la comunità di
Roma, esce allo scoperto nei suoi intenti: egli vuole ricatettizzare
questa comunità, anche nella prospettiva di averla come base di
appoggio per la sua nuova missione in Spagna e verso l'intero mondo
occidentale, come lo fu la comunità di Antiochia per la sua
missione, ora terminata (15,19.23-24), in medio oriente.
(1,13-15).
Ed è così che Paolo, rivelato il suo desiderio e i suoi intenti,
comincia subito con l'esporre alla comunità di Roma il “suo
Vangelo”, che inizia con 1,16 e termina con 8,39, al quale
aggiunge l'appendice sul ruolo e i destini di Israele nella storia
della salvezza, che riguarda anche il mondo dei pagani (9,1-11,36).
Commento
ai vv.1,8-15
Il v.8 si apre ponendo “innanzitutto” un ringraziamento a Dio, aprendo in tal modo uno spazio di spiritualità e di comunione tra Paolo, questa comunità credente e Dio stesso, che Paolo in qualche modo offre a Lui.. Il verbo qui usato, infatti, è “eÙcaristî” (eucaristô), che significa nel linguaggio cristiano “un rendimento di grazie” a Dio, che si qualifica più che un semplice ringraziamento, un vero e proprio atto di culto a Dio, un'offerta a Dio della fede di queste Genti e di questi nuovi credenti, quale sacrificio vivente a Dio, cioè quale azione sacra. Una nota in tal senso Paolo la rileverà in 15,16: “per essere, io, ministro di Cristo Gesù per le genti, compiendo il sacro ufficio del Vangelo di Dio, affinché l'offerta delle genti fosse gradita (a Dio), santificata nello Spirito Santo”. Paolo, dunque, legge in chiave cultuale e consacratoria questo ricondurre le Genti nell'alea divina e lo fa attraverso una formula di preghiera “per mezzo di Gesù Cristo”, quale fulcro universale ed unico di intermediazione tra Dio e gli uomini e strumento di questa “eucarestia”al Padre, ma nel contempo anche la Via per ricondurre al Padre, per mezzo della fede, quell'umanità drammaticamente uscita dalla dimensione divina nei suoi primordi. .
Il motivo di questo “azione di grazie”, di questo “atto di culto” a Dio è quel “tutti voi”, che viene qualificato dal fatto che la loro fede è nota in “tutto il mondo”. La comunità credente di Roma, pertanto, proprio per il suo essere posta nel cuore dell'impero stesso, assume una rilevanza notevole ed è, in qualche modo, costituita quale punto di riferimento per le altre comunità. La sottolineatura di Paolo con quel “in tutto il mondo” non è casuale, e rivela il suo particolare interesse per questa comunità , che in 1,7 si dichiara pronto ad annunciarle il suo Vangelo.
Continua ora, con i vv.9-10, il rendimento di grazie e l'atto di culto a Dio per questa efficiente comunità credente di Roma. Versetti che vanno collocati all'interno di questa azione cultuale di rendimento di grazie. Paolo continua, infatti, ad usare qui un linguaggio sacerdotale, per cui, ora, accanto al verbo ““eÙcaristî” (eucaristô)” affianca anche l'espressione “facciamo memoria di voi” (mne…an Ømîn poioàmai, mneíav imôn poiûmai). Una formula questa che caratterizza anche altre Lettere di Paolo o di scuola paolina12 e che qui viene collocata all'interno di contesto sacrale, dove Paolo chiama a testimonianza Dio stesso. Un testimone attendibile, dunque, ma non solo perché è Dio, ma anche perché vengono messi qui in evidenza i particolari rapporti che intercorrono tra Dio stesso e Paolo, che “servo” (latreÚw, latreúo) nel mio spirito. Altro verbo questo caratteristico del linguaggio sacerdotale e che ha a che fare con il servizio sacro, che ha a che vedere con un culto che Paolo compie, ancor prima che nella sua missione, nel suo stesso spirito e che si esplicita nella missione di annuncio del Figlio di Dio, che si è reso “Vangelo”, che gli è stato rivelato da Dio stesso (Gal 1,11-12). ed è proprio in questo contesto di sacralità e di sacerdotalità che Paolo “fa memoria” della comunità di Roma, rendendola, dunque, presente in se stesso e in comunione con lui, la rende partecipe dell'azione cultuale di rendimento di grazie.
In questo contesto di sacralità Paolo introduce ora il tema, che sarà oggetto dei vv.11-15: il suo desiderio di incontrare questa comunità, posta nel cuore dell'Impero e, in qualche modo, figlia stessa di questo Impero. Un desiderio che Paolo fa dipendere non tanto dalla sua volontà, quanto da quella di Dio stesso, rientrando, quindi, questa sua visita nel piano di salvezza di Dio stesso. Paolo non è un missionario che si muove a caso, ma vede in tutto questo suo movimentarsi verso le Genti la spinta stessa di Dio.
Con i vv.11-15 il tono cambia completamente e si fa più umano: si parla, infatti, di un “vivo desiderio” di Paolo di incontrare questa comunità (v.11) e dei vari tentativi che egli fece per realizzare il suo sogno, ma impegni di missione e contingenze glielo hanno impedito. Paolo vuol far capire ai Romani che essi non solo sono presenti nelle sue preghiere, ma oggetto anche della sua aspirazione, fin qui sempre vanificata. Paolo desidera far capire a questa comunità la sua forte tensione verso di essa.
L'intento finale di questo desiderio, che spinge Paolo a volersi incontrare con questa comunità, viene, qui, preparato e rivelato gradualmente in quattro passaggi:
inizialmente si parla di rendere partecipe questa comunità di un qualche dono spirituale, condividendolo con Paolo, così che ne possano trarre un giovamento (v.11);
poi viene specificato in che cosa consista questo “dono spirituale” corroborante: la stessa venuta di Paolo tra di loro, accomunati assieme da un'unica fede. Si noti come Paolo qui tocchi un tasto molto delicato, evidenziando la “comune fede”, poiché questa comunità romana è stata evangelizzata da giudeocristiani giudaizzanti, che non molto collimano con il Vangelo di Palo (v.12);
poi Paolo fa un piccola pausa prima di giungere al suo obiettivo vero e proprio, stornando l'attenzione dei Romani sui suoi persistenti e falliti tentativi di venuta presso di loro, evidenziando così il suo interesse per loro, mettendoli in tal modo al centro dei suoi interessi e facendoli sentire importanti e privilegiati per lui, anzi un interesse tale da farlo sentire “debitore” sia verso i Greci, cioè il mondo greco-romano imperiale, che verso i Barbari, l'altra parte del mondo non civilizzato, per così dire, e, quindi, ricomprendendo con questi l'intero mondo delle Genti, tra cui, già aveva ricordato in 1,6, c'erano anche loro, i Romani. Si noti, ancora una volta, l'abilità di Paolo: egli, l'apostolo delle Genti per eccellenza e per chiamata divina, si sente “debitore”, come dire che loro, le Genti e, in particolar modo, la comunità credente di Roma sono creditori nei suoi confronti, per questo egli vuole assolvere il suo debito divino nei loro confronti (vv,13-14);
ed ora ecco l'obiettivo finale del suo desiderio ardente verso di loro: “così che, per quanto sta in me, (sono) pronto ad annunciare il vangelo anche a voi che (siete) in Roma”. Paolo, cosciente che questa comunità così importante per il cristianesimo, non è stata fondata da lui, ma dai giudeocristiani giudaizzanti, intende in qualche modo ricatechizzarla. Si rende conto, tuttavia, che egli non può entrare a gamba tesa in questa comunità già fondata e ben funzionante, rischiandone il rifiuto, per cui egli non s'impone, ma si propone: “così che, per quanto sta in me, (sono) pronto ad annunciare”, ma la scelta sta a loro (v,15).
Il Vangelo di Paolo (1,16 – 8,39)
Assunto dottrinale tematico (1,16-17)
Testo
a lettura facilitata
L'universalità della salvezza operata per mezzo del Vangelo (v.16)
16- Non mi vergogno, infatti, del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza per ogni credente, per (il) Giudeo prima quanto anche per (il) Greco.
La giustificazione ottenuta per mezzo della fede nel Vangelo (v.17)
17- La giustizia di Dio, infatti, si è manifestata in esso da fede in fede, come sta scritto: “Il giusto vivrà per fede”.
Note
generali
I due versetti aprono il tema fondamentale non solo di questa Lettera, ma anche dell'intera teologia paolina, quello della giustificazione universale per mezzo della sola fede in Cristo Gesù e non per le opere della Legge. Tema questo già affrontato nella Lettera ai Galati e qui ripreso, dettagliato e approfondito in modo sistematico. Un tema che crea una svolta radicale, che distingue e contrappone tra loro il giudaismo e il cristianesimo, segnando due percorsi teologici sostanzialmente diversi. Il primo va alla ricerca della propria giustificazione, fondata esclusivamente sull'esecuzione corretta e totale della Legge, che viene affidata alle proprie capacità di esecuzione, così che, a giochi finiti, la propria salvezza dipende non più da Dio, ma da se stessi, dalle proprie bravura di eseguire correttamente la Legge. In questo caso Dio ha un ruolo meramente passivo, quello di riconoscere o meno la buona esecuzione della Legge. Qui, Dio è il debitore nei confronti dell'uomo, poiché una volta riconosciuta la perfetta esecuzione della Legge, gli deve dare la salvezza promessa dalla Legge stessa (4,1-4).
Di diversa e contrapposta posizione quella del cristianesimo, che nel riconoscere l'uomo, per sua natura, universalmente peccatore e incapace di raggiungere da solo la propria salvezza, può solo sperare di ottenerla confidando in Dio, che gli si muove incontro con un suo progetto salvifico universale, che prevede la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo e in lui e per suo mezzo la rigenerazione di una nuova creazione (Ef 1,10; Col 1,16b), a cui l'uomo può accedere solo per mezzo della fede in Cristo, sacramento d'incontro e di riconciliazione tra Dio e l'uomo. Una fede che dice la disponibilità dell'uomo di abbandonare se stesso tra le braccia misericordiose e salvifiche del Padre. In tale contesto Dio diviene l'attore principale, che riafferma la sua signoria sull'uomo, com'era nei primordi dell'umanità; mentre l'uomo è chiamato a riconoscere tale signoria di Dio su se stesso. Per sola fede, dunque, e non per le opere della Legge si può ottenere la propria giustificazione, perché l'uomo, nella sua condizione di peccatore, può solo sperare la salvezza da Dio e non da se stesso, tantomeno pretenderla. Infatti, “sapendo che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato nessuno” (Gal 2,16).
La struttura di questo assunto dottrinale fondamentale è scandito in due parti:
il Vangelo viene qui presentato quale fonte della potenza di Dio, che opera la salvezza universale in mezzo agli uomini, indipendentemente dalla loro qualificazione religiosa di provenienza (v.16);
salvezza alla quale si accede solo per mezzo della fede (v.17).
Commento
ai vv. 1,16-17
Paolo apre il suo assunto dottrinale con un “Non mi vergogno del Vangelo”. Perché, dunque Paolo dovrebbe vergognarsi di un vangelo, che all'epoca in cui egli scrive questa Lettera (57/58) ancora non ne esisteva uno? Di quale vangelo dunque sta parlando qui? E perché questo vangelo è potenza di Dio? Per poter comprendere il senso che Paolo attribuisce qui al termine vangelo è necessario andare ad un'altra sua Lettera, la Prima Lettera ai Corinti, scritta ad Efeso intorno al 53/54 circa, dove egli attesta: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,17-24).
Per Paolo, dunque, il Vangelo, più che uno scritto, è l'annuncio del Cristo crocifisso, potenza e sapienza del Padre, scandalo per i Giudei, che sognavano un Messia invincibile e restauratore degli antichi splendori del regno davidico e dal quale pretendevano segni e miracoli che ne attestassero l'identità; mentre per il mondo pagano un crocifisso è il segno del fallimento e dell'impotenza. Credere, quindi, in un Crocifisso è soltanto un'incomprensibile stoltezza. Ecco perché Paolo attesta: “Non mi vergogno, infatti, del vangelo”, perché egli sa che proprio in questo Vangelo, in questo Cristo crocifisso opera la potenza stessa del Padre, che mette a dura prova sia Giudei che Greci, mette a dura prova solo chi non crede, perché nessuna sapienza umana, se non illuminata dalla fede, può comprendere che cosa sia accaduto realmente in quel “Fallimento di Dio”. Infatti, è proprio attraverso il suo Cristo crocifisso e nel suo Cristo crocifisso, rivestito della carne adamitica, carne di peccato, che egli distrugge l'antico Adamo e con lui l'umanità e la creazione decaduta, a lui e in lui associate sulla croce (6,3-6; Gv 12,32). La croce, dunque, non è il segno del fallimento di Dio, ma della sua più grandiosa vittoria, poiché sulla Croce non è morto soltanto Cristo, ma con lui l'intera umanità e, per un principio di solidarietà13, l'intera creazione, presupposto questo per accedere ad una nuova creazione e con essa ad una nuova umanità, che ha come capostipite un nuovo Adamo, il Risorto.
Un progetto di rigenerazione di tutte le cose in Cristo (Ef 1,10) e di salvezza, quindi, per tutto ciò che era perduto. Salvezza, attesta Paolo, “per ogni credente”. L'accesso, dunque, a questo progetto di salvezza non è libero, non è aperto a tutti, come lo fu per l'antico Adamo, che si ritrovò nella dimensione divina senza rendersene conto, ma qui è richiesto un atto di adesione individuale e personale a questo progetto salvifico, rivelatosi e attuatosi nel Vangelo. Questo dice quel “ogni” credente. Termine, quest'ultimo, con cui Paolo anticipa in qualche modo il v.17. Una salvezza che, secondo Paolo, rispetta la logica propria di tale storia: prima il Giudeo, poi il Greco, poiché in questo progetto salvifico Dio si rivolse prima ad Israele, poi, a seguito del suo rifiuto, l'annuncio di salvezza venne rivolto anche al mondo pagano. Un tema questo che Paolo affronterà nei capp. 9-11 della presente Lettera.
Se il v.16 attestava che il Vangelo, cioè la predicazione del Cristo crocifisso, è potenza di Dio finalizzata alla salvezza del credente, ora, con il v.17, Paolo spiega il retroterra di questo progetto di Dio a favore dell'uomo. In altri termini, perché Dio ha concepito questo progetto di salvataggio dell'uomo? Ciò che ha spinto Dio verso l'uomo è la sua “giustizia”, che nel linguaggio paolino non va intesa in senso equitativo, cioè “dare a ciascuno il suo”, anche se questo aspetto non è assente in Paolo, ma dice primariamente la “fedeltà di Dio” nonostante l'infedeltà dell'uomo. Fedeltà a che cosa? Innanzitutto a Se stesso. Dio è Atto unico e non può essere diverso da ciò che è, né può mutare nella sua essenza. Un aspetto ontologico di Dio questo che non va trascurato, poiché questo aspetto si riflette anche in tutto ciò che Dio progetta e concepisce. Di conseguenza, anche la promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza, a cui Dio ha legato il suo progetto di salvezza, cioè il recuperare l'uomo nella dimensione divina, da cui è drammaticamente fuoriuscito, non può mutare, nonostante le infedeltà dell'uomo. In tal senso Dio è “Giusto”, cioè fedele al suo progetto originario di salvezza, concepito fin da prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e manifestatosi da Abramo in poi. Il termine giustizia, infatti, deriva dal latino “in iure stare”, stare, cioè, dentro la legge e, quindi, rimanere fedeli alla legge.
Ma la “giustizia di Dio”, di cui qui Paolo parla, non va intesa in senso astratto, ma è relativa al progetto di salvezza di Dio, cioè al suo progetto di ricondurre l'uomo in Sè, così com'era nei primordi dell'umanità. Ebbene, attesta Paolo, questa Fedeltà di Dio, riflessa e sostanziata nel suo progetto di salvezza a favore dell'uomo, “si è manifestata in esso”, cioè nel Vangelo stesso, di cui ha parlato al v.16. E questi altri non è che il Cristo crocifisso, che diviene, quindi, il vertice dell'intero progetto salvifico di Dio e la prova tangibile della sua Fedeltà, spesa a favore dell'uomo nonostante le sue infedeltà, poiché Dio rimane sempre fedele a Se stesso, per sua natura e non può essere diversamente per Lui.
Un piano di salvezza, dunque, che si è manifestato ed attuato nel Cristo crocifisso, ed è disponibile ed accessibile ad “ogni credente” (v.16). E qui Paolo aggiunge, con una strana formula, “da fede in fede” (™k p…stewj e„j p…stin, ek písteos eis pístin). Tutto si gioca sulle due particelle che precedono il termine “pístis” (fede): la prima “ek” (da) dice moto da luogo ed indica l'origine di questa fede; “eis” (verso, in), invece, dice moto verso luogo e indica il protrarsi di questa fede nel tempo. Ora, l'origine di questa fede e di questo patto di fedeltà dell'uomo verso Dio e di Dio verso l'uomo, la si ha in Abramo: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6) e da questo atto di fede si generò un patto di alleanza di Dio con Abramo: “Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abram” (Gen 15,17-18a). Un'alleanza, dunque, fondata sulla fede, che Dio aveva stabilito non solo con Abramo, ma anche con la sua “discendenza” (Gen 15,18b), che Paolo in Gal 3,16 vede compiersi in Cristo. Da qui, da Abramo, capostipite di tutti i credenti, è partito il patto di Alleanza tra Dio e gli uomini, fondato sulla fede: “da fede in fede”, dunque. Dalla fede di Abramo è proseguito, di fede in fede, di credente in credente, fino alla sua Discendenza, cioè Cristo, in cui si compie la promessa e con questa le attese. Il piano di Dio, dunque, è stato realizzato pienamente in Cristo crocifisso, quello di distruggere la vecchia umanità adamitica e con questa la vecchia creazione decaduta. Ma da qui ripartirà nel Risorto una nuova creazione e una nuova umanità, a cui si si ha accesso con la fede, chela genera, associandola a Cristo. Sarà questo il tema che Paolo affronterà nel cap.6.
L'enunciato del v.17 si conclude con la prova scritturistica: “come sta scritto: <<Il giusto vivrà per fede>>”. Il senso che Paolo qui attribuisce a questa citazione tratta da Ab 2,4b è che la vita del giusto, cioè di colui che cammina rettamente davanti a Dio e gli è fedele, è garantita proprio dalla sua fede, che per questo giusto, diviene fonte di vita.
Va
tuttavia detto che la citazione di Ab 2,4b (“Il giusto vivrà dalla
fede”) è stata manipolata da Paolo per adattarla alla propria
tesi, così come fece in Gal 3,11. Il testo della LXX, infatti, parla
della fedeltà di Dio nei confronti del giusto, che trae la sua vita
dalla fedeltà di Dio alla sua promessa: “Dalla mia fedeltà il
giusto vivrà” (“Ð
de d…kaioj ™k p…steèj mou z»setai”,
“ó
de
díkaios
ek pisteos mu zésetai”
Ab 2,4b), dove la fedeltà di Dio diviene causa e motivo della
salvezza del giusto. Tutto, quindi, è imperniato sull'azione di Dio
e non del giusto, al quale è chiesta soltanto la fede, cioè il
fidarsi di Dio e lasciarsi da Lui condurre, così come ha fatto
Abramo.
Una lunga pausa di
riflessione (1,18-3,20)
Esposto il suo assunto dottrinale in 1,16-17, Paolo, ora, crea una pausa di riflessione in cui produce delle argomentazioni che giustifichino la sua attestazione e, più precisamente, deve provare l'universalità della colpa, che coinvolge in pari modo Giudei e Greci, così che tutti sono in egual modo peccatori e bisognosi, senza eccezione alcuna, della misericordia di Dio.
Provato questo,
Paolo riprenderà l'enunciato dottrinale di 1,16-17, sviluppandolo ed
approfondendolo con 3,21-31, in cui dimostrerà come la giustizia di
Dio avviene per mezzo della fede e non per mezzo delle opere della
Legge e come questa sia una giustificazione universale. Alla sezione
3,21-31 verrà aggiunta, a suo supporto, la prova scritturistica del
cap.4, in cui si dimostrerà come la giustificazione di Abramo da
parte di Dio avvenne per sola fede senza le opere della Legge e che
suoi veri figli e discendenti sono i credenti e non i circoncisi.
Primo
assunto: tutti i pagani sono peccatori (1,18-32)
Testo
a lettura facilitata
La tesi (1,18)
18- L'ira di Dio, infatti, si manifesta dal cielo su ogni empietà e ingiustizia di uomini, che trattengono la verità nell'ingiustizia,
La dimostrazione (1,19-21)
19-
perché ciò che è conoscibile di Dio è manifesto in loro; Dio,
infatti, (lo) ha manifestato a loro.
20-
Infatti le sue realtà invisibili, quale la sua eterna potenza e
divinità, sono contemplabili per mezzo dell'intelletto dalla
creazione del mondo attraverso le opere, così che sono inscusabili,
21-
perché pur avendo conosciuto Dio non (lo) glorificarono o (non lo)
ringraziarono come Dio, ma si sono persi stoltamente nei loro
ragionamenti e il loro cuore ottuso fu oscurato.
Enumerazione delle colpe dei pagani (1,22-32):
- Idolatria (1,22-23)
22-
Mentre affermavano di essere sapienti, divennero stolti
23-
e barattarono la gloria dell'incorruttibile Dio con un simulacro
d'immagine di uomo corruttibile e di uccelli e di quadrupedi e di
serpenti.
-
Le conseguenze
(1,24-25)
24-
Per questo Dio li abbandonò nei desideri dei loro cuori alla
depravazione, così da disonorare i loro corpi tra di loro;
25-
costoro scambiarono la verità di Dio con la menzogna e venerarono e
servirono la creatura al posto del Creatore, che è benedetto nei
secoli, amen.
- Rapporti contro natura (1,26-27)
26-
Per questo Dio li abbandonò al male dell'infamia; infatti le loro
femmine cambiarono la relazione naturale per quella contro natura;
27-
similmente anche i maschi, abbandonata la relazione naturale della
femmina, bruciarono nel loro desiderio verso gli altri, compiendo la
turpitudine, maschi con maschi, e ricevendo il compenso, che è
dovuto, della loro depravazione in loro stessi.
- Conduzione di una vita disordinata e depravata (1,28-31)
28-
E poiché non giudicarono degno avere in conoscenza Dio, Dio li
abbandonò ad una riprovevole mente, a fare ciò che non è
conveniente,
29-
ripieni di ogni iniquità, perversità, cupidigia,, malvagità, pieni
di invidia, di omicidio, di contesa, di inganno, di malignità,
mormoratori,
30-
maldicenti, invisi a Dio, insolenti, tracotanti, arroganti,
millantatori, inventori di mali, non obbedienti ai genitori,
31-
stolti, perfidi, privi di amore, privi di misericordia,
- Una pervicace depravazione (1,32)
32-
questi pur conoscendo il giudizio di Dio che coloro che fanno tali
cose sono degni di morte, non solo le fanno, ma anche approvano
coloro che (le) fanno.
Note generali
Inclusa dalle due espressioni “ira di Dio” (v.18), con cui si apre, e “giudizio di Dio” (v.32), con cui si chiude, questa sezione, dedicata interamente al mondo pagano, attraverso la denuncia dei suoi peccati e del suo criticabile modo di vivere i propri rapporti sociali e interpersonali, punta a mettere in evidenza un contesto sociale e personale che si è venuto a formare senza Dio, anzi in contrapposizione ad esso, così da essere incapace di un pentimento e di una conversione e di un suo ritorno a Dio. Per ben tre volte Paolo sentenzia che “Dio li ha abbandonati” (1,24.26.28) in balia di loro stessi, la peggiore sentenza che Dio possa decretare contro l'uomo, poiché in tal modo gli toglie ogni possibilità di ritorno a Lui, essendo oscurata la sua coscienza della luce divina, sostituita dalle tenebre del male, che si esprimono in quel applauso (v.32) con cui si chiude questa sezione di denuncia dei vizi del mondo pagano e del suo modo di vivere, posti sotto l'egida dell'ira di Dio che si fa giudizio di condanna.
In ultima analisi, si tratta di un quadro poco edificante della società pagana di quel tempo, che privata di ogni dirittura morale, segue le sue perverse inclinazioni sessuali e i suoi egoismi ed egocentrismi, che impongono se stessi sugli altri e a spese degli altri. Società pagane che hanno costruito un umanesimo senza Dio, sostituendolo con divinità che sono solo proiezioni del modo di vivere dell'uomo, con tutti i suoi pregi e suoi difetti. Ma ciò che è peggio è che il mondo pagano ha costruito la propria società e la propria vita su queste favole divinizzate, rimanendone vittima inconsapevole,
Ciò che Paolo
presenta, dunque, è un po' il quadro della vita sociale del suo
tempo, di un mondo senza Dio, ma popolato da tante divinità, che
rivelano comunque la sete di spiritualità di un mondo smarrito nel
male, ma che, dopo duemila anni di storia di cristianesimo, si
ritrova al punto di partenza, ma con un'aggravante rispetto a quel
mondo: quella società non conosceva ancora il vero Dio e l'inviato
suo Figlio, Gesù Cristo; per contro, questo nostro mondo lo ha
lungamente conosciuto, si è formato su questi valori evangelici e
cristiani per duemila anni, ma, alla fine, nel nostro tempo, lo ha
rifiutato. Quel mondo applaudiva al male senza conoscere il bene; il
nostro mondo, invece, non solo applaude al male, facendolo assurgere
a proprio stile di vita e giustificandolo e presentandolo come segno
di progresso e di civiltà, ma tutto ciò lo fa dopo aver conosciuto
il Bene, che ha rifiutato. È da chiedersi quale sarà l'epilogo di
questa nostra umanità senza quel Dio che, di fatto, ha rifiutato,
rendendosi insensibile alla voce, sempre più sconosciuta e quasi
scomparsa, della sua Parola e incapace di un suo ritorno a lui.
Purtroppo ciò che Paolo qui denuncia, in riferimento al suo tempo, è
parimenti sovrapponibile al nostro tempo. Che ne sono stati duemila
anni di cristianesimo?
Il quadro che qui Paolo presenta è collocato all'interno di una pesante cornice di giudizio divino e si sviluppa in tre momenti:
L'enunciato, che funge da tesi che Paolo si appresta a dimostrare (v.18);
le motivazioni che giustificano l'ira di Dio nei confronti del mondo pagano (vv.19-21)
L'enumerazione delle colpe del mondo pagano (vv.22-32): idolatria (vv.22-23) e sue conseguenze (vv.24-25); i rapporti contro natura (vv.26-27), che riflettono e sono espressione di una vita disordinata e depravata (1,28-31); una pervicace depravazione (v.32).
Commento
ai vv. 1,18-32
La sezione dedicata al mondo dei pagani non poteva aprirsi diversamente se non con l'ira di Dio. Un'espressione, che Paolo ha mutuato dal linguaggio profetico ed esprime l'indignazione di Dio nei confronti dell'iniquità dell'uomo e ne prelude il giudizio di condanna (v.32). Essa è l'attrice principale del “giorno del Signore” e lo caratterizza. Altra espressione questa propria del linguaggio profetico. La giustizia di Dio, pertanto, che si è manifestata nel Vangelo e che è fonte di salvezza per il credente (v.17), ha qui la sua contropartita nell'ira di Dio (v.17) e nel suo giudizio di condanna (v.32) contro coloro che hanno indurito il loro cuore nel male (v.32). Entrambi i vv.17.18 sono accomunati tra loro da un identico verbo: “¢pokalÚptetai” (apokalíptetai, si è manifestata) e costituiscono la doppia faccia di un'identica medaglia: la manifestazione di Dio, che tuttavia ha esiti diametralmente opposti in corrispondenza dell'atteggiamento degli uomini, che vengono singolarmente interpellati dall'evento di questa manifestazione divina, che è il Cristo morto-risorto. Questi si colloca in mezzo all'umanità e alla storia in modo discriminante, costringendo ciascuno, suo malgrado, a prendere esistenzialmente posizione, che non può essere equivoca, ma netta (Mt 12,30; Lc 11,23), poiché anche l'indifferenza costituisce motivo di condanna (Ap 3,15-16).
Un'ira che si è manifestata dal cielo “su ogni empietà e ingiustizia di uomini”. Un'ira, dunque, incombente, che suona sinistra e prelude ad un giudizio di condanna; ma dice anche la distanza tra il modo di sentire di Dio e quello degli uomini (Is 55,8-9): empietà e ingiustizia caratterizzano l'agire degli uomini; santità di Dio, espressa in quel “dal cielo”, luogo della sua dimora, che si traduce in sdegno ed ira nei confronti di un comportamento degli uomini che suona come sfida a Dio. Un contesto che richiama da vicino la scena di Gen 6,5-7: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male. E il Signore si pentì di aver fatto l'uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo. Il Signore disse: <<Sterminerò dalla terra l'uomo che ho creato: con l'uomo anche il bestiame e i rettili e gli uccelli del cielo, perché sono pentito d'averli fatti>>”.
Un'umanità, dunque, quella ai tempi di Noè, che non riusciva a concepire nel proprio cuore se non il male, tanto era ottenebrata la sua mente da un male che la pervadeva e la permeava completamente. Ed è questo il senso di quel “trattengono la verità nell'ingiustizia”. Un'ingiustizia, dunque, che soffoca la Verità, che è un attributo di Dio, così che l'uomo non sa più distinguere il bene dal male, confondendo l'uno con l'altro, poiché ha perso il senso di questa Verità, ha pero il senso di Dio, smarrendo completamente la Via della Vita (Gv 14,6).
Enunciata
la tesi, la quale altro non è che un pesantissimo atto d'accusa, ora
Paolo procede, come in una sorta di processo, a dimostrare come anche
il mondo pagano ha avuto modo di conoscere il vero Dio, se non per
rivelazione divina, almeno per rivelazione naturale, insita cioè
nella natura stessa delle cose e che anche lo stesso Tommaso
d'Aquino, a modo suo, ha elaborato nelle cinque vie naturali, per
giungere alla dimostrazione dell'esistenza di Dio14.
La pericope
(vv.19-21) si snoda per gradi progressivi, come in una sorta di
sillogismo:
l'attestazione: Dio è conoscibile (v.19);
il luogo della conoscenza: la creazione e le sue opere (v.20);
la risposta dell'uomo: il rifiuto di Dio (v.21);
ergo: “sono
inescusabili”, da qui l'ira divina e il giudizio di condanna che
si concretizza nell'abbandono dell'uomo a se stesso (v.20b)
Un'argomentazione che si conclude andando all'origine di questo rifiuto di Dio: “si sono persi stoltamente nei loro ragionamenti e il loro cuore ottuso fu oscurato” (v.21b). In altri termini, un cuore ottenebrato dal male a causa di una natura decaduta e pesantemente segnata dal peccato, che non ha saputo intuire nelle opere della creazione l'impronta di un comune Denominatore che tutte le accomunava e in esse, in qualche modo, lasciava trasparire le sue qualità spirituali della bellezza, della sua potenza, che riconducevano alla sua stessa divinità, così che l'uomo anziché cogliere il manifestarsi di Dio nelle opere della natura, ha elaborato proprio su queste dei fantasiosi ragionamenti, trasformandole in altrettante divinità ed opponendole in tal modo al suo Creatore.
Le conseguenze di questo obnubilamento del cuore e della mente è stato un proliferare di divinità, a cui l'uomo si è assoggettato: “e barattarono la gloria dell'incorruttibile Dio con un simulacro d'immagine di uomo corruttibile e di uccelli e di quadrupedi e di serpenti”. Il testo qui riprodotto è stato mutuato da Paolo dal Sal 106,5, ampliandolo con altre immagini similari: “scambiarono la loro gloria con la figura di un toro che mangia fieno”. Il riferimento qui è all'episodio del vitello d'oro (Es 32,1-6).
La prima deviazione da Dio fu, dunque, l'idolatria. La più grave, poiché da questa discese tutta la degenerazione di una vita degradata, causata da una sapienza umana corrotta e oscurata dal peccato, che ha posto quale principio del proprio vivere non la Verità di Dio nel suo manifestarsi, ma dei simulacri, a cui si attribuirono significati, culti ed obblighi, generati tutti non da una qualche divinità, inesistente, ma da una mente, quella umana, degradata dal peccato, così che la vita dell'uomo degradò sempre più in basso, fino ad essere annientata con sacrifici umani in nome di divinità immaginarie. In altri termini, l'uomo è divenuto vittima di se stesso. Ed è proprio da questo stato di cose che prende spunto l'esortazione di Ef 4,17-19, che bene illustra il modo di vivere degli uomini di quel tempo, che hanno abbandonato Dio, e da Dio abbandonati, per seguire le proprie fantasie e le proprie passioni: “ Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell'ignoranza che è in loro, e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile”.
I vv.24-25 fungono da introduzione alle gravi conseguenze, da cui l'uomo fu travolto e che verranno illustrate ai vv.26-31: Dio ha abbandonato l'uomo alle sue perversità, “così da disonorare i loro corpi tra di loro”. Espressione quest'ultima che prelude al tema della pericope immediatamente successiva, vv.26-27: i rapporti contro natura. Il senso di quel “disonorare”, verbo negativo, va colto nell'azione positiva cantata dal Sal 8,5-6: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”, e nell'attestazione di Gen 1,27: “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”, affidandogli la prosecuzione della creazione e imprimendo su di lui il segno della fecondità divina, la sua benedizione: “Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra>>” (Gen 1,28a). Il disonorare se stessi, quindi, dice il profanare la santità del proprio corpo, in cui Paolo vede il tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19), ma ancor prima egli vede il credente, in quanto tale, nella sua interezza, tempio dello Spirito Santo (1Cor 3,16-17). In Paolo vi è, dunque, una visione e una comprensione sacrale della persona, che in alcun modo va profanata con atti contro natura, poiché la natura in se stessa possiede la santità di Dio stesso, che in essa, nelle sue leggi naturali, che la sostengono e la conducono, ha impressa la sua volontà, così che tutto si compia secondo il suo progetto di salvezza.
Termina così, con una brevissima dossologia, il preambolo introduttivo alla denuncia del comportamento degradato e degradante del mondo pagano, incorniciato e incluso all'interno di una cornice di giudizio di condanna (v.32), preluso dall'ira divina (v.18). Una dossologia che sembra quasi voler stemperare e controbattere il male che proviene a Dio dall'uomo, intrinsecamente e pervicacemente peccatore: “il Creatore, che è benedetto nei secoli, amen”. Dossologia che ritroveremo identica in 9,5 e più elaborata in 11,33-36, che sembra, quest'ultima, un grido liberatorio di un Paolo, il quale, oppresso dall'oscuro e incomprensibile ruolo e destino di Israele nella storia della salvezza, ne ha finalmente compreso il senso, dopo un lungo cammino durato ben tre capitoli (9-11).
L'accusa di empietà e iniquità degli uomini, lanciata contro di loro al v.18, trova ora qui la sua esemplificazione, che di fatto funge da prova inconfutabile di reato nell'ambito di un giudizio divino che qui si sta svolgendo. Due sono gli elementi di prova, che sostanziano l'accusa: l'omosessualità (vv.26-27) e un dettagliato elenco di tratti perversi e malvagi che caratterizzavano questi uomini in loro stessi e nel loro relazionarsi con gli altri (vv.28-31), così che ne esce un quadro personale e sociale profondamente iniquo e deprimente.
Già preannunciata al v.24 in quella nota “disonorare i loro corpi tra di loro”, Paolo affronta ora il problema della diffusa omosessualità nel mondo ellenistico, al suo tempo, particolarmente quella maschile, benché non assente, anche se meno accentuata, quella femminile. Un'omosessualità che Paolo marchia senza incertezze come “male dell'infamia” e ancor prima, al v.24, come “depravazione”. Si noti come qui Paolo non parla di rapporti sessuali tra uomini e tra donne, ma tra maschi e tra femmine. I termini “maschio” e “femmina” indicano la caratterizzazione sessuale della persona e la sua genitalità nonché il suo specifico ruolo biologico e sociale, che rimandano implicitamente alla legge naturale della generazione e conservazione della vita e della funzione propria del ruolo del maschio e della femmina in questo loro compito, assegnato loro dalla stessa natura per la prosecuzione e conservazione della specie. Ogni creatura, animata o inanimata che sia, a maggior ragione gli esseri umani, ha impresse e connaturate in se stessa delle leggi naturali, la cui funzione e la cui finalità sono quelle di consentirle di evolversi e di raggiungere il suo perfezionamento nonché il compimento della loro missione, per cui esistono. Interferire in queste leggi, manipolandole o in qualche modo ignorandole o bypassandole, significa pregiudicare l'esistenza stessa della creatura, rischiando di decretarne il fallimento. Ma ciò può creare anche una deleteria risonanza sociale, oltre che personale. Sono leggi che sono indisponibili perché superano l'uomo e le creature stesse e, proprio perché indisponibili, sono anche sottratte alla loro volontà, in quanto fanno parte del loro stesso essere costitutivo, funzionale ad un omogeneo ed equilibrato sviluppo della persona e della società, nonché della stessa natura, che tutti ci accoglie e ci ospita.
La seconda prova di accusa è dettagliata nella pericope vv.28-31 ed è preceduta dal v.28 che funge da causa e da motivazione a comportamenti depravati e iniqui. L'iniquità e la depravazione del mondo pagano sono dettate essenzialmente dalla loro ignoranza di Dio: “poiché non giudicarono degno avere in conoscenza Dio”, la quale cosa ha causato e favorito la formazione di una mente adombrata, alterata e degradata dal male, che non è più percepito come tale, e che la rende insensibile alle esigenze di un Dio, che è stato rifiutato. Da ciò si originano comportamenti e fatti che qui Paolo denuncia e che formano una sorta di minimo comune denominatore dello stile di vita del mondo pagano. Non è da pensare, infatti, che Paolo questo elenco se lo sia inventato a tavolino, ripescandolo dal suo inconscio, ma ne abbia fatto esperienza nei suoi numerosi viaggi missionari. Da qui l'esortazione che troveremo anche in Rm 12,2: “non conformate(vi) a questo secolo, ma trasformatevi con il rinnovamento della mente per esaminare che cos'è volontà di Dio, (ciò che è) buono e gradito e perfetto”. Il nutrirsi, dunque, della conoscenza di Dio diviene indispensabile non solo per distinguere il bene dal male, ma altresì per discernere la sua volontà. Da qui l'esortazione di Col 3,16: “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali”.
Il lungo elenco di
depravazioni, qui denunciate da Paolo, termina con una sua
annotazione, che rileva il livello di degrado spirituale, morale ed
esistenziale di questa categoria di persone, che non solo si beano
della loro iniquità, ma pure approvano quelli che, come loro,
compiono tali obbrobri. Si è qui giunti ad una totale ubriacatura
dell'uomo nel male.
Secondo assunto: tutti
i Giudei sono peccatori (2,1-29)
Testo a lettura facilitata
Atto di accusa contro il giudaismo (v,1)
1- Perciò, sei inescusabile, chiunque (tu sia), o uomo che giudichi, poiché nel mentre che giudichi l'altro, condanni te stesso, infatti fai le stesse cose che giudichi.
Giudei come i pagani (vv.2-3)
2-
Ora, sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli
che fanno tali cose.
3-
Ora, considera questo, o uomo che giudichi quelli che fanno tali cose
e che (anche tu) fai, (pensi forse) che tu scampi al giudizio di Dio?
Illusioni dei Giudei (vv.4-5)
4- O
disprezzi la ricchezza della sua benevolenza, della pazienza e della
tolleranza, ignorando che la benevolenza di Dio ti spinge alla
conversione?
5-
Ma, secondo la tua durezza e il cuore impenitente (tu) accumuli ira
nel giorno d'ira e d(ella) rivelazione d(el) giusto giudizio di Dio
Dio retribuirà ciascuno secondo il suo merito (6-11)
6-
che renderà a ciascuno secondo le sue opere:
7-
gloria e onore e immortalità a quelli che, con perseveranza
dell'opera buona, cercano la vita eterna;
8-
ira e sdegno a coloro che, per contesa, disobbediscono alla verità,
obbedendo all'ingiustizia.
9-
Afflizione e angustia contro ogni uomo che compie il male, del
Giudeo, prima, e del Greco;
10-
gloria, invece, e onore e pace ad ognuno che compie il bene, al
Giudeo, prima e al Greco;
11-
non vi è, infatti, parzialità presso Dio.
Ognuno verrà giudicato secondo le opere (vv.12-16)
12-
Quanti, infatti, peccarono fuori dalla Legge, senza Legge anche
periranno; e quanti peccarono nella Legge, per mezzo della Legge
saranno giudicati;
13-
infatti non gli uditori della Legge (sono) giusti presso Dio, ma gli
osservatori della Legge saranno giustificati.
14-
Infatti, allorché (i) gentili, che non hanno (la) Legge, per natura,
fanno le cose della Legge, questi, che non hanno (la) Legge, sono
Legge a se stessi;
15-
i quali mostrano l'opera della Legge scritta nei loro cuori,
rendendo(ne) testimonianza la loro coscienza e i loro (stessi)
ragionamenti che li accusano o li difendono,
16-
nel giorno quando Dio giudica le cose segrete degli uomini secondo il
mio vangelo per mezzo di Gesù Cristo.
La Legge: vanto di Israele (vv.17-20)
17-
Ora, se tu ti chiami Giudeo e poggi sulla Legge e ti vanti in Dio
18-
e (ne) conosci la volontà e, istruito dalla Legge, discerni le cose
migliori,
19-
convinto che tu stesso sei guida di ciechi, luce di quelli che (sono)
nelle tenebre,
20-
educatore di stolti, maestro di fanciulli, avendo la formazione della
scienza e della verità nella Legge;
Le trasgressioni di Israele disonorano Dio (vv.21-24)
21-
ebbene, ammaestrando l'altro, non ammaestri te stesso? Predicando di
non rubare, rubi?
22-
dicendo “non commettere adulterio”, commetti adulterio? Avendo in
abominio gli idoli, derubi i templi?
23-
Ti vanti nella Legge, (ma) attraverso la trasgressione della Legge
disonori Dio;
24-
infatti, “Il nome di Dio a causa vostra è bestemmiato tra i
popoli”, come è scritto.
Chi è il vero Giudeo e qual'è la vera circoncisione (vv.25-29)
25-
Infatti la circoncisione giova qualora tu compi la Legge; ma qualora
(tu) sia un trasgressore della Legge, la tua circoncisione diventa
incirconcisione.
26-
Qualora, pertanto, l'incirconciso osservi le prescrizioni della
Legge, la sua incirconcisione non gli verrà computata come
circoncisione?
27-
Anzi l'incirconciso per natura, che compie la Legge, giudicherà te
trasgressore della Legge per mezzo della lettera della Legge e della
circoncisione.
28-
Non è, infatti, Giudeo (quello che è) in apparenza, né la
circoncisione (è quella) in apparenza nella carne;
29-
ma (è) Giudeo (chi lo è) in segreto e la circoncisione (è quella)
del cuore nello Spirito non nella lettera, la cui approvazione non
(è) dagli uomini, ma da Dio.
Note generali
Parallelamente all'enunciato riguardante il mondo pagano, colpito dall'ira di Dio e dal suo giudizio per averlo rifiutato, pur avendo avuto la possibilità di conoscerlo per il tramite delle creazione, da cui trasparivano la sua onnipotenza e la sua divinità, con tutte le conseguenze di iniquità e depravazioni di vita che tale rifiuto di Dio ha generato (1,18-32), ora Paolo presenta lo stesso schema ragionativo riguardante, questa volta, il mondo giudaico, che pur condannando il comportamento del mondo pagano, tuttavia compie le medesime cose, con la presunzione di essere salvato, perché vive sotto l'egida della Legge. Di conseguenza Giudei e Pagani sono posti tutti sullo stesso piano, tutti sono universalmente peccatori e tutti sono bisognosi in egual modo della misericordia di Dio.
Ma Paolo va ben oltre, togliendo al Giudeo ogni vanto del suo essere Giudeo, circonciso, e del suo vantarsi di possedere la sapienza e la luce della Legge, lui il popolo eletto. Anche questo vanto non conta nulla davanti a Dio, poiché anche un pagano, che pur non conoscendo Dio e la sua Legge, vive naturalmente la sua vita in conformità alla Legge, pur senza conoscerla, questi acquisisce, per merito, la circoncisione del cuore e per sua naturale virtù diviene Giudeo. Poiché per Dio vero Giudeo è colui che lo è nel cuore e non nella carne; così che l'incirconciso diviene circonciso nello spirito e il circonciso nella carne diviene incirconciso nello spirito.
Paolo, quindi, contesta quell'orgoglio giudaico, che nell'ingannare se stesso, separava i giudei dagli altri popoli, ritenendosi essi superiori e santi per definizione. Dio, attesta Paolo, non guarda queste formalità, ma la sincerità e la rettitudine di cuore delle persone, Giudei o Pagani che siano.
Un
assunto questo molto duro, che Paolo svolgerà in questo cap.2,
argomentandolo attraverso otto passaggi:
Atto di accusa contro il giudaismo (v.1);
i Giudei sono come i pagani davanti a Dio, poiché entrambi commetto le stesse colpe e quindi nessuno scampa al giudizio di Dio (vv-2-3);
Illusioni dei Giudei (vv.4-5);
Dio retribuirà ciascuno secondo il suo merito, Giudeo o Pagano che sia (6-11);
Ognuno verrà giudicato secondo le opere, indipendentemente dal suo essere Giudeo o Pagano (vv.12-16);
La Legge: vanto di Israele (vv.17-20);
Le trasgressioni di Israele disonorano Dio (vv.21-24);
Chi è il vero Giudeo e qual'è la vera circoncisione (vv.25-29).
Commento ai vv.1-29
Il v.1 costituisce l'atto di accusa contro il giudaismo e funge da tema dell'intero cap.2, che deve argomentare le ragioni di questo atto di accusa.
Il versetto si apre con la particella congiuntiva e conclusiva “DiÕ” (Diò, perciò, per la qual cosa, quindi), che si aggancia al v.1,32, dove Paolo concludeva la sua riflessione sulle argomentazioni portate contro il mondo pagano, in cui faceva riferimento alle cose degne di morte e sulle quali pesa il giudizio di condanna di Dio (1,18-32). Ora, queste cose degne di morte con quel “DiÕ” (Diò) sono riprese e travasate, pari pari, dal mondo pagano a quello giudaico, che parimenti compie le stesse cose. Viene data in tal modo una sorta di continuità tra il comportamento iniquo e traviato del mondo pagano e di quello giudaico, mettendo entrambi sullo stesso piano, così da poter concludere, in 3,23, che tutti sono peccatori e tutti, quindi, bisognosi, senza distinzione alcuna, della misericordia di Dio. Non va mai dimenticato che nella sezione 1,18-3,20 Paolo si sta preparando le argomentazioni giustificative delle sue conclusioni, che tirerà nella pericope 3,21-31, che, a sua volta, costituisce lo sviluppo dimostrativo dell'enunciato dottrinale di 1,16-17.
L'atto di accusa, ora, viene rivolto contro un qualcuno che qui non viene esplicitamente nominato, ma indicato nella sua peculiarità nel suo rapportarsi agli altri: “uomo che giudichi”, dove quel “chiunque tu sia”, che lo precede, diventa onnicomprensivo, così che Paolo qui si riferisce a tutti quelli che sono caratterizzati da questo modo altezzoso di rapportarsi con gli altri. Chi sia questa particolare categoria di persona verrà posto in chiaro ai vv.17-20, mentre lo specifico atto di accusa, qui generico, verrà dettagliato nella pericope vv.21-24.
Paolo rileva nei confronti dei Giudei come questo loro atteggiamento di superiorità e sprezzante nei confronti degli altri si ritorce anche contro loro stessi, poiché condannano negli altri, cioè nel mondo pagano, quello che anche loro stessi commettono. E che sia così, lo dimostrerà ai vv.21-24. In tal modo Paolo accomuna tutti, Giudei e Pagani, nella loro stessa peccaminosità e nel lor stesso bisogno della misericordia di Dio.
Con i vv.2-3 Paolo fa un ulteriore passo in avanti e attraverso le parole aggancio attinenti al “giudicare e al giudizio”, accomuna ancora una volta Giudei e Pagani nel medesimo giudizio di condanna da parte di Dio, poiché il giudizio di Dio non fa distinzioni di persona e condanna il peccato ovunque si trovi e nessuno deve sentirsene esente per la particolare posizione religiosa in cui viene a trovarsi.
I Giudei, infatti, si sentivano protetti da Dio contro ogni male per il solo fatto di essere figli di Abramo, titolari presso Dio dell'Alleanza con Lui, espressa nella Legge e impressa nella carne con la circoncisione. Essi facevano valere queste loro credenziali di privilegio non solo contro i pagani, che ritenevano impuri per natura e predestinati alla perdizione, ma anche davanti a Dio. Un'attestazione in tal senso ci viene da Mt 3,9, dove i Giudei ritenevano di far valere di fronte a Dio la loro discendenza abramitica. Contro tale pretesa il Battista toglierà loro ogni illusione: “non crediate di poter dire fra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”. E similmente in Ger 7,1-11 dove Israele si riteneva salvaguardato da ogni male per il solo fatto di avere il Tempio del Signore in mezzo a sé, quasi che questo fosse una sorta di amuleto portafortuna. Ma tutto ciò non lo salverà dall'esilio babilonese (597-538 a.C.).
Paolo legge a tal punto queste assurde pretese dei Giudei come una sorta di disprezzo nei confronti della benevola e paziente misericordia di Dio (vv.4-5), non considerando che questa benevolenza divina nei confronti di Israele doveva essere per loro uno stimolo alla conversione e non un motivo di profitto per rimanere nel peccato e continuare a peccare, poiché il continuare in questo comportamento li avrebbe portati, alla pari dei pagani, alla condanna, con l'aggravante di aver usato la benevolenza e la misericordia di Dio per continuare a rimanere nel loro stato di peccato, che affonda le sue radici nella presunzione e nell'illusione di salvezza fondata soltanto su titoli di privilegio, poiché Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, indipendentemente dalla sua posizione privilegiata, come per i Giudei, o meno, come per i pagani.
A tal punto Paolo,
con i vv.6-11, mette in campo il diverso destino legato al
comportamento delle persone e non ai suoi titoli. Una pericope questa
molto curata, disposta a parallelismi concentrici dove al centro, in
C), compare il giudizio di condanna sia per il Giudeo che per il
Greco, entrambi posti sullo stesso piano da Dio.
Per cui si avrà:
A) che renderà a ciascuno secondo le sue opere (v.6):
B) gloria e onore e immortalità a quelli che, con perseveranza dell'opera buona, cercano la vita eterna; (v.7)
C) ira e sdegno a coloro che, per contesa, disobbediscono alla verità, obbedendo all'ingiustizia. Afflizione e angustia contro ogni uomo che compie il male, del Giudeo, prima, e del Greco; (vv.8-9)
B1) gloria, invece, e onore e pace ad ognuno che compie il bene, al Giudeo, prima e al Greco; (v.10)
A1) non vi è, infatti, parzialità presso Dio. (v.11)
A) e A1) si completano a vicenda, poiché il rendere a ciascuno secondo le sue opere trova la sua giustificazione nell'imparzialità di Dio, la quale è un aspetto rilevante della sua giustizia; B) e B1) nello descrivere la ricompensa che prospetta uno stato di vita proiettata in Dio, forniscono un tocco di universalità a questa ricompensa, riservata sia al Giudeo che al Greco, ricompresi in quel generico e anonimo e, quindi, universale “a quelli che”, legato non più ad un titolo di privilegio, ma ad un orientamento esistenziale personale improntato alla ricerca del Bene. Ed infine C), la posizione centrale di questa costruzione a parallelismi concentrici, che, secondo le regole della retorica ebraica, è anche la più importante, quella su cui va accentrata l'attenzione del lettore. Si è qui, infatti, in un contesto dove si parla di iniquità persistente, di peccato e peccatori. L'attenzione, quindi, va orientata sulla ricompensa che attende simili comportamenti, la quale, si badi bene, non intendono stigmatizzare la fragilità dell'uomo, ma punire l'orientamento esistenziale verso il male, divenuto logica di una vita rivolta contro Dio. Si parla, infatti, di coloro che “per contesa” si oppongono alla verità, sottomettendosi, invece, all'ingiustizia, dove quel “per contesa” dice l'opposizione sistematica contro Dio. Lo sono per partito preso. L'espressione “per contesa”, infatti, è resa in greco con “™x ™riqe…aj” (ex eritzeías), dove quel “ex” dice l'origine di questo comportamento avverso a Dio. È un comportamento che nasce dall'ostilità nei confronti di Dio e questo non dipende dalla fragilità dell'uomo, ma da una scelta esistenziale. È questo che condanna l'uomo, non certo l'aver trasgredito, per fragilità umana appunto, un qualche comandamento.
Con i vv.6.11 Paolo aveva attestato che Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere, poiché in Lui non c'è imparzialità. Un'affermazione simile comporta un sterzata radicale nel pensiero giudaico, il quale riteneva che i Giudei fossero santi e, quindi, salvi per elezione divina, in quanto proprietà di Dio (Es 19,4-6), indipendentemente dal proprio comportamento nei confronti di Dio. Ora con la pericope, vv.12-16, Paolo fa un ulteriore passo in avanti, un passaggio questo molto importante, poiché prepara la pericope conclusiva, vv.25-29, di questo cap.2 ed è il pilastro portante dell'intera tesi paolina circa l'uguaglianza tra Giudei e pagani.
Anche questa pericope, considerata la sua particolare importanza nell'argomentazione paolina circa l'universalità della colpa, che in pari modo coinvolge Giudei e Greci, è costruita a parallelismi concentrici sia per darle maggiormente forza e sia mettere in rilievo il cuore stesso di tutta questa argomentazione.
Per cui si avrà:
A) Quanti, infatti, peccarono fuori dalla Legge, senza Legge anche periranno; e quanti peccarono nella Legge, per mezzo della Legge saranno giudicati; (v.12);
B) infatti non gli uditori della Legge (sono) giusti presso Dio, ma gli osservatori della Legge saranno giustificati. (v.13);
Infatti, allorché (i) gentili, che non hanno (la) Legge, per natura, fanno le cose della Legge, questi, che non hanno (la) Legge, sono Legge a se stessi; (v.14)
B1) i quali mostrano l'opera della Legge scritta nei loro cuori, rendendo(ne) testimonianza la loro coscienza e i loro (stessi) ragionamenti che li accusano o li difendono, (v.15)
A1) nel giorno quando Dio giudica le cose segrete degli uomini secondo il mio vangelo per mezzo di Gesù Cristo. (v.16)
In A) si attesta che ognuno verrà condannato secondo ciò in cui ha creduto, anche senza la Legge, ma in base ad una legge naturale inscritta per natura in ciascun uomo. È il caso questo del mondo pagano; mentre chi ha vissuto in conformità alla Legge, sarà la Legge stessa a giudicarlo e condannarlo. È questo il caso del Giudeo. Questa affermazione è insolita per il giudaismo, che si riteneva titolare della salvezza per il solo fatto di essere figlio di Abramo e godere del privilegio dell'Alleanza; mentre il pagano, per sua natura, era già un dannato. Non c'era, dunque, bisogno di un giudizio, poiché le cose erano già stabilite dalle rispettive posizioni. Per questo Paolo, in A1), che va a completare e rafforzare l'attestazione in A), precisa “secondo il mio vangelo per mezzo di Gesù Cristo” (v.16b). Un evento, quest'ultimo, che sconvolge tutte le logiche fin qui ragionate e credute dal giudaismo.
In B) Paolo pone la giustificazione non nell'ascoltare la Legge, ma nell'osservarla. Un passaggio importante, poiché si pone un distinguo tra l'ascoltare e il praticare. Tema questo che verrà ripreso anche in Mt 7,21: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Quindi solo coloro che osservano la Legge saranno giustificati. Ma chi sono coloro che osservano la Legge? Questi per Paolo non sono necessariamente i Giudei. B1), infatti, preciserà che sono tutti coloro che dimostrano come l'opera della Legge è inscritta nel loro cuore e la loro coscienza, quel punto di profonda intimità in cui l'uomo in qualche modo tocca Dio e Dio raggiunge l'uomo, ne darà testimonianza sia per la giustificazione che per la condanna.
Il punto C) è quello centrale e il più importante della pericope vv.12-16; il punto in cui Polo scopre le carte, dando una svolta radicale al pensiero giudaico, precisando che anche i pagani, benché non abbiano la Legge, ma si comportino, sia pur inconsapevolmente, in conformità alla Legge, che comunque è naturalmente inscritta in loro, questi diventano, ipso facto, Legge a loro stessi. Una svolta inconcepibile per il giudaismo, ma che apre le porte della salvezza anche al mondo pagano. Ed è proprio questo v.14, che Paolo riprenderà e svilupperà nella pericope conclusiva di questo cap.2 (vv.25-29)
La pericope circoscritta dai vv.17-24 potremmo definirla come le contraddizioni del giudaismo: da un lato, questi si vanta della Legge e di essere un sapiente e luce per il mondo grazie alla Legge (vv.17-20); dall'altro, trasgredisce la Legge comportandosi alla stessa stregua dei pagani, così che il suo comportamento disonora Dio stesso non solo presso se stesso, ma anche davanti a quelle genti che egli giudica e condanna (vv.21-24).
La pericope vv.17-20 riprende l'enunciato del v.1, che si era aperto in modo anonimo, rivolgendosi ad “un imprecisato uomo che giudica”, ora qui ne viene svelata l'identità e lo fa in modo ironico e beffardo, riportando tutta una serie di titoli con cui il Giudeo, ammaestrato nella Legge e che si muoveva secondo la Legge, probabilmente si definiva o, quanto meno, Paolo qui ne descrive il modo di sentire. Non va dimenticato che Paolo è un fariseo e, quindi, proveniente proprio da quella setta di persone che si definivano i “pureshim”, cioè i separati, persone laiche che si dedicavano allo studio della Torah ed erano impegnate a viverla in modo rigoroso e letterale, diventandone maestri e proponendosi quali guide del popolo. Essi amavano stare in mezzo alla gente e a dibattere questioni interpretative della Legge, ma il loro comportamento e il loro stile di vita verrà duramente stigmatizzato da Mt 23,1-33 e da Lc 20,46-47. Qui Paolo sta probabilmente puntando il dito contro questa categoria di persone, scribi, farisei e sacerdoti, non di certo contro il ceto basso e povero dei Giudei, troppo impegnato a coniugare il pranzo con la cena per dedicarsi ai sofismi di quella Legge da cui si sentiva, invece, oppresso (Mt 23,4).
Ebbene, questa alterigia, così ben tratteggiata da Paolo, viene ora ritorta contro questi sedicenti maestri e dottori della Legge, stigmatizzando il loro comportamento in netto contrasto con quella Legge di cui essi si proclamavano maestri, sapienti e luce delle genti, mettendosi così alla stregua dei pagani, commettendo le loro stesse cose. E Paolo ne enumera le colpe più frequenti, definendoli ladri, adulteri, accaparratori di beni e di quegli oggetti, probabilmente preziosi, provenienti da templi pagani e considerati per questo impuri. Una dura requisitoria, che si conclude con una reprimenda che di fatto è una sentenza di condanna: “Ti vanti nella Legge, (ma) attraverso la trasgressione della Legge disonori Dio”; sentenza che viene rafforzata da una citazione scritturistica: “Il nome di Dio a causa vostra è bestemmiato tra i popoli”, tratta in modo elaborato da Ez 36,20-23. Come dire che è la Legge stessa, di cui si vantano e si dichiarano maestri, che li condanna.
La pericope vv.17-24 costituisce il preliminare alla successiva vv.25-29, perché condannando il comportamento trasgressivo dei Giudei nei confronti della Legge, che in tal modo si mostrano peccatori alla pari dei pagani, Paolo mette fuori gioco ogni pretesa e ogni millantato privilegio dei Giudei, aprendo in tal modo il campo tra un loro confronto, perdente, con il mondo dei pagani, che essi, invece, reputavano destinato alla perdizione per sua natura.
Anche questa pericope (vv.25-29), che stiamo per affrontare, è costruita, alla pari delle altre due precedenti (vv.6-11 e 12-16), a parallelismi concentrici, la cui finalità è, da un lato, approfondire il tema trattato dalla pericope e, dall'altro, accentrare l'attenzione del lettore sul versetto centrale, in genere in C), che fornisce la chiave di lettura dell'intero versetto.
Pertanto, anche per i vv.25-29, si avrà il seguente schema:
A) Infatti la circoncisione giova qualora tu compi la Legge; ma qualora (tu) sia un trasgressore della Legge, la tua circoncisione diventa incirconcisione (v.25);
B)
Qualora, pertanto, l'incirconciso osservi le prescrizioni della
Legge, la sua incirconcisione non gli verrà computata come
circoncisione? (v.26)
A1) ma (è) Giudeo (chi lo è) in segreto e la circoncisione (è quella) del cuore nello Spirito non nella lettera, la cui approvazione non (è) dagli uomini, ma da Dio (29).
La lettera A) attesta che la circoncisione, il segno distintivo dei Giudei, che li affiliava ad Abramo, dando loro garanzia di appartenenza a Dio e certezza di salvezza, ha senso solo se il circonciso si comporta in conformità alla Legge, altrimenti la circoncisione viene svuotata di ogni significato e non è per niente salvifica, poiché la circoncisione è solo un segno esteriore di appartenenza, ma non è produttrice di per se stessa di salvezza (v.25); di conseguenza (lettera A1), continua Paolo, il vero Giudeo e, quindi, il vero figlio di Abramo ed erede della Promessa è colui che conforma la sua vita alla Legge, vivendola nella profondità e sincerità del suo cuore e testimoniandola nelle opere, così che traspaia dalla sua vita quella giustizia che la Legge prospettava, ma che si realizzerà pienamente soltanto in Cristo (Gal 3,24-25). La circoncisione, pertanto, acquista il suo valore e il suo significato se è sostanziata da un corrispondente stile di vita conformato alla Legge, altrimenti è vacuità, che torna a condanna del Giudeo. Quindi l'attestazione di A) viene integrata e completata in A1) (vv.25.29).
Forte delle attestazioni di A) e A1) Paolo opera ora con B) e B1) (vv.26.28) un rovesciamento di posizioni: infatti, se vera circoncisione è quella sostanziata da una fedele osservanza della Legge e tale è il vero Giudeo (A+A1,vv.25.29), allora anche l'incirconciso può considerarsi spiritualmente circonciso qualora, benché a sua insaputa, osservi la Legge, poiché vero Giudeo e vera circoncisione non è ciò che appare all'esterno, secondo la discendenza e nel prepuzio (B+B1,vv.26.28). Attestazioni queste che convergono tutte a supporto dell'attestazione in C), che funge da stoccata finale, la più dura: l'incirconciso, cioè il pagano, inconsciamente osservante della Legge, assurgerà allora a giudice del sedicente Giudeo e sedicente circonciso, vero nelle apparenze, ma non nella verità e realtà del cuore e dello spirito. In altri termini, i pagani che non sono circoncisi, ma che osservano nel loro cuore la Legge, conducendo una vita umanamente retta, dettata dalla Legge naturale, benché non rivelata, inscritta nei loro cuori, sono da considerarsi spiritualmente i veri Giudei e i veri circoncisi nel loro cuore e nel loro spirito. Paolo opera qui non solo un rovesciamento di posizioni, ma un sostanziale spostamento di valori: da titoli storici, quali quello di Giudeo e quello di circoncisione, su di un piano squisitamente spirituale, facendo capire che Dio non guarda le credenziali storiche e secondo la carne, ma quelle spirituali. Dio guarda il cuore. Il resto è del tutto relativo e irrilevante. Dio, infatti, non ragiona secondo gli uomini, perché Egli è Dio (Is 55,8-9).
Alcune
precisazioni preliminari per evitare dei fraintendimenti (3,1-20)
Testo a lettura
facilitata
Prima precisazione: il privilegio di essere Giudei e la grandezza della circoncisione (v.1-2)
1-
Che cos'ha, dunque, di più il Giudeo o qual'(è) vantaggio della
circoncisione?
2-
Molto in ogni modo. Primo, perché, infatti, furono affidate (al
Giudeo) le parole di Dio.
Fedeltà di Dio nonostante l'infedeltà d'Israele (vv.3-4)
3-
Che dunque? Se questi furono infedeli, la loro infedeltà annullerà
la fedeltà di Dio?
4-
Non sia mai! Sia (chiaro che), invece, Dio è veritiero, ma ogni uomo
(è) menzognero, come sta scritto: “Affinché tu sia fatto giusto
nelle tue parole e vinca nell'essere tu giudicato”.
L'ingiustizia umana mette in rilievo la giustizia di Dio (vv.5-6)
5-
Ma se la nostra ingiustizia mette in mostra la giustizia di Dio, che
cosa diremo? Forse che Dio (è) ingiusto allorché riversa (su di
noi) la (sua) ira? Parlo da uomo.
6-
Non sia mai! Diversamente come Dio giudicherà il mondo?
Ma se è così, perché sono giudicato peccatore? Fare il male perché ne venga il bene? (vv.7)
7- Ma se la verità di Dio sovrabbondò in me mentitore per la sua gloria, perché, ancora, anch'io sono giudicato peccatore?
Il lamento di Paolo per le critiche dei suoi avversari, che lo fraintendono (v.8)
8- E com'è che noi siamo screditati e com'è che alcuni dicono che noi diciamo “Facciamo il male affinché ne venga il bene”? Giusta è la condanna di costoro.
Seconda
precisazione: i Giudei, dunque sono superiori?
(vv.9-20)
9-
Che dunque? Siamo superiori? No, assolutamente! Infatti abbiamo
adotto prima come ragione che Giudei ed anche tutti i Greci sono
sotto (il) peccato,
10-
come sta scritto che “Non vi è un giusto, neppure uno,
11-
non c'è chi comprenda, non c'è chi ricerchi Dio.
12-
Tutti hanno deviato, assieme si sono corrotti; non c'è chi faccia il
bene, non c'è neanche uno.
13-
La loro gola (è) una tomba aperta, tramavano inganni con le loro
lingue, veleno di aspidi le loro labbra;
14-
la cui bocca è piena di maledizione e amarezza;
15-
veloci i loro piedi per spargere sangue,
16-
rovina e tribolazione nelle loro vie,
17-
e non conobbero la via della pace.
18-
Non vi è timor di Dio davanti ai loro occhi”.
19-
Ora sappiamo che tutto quanto dice la Legge (lo) dice a quelli che
(sono) nella Legge, affinché ogni bocca sia chiusa e tutto il mondo
sia obbligato a render conto a Dio;
20- poiché dalle
opere della Legge ogni carne non sarà giustificata di fronte a Lui,
infatti per mezzo della Legge (vi è solo) conoscenza d(el) peccato.
Note
generali
Nel cap.2 Paolo aveva colpito duramente il giudaismo nelle cose che più gli erano sacre, come la sua elezione, significata nella circoncisione, la sua Alleanza con Dio espressa dalla Legge. Tutto ciò poteva far sorge nel lettore l'idea dell'inutilità del giudaismo o quanto meno della sua pochezza. Si tratta, quindi, ora, di rimettere le cose al loro giusto posto, ma nel contempo cercando di non riaprire la porta della superiorità del giudaismo sugli altri popoli, per non cadere negli errori denunciati nel cap.2.
L'intera sezione 3,1-20 gira, pertanto, su due domande retoriche fondamentali, finalizzate a definire la corretta posizione del giudaismo in seno alla storia della salvezza e nei confronti delle genti: la prima, v.1, il cui intento è restituire ad Israele la sua dignità, in qualche modo lesa con il cap.2; la seconda, v.9, ha come fine quello di ricollocare nella giusta posizione Israele nell'ambito della storia della salvezza in rapporto agli altri popoli, la quale cosa avverrà in modo più ampio e dettagliato nei capp. 9-11, interamente dedicati alla questione, con intenti e finalità diversi rispetto alle questioni presenti.
Due precisazioni necessarie, quindi, per evitare fraintendimenti presso i lettori. Tuttavia, nel suo argomentare all'interno di queste precisazioni, Paolo introduce altre sottodomande retoriche (vv.3.5.6.7.8), che gli servono per fare ulteriori precisazioni sulle sue argomentazioni, che potrebbero a loro volta essere fraintese, come già era successo in passato, attirandosi le critiche dei suoi lettori (v.8).
Tutto questo ci dice come il pensiero di Paolo fosse molto profondo e complesso e come questo, proprio per la sua complessità e profondità, venisse facilmente frainteso o malamente interpretato. Una testimonianza in tal senso ci viene dalla seconda Lettera di Pietro: “In esse (cioè nelle lettere di Paolo ndr) ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt 3,16b).
La struttura di
questa sezione (3,1-20), che ho definito “precisazioni per evitare
fraintendimenti” è alquanto complessa proprio per la complessità
del pensiero paolino, che qui in particolare denota tutta la sua
preoccupazione di non essere frainteso, così che potremmo definire
questa sezione come difensiva.
Per cui si avrà:
Prima precisazione: il privilegio di essere Giudei e la grandezza della circoncisione permangono comunque (v.1-2);
Dio, infatti, è fedele al suo progetto di salvezza nonostante l'infedeltà d'Israele, poiché Dio non può essere essere infedele a se stesso (vv.4-5);
Anzi l'ingiustizia umana mette in rilievo la giustizia di Dio, che si dimostra giusto anche se riversa sull'uomo la sua ira. Se così non fosse, non potrebbe più essere il giudice giusto del mondo (vv.5-6);
Paolo, ora, applica a se stesso il ragionamento del punto c): se il mio peccato mette in rilievo al gloria di Dio, perché Dio, dunque, mi giudica ancora peccatore? Paolo sembra qui riportare il ragionamento dei suoi detrattori, che lo fraintendono (v.7);
Il lamento di Paolo per le critiche dei suoi avversari, che lo distorcono arrivando alla conclusione assurda: “Facciamo il male affinché ne venga il bene” (v.8);
Seconda precisazione: i Giudei, comunque, nonostante i loro privilegi non possono vantare nessuna superiorità sui pagani, poiché già si è dimostrato nella sezione 1,18-2,29 come tutti sono peccatori e soggetti al giudizio di Dio. A supporto di questa sua tesi Paolo adduce la prova scritturistica, che è una sorta di miscellanea di citazioni (vv.9-20)
Commento
ai vv.1-20
Prima
precisazione: il privilegio di essere Giudei e la
grandezza della circoncisione (v.1-2)
Paolo in 2,28-29
aveva attestato che il vero Giudeo non è quello che appare
esteriormente, dotato di Legge e circoncisione, ma colui che la Legge
la possiede nel suo cuore circonciso. Una simile affermazione sembra
togliere ogni identità al Giudeo, poiché tutti, circoncisi o meno,
possono essere considerati tali, purché osservino quella Legge che
è inscritta naturalmente nel loro cuore e nella loro coscienza.
Quindi, in un sol colpo, Paolo sembra cancellare la ricca e complessa
storia sacra di Israele, una storia che Dio ha intrecciato con questo
suo popolo, banalizzandola in quel “tutti possono essere Giudei nel
loro cuore”. Paolo si rende conto di questo e vi pone subito
rimedio con i vv. 3,1-2, precisando che se è vero che tutti
spiritualmente si può essere Giudei e partecipare ai loro beni
spirituali, non sullo stesso piano può essere posto il Giudeo della
storia rispetto agli altri, poiché egli ha goduto di quella
predilezione divina che nessun altro popolo ha beneficiato. Un popolo
che Dio ha consacrato a se stesso (Dt 7,6; 14,2), definendolo sua
proprietà, nazione santa e popolo di sacerdoti (Es 19,5-6); con lui
ha stretto Alleanza e a lui ha affidato la Torah, il suo
insegnamento, la sua Parola. E questo non lo ha fatto con tutti, ma
solo con Israele. Quindi il Giudeo della storia è di gran lunga
superiore a qualsiasi altro popolo, poiché è profondamente segnato
dalla predilezione divina, la quale, per quanto infedele egli sia,
non potrà mai essere cancellata.
Fedeltà di Dio
nonostante l'infedeltà d'Israele (vv.3-4)
Tutti i titoli e i
privilegi di Israele, pertanto, rimangono nonostante la sua
infedeltà. Titoli che non vengono cancellati dall'infedeltà
d'Israele, poiché questi gli sono stati attribuiti da Dio
nell'ambito di un suo disegno di salvezza universale, e la fedeltà
di Dio è ben più grande dell'infedeltà d'Israele, che non può
cancellare la fedeltà di Dio, poiché tale fedeltà, a cui è
strettamente legato il progetto salvifico di Dio per l'intera
umanità, non potrà mai venire meno, poiché essa fa parte della
natura stessa di Dio e ne caratterizza la sua identità15.
Questo è il senso di quel “Dio è veritiero, ma ogni uomo (è)
menzognero”. Dio è veritiero perché è sempre uguale a se stesso,
contrariamente all'uomo che, invece, è menzognero, poiché muta
continuamente secondo ciò che più gli conviene. Una posizione
questa che Paolo supporta con la prova scritturistica, citando dalla
LXX il Sal 50,6b: “Affinché tu sia reso giusto nelle tue parole e
vinca nell'essere tu giudicato”. Sono le parole che Davide rivolse
a Dio, dopo che il profeta Natan lo aveva accusato di aver ucciso
Uria per sposarne la moglie Betsabea (2Sam 12,1-12). Dio aveva
pronunciato la sua sentenza sul crimine di Davide: il figlio natogli
dal suo rapporto con Betsabea sarebbe morto. Davide riconosce giusto
il giudizio di Dio e di una giustizia incontestabile dagli uomini.
L'ingiustizia
umana mette in rilievo la giustizia di Dio (vv.5-6)
La fedeltà fedele di Dio ad oltranza, nonostante tutto, viene dunque messa in luce dall'infedeltà dell'uomo, che Paolo definisce “menzognero”. Ma se così è, continua Paolo nelle sue obiezioni retoriche, ma che cercano di prevenire i subdoli ragionamenti dei suoi avversari o dei malintenzionati, perché, dunque, Dio si adira contro le infedeltà dell'uomo, che, in ultima istanza, esaltano la sua fedeltà, mettendo in luce la sua gloria. È, forse, da concludersi che Dio è ingiusto nei confronti dell'uomo infedele, visto che con il suo male rende gloria a Dio? Un modo distorto e scorretto di ragionare, che Paolo in modo categorico respinge: “Non sia mai!”, altrimenti Dio non potrà più essere considerato quel giudice giusto e imparziale che le Scritture, invece, celebrano, né egli potrà più ergersi a giudice giusto del mondo. E in tal modo l'uomo eviterebbe il giudizio di Dio sulla sua iniquità e la storia della salvezza non sarebbe più tale, ma celebrerebbe la vittoria del male sul bene.
Ma se è così, perché sono giudicato peccatore? Fare il male perché ne venga il bene? (vv.7)
Ma Paolo non si ferma in queste sue obiezioni retoriche e insiste su questo concetto, che al v.8 sembra essere l'accusa che i suoi avversai gli muovono. Così che Paolo riprende l'obiezione del v.5 e la applica a “se stesso”, che ho messo qui tra virgolette perché in realtà anche questa espressione è retorica. Paolo, infatti, sa bene che la giustificazione di Dio presuppone sempre una radicale conversione dell'uomo e quindi non potrà mai coesistere perdono di Dio con il rimanere dell'uomo nel suo peccato.
Paolo,
dunque, prosegue contrapponendo qui “Verità di Dio” e “menzogna
dell'uomo”. Vengono qui sottolineate le due nature, quella di Dio e
quella dell'uomo, che sono radicalmente contrapposte e irriducibili
l'una all'altra. Il peccato dell'uomo, che qui viene definito la
menzogna dell'uomo, richiamandosi forse alla grande menzogna
genesiaca, con cui il serpente antico ingannò l'uomo, attirandolo
nel suo peccato ed opponendolo a Dio (Gen 3,1-7), ebbene questo
peccato dell'uomo mette in luce la Verità di Dio, cioè il suo
irriducibile amore per l'uomo nonostante il suo peccato. Questa è la
grande Verità di Dio, che con ogni mezzo cerca di recuperare l'uomo
in Se stesso, da cui uscì in modo drammatico a causa della grande
menzogna, di cui l'uomo fu vittima. Se così è, allora, obietta
Paolo, precedendo in tal modo i suoi detrattori, il peccato è un
bene perché mette in luce la Verità di Dio, tornando così a sua
gloria.
Il lamento di Paolo per le critiche dei suoi avversari, che lo fraintendono (v.8)
Su
questa logica perversa Paolo dà qui sfogo al suo dolore e invoca sui
suoi detrattori il giusto giudizio di condanna di Dio, affidandoli in
tal modo al giudizio divino: “E com'è che noi siamo screditati e
com'è che alcuni dicono che noi diciamo “Facciamo il male affinché
ne venga il bene”? Giusta è la condanna di costoro”.
Seconda
precisazione: i Giudei, dunque sono superiori?
(vv.9-20)
Paolo torna, ora, nuovamente, per la terza volta, sul tema della superiorità dei Giudei sugli altri popoli. La prima volta, in modo esteso, con il cap.2; la seconda volta, qui, in 3,1-2, per restituire la dignità e l'identità di Israele, duramente attaccate e banalizzate con il cap.2; la terza volta qui, per riconfermare quanto già detto con il cap.2, che potrebbe sembrare essersi rimangiato con 3,1-2: “Che dunque? Siamo superiori? No, assolutamente! Infatti abbiamo adotto prima come ragione che Giudei ed anche tutti i Greci sono sotto (il) peccato”, dove quel “adotto prima” riguarda l'intero cap.2 e in particolare 2,9-12. Questo comportamento altalenante di Paolo dice tutta la delicatezza del tema qui trattato e il timore di Paolo di essere frainteso. Egli infatti non vuole colpire in alcun modo la sacralità e la santità della storia sacra di Israele, a cui egli stesso appartiene e in cui si include con quel verbo posto alla prima persona plurale (“Siamo superiori?” 3,9), ma la presunzione dei Giudei, che si considerano i privilegiati, i santi e i salvati, insomma, i più bravi di tutti, senza, però, far corrispondere a queste loro pretese un adeguato comportamento esistenziale, che 2,17-24 ha duramente sanzionato..
Pertanto, a scanso di equivoci, qui, Paolo rinnova e riconferma la sua posizione sulla questione, già tratta al cap.2, affidandosi all'autorità delle Scritture, che qui vengono richiamate con una miscellanea di citazioni tratte dai Salmi della LXX16 e da Is 59,7-8 per i vv.15-17 (vv.10b-18).
Il v.9, in cui si attestava come Giudei e Greci sono sotto il peccato, tesi questa rafforzata dalla prova scritturistica (vv.10b-18), che presenta lo scenario di un'umanità depravata, iniqua e priva di ogni timor di Dio, viene ora ripreso e portato a conclusione con i vv.19-20.
Il
v.19 si apre riferendosi alle citazioni scritturistiche, che qui
vengono definite genericamente “Legge”, in quanto vi
appartengono, e come queste valgano per coloro che sono soggetti alla
Legge, dove qui per “Legge” si intende la Torah e in senso più
generico le Scritture. Ma in realtà tali citazioni scritturistiche
con il v.19b vengono estese in qualche modo anche il mondo pagano. Si
parla, infatti, come “ogni bocca e tutto il mondo” devono rendere
conto a Dio. Si torna, quindi a ribadire come tutti sono sotto
l'egida del peccato e, pertanto, tutti colpevoli, riaffermando con un
assunto dottrinale, che chiude l'inciso delle precisazioni 3,1-20,
come “dalle opere
della Legge ogni carne non sarà giustificata di fronte a Lui,
infatti per mezzo della Legge (vi è solo) conoscenza d(el) peccato”.
I vv.19-20, pertanto, nel riconfermare la posizione di Paolo circa
l'universalità del peccato e come questo abbia travolto tutti in
egual modo, per cui tutti sono peccatori, preparano la sezione finale
del cap.3 (vv.21-31), anticipandone i temi (vv.22b.23.28-30), e che a
sua volta riprende l'enunciato dottrinale di 1,16-17, con cui si
apriva la Lettera.
La giustificazione
universale per la sola fede in Gesù Cristo (vv.21-31)
Testo a lettura facilitata
La giustizia di Dio si è manifestata (v.21)
21- Ma ora senza (la) Legge, (la) giustizia di Dio si è manifestata, testimoniata dalla Legge (stessa) e dai Profeti,
Giustizia universale per tutti i credenti (vv.22-24)
22-
giustizia di Dio per mezzo della fede di Gesù Cristo per tutti
quelli che credono. Non vi è infatti distinzione,
23-
tutti, infatti, peccarono e sono privi della gloria di Dio,
24-
ma giustificati gratuitamente per la sua grazia per mezzo della
redenzione che (è) in Cristo Gesù;
In quale modo si è manifestata ed attuata la giustizia di Dio (vv.25-26)
25-
che Dio stabilì (quale) vittima di espiazione per mezzo [della] fede
nel suo sangue, a dimostrazione della sua giustizia per la remissione
dei peccati passati
26-
nella tolleranza di Dio, a dimostrazione della sua giustificazione
nel tempo presente, per essere egli giusto e giustificando per mezzo
della fede in Gesù.
In Cristo Dio si è manifestato Dio di tutti, a cui si accede per mezzo delle fede in Cristo (vv.27-31)
27-
Dove (è), dunque, il vanto? Fu escluso. Per quale Legge? (Per
quella) delle opere? No, per mezzo della legge della fede.
28-
Riteniamo, infatti, che che l'uomo è giustificato per fede senza
opere d(ella) Legge.
29-
Oppure Dio (è) solo dei Giudei? Non anche delle Genti? Si, anche
delle Genti,
30-
se veramente Dio è uno, il quale giustificherà il circonciso dalla
fede e l'incirconciso per mezzo della fede.
31- Abroghiamo,
dunque, (la) Legge per mezzo della fede? Non sia mai! Ma confermiamo
la Legge.
Note
generali
La pericope formata dai vv.21-31 è inclusa dalle espressioni “testimoniata dalla Legge” (v.21) e “confermiamo la Legge” (v.32), che si completano a vicenda, poiché la Legge testimonia circa la giustizia di Dio ottenuta per mezzo della fede, così che la fede non annulla la Legge, ma la conferma. Questa insistenza sulla stretta relazione che intercorre tra Legge, Fede, Giustizia e Giustificazione, evidenziata dai vv.21.31, è prodromo al cap.4, dove si attesterà come come Dio manifestò la sua giustizia e accreditò la sua giustificazione ad Abramo per mezzo della fede e non per mezzo delle opere della Legge, e come i veri discendenti e figli di Abramo siano i credenti, superando in tak modo il vincolo della circoncisione.
Ora, con questa pericope, Paolo riprende e porta a compimento l'assunto dottrinale enunciato in 1,16-17, la cui dimostrazione aveva sospeso per addurre le prove (1,18-3,20) dell'universalità del peccato e della giustizia, ottenuta per mezzo della fede, che è il fulcro su cui poggia e attorno a cui ruota l'intero sistema della giustizia e della giustificazione, così che ora Paolo può attestare inconfutabilmente che la giustizia di Dio si può ottenere universalmente “per mezzo della fede di Gesù Cristo per tutti quelli che credono. Non vi è infatti distinzione, tutti, infatti, peccarono e sono privi della gloria di Dio, ma giustificati gratuitamente per la sua grazia per mezzo della redenzione che (è) in Cristo Gesù” (vv.22-24), che costituisce il cuore della pericope, mentre il v.28 ne è l'attestazione dottrinale conclusiva: “Riteniamo, infatti, che che l'uomo è giustificato per fede senza opere d(ella) Legge”.
Quanto alle due pericopi circoscritte dai vv.1,16-17 e 3,21-31, queste sono tra loro tematicamente interconnesse e agganciate dall'espressione comune: “La giustizia di Dio, infatti, si è manifestata” che si ripete sostanzialmente identica in 1,17 e in 3,21.
La struttura di questa fondamentale pericope, cuore del pensiero paolino sulla giustificazione per fede in Cristo, si sviluppa su quattro livelli tematici progressivi e tra loro concatenati:
La giustizia di Dio ottenuta per mezzo della fede si era già manifestata e attestata attraverso le Scritture (v.21)
una giustizia che è universale ed abbraccia tutti i credenti, indipendentemente dalla loro posizione storica o sociale (vv.22-24);
In quale modo si è manifestata ed attuata la giustizia di Dio (vv.25-26);
In Cristo Dio si è manifestato il Dio di tutti, a cui si accede per mezzo delle fede in Cristo (vv.27-31).
La giustizia di
Dio si è manifestata (v.21)
Il
v.21, che apre la pericope vv.21-31, la quale costituisce
l'enunciazione e il fondamento della teologia paolina della
giustificazione, si aggancia per contrapposizione (“Nunˆ
de” Ninì
dè, Ma ora) al v.20,
che attestava come “dalle opere della Legge ogni carne non sarà
giustificata di fronte a Lui, infatti per mezzo della Legge (vi è
solo) conoscenza d(el) peccato”, concetto quest'ultimo che Paolo
riprenderà in 7,7-11. Ebbene, afferma ora Paolo, questa giustizia di
Dio si è manifestata indipendentemente dalla Legge ed è una
giustizia di cui sia la Legge che i Profeti”, cioè le stesse
Scritture, danno testimonianza. La testimonianza di cui qui si parla
fa riferimento al racconto di Abramo e in particolare a Gen 15,6:
“Egli
credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”.
Quindi la storia della salvezza si fonda su di un rapporto di fede
dell'uomo verso Dio, che diviene in tal modo il prototipo di ogni
altro rapporto con Dio. Veri figli e veri discendenti di Abramo non
sono i circoncisi, ma tutti i credenti, indipendentemente dalla
circoncisione. Già in 2,28-29 Paolo aveva affermato che vero Giudeo
non è quello che è circonciso nella carne, ma nel suo cuore. Viene,
quindi, qui anticipato in qualche modo il tema del cap.4, che fungerà
da prova scritturistica dell'intera pericope vv.21-31.
Giustizia
universale per tutti i credenti (vv.22-24)
Se la pericope vv.21-31 è il fondamento del pensiero paolino sulla giustificazione, questi vv.22-24 ne sono il cuore. Il v.22a è un enunciato dottrinale che attesta come la “giustizia di Dio”, cioè la fedeltà di Dio al suo progetto di salvezza, indipendentemente dalla fedeltà dell'uomo (vv.3-4), progetto che consiste nel recuperare l'uomo in quella dimensione divina da cui era drammaticamente uscito nei primordi dell'umanità (Gen 3,14-24), viene ora offerta a tutti quelli che credono in Cristo Gesù, dove quel “Cristo Gesù” definisce l'uomo Gesù, riconosciuto quale Cristo, cioè Messia inviato dal Padre per compiere il suo progetto di salvezza. Credere in lui, pertanto, significa aderire esistenzialmente a questo progetto di salvezza, che si è manifestato e attuato in Cristo Gesù, che Paolo in 1,16-17 afferma essere potenza di Dio per la salvezza di ogni credente. È significativo come Paolo, quando parla di salvezza non parla mai di salvezza degli uomini in genere, ma del credente o dei credenti. Quindi significa che questa offerta di salvezza non è buttata in pasto a chiunque, ma solo ai credenti, cioè a coloro che si sono resi esistenzialmente disponibili ad accogliere in loro stessi l'annuncio di questa Potenza di Dio, manifestatasi ed operante nel Vangelo (1,16-17), che è Cristo Gesù stesso.
Paolo sottolinea come la “giustizia di Dio” è offerta a “tutti” i credenti. Un “tutti” che supera ogni particolarismo o settarismo storico e/o religioso, per estendersi a chiunque abbia accolto in se stesso la proposta salvifica del Padre manifestatasi nel suo Cristo. Unico requisito, quindi, è accogliere nella propria vita questa potente e salvifica offerta di Dio a favore di chiunque crede. “Non vi è infatti distinzione” conclude il v.22.
Se si tratta di un'offerta di salvezza, attuatasi e manifestatasi in Cristo, ciò significa che l'uomo è bisognoso di salvezza e in quanto tale si qualifica nei confronti di Dio come “peccatore”: “tutti, infatti, peccarono e sono privi della gloria di Dio”. Quindi l'intera umanità è sotto l'egida del peccato, sia i pagani (1,18-32) che i Giudei (2,1-29). Ma quando parliamo di peccato, questo non va mai inteso come una semplice violazione della Legge o di un qualche suo comandamento. Esso possiede in se stesso una gravità che è unica, poiché delinea un comportamento esistenziale avverso a Dio. Il termine “peccato” o “peccare”, la cui dinamica è espressa molto bene nel racconto lucano del “Figliol prodigo” (Lc 15,11-32), ha, infatti, il suo corrispondente in “¡mart…a” (amartía) o “¡mart£nw” (amartáno) che significano nel loro insieme “errore, sbaglio, allontanarsi dal vero, dal giusto; sbagliare strada, ingannarsi”. Quindi il concetto di peccato inerisce ad un orientamento esistenziale di fondo, che oppone l'uomo a Dio e che lo orienta verso le cose, allontanandolo da Lui. Siamo, dunque, ben oltre ad una semplice violazione della Legge, addebitabile alla fragilità umana, più che a quella di voler offendere Dio. E questo doveva essere il concetto di peccato di Paolo se al “tutti, infatti, peccarono” aggiunge “e sono privi della gloria di Dio”, cioè della vita stessa di Dio con cui Dio rivestì l'uomo con l'alito del suo Spirito, così che l'uomo divenne un “essere vivente” (Gen 2,7), vivente della stessa vita di Dio, poiché egli è stato creato a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27). Rivestito, dunque, della stessa vita di Dio, l'uomo, rivoltatosi contro di Lui, si ritrovò “nudo” (Gen 3,6-7), cioè spogliato della vita divina a cui era stato reso partecipe per mezzo dell'Alito divino, lo Spirito Santo; una nudità che qui Paolo rende con quel “privi della gloria di Dio”. Un'espressione che richiama da vicino il Sal 8,5-6: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”.
Se questa è la triste e drammatica condizione esistenziale dell'uomo travolto dal peccato e spogliato della vita divina, e che Gen 3,16-24 ha emblematicamente descritto, ponendola sotto il segno della sofferenza e della morte, qui il v.24 apre una nuova prospettiva di speranza, che rilancia l'uomo, peccatore per sua condizione esistenziale, nuovamente in seno a Dio: “ma giustificati gratuitamente per la sua grazia per mezzo della redenzione che (è) in Cristo Gesù”. Quel “giustificati” dice che l'uomo è stato nuovamente posto nella giusta posizione e relazione con Dio e, quindi, reso nuovamente “santo”, cioè partecipe della Santità di Dio, che è un attributo della vita stessa di Dio (Lv 11,44; 19,2; 20,7). L'uomo, dunque, è stato reintrodotto in quella dimensione divina, da cui era drammaticamente uscito nei primordi. Viene, quindi, riassegnato “gratuitamente” alla Vita di Dio. Significativo quel “gratuitamente”, che esclude un qualsiasi intervento umano in quest'opera di suo salvataggio divino, contrapponendo questa gratuità alle “opere della Legge”, attraverso le quali l'uomo, in modo pretenzioso e presuntuoso, si fa autore della propria salvezza e Dio un soggetto del tutto passivo, che deve retribuire l'uomo in base alla sua capacità di esecuzione della Legge.
La
gratuità della salvezza avviene “per la sua grazia”, quindi non
per meriti dell'uomo, ma per libera iniziativa misericordiosa e
benevola di Dio, che si china verso l'uomo per innalzarlo verso di
Sè. Un'espressione questa che va quindi a rafforzare e a spiegare il
senso di quel “gratuitamente”. Se quel “gratuitamente per la
sua grazia” dice la posizione di Dio nei confronti dell'uomo
peccatore, quel “per mezzo della redenzione che (è) in Cristo
Gesù” dice le modalità del come è avvenuto questo recupero
dell'uomo a Dio: attraverso la redenzione che si è realizzata in
Cristo Gesù. Il sostantivo “¢polutrèsewj”
(apolitróseos)
significa “riscatto, redenzione” e ancor più significativo è
il verbo corrispondente “¢polutrÒw”
(apolitróo),
che significa “libero a prezzo di riscatto, restituisco, libero”.
Il senso, dunque, di quella “¢polutrèsewj”
(apolitróseos)
è una liberazione che è avvenuta attraverso un prezzo che Dio ha
pagato a nostro favore e questa liberazione è stata attuata in
Cristo Gesù, il luogo in cui è avvenuta questa liberazione e in cui
e con cui Dio ha pagato il prezzo della nostra liberazione dalla
schiavitù del peccato, perché venissimo “restituiti” (questo è
il secondo significato del verbo “apolitróo”)
nuovamente a Lui e alla sua Vita divina, da cui siamo fuoriusciti.
In quale modo si
è manifestata ed attuata la giustizia di Dio
(vv.25-26)
Se la giustificazione dell'uomo peccatore si è realizzata attraverso un processo di riscatto, di liberazione e di restituzione dell'uomo alla dimensione divina e il luogo in cui è avvenuto tutto ciò è Cristo Gesù, allora è da chiedersi “in quale modo ciò è avvenuto?”. Paolo, ora, con i vv.25-26 si appresta a spiegare la dinamica di questo riscatto avvenuto in Cristo e lo fa attraverso un'immagine efficace: “Ön prošqeto Ð qeÕj ƒlast»rion” (òn proétzeto o tzeòs ilastérion), letteralmente: “che Dio stabilì quale sacrificio propiziatorio”. Se questo è il senso, l'immagine che quel “ƒlast»rion” (ilastérion) evoca e alla quale rimanda è il coperchio dell'Arca dell'Alleanza, detto anche propiziatorio, sul quale, una volta all'anno, il Sommo sacerdote, entrato nel Santo dei Santi, versava il sangue della vittima per l'espiazione dei peccati del popolo. Paolo, pertanto, associa Cristo a questo “ƒlast»rion” (ilastérion), che diviene, parimenti a quello, strumento di espiazione attraverso il suo sangue sparso su se stesso e sull'intera umanità, che in modo misterioso ha attratto a sé, nella sua carne (Gv 12,32). Significativo, poi, come Paolo associ Cristo al coperchio dell'Arca dell'Alleanza, lasciando intuire che egli, il Cristo, ha a che fare con l'Arca dell'Alleanza, in quanto luogo della presenza di Dio in mezzo agli uomini, ma anche quale punto e sacramento d'incontro e di Alleanza tra Dio e gli uomini.
Se l'espiazione dei peccati è in sé e per sé un atto compiuto e universale, gli effetti sugli uomini non sono automatici, ma si rende necessario aderire personalmente a questo dono gratuito del Padre, che si è realizzato in Cristo e che è Cristo stesso. E lo strumento che consente questa adesione è la fede. Paolo, infatti, parla di “espiazione per mezzo [della] fede”. E tutto questo è attuazione e manifestazione della “giustizia d Dio”, cioè della sua fedeltà di Dio al suo progetto salvifico, finalizzato alla remissione dei “peccati passati”. Si noti come Paolo qui parla della remissione dei “peccati passati” (“tîn progegonÒtwn ¡marthm£twn”, tôn proghegonónton amartemáton), letteralmente “che sono avvenuti prima”, poiché per Paolo il credente, ora, è morto al peccato e vivente per Dio (6,11), così come non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù (8,1). Un sacrificio cruento compiutosi, dunque, per la remissione dei peccati passati, che richiamano la condizione di peccato dell'uomo vecchio, appartenente alla stirpe del vecchio Adamo. Il sangue di Cristo, quindi, è stato sparso per sanare questa situazione pregressa e che si perpetua nell'uomo in quanto peccatore per sua natura, ma riscattato e redento da questo sangue per mezzo della sua adesione a Cristo nella fede e nel battesimo, dove l'uomo vecchio è stato associato alla morte di Cristo per rinascere vivente per Dio in Cristo Gesù (6,1-11), nuovo Adamo e capostipite di una nuova umanità, caratterizzata dal suo vivere secondo le logiche dello Spirito (8,10-14).
Con il v.26 Paolo muove un appunto sul modo di agire di Dio, che non ha distrutto l'umanità adamitica, l'umanità di peccato e a Lui ribelle, ma si è mostrato fin qui tollerante verso questo stato di cose nella prospettiva e in attesa del realizzarsi di questo suo progetto salvifico, che si è attuato e manifestato nel suo Figlio, il Cristo Gesù, così che “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5). Un progetto, tuttavia, che già aveva in qualche modo preso forma ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4-5) e in vista della venuta di suo Figlio (Col 1,16b): “In lui, infatti, ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo” (Ef 1,4-5). In tal modo Dio si è manifestato giusto, cioè fedele al suo primordiale progetto di salvezza, che consiste nel recuperare in Se stesso l'intera umanità e con essa, per un principio di solidarietà, l'intera creazione. E tutto ciò per mezzo della fede, cioè per mezzo dell'adesione esistenziale dell'uomo a Cristo Gesù, in cui il Padre ha realizzato pienamente il suo disegno di salvezza, manifestandolo e attuandolo nella pienezza dei tempi: “egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10).
In Cristo Dio si è manifestato il Dio di tutti, a cui si accede per mezzo delle fede in Cristo (vv.27-31)
La salvezza per mezzo della sola fede in Cristo e non per mezzo delle opere della Legge ha messo in discussione il principio fondamentale del giudaismo, quello della giustificazione per mezzo delle opere della Legge e in virtù della circoncisione, che inserisce il giudeo nel popolo eletto, costituendolo figlio di Abramo e, in quanto tale, erede della Promessa. Una posizione quest'ultima che aveva fatto di Israele un popolo privilegiato presso gli altri popoli pagani, destinati alla perdizione. Per questo Paolo insiste per ben tre volte (vv.1-2.9.27) sul fatto che va, si, riconosciuto il privilegio di Israele rispetto agli altri popoli, poiché Dio ha affidato ad esso la sua Parola (v.2), ma al di là di questo i Giudei, alla pari dei pagani, non possono avanzare nessun'altra pretesa, poiché essi, alla pari dei pagani, sono tutti parimenti peccatori (v.9; 1,18-3,20).
Ora con il v.27, dopo aver puntualizzato l'agire di Dio, che si è mosso con liberalità e misericordia nei confronti di tutti, Giudei e pagani, chiedendo loro solo un'adesione esistenziale al suo progetto di salvezza operato e manifestato in Cristo (vv.21-26), Paolo esclude nuovamente i privilegi e le pretese dei Giudei rispetto all'agire di Dio, che invece si è mostrato benevolo e misericordioso verso tutti, indipendentemente dalla posizione storico-religiosa dei popoli. Quindi viene escluso qualsiasi approccio diverso dalla fede, che qui Paolo definisce “per mezzo della legge della fede”, dove per “legge” deve intendersi il progetto di Dio che prevede il recupero dell'uomo alla sua primordiale dimensione attraverso la sua adesione esistenziale a Cristo, non solo luogo d'incontro tra Dio e gli uomini, ma altresì luogo dove Dio ha attuato e manifestato a tutti, Giudei e Greci, il suo progetto di salvezza universale, che propone indistintamente a tutti, invitando tutti ad aderirvi per mezzo della sola fede.
Pertanto, Paolo, ora, con il v.28 porta a conclusione l'intera sezione 1,16-3,27 con un'attestazione dottrinale, che funge da pilastro fondamentale e fondante della dottrina della giustificazione, poiché esclude definitivamente la salvezza per mezzo della Legge mosaica: “Riteniamo, infatti, che che l'uomo è giustificato per fede senza opere d(ella) Legge”. La solennità dell'attestazione dottrinale si riscontra in quel “Riteniamo”, alla prima persona plurale, dietro la quale va scorto non solo Paolo, ma tutte le comunità ecclesiali. Paolo ha, quindi, con tale affermazione inaugurato un nuovo filone di pensiero, che si stacca nettamente dal giudaismo e dal giudeocristianesimo giudaizzante, affermando con tono perentorio la primarietà della fede in Cristo sulla Legge mosaica, che rischiava di soffocare e fagocitare la novità dell'evento Cristo.
Ed è a tal punto che Paolo, prevenendo la levata di scudi e di critiche nei suoi confronti da parte dei suoi avversari e detrattori, ponendo la questione dell'unicità e indivisibilità di Dio, che non si lascia coinvolgere nei partitismi religiosi degli uomini, ma punta diritto all'obiettivo del suo progetto: recuperare l'uomo, indipendentemente dalla sua appartenenza storica e religiosa, nella dimensione divina, da cui è drammaticamente fuoriuscito nei primordi dell'umanità. Dio, quindi, è il Dio non di qualcuno, ma di tutti, ai quali si rivolge ponendo non una Legge coartante, che per la sua congenita fragilità l'uomo non sarebbe in grado di eseguirla nella sua interezza, ma attraverso un semplice atto di adesione esistenziale al progetto salvifico attuato e manifestato in Cristo, poiché a Dio interessa il cuore dell'uomo e non l'esteriorità della sua appartenenza storica o religiosa. Paolo, del resto, lo aveva già affermato in 2,28-29, come “Non è, infatti, Giudeo (quello che è) in apparenza, né la circoncisione (è quella) in apparenza nella carne; ma (è) Giudeo (chi lo è) in segreto e la circoncisione (è quella) del cuore nello Spirito non nella lettera, la cui approvazione non (è) dagli uomini, ma da Dio”.
Tuttavia,
Paolo si rende conto che una simile drastica e stravolgente
attestazione, che colpisce nel cuore il giudaismo, abbisogna, ora, al
di là delle sue congetture teologiche e cristologiche, anche di un
supporto scritturistico, per controbattere sia i Giudei che i
giudeocristiani giudaizzanti, per cui attesta come la fede non è
contraria alla Legge né tantomeno la abroga, ma anzi, la conferma
(v.31); mentre la Legge, da parte sua, testimonia come la fede sia
alla base del rapporto dell'uomo con Dio (v.21). In quale modo ciò
avvenga, sarà compito del cap.4 a dimostrarlo.
Il rapporto Abramo-Dio, fondato sulla fede, diviene il prototipo per tutti i credenti (4,1-25)
Testo a lettura facilitata
Il rapporto Abramo-Dio fondato sulla fede (vv.1-8)
1-
Che cosa, dunque, diremo che abbia conseguito Abramo, nostro
progenitore secondo la carne?
2-
Se, infatti Abramo fosse stato giustificato dalle opere, ha vanto, ma
non nei confronti di Dio.
3-
Che cosa dice, infatti, la Scrittura: “Abramo credette a Dio e gli
fu computato a giustizia”.
4-
Ma per chi lavora la mercede non è computata secondo grazia, ma
secondo debito,
5-
ma per chi non lavora, ma crede in colui che giustifica l'empio, la
sua fede è computata per la giustizia;
6-
come anche Davide canta la beatitudine dell'uomo a cui Dio computa la
giustizia senza le opere:
7-
“Beati (quelli), le cui iniquità sono rimesse e i cui peccati sono
stati ricoperti;
8-
beato l'uomo a cui (il) Signore non metterà in conto (il) peccato”.
La circoncisione, segno che attesta e caratterizza il rapporto di fede tra Abramo e Dio (vv.9-12)
9-
Questa beatitudine, dunque, (è) per la circoncisione o anche per
l'incirconcisione? Diciamo, infatti: “La fede fu computata ad
Abramo per (la) giustizia”.
10-
Come, dunque, (gli) fu computata? Nel mentre era circonciso o nel
mentre era incirconciso? Non nella circoncisione, ma
nell'incirconcisione;
11-
e prese il segno della circoncisione, sigillo della giustizia della
fede, che (ebbe) nell'incirconcisione, per essere il padre di tutti i
credenti incirconcisi, affinché fosse computato [anche] a loro [la]
giustizia,
12-
e padre (della) circoncisione, non solo per quelli (che provengono)
dalla circoncisione, ma anche per quelli che seguono sulle orme della
fede del nostro padre Abramo., (mentre era ancora)
nell'incirconcisione.
Abramo padre di tutti i credenti, eredi della promessa fatta ad Abramo, ottenuta per fede (vv.13-18)
13-
Infatti, non (fu fatta) per mezzo della Legge la promessa ad Abramo o
alla sua discendenza, (quella di) essere lui l'erede del mondo, ma
per mezzo della giustizia della fede.
14-
Se, infatti, gli eredi (sono quelli che provengono) dalla Legge, la
fede viene svuotata e la promessa impedita.
15-
La Legge, infatti, produce l'ira; ma dove non c'è Legge non (c'è)
trasgressione.
16-
Per questo (l'eredità proviene) dalla fede, affinché (sia) per
mezzo della grazia, per essere sicura la promessa a tutta la
discendenza, non solo a quella (che viene) dalla Legge, ma anche a
quella della fede di Abramo, che è padre di tutti noi,
17-
come sta scritto: “Ho posto te padre di molti popoli”, davanti a
Dio, al quale credette, il quale vivifica i morti e chiama le cose
che non sono come fossero.
18-
Egli credette sulla speranza contro (ogni) speranza, per diventare
egli padre di molti popoli, secondo ciò che fu detto: “Così sarà
la tua discendenza”,
L'incrollabile fede di Abramo, che crede contro ogni speranza, torna a suo e nostro beneficio (vv.19-25)
19-
e non essendo debole nella fede considerò il suo proprio corpo [già]
morto, essendo di quasi cento anni, e in no stato di morte l'utero
di Sara.
20-
E verso la promessa di Dio non esitò per incredulità, ma fu
fortificato per (la) fede, dando gloria a Dio.
21-
Ed essendo pienamente certo che ciò che (Dio) promise è capace
anche di far(lo).
22-
Perciò [anche] gli fu computato a giustizia.
23-
Ma non fu scritto solo per lui che gli fu computato (a giustizia),
24-
ma anche per noi, ai quali sarà computata, (a noi) che crediamo in
colui che ha risuscitato Gesù Cristo nostro Signore dai morti,
25- il quale fu dato
per le nostre iniquità e fu risuscitato per la nostra
giustificazione.
Note
generali
Paolo chiudeva il cap. 3 con il v.31, il quale attestava che la fede non solo non abroga la Legge, ma, anzi, la conferma. Una conferma che trova il suo aggancio nel racconto di Abramo il quale intraprese un rapporto con Dio fondato esclusivamente sulla fede (Gen 15,6), che fu poi sancito da un'alleanza con Lui (Gen 15,17-21) ed infine trovò anche il suo segno nella circoncisione (Gen 17,10-11), quale realtà visibile che rimanda ad un'altra invisibile, quella appunto della fede, che è lo strumento attraverso il quale Abramo e Dio si rapportano tra loro. La circoncisione, pertanto, non costituisce ne tantomeno genera il rapporto di alleanza tra Abramo e Dio, fondato sulla fede, ma ne attesta soltanto la realtà, che per sua natura è invisibile.
Un rapporto, quindi, fondato sulla fede, reso stabile da un'alleanza, che Abramo intesse con Dio quand'era ancora incirconciso e fatto seguire, soltanto successivamente, dalla circoncisione, che ne divenne il segno, Così Abramo divenne il prototipo del rapporto di fede con Dio sia per gli incirconcisi (pagani) che per i circoncisi (Giudei). In tal senso egli divenne padre di tutti i credenti, siano questi provenienti dai pagani che dai Giudei. Questi ultimi, tuttavia, hanno scambiato il segno per la cosa significata, l'effetto con la causa, la forma con la sostanza, facendo della circoncisione non il segno, ma la causa di elezione, di appartenenza e di salvezza, dimenticando che tutto ciò dipende non dalla circoncisione, ma dal rapporto esistenziale che ciascuno intrattiene con Dio, utile soltanto se fondato sulla fede, come lo fu quello di Abramo.
Pertanto, indipendentemente dalla propria posizione storico-religiosa, chiunque allinea il suo rapporto con Dio a quello che Abramo ebbe, ne diventa non solo emulo, ma anche figlio e, quindi, sua discendenza e in quanto tale anche erede delle promesse che Dio gli fece. L'eredità della promessa, che Abramo ottenne per mezzo della fede, passa, dunque, a chi, come lui, fonda il suo rapporto con Dio sulla fede. Una discendenza che ha impresso nel suo DNA spirituale quello stesso di Abramo, il quale credette e sperò contro ogni speranza.
La natura della fede di Abramo viene presentata da Paolo solida e indefettibile, una fede che crede e spera contro ogni speranza e, quindi, una fede che sa andare oltre le apparenze e le contraddizioni della storia, avendo coscienza come in questa si stia realizzando la sua Promessa di una discendenza più numerosa delle stelle del cielo e della sabbia del mare; la promessa di una Terra (Gen 26,4), di cieli nuovi e di una terra nuova (Is 65,17; 66,22; Ap 21,1 ), dove Egli farà nuove tutte le cose (Is 43,19a; Ap 21,5), dove non vi sarà più notte e non si avrà più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio illuminerà tutti i credenti che regneranno con Lui per l'eternità (Ap 22,5). Una promessa che rimbalzerà lungo la storia, da credente in credente, fino al suo pieno compimento nell'eternità stessa di Dio, poiché, a giochi finiti, è questo il senso finale e compiuto della Promessa che Dio fece ad Abramo.
Una fede che non è
un semplice credere in qualcosa o in qualcuno, ma una totale e piena
apertura esistenziale a Dio, fidandosi di Lui, mettendosi nelle sue
mai e lasciandosi condurre, come Abramo, mano nella mano, dove Egli
vorrà. Così che la vita di Abramo diviene un cammino di fede, che
crede nella Promessa di Dio, e lo apre alla speranza della sua
realizzazione, benché tutto gli stia dicendo il contrario. Abramo
continua a credere e a sperare contro ogni speranza, nonostante che
la vecchiaia sua e di sua moglie Sara gli dicano che non può avere
figli; nonostante che quel suo unico figlio gli venga chiesto in
sacrificio; nonostante tutto gli dica che la Promessa è un imbroglio
e un'illusione. Egli credette e questo gli fu accreditato a
giustizia, divenendo padre di una nuova umanità, che nonostante
tutto crede e spera contro ogni speranza, poiché sa che essa poggia
su Dio.
Ci si trova, dunque,
di fronte ad un'ampia riflessione sulla figura di Abramo, che poggia
sulle Scritture e che si sviluppa strutturalmente in quattro momenti:
Il rapporto Abramo-Dio fondato sulla fede e attestato da Davide nel Sal 32,1-2 (vv.1-8);
La circoncisione, segno che attesta il rapporto di fede tra Abramo e Dio, ma non lo crea (vv.9-12);
Abramo padre di tutti i credenti, eredi della promessa fatta ad Abramo, ottenuta per fede (vv.13-18);
La qualità della fede di Abramo: fede incrollabile, che crede e spera contro ogni speranza (vv.19-25).
Commento
ai vv.1-25
Il rapporto
Abramo-Dio fondato sulla fede
(vv.1-8)
Parlando in termini giudiziari, il v.1 apre un fascicolo su Abramo, che consiste in una ricerca e in un'analisi scritturistica sul tipo di rapporto che Abramo ebbe con Dio. Un Abramo che qui Paolo definisce “nostro progenitore secondo la carne”. Con questa espressione sembra riferirsi al mondo giudaico o ai giudeocristiani giudaizzanti, i destinatari, probabilmente, di questo cap.4. Quel “nostro”, infatti, include Paolo insieme agli altri giudei. Egli, infatti, ne faceva parte e aveva rivendicato le sue origini nella tribù di Beniamino (11,1), appartenente alla setta dei farisei (Fil 3,5) e probabilmente membro anche del sinedrio17. Un Abramo che i Giudei consideravano il capostipite del popolo di Israele, e loro sua discendenza e loro padre. Significativo in tal senso il dialogo che intercorre tra il Gesù giovanneo e le autorità giudaiche in Gv 8,33-40, dove esse si dichiarano discendenza di Abramo, quindi suoi figli ed Abramo loro padre. Un “nostro” che se, da una parte, include Paolo e i Giudei, dall'altra, esclude tutti gli altri che giudei non sono, poiché la progenitorietà, qui considerata, è “secondo la carne”. Qui vale, quindi, la genealogia, un attestato importante che ogni ebreo doveva conoscere, poiché qualificava la sua identità di appartenenza. Attestazione questa che, però, verrà capovolta al v.16, dove Abramo è dichiarato da Paolo come “padre di tutti noi”, dove quel “tutti” riguarda non più i Giudei, ma il mondo dei pagani (v.17); mentre quel “noi” non riguarda più Paolo insieme ai Giudei, ma il Paolo apostolo dei genti, che come loro ha creduto in Cristo Gesù, sentendosi con loro figlio di Abramo secondo la fede, che include tutti, e non più secondo la carne, che, invece, esclude tutti.
L'intento dei successivi vv.2-5 è quello di colpire la presunzione di privilegio e di salvezza dei Giudei, che, considerandosi quali popolo eletto e figli di Abramo secondo la carne, ritenevano di poter acquistare la salvezza da Dio, semplicemente eseguendo con correttezza formale le disposizioni della Legge, in cui si riconosceva la volontà di Dio. In un simile contesto i Giudei si ponevano nei confronti di Dio come il creditore nei confronti del suo debitore; un contesto in cui Dio subisce le rivendicazioni del suo popolo. Un rapporto, quindi, meramente legalistico, di tipo sinallagmatico, cioè a prestazioni corrispettive: io ho eseguito quanto tu mi hai detto di fare, quindi, ora tu mi devi dare quanto mi hai promesso, essendoci tra me e te un patto di alleanza, che regolamenta i nostri rapporti. Aspetto che Paolo evidenzierà al v.4: “Ma per chi lavora la mercede non è computata secondo grazia, ma secondo debito”.
Ora, Paolo analizza questo comportamento pretenzioso dei Giudei alla luce di quello di Abramo, di cui essi si dichiarano figli e discendenza. Se infatti Abramo fosse stato riconosciuto giusto in base alle sue opere, egli avrebbe avuto certamente modo di vantarsi, essendo stato riconosciuto da Dio stesso come un bravo esecutore di una Legge che, si badi bene, qui Paolo sta parlando per assurdo, ancora non c'era e che sarebbe giunta, secondo i calcoli che lo stesso Paolo ha fatto in Gal 3,17, ben quattrocentotrent'anni dopo. Che cosa, dunque, ha innescato questo rapporto di collaborazione tra Dio e Abramo e su quale tipo di rapporto si è fondata questa collaborazione. Non certamente sulla bravura di Abramo, ma solo sulla fede, credendo Abramo a ciò che Dio gli aveva detto e fidandosi di Lui. Infatti Gen 15,6, che qui Paolo cita al v.3, attesta che “Abramo credette a Dio e gli fu computato a giustizia”. Dunque, Abramo fu ritenuto giusto da Dio, perché egli si è fidato di Lui. Abramo non ha messo se stesso, la sua bravura o la sua intelligenza davanti a Dio, contrattandone la volontà, ma, per contro, si è posto nelle sue mani intraprendendo un cammino di fede, rendendosi così disponibile a diventare uno strumento di realizzazione del piano di salvezza, che Dio aveva pensato fin dall'eternità e ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4-5). Aspetto questo che Paolo affronta al v.5, ma ne cambia il senso rispetto all'esempio di Abramo: “ma per chi non lavora, ma crede in colui che giustifica l'empio, la sua fede è computata per la giustizia”. Gen 15,6 attesta che Abramo credette a Dio che glielo computò a giustizia. In altri termini, Dio espresse la sua benevolenza nei confronti di Abramo per la sua disponibilità accogliente di collaborare al suo progetto di salvezza, di cui Abramo era solo un docile strumento. Al v.5 Paolo, invece, attribuisce un altro significato alla fede di Abramo, non più di chi si fida di Dio, ma del peccatore che riconosce se stesso tale davanti a Dio e senza pretendere nulla da Lui si affida nelle sue mani misericordiose ottenendone il perdono. Un atteggiamento questo che ricorda la parabola di Lc 18,10-14. Non è questo il senso della fede di Abramo e del contesto genesiaco da cui fu tratto il racconto. Ma ciò che Paolo vuol qui rilevare è come la fede, indipendentemente dalla posizione del credente nei confronti di Dio, è salvifica come lo fu quella di Abramo, che grazie alla sua fede, che non investiva il suo stato di peccatore, poiché ancora non c'era alcuna Legge che glieli imputasse a condanna, instaurò, invece, un rapporto di collaborazione salvifica non solo per se stesso, ma anche per l'intera umanità, divenendo in tal modo un fedele e fidato strumento di salvezza universale nella mani di Dio. Una salvezza che qui viene realizzata grazie al rapporto di fede che Abramo tenne con Dio. È questo tipo di rapporto che Paolo vuole evidenziare, ma che al di là del contesto in cui si è realizzato, estende anche alla giustificazione dei peccati, rafforzando la sua interpretazione sulla fede di Abramo, riportando un'altra citazione scritturistica, quella del Sal 32,1-2, attribuito a Davide, il quale attesta: “Beati (quelli), le cui iniquità sono rimesse e i cui peccati sono stati ricoperti; beato l'uomo a cui (il) Signore non metterà in conto (il) peccato”.
Paolo, dunque, con questa seconda citazione scritturistica esce allo scoperto, attribuendo alla fede, su cui si basava il rapporto Abramo-Dio, una valenza di giustificazione liberale dei propri peccati e del proprio stato di peccatori da parte di Dio, dichiarando “beati” i peccatori perdonati da questo gesto di liberalità divina e misericordiosa, causato non dalle opere, ma dalla fede, che è abbandono di fiducia nelle braccia di Dio, riconoscendosi in tal modo l'uomo incapace di una salvezza, che gli può essere soltanto donata e non conquistata o acquistata o pretesa attraverso le proprie opere. Un atteggiamento, dunque, di abbandono fiduciario in Dio, che rimette l'uomo nella giusta posizione nei confronti di Dio.
La circoncisione, segno che attesta e caratterizza il rapporto di fede tra Abramo e Dio (vv.9-12)
Premesso che questa pericope costituisce un passaggio cruciale verso la dichiarazione dell'universalità della giustificazione, Il v.9 funge da introduzione al tema e riprendendo nella prima parte, v.9a, il Sal 32,1-2, pone una questione sull'identità dei soggetti beneficiari del perdono di Dio: a chi si riferisce, si chiede Paolo, questa beatitudine, ai circoncisi o agli incirconcisi. Benché non venga data alcuna risposta diretta nel merito, tuttavia lascia intuire come questa beatitudine riguardi tutti indistintamente. Infatti non vengono precisati, se non in modo generico ed anonimo, i soggetti di questa beatitudine: il v.7 usa un generico quanto anonimo pronome dimostrativo “Beati quelli che”, mentre il v.8 indica come soggetto il generico e altrettanto anonimo “uomo”. Soggetti, quindi, privi di una loro specifica appartenenza, circoncisi o incirconcisi. La beatitudine proclamata dal Sal 32,1-2, pertanto, si riferiva a tutti, indipendentemente dalla loro posizione sociale e religiosa.
Quanto alla seconda parte del v.9, questa riprende Gen 15,6, già citata da Paolo al v.3, riservandosi il resto della pericope (vv.10-12) per dimostrare l'universalità della giustificazione insita nella fede di Abramo: “La fede fu computata ad Abramo per (la) giustizia”. Se prima (vv.2-8) Paolo si era servito di questa attestazione scritturistica per dimostrare come la giustificazione proviene dalla fede e non dalle opere della Legge, ora se ne serve per dimostrarne l'universalità della giustificazione ottenuta per mezzo della fede, completando in tal modo il ciclo delle sue dimostrazioni. Quest'ultima dimostrazione, tuttavia, si presenta per Paolo più laboriosa rispetto al più semplice Sal 32,1-2, la cui universalità appare in modo più immediato e intuitivo, così che le dedicherà i vv.10-12.
La dimostrazione
passa attraverso tre gradi:
con il v.10 Paolo pone la questione sullo stato di vita di Abramo allorché ottenne la giustificazione per fede, rilevando che era incirconciso e, quindi, nonostante la sua incirconcisione egli ottenne da Dio, per mezzo della fede, la giustificazione. Viene così dimostrato come lo stato di incirconciso non costituisce per Dio motivo d'impedimento per mostrare la sua misericordia a chi si rivolge a Lui per mezzo della fede;
con il v.11 Paolo rileva come la circoncisione venne imposta ad Abramo (Gen 17,10-11) dopo che Dio non solo lo giustificò per fede (Gen 15,6), ma anche dopo che stabilì un'alleanza con lui (Gen 15,17-21; 17,4-8). Essa non fu la causa o il motivo per cui Dio giustificò Abramo e stabilì con lui un'alleanza perenne, ma ne fu la conseguenza, un semplice segno, visibile nella carne, che rimandava a realtà superiori invisibili, quali la giustificazione e l'alleanza. La circoncisione stessa, pertanto, era segno posto a testimonianza di quelle realtà, così che anche i circoncisi potessero beneficiarne.
Con il v.12 Paolo crea ora l'imbastitura conclusiva delle premesse fatte con i vv.10 e 11: Abramo ottenne la giustificazione per mezzo della fede quand'era incirconciso, così che egli divenne padre di tutti i credenti, che come lui divennero credenti da incirconcisi; ma nel contempo, Abramo venne poi circonciso a testimonianza di queste realtà spirituali, giustificazione per fede e alleanza, così che egli divenne padre anche dei circoncisi, che, come lui, hanno creduto da circoncisi.
Abramo
padre di tutti i credenti, eredi della promessa fatta ad Abramo,
ottenuta per fede (vv.13-18)
Paolo, dopo aver dimostrato scritturisticamente i due fondamenti essenziali della giustificazione, la fede (vv.1-8) e l'universalità (vv.9-12), si appresta, ora, a definire i titolari della paternità di Abramo e quindi i suoi eredi e pertanto destinatari della Promessa. Paolo ha appena attestato che Abramo era padre sia degli incirconcisi che dei circoncisi (v.12). Una simile attestazione avrebbe potuto lasciare spazio ad un equivoco: dunque, la Legge, da cui dipendono i circoncisi, cioè i Giudei e con loro anche i giudeocristiani giudaizzanti, costituiva titolo per essere figlio di Abramo e quindi erede della Promessa. Paolo deve, dunque, ribadire come invece la Promessa sia legata alla sola fede e non anche alla Legge. Lo farà con i vv.13-15 con cui contesta la validità della Legge per ottenere la Promessa che Dio fece ad Abramo; contrapponendo con i vv.16-18 la fede e chiudendo in tal modo lo spazio ad ogni possibile equivoco.
Con il v.13 Paolo riprende i concetti che già aveva elaborato nei vv.1-5.9b-10, ma incentrando ora l'attenzione non più sulla giustificazione ottenuta per fede, ma sulla Promessa conseguente, fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua discendenza, erede, quindi di quella Promessa. Contenuto di tale Promessa è l' ”essere erede del mondo”, espressione quest'ultima che non va intesa nel senso di possedimento di beni materiali o di dominio del mondo, ma il riferimento è la moltitudine di popoli che, come lui, divenuto prototipo del rapporto con Dio fondato sulla sola fede, imbastirono e imbastiranno anch'essi il loro rapporto con Dio per mezzo della fede18, creando in tal modo una sorta di filiazione spirituale, e non secondo la carne, con Abramo. Anche la Promessa, pertanto, è agganciata alla fede, in quanto sua conseguenza. Non, dunque, la Legge, giunta alcuni secoli dopo (Gal 3,17), costituisce titolo per l'eredità della Promessa, ma la sola fede. Su questa, infatti poggia sia la giustificazione che la Promessa, date in eredità a tutti i credenti, sia circoncisi che incirconcisi.
Se il v.13 affronta la questione della dipendenza della Promessa dalla fede e la sua trasmissibilità per mezzo della stessa, ora, con il v.14 Paolo riprende la stessa questione, ma nel senso inverso, ipotizzando che la Promessa dipenda dalla Legge e non dalla fede. Se così fosse, allora la fede perderebbe ogni senso e la Promessa, che ne è il frutto, non potrebbe più essere trasmessa attraverso la fede, ma solo attraverso le Legge. Veri eredi, dunque sarebbero stati i soli Giudei, quelli che hanno fatto della Legge la loro stessa ragione di vita e del loro esserci storicamente, ma non più tutti i popoli e la moltitudine delle genti, che in Abramo sono stati benedetti da Dio (Gen 12,3). In tal modo verrebbe meno la benedizione e la Promessa.
Ma con il v.15 Paolo mette a fuoco due aspetti importanti della questione in merito alla Legge, qui ipotizzata quale sorgente della Promessa e, implicitamente, della giustificazione. Il primo aspetto (v.15a) è che “la Legge produce l'ira”, poiché in essa è contenuta la volontà di Dio, che l'uomo, per la sua connaturata fragilità, non è in grado di osservarla correttamente (2,1-29). Da qui deriva l'ira divina, che si esprime nel giudizio di condanna di Dio. La Legge, pertanto, lascia qui intuire Paolo, non produce altro che guai e, quindi, in se stessa è incapace di generare e di trasmettere sia la giustificazione che la Promessa.
A questa prima
annotazione, Paolo ne aggiunge una seconda (v.15b), anticipando in
qualche modo 5,13, attestando che dove non c'è la Legge non può
esserci neppure la sua trasgressione, lasciando così intuire che non
poteva esserci, di conseguenza, neppure la giustificazione di una
colpa che non poteva essere rilevata e condannata da una Legge che
ancora non c'era, essendo giunta 430 anni dopo la Promessa (Gal
3,17). Ma poiché ci sono sia la giustificazione che la Promessa,
queste non potevano essere state generate che dalla fede.
Ed è ciò che attesterà il v.16, che, sottolineando la dipendenza della giustificazione e della Promessa dalla fede, quale loro fonte originaria, questa ne garantisce così l'eredità anche alla discendenza, cioè all'intera umanità credente, circoncisa o incirconcisa che essa sia: “Per questo (l'eredità proviene) dalla fede, affinché (sia) per mezzo della grazia, per essere sicura la promessa a tutta la discendenza, non solo a quella (che viene) dalla Legge, ma anche a quella della fede di Abramo, che è padre di tutti noi”. Il motivo di tale attestazione è mettere in rilievo come il piano salvifico di Dio, che trova il suo nucleo originario nella giustificazione e nella Promessa ottenute per mezzo della fede, sia legato alla fede e non alla Legge, perché la Legge produce l'ira di Dio (v.15a), mentre la fede attiva la grazia di Dio, cioè la libera e liberale azione misericordiosa di Dio verso l'intera umanità, che si apre a Lui e si rimette nelle sue mani, indipendentemente dalla sua posizione storica. Solo in questo modo, attraverso la fede, il piano salvifico di Dio sarebbe stato garantito a tutti indistintamente, poiché attore primario qui è Dio stesso e tutto dipende da Lui, senza pretese da parte dell'uomo, che invece, per fede, si abbandona nelle sue mani di padre misericordioso e tutto si aspetta da Lui senza nulla pretendere, nella coscienza del suo miserevole stato di peccatore. La fede, quindi, produce la grazia, che costituisce la garanzia che la salvezza viene donata indistintamente a tutti coloro che crederanno, la quale cosa non si sarebbe potuta realizzare per l'intera umanità credente se il piano salvifico fosse stato legato alla Legge sia perché, a motivo della sua congenita fragilità, l'uomo non avrebbe potuto osservarla in modo perfetto ed esaustivo, provocando in tal modo l'ira di Dio; e sia perché, per mezzo della Legge l'uomo si sarebbe posto di fronte a Dio non come bisognoso di misericordia, ma come creditore nei confronti del suo Debitore, poiché l'osservanza della Legge era affidata alla sua buona volontà e alle sue capacità, così che, in caso di successo, avrebbe potuto riscuotere la sua ricompensa da Dio, mettendolo in debito nei suoi confronti. Questione questa che Paolo già aveva trattato in apertura di questo capitolo ai vv.1-5.
In tal modo Abramo, giustificato per mezzo della fede, a cui è legata la Promessa, è divenuto “padre di tutti noi”, espressione questa che include tutti i credenti, circoncisi e incirconcisi, Paolo compreso, poiché spiritualmente tutti affiliati ad Abramo per mezzo della comune fede, la quale costituisce il DNA spirituale caratterizzante di ogni credente, che nel suo rapportarsi a Dio riproduce lo stesso schema spirituale del suo progenitore nella fede, che accomuna tutti i credenti, indipendentemente dal loro stato sociale o religioso.
Che cosa significhi quel “padre di tutti noi”, con cui si chiude il v.16, viene ora precisato dal successivo v.17, che cita a sua volta Gen 17,5, dove Dio, richiamandosi alla sua alleanza stipulata con Abramo (15,17-21; 17,2-4), lo costituisce padre di una moltitudine di popoli e gli cambierà il nome da “Abram”, che significa “padre eccelso”, in “Abraham”, che significa “padre della moltitudine”, dove quel “raham” crea una certa assonanza con “hamôn” (moltitudine). Ci fu, dunque, un cambio di nome all'origine della collaborazione tra Dio e Abramo, che corrisponde nel linguaggio biblico ad un cambio di identità. Abramo venne, dunque, riconfigurato da Dio quale suo collaboratore e posto all'inizio della storia della salvezza, che vede il rapporto dell'uomo con Dio fondato esclusivamente sulla fede, da cui si origina la giustificazione che opera in ogni credente, quale atto di liberalità divina.
Abramo, dunque, credette a Dio, divenendo il prototipo di ogni credente. Credette in un Dio, di cui Paolo definisce qui un duplice attributo: “Egli è colui che vivifica i morti” e “chiama le cose che non sono come fossero”, che preludono in qualche modo alla successiva pericope conclusiva del cap.4 (vv.19-25), dove si parla della qualità della fede con cui Abramo si è relazionato a Dio. Lui ha creduto ad un Dio capace di vivificare anche i morti, come Abramo considerava il proprio corpo e quello di Sara, sua moglie, per l'avanzata età di entrambi (v.19); un Dio capace, tuttavia, di rendere nuovamente fecondi entrambi, così che da loro nascesse una nuova vita, quasi una sorta di una nuova creazione, la nuova discendenza, nata dalla potenza creatrice e innovativa di Dio. Sarà questa la discendenza generata dalla Promessa per fede.
Attributi, dunque, molto significativi, che, collocati in questo contesto in cui si parla di un Abramo, divenuto padre di molti popoli e inizio dell'attuarsi e del manifestarsi storicamente del progetto di salvezza di Dio, lasciano spazio ad un secondo possibile livello di lettura, più profondo, che vede in Abramo il compiersi di un nuovo atto creativo, scaturito dall'onnipotenza di Dio, che fa nuove tutte le cose: “Egli è colui che vivifica i morti”, lasciando trasparire in questo il senso del piano di salvezza di Dio, quello di trasformare il decaduto uomo adamitico in un nuovo essere vivente, così come avvenne nei primordi dell'umanità, allorché Dio infuse nel primo uomo il suo alito di vita trasformandolo in un essere vivente (Gen 2,7). Un nuovo principio creativo, dunque, che ha inizio in e con Abramo, che potremmo definire come uovo Adamo, che si relaziona a Dio per mezzo della fede, principio generativo di una nuova umanità, nonché figura di un altro Adamo (5,14), che deve ancora venire. Anche questo capostipite di una nuova umanità, che ha rigenerato al Padre mediante la sua risurrezione dai morti e al quale si accede, proprio come il primo Abramo, per mezzo della fede.
Il secondo attributo, che Paolo riferisce a Dio in questo contesto riservato alla figura di Abramo, è quello di “chiamare le cose che non sono come fossero”, alludendo alla potenza creatrice di Dio, che trae dal nulla tutte le cose, chiamandole alla vita. In Abramo, pertanto, si sta compiendo una sorta di nuova creazione, in cui è coinvolta l'intera umanità credente e a cui si accede per fede. Tutto questo è figura e preannuncio di un'altra realtà, che troverà in Cristo il definitivo capostipite di una nuova umanità generata dalla fede nel Risorto. Tutti concetti, questi, che Paolo riprenderà in modo più specifico nel cap.6.
Paolo, pertanto, sembra leggere nella elezione di Abramo da parte di Dio l'inizio del dispiegarsi storico del suo piano di salvezza, finalizzato a recuperare l'uomo in Se stesso, rifacendo nuove tutte le cose e rigenerandole con la potenza del suo Spirito. Ma a fondamento di questo atto libero e liberale di Dio, che Paolo qui chiama “grazia” (vv.3,24; 4,16), non ci sta la presunzione dell'uomo opposta a Dio, divenendone suo rivale e concorrente, come avvenne con il primo Adamo (Gen 3,5-6), ma la fede, quale nuovo modo di relazionarsi con Dio, inaugurato da Abramo, con la quale l'uomo si riconosce creatura bisognosa della misericordia divina, che viene concessa al credente per grazia, scaturita e causata dalla fede. Un credente che confida nella liberalità di Dio verso l'uomo peccatore.
Il v.18 funge da transizione, poiché chiudendo la pericope vv.13-18, traghetta il lettore verso un nuovo tema (vv.19-25): la qualità della fede di Abramo, che descrive il tipo di relazione che Abramo ebbe con Dio, da cui trasse beneficio lo stesso Abramo e, con lui, tutta la sua discendenza, i credenti.
Il v.18, pertanto, è
scandito in due parti, la prima, v.18a, dove si parla
dell'incrollabile fede di Abramo, che ha sperato contro ogni
speranza, introduce il nuovo tema trattato dall'ultima pericope di
questo cap.4 (vv.19-25); mentre il v.18b conclude il tema della
precedente pericope, vv.13-17, dove si parla del nuovo ruolo di
Abramo, posto a capo del progetto di salvezza di Dio, divenuto
Abraham, padre di molti popoli, caratterizzati dalla fede: “Così
sarà la tua discendenza”. Una discendenza, dunque, di credenti,
circoncisi e incirconcisi, fatti eredi della giustificazione e della
Promessa per libero gesto di liberalità divina, a cui si accede per
fede.
L'incrollabile
fede di Abramo, che crede contro ogni speranza, torna a suo e nostro
beneficio (vv.19-25)
La pericope vv.19-25 è scandita in due parti: la prima, vv.19-22, prende in considerazione la qualità della fede di Abramo, il quale “credette sulla speranza contro (ogni) speranza” (v.18a); la seconda parte della pericope, vv.23-25, riguarda il riflesso e le conseguenze che questa fede di Abramo ebbe sulla sua discendenza, dove il Dio dei Padri, di Abramo, di Isacco e di Giacobbe viene definito con una circonlocuzione, che rassomiglia ad una sorta di formula di fede, che qualifica e caratterizza i nuovi credenti, lasciando trasparire l'avanzarsi della storia della salvezza: “crediamo in colui che ha risuscitato Gesù Cristo nostro Signore dai morti, il quale fu dato per le nostre iniquità e fu risuscitato per la nostra giustificazione” (vv.24-25).
Il v.19 si richiama all'episodio in cui Dio promise ad Abramo una discendenza da Sara sua moglie (Gen 17,15-17) e più precisamente all'obiezione che Abramo mosse a Dio: “Allora Abramo si prostrò con la faccia a terra e rise e pensò: <<Ad uno di cento anni può nascere un figlio? E Sara all'età di novanta anni potrà partorire?>>”. Ma Dio rimase fermo nella sua promessa: “E Dio disse: <<No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne, per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui>>”. Abramo, dunque, aveva davanti a sé due elementi posti tra loro a confronto, ma decisamente in conflitto tra loro: l'ineluttabilità dello stato biologico suo e di sua moglie Sara, che si opponeva con ogni evidenza alla promessa di Dio; e la promessa stessa di Dio, che, invece, non prendendo in alcuna considerazione tale condizione fisica dei due coniugi, prospetta loro una discendenza, che loro stessi, contro ogni logica umana, avrebbero concepito. Ce n'era a sufficienza per rimanere, nella migliore delle ipotesi, alquanto perplessi. Ma la reazione di Abramo di fronte a questa “assurdità” di Dio non fu il rifiuto o il mettere in discussione la sua promessa o ridicolizzarla, ma Paolo attesta che Abramo non ebbe alcuna esitazione nel merito, poiché “non era debole nella fede” (v.19a), così che “credette sulla speranza contro (ogni) speranza” (v.18a). Quindi una fede che poggiava solidamente sulla speranza che la Promessa di Dio si sarebbe realizzata per davvero, benché la situazione biologica dei due coniugi fosse talmente degradata per l'età avanzata da togliere loro ogni speranza, trasformandola in una illusione. Soltanto la fede, dunque, superando ogni perplessità e ogni logica umana, sostenne Abramo e si tradussein un rendimento di grazie a Dio: “dando gloria a Dio”. Un'espressione quest'ultima che non è presente nel racconto di Abramo, ma che Paolo ha tratto dal comune linguaggio biblico19. Il motivo di tanta sicurezza viene spiegato al v.21: “essendo pienamente certo che ciò che (Dio) promise è capace anche di far(lo)”. Una certezza, quindi, che non nasce da calcoli umani o da tornaconti personali, ma semplicemente gli è sgorgata dal cuore, là, nel segreto della sua coscienza, dove Dio è l'uomo si toccano e si parlano e dove l'uomo fa l'esperienza di Dio. Una certezza che nasce dalla sola fiducia in quel Dio che “vivifica i morti e chiama le cose che non sono come fossero” (v.17b).
Conclude, pertanto, il v.22, richiamandosi a Gen 15,6: “Perciò [anche] gli fu computato a giustizia”. È questa in breve la storia di questa fede che consentì ad Abramo di fare l'esperienza del suo Dio proprio nella fede, da cui è sgorgata la giustificazione, la sua discendenza, che porta con sé la promessa.
Ora Paolo con i vv.23-25, che chiudono questo, cap.4, adotto a prova scritturistica circa la giustificazione, la Promessa e la loro universalità, passa da Abramo (v.23), prototipo del corretto rapporto dell'uomo con Dio, nonché modello di fede invincibile, che va al di là delle logiche umane, ben sapendo che Colui che gli sta di fronte non è un uomo, ma Dio stesso (vv.19-23), passa a tutti i credenti, universalizzando in tal modo il rapporto di Abramo con Dio e le sue conseguenze, quali la giustificazione e la Promessa.
Il v.23 rileva come il racconto di Abramo non riguarda solo Abramo, così che la storia di Abramo con il suo Dio e i frutti, che da questo rapporto ne conseguirono, siano riferiti soltanto a lui, ma si estendono universalmente a tutti coloro che, come Abramo, si relazionano all'unico e comune Dio, con la sola fede. Abramo, pertanto, ha inaugurato un nuovo schema relazionale con Dio, fondato sulla fede, divenendo il prototipo e il progenitore di ogni credente (v.24a).
Ma,
a tal punto, Paolo, con i vv.24b-25 opera una sostituzione
nell'oggetto della fede: se in Abramo la fede, che causò la sua
giustificazione, aveva per oggetto la Promessa di una discendenza e
di una terra, e il Dio nel quale Abramo ripose la sua fede era il Dio
dei Padri, qui il Dio dei credenti, uscendo dal suo anonimato,
acquista un nuovo volto: non è più l'anonimo Dio che Abramo ereditò
dai Padri, ma è “colui che ha risuscitato Gesù Cristo nostro
Signore dai morti, il
quale fu dato per le nostre iniquità e fu risuscitato per la nostra
giustificazione”. È, dunque, lui, il Cristo Gesù,
la vera discendenza (Gal 3,16), che porta a compimento in se stesso
la Promessa e in lui si attua la giustificazione, cancellando in se
stesso, con la sua morte, ogni iniquità. Promessa e giustificazione
di cui può beneficiare chiunque si accosti a lui, il Cristo, per
mezzo della fede.
I grandi temi della
teologia paolina: Giustificazione (5,1-11), peccato-grazia
(5,12-6,14), Legge-peccato (6,15-7,25), la vita nello
Spirito e la gloria futura (8,1-39).
Con la sezione dottrinale 1,16-4,25 Paolo ha fatto una sorta di grande premessa a questa seconda ampia sezione dottrinale delimitata dai capp.5,1-8,39 dove vengono trattati i grandi temi della teologia paolina, qui sopra accennati. Nella prima sezione (1,16-4,25) Paolo ha dimostrato l'universalità della colpa, che ha travolto indistintamente pagani (1,18-32) e Giudei (2,1-29) e, di conseguenza, l'universale necessità della giustificazione per tutti, indipendentemente dalla propria posizione sociale, culturale e religiosa; giustificazione che si ottiene per mezzo della sola fede e non per mezzo delle opere della Legge (3,21-31). A sostegno di questa sua tesi Paolo adduce la prova scritturistica, che consiste in una dettagliata analisi del rapporto Abramo-Dio, fondato esclusivamente sulla fede, dalla quale è sgorgata la giustificazione e come tale rapporto sia estendibile anche a tutti coloro che, sull'esempio di Adamo, parimenti si relazionano con Dio per mezzo della sola fede (4,1-25). All'interno di questo concatenato processo dimostrativo, Paolo si è riservato la sezione 3,1-20 per dirimere alcuni possibili malintesi che alcune sue attestazioni trattate nel cap.2 avrebbero potuto suscitare presso i suo avversari e detrattori. Si tratta, dunque, non di una vera e propria trattazione dottrinale, ma di precisazioni. In altri termini, qui Paolo mette le mani avanti per evitare malintesi e fraintendimenti e conseguenti inutili e fastidiose polemiche.
Stabilita, quindi, l'universalità della colpa e, di conseguenza, l'universale necessità della giustificazione, che si ottiene per mezzo della sola fede, ora, Paolo, con questa seconda sezione dottrinale, 5,1-8,39, si addentra nelle tematiche, che caratterizzano la sua teologia, quali la giustificazione (5,1-11), peccato-grazia (5,12-6,14), Legge-peccato (6,15-7,25), la vita nello Spirito e la gloria futura (8,1-39), indicate qui sopra, nel titolo di apertura di questa seconda sezione dottrinale, e conseguenti alla giustificazione per fede, delineando in tal modo la nuova vita in Cristo del credente, caratterizzata dall'azione dello Spirito e proiettata verso la gloria futura, evidenziando come la sua vita sia sottesa da una forte quanto imprescindibile tensione escatologica.
La giustificazione e le sue conseguenze (5,1-11)
Testo a lettura facilitata
Aggancio alle argomentazioni precedenti e introduzione ad una nuova tematica (v.1)
1- Giustificati, dunque, dalla fede, abbiamo (la) pace presso Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo,
A) Gli effetti della giustificazione per mezzo della fede (vv-2-5)
2-
per mezzo del quale abbiamo avuto accesso [per la fede] a
questa grazia, in cui stiamo e ci gloriamo nella speranza
della gloria di Dio.
3-
Non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che
l'afflizione produce pazienza,
4-
la pazienza (la) virtù provata, la virtù provata (la) speranza,
5-
la speranza, poi, non arrossisce, poiché l'amore di Dio è stato
versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è
stato dato.
B) Nel tempo stabilito Gesù morì per gli empi (vv.6-7)
6-
Inoltre Cristo, essendo infatti noi ancora infermi, al tempo
opportuno morì per gli empi.
7-
Difficilmente, infatti, (c'è) chi muore per un giusto; forse,
infatti, (c'è) chi osa anche morire per un buono;
C)
L'amore di Dio per gli uomini peccatori si manifesta nella morte
di Gesù (v.8)
8- Ma Dio mostra il suo amore per noi, perché, pur essendo noi ancora peccatori, Cristo morì per noi.
B1) La morte di Gesù ci ha giustificati e riconciliati con Dio aprendoci alla vita divina (vv.9-10)
9-
Molto di più, dunque, giustificati ora nel suo stesso sangue, saremo
salvati per mezzo di lui dall'ira.
10-
Se, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo
della morte del suo Figlio, molto di più, riconciliati, saremo
salvati nella sua vita.
11- Non solo, ma anche ci gloriamo in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale, ora, abbiamo ricevuto la riconciliazione.
Note generali
Sinora Paolo ha sempre parlato di giustificazione ottenuta per mezzo della fede, ma che cosa questa comporti, quali conseguenze essa abbia nella vita quotidiana del credente e in quale modo essa si sia prodotta sarà compito di questa seconda parte della sezione dottrinale illustralo. Essa inizia con l'enumerare queste conseguenze, il cui significato verrà poi ripreso con i capp.5,12-8,39, descrivendo la nuova vita i Cristo, che si è prospetta per i credenti. Una enumerazione, che costituisce, pertanto, un'anticipazione tematica:
riconciliazione con Dio per mezzo di Gesù Cristo (v.1);
accesso fin d'ora alla vita divina nell'attesa di parteciparvi pienamente definitivamente (vv.2);
anche le afflizioni della vita presente concorrono alla preparazione del credente a partecipare alla vita divina, poiché esse spingono alla pazienza, la pazienza crea un comportamento di sopportazione virtuoso, che, superando le difficoltà del presente, aprono, in prospettiva escatologica, alla speranza. Un tema questo della lett. c), che Paolo riprenderà al cap.8,18 (vv.3-4);
e tutto questo poggia sulla speranza, che è certezza, poiché si radica nella promessa di Dio attuatasi in Cristo, il cui sangue sparso per noi, mentre eravamo ancora peccatori, attesta l'amore di Dio per la nuova umanità credente (vv.5-11).
La pericope delimitata dai vv.1-11 è inclusa e circoscritta dalle due espressioni contenute rispettivamente nei vv.1 e 11: “abbiamo (la) pace presso Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (v.1b) e “per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale, ora, abbiamo ricevuto la riconciliazione” (11b), dove il termina “pace” del v.1b viene sciolto e specificato al v.11b con il termine “riconciliazione”, precisando in tal modo come la “pace” che Gesù Cristo ci ha ottenuto presso Dio, altro non è che la nostra riconciliazione con Lui. L'altra espressione, che ritroviamo sostanzialmente identica in entrambi i versetti è “per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”, dove viene specificato lo strumento, attraverso il quale noi abbiamo ricevuto questa pace che è riconciliazione con Dio., mentre quel “per mezzo” definisce la natura cristologica di questa pace-riconciliazione.
La struttura di questa pericope su cui si sviluppa il pensiero di Paolo, è particolarmente elaborata. Si apre con il v.1, che funge sia da aggancio alle argomentazioni precedenti che da introduzione ad una nuova tematica, quella degli effetti della giustificazione sui credenti e dei loro sviluppi (v.1).
Prosegue, poi, con i vv.2-11, che sono distribuiti in modo particolarmente accurato attraverso parallelismi concentrici, dove il v.8 funge da cuore dell'intera struttura. Per cui si avrà il seguente sviluppo:
A) Gli effetti della giustificazione per mezzo della fede (vv-2-5);
B) Nel tempo stabilito Gesù morì per gli empi (vv.6-7);
L'amore di Dio per gli uomini peccatori si manifesta nella morte di Gesù (v.8);
B1) La morte di Gesù ci ha giustificati e riconciliati con Dio aprendoci alla vita divina (vv.9-10);
A1)
L'effetto finale della giustificazione: la riconciliazione con Dio
con tutto ciò che ne consegue (v.11).
A) e A1) si accordano tra loro sia per l'insistente ritornare dell'espressione “ci gloriamo” in entrambe le lettere, agganciandole tra loro; e sia perché la descrizione degli effetti della giustificazione in A) trovano la loro sintesi conclusiva nel termine “riconciliazione” in A1).
Quanto alle lettere B) e B1) queste si accordano tra loro per complementarietà tematica. In B), infatti, si attesta che Gesù morì per noi peccatori nel tempo stabilito dal Padre; mentre in B1) si attestano gli effetti di questa morte di Gesù su di noi peccatori: l'essere salvaguardati dall'ira divina, l'essere stati riconciliati con Dio e salvati nella sua vita.
La
lettera C), in
posizione centrale, secondo le logiche della retorica ebraica è la
parte più importante e sulla quale l'autore vuole accentrare
l'attenzione del suo lettore. Essa funge da perno dell'intera
pericope, attorno al quale ruotano e convergono tutti gli altri
versetti, non solo, ma ne è anche il loro motore e la loro
spiegazione: “Ma Dio mostra il suo amore per noi, perché, pur
essendo noi ancora peccatori, Cristo morì per noi” (v.8).
Commento ai
vv.1-11
Il cap.5, pur aprendo una nuova tematica, quella degli effetti della giustificazione sui credenti, tuttavia, va considerato come la prosecuzione del cap.4 e dei precedenti capitoli ancora. Si è, dunque, nell'ordine della continuità della dottrina paolina sul tema della giustificazione, benché su di un diverso livello, quello della spiegazione dei suoi effetti, tali da collocare il credente in una nuova condizione di vita.
Il v.1, infatti, apre significativamente con l'espressione: “Giustificati, dunque, dalla fede, abbiamo (la) pace presso Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”, in cui i termini “giustificati” e “Gesù Cristo” si agganciano ai vv. 4,24-25, dove li ritroviamo sostanzialmente identici, se non nella forma, almeno nel loro significato (“nostra giustificazione”; “Gesù Cristo”). Non solo, ma quel “dunque” (“oân”, ûn), con cui si apre il v.1, è una congiunzione che ha valore conclusivo. In quanto “congiunzione” essa si aggancia all'intera sezione 1,16-4,25; e in quanto di valenza conclusiva dice al lettore che quanto verrà detto qui, in questa seconda parte della sezione dottrinale (5,1-8,39), altro non è che la conclusione della prima parte della sezione dottrinale, 1,16-4,25, ed è una descrizione delle sue conseguenze.
Il primo effetto che la giustificazione produce è quello della rappacificazione dell'uomo con Dio, cioè, come verrà poi spiegato al v.11, della riconciliazione tra Dio e l'uomo. Una riconciliazione che avviene per mezzo del “Signore nostro Gesù Cristo”, che Paolo aveva già definito in 3,25 come “ƒlast»rion” (ilastèrion), cioè strumento di espiazioni delle colpe “nel suo sangue”, con cui si allude alla sua passione e morte, tema questo che verrà ripreso in questa pericope vv.2-11 e colto come espressione dell'amore del Padre (v.8). Ma qui Gesù Cristo è definito “nostro Signore,”, un appellativo che le prime comunità credenti attribuivano al Risorto. Ed è proprio in questa sua nuova condizione di vita, che il Gesù giovanneo, apparendo ai suoi, si rivolgerà loro per tre volte con un “Pace a voi!” (Gv 20,19.21.26); e così similmente il Gesù lucano in 24,36. Il primo frutto e il primo dono che sgorga dalla risurrezione, pertanto, è quello della pace fatta tra Dio e gli uomini. Ed è nel contempo il senso e il primo effetto di quel “giustificati dalla fede”, dove quel “dalla fede” (™k p…stewj, ek písteos) non è complemento d'agente, ma di moto da luogo e indica la sorgente da cui sgorga questa giustificazione, che produce la rappacificazione-riconciliazione tra Dio e gli uomini. Quindi Gesù Cristo morto-risorto diviene il luogo sacramentale dove si attua questa riconciliazione, a cui si accede per mezzo della fede.
Ed è ciò che dirà il v.2, che vede in quel “per mezzo del quale”, con cui si apre, Cristo stesso, quale strumento e chiave di accesso al nuovo stato di vita, che si è attuato in lui morto-risorto. Nuovo stato di vita che Paolo qui definisce “grazia”. Il termine grazia viene qui inteso da Paolo come un dono sgorgato da un libero atto di liberalità divina, sotteso dalla sua misericordia e a cui si accede non per meriti personali o per mezzo di una perfetta esecuzione delle opere della Legge da far valere davanti a Dio, ma solo e unicamente per fede, la quale si radica nella coscienza che l'uomo ha della sua condizione di essere decaduto e incapace, per la sua connaturata fragilità di peccatore, di poter in qualche modo accedervi con le sue sole forze. Una grazia, che diviene per il credente un nuovo stato di vita; uno stato di vita “in cui stiamo e ci gloriamo”. Significativo quel “stiamo”, reso in greco con “˜st»kamen” (estékamen), un perfetto indicativo, che esprime uno stato presente quale effetto di un'azione passata, che a sua volta si richiama all'evento Cristo e al disegno salvifico del Padre che in lui si è compiuto e manifestato e a cui si accede per fede. Altrettanto significativo è il verbo greco che qui Paolo usa “†sthmi” (ístemi, sto), che dà il senso della solidità e della stabilità del nostro stare in questa nuova condizione di vita, in cui ci troviamo per grazia, poiché essa poggia sulla Promessa che si è attuata in Cristo: quella di una discendenza numerosa quanto le stelle del cielo e la sabbia del mare, generata dalla fede; e quella di una Terra, che questa discendenza è chiamata ad abitare e che, ora, in Cristo e per Cristo, vi “sta” dentro. Una Terra che Is 65,17 e 66,22 aveva prospettato in quei cieli nuovi e terra nuova e che Giovanni vide realizzati in Ap 21,1. Una Terra dove vi è una città che non ha più un tempio, dove gli uomini possono incontrare il loro Dio, poiché Dio e il suo Agnello sono il loro nuovo Tempio. Una Terra dove vi è una città che “non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l'onore delle nazioni. Non entrerà in essa nulla d'impuro, né chi commette abominio o falsità, ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell'Agnello” (Ap 21,22-27). Una discendenza, una Terra, una Città dove finalmente la Promessa che Dio fece ad Abramo ha trovato il suo pieno compimento.
Una visione che Paolo sembra qui anticipare e intravvedere in quel “ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio”. Quel “ci gloriamo” non è frutto della presunzione umana, quella del sapersi conquistare per propri meriti la Vita eterna, ma è la gioia che nasce dalla coscienza di essere stati eletti e salvati per mezzo di Cristo e in Cristo, nonostante la propria miserevole condizione di peccatori e che fa, in qualche modo, pregustare lo stato della gloria piena e definitiva, che definisce lo stato proprio della Vita di Dio, in cui già siamo anche se non ancora pienamente e definitivamente. Per questo, tale stato di vita, viene da noi vissuto “nella speranza”, su cui poggia la nostra fede. Una speranza che, tuttavia, non va pensata come un qualcosa di aleatorio ed esistente soltanto nei desideri e negli incerti progetti umani; ma essa è già certezza, poiché essa definisce non una realtà che ancora non esiste, ma che già c'è e in cui già ci si trova, anche se non ancora raggiunta in modo pieno e definitivo, ma che fin d'ora siamo chiamati a vivere, conformando la nostra vita a questa nuova realtà di cui siamo rivestiti e in cui viviamo. Così che la nostra vita è sottesa da una forte tensione escatologica, profondamente segnata da un già e un non ancora.
E in questo contesto anche le sofferenze e le afflizioni del tempo presente (qui Paolo anticipa 8,18), acquistano una valenza completamente nuova, poiché, illuminate da questa nuova realtà, in cui già ci troviamo, ma verso la quale siamo incamminati nella loro definitiva pienezza. Così che esse stesse divengono non più un segno di maledizione e di morte, ma di evoluzione verso la Vita piena, così che Paolo in 8,22 le vedrà come doglie del parto. In questa nuova visione, l'afflizione non opprime più, ma sviluppa nel sofferente, animato dalla gloria futura, una paziente sopportazione, capace di creare un virtuoso ciclo di vita, non più proiettato verso la morte, ma verso la Vita. Tutto, dunque, acquista un nuovo senso e un nuovo significato, poiché tutte le cose e tutte le realtà sono poste sotto una nuova Luce, quella della Vita divina, in cui esse sono e noi siamo nuovamente collocati (Ef 1,10), così come lo fu nella prima creazione, iniziatasi con la Luce (Gen 1,3), le cui connotazioni erano squisitamente divine, considerato che gli astri, preposti alla illuminazione e alla scansione del giorno e della notte, saranno creati soltanto nel quarto giorno (1,14-19).
Tutte realtà spirituali queste che sono già fin d'ora presenti e ci avvolgono e ci permeano, ma non sono fisicamente percepibili né ancora pienamente e definitivamente raggiunte. Ma sappiamo che ci sono e che siamo incamminati verso questa definitiva pienezza. Il tutto, dunque, è fondato sulla fede, che si nutre della speranza (Eb 11,1), la quale non teme di essere in alcun modo smentita, perché poggia sulla prova storica dell'amore di Dio, che ci ha donato suo Figlio, quale strumento di riconciliazione (3,25) per la Vita eterna (Gv 3,16), e la garanzia della Vita nuova, anticipata in qualche modo dal dono dello Spirito, che 2Cor 1,22; 5,5 ed Ef 1,14 definiscono “caparra”, cioè anticipo, che impegna Dio fin d'ora nei confronti dei credenti in merito alle realtà future, che vedono in palio la stessa Vita eterna, che è Vita stessa di Dio, resasi per noi raggiungibile in Cristo Gesù.
Con i vv.6-7.9-10 (B.B1) Paolo continua la sua elencazione di tutti i vantaggi che ci sono pervenuti grazie alla giustificazione, a cui si accede per fede (v.1). Ma se con i vv.1-5.11 Paolo ha illustrato i benefici ottenuti con la giustificazione, quali la rappacificazione-riconciliazione con Dio, l'essere stati immessi e resi partecipi fin d'ora nella sua Vita divina, consentendoci di ricomprendere e risignificare tutta la nostra vita alla Luce di queste nuove realtà spirituali, di cui siamo rivestiti e permeati, ora, con la pericope, vv.6-7.9-10 (B.B1), Paolo rivela non solo la dinamica che ha prodotto i benefici qui sopra accennati, ma anche da che cosa è stata prodotta tale dinamica.
Con il v.6 vengono presentate due realtà tra loro contrapposte: da un lato, il nostro stato di degrado esistenziale e spirituale, a causa della colpa originaria, che ci ha travolti tutti indistintamente, così che tutti sono stati privati e sono privi della gloria di Dio (3,28), rendendoci per questo “infermi”, cioè incapaci di ristabilire il primordiale stato spirituale, che Gen 1,31a sancisce con la decretazione divina: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. Tutto, originariamente, era, dunque, incandescente di Dio e Dio si riconosceva in quanto aveva fatto, poiché tutto era avvolto e permeato della sua Luce (Gen 1,3); dall'altro, viene evidenziata e contrapposta al nostro stato d'infermità spirituale ed esistenziale la mano tesa di Dio a nostro favore: “Cristo […] al tempo opportuno morì per gli empi”, dove quel “tempo opportuno”, che richiama da vicino Gal 4,4, lascia intravvedere come la morte di Cristo rientrasse in uno specifico piano salvifico, che il Padre non si è inventato lì per lì, su due piedi, ma tutto era stato preordinato a questo. Col 1,16 attesta che tutte le cose sono state create per mezzo di Cristo e in vista della sua venuta; e così similmente Ef 1,4 vede un'azione salvifica del Padre che viene operata in Cristo già ancor prima della creazione del mondo; mentre 1Pt 1,18-20 ricorda alle comunità credenti: “Voi sapete che non a prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi”.
Due realtà, quindi, contrapposte, che mettono in evidenza come la morte di Cristo non fu spesa dal Padre a favore di brave persone, ma di empi, un termine questo che dice l'opposizione dell'uomo a Dio. Quindi il Padre sacrifica il suo Figlio a favore di persone che lo odiano e gli sono avverse. Questo denota una potente volontà salvifica, che non trova eguali nella storia, e che trova la sua giustificazione al v.8. Il v.7, rispetto al v.6, ha qui una mera funzione di spalla, per mettere in evidenza ancor di più l'incredibile gesto del Padre, che consegna in mano a persone che lo odiano suo Figlio, per poterle salvare da quello stato di morte in cui la colpa originale li aveva irrimediabilmente e definitivamente gettati, senza alcuna possibilità di salvezza.
Ma è proprio su questa pervicace, inarrestabile e invincibile volontà salvifica del Padre, attuata nel suo Cristo, che spinge Paolo a ritenere quanto sia fondata la nostra giustificazione e come la salvezza sia certa per tutti, poiché il tutto si è attuato per mezzo del sangue di suo Figlio, che ci ha donato, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). Una giustificazione che ha prodotto una riconciliazione, una riconciliazione che ci ha reintrodotti nella sfera di Dio, così com'era ai primordi dell'umanità, allorché tutto era ancora incandescente di Dio.
Al centro di tutto questo progetto salvifico, pensato fin dall'eternità e ancor prima della creazione del mondo, Paolo colloca, al v.8, in posizione centrale, l'amore stesso di Dio, che muove tutte le cose e tutto gira attorno ad esso: “Ma Dio mostra il suo amore per noi, perché, pur essendo noi ancora peccatori, Cristo morì per noi”. La pervicace quanto invincibile volontà salvifica di Dio trova dunque la sua ragione d'essere non in calcoli o misteriosi algoritmi d'interesse personali, ma soltanto nell'amore del Padre, che storicamente assume il volto del suo Figlio: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16). Ma se in questa citazione di Gv 3,16 viene descritto il progetto salvifico del Padre, nato dal suo amore, trasformando il proprio Figlio in un dono di amore per l'intera umanità credente, in Lc 23,34 si rivela in termini più tangibili il senso dell'amore del Padre, che si manifesta nelle parole de Figlio crocifisso: “Ma Gesù diceva: <<Padre, perdona a loro, poiché non sanno che cosa fanno>>”.
Tutto, quindi, giustificazione, riconciliazione e ricondivisione
della Vita di Dio, tutto nasce ed è mosso dall'amore di Dio. Un
amore che non va inteso in senso di sentimento o di emozioni, poiché
Dio non ha corpo, ma descrive l'atteggiamento di Dio stesso, che fa
parte della sua stessa natura e ne esprime l'essenza: una totale
apertura verso l'altro, una totale donazione di se stesso all'altro,
una totale accoglienza dell'altro in Se stesso.
Vecchio
Adamo e Nuovo Adamo, rapporto tra peccato e grazia (5,12-21)
Testo
a Lettura facilitata
Da Adamo il peccato e con esso la morte si estesero a tutti gli uomini (v.12)
12-
Per questo, come per mezzo di un uomo il peccato entrò nel mondo e
per mezzo del peccato la morte e così la morte passò in tutti gli
uomini, per il quale tutti peccarono.
13-
Infatti, fino (alla) Legge (il) peccato era nel mondo, ma (il)
peccato non viene messo in conto non essendoci la Legge,
14-
ma la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche in coloro che non
peccarono in somiglianza della trasgressione Adamo, che è figura di
colui che deve (venire).
Confronto tra peccato e grazia (vv.15-17)
15-
Ma non come il delitto così anche il dono di grazia. Se, infatti,
per quel delitto di uno molti morirono, molto di più la grazia di
Dio e il dono nella grazia di un solo uomo Gesù Cristo sovrabbondò
in molti.
16-
E il dono non (è) come per mezzo dell'uno che ha peccato; infatti il
giudizio (proviene) dall'uno (ed è) per la condanna, il dono (di
grazia) invece (proviene) da molti delitti per la giustificazione.
17-
Se infatti per il delitto di uno la morte regnò a causa dell'uno,
molto di più quelli che ricevono la l'abbondanza della grazia e del
dono della giustizia in vita regneranno per mezzo del solo Gesù
Cristo.
Confronto tra Adamo e Cristo, le due cause della morte e della vita (vv.18-19)
18-
Pertanto come a causa del delitto di uno (conseguì) la condanna per
tutti gli uomini, così anche per l'azione di giustizia di uno
(conseguì) la giustificazione della vita per tutti gli uomini;
19-
come, infatti, per la disobbedienza di un solo uomo, molti furono
costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno molti
saranno costituiti giusti.
La grazia sovrabbondò per la vita sul peccato, che regna nella morte (vv.20-21)
20-
Ma sopraggiunse la Legge, affinché il delitto abbondasse; ma dove
abbondò il peccato sovrabbondò la grazia,
21-
affinché come regnò il peccato nella morte, così anche la grazia
regni per mezzo della giustizia per la vita eterna per mezzo di Gesù
Cristo nostro Signore.
Note
generali
Con la sezione 1,18-3,31 Paolo aveva dimostrato l'universalità della colpa e quindi la necessità di una giustificazione universale, poiché, sia pagani (1,18-32) che Giudei (2,1-29) sono peccatori e quindi privi della gloria di Dio (3,23), ma possono essere giustificati per grazia per mezzo di Gesù Cristo, a cui si accede per fede (3,24). Ora, Paolo riprende in qualche modo questa tematica dell'universalità della colpa e dell'universalità della sua giustificazione, ma qui, in 5,12-21, ne presenta le loro dinamiche più profonde, cioè la causa di questa colpa universale e la causa di questa giustificazione universale. In altri termini, come si è generata questa peccaminosità universale e in quale modo essa viene universalmente giustificata? Quindi Paolo passa da una mera constatazione di fatto, ricavata da un'attenta osservazione del comportamento peccaminoso sia dei pagani (1,18-32) che dei Giudei (2,1-29), accompagnata, poi, da sue considerazioni conclusive (3,21-31), ad una analisi delle cause che generarono sia questo comportamento peccaminoso universale che la sua contropartita, quella della giustificazione universale.
Lo fa qui, adesso, in 5,12-21, dopo aver enumerato tutti i benefici e le conseguenze di questa giustificazione ottenuta per fede (5,1-11), la quale ha generato la grazia della giustificazione, così che quanto adesso Paolo dirà assumerà i contorni della grandiosità dell'azione giustificatrice e giustificante di Cristo, così come il devastante disastro che ha causato la colpa originale.
Tutta questa seconda parte del cap.5 (vv.12-21) è pertanto dedicata al confronto di due grandiose figure della storia della salvezza: la prima ha causato un disastro universale con il suo atto di ribellione a Dio (Gen 3,4-7); la seconda, operando in modo esattamente contrario della prima, in quanto che si è sottoposta alla volontà del Padre fino alla morte e alla morte di croce (Fil 2,6-8), ha rigenerato l'umanità e con questa anche l'intera creazione, restituendola nella sua integrità al Padre, così com'era nei suoi primordi. Egli, dunque, è divenuto il nuovo capostipite di una nuova umanità, che, come la prima nella sua origine (Gen 2,7), si muove ora secondo le logiche dello Spirito (8,14).
Ma il confronto qui non si limita solo a queste due grandiose figure della storia della salvezza, ma anche alle loro modalità di operare e alle conseguenze del loro operare: il primo ha generato il peccato e con questo la morte e il giudizio di condanna; il secondo ha inaugurato, soverchiando il primo, l'economia della grazia, della vita e della giustificazione per la vita eterna. Primo Adamo e Nuovo Adamo; peccato e morte, grazia e giustificazione per la vita eterna sono dunque i temi di fondo di questa seconda parte (vv.12-21) del cap.5.
La struttura della sezione vv.12-21, benché difficile da individuare per la densità dei contenuti non sempre facili da combinare assieme da un punto di vista letterario, l'ho suddivisa in quattro parti:
Da Adamo il peccato e con esso la morte si estesero a tutti gli uomini (vv.12-14);
Confronto tra peccato e grazia (vv.15-17);
Confronto tra Adamo e Cristo, le due cause della morte e della vita (vv.18-19);
La grazia sovrabbondò per la vita sul peccato, che regna nella morte (vv.20-21)
Il modo di procedere
di questa seconda parte del cap.5 è strano, perché lo sviluppo
tematico anziché svolgersi in modo lineare e piano si presenta
intrecciato, senza una sequenzialità logica e senza motivo
apparente, che lo giustifichi. Sembra quasi che Paolo terminato il
tema di apertura (vv.12-14) ne abbia incominciato subito un altro
(vv.15-17), ma poi terminato questo secondo tema abbia voluto
completare il primo tema (vv.18-19), per poi riprendere e terminare
il secondo tema (vv.20-21). La sequenzialità tematica logica avrebbe
dovuto essere, a mio avviso, la presentazione di Adamo, quale origine
del peccato e della morte (vv.12-14), seguita subito dal confronto di
Adamo con Cristo, l'altra origine, quella della grazia e della vita,
contrapposta alla prima, anche perché la pericope vv.12-14 termina
preannunciando in qualche modo tale confronto: “Adamo, che è
figura di colui che deve (venire)”. Di seguito al confronto tra
Adamo e Cristo doveva seguire il confronto tra il peccato e la grazia
(vv.15-17), concludendo con il rilevare la sovrabbondanza della
grazia sul peccato (vv.20-21). La sequenzialità logica tematica,
pertanto, avrebbe dovuto essere la seguente:
a) Da Adamo il peccato e con esso la morte si estesero a tutti gli uomini (vv.12-14);
c) Confronto tra Adamo e Cristo, le due cause della morte e della vita (vv.18-19);
b) Confronto tra peccato e grazia (vv.15-17);
d) La grazia sovrabbondò per la vita sul peccato, che regna nella morte (vv.20-21)
Quanto allo sfondo biblico su cui si muove questa seconda parte del cap.5 è Gen 3, dove si narra della caduta dell'uomo, dovuta ad un atto di ribellione a Dio da parte di Adamo ed Eva (Gen 3,1-7) e le conseguenze di sofferenza e di morte che ne derivarono (Gen 3,16-24)20. Paolo, tuttavia, manipola il racconto genesiaco semplificandolo a suo piacimento per adattarlo, ma senza alterarne il senso, alla sua teologia. Viene, pertanto tralasciato il riferimento ad Eva e al serpente, incentrandosi, invece, sulla figura di Adamo, il primo uomo, che verrà definito al v.14b come “figura di colui che deve (venire)”, mettendolo in stretta relazione a Cristo, che in qualche modo associato al primo Adamo, capostipite della prima umanità, diviene, pertanto, il nuovo Adamo, capostipite di una nuova umanità, che si muove secondo le logiche dello Spirito.
Commento
ai vv.12-21
Da Adamo il
peccato e con esso la morte si estesero a tutti gli uomini
(vv.12-14)
Il v.12 si apre con l'espressione sibillina “Di¦ toàto” (Dià tûto), dove “Di¦” + accusativo può avere solo un senso causale21, seguito da “toàto”, posto in accusativo neutro, che significa “ciò, questo”. Quindi la traduzione dovrebbe essere “Perciò” o “Per questo”. La Nova Vulgata, infatti, traduce “Di¦ toàto” con “Propterea”. Un'espressione, quindi, che congiunge 5,1-11 a 5,12-21, mettendole in stretta relazione tra loro, nel senso che l'una dipende dall'altra ed è conseguente all'altra. Ora, poiché Paolo con la sezione 5,12-21 spiega le origini, cioè le cause prime del peccato e della morte, così come quelle della giustificazione e della salvezza, è da intendere come la sezione 5,1-11 dipenda per la sua comprensione da 5,12-21. Pertanto, quel “Di¦ toàto” (Dià tûto) va tradotto, a mio avviso, “Per questo” nel senso di “causa di questo”, dove il “questo” (toàto, tûto) si riferisce a 5,1-11; mentre “causa di” (Di¦, Dià) si riferisce a 5,12-21. Quindi il senso di quel “Di¦ toàto” (Dià tûto) non è conclusivo, ma causativo, indicando come la causa di quanto è avvenuto in 5,1-11 va compresa alla luce di quanto verrà ora detto in 5,12-21. Il v.12a, pertanto, funge da connessione tra le due sezioni 5,1-11 e 5,12-21 e in un certo qual modo da introduzione alla pericope in esame.
I vv.12-14 sono in assoluto fondamentali per comprendere l'intera storia della salvezza, che parte con l'enunciazione dell'origine del peccato, la cui presenza nel mondo, al di là della Legge, il cui intento è solo quello di metterlo in evidenza (7,7), è testimoniata dalla presenza della morte, essendo questa causata dal peccato. È evidente che qui il concetto di peccato non va inteso in senso morale, quale violazione di una norma morale imperativa, ma in senso esistenziale, cioè tale da intaccare la costituzione e l'essenza stessa non solo dell'uomo, ma dell'intera creazione.
Ma in che cosa è consistito questo peccato, che fu tale da travolgere l'intera umanità e con questa l'intera creazione (Gen 6,5-7.11-13). È importante capire questo per poter comprendere l'importanza fondamentale nell'ambito della storia della salvezza dell'intera sezione 5,12-21. Per poter far comprendere l'importanza di ciò che Paolo qui dice farò una spicciola esegesi non biblica, ma mitica, cercando di interpretare i punti essenziali di Gen 2-3. Per una migliore comprensione di quanto sto dicendo rinvio il mio paziente lettore ad un mio studio specifico, che può trovare alle pagg.9-17 al seguente indirizzo: https://digilander.libero.it/longi48/Per%20un%20cammino%20cristiano.pdf .
All'origine dell'umanità ci fu il tentativo di un colpo di stato da parte di Adamo ed Eva, che vollero attentare a Dio, mettendosi in concorrenza con Lui, cercando di soppiantarlo. Tutto è incluso nella proposta del serpente: “Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gen 3,5). Diventare come Dio! Perché no? Del resto Adamo ed Eva furono creati ad immagine e somiglianza di Dio (1,26-27) e ne condividevano in qualche modo la vita, di cui quell'Alito divino li aveva rivestiti (Gen 2,7). Perché, dunque, non trasformare la somiglianza in vera e propria identità: noi siamo Dio. Non fu un semplice atto di presunzione e di orgoglio, ma un vero e proprio attentato a Dio, a cui rassomigliavano e di cui condividevano la Vita. Il mangiare dell'albero, infatti, indica un atto di aggressione e di appropriazione delle qualità proprie di quell'albero (Gen 3,6), sul quale vigeva il divieto divino. E fu così che si accorsero di essere nudi (Gen 3,7), cioè spogliati di quell'Alito di vita, lo stesso Spirito di Dio, che li aveva resi esseri viventi, partecipi della vita stessa di Dio. Spogliati, dunque, di questo Spirito, che li aveva resi partecipi della Vita di Dio e a Lui somiglianti, non poterono più rimanere nella sua dimensione e non poterono più goderne i benefici. Da qui la cacciata dal paradiso terrestre (Gen 3,23-24), cioè dalla dimensione stessa di Dio e, spogliati del suo Spirito e della su Vita, rimasero soltanto carne despiritualizzata e vennero rivestiti non più dell'Alito di Vita, ma con pelle di animali (Gen 3,21), che dicono la nuova condizione decaduta dell'uomo. Gli effetti di tale spogliazione vengono raccontati da Gen 3,16-24. Certo sono immagini, racconti, miti, ma tutto questo è il linguaggio con cui l'umanità primitiva raccontava la sua storia. Non sono invenzioni o favolette della buona notte, ma storia. Se non si capisce questo, non si capirà neanche il resto. Paolo per arrivare a dire quello che dice in questa seconda parte del cap.5 (vv.12-21), deve averla compresa in qualche modo in termini simili a quelli che ho descritto, molto sinteticamente, qui sopra. Troppo spesso nell'ambito della storia della salvezza si trascura il dramma del Paradiso Terrestre, mentre tutto dipende da questo, inclusa la comprensione della natura stessa risurrezione e del suo significato. Non a caso Paolo lega Adamo a Cristo, attestando che il primo è figura del secondo (v.14). Così come l'intera storia della salvezza altro non è che il tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione primordiale. Dico “tentativo”, poiché non va mai dimenticato che la sua attuazione serve la collaborazione e il consenso dell'uomo e questi aderisca alla proposta salvifica di Dio. Del resto lo stesso s.Agostino, commentando proprio la Lettera ai Romani sul tema della giustificazione, sottolinea acutamente come il “Dio, che ti ha creato senza di te, non può salvarti senza di te” (Sant'Agostino, Discorso 169, 11.13).
Fatto questa breve annotazione sul tema del peccato originale, di cui qui Paolo sta parlando, procediamo, ora, all'esegesi di questa impegnativa quanto importante e fondamentale sezione 5,12-21 per la comprensione della storia della salvezza.
Paolo, dunque, vede in questa colpa primordiale, che non solo ha distrutto il rapporto tra l'uomo e Dio, contrapponendoli l'uno all'altro, ma altresì ha leso profondamente lo stato vitale primordiale dell'uomo, che consisteva nel partecipare alla Vita divina, condividendone i benefici, quali l'eternità, l'onniscienza e la pienezza della felicità. Rotta, pertanto, tale armonia tra Dio e l'uomo e tra l'uomo e la creazione, “il peccato entrò nel mondo e per mezzo del peccato la morte e così la morte passò in tutti gli uomini, per il quale tutti peccarono”. L'entrata del peccato nel mondo dice soltanto come il peccato ha investito e travolto il mondo intero, intendendo per mondo non solo la creazione, ma anche l'intera umanità e con essa tutte le realtà umane, così che “tutti peccarono”. Un'espressione quest'ultima che non dice che tutti hanno commesso delle azioni peccaminose, ma come tutti sono stati assoggettati al peccato di quel primo uomo, nel senso che tutti ne furono completamenti coinvolti e travolti da questo peccato, così che la loro vita divenne una vita di peccato, cioè vissuta in opposizione a Dio, producendo frutti di peccato, cioè di male. Un peccato, questo, ripeto e va capito bene, che non è una semplice colpa morale, ma è infinitamente di più, poiché questo “peccato” è stato altamente distruttivo, in quanto che ha posto l'uomo fuori dalla Vita di Dio, facendogli perdere tutti i benefici che quel suo stato primordiale e originale gli aveva concesso.
Le disgrazie conseguenti a tale peccato ci vengono raccontate per immagini simboliche da Gen 3,16-24, presentando una situazione dell'umanità altamente degradata e profondamente segnata dalla sofferenze, dalla fatica e dal dolore, che altro non sono che aspetti del nostro stato di morte in cui ci troviamo e in cui viviamo. Quando Paolo dice che con il peccato è entrata nel mondo la morte, questa non va intesa soltanto come la conclusione della nostra vita terrena, ma come uno stato esistenziale che è contrassegnato dalla morte, di cui la sofferenza, il dolore, le difficoltà della vita sotto ogni forma e aspetto, non sono altro che espressioni di questa morte, per cui la morte fisica, che conclude il nostro ciclo vitale terreno, altro non è che l'aspetto definitivo e ultimo di questo nostro continuo ma morire. Una vita la nostra che altro non è che un vivere la morte, di cui siamo profondamente permeati e segnati a livello esistenziale. Il peccato, quindi, ha generato la morte, intesa come il nostro stato di esseri despiritualizzatati, cioè privati della Vita stessa di Dio, che ci aveva resi “esseri viventi”. Tutto questa descrizione non va intesa come un qualcosa di aleatorio o da porsi soltanto su di un piano spirituale o simbolico, ma si tratta di storia, della nostra storia, che per l'uomo è iniziata in Dio ed è finita miseramente in questa realtà drammatica di morte in cui ci troviamo.
Collocati, dunque, in questa condizione esistenziale di morte a motivo di quella colpa originale che ci ha posti fuori dalla Vita divina, che condividevamo nelle nostre origini, nulla più ci può salvare né sperare in un nostro rientro in Dio, se non il suo progetto di salvezza, che prevede il recupero di ogni uomo alla sua condizione esistenziale originaria, allorché, creato a immagine e somiglianza di Dio, fu posto nella sua stessa dimensione divina, condividendone la Vita.
Il
v.12 si conclude con “tutti peccarono” a causa del peccato del
primo uomo, Adamo. Attestazione questa che ora Paolo riprende e ne dà
una sua spiegazione, che mette in rilievo, con il v.13, come il
peccato fosse comunque presente nel mondo anche se la Legge ancora
non c'era. Un'attestazione questa molto importante, poiché evidenzia
come il peccato non dipenda dalla violazione della Legge, che
all'epoca, tra Adamo e Mosè, ancora non c'era, poiché questa è
giunta soltanto con Mosè, ma come esso sia una condizione di vita,
uno stato esistenziale, una realtà che dice il decadimento a cui
l'uomo, suo malgrado è sottoposto, in termini reali, storici. La
Legge, dirà Paolo in 7,7, ha la sola funzione di mettere in evidenza
questo nostro stato di peccato,
ma non lo crea.
E la prova di ciò la dà al v.14, rilevando come la morte, che è
una conseguenza del peccato (v.12), regnò da Adamo fino a Mosè.
Pertanto se da Adamo a Mosè si è potuto constatare la morte in
tutte le sue espressioni di sofferenza, di dolore, di fallimenti e di
fine vita, questo significa che il peccato era già presente nel
mondo. Una morte che ha colpito anche coloro che “non peccarono in
somiglianza della trasgressione Adamo”. In altri termini, la morte
che sta colpendo gli uomini e l'intera creazione nel loro comune
degrado non è una punizione individuale o personale per la
trasgressione di un qualche comandamento divino, ma prescinde dal
comportamento corretto o meno degli uomini, colpendoli tutti
indistintamente (3,23), evidenziando una volta di più come la morte
sia la nuova condizione di vita dell'uomo, a prescindere dalla sua
innocenza o meno.
Confronto tra
peccato e grazia (vv.15-17)
Dopo l'attestazione del disastro universale e cosmico provocato dal peccato, che ha generato la morte, travolgendo l'intera umanità, causato da un solo uomo, Adamo, Paolo terminava la pericope vv.12-14 prospettando in quel “figura di colui che deve (venire)” un altro Adamo, cioè Cristo, la cui azione di grazia che genera la vita, si contrappone a quella di peccato e di morte del primo Adamo. Un simile confronto avrebbe potuto far sorgere nel lettore come il primo e il secondo Adamo, pur tra loro contrapposti, sostanzialmente si equivalessero. Per evitare una tale ingannevole ipotesi, Paolo dedica l'intera pericope vv.15-17, dove egli mette a confronto le conseguenze dell'operare dei due contrapposti Adamo.
Il v.15a apre presentando il tema della pericope in esame, attestando come il delitto, cioè l'atto di rivolta contro Dio e quindi il peccato del primo Adamo, non è da porsi a confronto con la contrapposta grazia, né tantomeno è da porla sullo stesso piano; grazia, che Paolo definisce qui come un dono, appellativo quest'ultimo che Paolo riprenderà subito spiegandone il senso.
Quanto ora segue dal v.15b al v.17 costituisce, pertanto, le motivazioni dell'enunciato di 15a. Il v.15b, infatti, si apre con un “g¦r” (gàr, infatti), che assume un senso sia causale che esplicativo. Così che Paolo afferma che se a causa di quella rivolta primordiale furono travolti “molti”, un ebraismo per dire tutti, ben di più poté la “grazia di Dio” e il “dono nella grazia”, due espressioni che vanno lette e comprese come fossero una sorta di endiadi, cioè “la grazia di Dio che si è fatta dono in Gesù Cristo”, dove il termine “grazia” va inteso come l'agire misericordioso e perdonante di Dio, da cui sortì non la morte, ma la stessa vita eterna, così che, per mezzo di questa grazia fattasi dono in Gesù Cristo, l'uomo ha potuto accedere nuovamente alla vita stessa di Dio. Quindi immensamente diverse sono le fonti del peccato e quelle della grazia: da una parte il primo Adamo; dall'altra Dio che opera nel Figlio, Gesù Cristo. Di conseguenza l'azione misericordiosa e salvifica di Dio nei confronti dell'uomo peccatore sopravanza infinitamente nei confronti del peccato, non solo da un punto di vista ontologico, ma anche quantitativo (in molti, da molti delitti). Infatti, mentre il peccato, da cui è discesa la condanna per tutti, è stato commesso da uno solo, la grazia è sopraggiunta in risposta e a copertura di una grande moltitudine di delitti, conseguenti a quella colpa originale, così che tutti questi delitti vengono coperti dall'amore misericordioso del Padre che si è manifestato in Gesù Cristo e in lui ha operato e continua ad operare, abbracciando l'universalità degli uomini e sovrastando la loro peccaminosità.
La prova di questa
onnipotenza della grazia, fattasi dono in Gesù Cristo (vv.15b-16),
viene data, ora, dal v.17, anche questo introdotto da un “g¦r”
(gàr, infatti), che gli assegna un senso esplicativo,
dimostrativo. Anche qui il confronto si snoda tra l'uno che ha
inaugurato il regno della morte, conseguente al peccato, e le vittime
di questo peccato, le quali sono tutte, una ad una, risanate e
rigenerate alla vita per “l'abbondanza della grazia e del dono
della giustizia”. Anche in quest'ultima espressione si ha una sorta
di endiadi in cui “l'abbondanza della grazia si fa dono per la
giustificazione” e indistintamente tutti quelli che ne sono avvolti
“regneranno in vita”, cioè hanno ricevuto la capacità fin d'ora
di controbattere il regno della morte con quello della vita, “per
mezzo del solo Gesù Cristo”, che diviene non solo lo strumento
operativo del Padre per attuare il suo disegno redentivo a favore
dell'uomo, ma altresì, da parte dell'uomo, lo strumento offertogli
dal Padre per potersi nuovamente rigenerare alla Vita eterna,
aderendo esistenzialmente ad esso. Come ciò sia possibile, Paolo
avrà modo di illustrarlo con il cap.6, che sarà un capitolo
interamente dedicato a prevenire fraintendimenti e malintesi da parte
dei suoi detrattori. È una Lettera, questa ai Romani, che Paolo
scrive ad una comunità credente che non è stata fondata da lui, ma
da giudeocristiani giudaizzanti e, pertanto, con un'impostazione
dottrinale molto difforme dalla sua. C'è dunque necessità di
chiarimenti. Ma in questi chiarimenti Paolo avrà modo di
approfondire le sue attestazioni e le loro dinamiche.
Confronto tra
Adamo e Cristo, le due cause della morte e della vita (vv.18-19)
Il confronto tra l'operato di Adamo e quello del Padre attuatosi in Gesù Cristo (vv.15-17), passa, ora, su di un livello strettamente personale tra Adamo e Cristo (“così anche”), colti qui quali fonti primarie del peccato e della morte, il primo (vv.18a.19a); della grazia e della giustificazione, il secondo (vv.18b.19b). Anche qui il v.19 diventa, con quel “g¦r” (gàr, infatti) posto in sua apertura, esplicativo del v.18.
Il v.18 si apre con una doppia congiunzione “”Ara oân” (Ára ûn, pertanto dunque) di equivalente significato, divenendo così l'una rafforzativa dell'altra, imprimendo a quanto segue una valenza deduttiva e conclusiva rispetto a quanto era stato detto nella pericope vv.15-17, spostando l'attenzione dall'operato di Adamo e di Cristo (vv.15-17), ai due stessi interessati.
Il v.18 altro non è che la sostanziale ripresa del v.15b, ma l'attenzione qui viene incentrata con quel “a causa … conseguì” sull'eziologia della condanna e della giustificazione. Il linguaggio qui si fa giuridico, per cui al “delitto” viene associata la “condanna” (v.18a); e parimenti alla “azione di giustizia” viene associata la “giustificazione”, dove l'azione di giustizia va intesa come l'azione di grazia che punta alla giustificazione. È, quindi, quella che si svolge in Cristo e per suo mezzo un'azione che ha come obiettivo primario quello del riscatto dell'uomo, recuperandolo alla dimensione divina, da cui era drammaticamente fuoriuscito, e non a condannarlo a rimanerne fuori per sempre.
Il
v.19 richiamandosi ai termini “delitto” e “azione di giustizia”
del v.18, ne dà qui le spiegazioni, associando al “delitto”
l'espressione “per la disobbedienza”; e all'espressione “azione
di giustizia” l'espressione “per l'obbedienza”. Paolo, dunque,
giunge qui ad analizzare la causa ultima del delitto e della
giustizia, che ha sostanziato il comportamento di Adamo e di Cristo:
il primo con la sua disobbedienza, ma in realtà come abbiamo visto,
fu una vera e propria rivolta contro Dio, un attentato contro di Lui,
ha generato la condanna, che lo ha posto, e con lui tutti gli gli
uomini e l'intera creazione, definitivamente fuori da Dio; il
secondo, con un'azione uguale contraria al primo, “per
l'obbedienza”, considerata “azione di giustizia”, ne è
conseguita la giustificazione. Se ci è chiaro dal racconto genesiaco
in che cosa è consistita la “disobbedienza”, meno chiara può
risultare l'obbedienza di questo secondo Adamo. Un'obbedienza che è
consistita in un'accettazione piena del progetto salvifico del Padre,
che Fil 2,6-8 così mirabilmente sintetizza: Gesù Cristo “pur
essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma
spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo
simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Si è
trattato, dunque, di un progressivo svuotamento del Figlio, dalla
gloria eterna, che gli era propria per sua natura, fino alla morte di
croce, passando attraverso l'assunzione su di sé di una natura
corrotta dal peccato, portandola sulla croce, dove essa fu distrutta
con la sua morte e in lui e con lui l'intera umanità venne a lui
associata (Gv 12,32, Rm 6,6-8), divenendo così Cristo un dono di
amore del Padre per l'intera umanità credente (Gv 3,16; Rm 5,8).
La
grazia sovrabbondò per la vita sul peccato, che regna nella morte
(vv.20-21)
Con questi ultimi due versetti del cap.5 (vv.20-21) Paolo, dopo il breve inciso dei vv.18-19 che andavano a completare il tema di 12-14, riprende ora il tema trattato in 15-17, quello del confronto tra il peccato e la grazia, portandolo a conclusione, ma introducendo un nuovo elemento, posto qui a chiarificazione e a completamento del v.16c: “il dono (di grazia) invece (proviene) da molti delitti per la giustificazione”. In altri termini, in quale modo si sono prodotti i “molti delitti” da Adamo a Cristo, così che dove abbondò il peccato sovrabbondò la grazia? Causa di tutti questi delitti, attesta Paolo, fu la Legge, che di per se stessa non è generatrice di peccato, poiché in 7,12 si attesterà che “La legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento”, ma, dirà Paolo in 7,7b-10 “(io) non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge; infatti non avrei conosciuto il desiderio, se la Legge non avesse detto: “Non desiderare”. Ma il peccato, avendo preso occasione per mezzo del comandamento, ha prodotto in me ogni desiderio; infatti, senza (la) Legge il peccato (è) morto. Ma io una volta vivevo senza (la) Legge, ma giunto il comandamento, il peccato prese vita”.
Compito della Legge, quindi, è quello di mettere in evidenza il comportamento peccaminoso dell'uomo, portandolo alla luce della sua coscienza, denunciando in tal modo i suoi innumerevoli peccati, così che con la Legge si scoprì l'enormità del peccato adamitico, di cui tutti gli altri peccati furono la conseguenza, da quello generati. Un peccato che aveva guastato non solo l'intera umanità, ma, con lei, anche l'intera creazione.
A questa drammatica situazione di un peccato, che si allargava a macchia d'olio, permeava e intaccava tutto e tutti, vi fu come risposta da parte di Dio l'azione di grazia, la cui superiorità e incisività rispetto al peccato è evidenziato da quel “sovrabbondò”.
La
finalità di questa sovrabbondante azione di grazie da parte di Dio
nel suo Cristo viene precisata dal v.21: soppiantare il regno del
peccato, che traspare nella morte e in tutte le sue sfaccettature,
con quello della grazia, finalizzata ad ottenere la vita eterna per
mezzo di Gesù Cristo. Il verbo con cui viene definito il regno del
peccato è posto al passato remoto, “regnò”, come un evento
ormai fuori causa, anche se non ancora definitivamente tale; mentre
il regno della grazia è definito con il presente congiuntivo,
“regni”, per indicare l'azione positiva, qui e ora, dell'azione
divina, che, qui e ora, tende la mano all'uomo, proponendogli il suo
ritorno in seno al Padre, da dov'era drammaticamente fuoriuscito nei
primordi dell'umanità.
Una necessaria
precisazione sul rapporto peccato e grazia (6,1-14)
Testo a lettura
facilitata
Introduzione tematica (vv.1-2)
1-
Che diremo dunque? Perseveriamo nel peccato affinché abbondi la
grazia?
2-
Non sia mai! (Noi) che siamo morti al peccato, come vivremo ancora in
esso?
Morti al peccato per camminare in novità di vita in Cristo (vv.3-5)
3- O
ignorate che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo
stati battezzati nella sua morte?
4-
Consepolti, pertanto, con lui per mezzo del battesimo nella morte,
affinché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria
del Padre, così anche noi camminiamo in novità di vita.
5-
Se infatti siamo stati congeniti (a lui) a somiglianza della sua
morte, ma anche della sua risurrezione (lo) saremo;
Ulteriore approfondimento su morte al peccato e vita nuova in Cristo (vv.6-8)
6-
sapendo questo, che il nostro uomo vecchio è stato concrocifisso
(con lui), affinché sia reso inefficace il corpo del peccato,
affinché noi non serviamo più al peccato;
7-
chi, infatti, è morto è difeso dal peccato.
8-
Se, infatti, siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con
lui,
La
conclusione: considerarsi morti al peccato e viventi per Dio
(vv.9-14)
9-
sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più, la morte non
spadroneggia più su di lui.
10-
Poiché, infatti, morì, al peccato morì una volta per sempre; ma
poiché vive, vive per Dio.
11-
Così anche voi considerate che voi stessi [siete] morti al peccato,
ma viventi per Dio in Cristo Gesù.
12-
Pertanto non regni più il peccato nel vostro corpo mortale per
obbedire alle sue passioni,
13-
né assoggettate al peccato le vostre membra (quali) strumenti di
ingiustizia, ma assoggettate voi stessi a Dio, come viventi
(risuscitati) dai morti e le vostre membra strumenti di giustizia a
Dio.
14-
Il peccato, infatti, non spadroneggerà (più su di) voi; infatti non
siete sotto (la) Legge, ma sotto (la) grazia.
Note
generali
Nella seconda sezione del cap.5 (vv.12-21), dopo aver chiarito come il peccato sia entrato nel mondo e con il peccato la morte, così che tutti sono stati assoggettati sia al peccato che alla morte (vv.12-14), Paolo, sempre in quel contesto, aveva attestato come a fronte del peccato e del suo regno, la morte, Dio ha contrapposto la grazia in modo ben più sovrabbondante del peccato, affermando così il regno della vita e mostrando in tal modo tutto il suo amore per i peccatori, donandoci suo Figlio (5,8). Una simile affermazione poteva suscitare nei suoi detrattori, attraverso un contorto ragionamento per assurdo, che se la grazia è stimolata dal peccato e l'amore di Dio per i peccatori ha spinto Dio a donare suo Figlio, allora il peccato è un bene, perché provoca un abbondante quanto benefico e salvifico intervento divino a favore dell'uomo peccatore. Quindi, più si pecca e più Dio interviene con la sua sovrabbondante grazia e misericordia per salvare l'uomo.
A fronte di una simile stortura, Paolo oppone, ora, la prima sezione del cap.6 (vv.1-14), che, a sua volta, come vedremo, genererà un'altra simile quanto assurda deformazione da parte degli avversari di Paolo. Questi, infatti, aveva egli affermato in 6,14, a chiusura della prima sezione del cap.6 (vv.1-14), che non si è più sotto il regime della Legge, ma sotto quello della grazia. La quale cosa potrebbe spingere i suoi avversari ad argomentare che, non essendo più sotto la Legge, si è dunque liberi di peccare, poiché non vi è più nessuna Legge che condanni. Sarà questo il secondo tema che Paolo affronterà nella seconda sezione del cap.6 (vv.15-23), il rapporto legge, grazia e peccato.
Due sezioni, quindi, interamente dedicate a prevenire malintesi e fraintendimenti degli avversari di Paolo, ma nel contempo gli daranno l'occasione di approfondire in modo unico e mirabile la sua cristologia della giustificazione, colta nel suo rapporto tra grazia-peccato e tra Legge-peccato.
La
struttura di questa prima sezione del cap.6 (vv.1-14) può essere
suddivisa in quattro parti, strettamente collegate tra loro secondo
uno sviluppo logico del pensiero:
Introduzione tematica (vv.1-2);
Morti al peccato per camminare in novità di vita in Cristo (vv.3-5);
Ulteriore approfondimento su morte al peccato e vita nuova in Cristo (vv.6-8);
La conclusione: morti al peccato e viventi per Dio (vv.9-14).
Commento
ai vv.1-14
Introduzione
tematica (vv.1-2)
I primi due versetti del cap.6 introducono il tema di questa prima sezione (vv.1-14). Attraverso due domande retoriche, come è sua caratteristica, Paolo pone con il v.1 la questione della possibile critica-accusa dei suoi avversari, mentre con il v.2 la controbatte, fornendone le motivazioni con i successivi vv.3-14.
Con il v.1 Paolo si aggancia a quanto detto in 5,12-21 e con quel “Che diremo dunque” iniziale, ne trae lui stesso, anticipando i suoi detrattori, le loro possibili conclusioni assurde: se il peccato ha provocato l'intervento della grazia, allora significa che il motore della grazia è il peccato, quindi, si continui a peccare per sollecitare sempre maggiore grazia da parte di Dio. Un ragionamento perverso, considerato che peccato e grazia sono due stati di vita contrapposti e irriducibili l'uno all'altro. Non è questo, infatti, il senso di ciò che Paolo ha detto: “Non sia mai!”. Il motivo di questa perentoria negazione, che respinge quasi anatemizzandolo l'assurdo assunto del v.1, è che il credente, cioè colui che ha esistenzialmente aderito a Cristo e alla sua Parola, è morto al peccato, che qui va inteso non tanto come una violazione ad una norma imperativa della Legge morale, ma come una condizione ed uno stato di vita, di cui aveva già accennato in 3,23, prospettando come il peccato sia una privazione della gloria di Dio, che originariamente permeava l'uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio; mentre in 5,12-14 illustrava l'origine di uno stato di vita segnato profondamente dalla morte. Quindi il termine “peccato” va qui compreso come “peccaminosità”, cioè come uno stato di vita vissuto in opposizione a Dio.
In
contrapposizione all'assunto del v.1, Paolo attesta con il v.2 che il
credente è morto al peccato, come può dunque seguirne ancora le
logiche nella propria vita? Ma che cosa significa “morto al
peccato” e che cosa significa “vivere nel peccato”? Saranno i
successivi vv.3-14 a chiarirne il senso.
Morti
al peccato per camminare in novità di vita in Cristo (vv.3-5)
Con i vv.3-5 Paolo sembra richiamare qui la catechesi battesimale (Eb 6,1-2), che doveva essere conosciuta all'interno delle comunità credenti, facendo parte probabilmente del comune cammino catecumenale di preparazione al battesimo, che presso la chiesa di Roma aveva una durata di tre anni. Lo si evince sia da quel retorico “O ignorate che quanti siamo stati battezzati...?”, che lascia intendere come in realtà non dovrebbero ignorare quello che lui sta dicendo; sia dai verbi qui posti tutti alla prima persona plurale, come nei successivi vv.6-9, che sviluppano la pericope vv.3-5 in esame; così come parlando dell'uomo vecchio si dice “nostro”. Tutti articolari questi che lasciando intendere come in questi si rifletta l'intera chiesa primitiva, che accomuna tutti i credenti nell'unica e medesima fede.
Il v.3, con la solita domanda retorica, introduce il tema che verrà sviluppato nei vv.4-5 ed approfondito e completato nei successivi vv.6-9.
Il punto di partenza della grazia contrapposta al peccato e della vita nuova in Cristo è, per Paolo, il battesimo, che crea lo stacco netto e radicale tra il prima e il dopo ed apre ad una nuova realtà e ad una nuova prospettiva di vita, per cui non è più pensabile continuare come prima, poiché ciò che c'era prima ora non c'è più. Paolo crea qui, infatti, una equivalenza: tra l'essere battezzati in Cristo e l'essere battezzati nella sua morte. Il parametro di raffronto qui è Cristo colto nel Mistero della sua morte in prospettiva della sua risurrezione. Morte e risurrezione, dunque, due facce di un'unica moneta con cui il Padre ha riscattato l'intera umanità e con essa l'intera creazione dalla corruzione e dalla decadenza del peccato e della morte.
I vv.4-5, riprendendo la battuta finale del v.3, “siamo stati battezzati nella sua morte”, ne specificano il senso, utilizzando un verbo particolare “sunet£fhmen” (sinetáfemen), cioè “consepolti”, creando con quel “sun” (sin, con) un'associazione del credente a Cristo che avviene attraverso il battesimo. Ma l'uso del verbo “battezzare”, che significa letteralmente “immergere, sommergere”, lascia intravedere come qui ci sia ben più di una semplice associazione a Cristo, prospettandone un'assimilazione, così che il credente, con il battesimo, viene permeato e compenetrato da Cristo, così da essere cristificato. Ed è ciò che in Gal 2,20a farà esclamare Paolo: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Anche in quest'ultimo caso Paolo usa l'espressione “Cristù sunestaÚrwmai” (Cristô sinestaúromai), che letteralmente significa “sono stato concrocifisso con Cristo”, lasciando trasparire come in lui si rifletta la crocifissione di Cristo e come in quella crocifissione sia stato in qualche modo assimilato anche lui, Paolo.
L'associazione e l'assimilazione del credente alla morte di Cristo per mezzo del battesimo non è, tuttavia, fine a se stessa, ma Paolo lascia chiaramente trasparire in 4b come questa morte sia, in realtà, per la vita, che è stata elaborata dal Padre “per mezzo della sua gloria”, dove il termine gloria va qui inteso come la potenza stessa del Padre, che è lo Spirito Santo, che qualifica lo stato di Vita di Dio, come Paolo ha già avuto modo di precisare in 3,23, parlando della vita del peccatore priva, invece, della “gloria di Dio”, che è lo Spirito Santo; e, in modo più evidente, in 1,4, dove si parla della costituzione di Gesù a Figlio di Dio per mezzo dello Spirito Santo, che ha operato nella risurrezione, elevando l'uomo Gesù alla gloria del Padre, che lo ha riconosciuto e costituito suo Figlio, introducendolo a novità di vita, che è Vita eterna, Vita stessa di Dio. Su quest'ultimo parametro di vita nuova, Paolo prospetta, in pari modo per il credente, con-morto “con” e “in” Cristo, a lui associato e assimilato nella sua morte, un nuovo stato di vita, che ha a che vedere con la Vita stessa di Dio. Di conseguenza il credente è chiamato a camminare in novità di vita, cioè a conformare il proprio modo di vivere a quelle realtà che si sono impiantate in lui per mezzo del battesimo e di cui egli è permeato. In altri termini, la vita del credente deve riflettere e lasciar trasparire da sé la vita stessa di Dio, di cui è compenetrato.
Con
il v.5 Paolo fa un ulteriore passo in avanti, approfondendo il senso
di quell'associazione, che è assimilazione del credente a Cristo,
descrivendole con l'espressione “sÚmfutoi
gegÒnamen” (símfitoi
ghegónamen),
che letteralmente significa “siamo stati congeniti” o, in altri
termini, il credente per mezzo del battesimo è stato generato
assieme a Cristo non solo nella sua morte, ma anche nella sua
risurrezione, così che quel “camminare in novità di vita”
(v.4c) diviene il frutto naturale del suo essere con-risorto con e
in Cristo. Non vi è più, dunque, distinzione tra Cristo e il
credente, poiché, compenetrato da Cristo, i due formano una cosa
sola. È significativo infatti quel “sÚmfutoi
gegÒnamen”, poiché
dice come il credente sia stato “impiantato in e con Cristo”
dalla potenza del Padre, lo Spirito Santo, che come ha elevato e
impiantato l'uomo Gesù nella Vita stessa di Dio, costituendolo suo
Figlio (1,4), così ha fatto anche con il credente, il quale, ora, a
pieno titolo, può rivolgersi a Dio con l'appellativo di “Padre”,
condividendone la paternità con Gesù (Gv 20,17). Quel “sÚmfutoi”
ha la sua derivazione, infatti, dal verbo “sumfuteÚw”
(simfiteúo),
che significa letteralmente “piantare assieme” ed esprime il
radicamento del credente in Dio stesso per Cristo, con Cristo e in
Cristo Una particella questo “sun”
(sin,
con, assieme) che si ripete spesso allorché Paolo parla del credente
nella sua relazione con lui, evidenziandone l'associazione, che in
realtà, come s'è visto sopra, è un'assimilazione a Cristo.
Ulteriore
approfondimento su morte al peccato e vita nuova in Cristo
(vv.6-9)
Dopo aver posto le basi cristologiche del nostro essere con-morti e con-risorti con Cristo per mezzo del battesimo, in cui siamo stati permeati ed assimilati a lui nella sua morte e risurrezione (vv.3-5), ora Paolo passa, in un certo qual modo, all'applicazione pratica dell'elaborazione di questo enunciato. Cosa significa, infatti, per il credente essere con-morto e con-risorto con e in Cristo? Che cosa implica, di fatto, per lui?
Il v.6 inizia con l'espressione “sapendo questo”, che suona come una sorta di esortazione a porre attenzione a “questo”, cioè a quanto ora Paolo si appresta a dire. Il “con-morti con Cristo” significa che l'uomo vecchio che vive in noi e che si radica e trova il suo alimento nel nostro corpo di carne despiritualizzata e, quindi, di peccato, in quanto priva della gloria di Dio (3,23), cioè dello Spirito Santo, che definisce lo stato e la condizione della Vita divina, con cui eravamo stati configurati nei primordi dell'umanità, questo uomo vecchio è stato crocifisso con Cristo in virtù del nostro battesimo, che ci ha assimilati al suo patire e al suo morire. L'espressione “uomo vecchio”, che caratterizza il linguaggio paolino e che si ritrova anche in Ef 4,22 e Col 3,9 o sotto diversa forma di “lievito vecchio” in 1Cor 5,7.8 e di “regime vecchio della lettera” in Rm 7,6, designa figurativamente un certo modo di vivere che è in netta dissonanza con le logiche dello Spirito e si muove con logiche che sono contrarie a quelle dello Spirito. Queste si radicano nella carne, il corpo del peccato, in quanto carne despiritualizzata, che alimenta, proprio perché despiritualizzata, desideri contrari allo Spirito, al quale, proprio a motivo del peccato despiritualizzante, non apparteniamo più. Concetti questi che Paolo riprenderà, approfondendoli, in 8,5-14.
Il senso e la finalità di questa con-crocifissione dell'uomo vecchio a Cristo è quello di rendere “inefficace il corpo del peccato”. Un'espressione quest'ultima che equivale a quella di “uomo vecchio”, ma qui inteso come fonte ed alimentazione del peccato, che Paolo materializza in qualche modo nella nostra corporeità carnale. L'inefficacia del “corpo del peccato”, cioè la nostra carnalità, fonte di fragilità e di peccato, non potrà mai, comunque, essere resa tale, cioè inefficace, fintantoché non verrà annientata realmente dalla morte. Lo dirà anche Paolo al successivo v.7: “chi, infatti, è morto è difeso dal peccato”. Solo la morte fisica, pertanto, potrà porre fine agli influssi negativi della nostra corporeità despiritualizzata, cioè priva della gloria di Dio (3,23), sul nostro modo di vivere. Perché, dunque, Paolo attesta che l'essere con-crocifissi con Cristo rende inefficace l'azione del peccato su di noi? Non si tratta di una neutralizzazione delle forze della carne così da esserne totalmente insensibili ed esenti, ma di un nuovo stato di vita, di cui dobbiamo prendere coscienza per conformarci lentamente a questo. Tutto si muove a livello spirituale e le realtà in cui siamo immersi sono spirituali, ma non per questo meno reali e meno vere. La rivelazione di queste realtà ci apre a nuove prospettive e a nuovi orizzonti di vita, che sappiamo esserci, anche se non fisicamente constatabili. E sono proprio queste nuove realtà percepite per mezzo della fede e conosciute per mezzo della rivelazione, che ci sottraggono dal “servire al peccato”, cioè dall'orientare i nostri interessi e la nostra vita verso il regno del peccato, che è regno di morte; nei confronti della realtà peccato, che trova il suo alimento nella carne despiritualizzata, quindi fragile e resa cieca e insensibile alle realtà divine, caratterizzate invece dallo Spirito, dalle quali proveniamo e nelle quali eravamo.
Conclude,
pertanto, Paolo, che il nostro con-morire con Cristo alla realtà di
peccato e di morte, generata dalla colpa originale, che ci ha privati
della gloria di Dio, di cui eravamo originariamente rivestiti (Sal
8,5), diviene garanzia di vivere con lui. Anche qui il verbo, che ho
tradotto con “vivere con lui”, Paolo lo rende in modo molto più
intenso con “suz»somen
aÙtù” (sizésomen
autô),
dove quel “su”
sta per “sun”
(sin), cioè “con”. Quindi letteralmente “con-vivremo con lui”,
lasciando trasparire una volta di più la profonda comunione di morte
e di vita che lega il credente a Cristo, così che non è più lui
che vive, ma è Cristo che vive in lui, anzi che lo vive nella sua
morte e nella sua risurrezione, che è nuova vita in Dio. Una
risurrezione che apre ad una nuova vita, sottratta alla morte, poiché
è vita nello Spirito e dello Spirito, dove la morte, legata alla
carnalità despiritualizzata ad opera del peccato, non ha più
potere. Una morte al peccato, dunque, che ha come contropartita la
risurrezione, e che richiede un continuo passaggio da morte a vita,
che rende la vita del credente essenzialmente una vita pasquale e che
la liturgia eucaristica ha sintetizzato nella formula di fede, che ci
ricorda questa nostra condizione di vita, escatologicamente
caratterizzata, cioè protesa verso l'eternità di Dio: “Annunciamo,
Signore, la tua morte; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa
della tua venuta”.
La
conclusione: considerarsi morti al peccato e viventi per Dio
(vv.9-14)
La pericope vv.9-14 è inclusa sia dall'identico verbo “spadroneggiare”, che troviamo in 9b e 14a, sia dalle due espressioni tra loro complementari: “la morte non spadroneggia più su di lui” (v.9b) e “l peccato, infatti, non spadroneggerà (più su di) voi”, dove “morte e peccato” per Paolo sono sinonimi, poiché l'uno è causa dell'altra (5,12-14).
La sua struttura è scandita in due parti: nei primi tre versetti, 9-11, Paolo crea una sorta di sillogismo, dove Cristo costituisce il parametro di raffronto per il credente: come Cristo risorto dai morti è per sempre morto al peccato e vivente per Dio, così anche il credente deve considerarsi morto al peccato e vivente per Dio. Una tale assimilazione del credente a Cristo è stata resa possibile dopo che nella precedente pericope (vv.3-8) Paolo ha evidenziato come a motivo del battesimo noi siamo stati non solo associati alla morte e risurrezione di Cristo, ma anche a lui assimilati, così che egli in lui, morto-risorto e vivente per Dio, ci vive tutti. Di conseguenza il credente deve camminare in novità di vita (v.4).
Con la seconda parte della pericope (vv.12-14), Paolo trae le conclusioni e passa ad una applicazione del principio secondo il quale il nostro nuovo stato di vita, che ci vede morti al peccato e inseriti in un nuovo contesto di vita, spinga il nostro comportamento a conformarsi alle realtà spirituali che già vivono in noi e che ci derivano dalla nostra conformazione al Cristo morto-risorto e vivente per Dio, avvenuta nel battesimo (v.3).
Il v.9, dunque, apre una nuova finestra di riflessione dottrinale con quel “sapendo che Cristo”, la terza, dopo i vv.3.6, ma non l'ultima, poiché con il v.16 vi sarà un'altra riflessione, che riprenderà il v.6c. Ciò che i credenti devono sapere, in quanto battezzati, è che Cristo è risorto, la quale cosa lo ha introdotto e collocato definitivamente nella vita immortale di Dio, per cui è stato sottratto per sempre alle leggi della storia, della carne, del peccato e della morte, così che viene a trovarsi in uno stato di vita che lo pone come il “Vivente”: “Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi” (Ap 1,17c-18). Un vivere definitivamente orientato a Dio e per Dio, poiché, ora, ne condivide la Vita eterna, che per sua natura è divina. Paolo, dunque, presenta ai credenti l'icona di un Cristo morto-risorto e vivente per Dio, un parametro su cui essi sono chiamati a riparametrare la propria esistenza, in quanto, per virtù del battesimo, essi sono assimilati a tale Cristo.
Se il v.11 costituisce il presupposto, i successivi vv.12-14 ne sono l'applicazione pratica. Il v.12, infatti, si apre con un “pertanto” (oân, ûn), una congiunzione che agganciandosi al v.11 lo porta a compimento sotto due forme: la prima negativa (vv.12-13a), la seconda positiva (v.13b). Al centro di tutto c'è il “corpo mortale”, che, in quanto “mortale”, lascia intendere come esso sia il frutto del peccato, che lo ha spogliato, despiritualizzandolo, della sua somiglianza con Dio (Gen 2,7; 3,7a). Un corpo, dunque, in cui sono radicate e alimentate le passioni, che gli sono proprie per sua natura, le quali tendono ad assoggettare l'uomo, che di questo corpo fa parte integrante e imprescindibile, così da ridurlo ad una mera corporeità, che lo spinge ad organizzarsi secondo le logiche proprie della corporeità e della sua materialità, quelle carnali, divenendo, nel suo esprimersi e nel suo vivere, strumento di “ingiustizia”. Questa non va intesa in senso giuridico, ma spirituale e morale, cioè di un modo di vivere in dissonanza con Dio e con il mondo dello Spirito e di quei valori che lo riflettono, quali l'amore, la bontà, la generosità, la speranza, la fede, che aprono l'uomo a nuovi orizzonti, prospettandogli e lasciandogli tralucere quel mondo che ha drammaticamente lasciato nei primordi dell'umanità (Gen 3,16-24). Da qui l'esortazione, al positivo, ad assoggettare “voi stessi a Dio, come viventi (risuscitati) dai morti e le vostre membra strumenti di giustizia a Dio”. In altri termini, Paolo esorta il credente a riorientare la propria corporeità dalle passioni, che lo umiliano e lo degradano, votandolo al fallimento, a quel mondo da cui proviene, trasformando il proprio corpo e la corporeità del mondo, in cui necessariamente si muove e vive in un atto di culto e di offerta a Dio gradita (12,1).
Così che il peccato, che si alimenta nella carne despiritualizzata e delle sue passioni non abbia più a spadroneggiare sul credente. Si noti come Paolo non dice che il peccato venga annullato o distrutto, poiché esso fa parte della natura umana, che è natura di peccato in quanto despiritualizzata, ma la sua azione distruttiva e annichilente non abbia la meglio sull'uomo, togliendogli ogni orizzonte di speranza.
Il
v.14, dopo aver esortato il credente a non lasciarsi dominare dal
peccato, termina in modo inatteso: “infatti
non siete sotto (la) Legge, ma sotto (la) grazia”.
La conclusione doveva essere: “infatti non siete sotto il peccato,
ma sotto la grazia”. Tuttavia Paolo preferisce introdurre, qui, un
elemento nuovo, la Legge, che in qualche modo ha a che vedere con il
peccato, in quanto che la sua funzione è quello di metterlo in
evidenza, denunciando lo stato di peccaminosità in cui vive l'uomo
(7,7-11). Il v.14b, pertanto, nel fungere da aggancio alla seconda
sezione del cap.6 (vv.15-21), prepara il lettore al cap.7,
interamente dedicato alla Legge, di cui si sottolineerà non tanto
l'elemento salvifico, impossibile da ottenere per la fragilità
congenita dell'uomo, benché la Legge, in quanto espressione della
volontà di Dio, lo prospetti e lo indichi all'uomo (7,12), quanto
piuttosto, proprio a motivo della fragilità umana, diventerà
elemento di condanna, che farà esclamare Paolo: “Un uomo misero
(sono) io! Chi mi libererà da questo corpo di morte?” (7,24).
Dall'economia del
peccato a quella della grazia (6,15-23)
Testo a lettura
facilitata
Introduzione al tema (vv.15-16)
15-
Che dunque? Peccheremo perché non siamo sotto la Legge, ma sotto la
grazia? Non sia mai!
16-
Non sapete che a chi assoggettate (voi) stessi (quali) servi in
obbedienza, siete servi (di colui) al quale obbedite: o del peccato
per (la) morte o dell'obbedienza per la giustizia?
Dall'economia del peccato a quella della grazia per l'ascolto accogliente del Vangelo (vv.17-18)
17-
Ma gratitudine a Dio, poiché eravate servi del peccato, ma obbediste
dal cuore a quel abbozzo d'insegnamento (al quale) siete stati
affidati,
18-
liberati dal peccato siete stati asserviti alla giustizia.
Una considerazione sul passato di peccato ed una sul presente di santificazione (v.19)
19- Parlo da uomo per la debolezza della vostra carne. Come, infatti, sottoponeste le vostre membra serve all'impurità e all'iniquità per l'empietà, così ora sottoponete le vostre membra serve alla giustizia per (la) santificazione.
I frutti del peccato e quelli della grazia e le diverse ricompense (vv.20-23)
20-
Quando eravate servi del peccato, eravate liberi (con riguardo) alla
giustizia.
21-
Quale frutto, dunque, avevate in quel tempo? (Cose) per le quali ora
vi vergognate, il cui esito, infatti, (è) la morte.
22-
Ma ora, liberati dal peccato (e) assoggettati a Dio, avete il vostro
frutto per (la) santificazione, ma l'esito (è) la vita eterna.
23-
Le mercedi del peccato (sono) (la) morte, ma il dono di Dio (è) la
vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore.
Note generali
I vv.13-14, nel concludere la prima sezione del cap.6, esortavano i credenti a non assoggettare le proprie membra al peccato, ma a Dio, divenendo strumenti di giustizia. Porsi, dunque, a servizio di Dio e non del peccato, che è alimentato dalla Legge, ma dalla quale, in virtù della grazia, siamo stati liberati.
Ora questa seconda sezione del cap.6 (vv.15-23) riprende il tema dei vv.13-14 e l'approfondisce. Lo fa ripercorrendo il cammino di conversione dei membri della comunità credente di Roma, che sono passati da una vita di peccato e di morte, in cui commettevano cose vergognose, ad uno stato di vita di giustizia e di santità, avendo aderito esistenzialmente all'annuncio del Vangelo. Una riflessione, quindi, che mette a confronto due tipi di economie, quella del peccato, la cui esperienza viene sintetizzata al v.19b, dove si parla del proprio mettersi a servizio dell'impurità, dell'iniquità e dell'empietà, da cui sono sgorgate cose di cui vergognarsi; e quella della grazia, di cui si fa parte con l'assoggettarsi a Dio, la fonte di ogni bene, che li ha santificati, introducendoli nella vita eterna.
Questa seconda sezione del cap.6 è inclusa dai vv.16.23 sia per l'identica tematica della ricompensa del peccato e della grazia, che qui viene trattata; sia per gli stessi termini che vi ricorrono: “peccato” e “morte” e, in qualche modo, per le sostanzialmente identiche espressione che vi ricorrono, se non esattamente nella loro costruzione certamente identiche nel loro senso: “o del peccato per (la) morte o dell'obbedienza per la giustizia” (v.16) e “Le mercedi del peccato (sono) (la) morte, ma il dono di Dio (è) la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore” (v.23).
Quanto
alla struttura di questa sezione, essa si snoda in quattro parti:
Introduzione al tema (vv.15-16);
Dall'economia del peccato a quella della grazia per l'ascolto accogliente del Vangelo (vv.17-18);
Una considerazione sul passato di peccato ed una sul presente di santificazione (v.19);
I frutti del peccato e quelli della grazia e le diverse ricompense (vv.20-23);
Commento
ai vv.15-23
Introduzione
al tema (vv.15-16)
Il v.14, che concludeva la prima sezione di questo cap.6, attestava che il peccato non l'avrebbe più fatta da padrone nella vita del credente, poiché questi non era più sotto la Legge. Una simile attestazione avrebbe potuto provocare presso i detrattori di Paolo l'obiezione che non essendo più sotto la tutela Legge, che rileva e condanna il peccato in ogni sua forma e la condotta peccaminosa in genere, allora si è tornati finalmente liberi di peccare, non essendoci più chi lo rileva e ci accusa. Paolo respinge questa tesi perversa, quanto lo era quella prospettata al v.1, con un categorico e anatemico “Non sia mai!”.
Formulata e respinta la possibile tesi degli avversari (v.15), Paolo passa, con il v.16, ad impostare il tema, oggetto di questa seconda sezione del cap.6, tesa a confutare la perversità della tesi e lo fa richiamandosi, anche qui, alla catechesi battesimale con quel retorico “Non sapete che”, lasciando intendere che dovrebbero saperlo in quanto credenti e battezzati. E ciò che la comunità di Roma dovrebbe sapere è che chi si pone a servizio di un padrone ne diviene servo o schiavo e ne deve eseguire sempre e comunque la volontà. Ma qui la posta in gioco è ben più alta, poiché i padroni che si parano davanti ai credenti in Roma non sono delle persone, da cui si può anche fuggire o in qualche modo eludere, ma scelte esistenziali, più o meno coscienti, che assoggettano il proprio modo di vivere e la propria vita al peccato o all'obbedienza, dove per obbedienza si intende il conformarsi alla volontà di Dio rivelata nel Vangelo22, come lascia intendere anche 2Cor 9,13: “A causa della bella prova di questo servizio essi ringrazieranno Dio per la vostra obbedienza e accettazione del vangelo di Cristo”, un'espressione, quest'ultima, che può leggersi come endiadi “la vostra obbedienza che è accettazione del vangelo di Cristo”. Un'obbedienza che lascia intendere come prima di questa l'uomo fosse stato un ribelle a Dio; una ribellione che si esprimeva e si esprime nel peccato. Obbedienza, pertanto, significa ricondurre l'uomo ribelle a Dio per mezzo della fede nel Vangelo.
Le
conseguenze di questa scelta esistenziale, che pone gli uomini di
fronte al male, che si manifesta nel peccato, o al bene che si rivela
assoggettandosi a Dio, non sono indifferenti, poiché il peccato
conduce alla morte ed ha come ricompensa la morte e quindi la
negazione dell'uomo; mentre l'assoggettarsi a Dio, accogliendo nella
propria vita il Vangelo e conformandola ad esso, ha come effetto la
giustificazione e, quindi, la salvezza, cioè la piena affermazione
dell'uomo, rientrato in tal modo nella dimensione divina, da cui era
drammaticamente uscito per la sua primordiale ribellione a Dio.
Dall'economia
del peccato a quella della grazia per l'ascolto accogliente del
Vangelo (vv.17-18)
Ed
è così che Paolo fa il suo spontaneo rendimento di grazie,
mostrandosi pieno di gratitudine a Dio per la scelta esistenziale che
i credenti in Roma hanno fatto, rinunciando al loro asservimento al
peccato, rappresentato da un mondo pieno di inutili e vacui idoli e
un modo di vivere, come ricorderà al v.19, pieno di impurità, di
iniquità e di empietà, banalizzando la loro vita in vacuità. Un
modo di vivere al quale hanno saputo dare una sterzata con una intima
e profonda conversione interiore, proveniente “dal cuore”,
sottolineando in tal modo la spontanea e personale apertura “a quel
abbozzo d'insegnamento (al quale) siete stati affidati”.
Significativa l'espressione “tÚpon
didacÁj” (típon
didachês,
abbozzo d'insegnamento),
che dice come l'annuncio del Vangelo non fosse fatto con un
linguaggio ricco e fiorito e con abilità oratoria, atta ad
ammagliare e talvolta ad ingannare l'ascoltatore. Ma l'annuncio
portato a Roma, quasi certamente da giudeocristiani giudaizzanti,
doveva essere essenziale e stringato, una sorta di kerigma, cioè un
primitivo annuncio di eventi storici accaduti a cui veniva attribuito
un significato salvifico. Esempi di tal genere si trovano anche negli
Atti degli Apostoli. Non, dunque, eloquenti e sofisticate
elaborazioni teologiche, ma semplici eventi di salvezza, a cui
aderire esistenzialmente e lasciar risuonare nel proprio cuore e che
aprivano ad una nuova prospettiva di vita e ad una sua nuova
comprensione. Un annuncio in cui il credente ritrovava il senso del
suo vivere. Uno stile di annuncio che lo stesso Paolo espone in 1Cor
1,17-24 e in 2,1-2 e che doveva comunque rispecchiare non soltanto
una sua scelta personale, ma, in qualche modo, anche quella dei
predicatori itineranti. Non erano le chiacchiere che ammagliavano la
gente, ma l'essenzialità dell'evento annunciato, da cui traspariva
un messaggio ed una proposta di vita nuova e un nuovo senso di vita.
Soltanto in un secondo tempo, attraverso un cammino catecumenale,
veniva approfondito il Mistero della fede, a cui i credenti avevano
aderito con quel primo “abbozzo d'insegnamento”, al quale, si
noti bene, “siete stati affidati”, lasciando intendere come fosse
quel “abbozzo d'insegnamento” ad operare la loro conversione e
che Paolo in 1,16 e similmente in 1Cor 1,18 definisce quale “potenza
di Dio”. In tal modo questi credenti compirono il loro passaggio:
dal peccato alla giustizia, cioè alla santità stessa di Dio, alla
quale erano chiamati a conformare la propria vita. Giustizia che
aveva come esito primo in loro quello della giustificazione, cioè il
perdono dei peccati e l'immissione del credente nella Vita stessa di
di Dio, che è per sua natura Vita di santità, che opera la
santificazione, cioè l'assimilazione del credente a Dio stesso.
Una
considerazione sul passato di peccato ed una sul presente di
santificazione (v.19)
Nella
sua intensa riflessione sul rapporto di peccato-grazia e
peccato-Legge, non sempre facilmente accessibile ad una platea, come
quella di Roma, catechizzata da giudeocristiani, probabilmente
giudaizzanti e quindi ben lontani dal linguaggio e dal pensiero
paolino, Paolo, in 19a, fa un breve inciso, scusandosi per il
linguaggio così pedestre usato per parlare del loro passaggio
dall'economia del peccato a quella della grazia, usando espressioni
figurative come “assoggettarsi”, “servire”, “servi”
“obbedienza”, “sottoporre le proprie membra” e, più oltre,
nel cap.7, parlando per immagini concrete e appellandosi
all'esperienza propria di ciascuno, per poter rendere accessibile
alla comunità credente di Roma il suo pensiero. Un linguaggio che,
nel suo insieme, sa di costrizione e che ha a che fare più con la
schiavitù, molto florida in quel tempo in Roma, che con l'autentica
libertà dei figli di Dio. Paolo giustifica questo suo linguaggio
“per la debolezza della vostra carne”. In altri termini, perché
la comunità di Roma, pur essendo una comunità credente molto
importante, in quanto imperiale e probabilmente molto influente sulle
altre comunità dell'impero (1,8b), quasi certamente benestante,
tuttavia non ha raggiunto un livello di conoscenza di fede che possa
supportare le verità del linguaggio paolino, per cui Paolo cerca di
adeguarsi alle loro conoscenze, parlando, qui, di “assoggettamento
delle proprie membra”, che sa molto di schiavitù e di
prostituzione, prima con riguardo ad un modo di vivere peccaminoso;
ora in riferimento a “membra”, cioè a persone, che si sono
sottoposte anche con il proprio corpo e, quindi, impegnate nel
servire con la propria vita la giustizia, finalizzata alla
santificazione, cioè all'attrazione del credente nella Vita stessa
di Dio, alla quale è chiamato a conformarsi nel proprio modo di
vivere.
I
frutti del peccato e quelli della grazia e le diverse ricompense
(vv.20-23)
Il
v.19 parlava di due tempi in cui hanno vissuto i credenti della
comunità di Roma, quello prima della conversione, il tempo del
peccato, che si esplicava attraverso l'impurità, l'iniquità e
l'empietà o idolatria; e quello attuale, il tempo della grazia, in
cui vivono secondo le logiche della giustizia, che li aprono ad una
vita di santificazione. Queste due modalità di vivere hanno delle
conseguenze, che qui Paolo chiama i frutti: quelli del peccato, che
ha generato cose, di cui ora i credenti in Roma, giunti ad una nuova
visione superiore della vita, quella spirituale, si vergognano,
confrontandole inconsciamente con la bellezza e la santità di quelle
cose che hanno conosciuto e sperimentato, accogliendo il Vangelo; e
quelle della grazia, che portano frutti di santificazione. In
entrambi i casi l'esito finale era, per il peccato, la morte; quello
della grazia, la vita eterna, che è la stessa Vita di Dio.
Ogni cosa, lascia qui intuire Paolo, al v.23, posto a conclusione di questa densa sezione, sia nel bene che nel male, porta con se una propria ricompensa, che non è indifferente per chi la compie, perché questa può lentamente costruire in lui una vita che lo condurrà alla morte e, quindi, alla negazione di quella vita, che, invece, egli cercava nel soddisfacimento delle proprie passioni; mentre l'assoggettarsi a Dio, cioè l'entrare nelle logiche dell'economia della grazia, consentirà al credente la realizzazione in pienezza della propria vita, ottenendo in dono, si noti bene non più in ricompensa come per il peccato, ma dono, la vita eterna, a cui si accede in “Cristo Gesù nostro Signore”, che suona come una sorta di formula di fede e di invocazione finale benedicente sulla comunità credente di Roma, che ha potuto meditare in questa seconda sezione del cap.6 la loro storia di salvezza: dal peccato alla grazia, che si è fatta dono del Padre in “Cristo Gesù nostro Signore”.
Il rapporto tra Legge
e credente e tra Legge e peccato (7,1-25)
Testo a lettura
facilitata
Introduzione e ripresa tematica di 6,14b: il credente non è più sotto la Legge (v.1)
1- O ignorate, fratelli, parlo a gente che conosce la legge, che la legge è padrona dell'uomo per quanto (è) il tempo che vive?
Esemplificazione del v.1 (vv.2-3)
2-
La donna sposata, infatti, è legata per legge al marito mentre
(questi) vive, ma qualora il marito muoia è sciolta dalla legge del
marito.
3-
Così, dunque, vivente il marito, sarà chiamata adultera, qualora
sia stata con un altro uomo; ma qualora il marito muoia, è libera
dalla legge, (così da) non essere, essa, adultera, andando con un
altro uomo.
Applicazione dell'esemplificazione sulla vita del credente (v.4)
4- Così, fratelli miei, anche voi siete morti alla Legge per mezzo del corpo di Cristo, per essere voi di un altro, di colui che fu risuscitato dai morti, affinché portiamo frutti per Dio.
Considerazioni sulla nostra condizione di vita prima ed ora (vv.5-6)
5-
Quando, infatti, eravamo nella carne, le passioni dei peccati
operavano per mezzo della Legge nelle nostre membra, per fruttificare
per la morte;
6-
ma ora siamo sciolti dalla Legge, essendo morti in ciò in cui
eravamo trattenuti, così da servire in novità di spirito e non in
vecchiezza della lettera.
Il rapporto tra Legge e peccato (vv.7-12)
7-
Che diremo dunque? La Legge (è) peccato? Non sia mai! Ma (io) non ho
conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge; infatti non avrei
conosciuto il desiderio, se la Legge non avesse detto: “Non
desiderare”.
8-
Ma il peccato, avendo preso occasione per mezzo del comandamento, ha
prodotto in me ogni desiderio; infatti, senza (la) Legge il peccato
(è) morto.
9-
Ma io una volta vivevo senza (la) Legge, ma giunto il comandamento,
il peccato prese vita,
10-
(e) io sono morto e si scoprì (che) per me il comandamento (che era)
per la vita, questo (divenne) per la morte.
11-
Infatti, il peccato, che ha preso occasione per mezzo del
comandamento, mi ha ingannato e per mezzo di questo (mi) ha ucciso.
12-
Così che la Legge (è) santa e il comandamento santo e giusto e
buono.
La drammatica e conflittuale condizione di vita del credente messa in rilievo dalla Legge (vv.13-25)
13-
Pertanto ciò che (è) buono è diventato morte per me? Non sia mai!
Ma il peccato, affinché appaia peccato, per mezzo del buono mi
procura (la) morte, affinché il peccato per mezzo del comandamento
diventi nel maggior grado peccaminoso.
14-
Sappiamo, infatti, che la Legge è spirituale, ma io sono carnale,
venduto sotto il peccato.
15-
Poiché non capisco ciò che compio; infatti non faccio ciò che
voglio, ma ciò che detesto, questo faccio.
16-
Ma se ciò che non voglio, questo faccio, riconosco che la Legge è
buona.
17-
Ma ora non più io opero questo, ma il peccato che abita in me.
18-
Infatti, so che in me, ciò che è nella mia carne, non abita il
bene; infatti, volere (il bene) sta presso di me, ma l'operare il
bene no;
19-
infatti, non ciò che voglio, il bene, faccio, ma ciò che non
voglio, il male, questo compio.
20-
Ma se ciò che non voglio [io] questo faccio, non lo compio più io,
ma il peccato che abita in me.
21-
Trovo, dunque, questa legge presso di me, che voglio fare il bene,
(ma) che presso di me sta il male.
22-
Mi compiaccio, infatti, con la Legge di Dio, secondo l'uomo
interiore,
23-
ma vedo nelle mie membra un'altra legge, che muove guerra alla legge
della mia mente e che mi rende schiavo alla legge del peccato, che è
nelle mie membra.
24-
Un uomo misero (sono) io! Chi mi libererà da questo corpo di morte?25-
Gratitudine a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore. Così,
dunque, io stesso servo con la mente alla legge di Dio, ma con la
carne alla legge del peccato.
Note
generali
In 6,14b Paolo attestava che “non siete sotto (la) Legge, ma sotto (la) grazia”, attardandosi, però, a parlare dell'economia del peccato e di quella della grazia e del passaggio del credente da un'economia all'altra, ma senza precisare che cosa significasse “non essere più sotto la Legge” e che cosa questo comportasse e in quale rapporto la Legge stesse con il peccato e la grazia e in quale modo non si era più sotto la Legge. In breve, enunciato il principio, poi, si è passati ad altro argomento, quello dell'essere assoggettati e del servire. Un argomento, tuttavia, che non era fuori luogo, ma preparativo a questo cap.7, dove Paolo riprendendo il tema lasciato in sospeso in 6,14b, spiegherà cosa significa non essere più sotto la Legge. E lo farà con immagini tratte dall'esperienza comune, preannunciate in qualche modo in 6,19a, dove avvertiva i suoi ascoltatori del linguaggio semplice che stava usando per farsi comprendere, a motivo della mentalità concreta e pragmatica che caratterizzava i Romani, non molto addentro ai sofismi del mondo greco.
Paolo riserva alla questione della Legge e al suo rapporto con il peccato e la grazia l'intero cap.7. Il motivo di tanta attenzione è dovuto al fatto che Paolo sa che quella comunità credente di Roma non è stata fondata da lui, ma da giudeocristiani giudaizzanti, che ancora non avevano superato il loro stretto legame con la Legge mosaica, tendendo a subordinare la novità dell'evento Cristo e del suo messaggio a Mosè. Quindi, quasi certamente, anche la comunità di Roma era tendenzialmente giudaizzante. Da qui il tentativo di questo cap.7 di far capire ai credenti in Roma come non si è più sotto l'economia del peccato e, di conseguenza, neanche più sotto quella della Legge, che, come spiegherà in questo capitolo, ha una stretta e diretta attinenza con il peccato.
Passo dopo passo, Paolo sta conducendo lentamente i suoi lettori verso il cap.8, che costituisce il vertice di questa prima ed ampia sezione dottrinale (1,16-8,39), dove apparirà chiaramente in che cosa consista l'economia della grazia, caratterizzata dalla presenza dello Spirito Santo e dalla conformazione della propria vita alle sue esigenze, che sono diametralmente opposte ai desideri della carne (8,6-7), invitando in 13,14 a rivestirsi di Cristo, così da non seguire più tali desideri.
Strutturalmente il
cap.7 può essere suddiviso in sei parti, come di seguito proposto:
Introduzione e ripresa tematica di 6,14b: il credente non è più sotto la Legge (v.1):
Esemplificazione del v.1 (vv.2-3);
Applicazione dell'esemplificazione nella vita del credente (v.4);
Considerazioni sulla nostra condizione di vita prima ed ora (vv.5-6);
Il rapporto tra Legge e peccato (vv.7-12);
La drammatica e conflittuale condizione di vita del credente messa in rilievo dalla Legge (vv.13-25);
Commento
ai vv. 1-25
Introduzione e
ripresa tematica di 6,14b: il credente non è più sotto la Legge
(v.1)
Con la solita domanda retorica, che caratterizza l'introduzione di una nuova argomentazione nelle sue lettere, Paolo riprende ora il tema che aveva enunciato al v.6,14b, ma poi lasciato in sospeso, cioè la fine dell'egemonia della Legge sul credente.
Si rivolge qui alla
comunità di Roma, formata da persone che conoscono la legge, esperte
di diritto. La legge di cui si parla in questo v.1 non riguarda
quella mosaica, ma la comune legge che regola il diritto civile e
penale, proprio di ogni popolo. Lo si arguisce sia dal fatto che i
Romani erano cultori del diritto, da qui l'elogio di Paolo che li
definisce come “gente che conosce la legge”; sia dal fatto che
questa legge “è padrona dell'uomo per quanto (è) il tempo che
vive”, definendo la condizione dell'uomo che vive in una società
civile, regolata da norme; e sia anche dall'esemplificazione
riportata ai vv.2-3, che riguarda il tema della fedeltà coniugale,
che non è caratteristica della Legge mosaica, ma riguarda la
generalità delle leggi proprie di qualsiasi nazione civile.
L'infedeltà coniugale viene sempre sanzionata ovunque, sia pur con
criteri diversi tra società civili. Su tale esemplificazione
(vv.2-3), Paolo trarrà poi le sue conclusioni, trasfondendole sulla
condizione di vita del nuovo credente (v.4)
Esemplificazione
del v.1 (vv.2-3)
Enunciato il principio circa il fatto che l'uomo, finché vive
all'interno di una qualsiasi società umana, che regolamenta i
rapporti tra persone, è soggetto alle leggi vita natural durante,
Paolo con i vv.2-3 incentra, ora, l'attenzione della comunità di
Roma sulla fedeltà dei coniugi all'interno del matrimonio, con
riguardo, qui, alla sola donna, in genere la più sanzionata in caso
di adulterio. Ma qui a Paolo non interessa il tema della fedeltà
coniugale, ma il vincolo che legava la donna al marito, vincolo
sancito dalla legge, così che il suo comportamento poteva essere
classificato come adultero, qualora essa si relazionasse con un altro
uomo, vivente il marito; oppure considerasse lecito tale rapporto,
morto il marito. La morte del marito, pertanto, scioglieva la donna
da ogni vincolo e da ogni dovere nei suoi confronti. Ciò che a Paolo
qui interessa mettere in evidenza è come la morte sottrae l'uomo dai
vincoli della Legge, rendendolo, di fatto, libero dalla stessa. Ma
come vedremo subito al v.4, non libero in assoluto, poiché ogni
libertà umana, per sua natura, è sempre relativa e sempre in
funzione di qualcosa, che la deve indirizzare così da essere spesa
proficuamente, altrimenti diventa distruttiva per l'uomo.
Applicazione
dell'esemplificazione sulla vita del credente
(v.4)
Se i vv.2-3 fungevano da parametro di raffronto, un semplice ragionamento mutuato dall'esperienza umana , per rendere più comprensibili le cose ad un livello superiore (6,19a), quello spirituale, il v.4 ne costituisce la conclusione o, per meglio dire, l'applicazione pratica, qui trasposta ad un livello ontologico-spirituale e non più storico-giuridico. Il versetto si apre con l'avverbio “Così” (éste, óste), da cui dipende l'intero versetto e che fa comprendere come qui si è di fronte all'applicazione di quanto esemplificato ai vv.2-3.
La prima attestazione è che “anche voi siete morti alla Legge”, la quale cosa comporta lo scioglimento di un vincolo di soggezione. Si noti come qui non si dice che è la Legge ad essere morta, ma “voi”, quelli, cioè, che erano vincolati alla Legge. La Legge, pertanto, continua i suoi effetti sui “superstiti”, cioè coloro che sono legati e subordinati alla Legge, i Giudei. Ma “voi” siete morti a questo tipo di regime. La sottolineatura per Paolo si è resa necessaria per la comunità di Roma, perché fondata da giudeocristiani, quasi certamente giudaizzanti e, pertanto, ancora legati alle disposizioni mosaiche. Un'impostazione, che certamente era stata trasfusa pari pari anche ai credenti di Roma. Paolo, pertanto, sente la necessità di sottolineare come essi, in quanto credenti in Cristo, sono morti alla Legge, cioè non hanno più nulla a che vedere con la Legge mosaica.
In quale modo essi siano morti alla Legge viene indicato di seguito in quel “per mezzo del corpo di Cristo”. Il corpo di cui qui Paolo parla è un corpo che è morto e risorto, ma altresì è un corpo in cui i credenti sono stati associati e assimilati per mezzo del battesimo (6,3-6), così da formare una cosa sola con il Risorto. Cristo, infatti, è morto nel suo corpo crocifisso e, a motivo della sua morte, è stato sottratto alle pretese della Legge, che ha dominato su di lui fino all'ultimo respiro, anzi, proprio a causa della Legge egli fu condannato a morte (Gv 19,7). Ma una volta morto, la Legge non aveva più alcun potere su di lui, né lui, in quanto giudeo circonciso, aveva più alcun obbligo nei confronti della Legge, poiché le leggi valgono per i vivi, non certo per i morti. Ma questo Cristo morto e, in quanto tale, liberato dal potere della Legge, è stato risuscitato dai morti per la potenza dello Spirito Santo (1,4). Ma il suo risuscitare non fu un ritorno alla vita precedente, ma ad una nuova vita, animata e permeata dallo Spirito Santo, dove la Legge non ha più alcun potere. Il Cristo, pertanto, è entrato in una nuova e diversa dimensione, quella dello Spirito. Così parimenti i credenti, assimilati alla sua morte e resi partecipi della sua risurrezione, sono da considerarsi morti alla Legge.
Tuttavia,
lo scioglimento dalla Legge non è avvenuto per accedere ad una
libertà a proprio uso e consumo, ma ciò è avvenuto “per essere
voi di un altro”. Dalla Legge, dunque, ad un altro, a cui
apparteniamo e la cui identità è precisata dalla perifrasi “colui
che fu risuscitato dai morti”, che dice il nuovo stato di vita non
solo di Cristo, ma anche del credente, che a lui è stato assimilato
in virtù della fede e del battesimo. E come, quindi, la Legge non ha
più potere su Cristo, parimenti il credente non appartiene più
all'economia delle Legge, ma a quella dello Spirito. Uno stato di
cose che Paolo in qualche modo aveva prospettato in Gal 4,4-5: “Ma
quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da
donna, nato sotto la legge, per
riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo
l'adozione a figli”.
E similmente qui, l'aver associato il credente alla sua nuova
condizione di vita nello Spirito era finalizzato a “portare frutti
per Dio”, dove quel “frutti per Dio” sta ad indicare una vita
spesa nella novità dello Spirito e in conformità alle sue esigenze,
la quale cosa sottende una evoluzione del credente nella vita stessa
di Dio e verso Dio, così che dal suo modo di vivere traspaia uno
stile di vita nuova, contrassegnata dalle logiche dello Spirito, che
ha desideri e modi di vedere le cose contrari a quelli della carne.
Considerazioni
sulla nostra condizione di vita prima ed ora (vv.5-6)
Queste due contrapposte e inconciliabili posizioni, Spirito-carne e Legge-Spirito, vengono poste ora a confronto ai vv.5-6, in una sorta di revival, riandando ai tempi in cui, giudeocristiani e etnocristiani, non avendo ancora conosciuto Cristo, vivevano “nella carne”. Paolo usa qui la prima persona plurale in quanto che ricomprende non solo i Romani, ma anche lui, giudeo e, come lui, tutti gli altri giudei che si sono convertiti, alla pari dei pagani, all'annuncio del Vangelo. Quel essere “nella carne” dice la condizione primitiva in cui tutti, Giudei e pagani, si trovavano prima dell'incontro con Cristo, così che le passioni che scaturivano da tale condizione di vita, senza alcuna prospettiva di un diverso orizzonte, “operavano nelle nostre membra”, cioè ci dominavano completamente e costituivano la nostra logica di vita. Ma quando si parla di “passioni”, queste non vanno necessariamente intese come pulsioni o desideri sessuali, ma come una qualsiasi passione, che si radica in una logica carnale, fatta di egoismi, violenze, sopraffazioni, odii, ruberie, menzogne e simili, che costituiscono il degrado del vivere umano, privato della dimensione dello Spirito, la quale cosa ci riporta sempre all'origine di quella colpa, che ha visto Adamo ed Eva spogliati della loro somiglianza con Dio, qualificata dal loro essere permeati dallo Spirito, decadendo in tal modo in uno stato angoscioso di dolore, sofferenza e morte. Paolo, infatti, qui, parla di “passioni dei peccati”, cioè passioni che sono generate dai peccati, che hanno la loro radice unica e primaria nella colpa originale, di cui essi sono solo conseguenze e testimonianza.
Queste passioni dei peccati, attesta Paolo, “operavano per mezzo della Legge” in noi. Che cosa significhi questo “operare per mezzo della Legge […] per fruttificare per la morte” verrà spiegato da Paolo nella successiva pericope vv.7-12, così che questo v.5 costituisce in qualche modo l'introduzione al tema successivo. Tuttavia, un breve commento va dedicato a quel “fruttificare per la morte”, che evidenzia come la precedente condizione di vita, vissuta secondo le logiche della carne e dominata dalla presenza della Legge, orientava il vivere dell'uomo verso la morte, cioè verso il suo fallimento umano e spirituale. Quel “fruttificare per la morte” dice di fatto l'incapacità dell'uomo, la cui esistenza è degradata a causa del peccato, di produrre frutti per la Vita eterna, che per sua natura appartiene soltanto a Dio, dalla cui dimensione l'uomo, era drammaticamente uscito nel principio dei tempi.
Quanto al v.6, questo costituisce, da un lato, la controbattuta al v.5; dall'altro, funge da introduzione tematica al successivo cap.8, dove si parlerà della nuova condizione di vita dei credenti, la cui vita si muove, non più sotto l'egida della Legge, ma sotto quella dello Spirito e che per questo si qualificano figli di Dio (8,14).
Con
il v.6, pertanto, Paolo apre sia uno squarcio sul cap.8 che un nuovo
orizzonte, dove si è chiamati a servire Dio “in novità di
spirito”, cioè con un nuovo orientamento spirituale, che deve
trasparire da un nuovo modo di vivere, “essendo
morti in ciò in cui eravamo trattenuti”. E ciò che
ci tratteneva dal vivere liberamente nella dimensione dello Spirito e
in novità di vita, secondo le logiche dello Spirito, era proprio la
Legge, che viene qui vista come un elemento negativo, che blocca la
crescita e l'evoluzione spirituale del credente, legandolo alla
“vecchiezza della le,tera”; espressione quest'ultima che si
contrappone qui alla “novità di spirito”. Vecchio e Nuovo, Legge
e Spirito vengono qui contrapposti da Paolo, evidenziando due
economie inconciliabili tra loro. Quindi quel giudeocristianesimo
giudaizzante, di cui è impregnata quasi certamente la comunità di
Roma, va rivisto alla luce del suo Vangelo (2,16), che Paolo vuol
condivider con loro (1,11).
Il
rapporto tra Legge e peccato (vv.7-12)
Nei vv.5-6 Paolo non aveva parlato della Legge in modo esaltante, avendola definita come fomentatrice di passioni e di peccato (v.5), nonché inciampo nell'evoluzione spirituale del credente, che veniva vincolato alla “vecchiezza della lettera” (v.6). L'idea che ne esce è che la Legge sia un elemento negativo. E questo, Paolo, non poteva permetterselo, rivolgendosi ad una comunità, come quella di Roma, fondata e formata, quasi certamente, sulla base di un giudeocristianesimo giudaizzante, che teneva ancora in grande considerazione la Legge mosaica. Da qui la necessità di precisare il senso di tali dichiarazioni. Compito che viene affidato alla pericope in esame v.7-12, circoscritta dall'inclusione, data per complementarietà tematica, dove, alla questione posta sulla negatività della Legge al v.7a, viene attestata, per contro, la santità della Legge stessa al v.12. Tema della pericope vv.7-12, pertanto, è quello di dimostrare come la Legge in se stessa è santa, così come sante e giuste sono le norme che la compongono.
Come è sua caratteristica, Paolo apre il dibattimento su di una nuova questione attraverso la consueta domanda retorica: “Che diremo dunque? La Legge (è) peccato? Non sia mai!”. Il v.7a apre, pertanto, la questione sulla qualità morale della Legge, agganciandosi a quanto detto ai vv.5-6 con quel “Che diremo dunque?”, dove quel “dunque” funge da conclusione alle premesse negative circa la Legge. Domanda retorica alla quale risponde con il suo abituale imperativo anatemizzante “Non sia mai!”, mettendo fin da subito in chiaro la sua posizione, sottraendosi in tal modo alle possibili critiche dei suoi detrattori o a possibili travisamenti dei suoi ascoltatori. I vv.7b-12 fungeranno da motivazione alla sua tesi e riprenderanno sostanzialmente, sviluppandoli ed approfondendoli, i vv.5,13-14, dove si attestava che il peccato era nel mondo ancor prima che giungesse la Legge, ma non veniva messo in conto al peccatore proprio perché non c'era nessuna Legge che lo mettesse in evidenza e glielo imputasse (5,13); ma nonostante ciò il peccato era presente nel mondo e la prova della sua nefasta presenza era la morte (5,14). Quindi, già in 5,13-14, Paolo lasciava intuire, implicitamente, come il compito della Legge fosse quello di mettere in evidenza il comportamento peccaminoso dell'uomo. Infatti, si dirà qui in 7,7b: “ Ma (io) non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge; infatti non avrei conosciuto il desiderio, se la Legge non avesse detto: “Non desiderare”. Quel “(io) non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge” evidenzia come l'esperienza del peccato, prima ignoto all'uomo, per cui non gli veniva imputato come tale (5,13), è stato portato a livello di coscienza (conosciuto) soltanto attraverso la Legge, la quale comandava di “Non desiderare”, costituendo in tal modo un rigido quanto chiaro parametro di raffronto, su cui l'uomo era chiamato a commisurare, suo malgrado, il suo comportamento, scoprendolo difforme dalla Legge e, pertanto, peccaminoso e passibile di giudizio di condanna.
I
vv.8-9 Paolo li dedica al processo di coscientizzazione del peccato
nell'uomo tramite la Legge, la quale, con i suoi comandamenti, mette
in rilievo, stigmatizzandoli in modo puntiglioso, quei comportamenti
dell'uomo, che storicamente danno forma e vita al peccato. Senza
la Legge, quindi, il peccato è morto (v.8b), ma giunta
la la Legge con i suoi comandamenti, che vanno a scavare nei
singoli comportamenti dell'uomo, denunciandone il degrado, il
peccato prende vita (v.9). Tuttavia, posta nei termini dei
vv.8-9, la questione non sembra ancora risolta, poiché Paolo, di
fatto, attesta che il peccato dipende dalla Legge, così che se
questa non c'è, allora il peccato è morto; ma se c'è, allora il
peccato prende vita. È necessario, a tal punto, comprendere il senso
di queste affermazioni. Paolo non intende dire che la Legge sia la
causa del peccato e, quindi, la Legge sia un male, poiché ciò
contrasterebbe sia con quel “Non sia mai!” (v.7a), sia con la
conclusione “Così che la Legge (è) santa e il comandamento santo
e giusto e buono” (v.12). Tenendo, pertanto, presenti le chiare
intenzioni di Paolo e alla luce di queste, quel “è morto” o
“prese vita” a causa della Legge vanno intesi in riferimento alla
coscienza dell'uomo, che posto di fronte alla Legge, che giudica e
stigmatizza i suoi comportamenti per mezzo dei suoi singoli e
specifici comandamenti, fungendo da parametro di raffronto, viene
illuminato dalla Legge sulla santità o peccaminosità del suo modo
di vivere. La Legge, pertanto, non è causa di peccato, ma denuncia
il peccato che è subdolamente insito nella costituzione stessa
dell'uomo, degradato a causa della colpa originale, essendo divenuto
“carne despiritualizzata” (Gen 2,7; 3,7a), che opera e vive in
lui senza più la presenza di quello Spirito che originariamente lo
permeava e lo compenetrava totalmente e lo aveva reso somigliante a
Dio. Quindi, nel suo drammatico oggi, l'uomo si muove naturalmente
secondo le perverse, degradate e degradanti logiche della carne, che
si contrappongono a quelle dello Spirito (Gal 5,17). E sarà proprio
la Legge a denunciare e a stigmatizzare tale misera condizione di
vita dell'uomo, che con la Legge comprende come dovrebbe essere il
suo modo di vivere, ma nel contempo si rende conto della sua
incapacità di farlo. Questione, questa, che Paolo affronterà ora in
quest'ultima sezione del cap. 7 (vv.14-25). Per questo, concluderà
Paolo “la Legge (è) santa e il comandamento santo e giusto e
buono”, poiché Legge e i suoi comandamenti costituiscono la via
della Vita, in quanto esprimono la volontà di Dio, che detta le
regole della santità (Lv 19,2), ma nel contempo denunciano,
mettendola a nudo, tutta la fragilità dell'uomo. La Legge, dunque,
non è causa di peccato, ma lo svela e lo rivela.
La
drammatica e conflittuale condizione di vita del credente messa in
rilievo dalla Legge (vv.14-25)
Avevo già segnalata qui sopra l'equivocità delle due attestazioni di Paolo circa la Legge nel suo rapporto con il peccato. Paolo se n'è reso conto, ed ecco tornare con un'ulteriore precisazione, posta, com'è sua consuetudine, sotto forma di domanda retorica, che gli serve, oltre che per precisare il senso delle sue attestazioni, anche per approfondirle: “Pertanto ciò che (è) buono è diventato morte per me?”. In altri termini, forse che la Legge è diventata per il credente una fonte di morte, anziché di vita?. La risposta è, come il solito, categorica e anatemizzante: “Non sia mai!”.
Il v.13a rileva, quindi, il possibile problema causato dalle attestazioni dei vv.8-9, ai quali Paolo si aggancia con con la congiunzione conclusiva “Pertanto” (oân, ûn), posta in apertura del v.13a e che chiude, traendone le conseguenze, il loro ragionamento, circa i rapporti tra Legge e peccato; mentre il v.13b dà una prima risposta che funge da tesi, la cui dimostrazione verrà esposta nei successivi vv.14-25.
La tesi impostata dal v.13b è scandita in due parti: la prima attesta che la causa della morte del peccatore non è la Legge, bensì il peccato, che ha strumentalizzato la Legge per infliggere la morte al peccatore. Il peccato, pertanto, passa attraverso la Legge, ma non nel senso che la Legge sia strumento di peccato, bensì perché il peccato, venendo smascherato dalla Legge come tale, produce la morte del peccatore, il quale, anziché respingerlo, per la sua connaturata fragilità esistenziale, causata dalla colpa originale, lo asseconda, subendone le conseguenze di morte. La seconda parte della tesi attesta come la Legge, ben lungi dal favorire il peccato, lo mette in evidenza portandolo interamente allo scoperto, esaltandone in tal modo la peccaminosità, cioè il grado di gravità e, quindi, di pericolosità del peccato, il quale, proprio per la sua carica virale di peccaminosità, infligge la morte all'uomo, che si trova nella condizione di peccatore.
Formulata la tesi (v.13b), Paolo apre, ora, la sua dimostrazione con un enunciato: “Sappiamo, infatti, che la Legge è spirituale, ma io sono carnale, venduto sotto il peccato” (v.14). Quel “Sappiamo”, con cui si apre l'enunciato, assume qui un tono di solennità, lasciando trasparire l'autorevolezza dottrinale di quanto ora si sta dicendo e che vede contrapposte due realtà: da un lato, la Legge, definita spirituale, in quanto che essa proviene da Dio e ne esprime la volontà; dall'altro, l' “io sono carnale”, dove quel “Io”, più che indicare la persona di Paolo, richiama la singolarità di ogni persona, che è chiamata a riconoscersi individualmente e personalmente in quel “Io” quale “essere carnale”, dove il verbo “essere” pone la questione a livello ontologico, indicando in tal modo come questa carnalità coinvolga l'uomo come tale, nella sua interezza, nella sua stessa essenza. Una “carnalità”, che qui viene contrapposta alla “spiritualità” della Legge, poiché la sua origine è divina, così come quella dell'uomo. Ma questi ha perso, a causa della colpa originale, la sua condizione di “vivente” (Gen 2,7), cioè di essere spiritualizzato, permeato e compenetrato dalla Vita stessa di Dio, che lo rendeva simile a Lui. Ma dopo quell'attentato nei confronti di Dio (“diventerete come Dio” - Gen 3,5-7), l'uomo, “carne spiritualizzata”, per questo “essere vivente”, perse la sua somiglianza con Dio, rimanendo soltanto “carne” privata dello Spirito di Dio, che lo aveva reso essere vivente, cioè “carne despiritualizzata” e, in quanto tale, soggetta alla sofferenza, al dolore e alla morte, che sono il frutto e l'espressione del peccato (Gen 3,16-24). Un uomo, quindi, “venduto sotto il peccato”, cioè reso schiavo del peccato e, in qualche modo, privato della sua libertà, in quanto appesantito da una carne corrotta e degradata, che produce soltanto desideri carnali, che si contrappongono a quelli spirituali, qui raffigurati dalla Legge.
Questa, dunque, la drammatica e conflittuale condizione dell'uomo, travolto dal peccato, a motivo della sua condizione umana di essere despiritualizzato e, quindi, non più appartenente alla dimensione divina, ma sottoposto alla volontà schiavizzante del peccato, che trova la sua forza nella carne despiritualizzata dell'uomo decaduto, evidenziandone tutta la sua fragilità, ma nel contempo anche tutta la virulenza del peccato. Da un lato, dunque, la Legge spirituale, che illumina l'uomo; dall'altro, l'uomo despiritualizzato, schiavizzato dal peccato nella sua carnalità, che nella Legge vede il bene, ma, a motivo della sua connaturata fragilità, non è in grado di compierlo (v.23).
Ora
Paolo con i vv.15-25 passa a considerare la disgraziata condizione
esistenziale dell'uomo in balia del peccato, sempre più messo in
evidenza dalla Legge. Peccato e Legge, dunque, contrapposti in una
guerra che ha come campo di battaglia l'uomo stesso. E n palio la sua
salvezza o la sua perdizione. Considerazioni queste che Paolo fa
attraverso tre passaggi:
una constatazione della condizione umana: “non faccio ciò che voglio, ma ciò che detesto” (vv.15-17);
la presa di coscienza dell'interiore conflittualità tra il bene, di cui, grazie alla Legge si è a conoscenza; e il male, che trova la sua vitalità e la sua forza nella carne despiritualizzata (vv.18-20);
formulazione della legge che regola la vita dell'uomo e le sue dinamiche: la volontà del compiere il bene viene controbattuta dallo stato di schiavitù del peccato in cui vive l'uomo e che lo rende, per sua natura, incapace di compiere il bene, che, invece, dovrebbe compiere, evidenziando così lo stato di conflittualità che lacera il vivere dell'uomo (vv.21-23).
La
constatazione della condizione umana
(vv.15-17)
La
pericope vv.15-17 porta alla luce la triste condizione esistenziale
dell'uomo, che in quel “non capisco ciò che compio” esprime
tutto il suo disorientamento e il suo disagio interiore a causa di
quel suo modo incomprensibile e intrinsecamente contraddittorio di
condurre la propria vita, poiché si ritrova a compiere il male che
non vuole, anziché il bene che, illuminato dalla Legge, dovrebbe e
vorrebbe fare, ma che, a causa della sua connaturata fragilità, non
riesce a compiere. Il v.15, dunque, constata la conflittuale
condizione esistenziale dell'uomo, mentre i vv.16-17 ne danno una
spiegazione. Se, infatti, l'uomo opera ciò che non vuole, proprio
per questa sua intrinseca contraddizione, denuncia due cose: da un
lato, la Legge, in se stessa buona, che lo illumina sul bene e sul
male, poiché gli indica la via da seguire e quella da evitare;
dall'altro, scopre come nel suo compiere il male, nonostante la luce
illuminante della Legge, opera in lui una forza oscura la quale,
finché non è giunta la Legge, gli era sconosciuta, quella del
peccato, ma che ora, grazie alla Legge, ha scoperto. Una forza,
tuttavia, alla quale non sa opporsi, a motivo della sua connaturata
debolezza, causata da una carne despiritualizzata. Un peccato, si
noti bene, che Paolo attesta “abita in me”, cioè un peccato che
è connaturato all'uomo, decaduto dallo stato di grazia originario,
che lo aveva reso simile a Dio.
La presa di coscienza dell'interiore conflittualità
(vv.18-20)
Se con i vv.15-17 Paolo porta alla luce la drammatica condizione dell'uomo, che vede il bene, ma non sa compierlo, anzi compie il male, con i vv.18-20 va alla ricerca dei motivi che spieghino questa sua intrinseca e conflittuale contraddittorietà, che si pone a livello esistenziale, spirituale e morale.
Il v.17 terminava con l'espressione “il peccato che abita in me”, che funge da aggancio al v.18, che spiega in che cosa consista quel peccato che “abita in me”: “so che in me, ciò che è nella mia carne”. Quel “in me”, dunque, è ciò che è nella “mia carne”, quindi, nella mia stessa corporeità, nel mio stesso essere, è lì che si annida il male, che è talmente permeante e talmente compenetrante da diventare costitutivo del mio stesso essere uomo e ne esprime la condizione esistenziale, così da rendere l'uomo incapace di operare naturalmente il bene: “ma l'operare il bene no”.
Anche qui, come per il v.15, il v.18 funge da enunciazione, che i vv.19-20 s'incaricano di dimostrare. Il v.19 in questa pericope (vv.18-20) si colloca centralmente e, quindi, secondo le logiche della retorica ebraica, è la posizione più importante, perché mette in chiara luce la conflittualità ontologica, spirituale ed esistenziale che governa la vita dell'uomo e le sue dinamiche, argomento questo che costituirà, a sua volta, oggetto di approfondimento della successiva pericope (vv.21-23).
Con il v.19, dunque, Paolo mette in luce questa contraddittorietà conflittuale, che sottende l'agire quotidiano dell'uomo: l'uomo è naturalmente portato a compiere il male e non il bene. Questo è l'assioma di fondo, che porta a concludere “se ciò che non voglio [io] questo faccio, non lo compio più io, ma il peccato che abita in me”. L'intento di questa attestazione è mettere in rilievo come il peccato permei profondamente il mio modo di agire e come questo sia la fonte del male, che opera in me e condiziona profondamente il mio modo di vivere. Peccato che qui non va inteso come la singola azione o una violazione di un qualche comandamento della Legge, bensì come stato di vita, che ne denuncia la corruzione e il degrado.
Va
tuttavia compresa bene l'espressione che conclude il v.20: “non lo
compio più io, ma il peccato che abita in me”. Questa non va letta
come una sorta di deresponsabilizzazione dell'agire perverso
dell'uomo, che rimane, pur nella sua condizione di essere decaduto,
pur sempre capace di capire ciò che è bene e ciò che è male e
quindi sempre libero di scegliere tra il bene e il male. La
responsabilità della scelta con le relative conseguenze rimane
sempre in capo a chi la compia. Ciò che qui Paolo intende dire è
che nell'agire dell'uomo opera sempre il peccato, espressione
esistenziale del male, che nell'operare dell'uomo si storicizza, cioè
prende quelle forme storiche, che l'uomo gli dà, denunciando in tal
modo il proprio decadimento esistenziale.
La
formulazione della legge che regola la vita dell'uomo e le sue
dinamiche (vv.21-23)
Ed
ora Paolo, dopo aver constatato lo stato esistenziale dell'uomo,
profondamente segnato dal peccato (vv.15-17), dopo averne evidenziate
le cause (vv.18-20), con i vv.21-23 giunge a conclusione di questa
sua intensa riflessione-analisi sul rapporto Legge-peccato, che
domina il vivere dell'uomo, formulando una sorta di corollario, che
rassomiglia molto ad un enunciato dottrinale. Parla, infatti, di due
leggi (vv.21.23) tra loro contrapposte, che sanciscono la condizione
esistenziale dell'uomo: la prima, inscritta nella sua coscienza,
nella sua mente e nel suo spirito, che lo sospinge ad abbracciare il
bene, operandolo nelle proprie scelte (v.21); la seconda, inscritta
nella sua corporeità corrotta, cioè despiritualizzata, che alimenta
la concupiscenza e formula desideri perversi, che, a loro volta,
muovono il suo operare e lo spingono a determinarsi con scelte, che
danno forma storica al male, cioè i peccati. Due leggi, quindi, che
non solo sono tra loro contrapposte, ma sono altresì in guerra tra
loro, essendo irriducibili l'una all'altra. E il campo di battaglia è
l'uomo stesso, colto nel suo vivere quotidiano, in cui è
continuamente sospinto da queste due leggi, in perenne conflitto tra
loro e inscritte in lui stesso, ad operare una scelta. La posta in
gioco è l'uomo stesso e la sua salvezza o la sua perdizione eterna,
cioè il definitivo fallimento non solo suo, ma anche di Dio stesso,
che per quest'uomo ha donato suo Figlio.
La
conclusione (vv.24-25)
Il cap.7 chiude, ora, con i vv.24-25, che potremmo considerare di transizione, perché traghettano il lettore dalla triste e infelice condizione di costante conflittualità tra il bene e il male, in cui l'uomo è invischiato e che, a causa della sua connaturata fragilità, lo espone al peccare, ad una nuova e inattesa dimensione di luce, piena di consolazione e di speranza, che è quella propria dello Spirito, inaugurata dal Risorto. Da uno stato, quindi, di perdizione ad uno di salvezza.
Il v.24 chiude significativamente con un grido sconsolato di Paolo, che dà l'idea della sofferenza e della pesantezza di questo modo di vivere conflittuale in cui l'uomo è, suo malgrado, costretto a vivere. Un uomo che Paolo vede permeato dalla sua fragilità, travolto dal peccato e privo di ogni speranza, poiché rivestito di un “corpo di morte”, che qui va inteso non nel senso di corpo mortale, ma di un corpo che, in quanto despiritualizzato, quindi privato della vita stessa di Dio, che lo avvolgeva nei primordi dell'umanità, non solo è votato alla morte, ma produce morte, che si esprime in una vita di sofferenza, di dolore, di degrado esistenziale, di scelte sbagliate e che si manifesta in ciò che noi chiamiamo peccati, che sono la forma storica di quel male oscuro, di cui ogni essere vivente, uomo, animali, piante e l'intera creazione sono intrisi e che solo la morte di questo corpo e di questo stato di cose porrà fine a questa conflittualità tra Legge e peccato, tra carne e Spirito.
Ma
chi potrà porre fine a questa triste quanto drammatica condizione di
vita dell'uomo e con lui dell'intera creazione, si chiede Paolo. Un
interrogativo che indirizza il lettore verso l'unica soluzione: “Gesù
Cristo nostro Signore”, quale unica luce in fondo a questo tunnel
oscuro di desolazione e di morte e che qui funge da espressione
aggancio con cui si aprirà il luminoso e consolante cap.8, che
costituisce il vertice di questo lungo cammino dottrinale, iniziatosi
con 1,16 e che Paolo definisce in 2,16 “il mio Vangelo”.
La
vita nello Spirito e la gloria futura (8,1-39)
Testo
a lettura facilitata
Enunciato introduttivo: più nessuna condanna grava sul credente in Cristo (v.1)
1- Dunque, ora, non vi è nessuna condanna per (quelli) in Cristo Gesù.
Le argomentazioni a sostegno del v.1 (vv.2-4)
2-
Infatti, la legge dello Spirito della vita in Cristo Gesù ti ha
liberato dalla legge del peccato e della morte.
3-
Infatti, l'impossibile della Legge, in colui che era debole a motivo
della carne, Dio (lo ha reso possibile) avendo mandato suo Figlio in
una somiglianza di carne di peccato e a causa del peccato, condannò
il peccato nella carne,
4-
affinché la giustizia della Legge fosse compiuta in noi, che non
camminiamo secondo (la) carne, ma secondo (lo) Spirito.
Due contrapposti orientamenti esistenziali: secondo lo Spirito, secondo la carne (vv.5-11)
5-
Infatti, quelli che sono secondo la carne pensano le cose secondo la
carne, ma quelli che (sono) secondo (lo) Spirito (pensano) le cose
secondo (lo) Spirito.
6-
Infatti, il pensiero della carne (è) morte, ma il pensiero dello
Spirito (è) vita e pace.
7-
Perciò il pensiero della carne (è) nemico verso Dio, infatti non si
sottomette alla Legge di Dio, né, infatti, (lo) può.
8-
Quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio.
9-
Ma voi non siete nella carne, ma nello Spirito, se veramente lo
Spirito di Dio abita in voi. Ma se uno non ha lo Spirito di Cristo,
costui non è suo.
10-
Ma se Cristo (è) in voi, il corpo (è) morto per il peccato, ma lo
Spirito (è) vita per la giustizia.
11-
Ma se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in
voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti vivificherà anche i
vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi.
Le conseguenze dei due orientamenti esistenziali: carne-morte; Spirito-figliolanza divina (vv.12-17)
12-
Così dunque, fratelli, siamo debitori non alla carne per vivere
secondo la carne.
13-
Se, infatti, vivete secondo la carne, morirete. Ma se con lo Spirito
mortificate le opere del corpo, vivrete.
14-
Infatti, quanti si muovono secondo lo Spirito di Dio, questi sono
figli di Dio.
15-
Infatti non riceveste uno spirito di schiavitù (così da essere)
nuovamente nella paura, ma riceveste uno spirito di adozione, in cui
gridiamo: “Abbà, Padre”.
16-
Lo Spirito stesso dà testimonianza, assieme al nostro spirito, che
siamo figli di Dio.
17-
Ma se (siamo) figli, (siamo) anche eredi; eredi di Dio, coeredi di
Cristo, se veramente consoffriamo (con lui), per essere
conglorificati (con lui).
Dalla
figliolanza divina alla glorificazione personale e cosmica
(vv.18-25)
18-
Ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non (siano)
equivalenti alla gloria che sta per essere rivelata in noi.
19-
L'attesa impaziente della creazione, infatti, attende ansiosamente la
manifestazione dei figli di Dio.
20-
La creazione, infatti, è stata sottomessa alla vanità, (pur) non
possedendo(la), ma per mezzo di colui che l'ha sottomessa nella
speranza,
21-
poiché anche la creazione sarà liberata dalla schiavitù della
rovina per (entrare) nella libertà della gloria dei figli di Dio.
22-
Sappiamo, infatti, che tutta la creazione geme e si addolora assieme
(a noi) fino ad ora.
23-
Non solo, ma anche noi stessi, che abbiamo la primizia dello Spirito,
sospiriamo in noi stessi, aspettando ansiosamente l'adozione (a
figli), la redenzione del nostro corpo.
24-
Infatti, siamo stati salvati nella speranza; ma la speranza che si
vede non è speranza; infatti ciò che uno vede come (lo) spera?
25-
Ma se speriamo ciò che non vediamo, (lo) attendiamo ansiosamente con
perseveranza.
Lo Spirito guida i credenti nel loro rapporto con Dio (vv.26-30)
26-
Parimenti, anche lo Spirito viene in soccorso alla nostra debolezza;
infatti, che cosa dobbiamo pregare, come si deve, non (lo) sappiamo,
ma lo stesso Spirito intercede con gemiti indicibili.
27-
Ma colui che scruta i cuori, sa quale (è) il pensiero dello Spirito,
poiché si presenta presso Dio a favore dei santi.
28-
Ma sappiamo che tutto concorre al bene per quelli che amano Dio, per
quelli che sono chiamati secondo (la sua) deliberazione.
29-
Poiché quelli che conobbe prima (li) ha anche stabiliti prima
conformi all'immagine del Figlio suo, per essere lui il primogenito
tra molti fratelli;
30-
ma quelli che ha stabiliti prima, questi ha anche chiamati; e quelli
che ha chiamati, questi ha anche giustificati; ma quelli che ha
giustificati, questi ha anche glorificati.
Vincitori in Cristo Gesù (vv.31-34)
31-
Che diremo, dunque, per queste cose? Se Dio (è) per noi, chi contro
di noi?
32-
Lui che certo non risparmiò il proprio Figlio, ma lo ha consegnato
per tutti noi, come, con lui, non ci donerà anche tutte le cose?
33-
Chi muoverà accuse contro gli eletti di Dio? Dio (è) colui che
giustifica;
34-
Chi (è) colui che condannerà? Cristo Gesù, che è morto, di più è
stato risuscitato, il quale è alla destra del Padre, ed egli
intercede per noi.
E nulla ci potrà separare dall'amore di Cristo (vv.35-39)
35-
Chi ci separerà dall'amore di Cristo? (L')afflizione o (la)
ristrettezza o (la) persecuzione o (la) fame o (la) nudità o (il)
pericolo o (la) spada?
36-
Come sta scritto: “A causa tua veniamo mortificati tutto il giorno,
siamo considerati come pecore da macello”.
37-
Ma in tutte queste cose stravinciamo per mezzo di colui che ci ha
amati.
38-
Sono persuaso, infatti, che né morte né vita, né angeli né
principati, né le cose presenti né quelle future, né potenze,
39- né altezza né
profondità, né qualche altra creatura potrà separarci dall'amore
di Dio, che (è) in Cristo Gesù nostro Signore.
Note
generali
Il cap.8 costituisce il vertice dell'ampia sezione dottrinale, iniziatasi con 1,16, ed è interamente dedicato alla vita nello Spirito, quale effetto della giustificazione del peccatore, ottenuta per mezzo della sola fede e non attraverso le opere della Legge. Un dono gratuito di Dio, un suo atto liberale, che è sgorgato dalla sua misericordia e che si è attuato e manifestato nel Cristo suo Figlio, dono del Padre all'umanità peccatrice, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,16).
Un capitolo formato da 39 versetti, il più lungo tra tutti i capitoli di questa Lettera, tutto incentrato sulla vita nello Spirito, in cui è coinvolto il credente, e sulla necessità di conformare la propria vita alle esigenze dello Spirito, che sono contrarie a quelle della carne. Una realtà, quest'ultima, che è sempre presente nel credente in quanto costitutiva della sua natura umana decaduta, cioè despiritualizzata e, in quanto tale, non è più in grado di parlare lo stesso linguaggio dello Spirito. Due realtà che sono, oggi, contrapposte e irriducibili l'una all'altra, ma che nella loro prospettiva escatologica tendono a ricongiungersi, come già è avvenuto in Cristo con la sua risurrezione, per opera dello Spirito Santo, e così com'era ai primordi dell'umanità, allorché l'uomo, insufflato dall'Alito divino, divenne essere vivente e somigliante a Dio (Gen 1,27; 2,7). Poiché a questo, e soltanto a questo, punta l'intera storia della salvezza e l'intero piano salvifico di Dio, attuatosi e manifestatosi in Cristo: ricondurre l'uomo in seno a Dio, da cui era drammaticamente uscito, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28).
Tutta la storia della salvezza, dunque, punta alla rigenerazione dell'uomo decaduto mediate la potenza dello Spirito Santo, che avviene in una continua dialettica tra carne e Spirito, tra peccato e grazia; dialettica sottesa e caratterizzata dalla stessa logica pasquale, quella di un continuo passaggio da morte a vita in una prospettiva escatologica, che mirabilmente viene sintetizzata dalla formula della liturgia eucaristica: “Annunciamo la tua morte, Signore; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta”. Ed è proprio su questa logica pasquale che il credente è chiamato a morire quotidianamente alle pretese di una carne despiritualizzata, a cui non appartiene più, in virtù della fede e del battesimo, dando così spazio nella propria vita alle esigenze dello Spirito, che lo ha rigenerato alla Vita divina, costituendolo nuova creatura nel Risorto. Uno stato di cose che Paolo sintetizza in 6,11: “Così anche voi considerate che voi stessi [siete] morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo Gesù”.
Ed è su queste logiche della nuova realtà spirituale, in cui è immerso e compenetrato il credente, che Paolo svilupperà la sua dottrina del nuovo mondo secondo lo Spirito, questa nuova realtà, finalizzata a rigenerare l'umanità e con questa l'intera creazione a Dio, così com'erano nei loro primordi.
Quanto alla struttura del cap.8, questa si snoda in otto parti concatenate tra loro, in una logica di un progressivo sviluppo di pensiero, che propongo qui di seguito:
Enunciato introduttivo: più nessuna condanna grava sul credente in Cristo (v.1);
Le argomentazioni a sostegno del v.1 (vv.2-4);
Due contrapposti orientamenti esistenziali: secondo lo Spirito, secondo la carne (vv.5-11);
Le conseguenze dei due orientamenti esistenziali: carne-morte; Spirito-figliolanza divina (vv.12-17);
Dalla figliolanza divina alla glorificazione personale e cosmica (vv.18-25);
Lo Spirito guida i credenti nel loro rapporto con Dio (vv.26-30);
Vincitori in Cristo Gesù (vv.31-34);
E nulla ci potrà
separare dall'amore di Cristo (vv.35-39).
L'intero cap.8 è incluso dai vv.1.38-39 per complementarietà tematica. Al v.1, infatti, si attesta che “non vi è nessuna condanna per (quelli) in Cristo Gesù”, condanna che comporterebbe l'esclusione da Cristo; mentre ai vv.38-39 si attesta che nulla, né sulla terra né nei cieli potrà mai separarci da Cristo, rendendo in tal modo definitivamente salda la salvezza del credente in Cristo.
Commento
ai vv.1-39
Enunciato
introduttivo: più nessuna condanna grava sul credente in Cristo
(v.1)
Il cap.7 era
interamente dedicato alla funzione della Legge, quella di mettere in
rilievo il peccato, che prima della venuta della Legge, pur
esistendo, non veniva imputato all'uomo, che pur vivendo in esso, non
se ne rendeva conto. Ma giunta la Legge, l'uomo ha potuto toccare con
mano la sua fragilità e la sua incapacità di adempiere pienamente
la Legge, che gli indicava la via della santità e della salvezza. La
causa prima di tale fallimento era la sua carne despiritualizzata,
carne, quindi, di peccato, che pur consentendogli di vedere il bene,
indicatogli dalla Legge, gli impediva, di fatto, di compierlo a causa
della sua connaturata fragilità, inscritta nella sua carne
despiritualizzata. Una Legge, quindi, che anziché salvare l'uomo, lo
ghettizzava nel suo peccato e lo condannava di fatto alla perdizione.
Si generava in tal modo una conflittualità esistenziale tra il bene,
prospettato dalla Legge, e il male, generato e alimentato dalla carne
despiritualizzata, così che Paolo, sconfortato, terminava il cap.7
con l'amara constatazione: “Così, dunque, io stesso servo con la
mente alla legge di Dio, ma con la carne alla legge del peccato”
(7,25b), interrogandosi su chi mai potrà salvarlo da questo corpo di
morte, che lo condanna alla perdizione eterna. Un interrogativo che
accentrava l'attenzione del suo lettore sul personaggio chiave e
risolutivo di questo dramma, in cui l'uomo è invischiato e si
dibatte inutilmente: “Gesù Cristo nostro Signore”. Espressione
questa che funge da aggancio all'apertura del cap.8, che attesta come
non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù.
L'essere, dunque, “in” Cristo Gesù diventa per l'uomo peccatore l'unico modo per sfuggire alla condanna, a cui è destinato, a causa della sua triste condizione esistenziale. Che cosa significhi quel “essere in”, Paolo lo aveva già prospettato in 5,1, dove attestava come la fede fosse la causa prima della nostra giustificazione, cioè della nostra rappacificazione e riconciliazione con Dio, avvenuta per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Il secondo elemento che caratterizza quel “essere in” è il battesimo, che ci associa e ci assimila alla morte e risurrezione di Cristo Gesù, in cui il nostro uomo vecchio, quello adamitico, quello della carne despiritualizzata, generatrice di peccato e di morte, è stato con-crocifisso e con-morto in Cristo, prospettando all'uomo nuovo, quello generato dallo Spirito di Vita, che ha generato lo stesso Cristo Gesù dalla sua morte (1,4), un nuovo orizzonte di Vita, quella divina, che è chiamato a condividere, in Cristo e per Cristo e con Cristo, con Dio stesso (6,3-8).
L'esserci richiamati
a questi capp. 5,6 e 7 non è casuale, ma sta a dimostrare come Paolo
stesse lentamente tessendo la sua tela teologica e cristologica in
prospettiva di questo cap.8, che è il vertice dell'intera sezione
dottrinale (1,16-8,39), poiché descrive il punto di arrivo
dell'intera storia della salvezza, in cui il credente è già
collocato in virtù della sua fede e del suo battesimo, che,
cristificandolo, lo ha già in qualche modo inserito in queste nuove
realtà spirituali, benché non ancora pienamente e definitivamente.
Realtà spirituali che già vivono in lui e di cui egli è già
permeato e che lo spingono a testimoniarle, lasciandole trasparire
dal suo modo di vivere.
Il v.1, pertanto,
funge da tesi a questo cap.8: “Dunque, ora, non vi è nessuna
condanna per (quelli) in Cristo Gesù”. Un assunto dottrinale, la
cui dimostrazione è ora affidata alla successiva pericope vv.2-4.
Le argomentazioni
a sostegno del v.1 (vv.2-4)
Perché, dunque, non vi è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù? Se prima le motivazioni profonde e le dinamiche che operavano per la nostra salvezza erano tutte affidate alla nostra fede e al battesimo in Cristo Gesù (capp.5-7), ora Paolo, pur senza rinnegando quelle, che rimangono essenziali e fondamentali nella dinamica del progetto di salvezza generato dal Padre, punta l'attenzione del suo lettore sull'azione dello Spirito Santo, l'altro personaggio fondamentale e imprescindibile, che opera per la cristificazione e la spiritualizzazione non solo dell'uomo, introducendolo nel Mistero di Dio e rendendolo partecipe della sua vita, ma anche dell'intera creazione.
Il v.2 si apre con un enunciato, che pone a confronto tra loro due leggi, quella dello Spirito, che dà la vita per il tramite di Cristo Gesù, in cui opera; e quella del peccato, che invece genera e dà la morte. E quando qui si parla di “legge dello Spirito” e “legge del peccato” si parla di due realtà, di due forze, che si muovono con logiche, dinamiche e finalità tra loro contrapposte e che operano all'interno della storia della salvezza, ed hanno come campo di battaglia l'uomo stesso e con lui l'intera creazione. Ma due realtà, quella dello Spirito e quella del peccato, che non sono paritetiche, poiché, attesta Paolo, la legge dello Spirito ti ha liberato dalla legge del peccato, che, in questa lotta senza fine, è destinato a soccombere. Quindi, la potenza dello Spirito, contrariamente alla Legge che invece la evidenziava, è in grado di sopperire alla fragilità e alla pochezza dell'uomo, travolto dal peccato e divenuto carne despiritualizzata, cioè incapace di salvezza propria e prospettatagli dalla Legge.
Ed ora i vv.3-4 sono qui chiamati in causa, per spiegare in quale modo la “legge dello Spirito”, a differenza della Legge, sia in grado di liberare l'uomo dalla sua condizione di peccato. Versetti questi che sono fondamentali e dottrinalmente rilevanti per comprendere la dinamica del progetto di salvezza pensato dal Padre e operato nel e per mezzo di suo Figlio.
La Legge, in sé e per sé, era soltanto uno strumento passivo, chiamato a svolgere una duplice funzione: da un lato, essa fungeva da severo pedagogo finché non fosse giunto il tempo della fede in Cristo (Gal 3,23-25); dall'altro, essa con i suoi comandamenti imperativi ha messo in rilievo il peccato, costitutivo dell'uomo, ma rilevandone nel contempo tutta la sua fragilità, cioè la sua connaturata incapacità di eseguire fedelmente quanto la Legge comandava, indicandogli la via da seguire (7,5.7-11). In tutto ciò, però, la Legge non ha mai avuto una funzione attiva di salvezza, ma la sua logica era solo repressiva e di accusa nei confronti dell'uomo, racchiuso nella sua carne di peccato. Nessuna prospettiva, dunque, di salvezza per l'uomo. Ma ciò che era impossibile per la Legge, non avendo in se stessa una forza di salvezza capace di rigenerare l'uomo a Dio, a motivo della fragilità dell'uomo stesso, Dio, invece, lo ha reso possibile, superando la Legge stessa. In quale modo ciò sia avvenuto, Paolo lo descrive sinteticamente ai vv.3b-4, tra loro complementari, poiché scandiscono i tempi con cui si è attuata la salvezza dell'uomo: attraverso l'incarnazione, la morte (v.3b) e la risurrezione di suo Figlio, a seguito della quale è sgorgato il dono dello Spirito (v.4).
Con l'incarnazione il Figlio assunse su di sé la natura umana decaduta, che qui Paolo definisce come “carne di peccato”, cioè carne despiritualizzata, privata della gloria di Dio (3,23; Sal 8,6), così come aveva già attestato in Fil 2,7: “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana”, dove quel “spogliò” è reso in greco con “™kšnwsen” (ekénosen), che letteralmente significa “svuotò” se stesso dell'intera sua gloria divina, che godeva presso il Padre (Gv 1,1-2), rendendo così molto più incisivo quanto è avvenuto nell'incarnazione. Una “carne di peccato”, dunque, a cui Paolo aggiunge “a causa del peccato”, cioè una “carne di peccato” che è stata “causata dal peccato”. Il riferimento, qui, è a Gen 3, dove si racconta della caduta dell'uomo. La carne di cui si è rivestito il Figlio, dunque, è quella carne adamitica corrotta e degradata da quell'atto di ribellione e di avversione contro Dio, che causò la decadenza dell'uomo dal suo essere “carne spiritualizzata” a “carne despiritualizzata”, da essere vivente, somigliante a Dio ad essere decaduto, non più rivestito dello Spirito, ma di pelli di animali (Gen 3,21), che evidenziano il suo nuovo stato di vita. E che cosa ciò significhi verrà descritto in Gen 3,16-24: fatica, sofferenza, dolore e morte.
Pertanto, dopo che il Figlio, incarnandosi, assunse su di sé questo stato di cose, il Padre “condannò il peccato nella carne”. Il “peccato nella carne” si riferisce allo stato costitutivo dell'essere umano dopo la colpa originale, che ha ridotto l'uomo da essere vivente e somigliante a Dio, ad essere despiritualizzato, non più permeato e ricoperto dello Spirito di Dio e, quindi, partecipe della sua stessa Vita, ma spogliato di questo Spirito e ricoperto di pelli, nonché cacciato dalla dimensione divina, a cui non apparteneva più. Ebbene, questo peccato che devastò la carne dell'uomo con conseguenze mortali, il Padre lo “condannò”, cioè lo distrusse nel corpo di suo Figlio incarnato, appendendolo alla croce (Dt 21,22-23), così che la vecchia carne adamitica, carne di peccato e di morte, venne distrutta sulla croce (6,6), ponendo così fine alla vecchia creazione, distruggendo, si badi bene, non l'uomo, ma lo stato di vita in cui l'uomo era precipitato. Significativo in tal senso è il racconto della scoperta della tomba vuota: le donne, il giorno dopo il sabato, si erano recate alla tomba di Gesù per inumarne il corpo e completarne così la sepoltura, ma non lo trovarono (Lc 24,3). E non lo trovarono perché esse cercavano il corpo del vecchio Adamo, che il Figlio assunse su di sé, ma che venne distrutto sulla croce. Quel corpo, ora, non c'è più, poiché quel corpo è stato ritrasformato, cioè rispiritualizzato, e rigenerato in essere vivente, nuovamente somigliante a Dio, così che l'angelo dirà loro: “Perché cercate il Vivente tra i morti?” (Lc 24,5). Il Padre, pertanto, ha reso Vivente il nuovo Adamo, di cui il vecchio Adamo era soltanto figura (5,14), cioè un preannuncio del nuovo Adamo, poiché “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16b).
E tutto questo è stato fatto affinché si compisse nel credente quella giustificazione che la Legge, per sua natura, non era stata in grado di generare nell'uomo, a motivo della sua intrinseca fragilità. Un credente che ora è chiamato a camminare secondo lo Spirito e non più secondo le logiche della carne, poiché, ora, egli, in virtù della fede e del battesimo in Cristo, è già stato collocato in queste nuove realtà spirituali, generate dalla risurrezione di Cristo.
E con il v.4b, che
potremmo considerare di transizione, perché nel chiudere la pericope
vv.2-4, traghetta il lettore alla successiva pericope vv.5-11, di cui
preannuncia il tema, prendendo in considerazione i due orientamenti
esistenziali: quello secondo la carne e quello secondo lo Spirito,
sottesi.
Due
contrapposti orientamenti esistenziali: secondo lo Spirito, secondo
la carne
(vv.5-11)
Quanto segue in questa pericope è da considerarsi uno sviluppo del v.4b, una sorta di riflessione di quel “camminare” che è sinonimo di vivere secondo la carne o secondo lo Spirito. Il v.5, infatti, comincia con un “g¦r” (gàr, infatti) che si aggancia al v.4b. Il “camminare” del v.4b diviene qui “pensare” secondo la carne o secondo lo Spirito. Un “pensare” che dice come queste due contrapposte modalità di vita siano profondamente radicate nell'uomo e tali da sviluppare una linea di pensiero, che crea un orientamento esistenziale, che, a sua volta, plasma un stile di vita, da cui traspare la scelta esistenziale. “Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere” (Mt7,20), sentenziava il Gesù matteano, rivolto ai suoi in merito ai falsi profeti, che si presentavano a loro sotto forma di pecore, ma in realtà erano lupi rapaci (Mt 7,15). E i frutti del pensare secondo la carne sono morte, nel senso che producono un modo di vivere che conduce al fallimento dell'uomo, poiché si fondano sulla sua negazione; mentre i pensieri che si modellano sulle logiche dello Spirito sono qualificati da due elementi: vita e pace, che potrebbero leggersi come una sorta di endiadi, la vita che si realizza e si esprime nella pace, che è riconciliazione tra Dio e gli uomini (Gv20, 19.21.26), che si riflette in quella tra gli uomini così da diventare tra loro comunione di vita, in cui si rispecchia quella tra Dio e gli uomini, creando in tal modo un ciclo vitale virtuoso, che rende gli uomini partecipi di un'unica e comune Vita, qualificata dalla presenza dello Spirito e da questi generata.
Paolo prosegue, insistendo con i vv.7-8, sulla negatività che sviluppano i pensieri della carne, che non solo non sono in grado di sottoporsi alla Legge, per la sua natura spirituale, esprimendo essa la volontà stessa di Dio, ma si contrappongono a Dio, qualificandosi come suoi nemici, sui quali viene emessa la sentenza di condanna: “non possono piacere a Dio”, escludendoli dalla dimensione divina, dove, come numerose volte il Gesù matteano concludeva sentenzialmente le sue parabole: “là sarà pianto e stridore di denti”23. Del resto non poteva essere diversamente, poiché chi conforma la propria vita alle logiche della carne riproduce in se stesso quell'atteggiamento di rivolta e di attentato a Dio, che ha generato originariamente Adamo e che si riproduce in tutti coloro che si muovono secondo le logiche della carne adamitica, che è carne despiritualizzata, priva dello Spirito di Dio, che la informava originariamente nei suoi primordi.
Dopo aver presentato la negatività di coloro che sono “nella carne”, Paolo si rivolge alla comunità di Roma, rilevando come i suoi membri non sono nella carne, ma nello Spirito. Quel “essere in” dice uno stato di vita, che determina un orientamento esistenziale, che si esprime quotidianamente nell'essere per Dio o contro di Dio. Quando si parla, quindi, di essere nella carne o nello Spirito si va a toccare l'ontologia del credente e, quindi, la sua stessa essenza, che rivela tutta la radicalità del pensiero paolino, poiché evidenzia come l'essere credenti e l'essere stati battezzati coinvolgono profondamente l'interezza della persona ad ogni livello, così da modificarla nel suo essere, facendone una nuova creatura. Ma qui Paolo, con il v.9b, va ben oltre: non è sufficiente il credere, né il battesimo, ma è necessario che il credente battezzato attesti anche esistenzialmente la sua nuova condizione di appartenente a Cristo. Avere lo Spirito di Dio e lo Spirito di Cristo in se stessi significa per Paolo, che la vita stessa del credente battezzato rifletta ed esprima nel suo vivere tali realtà, altrimenti, benché credente e battezzato, egli è escluso da Dio e ancor prima da Cristo e non appartiene più a loro. Ecco, dunque, come l'essere nuova creatura in Cristo abbia la necessità di esternarsi in testimonianza di vita, come si attesterà in 10,9, dove si rileverà che per essere salvato non è sufficiente credere nel proprio cuore che Gesù è il Signore, ma è necessario anche proclamarlo con la parola e, quindi, esternare e testimoniare quanto si crede nel segreto della propria coscienza.
Ma se veramente il credente battezzato ha conformato il proprio modo di vivere allo Spirito di Cristo, che è stato trasfuso in lui in virtù della fede e del battesimo, allora il credente, associato alla morte di Cristo, deve considerarsi morto al peccato. In altri termini egli non ha più nulla a che vedere con il mondo della carne, sia perché il suo “uomo vecchio è stato concrocifisso (con lui), affinché sia reso inefficace il corpo del peccato, affinché noi non serviamo più al peccato” (6,6); e sia perché lo Spirito del Risorto lo ha generato ad una nuova realtà, quella dello Spirito, che funge da garanzia per il credente, perché quello Spirito che abita in lui è lo stesso Spirito che ha generato il Cristo alla nuova Vita e, in quanto cristificato nel battesimo, il credente è assimilato a Cristo anche nella risurrezione, che si esprime nel camminare in novità di vita (6,4)
Come
si è potuto rilevare, non sono considerazioni nuove queste, poiché
Paolo già le aveva elaborate in 6,3-13, ma qui le applica nella
pratica della vita quotidiana del credente, tracciandone le linee
fondamentali sulle quali il credente è chiamato a strutturare la
propria vita. Compito, dunque, del credente, è quello di prendere
coscienza, nel suo vivere, di tali realtà spirituali, che lo
permeano nella profondità del suo essere e già fin d'ora lo hanno
trasformato e alle quali appartiene, poiché egli è già stato
trasferito dal regno delle tenebre a quello della Luce (Col 1,13).
Egli, dunque, sebbene viva nel mondo, non gli appartiene più, poiché
è di Cristo, anzi, egli è stato cristificato nel battesimo (6,3-8).
Un concetto questo che viene ripreso anche Col 3,1-3 e del quale trae
le conseguenze: “Se
dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si
trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate
alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete
morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio!”.
E similmente l'anonimo autore della Lettera a Diogneto (II sec.
d.C.), parlando del mistero cristiano dirà che i cristiani: “Sono
nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma
hanno la loro cittadinanza nel cielo”
(Diogneto V,8-9).
Le
conseguenze dei due orientamenti esistenziali: carne-morte;
Spirito-figliolanza divina (vv.12-17)
Dopo aver tracciato con i vv.5-11 le linee guida fondamentali della dinamica in cui è chiamato a vivere il credente, quella regolata dalla legge dello Spirito e quella dalla legge della carne o del peccato, Paolo, ora, con questa pericope, vv.12-17, ne trae le conseguenze, prospettandone gli sviluppi.
La pericope si apre con le due congiunzioni “”Ara oân” (Ára ûn, così dunque); la prima (“così”) crea un parallelismo con i vv.5-11, mentre la seconda (“dunque”) porta a concludere le considerazioni precedenti con queste seguenti dei vv.12-17. Il riferimento, in particolar modo qui, è ai vv.9-11, con i quali Paolo evidenziava come i credenti non sono più sotto la legge della carne, ma sotto quella dello Spirito, che abita in loro, rendendoli con-morti e con-risorti con e in Cristo, tracciando in lui il percorso che essi sono chiamati a compiere in loro stessi, quella della morte alla carne in prospettiva di una risurrezione, cioè di una rigenerazione e una rinascita ad una nuova vita, caratterizzata dallo Spirito e che li spinge fin d'ora a vivere queste realtà già presenti in loro e nelle quali essi sono, già fin d'ora, coinvolti. La conseguenza conclusiva di tutto ciò è che noi “siamo debitori non alla carne per vivere secondo la carne”. Essere debitori significa aver creato un legame di dipendenza, che lega il debitore al proprio creditore, rendendolo sottomesso e schiavizzato. Il debito contratto è quello di vivere secondo la legge della carne, che si assolve con il vivere secondo le esigenze e le pretese del creditore-carne, che ha come frutto tangibile il peccato, quale espressione di tale modo di vivere, con il quale si prospetta un destino di morte. Attesta infatti Paolo: “Se vivete secondo la carne, morirete”. Significativi sono i due tempi verbali: il primo, posto al presente indicativo, si richiama al modo di gestire la propria vita, qui e ora; il secondo è posto al futuro, che si richiama al giudizio escatologico di condanna, il quale, benché posto alla conclusione di un simile modo di vivere, tuttavia grava fin d'ora su di esso.
L'altra contropartita è “se con lo Spirito mortificate le opere del corpo, vivrete” (v.13b). Ci si sarebbe aspettati il parallelo dell'espressione sopra citata: “Se vivete secondo lo Spirito, vivrete”. Ma qui Paolo cambia le regole del gioco. Lo fa per un duplice motivo, sia perché in tal modo, con quell'espressione “mortificate le opere del corpo” anticipa il tema che verrà ripreso con il v.18 e sviluppato nella seconda sezione di questo cap.8 (vv.18-39); sia perché Paolo si rende conto che vivere in conformità alle esigenze dello Spirito mentre il credente è ancora vivente in questo corpo mortale, fatto di carne despiritualizzata, non è semplice né tantomeno naturalmente spontaneo, proprio perché la corporeità decaduta, la carnalità fa parte integrante e imprescindibile del proprio essere uomini ed è proprio ciò che costituisce la connatura e intrinseca fragilità dell'uomo, che è naturalmente portato a soddisfare le esigenze e le pretese della carne, tendendo ad ignorare, invece, quelle dello Spirito. Solo la morte di questo corpo decaduto può sottrarre l'uomo al peccato (v.6,7). Per questo egli dice “se con lo Spirito mortificate le opere del corpo”, cioè con l'aiuto dello Spirito “mortificate”, la quale cosa, come dice il verbo stesso, significa “procurare la morte” alle opere del corpo, che qui è sinonimo di carne. Si tratta, quindi, di innescare una lotta contro le opere della carne, che dettano legge nella nostra carnalità despiritualizzata, con l'aiuto dello Spirito e con il crescere nella coscienza di essere coinvolti e permeati da realtà spirituali, che ci aprono alla primordiale dimensione divina, in cui originariamente eravamo, da cui siamo drammaticamente fuoriusciti e verso la quale ora, sospinti faticosamente dallo Spirito, siamo incamminati. Anche qui i verbi sono usati al presente indicativo, il primo, “mortificate”; mentre il secondo, in prospettiva escatologica, è posto al futuro: “vivrete”, che costituisce la ricompensa per chi nella propria vita, pur segnata profondamente da una carnalità decaduta, ha fatto la sua scelta esistenziale, lasciandosi guidare dallo Spirito.
Ed è proprio questo lasciarsi guidare dallo Spirito che ci qualifica quali “figli di Dio” (v.14), poiché nel nostro sangue è stato impresso il DNA di Dio, che per mezzo dello Spirito, ci riconosce quali suoi figli, da Lui generati in Cristo per opera dello Spirito Santo. E su questo tema della figliolanza divina, che funge da preambolo alla seconda parte di questo cap.8 (vv.18-39), Paolo sviluppa ora i vv.15-17, mostrando gli effetti di tale figliolanza, operata in Cristo per mezzo dello Spirito.
E il primo effetto di questo essere stati rigenerati a Dio per mezzo dello Spirito è, infatti, quello di aver ricevuto non una configurazione a schiavi, che si rapportano a Dio come ad un padrone severo e dispotico, pronto al castigo fino alla condanna a morte dello schiavo, che trasgredisce i suoi comandi, quale era il rapporto veterotestamentario, regolamentato da una Legge severa e impietosa; ma la nuova configurazione del credente è avvenuta per mezzo dello Spirito, che consente al Padre di riconoscere il credente in Cristo, quale suo figlio, il quale, per mezzo della fede e del battesimo, è stato configurato a Cristo Gesù, costituito suo Figlio mediante la potenza dello Spirito Santo nella risurrezione dai morti (1,4). Una figliolanza, precisa Paolo, che non è avvenuta per generazione diretta dal Padre, come è avvenuto per suo Figlio, ma per assimilazione del credente battezzato a Cristo suo Figlio, così che il Padre riconosce suoi figli tutti i credenti configurati a Cristo per mezzo dello Spirito. Figli, dunque, ereditati da Cristo suo Figlio, divenuti figli nel Figlio, così che essi possono rivolgersi al Padre con il nomignolo familiare ed affettuoso di “Abbà”, “Papà”. Un Padre, dunque, che il credente condivide nel Figlio e con il Figlio e che consentirà ad Ef 2,19 di dire: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”. Significativo in tal senso quanto dirà il Gesù giovanneo risorto a Maria di Magdala: “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17b).
Quanto fin qui attestato circa la figliolanza divina del credente viene ora sottoposto a testimonianza da parte dello Spirito “assieme” al nostro spirito, per validarne la veridicità. Da due testimoni, dunque, come richiesto giuridicamente, perché una testimonianza sia valida (Dt 19,15). Significativo quel “assieme” che non corrisponde alla semplice congiunzione “e”, ma ad un complemento di compagnia, che potremmo definire, più che di compagnia, di comunione dei due spiriti, ora allineati e conformati l'uno all'Altro: quello di Dio, che ha rigenerato il nostro spirito rendendolo nuovamente simile a Lui. La testimonianza, pertanto, proviene da chi ha operato la rigenerazione a Dio, lo Spirito Santo, e dal nostro spirito, che attesta, a sua volta, l'avvenuta rigenerazione di se stesso, dichiarando come ora egli possa rivolgersi a Dio chiamandolo con il nome di Padre, riconoscendo in tal modo la sua generazione a figlio. Una testimonianza, dunque, che viene data sia dall'Operatore che dall'opera operata.
La conseguenza di questa nostra figliolanza divina è l'essere, ora, anche eredi; una eredità che ha un duplice volto: “eredi di Dio” nel senso che Dio stesso è la nostra eredità, il Bene assoluto di cui abbiamo parte; ma anche un'eredità che ci proviene da Dio stesso, quale ricchezza di doni spirituali, che caratterizzano la Vita eterna. Un'eredità che condividiamo con Cristo, condividendo in lui, con lui e per mezzo di lui anche la sua figliolanza divina, nella quale il Padre riconosce anche la nostra, a motivo della nostra assimilazione a Cristo. Un'eredità che è comunque condizionata al nostro consoffrire con lui per essere con lui conglorificati.
Questo “consoffrire” finalizzato alla “conglorificazione”, attestato dal v.17, dice come il credente in quel “con” sia stato assimilato a Cristo, così che egli ci vive tutti nella sua morte e nella sua risurrezione (Gv 12,32) e tutti sono chiamati a condividere, ciascuno in se stesso e in comunione con lui, la sua morte all'uomo vecchio per dare spazio alla nuova realtà inaugurata con la risurrezione di Cristo (6,6-8).
Un
versetto questo che anticipa in qualche modo il tema della seconda
sezione di questo cap.8 e ne fornisce anche la chiave di lettura,
poiché l'uomo nuovo e con lui la nuova creazione passano attraverso
la sofferenza causata dal morire dell'uomo vecchio, poiché l'intera
realtà, indipendentemente dal nostro crederci o meno, è stata
associata e ancor di più assimilata alla morte di Cristo (Gv 12,32),
per generare da questa morte una nuova realtà ricreata e rifondata
secondo lo Spirito, ricollocando sia il credente che la nuova
creazione in Dio, così com'era ai primordi dell'umanità (1Cor
15,28). Una sofferenza che qui Paolo legge significativamente come
doglie del parto. Una sofferenza che non sfocia, dunque, nella morte,
ma che è preambolo alla vita, quella nuova, anzi, la preannuncia. Si
tratta, dunque, di una lettura escatologica della sofferenza
presente.
Dalla figliolanza divina alla glorificazione personale e cosmica (vv.18-25)
Già con i vv.13b e 17b Paolo aveva coniugato la nostra sofferenza, causata dalla nostra carne di peccato, che per sua natura fruttifica solo dolore, votandoci tutti indistintamente alla morte, con la nostra glorificazione. Una realtà, quella della sofferenza, verificabile sotto molteplici forme e modi nella quotidianità del presente, mentre la glorificazione è sempre colta nel futuro escatologico, quasi a dire che il nostro morire quotidiano alle logiche della carne ci sta preparando a tale futuro. Un futuro, quindi, che deve saper illuminare il presente di sofferenza, dando al credente non solo la rivelazione del senso di questa sofferenza, ma anche la forza per sostenerla, poiché per il credente non è soltanto un soffrire senza speranza.
Ora Paolo riprende questa riflessione e le dedica un'attenzione particolare, che impegna in vario modo questa seconda parte del cap.8 (vv.18-39) ed esordisce focalizzando l'attenzione del suo lettore sul tema, quasi a volerlo incoraggiare nella sua lotta quotidiana con la carne di sofferenza e di morte, affinché sollevi il suo sguardo verso la luce, che si prospetta per lui verso la fine del lungo tunnel della vita: “Ritengo, infatti, che le sofferenze del tempo presente non (siano) equivalenti alla gloria che sta per essere rivelata in noi”.
“Ritengo, infatti”, si tratta, dunque, di una riflessione di approfondimento e di chiarimento di quanto detto nella pericope vv.12-17. Qui, v.18, si parla di “sofferenze del tempo presente”. L'indeterminatezza dell'espressione, che parla di sofferenze senza specificarne la natura e che si verificano nel “tempo presente”, un'espressione che può valere per ogni “tempo presente”, dice come Paolo stia qui affrontando la questione in senso generale della sofferenza, che ogni credente e con lui l'intera umanità di ogni tempo, non solo, ma anche, con loro, l'intera creazione, sono assoggettati. Una sofferenza che non è causata da un qualche problema specifico, ma essa è connaturata all'uomo in quanto carne despiritualizzata, che ha trascinato con sé anche l'intera creazione, per un principio di solidarietà che lega i due come un unico essere24. Una sofferenza, che pur esprimendosi nei modi più svariati e impensati fino a prospettargli quale soluzione finale la morte stessa, della quale è figlia, tuttavia non può essere in alcun modo posta in concorrenza con la gloria futura, anzi, che sta per essere disvelata in ciascuno di noi, poiché la sofferenza, per quanto grande possa essere fino a degenerare nella morte, tuttavia essa è delimitata da un contesto spazio-temporale che non le consente di andare oltre. Con la morte, infatti, termina ogni sofferenza psico-fisica, ma ciò che si prospetta al credente, che tale sofferenza ha vissuto in prospettiva escatologica, è la gloria dell'eternità, che designa uno stato di vita che è quella propria di Dio stesso, di cui la gloria è un attributo che qualifica l'essere stesso di Dio e della sua dimensione.
Una gloria che Paolo definisce come “gloria che sta per essere rivelata in noi”. Qui non si parla di una gloria che verrà data alla fine dei tempi o del proprio tempo, ma di gloria che sta per essere rivelata in noi. Questa gloria, dunque, è una realtà presente “in noi” e nella quale noi già siamo immersi e permeati; una realtà, quindi, in cui già viviamo, ma che attende solo di essere manifestata, allorché il velo della nostra corporeità decaduta, la cui opacità non lascia trasparire la luminosità incandescente di questa gloria, verrà tolto con la morte. Una visione questa che richiama da vicino Is 25,6-8a: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto”. Un banchetto che è metafora dello stato di felicità e di gioia proprie della dimensione divina. Si tratta, infatti, di un banchetto che viene imbandito su “questo monte”, che alludeva a quello di Sion, dove si trova Gerusalemme, luogo della dimora di Dio25, figura di un'altra Gerusalemme, che Giovanni vedrà scendere dal cielo (Ap 21,2.16-27). Ed è proprio in questo frangente che Dio strapperà il velo e la coltre che gravavano su tutti i popoli e la cui natura viene precisata subito dopo: morte e pianto, cioè sofferenza e dolore. Una visione che Ap 21,4 riprenderà e farà propria: “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate”. Anche qui il velo è stato tolto. Ed anche Paolo parla qui di un velo che sta per essere tolto, lasciando trasparire la realtà ultima, quella escatologica, che “sta per essere rivelata in noi”, ma che comunque è già presente in noi. Viene qui sottolineata l'imminenza di questo svelamento e, quindi, l'implicito sollecito a resistere e a conformarsi alle esigenze dello Spirito, mortificando quelle della carne, senza risparmiarsi, poiché, com'era convinzione nella chiesa del I sec., il ritorno del Signore e con lui il giudizio finale e la fine dei tempi, era imminente. Un nuovo mondo, quindi, stava per comparire, quello rigenerato da Dio nel suo Cristo in mezzo agli uomini. Una convinzione che Paolo lascia trasparire anche in 1Cor 7,29ss e qui, in 13,12, dove sollecita la comunità di Roma a rivestirsi delle armi della luce, poiché ormai la notte sta per finire e il giorno s'avvicina.
L'imminenza del disvelamento della gloria, che è già presente in mezzo ai credenti, benché offuscata da una corporeità spazio-temprale decaduta, crea una notevole tensione esistenziale dai forti toni escatologici non solo nei credenti, ma anche nella creazione stessa, la quale è strettamente legata all'uomo, che di questa vive e questa lo alimenta accogliente, in una stretta inscindibile e imprescindibile relazione. Gen 6,11-13 attesta questo profondo legame tra l'uomo e la creazione tanto da non farne distinzione: “Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza. Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra. Allora Dio disse a Noè: <<E' venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza; ecco, io li distruggerò insieme con la terra>>”. Quindi anche la terra, pur nella sua incolpevolezza è stata contaminata e travolta, suo malgrado, dalla colpa dell'uomo, che l'ha trascinata con sé nel baratro della morte. Ma se questo legame inscindibile tra uomo e creazione è stato tale da trascinarla nella “vanità”, cioè alla negazione del suo essere, altrettanto vero è che il riscatto dell'uomo, la sua redenzione e il suo ricollocamento nella dimensione divina influirà parimenti anche sull'intera creazione, che qui Paolo rende animata e cosciente di questo suo stato di caducità: “L'attesa impaziente della creazione, infatti, attende ansiosamente la manifestazione dei figli di Dio” in cui viene evidenziato lo stato di “attesa impaziente e ansiosa”, che sottolinea la forte tensione verso il riscatto finale dell'uomo, a cui essa è strettamente legata e partecipe, implementando il senso escatologico di questa attesa. La prospettiva che si para davanti al credente è quella di una nuova creazione, dove un uomo nuovo, lui, rigenerato dallo Spirito, verrà nuovamente ricollocato come lo fu nei primordi dell'umanità, allorché creazione ed uomo erano ancora incandescenti di Dio.
Un'attesa, quella della creazione, che Paolo aveva già definito al v.19 impaziente ed ansiosa, ma che ora svela come gemente e sofferente, lasciando intravvedere come queste sofferenze, a cui la creazione è assoggettata e con essa anche l'uomo, siano il preannuncio della nascita di un nuovo mondo rigenerato dallo Spirito e nello Spirito. Una sofferenza ed una morte che in Cristo sono state riscattate, divenendo non più una maledizione, ma un segno di speranza, l'annuncio di una nuova gioia imminente che sta per nascere, così come le doglie del parto sono l'annuncio dell'avvento di una nuova vita.
Uomo e creazione, dunque, sono inscindibilmente legati tra loro, così che le attese di redenzione e riscatto dell'una accompagna quelle interiori di ogni credente, che pur non vedendo queste realtà già attuate in lui, tuttavia sa che esse ci sono e che, sciolta l'opacità di questa corporeità despiritualizzata, appariranno in tutta la loro luce, così come lo erano agli inizi della creazione, collocata, fin da subito, nella luce divina, il primo atto creativo di Dio (Gen 1,3).
Questa
attesa impaziente e ansiosa verso una realtà che sappiamo esserci,
ma non ancora visibile, è animata e sostenuta dalla speranza
(vv.24-25), che non va intesa in senso umano, caratterizzata da molti
punti interrogativi insolubili, ma è qualificata dalla certezza, che
poggia sulla Parola di Dio, il quale ci ha donato suo Figlio,
incarnato-morto-risorto, che ha inaugurato questa nuova realtà,
avvolta e permeata dallo Spirito, cioè della stessa Vita di Dio,
distruggendo sulla croce, in se stesso, la vecchia creazione
adamitica, dopo averla assunta nella sua incarnazione, vissuta nella
propria vita e portata sulla croce, rigenerandola nella risurrezione
con la potenza dello Spirito Santo. Ed è proprio perché i contenuti
di tale speranza sono realtà certa, benché non ancora visibile, che
questa speranza è in grado di alimentare e sostenere le attese
escatologiche, che fondano sulla fede nella Parola e, ancor prima,
nel Risorto. Una fede, che Eb 11,1 definisce come “fondamento delle
cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”.
Lo
Spirito guida i credenti nel loro rapporto con Dio
(vv.26-30)
All'interno di questo grande quadro cosmico, dove convivono in solido l'uomo con l'intera creazione, rigenerati dalla potenza dello Spirito Santo, che anticipa fin d'ora le realtà escatologiche costituendosene garante, benché non ancora percepibili se non attraverso la fede, Paolo ora accentra la sua attenzione sul ruolo dello Spirito in rapporto al credente e alla stessa creazione, entrambi gementi (vv.22-23) per la condizione di un “già, ma non ancora”, che crea una forte tensione di attesa impaziente ed ansiosa verso la manifestazione delle realtà ultime. Gemiti che nascono da una condizione esistenziale di sofferta debolezza, che si coniuga con quelle realtà spirituali, che già sono presenti e vivono in loro, ma non ancora pienamente e definitivamente affermate, per cui il credente e l'intera creazione si trovano ad essere con un piede su due staffe: da un lato, ancora avvolti da una carne di peccato, che ha logiche contrarie a quelle dello Spirito e li vincola, loro malgrado, alle realtà di un mondo decaduto; dall'altro, la rigenerazione e la rinascita di un mondo nuovo, generato dalla risurrezione di Cristo, che si muove secondo le logiche dello Spirito, contrarie a quelle della carne. Ed è da questo contrasto, questa battaglia, che si svolge all'interno dell'uomo e della stessa creazione, che nascono i loro gemiti, ai quali si associano, con quel “`WsaÚtwj” (Osaútos, Parimenti, in egual modo) i gemiti dello Spirito Santo. Un “parimenti” che dice tutta la solidarietà del Padre verso questa umanità decaduta, dapprima manifestatasi ed attuatasi attraverso il dono di suo Figlio, poi, ora, attraverso il dono dello Spirito, che come una levatrice ci aiuta a partorire questo nuovo mondo, che già vive ed opera dentro di noi, all'interno di una carnalità decaduta e che ce lo oscura, sostenendoci nel nostro cammino spirituale di partorienti, aiutandoci ad entrare in relazione con realtà spirituali che, proprio per la nostra debolezza, non sappiamo neppure come relazionarci. Sono “gemiti”, quelli dello Spirito, che Paolo definisce “indicibili”, cioè non traducibili con parole umane, le quali circoscrivono, concettualizzano ed esprimono realtà materiali, mentre l'azione dello Spirito, così come i suoi gemiti, si muovono su livelli spirituali, i quali, per essere percepiti e compresi, abbisognano che l'uomo si elevi spiritualmente, sensibilizzandosi al linguaggio spirituale. Sono moti interiori, ispirazioni, intuizioni che, accompagnati da un'intelligenza spirituale, aprono nuovi squarci nella nostra comprensione delle cose e della vita, una nuova comprensione di noi stessi e della nostra storia e che ci aiutano a costruire il nostro cammino verso queste realtà escatologiche.
Uno Spirito che si colloca in relazione con il Padre, a tutto favore dei santi, un appellativo con cui Paolo sovente definisce i credenti in Cristo26, in quanto rivestiti di Dio, che è il Santo per eccellenza27, Padre e Fonte di ogni santità. Un Padre che Paolo, seguendo la tradizione scritturistica, definisce come “colui che scruta i cuori”28 e quindi conosce le profondità dello Spirito e i suoi moti più reconditi e sa che i suoi gemiti sono conformi al suo progetto di salvezza, così come lo è il suo agire e il suo ispirare nei credenti, così che la loro preghiere gli riesce gradita.
In questo contesto di santità, generato dai gemiti dello Spirito e che permea ogni credente, che in quanto tale, rientra nel piano salvifico del Padre, Paolo, ora, snocciola, come in una sorta di filastrocca, i vari passaggi, tutti tra loro concatenati, quasi a cascata, nei quali si rivela il piano salvifico del Padre nei confronti dei credenti (vv.28-30). Uno svelamento che inizia con una sorta di dogmatico ed autorevole “Sappiamo che”, dietro il quale si scorge l'autorevolezza della Chiesa e di una dottrina che ormai si sta lentamente formando; punti chiave e fondamentali di riferimento per ogni credente.
Lo svelamento del piano salvifico del Padre inizia con l'affermazione: “tutto concorre al bene per quelli che amano Dio” (v.28a) e termina con l'attestare come questi sono “anche glorificati” (v.30c). Vi è, dunque, su quanti “amano Dio” come una sorta di predestinazione, non aprioristica e a prescindere, ma insita nell'amore stesso per Dio, che è la chiave di volta su cui fonda l'intero piano salvifico. L'amore di Dio è un pilastro scritturistico fondamentale (Dt 6,5) ed ha la sua propaggine complementare nell'amore per il prossimo (Lv 19,34b), che il Gesù sinottico riprenderà e proporrà ai suoi discepoli quale assolvimento dell'intera Legge29 e di cui lo stesso Paolo se ne avvarrà, qui, in Rm 13,9 e, ancor prima, in Gal 5,14. Un amore di Dio che passa attraverso l'amore del prossimo e si completa in esso, così che 1Gv 4,20-21 osserverà: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello”.
L'amore per Dio, che si riflette in quello del prossimo, deve permeare la vita del credente e va ben oltre ad un semplice sentimento, poiché esso designa un atteggiamento interiore, al di là delle proprie connaturate fragilità, di totale apertura a Dio e di sua totale accoglienza in se stessi, nonché una totale donazione di se stessi a Lui. In questo contesto di amore, che è accoglienza e donazione, “tutto concorre al bene”, cioè tutto nel credente diviene salvifico, quasi in una sorta di consacrazione della sua vita stessa, che diviene vita di santità, la quale, in quanto tale, genera salvezza per se stesso e per gli altri.
Posto, dunque, il principio che tutti coloro che amano Dio (v.28) sono destinati alla salvezza, che è glorificazione (v.30c), ora, Paolo snocciola i diversi passaggi che rivelano e giustificano la sua attestazione, che è stata resa in qualche modo dottrinale con quel “Sappiamo” iniziale da cui dipendono i vv.28-30.
Il primo passaggio (v.28) avviene tra “quelli che amano Dio” a “quelli che sono chiamati secondo la sua deliberazione”. Nell'amare Dio è, di per sé già insita una chiamata divina, che attrae l'amante verso l'Amato e tutto ciò non è avvenuto per un semplice caso fortuito, ma rientra in un preciso piano divino, che qui Paolo definisce “secondo la sua deliberazione”, quasi una sorta di decretazione divina, sottesa dalla volontà di Dio di recuperare l'uomo in Se stesso, in cui era stato concepito e creato, e da cui era drammaticamente fuoriuscito.
Il secondo passaggio (v.29) ha come punto di partenza “quelli che conobbe prima”. Il “conoscere” nel linguaggio biblico, più che un atto intellettivo ed astrattivo, è esperienza, che qui affonda le sue radici nell'Amore amante e amato, che ha le sue origini in quel “prima”, cioè ancor prima della creazione del mondo, ancor prima che tutte le cose prendessero la loro consistenza e si manifestassero per quelle che sono, come lascia intuire Ef 1,4: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”. Un piano, dunque, che ha preso forma ed è divenuto operativo “ancor prima”, così che tutte le cose avvenute successivamente erano in funzione di questo piano, già attuato in Cristo, ma che solo con la consistenza storica poteva dirsi compiuto: “ Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1,16b). Un piano che prevedeva, fin dall'eternità, la conformazione del credente ad immagine del Figlio, divenuto il Cristo, il nuovo Adamo, costituito Figlio di Dio nella risurrezione dai morti per mezzo della potenza dello Spirito Santo (1,4), così che quanti si erano conformati al Cristo-Figlio sono divenuti anch'essi figli nel Figlio. In tal modo il Figlio è divenuto parametro di conformazione dell'intera umanità e in quanto tale il “primogenito tra molti fratelli”, generati tali proprio per la loro conformazione al Cristo-Figlio, avvenuta per mezzo della fede e del battesimo.
Il
terzo passaggio
(v.30) è caratterizzato dal susseguirsi incalzante di quattro verbi,
tra loro concatenati in uno sviluppo continuo l'uno dell'altro.
Questi più che essere una successione cronologica eventi,
rappresentano la dinamica del piano complessivo di salvezza elaborato
dal Padre, che punta alla glorificazione dell'intera umanità e, con
essa, dell'intera creazione, riconducendole entrambe in quella
primordiale Luce divina, che costituì il primo atto creativo di Dio
(Gen 1,3), entro il quale creazione ed umanità furono collocate nel
principio: “prestabilire”, “chiamare”, “giustificare” e
“glorificare”, dove quel “prestabilire” dice il punto di
partenza del disegno salvifico, che si trova nell'eternità stessa
del Padre, ancor prima della creazione (Ef 1,4) e che ha come
obiettivo finale quello della “glorificazione”, cioè della
rigenerazione cosmica per Cristo e in Cristo, divenuto il cuore
pulsante dell'universo, secondo il prestabilito disegno, che vede la
ricapitolazione di tutte le cose, quelle del cielo e quelle della
terra nel Figlio (Ef 1,10b).
Vincitori
in Cristo Gesù (vv.31-34)
Dopo le considerazioni conclusive dei vv.28-30, che schematicamente tracciano le linee fondamentali del progetto salvifico del Padre, attuato in Cristo per mezzo della potenza dello Spirito, a favore non solo dell'uomo, ma altresì dell'intera creazione, che lo ospita, e il cui intento è quello di ricondurre entrambi all'interno della dimensione divina, in cui tutto era iniziato (Gen 1,3), Paolo conclude, ora, questa prima ampia sezione dottrinale sul tema della giustificazione per fede e le sue complesse dinamiche, con cui questa si è attuata (1,16-8,39), con una sorta di inno cristologico, che vede i credenti affermati solidamente in Cristo, vincitori contro ogni avversità, sia spirituale (vv.31-34) che fisica (vv.35-39), che nulla ormai possono per coloro che sono in Cristo Gesù (v.1).
L'inno inizia con una sorta di sfida contro gli avversari e le avversità spirituali (v.31), che funge da introduzione al tema, sviluppato ai successivi vv.32.35: “Che diremo, dunque, per queste cose? Se Dio (è) per noi, chi contro di noi?”. Le “cose” a cui Paolo qui si riferisce sono certamente quelle più prossime a questo inno, quindi, i vv.28-30, ma altresì anche l'intero cap.8, che costituisce il vertice e la conclusione di questa ampia sezione dottrinale (1,16-8,39), dedicata interamente alla giustificazione per mezzo della fede, e che, a sua volta, non va esclusa da “queste cose”, poiché essa, in modo progressivo e sistematico, presenta in tutti i suoi molteplici aspetti il progetto salvifico del Padre, attuatosi in Cristo per mezzo dello Spirito, nonché le sue complesse dinamiche, che vedono un Dio impegnato in prima persona a favore dell'uomo, per cui “Se Dio (è) per noi, chi contro di noi?”. Una domanda retorica, che lascia intendere come nulla ci potrà mai colpire o condannare, poiché Dio ha scommesso tutto su di noi. Ma Paolo intende motivare e giustificare le certezze spirituali in cui è stato collocato il credente per mezzo della sua fede e del suo battesimo.
Tre
sono i passaggi che mettono in evidenza le motivazione che
evidenziano la sicurezza di questa nostra salvezza, che nulla deve
temere. Ogni passaggio è introdotto da una domanda retorica, fatta
seguire da una risposta, che riprende in toni kerigmatici gli eventi
salvifici, posti a fondamento della nostra fede e del progetto
salvifico operato dal Padre nel suo Figlio, Gesù, il Cristo:
In prima posizione (v.32) Paolo mette in rilievo il dono che il Padre ha fatto per “tutti noi”, dove in quel “noi” vanno letti i “credenti”, che hanno aderito con la loro fede a questo dono primario del Padre: il “Figlio”, in cui Egli ha ricapitolato tutte le cose (Ef 1,10), così che l'aver aderito esistenzialmente a lui per mezzo della fede e del battesimo, condivideranno con lui anche il nuovo mondo e le nuove realtà rigenerate in lui per opera dello Spirito Santo, così che i credenti regneranno con lui, quali figli nel Figlio30;
il secondo passaggio (v.33) costituisce una sorta di giustificazione del v.1, in cui si attestava che “non vi è nessuna condanna per (quelli) in Cristo Gesù”. Perché, dunque, Paolo ha potuto affermare questo? Il motivo è dato qui: “Chi muoverà accuse contro gli eletti di Dio? Dio (è) colui che giustifica;”, dove quel “Dio che giustifica” lascia intendere l'ampio perdono che il Padre ha concesso in modo definitivo e universale all'intera umanità, distruggendo sulla croce l'uomo vecchio, su cui gravava la condanna (6,6), rigenerando a nuova vita ogni credente per mezzo dello Spirito, che ha operato ed opera in Cristo la nuova creazione, costituendolo capostipite di una nuova umanità (5,14-19; 1Cor 15,20-23);
il terzo passaggio (v.34) va a completare il v.32, specificando qui
in che cosa consista quel “lo ha consegnato per tutti noi” e
quali fossero le sue finalità, che qui vengono scandite in quattro
passaggi, che formano gli elementi fondamentali della nostra fede e
del mistero della nostra salvezza: morte, risurrezione, ascensione
alla destra del Padre, presso il quale egli, Gesù Cristo,
“stabilito Figlio di Dio con potenza secondo (lo) Spirito di
santità da(lla) risurrezione (dei) morti, Gesù Cristo nostro
Signore” (1,4), intercede per noi (Eb 7,22-27).
Queste,
dunque, le motivazione, che sorreggono nella speranza il credente,
rendendolo saldo nella sua fede.
E
nulla ci potrà separare dall'amore di Cristo
(vv.35-39)
Se,
dunque, le realtà spirituali, in cui siamo stati collocati (Col
1,13) in virtù della nostra fede e del nostro battesimo, che ci ha
cristificati nella sua morte e nella sua risurrezione, così che
anche noi siamo con-morti e con-risorti con lui (6,3-8) e la nostra
vita ora è nascosta con Cristo in Dio (Col 3,3), divenendone sua
proprietà, a Lui consacrati, sono divenute certezza, che mai
potranno essere in qualche modo inficiate, in quanto stabilite e
garantite dal Padre per mezzo del suo Figlio, il Cristo, sia pur
nella speranza (vv.24-25), diverso discorso si pone per la nostra
condizione storica, soggetta ancora alle forze della carne e del
peccato, forze contrarie al mondo dello Spirito e al progetto stesso
del Padre. Forze che si materializzano e storicamente prendono forma
nelle persecuzioni, che Paolo ha potuto sperimentare in prima persona
in vari modi e in numerose occasioni durante la sua missione, delle
quali dà testimonianza in 2Cor 11,23-28: “Sono
ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro:
molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie,
infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte.
Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte
sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre
volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa
delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di
briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani,
pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare,
pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza
numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a
tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte
le Chiese”.
Una condizione di vita difficile e funestata da continue
persecuzioni. Una vita costantemente oltraggiata e che a Paolo fa
ricordare il Sal 43,22, il cui contesto è difficile da collocare.
Forse un'allusione alle persecuzioni di Antioco IV Epifane ai tempi
delle guerre maccabaiche (167-164 a.C.). Questi, per uniformare il
regno dei seleucidi, aveva deciso di ellenizzare i costumi dei suoi
sudditi e il loro modo di vivere entrando così in conflitto con il
mondo religioso giudaico, quello dei Padri, innescando così una dura
persecuzione. Ma ciò che più deve aver spinto Paolo a citare questo
salmo deve esser stato quel “A causa tua”, che qui Paolo
riferisce chiaramente a Cristo e, quindi, personalizzando la
citazione: “A causa tua veniamo mortificati tutto il giorno, siamo
considerati come pecore da macello”. Situazioni schiaccianti, che
mettono in discussione quotidianamente la vita e nelle migliore delle
ipotesi la rendono molto difficile, eppure “in tutte queste cose
stravinciamo per mezzo di colui che ci ha amati”. In altri termini,
l'amore di Cristo per il credente, che è l'amore che muove il
credente verso Cristo e lo lega a lui, è questo amore la sua forza,
che lo spinge sempre oltre, così che Paolo conclude, elencando gli
estremi opposti, abbracciando così l'intero cosmo, e per dire come
tutto questo “non potrà mai separarci
dall'amore di Dio, che (è) in Cristo Gesù nostro Signore”,
cioè che si è manifestato e resosi tangibile in Cristo: “Sono
persuaso, infatti, che né morte né vita, né angeli né principati,
né le cose presenti né quelle future, né potenze, né
altezza né profondità, né qualche altra creatura potrà separarci
dall'amore di Dio, che (è) in Cristo Gesù nostro Signore”
(vv.38-39).
Appendice alla sezione
dottrinale dottrinale
Una sofferta ricerca
delle cause che hanno provocato il fallimento di Israele: una lettura
teologica del ruolo e dei destini di Israele nella storia della
salvezza (9,1-11,36)
Note generali
I capp.9-11 costituiscono un unico blocco tematico a se stante, sostanzialmente privo di correlazione sia con la sezione dogmatica 1,16-8,39, in cui si è trattato della giustificazione per fede, sia, tantomeno, con la sezione parenetica successiva (12,1-15,33). Prova ne è che se questi tre capitoli venissero tolti nulla cambierebbe nella Lettera ai Romani e nessuno sminuimento subirebbe la sezione dottrinale.
Tre sono le motivazioni a favore di questa tesi: a) i capp.9-11 sono delimitati da un'inclusione data da un grido di dolore, posto in apertura di questa trilogia (9,1-3), e un inno di esultanza, che la conclude (11,33-36), creando in tal modo un corpo tematico unico a se stante; b) quindi se la trilogia si apre con un grido di dolore e termina con un gioioso inno di ringraziamento e di lode, è evidente che tutto ciò che ci sta di mezzo va considerato come un percorso spirituale e intellettuale alla ricerca di una risposta, che Paolo sembra aver, infine, trovato; c) l'intera trilogia, infatti, si configura come un percorso di ricerca personale di Paolo circa i destini di Israele, cercando di dare una risposta alla sua grande sofferenza che ha manifestato in apertura (9,1-3). Nulla, quindi, di dottrinale in senso tecnico, come invece sono i primi otto capitoli de questa Lettera, ma solo una ricerca interiore di Paolo, sulle cui conclusioni si può anche dissentire, come del resto personalmente dissento, considerati questi circa 3800 anni della storia di Israele, partendo da Abramo, e considerati gli ultimi 2000 anni di questa storia, partendo da Cristo, senza con ciò voler porre limiti alla Provvidenza;
Perché dunque questi tre capitoli? Posto che questi non siano stati aggiunti in tempo successivo, ipotesi difficile da sostenere perché linguaggio, modo di fraseggiare e teologia sono paolini, due sono probabilmente i motivi per cui Paolo li ha qui inseriti: il primo, che potremmo definire di ordine psicologico, aprire una ricerca sulle motivazioni che hanno spinto Israele a rifiutare l'adesione al Cristo e, quindi, ipso facto, porsi fuori dalla storia della salvezza ed essere, pertanto, destinato alla perdizione eterna, decretando il fallimento di Israele.
Una situazione questa insostenibile per Paolo, un fariseo zelante fino al fanatismo (Gal 1,14). Lo lascia, infatti, intendere in apertura di questa trilogia, dove descrive il suo stato d'animo di “grande dolore e una incessante sofferenza nel mio cuore”, pronto a subire lui stesso l'anatemismo, cioè il giudizio di condanna e diventare lui stesso anatema, cioè un reietto e un dannato se questo tornasse in qualche modo a favore dei suoi correligionari (9,1-3); così come il suo grande desiderio e le sue preghiere presso Dio sono tutte per loro (10,1). Non riesce a capacitarsi come ciò sia potuto accadere, loro che hanno avuto tutto: l'elezione a figli, la promessa, l'Alleanza, la Legge, i profeti e il culto; loro dalla cui discendenza carnale è uscito il Cristo (9,4-5).
Il secondo motivo è di ordine scritturistico-dottrinale e fornisce le risposte all'intimo cruccio di Paolo, l'unico che possa legare in qualche modo questi tre capitoli alla sezione dottrinale precedente, sia pur tematicamente diversi, e costituisce un'analisi del ruolo di Israele nell'ambito della storia della salvezza, posta in rapporto al mondo dei pagani. L'interrogativo che Paolo si pone, anticipando forse le osservazioni dei suoi lettori o dei suoi avversari, come è sua consuetudine, è il seguente: se la giustificazione la si ottiene solo per mezzo della fede in Cristo e non per mezzo delle opere della Legge, allora che senso ha avuto l'intera storia di Israele e quale ruolo questi ha ricoperto nell'ambito della storia della salvezza e, perché, poi, Israele, giunto il Cristo che attendeva, non lo ha riconosciuto e, quindi, non è trasmigrato, come ha fatto lui, Paolo, e con lui moltissimi altri giudei, nella nuova fede?
Saranno questi interrogativi di fondo che condurranno Paolo alla ricerca di una risposta in questi tre capitoli, che costituiscono, più che un piccolo trattatello di soteriologia in riferimento al ruolo di Israele e al mondo pagano, come, invece, lo fu la prima sezione 1,16-8,39, un'affannosa e sofferta ricerca personale del perché, rimasto fin qui senza risposta, Israele, depositario di un originale disegno di salvezza ed eletto in sua funzione (Es 19,4-6), lo abbia poi tradito, beneficiandone invece, il mondo pagano.
Questi tre capitoli, pertanto, vanno letti e compresi come una ricerca personale di Paolo, finalizzata a chiarirsi interiormente sulla questione del fallimento di Israele. Tuttavia non è da escludersi che questa lunga e sofferta riflessione, scritturisticamente sostenuta, sia stata inserita in questa Lettera ai Romani sia perché questa comunità è stata fondata e catechizzata da giudeocristiani giudaizzanti, riflettendone quindi il pensiero e l'impostazione, e sia perché questa comunità aveva a che fare quotidianamente con un'altra comunità, con cui era in concorrenza e sovente ai ferri corti a motivo del proselitismo, quella ebraica. Quindi, non va escluso che Paolo abbia fornito i frutti della sua ricerca interiore alla comunità credente di Roma, perché potesse avere dei parametri di confronto con se stessa e con il mondo ebraico, che coabitava con lei in Roma, al fine di spingere entrambi ad una reciproca comprensione e dialogo.
Quanto
alla struttura analitica dei capp.9-11, propongo la seguente, tenendo
presente come Paolo nei primi due capitoli (9-10) di questa trilogia
(9-11), elaborerà tutta una serie di argomentazioni scritturistiche,
che gli serviranno per sostenere e trarre le conclusioni del cap.11:
Preambolo introduttivo, che costituisce il motivo di questa trilogia (9,1-3);
Lo stato di privilegio di Israele (9,4-5);
La vera discendenza di Abramo: Isacco e Giacobbe sono i veri figli di Abramo secondo la promessa di Dio, che opera la storia della salvezza in piena libertà e liberalità. Paolo mette qui le premesse per allargare la figliolanza divina anche ai pagani (9,6-21);
Libertà e liberalità di Dio: in questo contesto Dio ha chiamato non solo Israele, di cui si è riservato un resto, ma anche altri che Israele non sono (9,22-29);
Motivazioni storiche per cui Israele non ha conseguito la salvezza che, invece, altri hanno conseguito (9,30-33);
Conclusione di 9,30-33 e preambolo a 10,4-21: contrapposizione tra grazia e opere della Legge nel conseguimento della giustizia (10,1-3);
Il fondamento della fede non sono le opere, ma la Parola del Vangelo, piantata nel cuore di ogni credente, mediante l'annuncio accolto, che va testimoniato con le labbra e la vita (10,4-21);
La durezza di cuore di Israele non fa fallire il piano di salvezza di Dio, ma questo prosegue con un resto (11,1-10);
Il senso della caduta di Israele: la caduta di Israele andò a
beneficio delle genti. Quindi la sua caduta rientra nel piano
salvifico di Dio per la salvezza di tutti, ma alla fine anche
Israele sarà salvato (11,11-36).
Da un'attenta lettura della struttura analitica dei cap.9-11, ma meglio lo si comprenderà affrontando i molteplici passaggi all'interno di ogni singolo capitolo, apparirà tutto il tormento e il travaglio interiore di Paolo, che traspare dalla sua meticolosa quanto complessa e contorta riflessione che ha sviluppato, fondandola prevalentemente sulle Scritture e cercando in esse le risposte ai suoi sofferti quanto dolorosi interrogativi, che potremmo così sintetizzare: com'è possibile che Israele abbia potuto fallire, lui che ha avuto ogni privilegio da parte di Dio, che lo ha preparato per secoli al grande incontro con suo Figlio, giunto il quale, non solo non lo ha riconosciuto, ma lo ha anche rifiutato e perseguitato fino ad ucciderlo; mentre, per contro, il mondo pagano, nemico di Dio per sua natura, non solo lo ha riconosciuto, ma lo ha anche accolto. Insomma, le cose sono andate alla rovescia. Com'è potuto succedere tutto questo!
Questo è sostanzialmente il dramma di Paolo, al quale egli cerca di dare una risposta fondandola scritturisticamente, più per convincere se stesso che gli altri, ma, a mio avviso senza riuscirci, per le conclusioni che ha tratto alla fine: tutti, a giochi finiti, saranno salvati (11,30-32). Una conclusione voluta e che esplode in quell'inno alla recondita Sapienza di Dio, a cui ha voluto affidare il Mistero.
Analisi del cap.
9,1-33
Testo
a lettura facilitata
Preambolo
(vv.1-3)
1-
Dico la verità in Cristo, non mentisco, essendomi contestimone la
mia coscienza nello Spirito Santo,
2-
poiché ho un grande dolore e una incessante sofferenza nel mio
cuore.
3-
Mi vanterei, infatti, di essere io stesso anatema, (separato) da
Cristo a favore dei miei fratelli, miei consanguinei secondo la
carne,
I privilegi di Israele (vv.4-5)
4-
questi sono Israeliti, dei quali (sono) l'adozione a figli e la
gloria e le alleanze e la legislazione e il culto e le promesse,
5-
dei quali (sono) i padri e dai quali (discende) il Cristo secondo la
carne, il quale è sopra tutte le cose, Dio benedetto per tutti i
secoli, amen.
Veri figli di Dio sono i figli della promessa (vv.6-13)
6-
Ma la parola di Dio non è decaduta. Infatti, non tutti (quelli che
discendono) da Israele, questi (sono) Israele;
7-
né perché sono discendenza di Abramo (sono) tutti (suoi) figli, ma
“in Isacco sarà per te chiamata discendenza”.
8-
Cioè, non i figli della carne (sono) questi figli di Dio, ma i figli
della promessa sono computati a discendenza.
9-
questa è la parola della promessa: “Verrò per questo tempo e Sara
avrà un figlio”.
10-
Non solo, ma anche Rebecca che ha avuto (figli) da un solo letto,
(da) Isacco, nostro padre;
11-
infatti, non essendo ancora nati né avendo fatto qualcosa di bene o
di abbietto, affinché rimanesse la deliberazione di Dio secondo
l'elezione,
12-
non dalle opere, ma da colui che chiama, le fu detto: “Il maggiore
servirà al minore”,
13-
come sta scritto: “Ho amato Isacco, ho odiato Esaù”.
Libertà di Dio nel disporre la storia della salvezza (vv.14-18)
14-
Che diremo dunque? Forse che (c'è) ingiustizia presso Dio? Che non
sia mai!
15-
Infatti dice a Mosè: “Avrò compassione di chi ho compassione e
avrò pietà di chi ho pietà”.
16-
Così, dunque, non (dipende dalla volontà) di chi vuole né di chi
si affretta, ma (dalla volontà) di Dio che ha compassione.
17-
Dice, infatti, la Scrittura al Faraone: “Per ciò stesso ti ho
provocato, per mostrare la mia forza in te e perché il mio nome sia
divulgato in tutta la terra”.
18-
Così, dunque, ha misericordia di colui (verso) il quae vuole (avere
misericordia); ma indurisce colui che vuole (indurire).
Nessuno può giudicare l'operato di Dio (vv.19-21)
19-
Pertanto mi dirai: “Perché, dunque, ancora rimprovera? Infatti chi
resiste alla sua volontà?”.
20-
O uomo, ma chi sei tu che controbatti a Dio? Forse che la cosa
plasmata dirà a colui che (la) ha plasmata: “Perché mi ha fatto
così?”.
21-
O non ha autorità il vasaio sulla creta di fare con lo stesso
impasto ciò che è (destinato) a cosa onorevole o ciò che è,
invece, (destinato) a cosa disonorevole?
Dio stabilisce i tempi e le modalità con cui opera nella storia della salvezza (vv.22-29)
22-
Ma se Dio, volendo mostrare l'ira e rendere nota la sua potenza,
sopportò con molta pazienza vasi d'ira preparati per (la) rovina,
23-
e per mostrare la ricchezza della sua gloria verso vasi di
misericordia, che ha preparato per la gloria,
24-
(cioè) noi, che ha anche chiamato non solo dai Giudei, ma anche
dalle genti,
25-
come dice anche in Osea: “Chiamerò il non mio popolo, mio popolo;
e la non amata, amata;
26-
e sarà nel luogo dove fu detto loro: “Voi non (siete) mio popolo”,
là saranno chiamati figli del Dio vivente”.
27-
E Isaia grida a riguardo di Israele: “Qualora il numero dei figli
di Israele fosse come la sabbia del mare, (solo) il resto sarà
salvato.
28-
Poiché il Signore compirà sulla terra la (sua) parola, portando(la)
a termine e tagliando corto”.
29-
E così predisse Isaia: “Se il Signore degli eserciti non ci avesse
lasciato una discendenza, saremmo diventati come Sodoma e come
Gomorra saremmo stati fatti simili”.
In quale modo Dio manterrà fede e compirà la sua parola (vv.30-33)
30-
Che diremo dunque? Che i popoli, che non inseguivano (la) giustizia,
colsero la giustizia, ma (la) giustizia (che viene) dalla fede.
31-
Israele, invece, che inseguiva una Legge di giustizia, non giunse a
(tale) Legge.
32-
Per quale ragione? Perché (inseguiva la giustizia) non dalla fede,
ma come dalle opere: urtarono nella pietra dell'inciampo,
33- come sta
scritto: “Ecco, pongo in Sion una pietra d'inciampo e una pietra di
scandalo, e chi crede in lui non sarà svergognato”.
Note
generali
Questo primo capitolo della trilogia (capp.9-11) è fondamentale per la tesi di Paolo, poiché mette le basi dell'agire di Dio nella storia della salvezza, elementi utili questi per comprendere il rifiuto di Israele e l'apertura della salvezza al mondo pagano.
Dopo i primi cinque versetti con i quali Paolo esprime tutto il suo dolore (vv.1-3) e il suo stupore (vv.4-5) per quanto è accaduto, passa a considerare la natura del vero Israele, i cui membri non sono legati alla discendenza carnale, ma a quella spirituale, fondata sulla promessa. Un passaggio importante questo, perché consente a Paolo di superare gli stretti vincoli storici, che legano l'agire di Dio all'Israele della storia, per aprire così al vero Israele, quello legato alla promessa e non alla discendenza carnale. Un'apertura questa che gli consentirà di includere in tal modo anche il mondo pagano, qualora questo rispecchi in se stesso le condizioni per accedere alla promessa, cioè la fede (vv.6-13).
Il secondo passaggio
è quello di stabilire la piena libertà di Dio nel disporre la
storia della salvezza a suo piacimento (vv.14-18) e nessuno gli si
può opporre giudicando il suo operato (vv.19-21). È Lui, infatti,
che ne stabilisce i tempi (vv.22-26) e le modalità del suo
compiersi (vv.27-29), così che si manifesterà a tutti in quale modo
Egli manterrà fede alla sua Parola (vv.30-33), non secondo le
logiche umane o le aspettative degli uomini, ma secondo il suo
progetto, che vuole che tutti gli uomini, Giudei o Greci che siano,
siano salvi (11,32).
Commento
a 9,1-33
Preambolo
(vv.1-3)
Questi primi tre versetti sono di rilevante importanza, perché posti in apertura di questa trilogia, avvertendo in tal modo il lettore che quanto seguirà e si svilupperà in questi tre capitoli non riguarda un piccolo trattato di soteriologia, ma di una difficile quanto sofferta indagine di Paolo, che cerca, attraverso un excursus scritturistico, di trovare le ragioni del fallimento di Israele, a cui sono legate le promesse fondate sulla parola di Dio. Ci troviamo, dunque, di fronte ad un dramma umano e spirituale nel contempo, quello di un Paolo, che cerca di dare una risposta credibile al suo cruccio interiore.
Il preambolo esordisce con una sorta di attestazione giurata che chiama in causa due testimoni attendibili: “la mia coscienza nello Spirito Santo”; una coscienza, dunque, quale intimo e sacro luogo d'incontro tra Dio e l'uomo, dove nessuno può mentire a se stesso, soprattutto se questo luogo è illuminato dallo Spirito Santo, che ne attesta la veridicità. Due realtà, queste, inscindibili tra loro, significate in quel “contestimone” (summarturoÚshj, simmartirúses).
Ciò
che la coscienza di Paolo, permeata e garantita dalla luce dello
Spirito Santo, deve testimoniare sono i vv.2-3: “grande dolore” e
“incessante sofferenza”, che descrivono la stato d'animo e il
livello di profonda prostrazione spirituale e psicologica di Paolo
per il fallimento di Israele, di cui egli si sente parte viva e
integrante, quindi parte direttamente in causa: “sono Israelita,
della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino” (11,1b). Ma
sotto questo dramma, il fallimento di Israele, ce ne sta un altro,
che lo sottende e che enuncerà in 11,1a: “forse che Dio ha
respinto il suo popolo?”. Certo che no, si risponderà. Ma il fatto
che abbia posto la questione e che si impegni in tutto il cap.11 a
dimostrarlo, significa che nel profondo del suo animo c'è il dubbio.
Ed è proprio questo che lo fa soffrire e che gli farà dire in 9,6a,
quasi per incoraggiarsi ed allontanare il dubbio: “Ma la parola di
Dio non è decaduta”. Ed è su questa certezza che egli cercherà
la strada per sciogliere ogni dubbio, che non solo lo fa soffrire
intimamente e lo disturba, ma lo spinge a dichiararsi pronto a
diventare un “anatema”, cioè un maledetto da Dio e destinato
alla perdizione eterna, ma che lui interpreta a modo suo “(separato)
da Cristo”; un Cristo di cui egli si sente profondamente permeato
tanto da dichiarare in Gal 2,20: “Sono
stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio
di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”,
tanto è il suo legame con Cristo e per il quale non solo è pronto
morire, ma ritiene che il morire per Cristo sia per lui un guadagno:
“Per
me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno”
(Fil 1,21). Ebbene, Paolo si dichiara pronto a sacrificare se stesso,
il suo stesso rapporto con Cristo se questo suo sacrificio servisse a
ricondurre sulla giusta via gli israeliti, che egli definisce come
“miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne”.
Un'affermazione questa che lascia intravvedere, quasi in filigrana,
come ci sia in realtà un altro Israele, che non è quello della
storia, quello delle genealogie, ma quello delle promesse, quello
spirituale. Questione questa che affronterà ai vv.6b-13.
I privilegi di
Israele (vv.4-5)
Il v.3 terminava con l'espressione “miei fratelli, miei consanguinei secondo la carne”, in riferimento a Paolo, che qui, in vv.4-5, ne rivela l'identità circoscrivendola con tutti i privilegi che le sono propri. Questi “miei fratelli e consanguinei” sono gli Israeliti, ai quali appartiene “l'adozione a figli”, cioè essi sono i discendenti di Giacobbe, al quale l'angelo di Dio, dopo una notte passata a lottare con lui presso il fiume Iabbok, sul far dell'alba lo vinse, e gli cambiò il nome da Giacobbe in “Israele” (Gen 32,25-29), di cui gli Israeliti sono i discendenti. Fu l'inizio di tutti gli altri privilegi, quali l'adozione a figli di Dio (Es 4,22), l'assegnazione di una nuova identità, che li definiva proprietà di Dio, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,5-6), beneficiari delle alleanze che Dio fece con Abramo (15,18; 17,7), con Giacobbe (Gen 32,29), con Mosè (Es 24,7-8), con Davide (2Sam 7,11-16), che presero forma e si concretizzarono nella Torah; a loro venne affidato il culto del vero Dio e divennero gli eredi delle promesse che Dio fece ad Abramo e a tutta la sua discendenza (Gen 17,8; 22,17).
Una genealogia di cui menar vanto e dalla quale discese lo stesso Cristo secondo la carne. Significativa è la conclusione di questo breve excursus delle tappe fondamentali della storia di Israele, partita dalle origini, con Giacobbe, e terminata con Cristo, quasi a dire come tale storia fosse predeterminata in vista di Cristo, quale punto di arrivo di una storia e di ripartenza di un'altra storia, che va ben oltre ai ristretti confini dell'Israele storico, per assumere una dimensione universale e, per certi aspetti, cosmica.
Un punto di arrivo, quello di Cristo, che Paolo celebra con una breve dossologia, posta significativamente qui in apertura di questa trilogia e che fa da parallelo a quella di 11,33-36, posta in conclusione, quasi come una sorta di inclusione celebrativa, entro la quale Paolo colloca questa sua ricerca del senso della storia di Israele e del suo ruolo nella storia della salvezza, che fa parte del progetto salvifico del Padre, attuatosi e manifestatosi nel suo Cristo.
Con un “Amen”
conclusivo si chiude questa prima dossologia e con essa i primi
cinque versetti che fungono da preambolo all'intera trilogia.
Veri
figli di Dio sono i figli della promessa (vv.6-13)
Dopo aver celebrato i punti salienti della storia di Israele (vv.4-5), la quale si intreccia con la stessa parola di Dio ed è da questa garantita con continue e ripetute alleanze, Paolo, ora, parte con le sue considerazioni proprio da questa: “Ma la parola di Dio non è decaduta”. È questa, pertanto, il punto certo e solido da cui iniziare con le proprie indagini. Si tratta di capire come questa parola, che porta con sé le promesse e le alleanze, si è attuata nel corso del tempo e come si sta attuando, dove essa orienta e quale è il suo intento e il suo obiettivo finale. Serve, dunque, investigare gli eventi della storia di Israele, saperli leggere e comprendere.
Paolo, pertanto, parte con la sua indagine dagli inizi di questa storia di Israele, fatta di promesse e intessuta di alleanze, e giunge a discernere un doppio Israele, quello discendente secondo la carne, che si muove secondo le logiche delle genealogie, che vincolano Dio a parametri umani; e quello che si è costituito secondo le promesse. Paolo, a tal punto, opera una scelta, stabilendo come il vero Israele non è quello delle genealogie, ma quello della promessa. Le genealogie, infatti, dipendono dagli uomini, mentre la promessa soltanto da Dio. Così che non tutti i discendenti di Abramo sono suoi figli, ma solo quelli della promessa. Ad Abramo, infatti, Dio aveva promesso una discendenza, che Abramo e Sara, considerata la loro età, non potevano avere, così che, su consiglio della stessa Sara, Abramo si unì alla sua schiava Agar, dalla quale ebbe un figlio, Ismaele. Ma non era questo il figlio della promessa, poiché Ismaele fu il frutto di una decisione umana, che ha bypassato Dio e la sua stessa promessa. Ismaele, dunque, non fu figlio di Abramo secondo la promessa, ma secondo la carne. Il figlio della promessa fu quello di cui Dio disse “Verrò per questo tempo e Sara avrà un figlio”, cioè Isacco, concepito e partorito da Sara ad opera di Abramo. Questo fu il figlio della promessa e la vera discendenza di cui parlava Dio, alla quale aveva promesso una Terra e una grande fecondità, che l'avrebbe reso più numerosa delle stelle del cielo e della sabbia del mare.
Ma,
ora, Paolo va ben oltre, poiché se è ben chiaro che solo Isacco è
il figlio della promessa e non Ismaele, che fu poi cacciato di casa
con sua madre, non è altrettanto chiaro l'operare di Dio sui due
figli di Isacco, avuti da Rebecca: Esaù, il primogenito, e Giacobbe,
il secondogenito. Quindi entrambi figli della promessa, in quanto
discendenti di Isacco, dichiarato da Dio stesso figlio della promessa
e discendenza di Abramo. Quindi Esaù costituiva, per diritto di
primogenitura, la linea della discendenza di Israele secondo la
promessa. Ma è a questo punto che entra in gioco la libertà di Dio,
che opera la storia della salvezza come meglio Egli crede e la
costruisce e la indirizza a suo piacimento, per cui, prima ancora che
i due gemelli fossero nati e, quindi, tutti due innocenti, poiché
nessuno dei due aveva commesso colpe e nessuno dei due aveva avuto
meriti particolari da far valere, nonostante questo, Dio non segue le
logiche umane, come quelle della primogenitura o delle valutazioni
umane, ma le proprie logiche, che sono quelle della elezione e della
grazia, così che non Esaù fu discendenza della promessa, ma
Giacobbe. Un Dio, quindi, che va contro corrente, contro le logiche
umane, poiché i suoi pensieri non sono i nostri pensieri e le sue
vie non sono le nostre vie (Is 55,8), per far comprendere all'uomo
come la storia della salvezza è operata da Lui e non dagli uomini e
come sia Lui a condurla a proprio piacimento e con una sua esclusiva
e insindacabile libertà, che poggia sulla elezione, sulla grazia,
che si fa misericordia e che diventa dono, che assumerà alla fine
del percorso, il volto stesso di Cristo.
Libertà
di Dio nel disporre la storia della salvezza (vv.14-18)
Un Dio, quindi, che viola il diritto di primogenitura e che all'apparenza sembra operare in modo iniquo, perché Esaù viene privato del suo status di primogenito e la linea di discendenza passa a Giacobbe, quindi cambia il binario della storia della salvezza. Come, dunque, rispondere a questa arbitrarietà di Dio? La questione viene affrontata da Polo in due tempi: scritturisticamente, in questa pericope vv.14-18; e con la successiva pericope vv.19-21, dove porta l'immagine del Dio vasaio, che modella a suo piacimento e secondo i suoi intenti la creta. Immagine che comunque sovente ricorre nelle Scritture.
Quanto alle citazioni scritturistiche, Paolo riporta Es 33,19, la risposta che Dio diede a Mosè che gli chiedeva di vedere il suo volto: “Avrò compassione di chi ho compassione e avrò pietà di chi ho pietà”. Una citazione che suona come un detto sentenziale per rilevare, da un lato, la discrezionalità di Dio nell'operare le sue scelte; dall'altro, per evidenziare come questa sua libertà sovrana non si basa sulle logiche del capriccio, ma sulla misericordia e sulla pietà verso gli uomini. Scelte discrezionali, dunque, ma che si radicano nell'amore di Dio per l'uomo e che puntano ad affermarlo e non certo a distruggerlo o ad umiliarlo, poiché Egli sa di averci creati a sua immagine e somiglianza. L'altra citazione è tratta da Es 9,16 e riporta la risposta di Dio al faraone e mostra l'altro lato del modo di operare di Dio, quello duro, dove Egli mostra la sua onnipotenza nei confronti di chi gli resiste: “Per ciò stesso ti ho suscitato, per mostrare la mia forza in te e perché il mio nome sia divulgato in tutta la terra”. In altri termini, il faraone, resistendo a Dio, pensa di essere lui a sfidarlo, ma in realtà è Dio stesso che gli ha suscitato uno spirito di ribellione, perché così Egli possa manifestare a tutti la sua onnipotenza e chi è il Dio di Israele. Tutto, dunque, rientra in un gioco, dove Dio appare l'unico a gestire la storia della salvezza, così come vuole, muovendo le persone e gli eventi che le accompagnano secondo le sue libere logiche, che ben differiscono da quelle degli uomini.
La
pericope si chiude con il v.18, che funge da sentenza conclusiva per
entrambe le citazioni, una sorta di “morale della favola”
finalizzata a mettere in rilievo la discrezionalità dell'operare di
Dio nella storia della salvezza, anche là, dove sembra essere l'uomo
a condurla: “Così, dunque, ha misericordia di colui (verso) il
quale vuole (avere misericordia); ma indurisce colui che vuole
(indurire)”.
Nessuno
può giudicare l'operato di Dio (vv.19-21)
Questa sovrana libertà di Dio nel condurre la storia e gli eventi che la compongono, attestata scritturisticamente, viene ora resa con un'immagine, anche questa ricorrente nelle Scritture, dove la sovranità di Dio o comunque l'immagine della sovranità viene raffigurata attraverso il rapporto creta-vasaio31. Un'immagine che è in qualche modo richiamata nel contesto della creazione dell'uomo: “allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo” (Gen 2,7a), che ricorda il mito del dio egiziano Khnum, il dio vasaio che modella l'uomo sul suo tornio.
Le
citazioni scritturistiche di Es 33,19 e 9,16 con la conclusione del
v.18 potevano dare l'idea che qualunque cosa l'uomo faccia questa era
dettata e diretta da Dio stesso e, quindi, l'uomo ne era
condizionato. Paolo anticipa l'osservazione dei suoi ascoltatori con
il suo solito metodo della domanda retorica che introduce un nuovo
tema: ciò che Dio fa è avvolto nel suo Mistero e non è
acconsentito all'uomo di accedervi. Questo è il senso delle due
immagini che vengono qui passate, quella del v.20, che Paolo trae da
Is 29,16 e 45,9, adattandola ai propri intenti; e quella del v.21,
che mutua sostanzialmente identica da Sap 15,7.
Dio
stabilisce i tempi e le modalità con cui opera nella storia della
salvezza (vv.22-29)
Dopo le due enunciazioni scritturistiche dei vv.14-18, con le quali si attestava le due diverse modalità di operare di Dio nella storia della salvezza, esprimendo in tal modo la sua piena libertà nel condurla secondo la sua insindacabile discrezionalità, usando misericordia con chi vuole usarla e indurendo il cuore di chi vuole indurire (v.18), ora con questa pericope vv.22-29, Paolo passa alla sua applicazione distinguendo due tipologie di persone: “vasi d'ira”, cioè persone che con il loro comportamento avverso a Dio hanno accumulato su di loro l'ira di Dio; e “vasi di misericordia”, cioè persone che con il loro comportamento disponibile a Dio hanno accumulato su di loro la sua benevolenza compassionevole e perdonativa. Il destino di queste persone è già inscritto nel loro stesso comportamento ed è racchiuso tutto in quel ”preparati per (la) rovina” e “preparato per la gloria”. C'è tuttavia in quel “preparati/o” un senso di predestinazione, che sembra prescindere dal comportamento delle persone, forse anche voluto da Paolo, per accentuare la piena e insindacabile libertà dell'operare di Dio nella storia della salvezza. Tuttavia Paolo precisa subito il senso della libertà di Dio nell'operare la sua storia della salvezza, che è a favore degli uomini e questo a prescindere dalle loro convinzioni e condizioni personali. Infatti, in quei “vasi di misericordia, che ha preparato per la gloria” (v.23b) Paolo ravvisa “noi”, cioè quelli che hanno risposto alla chiamata di Dio in Cristo Gesù, indipendentemente dalla loro provenienza: “noi, che ha anche chiamato non solo dai Giudei, ma anche dalle genti”. Dio, quindi, si riserva i chiamare gli uomini a qualsiasi religione o ceto sociale essi appartengono. Non vi sono in Dio discriminazione di ordine storico, culturale, sociale o politico. Dio guarda il cuore e la disponibilità degli uomini alla sua proposta di salvezza operatasi e manifestatasi nel suo Cristo.
Ed è proprio su questo punto che Paolo vuole focalizzare l'attenzione della comunità di Roma e che formerà oggetto di specifica trattazione nel cap.11. La comunità di Roma, pur provenendo dal paganesimo, è stata probabilmente giudaizzata e quindi allineata ad un cristianesimo filtrato dalla Legge mosaica, quasi che solo i Giudei o i giudaizzati potessero accedervi. Ebbene, dirà Paolo, non è così, poiché Dio chiama liberamente tutti a prescindere dal loro essere giudei o pagani. Ed ecco, quindi, le prove scritturistiche che attestano questo libero e liberale modo di Dio di operare nella storia della salvezza. Vengono qui citati, al v.25, Osea 2,25; e al v.26 Os 2,1. Il contesto di cui fanno parte le due citazioni riguarda la conversione di Israele, che per i suoi tradimenti con i vari Baal e il suo lassismo morale era stato definito da Dio come “non mio popolo” e “non mia amata”, metaforizzato nei due figli che Osea, per ordine di Dio, aveva avuto dalla prostituta Gomer, che aveva sposato (Os 1,2-9). Ma dopo la sua conversione Israele tornerà ad essere “mio popolo” e “mia amata”. Benché il contesto sia ben diverso e nulla ha che vedere con quello che Paolo vuol provare scritturisticamente, tuttavia egli usa questi passi profetici, interpretandoli a modo proprio, ravvisando nel “non mio popolo” e nella “non amata” il mondo dei pagani, che, anzi, verranno riconosciuti anche come “figli del Dio vivente”.
Più che prove scritturistiche, dunque, queste sono soltanto immagini bibliche, che Paolo usa per evidenziare il suo pensiero che, in quanto apostolo delle genti, è quello di dimostrare come Dio in Cristo ha aperto non solo ad Israele, ma a tutte le genti, a tutti quelli che sono disposti ad aderire a Cristo mediante la fede, indipendentemente dalla loro appartenenza.
Ma l'uso di queste immagini tratte da Osea e riferite storicamente soltanto ad Israele, Paolo le ha forse usate anche per ricordare ad Israele come anch'esso, come i pagani, è stato “non-mio-popolo” e “non-mia-amata”, ma che il suo ritorno a Dio lo ha trasformato in “mio-popolo” e “mia-amata”. Tutto, dunque è possibile a Dio, purché l'uomo si renda disponibile ad esso.
Dopo
aver dedicato la sua attenzione al mondo dei pagani, riconosciuti da
Dio come suo popolo amato alla pari di quello di Israele, e qui sta
la sua discrezionalità, Paolo, ora, con i vv.27-29 sposta la sua
attenzione su Israele, del quale, già ai vv.6-7, aveva detto che non
tutti gli Israeliti sono da considerarsi tali, così come non tutti i
figli di Abramo devono considerarsi sua discendenza. Affermazioni
queste che in qualche modo preludevano come all'interno di Israele
venga operata una cernita, una selezione, così che Dio porta avanti
la sua storia di salvezza gradualmente, con il resto di Israele: di
resto in resto. Una scrematura continua, che funge da selezione,
fondata storicamente sulle risposte spirituali ed esistenziali che il
vero Israele, quello pensato da Dio, sa dare e che ha sempre segnato
il procedere della storia di Israele e con esso la storia della
salvezza, che Dio intesseva lentamente per mezzo del suo popolo. Non
tutto Israele, dunque, sarà salvato, ma soltanto un resto. Questo
sarà il vero Israele, quello da sempre sognato da Jhwh e che dovrà
costituire il nuovo Israele. Chi sia per Paolo questo resto è
facilmente individuabile in quel Israele che ha saputo riconoscere
nel Cristo il Messia inviato da Dio e, quindi, ha aderito a lui per
mezzo della fede. La storia di Israele, pertanto, continua,
confluendo, sia pur con non poche difficoltà e tentennamenti, nel
nuovo Israele, quello non più fondato su di una Legge difficilmente
eseguibile per la connaturata fragilità dell'uomo, ma per mezzo
della fede, che apre al dono di grazia e di misericordia di Dio,
fondata sulla sua compassione e non sulle opere della Legge. È Lui
che salva, non l'uomo che si salva da solo con la sua buona volontà.
Pertanto, nelle comunità credenti vengono a ritrovarsi, secondo prova scritturistica, sia quel “non-mio-popolo”, diventato “mio-popolo”, quale era il mondo dei pagani per aver aderito al Cristo; sia quel “Resto di Israele”, che manifesta la fedeltà di Dio e ne realizza la sua parola, per aver creduto anch'esso a Cristo. Questo, in ultima analisi, sembra dire Paolo alla comunità di Roma.
Ma tutto ciò dice, altresì, come Dio abbia operato con libertà all'interno della storia di Israele agendo a sua discrezione, superando la stessa storia di Israele e la sua elezione a proprietà di Dio, nazione santa e popolo di sacerdoti (Es 19,5-6), le quali cose implicavano la vocazione universale di Israele, che però ha fallito, perché ha voluto conseguire una sua propria giustizia, vincolata alle opere della Legge e non alla fede. Tutto ciò, se ha costituito un inciampo per Israele, non lo fu per Dio, che ha riversato le sue attenzioni anche al di fuori di Israele.
In
quale modo Dio manterrà fede e compirà la sua parola, cioè in
quale modo proseguirà la storia della salvezza (vv.30-33)
La pericope vv.30-33, che si completerà con 10,1-3, potremmo considerarla di transizione, perché nel chiudere il cap.9, imposta il tema dell'intero cap.10, che analizzerà le modalità di attuazione della salvezza, che avviene per fede e non attraverso le opere della Legge e come la fede abbia per fondamento la predicazione, cioè l'annuncio della Parola di Cristo.
Il
cap.9 si chiude con due domande che sono la chiave di comprensione
del rovesciamento che si è attuato nella storia di salvezza,
iniziatasi con Israele, sotto i migliori auspici (Es 19,5-6) e
conclusasi con il suo sostanziale fallimento, così che essa, per non
subirne le conseguenze, ha proseguito con il mondo opposto a quello
di Israele, quello pagano, più disponibile al nuovo annuncio.
Israele, invece, è rimasto aggrappato ad una Legge, che lo ha
ingessato nei suoi rapporti con Dio, non consentendogli più nessuna
evoluzione spirituale, se non una fallimentare esecuzione della
Legge, a motivo della connaturata fragilità dell'uomo ed escludendo,
di fatto, Dio dalla propria vita, imprigionandolo nella sua stessa
Legge, attraverso elaborazioni e interpretazioni che hanno snaturato
il senso stesso della Legge, traducendosi in un fardello
insostenibile, che vessava il vivere del pio ebreo (Mt 23,4)
La pericope si sviluppa sul doppio confronto Israele-mondo pagano (vv.30-32), analizzando con la seconda domanda (v.32a), le motivazione del fallimento del primo (vv.32b-33).
Dopo aver considerato il libero modo di procedere di Dio nell'operare nella storia della salvezza, non vincolato a parametri umani o limitato dai loro fallimenti, Paolo conclude accentrando l'attenzione dei suoi lettori su due questioni fondamentali introdotte, come è sua consuetudine, da due domande, questa volta non retoriche, ma reali, che li spingono a concludere su quanto fin qui considerato: “Che diremo dunque?” (v.30a) e “Per quale ragione?” (v.32a). La prima domanda viene fatta seguire dalla constatazione come il mondo pagano, indicato in quei popoli che non perseguivano la giustizia sia per la loro condotta peccaminosa (1,18-32) e sia perché, ancor prima, tale giustizia era loro ignota. Tuttavia, una volta conosciuta, sono riusciti a raggiungerla. Ma in quale modo? E qui Paolo, indicandone la via, quella della fede, per raggiungere la giustificazione, colta dai pagani (Gal 3,8a), lascia intravvedere, quasi in filigrana, una velata polemica con il giudeocristianesimo giudaizzante e, implicitamente, con la stessa comunità cristiana di Roma, quasi certamente giudaizzante: “ma (la) giustizia (che viene) dalla fede”. Espressione quest'ultima che si contrappone all'altro modo, che verrà qui denunciato al v.31, quello di Israele, che persegue una sua personale giustizia, quella indicata dalla Legge, ma che per la congenita fragilità dell'uomo non poteva essere attuata. Una giustizia, quindi, che non poteva basarsi sulla buona volontà o le buone intenzioni umane. Serviva, invece, un diverso approccio a questa giustizia, che implicasse l'uomo non con le sue sole forze, ma con il suo abbandonarsi a Dio, autore primo di tale giustificazione. È questo l'approccio giusto, quello della fede, che hanno trovato i pagani, al contrario di Israele, poiché, come già aveva attestato con tono dottrinale e categorico in Gal 2,16: “l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge se non per mezzo della fede di Gesù Cristo, anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù, affinché fossimo giustificati da Cristo e non dalle opere della Legge, poiché dalle opere della Legge non sarà mai giustificata ogni carne”.
Il
perché di questo fallimento di Israele viene analizzato con la
seconda domanda: “Per quale ragione?”. La risposta che viene data
è la scelta sbagliata che Israele ha operato originariamente, quella
del cercare e del voler perseguire la sua giustificazione traendola
“non dalla fede, ma come dalle opere”, dove le due espressioni
“™k p…stewj”
(ek písteos,
dalla fede) e “™x
œrgwn” (ex
érgon, dalle opere)
riconducono Israele all'origine della sua scelta, che lo ha portato
poi al suo fallimento. In altri termini, la giustificazione, che la
Legge prospettava, fondava sulle “opere”, cioè sulle sole
capacità dell'uomo ad eseguire compiutamente le disposizioni della
Legge stessa. Se il raggiungimento di tale giustificazione fosse
stato possibile, allora la salvezza sarebbe stata posta in capo
all'uomo e alla sua bravura., innescando un rapporto con Dio, che
metteva Israele in una posizione di creditore nei confronti Dio, che,
per contro, sarebbe risultato debitore nei confronti di Israele, nel
caso questi avesse eseguito correttamente le disposizioni della
Legge: “Io ho eseguito quanto tu mi hai comandato, quindi mi devi
la salvezza”. Una questione questa che Paolo aveva già affrontata
nel cap.4,4-5, parlando del rapporto di Abramo con Dio, fondato sulla
fede e non sulle opere, poiché se così fosse stato allora “per
chi lavora la mercede non è computata secondo grazia, ma secondo
debito, ma per chi non lavora, ma crede in colui che giustifica
l'empio, la sua fede è computata per la giustizia”. E fu proprio a
causa di questo rapporto sbagliato che Israele ha tenuto nei
confronti di Dio, che ha reso impossibile a Dio di instaurare con
Israele un rapporto di evoluzione spirituale, che lo avrebbe portato
alla giustificazione, riconoscendosi debitore nei confronti di Dio.
Così che la Legge divenne una pietra d'inciampo per Israele,
impedendogli di raggiungere la giustificazione, perché ha usato uno
strumento, la Legge, non per andare verso Dio, ma contro Dio, che si
è trovato impossibilitato ad agire a favore di Israele, irrigidito
in una Legge, che lo aveva ingessato nei suoi rapporti con Dio,
impedendogli di evolversi spiritualmente, secondo il sollecito di
tutti i profeti, che cercavano di scuotere la coscienza del popolo,
dando della Legge e del rapporto con Dio la corretta interpretazione.
Un fallimento che Paolo sancisce scritturalmente, ricorrendo proprio
ai profeti e nello specifico ad Is 28,16.
La
retta via per la giustificazione (10,1-21)
Testo
a lettura facilitata
Ripresa e conclusione della pericope 9,30-33 (vv.1-3)
1-
Fratelli, il desiderio del mio cuore e la preghiera verso Dio (sono)
per loro, per la (loro) salvezza.
2-
Testimonio, infatti, di loro che hanno zelo di Dio, ma non secondo
conoscenza;
3-
Infatti, ignorando la giustizia di Dio e cercando di istituire la
propria [giustizia], non si sottomisero alla giustizia di Dio.
La Parola posta a fondamento della fede perché tutti vi possano accedere (vv.4-13)
4-
Infatti, il fine della Legge (è) Cristo affinché la giustizia (sia
data) ad ogni credente.
5-
Mosè, infatti, scrive, (circa) la giustizia, quella che (viene)
dalla Legge, che “L'uomo che compie quelle cose, vivrà in esse”
(Lv 18,5).
6-
Ma la giustizia (che viene) dalla fede così dice: “Perché (tu)
non dica nel tuo cuore (Dt 9,4): chi salirà in cielo?”,
cioè per condurre giù Cristo;
7-
o: “Chi scenderà nell'abisso”, cioè per condurre su Cristo dai
morti.
8-
Ma che cosa dice (la Scrittura)? “La parola è vicina a te, nella
tua bocca e nel tuo cuore”, cioè la parola della fede, che
predichiamo.
9-
Poiché, qualora confesserai con la tua bocca che Gesù è Signore e
crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai
salvato.
10-
Infatti, con il cuore si crede per la giustizia, con la bocca si
confessa per la salvezza (vv.6-10 parafrasi commentata di Dt
30,11-14 e applicata a Cristo).
11-
Dice, infatti, la Scrittura: “Chiunque crede in lui, non sarà
svergognato”. (Is 28,16b)
12-
Non vi è, infatti, distinzione di Giudeo e di Greco, poiché egli
(è) Signore di tutti, ricco verso tutti quelli che lo invocano;
13-
poiché “ognuno che invocherà il nome del Signore sarà salvato”.
(Gl 3,5a)
L'albero genealogico della fede: l'annuncio posto a fondamento della Parola, che genera la fede (vv.14-17)
14-
Come, dunque, invocheranno colui in cui non hanno creduto? Come
crederanno in colui di cui non hanno udito? Come udranno senza colui
che predica?
15-
Come predicheranno qualora non siano stati inviati? Come sta scritto:
“Come sono belli i piedi di coloro che annunciano cose buone”.
(Is 52,7a)
16-
Ma non tutti obbedirono al vangelo. Infatti, Isaia dice: “Signore,
chi ha creduto al nostro annuncio?”. (Is 53,1)
17-
Quindi la fede (proviene) dall'ascolto; l'ascolto (avviene) per mezzo
della parola di Cristo.
Ma Israele non ha ascoltato tale annuncio (vv.18-21)
18-
Ma dico, non udirono? E che, anzi: “Su tutta la terra uscì la loro
voce e fino ai confini della terra abitata le loro parole”. (Sal
18,5)
19-
Ma dico, Israele forse non intese? Per primo Mosè dice: “Io vi
renderò gelosi di un non popolo; vi spingerò all'ira verso un
popolo stolto”. (Dt 32,21b)
20-
Ma Isaia osa e dice: “Fui trovato da quelli che non mi cercano;
divenni manifesto a quelli che non chiedevano di me”. (Is 65,1)
21-
A Israele invece dice: “Tutto il giorno stendo le mie mani verso un
popolo che è disobbediente e che contraddice”. (Is 65,2)
Note generali
Dopo aver concluso che Israele perseguiva la giustizia in modo sbagliato, poiché rincorreva la Legge senza comprenderne il senso, del perché, cioè, gli era stata data e senza avere una visione ampia e chiara della storia della salvezza e del ruolo che egli ricopriva al suo interno, nonostante i persistenti richiami dei profeti, che cercavano di fornirgli la corretta comprensione sia del senso della Legge che della storia della salvezza, Paolo ora mette a fuoco per la comunità di Roma, quasi sicuramente giudaizzante, quale fosse il giusto approccio alla Legge e alla giustificazione, di cui la Legge indicava la via, ma non dava la possibilità di raggiungerla per la connaturata fragilità dell'uomo, e quindi la retta via per raggiungerla. Lo farà ora, qui, in questo cap.10, di soli 21 versetti, ma molto densi e intensi, poiché sono un susseguirsi di ben undici citazioni scritturistiche con le quali Paolo sviluppa il suo pensiero, finalizzato a dimostrare scritturisticamente quale sia la retta via per cogliere la giustificazione e quale il ruolo della Legge all'interno della storia della salvezza.
Tre sono gli elementi su cui gira l'intero capitolo:
la finalità della Legge è Cristo, che si raggiunge non attraverso la Legge, ma per mezzo della fede in lui, poiché la Legge crea barriere, minaccia condanne e tende ad escludere; mentre la fede include (v.4), perché fa leva sulla connaturata necessità dell'uomo di affidarsi a realtà spirituali superiori, che gli diano delle risposte esistenziali e che lo sappiano orientare nella vita verso una salvezza di cui sente il bisogno, per il suo inconscio senso di fragilità e di insicurezza esistenziali, che gli sono congenite e che nascono dal senso della sua finitezza e della sua relatività;
fondamento della fede in Cristo, poi, è la sua stessa parola, che viene annunciata per mezzo della predicazione, che se accolta, genera la fede (vv.5-16);
una predicazione che fu rivolta anche ad Israele, che ingessato nella sua Legge, non solo non la prese in considerazione, ma la rifiutò, perché non ne aveva compreso il senso né il proprio ruolo all'interno della storia della salvezza (vv.18-21), mentre della Legge aveva fatto una sorta di “idolo”, che, paradossalmente, escludeva Dio, e là dove non si poteva escluderlo, lo si aggirava (Mt 15,9; 23,15-34; Mc 7,1-13). Significativa, infatti, la citazione di Isa 65,2 con cui si conclude il cap.10: “Tutto il giorno stendo le mie mani verso un popolo che è disobbediente e che contraddice”.
Quanto alla struttura del cap.10 propongo la seguente, che si snoda su quattro passaggi:
Ripresa e conclusione della pericope 9,30-33 (vv.1-3)
La Parola posta a fondamento della fede perché tutti vi possano accedere (vv.4-13)
L'albero genealogico della fede, l'annuncio posto a fondamento della Parola e della fede (vv.14-17)
Ma Israele non ha ascoltato tale
annuncio (vv.18-21)
Commento ai vv.10,1-21
Ripresa e conclusione della pericope 9,30-33 (vv.1-3)
Paolo concludeva il cap.9 affermando che Israele, che inseguiva la giustificazione attraverso la Legge, in realtà non l'ha conseguita, poiché aveva puntato tutto sulle opere comandate dalla Legge, ma che risultarono inefficaci ai fini della giustificazione per la connaturata fragilità umana, che rendeva l'uomo incapace di compierle dovutamente e pienamente. Così che la Legge divenne una pietra d'inciampo, che impedì ad Israele di aderire a Cristo, che a sua volta, divenne pietra d'inciampo per la pochezza del livello di spiritualità e di intelligenza spirituale, che avevano accecato Israele e che hanno spinto Gv 1,11 ha denunciare come Gesù, il Verbo eterno del Padre (Gv 1,1) divenuto carne (1,14), “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”. Non solo non l'hanno accolto, ma lo respinsero, perseguitandolo e uccidendolo.
Paolo, ora, riprendendo le considerazioni di 9,31-33, apre il cap.10 parallelamente a 9,1-3, personalizzando il dramma di Israele, a riprova come questa trilogia (9-11), ben lungi dall'essere un trattatello di soteriologia, sia, invece, dettata da una personale e sofferta ricerca di Paolo sulle cause che portarono alla defezione di Israele, giunto il Cristo. Un patema d'animo, una grande sofferenza, a cui Paolo dà qui una consistenza spirituale, attestando come egli si sia in qualche modo fatto intercessore presso Dio a favore di Israele, non solo perché Dio lo illumini, ma, soprattutto, perché venga, comunque, salvato, in virtù del suo passato di popolo privilegiato ed amato da Dio (9,4-5). Un tema questo che Paolo qui anticipa, ma che sarà oggetto di considerazione nel cap.11. Come già sopra ricordato (pag.117) Paolo, infatti, sta preparando in questi capp.9-10 le argomentazioni che gli serviranno per giustificare e sostenere le conclusioni a cui egli arriverà nel cap.11, così che i capp.9-10 possono essere considerati una sorta di preambolo al cap.11.
Paolo, tuttavia, non solo si rende intercessore presso Dio del suo Israele, di cui è membro (11,1b), ma si fa testimone presso gli uomini anche del suo zelo per Dio, cioè della sua diligenza, del suo fervore e della sua passione nei confronti di Dio, che si esprimeva nell'osservare la sua Legge e nel celebrarne il culto, “ma non secondo conoscenza”, conclude inaspettatamente. Di quale conoscenza sta qui parlando Paolo? Quella dei profeti, che fungevano da coscienza del popolo, e con la loro predicazione cercavano di far cogliere al popolo il senso della Legge e del vero culto a Dio, che non dovevano limitarsi ad una mera ed esteriore osservanza legalistica di quanto prescritto, ma dovevano impastarsi nella vita di ogni israelita e nell'anima stessa di Israele, trasformando il loro cuore e la loro mente. Significativa in tal senso è la sfuriata che il proto Isaia darà ad Israele in 1,10-19, definendo i suoi capi come “capi di Gomorra” e il popolo come “popolo di Sodoma” (Is 1,10), per denunciarne l'iniquità, paventando loro, con quel “Sodoma e Gomorra” le conseguenze del loro comportamento iniquo, associandoli ai destini delle due città distrutte dal fuoco.
Con
il v.3 Paolo mette in evidenza il motivo del fallimento di Israele:
l'aver ignorato la giustizia di Dio, che risuonava nella voce dei
profeti, che predicavano la conversione del cuore, passando da un
legalistico culto formale ad un culto spirituale, celebrato nel
proprio cuore e nella propria vita e che passasse attraverso l'amore
del prossimo, con particolare attenzione ai ceti sociali più deboli,
come gli orfani e le vedove. Essi prospettavano anche tempi
messianici, in cui Dio avrebbe fatto celi nuovi e terra nuova (Is
65,17; 66,22); tempi in cui Dio avrebbe rinnovato l'uomo sostituendo
il suo cuore di pietra con un cuore di carne, purificandolo da tutte
le sue brutture, inscrivendovi la sua Legge con il suo Spirito (Ez
36,25-27); tempi in cui Dio avrebbe effuso il suo Spirito su tutti
gli uomini rinnovandoli interiormente (Gl 3,1-2). Invece Israele,
rifiutando la più impegnativa giustizia divina, preferì seguire la
propria, quella di un culto legalistico della Legge, che dava una
sensazione di perfezione e di santità, ma che così non era, perché
non si radicava nel cuore e nella quotidianità della vita. Un modo
legalistico di vivere e di rapportarsi a Dio, contro il quale Is
29,13 puntò il dito: “Dice
il Signore: "Poiché questo popolo si avvicina a me solo a
parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me
e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani”.
In tal modo Israele si sottomise ad una Legge che aveva addomesticato
con continue interpretazioni così da snaturarla (Mc 7,7-13),
adattandola alle proprie esigenze, ma non colse mai la necessità di
interiorizzarla, riducendola così ad una mera esecuzione legalistica
di prescrizioni e divieti. E tutto ciò avvenne perché Israele non
si chiese mai quale fosse il senso della Legge, a cosa essa mirasse
e, soprattutto, quale fosse il proprio ruolo spirituale in mezzo ai
popoli e nel contesto della storia della salvezza, che gli era stato
rivelato in Es 19,5-6. Esso sognava un regno messianico, ma di tipo
terreno: un ritorno agli splendori del regno davidico o di quello di
Salomone; sognava un messia sacerdotale che riformasse il culto; o un
messia politico e militare che scacciasse l'invasore romano e
ricostituisse la sovranità e l'antico splendore di Israele. Non
aveva capito, nonostante che i profeti insistessero, che tutto il
gioco della salvezza doveva svolgersi attraverso realtà spirituali e
non terrene, così che gli stessi discepoli chiesero al Risorto:
“Signore,
è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”
(At 1,6b). Un culto legato al Tempio e agli innumerevoli sacrifici,
dove il sacerdozio, ben lungi dall'essere votato ad un culto
spirituale, era tutto dedito a compiere sacrifici e bruciare incensi,
non avendo mai compreso come il primo culto doveva essere celebrato
nel cuore e nella vita, così come lo stesso Gesù giovanneo, sulla
linea dei profeti, rivolto alla Samaritana che indagava sul vero
Tempio a cui era legato il vero culto, proclamò l'avvento di un
nuovo culto, legato non più a tempio o ai sacrifici, ma alla vita:
“Credimi,
donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in
Gerusalemme adorerete il Padre. […] Ma
è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori
adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali
adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in
spirito e verità”
(Gv 4,21.23-24). Questo Israele non aveva capito e non aveva saputo
cogliere il senso della predicazione dei profeti, che annunciavano
cieli nuovi e terra nuova, così che quando questi Cieli nuovi e
questa Terra nuova giunse non la riconobbero, accecati com'erano da
quella Legge, che avevano trasformato in una sorta di idolo, senza
coglierne il senso e come questa fosse il preannuncio di altre realtà
spirituali.
La
Parola posta a fondamento della fede perché tutti vi possano
accedere (vv.4-13)
Infatti, attesta Paolo che lo scopo della Legge era quella di condurci a Cristo. Il fine della Legge, pertanto, non era se stessa, ma quello di preservare il rapporto di Israele con il suo Dio, nell'attesa che si compissero i tempi da Lui stabiliti, così che “quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5). Il senso della Legge era, dunque, quello proprio del pedagogo “che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede” (Gal 3,24), così che “la giustizia (sia data) ad ogni credente”. La fede, infatti, superando i vincoli della Legge, che tendono a sottomettere e ad escludere, interpella il cuore dell'uomo, per una sua libera adesione ad una proposta salvifica, che non dipende dalle sue capacità e dalla sua bravura, ma da Dio stesso, che la dona come atto proprio di liberalità misericordiosa e non per meriti personali, di fronte ai quali Dio è posto in debito. Ed è un'offerta ed una proposta di salvezza che è aperta indistintamente a tutti, proprio perché si rivolge al cuore dell'uomo e proprio perché è un dono incondizionato.
Vi è, infatti, una notevole differenza tra la giustificazione ottenuta tramite la Legge e quella donata per fede. Ed è su questa distinzione che Paolo, ora, attraverso un denso percorso scritturistico, accentra la sua attenzione.
Quanto alla prima, la giustificazione ottenuta per mezzo della Legge, Paolo non la esclude, poiché la Legge rende tangibile e storicamente raggiungibile la volontà stessa di Dio, che nella Legge prende forma storica ed è in essa sacramentata. Quindi, richiamandosi a Lv 18,5 e riecheggiando qui Gal 3,12, attesta che “L'uomo che compie quelle cose, vivrà in esse”. Ma il problema, qui, non è la Legge in se stessa, ma la connaturata fragilità dell'uomo nel praticarla e la sua incapacità di compierla pienamente, così da ottenerne la giustificazione. Una questione che Paolo già aveva affrontata in Gal 3,10 dove citava Dt 27,26: “Quanti, invece, sono dalle opere della Legge sono sotto la maledizione; fu scritto infatti che “Maledetto chiunque non rimane (fedele) a tutte le cose scritte nel libro della Legge, per compierle”. Chi si affida alla Legge è, dunque, obbligato nei confronti della Legge ed è chiamato a compierla pienamente, perché questa possa produrre in lui gli effetti della giustificazione. Aspetto questo che Paolo avrebbe, poi, ricordato anche in Gal 5,3: “Attesto nuovamente ad ogni uomo, che si fa circoncidere, che è obbligato ad eseguire la Legge tutta intera”. Scegliere, dunque, la Legge, quale criterio di vita, non consente di accedere alla giustificazione, benché la Legge ne indichi validamente la via, poiché si deve contare sulle sole proprie forze e non si chiama più in causa Dio e la sua misericordia, ma punto di riferimento per la propria salvezza si è soltanto se stessi, con tutta la propria fragilità e precarietà, che ci impediscono, di fatto, di compierla pienamente, così che ogni possibilità di giustificazione viene preclusa.
In contrapposizione all'uomo che ha scelto la Legge, quale percorso per la sua giustificazione, contando sulle sue sole forze, illudendo se stesso, Paolo, ora, presenta l'altra opzione esistenziale e spirituale, quella dell'uomo che ha scelto di affidarsi a Dio e al suo Cristo per riscattare se stesso, nella coscienza della propria fragilità, poiché nessuno può dirsi giusto davanti a Dio (Sal 142,2) e nessuno, per quanto bravo, “può riscattare se stesso, o dare a Dio il suo prezzo” (Sal 48,8), considerata la distanza che separa l'uomo, avvolto nella sua fragilità, da Dio. È, dunque, una questione di coscienza, cioè di consapevolezza circa la propria posizione all'interno della storia della salvezza, della strada che si è chiamati a percorrere in essa, quali siano i mezzi che ci vengono offerti per raggiungere l'obiettivo, che la storia della salvezza si propone: quello di ricondurre l'uomo in seno a Dio, da cui era drammaticamente fuoriuscito nei primordi dell'umanità. E allora è da chiedersi: veramente si è convinti che basta osservare bene la Legge, ammesso e non concesso che ciò sia fattibile, a motivo della propria congenita fragilità, per riconciliarsi con Dio e coprire lo scarto spirituale ed esistenziale che ci separa da Lui? Ci vuol ben altro che un po' di buona volontà, se si ha coscienza di ciò che è successo all'origine dell'umanità e della profonda e insuperabile frattura che ci ha separati e contrapposti a Dio.
Anche qui Paolo ricorre alla citazione scritturistica di Dt 30,11-14, che parafraserà applicandola a Cristo, per fondare la sua tesi, che apparirà a conclusione di questa breve sezione (vv.6-13): “ognuno che invocherà il nome del Signore sarà salvato” (v.13), così che “Chiunque crede in lui, non sarà svergognato” (v.11). In altri termini la fede quale mezzo unico e universale di salvezza, offerta a chiunque è disponibile a credere alla Parola annunciata, aderendovi esistenzialmente.
Se in merito alla Legge Paolo, al v.5, citando Lv 18,5, fa parlare l'autorevole Mosè, qui, al v.6, in modo inatteso, il soggetto non è più Mosè, bensì la “Giustizia”, ma non quella che proviene dalla Legge, bensì, precisa Paolo, quella che proviene dalla fede. Non si tratta, a mio avviso, di una personificazione di un sostantivo astratto, ma di una sorta di preambolo per avvertire il lettore che qui, quanto viene ora detto, benché mutuato da Dt 30,11-14, la cui citazione si riferisce nel suo contesto originario alla parola della Legge, viene rielaborato e riformulato per essere applicato ad un'altra Parola quella di Cristo, con cui la “Giustizia per fede” ha a che fare e, in quale modo, viene ora alluso. Si parla, infatti, di un Cristo qui colto nel suo duplice Mistero salvifico, quello dell'incarnazione, con la quale ha assunto su di sé la nostra natura adamitica di carne despiritualizzata corrotta dal peccato, per riviverla nella fedeltà a Dio e poi portarla sulla croce per distruggerla definitivamente, distruggendo in essa la vecchia creazione, come lascia filtrare in qualche modo quel “salire in cielo per condurre giù Cristo”; e così, similmente, in quello “scendere nell'abisso per ricondurre su dai morti il Cristo”, lascia intuire l'altra faccia dello stesso Mistero salvifico, la sua morte e risurrezione, con cui ha posto fine alla vecchia creazione e dato inizio ad una nuova secondo lo Spirito. Cristo, pertanto, con la sua incarnazione, morte e risurrezione ha creato il contesto della Giustificazione a cui si accede accogliendo in se stessi la Parola di Cristo e conformandosi esistenzialmente ad essa.
Cristo, dunque, è la risposta del Padre alla colpa dell'uomo, distruttiva della prima creazione, impossibile da riparare per l'uomo, ma reso possibile dal Padre per mezzo del suo Cristo, la sua Parola eterna (Gv 1,1), il cui accesso è stato reso storicamente raggiungibile a tutti gli uomini proprio con la sua incarnazione (Gv 1,14), morte e risurrezione, così che nessuno abbia a dire che questa giustificazione, considerata la distanza che intercorre tra Dio e l'uomo, avendo, poi, l'uomo smarrito la strada del suo ritorno a Dio, è stata resa impossibile. Non serve più che l'uomo ritorni a Dio, poiché è Dio che è ritornato da lui e si è reso storicamente raggiungibile nel suo Cristo (Gv 1,14;), in cui si è compiuta e manifestata la Giustizia divina, alla quale si accede accogliendo in se stessi la Parola di Cristo, il Verbo eterno del Padre, che suscita e genera la fede. Così che, continua Paolo, citando Dt 30,14: “La parola è vicina a te, nella tua bocca e nel tuo cuore”. Un linguaggio molto vicino a quello sapienziale, ma che lascia intendere il luogo della dimora della Parola (Gv 6,56; 14,23), che si è fatta vicina all'uomo nella Legge, che deve risuonare nella propria bocca e conservata nel proprio cuore, secondo i dettami dello stesso “Shemà Israel” (Dt 6,4-7).
La citazione di Dt 30,14 serve da preambolo ai vv.9-10, che sono un sintetico credo cristologico, dai ritmi dottrinali e catechetici e che probabilmente Paolo non si è inventato, ma deve averlo mutuato dalle comunità credenti presso le quali ha soggiornato e dove risuona un'antichissima formula di fede, la più breve in assoluto “Gesù è Signore”: “Poiché, qualora confesserai con la tua bocca che Gesù è Signore e crederai nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato. Infatti, con il cuore si crede per la giustizia, con la bocca si confessa per la salvezza”. Due versetti molto semplici quanto densissimi, poiché attestano tre elementi essenziali del vivere credente:
innanzitutto si asserisce come la fede non sia un evento meramente privato, che va vissuto intimamente nel proprio cuore, in cui deve, comunque, radicarsi, ma va altresì testimoniata pubblicamente attraverso la sua proclamazione, sia con la parola che con la vita;
viene poi rilevato il contenuto di questa fede: la Signoria di Gesù, acquisita attraverso la sua risurrezione ad opera di Dio;
ed infine, la potenza salvifica di tale fede, fondata sulla signoria
universale del Risorto.
Ci troviamo di fronte, per la sua essenzialità e stringatezza di espressione, ad un antichissimo reperto archeologico del pensiero cristologico, elaborato dalle primissime comunità credenti, e testimonia il formarsi della prima fede attorno al Risorto, riconosciuto quale Signore universale, in cui opera la potenza di Dio.
Il v.10, che va a completare il piccolo credo cristologico, funge da sua esegesi, che probabilmente lo accompagnava e che qui Paolo quasi certament lo ha adattato per le sue esigenze: “Infatti, con il cuore si crede per la giustizia, con la bocca si confessa per la salvezza”. In altri termini, ciò che si crede nel cuore, che è il nucleo fondante della propria fede, serve per comprendere come la finalità della fede sia la giustificazione; ma questa giustificazione non produrrà mai una salvezza reale se la fede che si radica nel proprio cuore, non è testimoniata pubblicamente non solo con la parola, ma soprattutto con il conformarsi esistenzialmente ad essa.
La solidità di questa fede nel Risorto, in cui opera la potenza salvifica del Padre, e nella sua Signoria universale, viene ora sancita da Paolo scritturisticamente con Is 28,16b: “Chiunque crede in lui, non sarà svergognato”. Un'attestazione che funge da transizione ai vv.12-13, poiché alla citazione di Isaia Paolo aggiunge qui un tocco di universalità con quel “P©j” (Pâs, Chiunque, Ognuno), che gli servirà per introdurre l'universalità della fede e, quindi, della conseguente giustificazione per tutti coloro che credono.
Ed
è proprio a motivo dell'universalità della signoria del Risorto,
che il messaggio di riconciliazione (Gv 20,19.21.26), cioè la
giustificazione, che egli porta con sé e in se stesso, viene offerta
indistintamente a tutti, indipendentemente dalla loro qualificazione
sociale e religiosa, siano questi Giudei o Greci, cioè gente che fa
parte del popolo eletto o dell'opposto mondo pagano. Unico requisito
per poter accedere a questa giustificazione universale è il
riconoscere la Signoria del Risorto, in cui opera la potenza
salvifica di Dio; un riconoscerla che si attesta attraverso
l'invocazione, cioè rivolgendosi a lui come l'unica fonte universale
di salvezza, scritturisticamente provata da Paolo con Gl 3,5a,
mutuata da un contesto di giudizio universale, da cui l'uomo scampa
invocando il nome del Signore: “ognuno che invocherà il nome del
Signore sarà salvato”, lasciando così trasparire con questa
citazione come, all'incontrario, sull'uomo incomba un giudizio di
condanna, qualora rifiuti questa ultima offerta di salvezza.
L'albero
genealogico della fede: l'annuncio posto a fondamento della Parola,
che genera la fede (vv.14-17)
Con i vv. 12-13 Paolo attestava come la giustificazione, a motivo della signoria universale di Cristo, acquisita con la risurrezione, sia offerta indistintamente a tutti, sia ai Giudei che ai Greci, purché questi invochino il nome del Signore. Ma “invocare” significa ancor prima conoscere ed accogliere nella propria vita colui che si invoca. Ed ecco, dunque, che Paolo, attraverso una serie di interrogativi sillogici, che si agganciano, a cascata, l'uno all'altro attraverso parole cardine, fondamentali per far nascere la fede, va alla ricerca della chiave ultima, che possa aprire i cuori alla fede, sia dei Giudei che dei Greci. Una ricerca che va a ritroso, partendo dal “credere”, che dipende dall'“udire”, che a sua volta dipende dal “predicare”, che ha la sua origine nell'“inviare”, il quale, quest'ultimo, allude alla comunità credente, depositaria della Parola e della fede, che invia i suoi missionari per l'annuncio, cioè la predicazione, poiché da questa, qualora accolta nell'ascolto, possa nascere la fede. Una trafila con cui si chiuderà questa breve quanto storicamente interessante pericope, che mette in luce la dinamica della genesi della fede, ma soprattutto le convinzioni della chiesa primitiva, che aveva compreso l'importanza dell'annuncio della Parola di Cristo per suscitare la fede: “Quindi la fede (proviene) dall'ascolto; l'ascolto (avviene) per mezzo della parola di Cristo”, che per Paolo è quella della predicazione. Una simile trafila viene attestata anche in Ef 1,13, dove, però, si parte con il processo inverso, quello dell'ascolto della Parola che genera la fede, ma che presuppone la predicazione, lasciata intuire da quel “ascoltare la parola della verità”: “In lui anche voi, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza e avere in esso creduto, avete ricevuto il suggello dello Spirito Santo che era stato promesso”.
La pericope, che attesta il processo dinamico della generazione della fede, viene rivolta a due categorie di persone: ai Giudei, ravvisabili nel primo interrogativo: “Come, dunque, invocheranno colui in cui non hanno creduto?”. Questi, infatti, hanno avuto modo di esperire l'evento Gesù, ma non gli hanno creduto, come attesterà Gv 1,11 “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”. La seconda categoria di persone è rappresentata dal mondo pagano, raffigurato nel secondo interrogativo: “Come crederanno in colui di cui non hanno udito?”. Se i primi, i Giudei, hanno udito, ma non hanno creduto, questi, invece, hanno il problema inverso: sono disponibili a credere, come testimonia la rapida espansione del cristianesimo nell'Impero Romano, ma non hanno udito perché in attesa di “colui che predica”. Si noti come Paolo qui usi il soggetto del predicare al singolare, poiché l'azione del predicare viene fatta risalire da Paolo a Cristo stesso, il primo inviato dal Padre (Gv 20,21), che opera l'annuncio nella sua chiesa e per suo mezzo, così che i predicatori sono qui colti come il Cristo stesso, che continua in loro la sua azione di annuncio.
Un
annuncio che Paolo lega, con la citazione di Is 52,7a, ai tempi
messianici, che vedono il formarsi di un nuovo Israele: “Come sono
belli i piedi di coloro che annunciano cose buone” (v.15b), subito
accompagnato da una nota di tristezza, con la quale viene anticipata
l'ultima pericope (vv.18-21) di questo cap.10: “Ma non tutti
obbedirono al vangelo. Infatti, Isaia dice: “Signore, chi ha
creduto al nostro annuncio?” (Is 53,1).
Ma Israele non ha ascoltato tale annuncio (vv.18-21)
Quest'ultima pericope è formata da quattro versetti, tutte citazioni scritturistiche prive di qualsiasi commento, con le quali Paolo sottopone a giudizio Israele, mettendo in luce tutta la sua colpevolezza; anzi è la Scrittura stessa che qui innesca un processo contro Israele, lasciando intravvedere come il suo rifiut fosse scritturisticamente previsto e come proprio questo rifiuto fosse la causa prima della salvezza del mondo pagano. Tema questo che verrà ripreso e sviluppato nel cap.11.
Si tratta di quattro citazioni che Paolo prende da diversi contesti scritturistici, che nulla hanno a che vedere con gli intenti di Paolo, ma che egli legge contestualizzandoli alla situazione presente, creando un parallelismo tra l'Israele di ieri e quello di oggi, a sostegno della sua tesi, cioè che il fallimento di Israele andò a beneficio di altri popoli e come questo fosse scritturalmente previsto.
Si
parte con Is 53,1: “Signore, chi ha creduto al nostro annuncio?”,
che mette in luce il rifiuto della predicazione del profeta da parte
di Israele e così oggi, come allora, Israele ha rifiutato la parola
di Cristo annunciata dai suoi inviati. Un annuncio che non fu fatto
nascostamente nel chiuso di qualche luogo segreto, la quale cosa
potrebbe costituire una scusante per Israele. Ma non fu così perché
“Su tutta la terra uscì la loro voce e fino ai confini della terra
abitata le loro parole”. La citazione, tratta dal Sal 18,5,
riguarda il canto della creato, che con la sua bellezza interpella
ogni singolo uomo e parla del suo Creatore (Rm 1,20). Un contesto,
come si può ben vedere, che nulla ha a che fare con la predicazione
rifiutata da Israele, ma che Paolo qui assimila all'annuncio
capillare dei primi predicatori, che, come il creato, diffusero
ovunque il nuovo messaggio di vita e, quindi, Israele non può
addurre come sua giustificazione di non aver udito. Anzi fu un
annuncio che udirono tutti, anche i popoli pagani, rivali di Israele,
così che “Io vi renderò gelosi di un non popolo; vi spingerò
all'ira verso un popolo stolto” (Dt 32,21b). La citazione è tratta
dall'inno di Mosè (Dt 32,1-43) con cui Dio instaura un processo
contro il suo popolo, che lo ha reso geloso seguendo idoli stranieri,
così che parimenti Egli renderà geloso nei confronti di popoli
stranieri a cui Dio indirizzerà i suoi favori. Paolo vede in questo
una sorta di profezia, che si sta realizzando su Israele. Questi ha
rifiutato l'annuncio per seguire la Legge, di cui si è appropriato e
l'ha trasformata in una sorta di idolo, che, paradossalmente,
escludeva Dio dalla sua vita (Mc 7,9-13), così che Dio, vista la
chiusura del suo popolo, si è rivolto ad altri popoli più
disponibili nei suoi confronti, rendendo in tal modo geloso il suo
popolo: “Fui trovato da quelli che non mi cercano; divenni
manifesto a quelli che non chiedevano di me” (Is 65,1). Una storia
questa che anche Lc 15,11-32 racconta nella stupenda parabola del
“Figliol prodigo”, che termina proprio con la gelosia del figlio
maggiore, figura di Israele, causata dalle “eccessive” attenzioni
del Padre nei confronti del dissennato scialacquatore figlio minore,
figura dei popoli pagani, così che, paradossalmente, fu proprio il
figlio maggiore, Israele, a rimanere escluso dalla casa del Padre,
contrariamente al figlio minore, il mondo pagano, che, invece, vi
entrò.
Il piano di Dio nella storia della salvezza (11,1-36)
Testo
a lettura facilitata
Dio non respinge il suo popolo, ma opera per selezione ed elezione (vv.1-10)
1-
Pertanto dico, forse che Dio ha respinto il suo popolo? Non sia mai!
Anch'io, infatti, sono Israelita, della discendenza di Abramo, della
tribù di Beniamino.
2-
Dio non ha respinto il suo popolo (1Sam 12,22; Sal 93,14) che conobbe
prima. O non sapete che cosa dice la Scrittura in Elia, quando (egli)
si presenta a Dio contro Israele?
3-
“Signore, hanno ucciso i tuoi profeti, hanno distrutto i tuoi
altari e io fui lasciato solo e cercano la mia vita” (1Re
19,10.14).
4-
Ma che cosa gli dice il responso divino? “Lasciai per me stesso
settemila uomini, quelli che non piegarono il ginocchio a Baal”
(1Re 19,18).
5-
Così dunque anche nel tempo presente c'è un resto secondo una
elezione di grazia;
6-
ma se è per grazia non è più dalle opere, altrimenti la grazia non
è più grazia.
7-
Che dunque? Ciò che Israele cercava, questo non (lo) ha conseguito,
ma (lo) ha conseguito l'elezione, ma i rimanenti furono accecati,
8-
come sta scritto: “Dio diede loro uno spirito di torpore, occhi per
non vedere e orecchi per non sentire fino al giorno d'oggi” (Is
29,10; Dt 29,3).
9- E
Davide dice: “La loro mensa si trasformi in una trappola e in una
preda e in un inciampo e in una ricompensa per loro,
10-
siano oscurati i loro occhi per non vedere e il loro dorso per sempre
incurvato” (Sal 69,23-24).
La caduta di Israele fu la salvezza delle genti (vv.11-15)
11-
Pertanto dico, forse che inciamparono per cadere? Non sia mai! Ma per
la loro caduta la salvezza (è giunta) alle genti, per spingerli alla
gelosia.
12-
Ma se la loro caduta (fu la ricchezza del mondo) e il loro
decadimento ricchezza delle genti, quanto più la loro pienezza.
13-
Ma dico a voi, genti, in quanto, dunque, io sono apostolo delle
genti, onoro il mio ministero,
14-
se in qualche modo susciterò la gelosia della mia carne e salverò
alcuni di loro.
15-
Se infatti il loro rifiuto (causò) la riconciliazione del mondo, che
cosa (sarà) la (loro) riammissione, se non vita da(i) morti?
L'innesto del mondo pagano nella elezione e nella santità di Israele per mezzo della fede (vv.16-24)
16-
Ma se la primizia (è) santa, (lo è) anche l'impasto; e se la radice
(è) santa, anche i rami (lo sono).
17-
Ma se alcuni rami furono recisi, tu, invece, essendo un olivo
selvatico fosti innestato in loro, divenendo partecipe della radice
(e) dell'opulenza dell'ulivo,
18-
non vantarti contro i rami! Ma se ti glori, non tu sostieni la
radice, ma la radice te.
19-
Dirai pertanto: “I rami furono recisi affinché io fossi
innestato”.
20-
Bene: per l'incredulità furono recisi, ma tu ci stai per la fede.
Non insuperbirti, ma abbi timore.
21-
Se Dio, infatti, non ha usato riguardi verso i rami naturali, neppure
di te avrà riguardo.
22-
Osserva, dunque, la bontà e la severità di Dio: severità contro
coloro che sono caduti, ma verso di te la bontà di Dio, qualora (tu)
rimanga nella bontà di Dio, altrimenti anche tu sarai reciso.
23-
Ma anche quelli, qualora non rimangano nell'incredulità, saranno
innestati. Dio, infatti, è potente (e può) inserirli nuovamente.
24-
Se tu, infatti, sei stato reciso dall'ulivo selvatico, (a cui
appartenevi) per natura, e contro natura sei stato innestato in un
olivo coltivato, quanto più quelli che erano stati innestati nel
proprio ulivo, secondo natura.
Il rifiuto di Israele non sarà per sempre (vv.25-27)
25-Non
voglio, fratelli che voi ignoriate questo mistero, affinché non vi
riteniate [tra voi] stessi sapienti, che l'indurimento per una parte
(in) Israele avvenne finché non fosse entrata la totalità delle
genti
26-
e così tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: “Verrà da
Sion il liberatore, respingerà l'empietà da Giacobbe.
27-
E questa sarà la mia alleanza con loro, allorché toglierò i loro
peccati”.
Tutti
racchiusi nella disobbedienza perché tutti possano beneficiare del
perdono (vv.28-32)
28-
Quanto al vangelo, (essi sono) nemici a motivo di voi, quanto
all'elezione, (essi sono) amati a motivo dei padri;
29-
poiché i doni di grazia e la chiamata di Dio (sono) senza pentimento
(da parte di Dio).
30-
Come voi, infatti, un tempo foste disobbedienti a Dio, ora, invece,
otteneste misericordia a motivo della disobbedienza di questi,
31-
così anche questi ora sono disobbedienti per la vostra misericordia
(usata a voi), affinché adesso anche questi ottengano misericordia.
32-
Infatti, Dio racchiuse tutti nella disobbedienza, per aver
misericordia di tutti.
Inno alla Sapienza di Dio per il suo piano di salvezza (vv.33-36)
33-
O profondità (della) ricchezza e (della) sapienza e (della) scienza
di Dio! Quanto imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue
vie.
34-
Chi, infatti, ha conosciuto il pensiero del Signore? O chi è stato
suo consigliere?
35-
O chi gli ha dato per primo e gli fu ricambiato?
36-
Poiché da lui e per mezzo di lui e per lui (sono) tutte le cose; a
lui la gloria per i secoli, Amen.
Note
generali
Non è la prima volta che Paolo, dopo aver fatto certe affermazioni, si sente in dovere di precisarle per evitare di esporsi nei confronti dei suoi denigratori ed avversari32, sempre pronti a fraintendere le sue attestazioni, che, ad onor del vero, non sempre sono facilmente accessibili (2Pt 3,15-16). Non è da meno anche questa volta, con questo cap.11, che si apre con una domanda retorica, che serve a Paolo, da un lato, per precisare il senso della pericope 10,18-21, che sembra squalificare Israele dalla storia della salvezza; dall'altro per introdurre il tema del capitolo stesso: “Pertanto dico, forse che Dio ha respinto il suo popolo?”. La questione principale, quindi, di questo cap.11 è trovare il senso e il ruolo di Israele nel piano salvifico di Dio, che poi, in ultima analisi, è la risposta che Paolo sta cercando per placare il suo tormento interiore (9,1-5), con cui si è aperta questa trilogia (9-11) e che egli, infine, sembra aver trovato con questo cap.11. Prova ne è il modo con cui si chiude il capitolo, con una dossologia, che altro non è che un inno alla Sapienza di Dio, dalla quale Paolo si sente illuminato per aver compreso il misterioso modo di operare di Dio nella storia della salvezza. Un capitolo questo che Paolo pone a conclusione del suo laborioso cammino di ricerca, che ha elaborato complessivamente in 6 passaggi distribuiti nei capp.9-10, e che qui riepilogo sintetizzandoli, per comprendere la logica con cui si è mosso e le conclusioni a cui è arrivato in questo cap.11:
Dapprima egli considera i privilegi di Israele, quale popolo di elezione (9,.4-5);
poi si sofferma a considerare chi sono i veri figli di Israele, poiché non tutti possono chiamarsi veri figli di Abramo e veri figli di Dio, ma soltanto i figli della promessa, quindi, coloro che, come Abramo, si relazionano a Dio per mezzo della fede. Un'attestazione, questa, che servirà a Paolo per allargare la ristretta cerchia del popolo di Israele, blindato e ingessato nella sua Legge, anche ai non Israeliti secondo la carne, ma che tali comunque vanno considerati perché, relazionandosi a Dio per mezzo della fede si dimostrano veri figli di Abramo e, quindi, sua vera discendenza. Non, quindi, i circoncisi, poiché la circoncisione non determina la figliolanza spirituale, essendo essa soltanto un segno di discendenza da Abramo, discendenza che è per fede e non secondo la carne e tanto meno per Legge, considerato che la Legge venne quattrocentotrent'anni dopo (Gal 3,17) (9,6-13).
Dimostrata la vera discendenza di Abramo e, quindi, il vero Israele, fondato non sulla Legge e sulla circoncisione, ma soltanto sulla fede, Paolo passa a considerare l'insindacabile libertà di Dio nel disporre la storia della salvezza (9,14-18), così che nessuno può giudicare l'operato di Dio (9,19-21), che stabilisce i tempi e le modalità con cui opera nella storia della salvezza (9,22-29).
La conclusione inattesa, pertanto, è che il mondo dei pagani che non conosceva Dio, ma si è reso disponibile a Lui mediante la fede, quale risposta alla predicazione, ottenne la salvezza, che, invece, fu negata ad Israele, perché questi la cercava mediante le opere della Legge, confidando in se stesso e non in Dio, che è colui che giustifica (9,30-33).
Dopo aver precisato come veri figli di Abramo ed eredi della promessa non sono indistintamente tutti gli Israeliti, ma soltanto coloro che sanno relazionarsi a Dio mediante la fede, come Abramo, padre di tutti i credenti, Paolo passa a considerare in quale modo nel suo oggi si possa acquisire la fede, questo elemento discriminante e indispensabile per accedere alla giustificazione, ed accentra la sua attenzione sulla Parola, posta a fondamento della fede così che tutti vi possano accedere, poiché la Parola non è limitata ad Israele soltanto, ma a tutti coloro che desiderano accoglierla mediante l'ascolto (10,4-13). Ma se la fede scaturisce dall'ascolto della Parola è necessario che questa Parola venga annunciata mediante la predicazione, quale strumento primario per la diffusione della Parola (10,14-17).
Ma se è necessaria la predicazione per la semina della Parola, per mezzo della quale viene generata la fede, si rende necessario anche chi sia disponibile ad accogliere questa Parola, perché non sia seminata invano. Ed è ciò che è successo ad Israele, che non ha ascoltato tale annuncio (vv.10,18-21)
Paolo, dopo queste argomentazioni predisposte nei capp. 9.10, passa ora ad elaborare le loro conclusioni in questo cap.11, che si struttura in sei parti, che propongo qui di seguito, che ho ripreso dalla sezione “Testo a lettura facilitata”:
Dio non respinge il suo popolo, ma opera per selezione ed elezione. Quindi Israele non è respinto, ma al suo interno viene operata una discriminazione, secondo le logiche con cui si muove la storia della salvezza, attraverso un resto, quello che, nel corso dell'evolversi dei tempi e degli eventi, ha saputo mantenersi fedele a Dio (vv.1-10);
la caduta di Israele non fu per la sua condanna ma per la salvezza delle genti (vv.11-15);
la caduta di Israele e la elezione dei credenti in Cristo al suo posto non deve inorgoglire il credente, portandolo a disprezzo di Israele, perché il credente rimane nella sua elezione nella misura in cui egli continui a credere e a conformare la propria vita a Cristo, altrimenti anche lui subirà la stessa sorte dell'incredulo Israele (vv.16-24);
tuttavia, il rifiuto che ha emarginato Israele dalla storia della salvezza non sarà per sempre, ma durerà finché tutte le genti saranno entrate nell'elezione divina, dopo di che anche Israele sarà salvato (vv.25-27);
Israele e le genti, tutti indistintamente sono stati rinchiusi nella disobbedienza e nella ribellione a Dio, perché tutti possano beneficiare del perdono, ottenibile per grazia e non per le opere della Legge o meriti personali (vv.28-32);
inno alla Sapienza
di Dio per il suo piano di salvezza, rivelatosi a Paolo (vv.33-36).
Commento
ai vv. 1-36
Dio non respinge il suo popolo, ma opera per selezione ed elezione (vv.1-10)
Dopo aver argomentato in 9,19-21 come Dio opera nella storia della salvezza con piena e insindacabile libertà, ora Paolo con la pericope in esame (vv.1-10) mette in luce le modalità con cui vi opera, argomentandole attraverso una consistente prova scritturistica, ben sette citazioni su dieci versetti. Queste attestano come Dio non rinnega mai la sua scelta originale, ma la modifica e la modella, di volta in volta, secondo un criterio che si ripete sovente lungo la storia di Israele, quello del “resto”, che gli è rimasto fedele. Si tratta di una discriminazione che viene operata in mezzo al popolo eletto, la cui continuità viene garantita attraverso continue selezioni e nuove elezioni, che si fondano non sui meriti del “resto”, ma sulla grazia e soprattutto sulla disponibilità ad accoglierla (v.5)
Il v.1 si apre con la consueta domanda retorica che punta, da un lato, a dare un risposta ai vv.10,18-21, ai quali si aggancia e fa riferimento quel “oân” iniziale (ûn, pertanto, dunque), che ne trae le conclusioni, secondo le quali sembra che Israele, a motivo della sua pervicace incredulità, sia stato rinnegato da Dio ed estromesso dalla storia della salvezza, la quale cosa implicherebbe un ripensamento di Dio e, quindi, implicitamente un suo errore d'impostazione della storia della salvezza, non avendo previsto il fallimento di Israele; dall'altro, introduce il tema che impegnerà l'intero cap.11: “Pertanto dico, forse che Dio ha respinto il suo popolo?”. È questa la domanda cruciale che tormenta Paolo, con cui ha anche aperto questa trilogia, alla ricerca di una risposta (9,1-3). E come è suo solito sulle questioni d'importanza vitale risponde con un categorico “Non sia mai!”. E a conferma di questa sua perentoria negazione, anziché portare la prova scritturistica, come è suo solito e come, comunque farà successivamente, porta, quale esempio probante, se stesso, richiamandosi alle sue origini: “Anch'io, infatti, sono Israelita, della discendenza di Abramo, della tribù di Beniamino”.
Paolo, dunque, propone se stesso quale prova che Dio non ha respinto Israele, di cui egli fa parte; ma nel contempo si propone, implicitamente, quale esempio di israelita che ha saputo dare la sua adesione all'evolversi della storia della salvezza, che Israele aveva invece fossilizzato nella Legge, riducendo il suo legame con Dio ad un semplice rapporto legalistico. E la prova di questa sua personale elezione consiste nel fatto che lui, israelita doc, non è stato respinto da Dio, considerata la sua posizione di apostolo per chiamata da parte di Dio e non da parte degli uomini (Rm 1,1; Gal 1,1). Questo dimostra due cose, che formeranno oggetto di argomentazione successiva: egli ha risposto alla chiamata di Dio, mostrandosi fedele a Lui, così che in tal modo egli è stato separato dall'Israele originario e chiamato a costituire un nuovo Israele, che si muove non più in base alla Legge, bensì per mezzo della fede. E ciò è dimostrato dalle innumerevoli persecuzioni che egli ha subito proprio da parte del suo popolo (2Cor 11,23-27). In altri termini, Paolo costituisce l'esempio del “resto” fedele con cui Dio prosegue la sua storia della salvezza, basandola non più sulla Legge e le sue opere, bensì su di una chiamata ed una elezione per grazia (v.5), a cui si risponde con la fede ed opera per mezzo della fede.
Dalla prova pratica, costituita dalla sua persona stessa, ora Paolo passa alla prova scritturistica, attestando come Dio non ha respinto Israele, con cui ha intrapreso i suoi rapporti fin dagli inizi della storia della salvezza, cominciata con Abramo, ma si mantenne fedele alla sua scelta originale nonostante le continue defezioni di Israele, operando delle selezioni all'interno di Israele e riservando per Sè un “resto”, cioè quella parte di Israele che gli si era mantenuta fedele. Una scelta questa che si ripeterà numerose volte nel corso della storia di Israele, così da caratterizzare il modus operandi di Dio stesso nel portare avanti, di resto in resto, il suo progetto di salvezza, pensato per l'intera umanità. Una scelta, questa del “resto”, che è fondata non sulle opere della Legge, sistematicamente violata per la congenita fragilità dell'uomo, così da spingere Dio ad una continua scrematura di Israele, ma sulla sua grazia. Non, dunque, sulla bravura dell'uomo, ma sulla misericordia di Dio, che ha compassione dell'uomo peccatore e lo ama ancor prima che questi si converta a Lui (5,10).
Paolo sviluppa questo suo pensiero, fondamentale per comprendere il procedere della storia della salvezza, ricorrendo a tre citazioni: la prima, quella fondamentale, presa da 1Sam 12,22, attesta che Dio non ha respinto Israele, rimanendo fedele alla sua scelta originale: “Certo il Signore non abbandonerà il suo popolo, per riguardo al suo nome che è grande, perché il Signore ha cominciato a fare di voi il suo popolo”; la seconda, tratta da 1Re 19,10.14 in cui Elia, ripieno di zelo per il Signore, lamenta come il popolo abbia abbandonato l'alleanza con Jhwh, demoliti i suoi altari, uccisi i suoi profeti ed, infine, egli, rimasto solo, è perseguitato per essere ucciso. Una citazione questa che sostanzialmente non serve per dimostrare come Dio non ha respinto il suo popolo né per dimostrare il modus operandi di Dio nella storia della salvezza, diversamente dalle citazioni di 1Sam 12,22 e 1Re 19,18. Tutte passi queste tratte dal ciclo narrativo di Elia, il profeta che ha inscritta la sua missione nel suo stesso nome, quello di riaffermare la sovranità di Jhwh in mezzo al suo popolo: Dio è Dio33. Una citazione che Paolo inserisce in questo contesto non casualmente, perché in questo Elia egli vede in qualche modo se stesso. Anch'egli, come Elia, in lotta per affermare la Signoria di Dio in mezzo ad un popolo, che ha preferito asservirsi alla Legge, la quale lo ha ingessato nei suoi rapporti con Dio, rendendolo incapace di vedere e di ascoltare l'evolversi di una storia della salvezza cominciata proprio con lui e che lui ha abbandonato per seguire la Legge di Jhwh, che ha talmente manipolato (Mc 7,7-9) da non capire come questa fosse solo un momento di passaggio verso altre realtà preannunciate dai profeti, i quali, come ai tempi di Elia, sono stati perseguitati ed uccisi (Mt 23,29-31) ed ora, ai tempi di Paolo, come Elia, anch'egli perseguitato dal suo stesso popolo.
La terza citazione, tratta da 1Re 19,18, illustra il modo con cui Dio rimane fedele alla sua prima scelta e, quindi, continuando il suo progetto di salvezza con un resto di Israele: “Io poi mi sono risparmiato in Israele settemila persone, quanti non hanno piegato le ginocchia a Baal e quanti non l'hanno baciato con la bocca”. Il “resto”, pertanto, su cui cade la scelta di Dio, è caratterizzato dalla sua fedeltà a Jhwh.
Dopo la premessa dei vv.2-4, densa di citazioni scritturistiche, Paolo giunge alla conclusione data dai vv.5-6, con i quali trasfonde il modus operandi di Dio nel corso della storia della salvezza nel suo tempo presente: “Così dunque anche nel tempo presente c'è un resto secondo una elezione di grazia”. In altri termini, Dio prosegue la storia di Israele anche ai tempi di Paolo, che è storia di una continua selezione ed elezione, che si fa salvezza, che si fonda, però, non sulla sua bravura, ma sulla grazia: “Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli, siete infatti il più piccolo di tutti i popoli, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri” (Dt 7,7-8a). Per amore, dunque, e per grazia. Sono questi i due parametri costitutivi dell'azione di Dio nella storia dell'uomo, trasformandola da storia profana, in cui l'uomo dialogava soltanto con se stesso ed aveva come unico referente se stesso, in storia sacra, storia della salvezza in cui è chiamato a riprendere quel dialogo iniziale con il suo Dio, che si era drammaticamente interrotto nei primordi dell'umanità.
Per amore e per grazia, dunque, continua la storia della salvezza, e non per mezzo delle opere della Legge. Paolo insiste con il v.6 sul tema della grazia contrapposta alle opere della Legge. La questione, infatti, non è di secondaria importanza, poiché qui si stabilisce chi è colui che gestisce la storia della salvezza ed è il fautore della salvezza. Se, infatti, la salvezza si consegue attraverso le opere della Legge, allora, la salvezza come la sua storia diventa antropocentrica, poiché tutto dipende dall'uomo e dalle sue capacità; ma se avviene per grazia e amore, allora questa è teocentrica; un teocentrismo che non è schiavizzante, ma a favore dell'uomo e punta alla sua realizzazione, cercando di recuperarlo a quella dimensione divina da cui era drammaticamente uscito nei primordi dell'umanità.
Un progetto di salvezza, che lentamente si sta svelando nel corso della sua realizzazione nella storia e che richiede di essere accolto nella propria vita. Ma ciò necessita di un'intelligenza spirituale, che non solo lo renda comprensibile nel suo dispiegarsi storico, ma renda anche l'uomo sensibile ad esso. Ed è qui che avviene la discriminazione, che è nel contempo anche una sorta di giudizio posto sugli uomini, così che “Ciò che Israele cercava, questo non (lo) ha conseguito, ma (lo) ha conseguito l'elezione, ma i rimanenti furono accecati”. In altri termini, la giustificazione che Israele cercava attraverso le opere della Legge, quindi puntando tutto su se stesso, non l'ha trovata a motivo della connaturata fragilità umana, ma questo gli ha anche impedito di andare oltre la Legge, cogliendone il senso più vero e autentico, quello annunciato dai profeti. Per contro, l'ha invece trovata “l'elezione”, cioè il “resto”, che, al di là della Legge, ha saputo cogliere l'agire di Dio nella storia, che lo stava interpellando e vi ha aderito esistenzialmente, mentre “i rimanenti furono accecati”. Si noti qui l'inversione che Paolo opera: il “resto” diviene il vero Israele, quello fedele a Dio, mentre gli altri sono definiti “i rimanenti”, cioè il “resto” al negativo, che viene estromesso, per la sua cecità dal “resto degli eletti”, che ora sono il nuovo Israele.
Una cecità ed una
estromissione che Paolo prova scritturisticamente, richiamandosi ad
Is 29,10 e Dt 29,3, che denunciano il giudizio di Dio su quel Israele
che non fu disponibile ad accogliere il suo progetto di salvezza,
così che Dio lo ha reso insensibile ad esso, quasi ad evitarne la
profanazione ed escludendolo in tal modo dall'elezione, che per
primo, Israele, ha rifiutato. Più significativa è l'altra prova
scritturistica addotta, il Sal 69,23-24 mutuato da un cantico
attribuito a Davide e che è una personale richiesta di aiuto a Dio
da parte di un uomo perseguitato dai nemici di Dio, il quale egli
serve con fedeltà e dedizione e in cui Paolo, probabilmente, ravvisa
se stesso.
La caduta di
Israele fu la salvezza delle genti (vv.11-15)
Dopo un lungo cammino formato da ben sessantaquattro versetti (9,1-11,10), confortato da numerose prove scritturistiche, Paolo è giunto con questa breve pericope al cuore della questione, quella che dovrebbe dare la risposta al suo doloroso cruccio interiore, con cui ha iniziato questa trilogia (9,1-3; 10,1): in qualche modo la caduta di Israele rientrava nel piano universale di salvezza, poiché dalla sua caduta il messaggio di salvezza, inizialmente indirizzato ad Israele, fu reindirizzato a tutte le genti. In altre parole, Paolo legge la caduta di Israele come una sorta di servizio che Israele rese all'intera umanità, così che tale caduta divenne una sorta di merito per Israele, per il quale sarà ricompensato: “Se infatti il loro rifiuto (causò) la riconciliazione del mondo, che cosa (sarà) la (loro) riammissione, se non vita da(i) morti?”.
La pericope si apre con la solita domanda retorica che ne introduce il tema: “Pertanto dico, forse che inciamparono per cadere? Non sia mai!”. L'inciampo di cui si parla qui è quello di essersi appropriati della Legge, costruendo attorno ad essa un culto legalistico, che ha impedito ad Israele di rapportarsi al suo Dio con con il cuore e la vita, rendendolo in tal modo cieco all'evolversi della storia della salvezza, così che, giunto il Cristo di Dio, lo rifiutarono (Gv 1,11), perché non previsto dalla Legge, benché fosse stato in qualche modo preannunciato dai profeti (Is 28,16), così che esso divenne la “pietra d'inciampo” preannunciata da Is 8,14. Essi, infatti, testimonia di loro Paolo “che hanno zelo di Dio, ma non secondo conoscenza” (10,2), cioè senza comprendere il senso della propria missione e della propria posizione nell'ambito della storia della salvezza. La grave conseguenza, denunciata con crudezza in 10,3, fu che gli israeliti: “ignorando la giustizia di Dio e cercando di istituire la propria [giustizia], non si sottomisero alla giustizia di Dio”, una giustizia fondata sulla fede nel Cristo inviato del Padre, ma che essi rifiutarono perché non compresero il senso della Legge né quello delle parole dei profeti. Per questo motivo essi caddero, venendo in tal modo estromessi dal piano salvifico di Dio. Ma è proprio su questo punto che Paolo pone la questione cruciale: “forse che inciamparono per cadere?”, nel senso di una caduta irreversibile e definitiva, sulla quale pone il suo perentorio ed anatemistico “Non sia mai!”, che normalmente compare quale risposta su questioni cruciali e di rilevanza dottrinale34, al fine di fugare un qualsiasi dubbio e non essere, pertanto, frainteso dai sui avversari e detrattori, altro cruccio di Paolo.
Con il v.11b Paolo dà la sua risposta all'interrogativo, che poi completerà con i vv.12-15 e che funge da loro tema: “Ma per la loro caduta la salvezza (è giunta) alle genti, per spingerli alla gelosia”. Il rifiuto d'Israele di aderire al Cristo di Dio, cioè al suo Messia, che in vari modi i profeti preannunciarono, non causò il fallimento del progetto di Dio, ma questo fu reindirizzato a tutti coloro che si fossero resi disponibili ad aderirvi. È questo, infatti, il senso della parabola di Mt 22,2-14 dove si parla di un re che diede un banchetto per le nozze di suo figlio, che però venne disertato dagli invitati (i giudei), perché troppo impegnati nei loro affari personali (Legge, culto, tempio). Gli invitati vennero duramente puniti per il loro rifiuto (caduta di Gerusalemme), mentre il banchetto venne aperto a tutti gli altri che si fossero resi disponibili; una disponibilità che veniva testimoniata dall'aver indossato l'abito nuziale, figura di una vita conformata alla fede. E similmente l'altra parabola dei vignaioli omicidi, che si appropriarono della vite che il padrone aveva affidata a loro perché la facessero fruttificare, arrivando ad uccidere lo stesso figlio del padrone. Anche qui la parabola si conclude tragicamente per i vignaioli infedeli ed omicidi, ai quali fu tolta loro la vigna per essere data ad altri che la sappiano far fruttificare (Mt 21,33-44).
Paolo, a differenza di Matteo, legge l'esproprio del Regno di Dio a danno di Israele e a favore di altri in modo meno tragico e certamente non definitivo (vv.25-27), ma solo per suscitare la gelosia degli israeliti, di cui aveva attestato che “hanno zelo per Dio, benché non secondo conoscenza” (10,2), quasi a scusarli per la loro limitatezza, che ha causato il loro fallimento.
Ed è a tal punto che Paolo, che qui si autodefinisce “apostolo delle genti”, si scopre in qualche modo attore principale di questo progetto di Dio, quello di suscitare la gelosia degli Israeliti reindirizzando ai pagani l'annuncio della salvezza, proprio attraverso lui, Paolo, così che egli riterrà pienamente compiuto il suo ministero non solo se avrà annunciato il Cristo ai pagani, ottenendone l'adesione, ma anche, quale contropartita, ha suscitato la gelosia della sua gente, nella speranza che questo la riconduca all'interno del progetto salvifico di Dio, di cui essi furono i primi interlocutori (vv.13-14).
Una nuova coscienza
che Paolo acquisisce di se stesso e del suo ministero destinato sia
alle genti che, indirettamente, tramite gelosia, allo stesso Israele,
all'interno di un contesto delimitato dall'inclusione data dai
vv.12.15 dove si evidenzia una volta di più come la caduta di
Israele, causata dal loro rifiuto, tornò a beneficio delle genti,
così che la loro caduta si trasformerà in pienezza di vita (v.12b),
come una sorta di ritorno dalla morte alla vita (v.15b). Paolo sta
qui creando il preambolo ai vv.25-27 dove parlerà di questo mistero,
del riscatto di Israele, legato alla conversione dei pagani.
L'innesto del
mondo pagano nella elezione e nella santità di Israele per mezzo
della fede (vv.16-24)
Dopo aver attestato che Dio non ha respinto Israele, estromettendolo dalla storia della salvezza, ma ha operato su di esso attraverso un processo di scrematura, che avveniva per selezione ed elezione, grazie al quale Dio si è riservato, di volta in volta, un “resto”, caratterizzato dalla sua fedeltà a Dio stesso, dimostrando in tal modo come la storia della salvezza proceda sempre con Israele sia pur con un suo resto (vv.1-10); e come, da ultimo, a causa dell'incredulità d'Israele, il messaggio di salvezza venne reindirizzato verso il mondo pagano (vv.11-15), Paolo, ora, con la pericope vv.16-24, spiega come è avvenuto il travaso del mondo pagano in quello che, agganciandosi all'antico Israele della storia della salvezza, è da considerarsi il nuovo Israele, il nuovo resto dell'antico Israele, ricostituitosi non più attorno all'Alleanza antica, alla Legge e alla circoncisione, ma riaggregato nella fede nel Risorto.
Di resto in resto, dunque, si è giunti paradossalmente ad un ultimo resto, che non ha più il volto storico dell'antico Israele, quello secondo la carne, ma il volto di quel Israele pensato e sognato da Dio, quello di tutti coloro che, Giudei o Greci che siano, hanno aderito al progetto iniziale che Dio aveva riservato al primo Israele; progetto che fu ripetutamente tradito da Israele sia per la sua infedeltà prima, che per la sua incredulità dopo. Dio, quindi, abbandona in qualche modo l'Israele della storia, quello secondo la carne, l'Israele delle genealogie, per estenderne, caratteristiche e promesse, a chiunque avesse aderito esistenzialmente al progetto, che inizialmente fu legato all'Israele della storia. La vera storia del vero ed autentico Israele è cominciata con la fede di Abramo (Gen 15,6), a cui Dio legò la sua promessa, così che veri figli di Abramo e sua vera discendenza sono non più l'antico Israele circonciso, legalisticamente racchiuso nella sua Legge, ma i credenti (4,18; 9,8). Una storia che poi era proseguita ai piedi del monte Sinai con un atto condizionato di consacrazione di Israele: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). La condizione, dunque, per poter diventare proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa, il nuovo volto dell'Israele sognato da Dio, era “l'ascoltare la sua voce”, risuonata dapprima nella Torah, poi nei profeti e da ultimo nel suo Cristo. Ma fu una voce inascoltata: “Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito. L'ho abbandonato alla durezza del suo cuore, che seguisse il proprio consiglio” (Sal 80,12-13).
Esiste, dunque, un Israele della storia, quello secondo la carne, da cui originariamente è partita la storia della salvezza, che ha avuto alle sue origini Abramo, Isacco, Giacobbe con i quali Dio aveva stipulato le sue alleanze e mantenuto le sue promesse (Gen 15,18-21), fondate sulla fede (Gen 15,6), così che alleanze e promesse con Dio dovevano continuare sulla logica della fede e non, dribblando la fede, con le opere della Legge. Il protagonista della storia della salvezza doveva essere Dio, che la offre, e non Israele che se la prende in autogestione, appropriandosi della Legge e rifiutando le voci dei profeti, che ne spiegavano il senso. Dio, pertanto, cerca non operatori della Legge, ma veri credenti con cui instaurare un rapporto salvifico, fondato sul dono e sulla grazia, accolti per mezzo della fede, così come si era avviato inizialmente il rapporto con Dio da parte dei Padri. Ed ecco che alla questione posta dalla Samaritana, a quale tempio doveva essere legato il vero culto, il Gesù giovanneo risponderà che i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori (Gv4,23). È, dunque, nel proprio spirito e con l'adesione esistenziale alla Verità della Parola del Cristo (Gv 4,25-26) che si celebra il vero culto a Dio. Non più tempio, non più innumerevoli sacrifici e incensi, ma il culto celebrato nel tempio del proprio cuore e che ha per sacrificio la propria vita, offerta a Dio quale dono spirituale a Lui gradito (12,1). Tempio e Legge erano strumenti, mezzi e non il fine della storia della salvezza, che si raggiunge solo attraverso la fede nella misericordia di Dio e non vantando i propri diritti davanti a Dio, ottenuti con le opere della Legge.
Il rapportarsi, pertanto, con Dio per mezzo della fede nel suo Cristo, significa allinearsi ed agganciarsi alla storia d'Israele, alle sue origini, fondate sulla fede (Gen 15,6) e non su di una Legge, che ancora non esisteva, giunta quattrocentotrent'anni dopo (Gal 3,17). Quindi, se sante sono le fondamenta e le radici su cui è sorto Israele, altrettanto santa è la sua discendenza, che su queste radici e su queste fondamenta attecchiscono.
Ed è con queste immagini che Paolo apre questa pericope: “Ma se la primizia (è) santa, (lo è) anche l'impasto; e se la radice (è) santa, anche i rami (lo sono)”. Due immagini, la prima tratta da Nm 15,18-21, dove si stabilisce la regola secondo la quale “le primizie della vostra madia”, cioè il grano appena raccolto e la farina per fare il pane, dovevano essere in parte offerte al Signore, così che tutta la primizia veniva santificata e, di conseguenza, anche l'impasto per il pane diveniva santo. E similmente la seconda immagine, dove si pala di radice santa e di rami santificati dalla santità della radice. Primizia e radici sono la metafora dei Padri fondatori di Israele: Abramo, Isacco e Giacobbe i quali avevano instaurato con Dio un rapporto di fede e di fiducia, sulle quali Dio operava la sua storia della salvezza. L'impasto e i rami sono non solo gli israeliti, ma altresì tutti quelli che, rifacendosi alle primizie di Israele e alle sue radici, ne ereditavano la fede, così che vero Israele non è più quello secondo la carne, ma quello secondo la fede.
Ma di quali radici e di quali rami qui Paolo sta parlando? L'immagine è tratta da Ger 11,16 e Os 14,7, dove Israele è raffigurato ad un ulivo verde e maestoso. Ebbene, dice Paolo, alcuni rami di questo ulivo furono tagliati e altri rami di ulivo selvatico, metafora del mondo pagano, furono innestati su questo ulivo, dalle radici sante e santificanti, così che questi rami innestati poterono beneficiare della elezione e delle promesse, che le radici, su cui fonda ed è alimentato l'intero ulivo con i suoi innesti, portano con sé, quale linfa vitale per l'intero ulivo, sia esso Israele che quanti altri si conformano a quelle primizie e a quelle radici, che si sono relazionate a Dio per mezzo della fede e non per mezzo delle opere della Legge.
A tal punto, dopo
aver esposto le modalità con cui opera la storia della salvezza, per
mezzo della fede, che si riaggancia e si innesta su quella dei Padri,
le primizie e le radici dell'ulivo, che sempre più perde la sua
configurazione storica secondo la carne, per assumere sempre più il
volto del progetto di Dio, di quel Ulivo da Lui pensato e che già
era in qualche modo prefigurato nel volto dei Padri, Paolo crea ora,
con i vv.18-24, una pausa di riflessione indirizzata agli
etnocristiani presenti in comunità miste, cioè formate anche da
giudeocristiani giudaizzanti, con i quali i convertiti provenienti
dal paganesimo non avevano buoni rapporti e che probabilmente
deridevano per le loro pratiche giudaiche, alle quali erano ancora
legati e che costituirà oggetto di specifica attenzione del cap.14.
Ebbene, dice Paolo: “non vantarti contro i rami! Ma se ti glori,
non tu sostieni la radice, ma la radice te” (v.18). In altri
termini, sia giudeocristiani che etnocristiani hanno un'origine
comune per la loro comune fede e per questo hanno anche un comune
padre, Abramo, di cui, per mezzo della fede, sono comune discendenza.
Quindi, nessuno è più bravo dell'altro, ma tutti sono accomunati
per mezzo dell'unica fede, così che tutti sono rami dell'unico
Ulivo. Tutti, tuttavia, sono ospiti di questo grande Ulivo pensato e
sognato da Dio, nella misura in cui si crede, altrimenti si subirà
la stessa sorte che ha subito l'Israele secondo a carne, potato dal
grande Ulivo per la sua pervicace incredulità: “Osserva, dunque,
la bontà e la severità di Dio: severità contro coloro che sono
caduti, ma verso di te la bontà di Dio, qualora (tu) rimanga nella
bontà di Dio, altrimenti anche tu sarai reciso” (v.22). Se Dio,
prosegue Paolo, ha trattato in quel modo lì il primo Israele, quello
delle alleanze e delle promesse, per la sua incredulità, tanto più
tratterà in egual modo anche gli altri rami di ulivo selvatico, gli
etnocristiani, innestati nel grande Ulivo del progetto salvifico di
Dio per mezzo della fede, se questa viene meno anche a loro. Ma Dio è
pronto a ricostituire anche il primo Israele nel grande Ulivo, purché
si apra alla fede, poiché Dio può tutto (v.23).
Il rifiuto di
Israele non sarà per sempre (vv.25-27)
Preannunciata in qualche modo dai vv.11-12, questa breve pericope
(vv.25-27) completa quelli e presenta la pervicace incredulità di
Israele come un piano prestabilito da Dio nel più ampio disegno
della storia della salvezza. E rivolgendosi a quegli etnocristiani di
Roma, che in qualche modo si sentivano superiori ai giudeocristiani
ancora giudaizzanti, cioè ancora legati e condizionati dalle
pratiche della Legge mosaica, a considerare come l'indurimento di
Israele fosse preordinato proprio alla loro salvezza, cioè alla
salvezza del mondo pagano. E questo viene presentato da Paolo come
“mistero”, cioè il piano concepito da Dio stesso e, pertanto,
facente parte del suo progetto di salvezza universale. Un
indurimento, tuttavia, che, essendo preordinato alla salvezza
dell'intero mondo pagano, non durerà per sempre, ma quanto basta per
ricondurlo a Dio. E a conferma di tale sua affermazione Paolo porta
la prova scritturistica, che francamente lascia un po' a desiderare,
per la libertà con cui ha composto il testo dei vv.26b-27, citando a
braccia Is 27,9 e 59,20-21: “e così tutto Israele sarà salvato,
come sta scritto: “Verrà da Sion il liberatore (Is 59,20a),
respingerà l'empietà da Giacobbe (Is 27,9a). E questa sarà
la mia alleanza con loro (Is 59,21a), allorché toglierò i
loro peccati (Is 27,9b)”. Una citazione composita, che
sembra rispondere più al suo grande desiderio del ritorno del suo
popolo a Dio (9,1-3; 10,1), che ad vera e propria una previsione
scritturistica.
Tutti
racchiusi nella disobbedienza perché tutti possano beneficiare del
perdono (vv.28-32)
Accanto alla prova scritturistica riportata ai vv.26-27, Paolo, ora, aggiunge la prova razionale, cercando di sostenere la sua tesi circa la salvezza di Israele, una volta compiuta quella delle genti, per le quali il suo cuore fu indurito, rinchiudendolo nella sua pervicace incredulità (vv.11-12.25). Lo fa attraverso una sorta di sillogismo, che ha come parametro di raffronto lo stesso mondo pagano. In altri termini Paolo sostiene qui che come il mondo dei pagani, fino ad allora disobbediente a Dio ottenne la misericordia da Dio a motivo della disobbedienza Israele, così ora Israele, fin qui, similmente ai pagani, disobbediente a Dio, otterrà lui pure la grazia della misericordia divina. Così che, racchiusi tutti, Giudei come Greci, sotto l'unica disobbedienza a Dio, tutti ottengono la medesima misericordia. Un pensiero questo che Paolo ha mutuato da 3,28, dove attestava che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”, dove quel “tutti” era riferito sia ai pagani, sottoposti all'ira di Dio, perché pur potendo conoscere Dio attraverso la creazione, lo hanno rifiutato, rivolgendosi ad altre divinità, frutto della loro fantasia, dedicandosi alle perversità (1,18-32); sia ai Giudei, dal cuore duro e impenitente (2,5), essi stessi trasgressori della Legge alla pari dei pagani, ma nondimeno menando vanto della sapienza della loro Legge e facendosi maestri presso gli altri popoli, creando in tal modo scandalo presso di loro (2,17-24).
Paolo apre la pericope presentando il doppio volto dei Giudei: da un lato, essi si mostrano avversi al Vangelo, ma per permettere che il suo messaggio sia reindirizzato al mondo dei pagani e a loro beneficio. Pertanto la loro avversità al Vangelo fu una sorta di servizio reso ai pagani, previsto e racchiuso nello stesso mistero di Dio, nel più ampio disegno della storia della salvezza (vv.11-12.25); dall'altro, Israele fu oggetto di elezione e predilezione da parte di Dio, che operò fin dalle origini nei suoi padri, quali Abramo, Isacco e Giacobbe, che qui Paolo chiama “le primizie” e “le radici” dell'ulivo (v.16). E la scelta che Dio operò su Israele fu dono di grazia, di cui Dio non si pente, poiché tutto fa parte dell'unico grande progetto di salvezza racchiuso nel mistero stesso di Dio (Dt 7,7-8a).
Con i vv.28-29 Paolo ha presentato Israele come avverso a Dio, ma da Lui comunque amato, esattamente come lo furono i pagani, avversi a Dio, ma da Lui amati (5,10), ottenendo la misericordia divina grazie alla disobbedienza di Israele; così che, ora, anche Israele, finora disobbediente a Dio, una volta salvate tutte le genti, anch'esso beneficerà della misericordia di Dio alla pari dei pagani.
Tutti,
dunque, conclude Paolo, sia Giudei che Greci, sono stati racchiusi
nella medesima e comune disobbedienza a Dio, così che tutti
indistintamente possano ottenere la misericordia di Dio. Tutto,
dunque, si muove sullo sfondo della grazia, che si fa misericordia e
si manifesta nella compassione di Dio per la disgraziata condizione
esistenziale conseguente alla colpa originale, per cui “tutti
hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”
(3,23).
Inno
alla Sapienza di Dio per il suo piano di salvezza (vv.33-36)
Dopo un lungo percorso formato dai capp.9-11 per complessivi 86 versetti, Paolo giunge finalmente al termine della sua sofferta ricerca circa i destini di Israele (9,1-3), scoprendo quello che per lui è il disegno misterioso di Dio su Israele: l'irriducibile incredulità di Israele fa parte del piano di salvezza universale pensato da Dio a favore dell'intero mondo pagano (vv.11-12.25) e, come contropartita, anche di Israele. Il rifiuto del Vangelo da parte dei Giudei, pertanto, ha causato il reindirizzamento del messaggio di salvezza a tutte le genti, salvate le quali, Dio provvederà a recuperare Israele a Sè. Anche Israele, pertanto, a giochi finiti, cioè quando tutte le genti saranno salvate, verrà salvato a sua volta da Dio (vv.25-26a), così come Dio ha salvato i pagani grazie al rifiuto di Israele (vv.30-32).
Giunto
a tali convinzioni, meticolosamente argomentate attraverso
consistenti prove scritturistiche e stringenti ragionamenti e
liberato il suo animo dalla grande sofferenza (9,1-3), ora Paolo
chiude il suo lungo e tormentato cammino di ricerca con un inno alla
Sapienza di Dio per il suo misterioso piano di salvezza, rivelatosi
nel corso di questa sua personale ricerca.
L'inno,
che si modella sul linguaggio sapienziale, si struttura
sostanzialmente in tre parti:
Il v.33 esprime un esplosivo quanto incontenibile stupore di Paolo di fronte all'architettura del piano di salvezza pensato da Dio, che si è manifestato nella storia e che egli ha finalmente compreso, lenendo il dolore che lo affliggeva (9,1-3);
i vv.34-35 costituiscono la prova scritturistica a sostegno di quanto è stato proclamato al v.33 e, in qualche modo, amplificandolo; essi si rifanno, il v.34 a Is 40,13 e Ger 23,18; mentre il v.35 allude a Gb 41,3;
Il v.36 conclude l'inno acclamando alla sovranità assoluta e ineguagliabile di Dio, a cui è indirizzata la dossologia finale.
Il v.33 è scandito in due parti, la prima è una elogio alla ricchezza, alla sapienza e alla scienza di Dio, enfatizzate dal termine “profondità”, da cui tutte tre dipendono, e che attribuisce loro un'immensità incommensurabile, insondabile e irraggiungibile dall'uomo. La ricchezza dice la pienezza delle risorse di Dio e in qualche modo allude alla sua onnipotenza, di cui fanno parte la sua sapienza, strumento attraverso il quale viene gestita sia la sua ricchezza che la sua scienza, la quale dice quella conoscenza ineguagliabile che Dio ha di tutte le cose, così che niente si sottrae al suo conoscere, poiché “nemmeno le tenebre per te sono oscure, e la notte è chiara come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (Sal 138,12); quella sapienza che siede in trono presso Dio (Sap 9,4) e che era presente quando Egli creava tutte le cose (Sap 9,9).
Se la prima parte del v33 contempla l'immensità di un Dio avvolto nel suo maestoso e impenetrabile Mistero, tratteggiandone la grandiosità umanamente inesprimibile, il v.33b ne prende atto riconoscendo “Quanto imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie”. Attestazione che richiama da vicino Is 55,8-9: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”, evidenziando lo scarto netto e incolmabile che separa Dio dagli uomini e che lo rende Altro da loro, così che l'esprimersi di Dio diviene insondabile per l'uomo, mentre le sue vie gli sono precluse.
Ed è a tal punto che Paolo, con tre domanda retoriche, tratteggia, rafforzandole, l'irraggiungibilità e l'ineguagliabilità di Dio da parte degli uomini, rifacendosi, per il v.34, al contesto di Is 40,12-14: “Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare e ha calcolato l'estensione dei cieli con il palmo? Chi ha misurato con il moggio la polvere della terra, ha pesato con la stadera le montagne e i colli con la bilancia? Chi ha diretto lo spirito del Signore e come suo consigliere gli ha dato suggerimenti? A chi ha chiesto consiglio, perché lo istruisse e gli insegnasse il sentiero della giustizia e lo ammaestrasse nella scienza e gli rivelasse la via della prudenza?”. Mentre al v.35, in forma sinteticamente rielaborata da Paolo, viene riportato Gb 41,3 nella versione TM, più conforme a quanto egli intende dimostrare, cioè che Dio non è debitore di nessuno, poiché nessuno può vantare nei suoi confronti un qualche credito o un qualche diritto (4,2-5)35.
Il v.36, che conclude l'inno, potremmo definirlo come una sorta di esaltazione teocentrica, che tutto riconduce a Dio, quale Assoluto ineguagliabile e irraggiungibile e che risuonerà anche in Gv 1,1-4 e Col 1,16b. Dio, dunque, quale fonte di tutte le cose, con cui si apre la stessa Gen 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. “In principio Dio”, da cui poi tutto discende, cielo e terra, cioè la totalità dell'esistente. Ma se Dio è la fonte Unica e Suprema, Principio Assoluto dell'essere, Egli si configura anche come Potenza generatrice, cioè capace di generare tutte le cose e chiamarle all'esistenza, così che tutta la Creazione, nel senso più ampio del termine, da Lui pensata e da Lui generata, porta in se stessa l'impronta del suo Creatore (Gen 1,26-27.31), così che essa tende verso di Lui, quasi calamitata dall'Essere Supremo di cui è in qualche modo figlia36 e in qualche modo una sua scintilla (Rm 1,20), in cammino verso quel “Punto Omega” elaborato dal grande scienziato e pensatore cristiano, il gesuita francese Teilhard de Chardin (1881-1955), secondo il quale l'intera creazione è in continua evoluzione dal meno verso il più, in stati di coscienza e di perfezionamento sempre più elevati fino a giungere a quel Punto Supremo che egli, servendosi significativamente dell'ultima lettera dell'alfabeto greco e proprio perché ultima, chiama Omega, in cui egli ravvisa Cristo stesso, del quale l'autore della Lettera agli Ebrei proclama, quasi in forma innica, che il Padre lo “ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola” (Eb 1,1-3a). A questo Cristo, che è il Signore e Dio lui stesso, Paolo eleva la sua dossologia finale, in cui risuona l'eco dell'intera Creazione: “a lui la gloria per i secoli, Amen”, dove quel quel “gloria” proclama lo splendore eterno della sua divinità, mentre l'Amen37 ne sancisce la veridicità.
Sezione parenetica
(12,1-15,13)
La vita del credente
secondo Paolo
Nell'ampia sezione dottrinale (1,16-8,39) Paolo aveva delineata la nuova posizione dell'uomo nei confronti di Dio. Un uomo giustificato per mezzo della fede e non per le opere della Legge, evidenziando come la giustificazione fosse il frutto della grazia misericordiosa di Dio e non dei meriti dell'uomo, impegnato, in modo fallimentare per la sua connaturata fragilità, a produrre opere conformi alla Legge, che lo spingevano a vantarsi presso Dio, dandogli l'illusione di essere creditore nei suoi confronti. Nel contempo Paolo presentava anche il nuovo status di vita del credente derivante da questa sua nuova posizione nei confronti di Dio. Egli, infatti, in quanto battezzato, è stato associato alla morte di Cristo e chiamato a crocifiggere con lui e in lui il proprio uomo vecchio, morendo così ad un modo peccaminoso di vivere, in netta dissonanza con le nuove realtà che erano venute a costituirsi in lui con la risurrezione di Cristo, a cui è stato assimilato per fede e con il battesimo. Il credente, pertanto, doveva ritenersi morto al peccato e vivente per Dio in Cristo. Una vita che deve essere caratterizzata dall'azione dello Spirito Santo, che lo ha reso figlio di Dio ed erede di ogni suo bene spirituale, venendo così introdotto nella stessa dimensione divina in Cristo, con Cristo e per Cristo. E tutto questo è avvenuto per grazia, cioè per la liberale azione misericordiosa di Dio nei confronti dell'uomo e certamente non per suoi meriti personali, provenienti dalla Legge, incapace di compierla pienamente.
Questo è sostanzialmente il contesto dottrinale elaborato da Paolo nei primi otto capitoli della sua Lettera ai Romani, quello che lui chiama in 2,16-17 il “mio vangelo”, quel vangelo di cui Paolo non si vergogna “poiché è potenza di Dio per la salvezza per ogni credente, per (il) Giudeo prima quanto anche per (il) Greco. La giustizia di Dio, infatti, si è manifestata in esso da fede in fede, come sta scritto: <<Il giusto vivrà per fede>>”.
Se tutto ciò è vero, allora il credente, proprio per la sua condizione esistenziale di credente, è chiamato a scommetterci sopra la propria vita. In altri termini, egli è chiamato a trasfondere nella quotidianità della sua vita queste verità, queste realtà spirituali che gli sono state rivelate e che, a motivo della sua fede e del battesimo, già vivono in lui e nelle quali egli è pienamente immerso e di cui è permeato, così che, per dirla con Gal 2,20a, “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”. Che cosa concretamente comporti tutto questo verrà detto ora in questa sezione parenetica o esortativa, che comprende i capp.12,1-15,13. Dalla teoria, dunque, alla pratica. È questa un po' la linea su cui Paolo si muove nelle sue lettere. È significativo, infatti, come si apre questa ultima sezione della Lettera ai Romani, con l'espressione “Parakalî oân Øm©j” (Parakalô ûn imâs), “Vi esorto, pertanto”, dove quel “pertanto” assume un significato conclusivo di quanto si è venuto a dire fin qui, cioè nella sezione dottrinale. Pertanto tutto quello che verrà detto qui nella sezione parenetica altro non è che l'applicazione pratica di tutte quelle verità-realtà di fede fin qui elaborate e scritturisticamente argomentate.
Tre
sono i pilastri fondamentali attorno ai quali gira l'intera sezione
parenetica:
il primo è il v.12,1, che sollecita il credente a vivere sacerdotalmente la propria vita, quale offerta santa ed accetta a Dio, trasformando la propria vita in una liturgia di lode e santificazione, dove si celebra il vero culto spirituale a Dio gradito;
il secondo è il v.12,2, dove si spinge il credente a non conformarsi al modo di vivere e di pensare di questo mondo, ma di operare in se stessi una radicale trasformazione esistenziale, cercando sempre qual'è la volontà di Dio, ciò che è buono e a Lui gradito. Un'esortazione che spinge a creare in se stessi una nuova sensibilità per le cose di Dio e non più per i soli interessi materiali, cercando di scoprire nel divenire delle cose la volontà di Dio, poiché siamo morti al peccato, ma viventi per Dio in Cristo (6,11), di cui si è rivestiti per fede e per battesimo;
il
terzo pilastro è dato dal v.13,12, che crea lo sfondo squisitamente
escatologico, entro cui deve collocarsi il credente, sospingendolo a
conformare la sua vita a quelle realtà ultime che già sono
presenti in lui, orientandola tutta verso Dio, nell'attesa del
ritorno del Signore, comportandosi
onestamente, come in pieno giorno, non in mezzo a gozzoviglie e
ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie,
ma rivestendosi del
Signore Gesù Cristo e non seguendo la carne nei suoi desideri
(13,13-14). Un contesto escatologico, dunque, che deve servire da
stimolo per il credente e da suo parametro di confronto costante.
All'interno di questa cornice sacrale Paolo prospetta alla comunità credente di Roma e in lei a tutti i credenti, in quanto tali, come vivere in conformità a quelle realtà spirituali in cui già essi si trovano, già proiettati nella dimensione stessa di Dio, benché non ancora definitivamente. Si tratta, in ultima analisi, di vivere nella sincerità di vita, lasciando trasparire nel nostro modo di vivere quelle realtà che già sono presenti in noi.
Qui il linguaggio non è più quello dottrinale, a cui Paolo ci aveva abituati nella sezione 1,16-8,39. Scompaiono i termini come “fede”, “giustificazione”, “giustizia”, “peccato”, “grazia”, “opere della Legge”, “uomo vecchio”.
Il termine amore, che compare in 12,9; 13,8.10; 14,15; 15,30, perde qui la sua valenza teologica, che aveva invece in 5,5.8; 8,35.39, per assumere un senso etico, cioè l'amore colto come modo di vivere e di relazionarsi all'altro.
Compare una nuova terminologia che ha a che fare con il proprio modo di pensare e di vedere le cose, espresso in greco con la radice “fron” (fron), che si richiama all'assennatezza, al pensare ed agire bene, nel modo giusto, con prudenza38, lasciando intendere come sia la propria mente, che debba essere cambiata, ponendosi in un continuo stato di revisione e di conversione esistenziale.
Fondamento di tutto questo rinnovamento interiore, che colloca il credente in una nuova prospettiva esistenziale sia personale che sociale, con particolare attenzione alle relazioni intracomunitarie, nonché in un nuovo modo di relazionarsi a Dio è il battesimo, con cui egli è stato configurato a Cristo sia nella sua morte, avendo crocifisso con lui e in lui il proprio uomo vecchio, morendo così al peccato; sia nella sua risurrezione, che ha generato in lui l'uomo nuovo, che vive per Dio e non più per se stesso.
Il linguaggio, pertanto, in questa sezione parenetica si fa esortativo ed è disseminato di verbi all'imperativo esortativo e posti al presente indicativo o, in prospettiva escatologica, al futuro.
Quanto alla struttura di questa sezione parenetica, propongo la seguente:
Preambolo alla sezione parenetica (12,1-2);
la vita intracomunitaria (12,3-21): regole per il buon uso dei carismi a servizio della comunità (12,3-8); l'amore posto a base delle relazioni con gli altri (12,9-21);
I rapporti con l'autorità e le sue radici divine (13,1-7);
l'amore è compimento della Legge (13,8-10);
prendere coscienza e tenere presente il contesto escatologico entro cui il credente vive e, di conseguenza, deve comportarsi (13,11-14).
Un caso particolare: i rapporti intracomunitari tra i “forti” e i “deboli”, come gestirli (14,1-15,13): a) reciproca accoglienza e comprensione (14,1-12); b) non giudicare gli altri, evitando di essere loro d'inciampo, ma rispettarsi reciprocamente (14,13-23); c) evitare di compiacere se stessi, ma accogliere i deboli nelle loro fragilità, rispettandosi reciprocamente (15,1-7);
porsi a servizio dei deboli a gloria di Dio sull'esempio di Cristo, sottopostosi alla Legge per attuare il disegno del Padre a favore dell'uomo (15,8-13).
Commento alla sezione
12,1-15,13
Preambolo alla sezione
parenetica (12,1-2)
Testo a lettura
facilitata
Il
modo di vivere sacerdotale del credente (v.1)
1- Vi esorto, pertanto, fratelli, per i sentimenti di misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi (quale) sacrificio vivente santo gradito a Dio, (questo è) il vostro ragionevole culto;
La conversione quale stile di vita (v.2)
2- e non conformate(vi) a questo secolo, ma trasformatevi con il rinnovamento della mente per esaminare che cos'è volontà di Dio, (ciò che è) buono e gradito e perfetto.
Commento ai vv.1-2
Il
modo di vivere sacerdotale del credente (v.1)
La sezione esortativa apre con due versetti che fungono da cornice entro cui verranno collocati i diversi quadri di esortazione, riguardanti gli aspetti della vita intracomunitaria dei credenti e delle loro relazioni sociali e con le autorità costituite.
Non si tratta di una sezione a se stante, ma quel “oân” (ûn, pertanto, dunque) posto in sua apertura la collega a quella dogmatica precedente (1,16-8,39), facendone una sorta di conseguenza “logica”. Un aspetto questo che viene sottolineato da quel “logik¾n” (loghikén, logico, ragionevole) riferito al culto, con cui si conclude il v.1, quasi a sottolineare come il culto sia per il credente la logica quanto ragionevole conclusione del suo essere e del suo vivere da credente, che lo coinvolge in prima persona e che si espleta in due modi: attraverso l'offerta del proprio corpo, intendendo con questo non solo l'interezza di se stesso, che si manifesta primariamente nella propria corporeità, ma anche con tutto ciò di cui fa parte questa corporeità, la creazione stessa, a cui è intimamente e profondamente legata, per un principio di solidarietà che le spinge a vivere simbioticamente, in dipendenza l'una dall'altra (8,19-23; Gen 6,5-7.12-13). e questa offerta diviene per il credente un “sacrificio”, cioè, come suggerisce il termine stesso “sacrum facere”, il compiersi di un'azione sacra e, quindi, sacralizzante e santificante. Il vivere del credente, pertanto, in mezzo a questa realtà e nel suo relazionarsi con se stesso e con gli altri diviene un'azione santificante, cioè un'azione che permea e impregna ogni cosa e ogni essere umano della vita stessa di Dio, che è il Santo per definizione e fonte di ogni santità, di cui è permeato in virtù della sua fede e del suo battesimo, poiché non è più lui che vive, ma è Cristo che vive ed opera in lui (Gal 2,20), così che la sua vita si trasforma non solo in una liturgia di lode e di ringraziamento, ma altresì consacratoria e santificante.
Ed è questo modo di vivere del credente che lo qualifica nella sua connaturata sacerdotalità, che affonda le sue radici in quella di Cristo, di cui è rivestito in virtù del suo battesimo, alla quale Paolo qui si riferisce con quei tre termini, che le sono propri e la caratterizzano: “offrire”, “sacrificio”, “culto”.
Un'esortazione questa che Paolo rivolge ai “fratelli”, cioè ai credenti nella comune fede e figli del comune Padre. L'indirizzo è, quindi, squisitamente ecclesiologico e ha a che vedere con la vita propria della Chiesa e dei suoi membri, colti qui nella loro comune sacerdotalità. Un popolo santo, dunque, un popolo di sacerdoti quello di Dio, che dà definitiva attuazione al suo comando ai piedi del Sinai: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e quel una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). E queste sono le parole che Paolo rivolge alla comunità di Roma e in essa e con essa a tutti i credenti di ogni tempo e di ogni latitudine, poiché uno solo è il Cristo di cui siamo rivestiti e permeati, il quale ci vive tutti nella sua morte e risurrezione, nell'attesa della sua venuta. Quel Cristo che ha espletato la sua funzione sacerdotale, di cui siamo rivestiti, sulla croce, nella sua duplice veste di vittima sacrificale e di sacerdote nel contempo, che ha offerto se stesso al Padre in espiazione dei peccati del suo popolo, risantificandolo e riconsacrandolo nel suo sangue, riconsegnandolo a Lui, così che Dio fosse nuovamente tutto in tutti, così com'era nei primordi dell'umanità (1Cor 15,28).
Un'esortazione
questa che vien posta sotto l'egida “dei sentimenti di misericordia
di Dio”, cioè sotto l'egida del modo di sentire di Dio, che è il
sentire della misericordia, frutto non delle opere della Legge, il
cui merito va all'uomo, ma della liberalità del suo amore
misericordioso, cioè della sua grazia, che deve riflettersi nel
vivere consacrante e santificante del credente, il cui compito e la
cui missione è quello di consacrare e santificare, cioè ricondurre
tutto nuovamente a Dio, continuando così in se stesso l'offerta che
Cristo ha fatto di se stesso sulla croce. Torna dunque, quanto mai
opportuna l'attestazione che Paolo fa di se stesso in Gal 2,20: “Sono
stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo
vive in me”.
La
conversione quale stile di vita (v.2)
Alla connaturata sacerdotalità di ogni credente Paolo aggiunge, ora, il v.2, che si apre con la congiunzione “kaˆ” (kaì, e), dando continuità e per certi aspetti anche dettando le condizioni di questa sacerdotalità: “e non conformate(vi) a questo secolo, ma trasformatevi con il rinnovamento della mente per esaminare che cos'è volontà di Dio, (ciò che è) buono e gradito e perfetto”. Ai piedi del Sinai, infatti, Dio, prima di assegnare la nuova identità al suo popolo quale popolo santo e di sacerdoti, aveva posto come condizione: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra!” (Dt 19,5). La condizione, dunque, per poter essere “proprietà di Dio”, cioè popolo consacrato a Dio (Dt 7,6), da cui discende poi la sua santificazione e la sua sacerdotalità, quali appartenenza e servizio sacro a Dio in mezzo alle genti, è quel “se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza”. “Ascoltare” e “Custodire”, dunque, che dicono, da un lato, il porsi di fronte a Dio in un atteggiamento di ascolto accogliente della sua Parola, quale espressione della sua volontà e del suo Essere; dall'altro, il “Custodire” nella propria vita, che dice l'incarnare esistenzialmente la sua Parola, stabilendo in tal modo un intimo rapporto osmotico di alleanza, cioè di intercompenetrante amicizia tra Dio e il suo popolo (Es 24,3.7).
Vi è, dunque, una consequenzialità tra consacrazione, santità, sacerdotalità e l'ascoltare e il custodire nella propria vita la Parola di Dio, stabilendo in tal modo un'alleanza, che è nella sua natura una profonda connessione tra Dio e gli uomini, così che il credente è reso “sacerdote”, cioè, come dice il termine stesso, un “datore di Sacro”, un “elargitore di Dio”, che sa trasmettere agli altri, santificandoli in tal modo, a sua volta. Una consequenzialità che viene espressa in apertura del v.2 da quel “kaˆ” (kaì, e). Continua, dunque, l'esortazione iniziale del v.1.
Il v.2 detta, dunque, le regole per poter accedere alla nuova identità, di cui è permeato il credente, per sua natura rivestito di Cristo. Tre sono i passaggi che costituiscono questo cammino verso la nuova identità, il quale, in ultima analisi, altro non è che uno stato di permanente conversione del cuore e della mente, per poter far emergere e, quindi, testimoniare nella propria vita e con la propria vita, quelle realtà di cui essa è già spiritualmente impregnata.
Il primo passo è “non conformate(vi) a questo secolo”. L'espressione “questo secolo”, che ricorre complessivamente dieci volte nel N.T.39, assume nel linguaggio paolino e della chiesa primitiva un senso negativo, quale vecchia realtà che si contrappone e combatte contro la nuova realtà che è Cristo. Due realtà queste tra loro antitetiche e irriducibili l'una all'altra (8,6-7). Realtà che Paolo definisce con le due espressioni “secondo la carne” e “secondo lo Spirito”, che sovente si riscontrano nelle sue lettere per delineare due contrapposti stili di vita. Ebbene, sollecita Paolo, “non conformatevi”, cioè non modellate voi stessi secondo una determina forma e un certo modo di essere che caratterizza questa vecchia realtà, che in 6,6 definisce “il nostro uomo vecchio”. Realtà ormai superate per lasciare spazio a cieli nuovi e terra nuova (Ap 21,1), realtà modellate secondo le logiche dello Spirito.
Il “Non conformatevi” sottende, poi, un richiamo a “non lasciarsi andare” a quello che è l'uomo vecchio in noi e in cui comunque continuiamo a vivere e dal quale siamo costantemente e naturalmente condizionati, poiché fa parte della nostra corporeità decaduta. Una realtà che è da tenere presente, poiché pesa sul nostro modo di vivere e sulle nostre scelte esistenziali e della quotidianità spicciola. Da qui la necessità di “trasformarsi”, cioè di cambiare forma, che comporta un “trans-formarsi”, cioè il passare da una forma all'altra, da un modo di pensare, di vedere e di vivere secondo la carne ad un altro, riparametrato secondo le logiche dello Spirito. La trasformazione, pertanto, comporta necessariamente un passaggio da uno stato di vita ad un altro, che ha come cardine e motore fondamentali “il rinnovamento della mente”. Significativo è il termine greco corrispondente a “rinnovamento”, “¢nakainèsei” (anakainósei), composto da due parole “ana”+”kainósei”, il primo dice “su, sopra, in alto”; il secondo “rinnovamento”. Quindi qui si parla di un rinnovamento che va verso l'alto, che risolleva, secondo le logiche della risurrezione, l'uomo vecchio trasformandolo in una nuova creatura, conformandolo all'uomo nuovo, quello che si muove e vive secondo le logiche dello Spirito (8,14).
Una trasformazione questa che si rende necessaria per affinarsi a queste logiche, che rendono sensibili al mondo dello Spirito, alle sue esigenze e che consentono di “discernere” in se stessi, nella realtà delle cose e delle persone la volontà di Dio, che attraverso queste opera e si manifesta. Ma per poterla scoprire è necessario “spiritualizzarsi”, rendersi, cioè, sensibili al mondo dello Spirito e delle sue esigenze, che diversamente non si sarebbe in grado di cogliere. Una volontà, quella di Dio, che Paolo localizza in “(ciò che è) buono e gradito e perfetto”, poiché in queste realtà si rispecchia in qualche modo Dio stesso, poiché ne sono suoi attributi, che riflettono l'essenza della sua perfezione.
In ultima istanza si tratta di vivere la propria vita in un atteggiamento di continua conversione per non perdere i contatti con Dio, sospinti in questo dall'esortazione dello stesso Lv 19,2, con cui Dio si rivolge al suo popolo: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”. È necessario, dunque, allinearsi sull'onda di questa Santità per poter sintonizzarsi con Dio e il suo mondo, così da poter discernere la “volontà di Dio, (ciò che è) buono e gradito e perfetto”
La
vita intracomunitaria (12,3-21): regole per il buon uso dei carismi a
servizio della comunità (12,3-8); l'amore posto a base delle
relazioni con gli altri (12,9-21);
Ed è
su questa doppia linea, personale e relazionale, intracomunitaria e
sociale che Paolo snocciola con concretezza la sua parenesi,
suggerendo e proponendo con autorevolezza nuovi stili di vita,
partendo da una riflessione sui propri carismi personali, di cui ogni
credente è rivestito, che vanno posti a servizio della comunità
(vv.3-8), ponendo a fondamento delle proprie relazioni l'amore
(vv.9-21)
Le regole per il buon
uso dei carismi a servizio della comunità (vv. 3-8)
Testo a lettura
facilitata
Autorità e autorevolezza di Paolo nell'impartire le disposizione (v.3a)
3- Infatti, per mezzo della grazia che mi è stata data, dico a ognuno che è in mezzo a voi,
Ognuno operi secondo il dono ricevuto (v.3b)
di non essere altezzoso oltre ciò che deve consigliar(si), ma di pensare ad essere moderati, secondo la misura di fede che Dio spartì a ciascuno.
Le differenti funzioni delle membra nel corpo (vv.4-5)
4-
Proprio, infatti, come in un (solo) corpo abbiamo molte membra, ma
tutte le membra non hanno la stessa funzione,
5-
così, (benché) in molti, siamo un (solo) corpo in Cristo, ma
(ognuno è) membra l'uno degli altri.
Ognuno eserciti il carisma che gli è proprio (vv.6-8)
6-
Ora, avendo differenti doni di grazia secondo la grazia che ci è
stata data, sia (la) profezia, secondo la corrispondenza della fede,
7-
sia il servizio, nello (svolgere) il servizio, sia chi insegna, nello
(svolgere) l'insegnamento,
8-
sia chi esorta, nel (fare) l'esortazione; chi distribuisce, (lo
faccia) con semplicità, chi è posto a capo (lo faccia) con
sollecitudine, chi fa opere di misericordia (le compia) con gioia.
Commento ai vv. 3-8
Paolo apre le sue esortazioni facendo appello alla sua autorità di apostolo, a cui allude con l'espressione “grazia che mi è stata data”, che si richiama alle credenziali che egli ha fornito alla comunità di Roma in apertura di questa Lettera: “Paolo servo di Cristo Gesù, chiamato apostolo, scelto per il vangelo di Dio” (1,1) e similmente nella sua lettera ai Galati si era già presentato quale “apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1), facendo risalire la sua elezione e il suo mandato a Gesù Cristo e al Padre. Un'autorità a cui si era già richiamato in 11,13: “Ma dico a voi, genti, in quanto, dunque, io sono apostolo delle genti, onoro il mio ministero”. Le esortazioni, pertanto, che delineano degli stili innovativi del vivere credente nei propri rapporti con se stessi, con gli altri in genere, non vanno prese come semplici raccomandazioni, ma come imperativi morali vincolanti. Paolo sta qui creando i nuovi parametri della morale cristiana secondo il suo Vangelo.
La prima attenzione viene accentrata sul modo di concepire se stessi all'interno della comunità credente e di conseguenza sul modo di porsi al suo interno. È il problema che affliggeva, e purtroppo ancor oggi affligge, le comunità cristiane, dove spesso alcune persone cercano spazi personali per affermare se stesse, rendendo un servizio più a se stesse che alla comunità credente, che viene, invece, usata quale trampolino di lancio per le proprie ambizioni, creando tensioni e malumori all'interno della stessa, se non talvolta divisioni. A queste, do il mio consiglio: se volete veramente rendere un servizio alla comunità, andatevene via, lasciando spazio a chi veramente è mosso da uno spirito di servizio, che rende con umiltà, secondo le proprie capacità e con la coscienza dei propri limiti, per cui sa stare al suo posto.
Ed è ciò che sostanzialmente Paolo suggerisce: “non essere altezzoso oltre ciò che deve consigliar(si), ma di pensare ad essere moderati”. In altri termini, muoversi all'interno della comunità accantonando il proprio orgoglio ed usando attenzione e moderazione, secondo i doni spirituali e naturali che Dio ha fornito a ciascuna persona, mettendoli a disposizione delle necessità della stessa comunità. Un richiamo che verrà mosso anche dalla prima lettera di Pietro, probabilmente di scuola paolina (circa 80 d.C.): “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia come con parole di Dio; chi esercita un ufficio, lo compia con l'energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen!” (1Pt 4,10-11).
L'esortazione del v.3 viene ora fatta seguire dalla motivazione cristologica. La comunità credente, composta dai fedeli, è qui equiparata, similmente a 1Cor 12,12-28, nonché ad Ef 1,23; 4,4.2 e 5,3 ad un corpo, le cui membra svolgono diverse funzioni a servizio del corpo di cui fanno parte, sottolineando in tal modo l'inscindibile e l'imprescindibile unità di tutte le membra. Dall'esempio umano, Paolo, passa ora a quello cristologico: il corpo di cui si è parlato al v.4 non è soltanto una semplice metafora, ma con il v.5 assume una valenza dottrinale: i credenti sono tutti membra dell'unico corpo, quello di Cristo, di cui fanno parte in virtù della comune fede e dell'unico battesimo. Membra, che qui vengono definite come “l'uno degli altri”, cioè membra che non solo si appartengono reciprocamente, in quanto appartenenti all'unico corpo di Cristo, ma che sono anche in funzione l'uno verso gli altri. La molteplicità dei componenti la comunità, pertanto, non deve portare alla divisione o alla contrapposizione, ma all'integrazione l'uno nell'altro, nella coscienza che non vi è alcuna distinzione, poiché tutti sono cristificati e non sono più loro che vivono, ma Cristo li vive tutti nel suo corpo.
Dopo le premesse dei vv.3-5, si passa, ora, alla esemplificazione, richiamandosi probabilmente, in senso generico, alla struttura e all'organizzazione propria delle comunità credenti, non necessariamente quella di Roma, passando in rassegna sette aree di servizi, senza un ordine apparente: la profezia, la quale più che una predizione del futuro va intesa come la capacità illuminata di spiegare e di parlare sotto ispirazione divina e questa deve svolgersi sempre in accordo con la fede, probabilmente qui intesa come dottrina; il servizio, che qui va compreso come il ministero della diaconia e, quindi, il servizio ufficiale svolto a nome della comunità, che veniva assegnato attraverso l'imposizione delle mani (At 6,6); l'insegnamento, con riferimento probabilmente al dono della scienza e della sapienza di cui già aveva accennato in 1Cor 12,8 e a cui si accompagna parallelamente il dono dell'esortazione, cioè del richiamare e dello spronare alla conversione; la distribuzione dei beni, il riferimento qui potrebbe essere sia quello dell'incarico di distribuire i beni alle persone bisognose della comunità, ma non va esclusa anche l'iniziativa personale di chi vedendo l'indigenza delle persone o le necessità della stessa comunità condivide con loro i propri beni (At 4,34-35; 5,1-10; 6,1b); la posizione di responsabilità, che può essere in riferimento alla comunità o agli incarichi ricevuti, di cui si è responsabili. In entrambi i casi l'essere posto a capo comporta l'obbligo di svolgerlo con sollecitudine e attenzione, nella coscienza che si sta compiendo un servizio a beneficio della comunità. Vi è, infine, il preposto alle opere di misericordia, probabilmente una funzione parallela alla distribuzione dei beni, finalizzata a dare sollievo e conforto alle persone variamente afflitte dalla vita.
Tutto deve essere compiuto nella coscienza di svolgere un compito che è in funzione della comunità e della sua crescita spirituale, dove non c'è spazio per personalismi o pretese del proprio ego.
L'amore
posto a base delle relazioni con gli altri (12,9-21)
Testo a lettura facilitata
Preambolo tematico (vv.9-10)
9-
La carità (sia) senza ipocrisia. Respingendo con orrore il male,
stando uniti nel bene,
10-
(Siate) amorevoli gli uni verso gli altri con fraterna carità,
prevenendo(vi) gli uni gli altri nella stima,
Le linee comportamentali personali (vv.11-12)
11-
Non (siate) pigri nella diligenza, ribollenti nello spirito, servendo
il Signore,
12-
rallegrandovi nella speranza, pazienti nell'afflizione, assidui nella
preghiera,
Linee comportamentali verso gli altri: condivisione e compartecipazione (vv.13-16)
13-
prendendo parte alle necessità dei santi, perseguendo l'ospitalità.
14-
Benedite coloro che [vi] perseguitano, benedite e non maledite.
15-
Gioire con coloro che gioiscono, piangere con coloro che piangono.
16-
Avendo in animo gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri, non
pensando alle cose elevate, ma conformandovi alle cose umili. Non
siate sapienti presso voi stessi.
Linee comportamentali verso gli altri: opporre il bene al male altrui (vv.17-21)
17-
A nessuno rendendo male per male, prendendo(vi) cura (di compiere)
cose buone davanti a tutti gli uomini;
18-
se possibile questo da voi, vivendo in pace con tutti gli uomini;
19-
non facendo giustizia da voi stessi, carissimi, ma date spazio
all'ira (divina), sta scritto infatti: “A me la vendetta, io
ripagherò”, dice il Signore.
20-
Ma qualora il tuo nemico avesse fame, dategli da mangiare; qualora
avesse sete, dategli da bere; facendo, infatti, questo, carboni di
fuoco accumulerai sulla sua testa.
21-
Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene.
Note generali
Dopo aver dato alcune disposizioni sull'uso dei carismi personali, da spendere a favore della comunità, evitando personalismi, egoismi e prevaricazioni, che possono portare discordie e divisioni tra i membri, Paolo ora tratteggia alcune linee comportamentali che devono caratterizzare i rapporti intracomunitari, ponendo a loro imprescindibile fondamento la “carità senza ipocrisia”.
Pertanto, dopo una breve introduzione tematica (vv.9-10) a questa sezione , che potremmo definire come la sezione dedicata ai rapporti intracomunitari, Paolo passa a dettare alcune regole di massima, che devono guidare la vita spirituale del credente (vv.11-12), per poi passare ai suoi rapporti intracomunitari, che devono essere fondati sulla condivisione e compartecipazione, salvaguardando in tal modo l'unità della comunità (vv.13-16), per approdare, infine, al suo impegno nello smorzare le inevitabili tensioni tra membri della medesima comunità, opponendo al male che può generarsi nelle relazioni intracomunitarie il bene (vv.17-21). Il tutto deve essere guidato dalla carità, che si esprime nell'amore vicendevole.
La sezione in esame è circoscritta dall'inclusione data dai termini “male” e “bene” posti ai vv.9b.21, che compaiono in espressioni che si muovono su di uno sfondo di contrapposizioni e di lotta. Si parla, infatti, di “respingere con orrore” e di “stare uniti” (v.9b); di “non lasciarsi vincere”, ma di “vincere”, dando così il tono all'intera sezione, che presenta in tal modo la vita comunitaria come una sorta di campo di battaglia, dove i rapporti interpersonali, sia per le diversità culturali e religiose di provenienza, la comunità di Roma, infatti, è formata da giudeocristiani ed etnocristiani provenienti anche da varie parti dell'Impero, sono difficili e possono sfociare in discordie e divisioni, a cui bisogna opporsi aggrappandosi al bene, rimanendo radicati nell'amore vicendevole, quale guida suprema nei rapporti interpersonali.
Commento ai vv. 9-21
Preambolo tematico (vv.9-10)
I vv.9-10 introducono il tema che verrà trattato dall'intera sezione (vv.11-21): la carità vicendevole posta a fondamento delle relazioni intracomunitarie. E il primo segno dell'autenticità di questa carità è l'essere “senza ipocrisia”, cioè senza secondi fini e, quindi, sincera e deve avere come unico obiettivo il bene dell'altro, la sua affermazione, poiché la carità altro non è che l'amore di Dio che s'incarna nel vivere quotidiano del credente e si fa sua azione concreta di amore per il bene dell'altro, attraverso il quale Dio si trasfonde nell'altro e si rende percepibile all'altro. Ma è proprio attraverso la carità che passa il proprio amore per Dio e lo si celebra nella propria vita, poiché “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20b). Ed era proprio in un contesto simile a questo di Rm 12,3-21, dove si parla dell'uso dei carismi finalizzati al bene della comunità, accompagnati dalla carità, che Paolo aveva cantato lo stupendo e impareggiabile inno alla carità in 1Cor 13,1-13, facendolo precedere da una significativa introduzione: “Aspirate ai carismi più grandi! E io vi mostrerò una via migliore di tutte” (1Cor 12,31), quasi a dire che tutto è niente se non è permeato e mosso dalla carità, neppure il distribuire tutte le proprie sostanze ai poveri e il dare il proprio corpo alle fiamme per gli altri (1Cor 13,3), poiché ciò che dà senso e valore al proprio agire è soltanto la carità, questo amore di Dio che tutto permea, sostiene e mantiene in vita e che spinge il credente a trasfondersi nell'altro, così come Dio si è trasfuso in lui nel suo Cristo. Amare perché si è stati amato per primi (2Cor 5,14).
Ed
è proprio in questo contesto sacro della carità, dove si celebra il
primo culto a Dio all'interno della comunità, che Paolo sollecita a
“respingere con orrore il male”, che diviene una sorta di
blasfemia se consumato all'interno della comunità credente. Un male,
che qui Paolo lascia intendere essere quello delle divisioni interne,
che va combattuto in due modi: sia “respingendolo con orrore”,
poiché questo male è dissacrante e distruttivo della comunità; sia
“stando uniti nel bene”, cioè ritrovandosi tutti concordi in ciò
che è il Bene. Da qui la necessità di trasformare le proprie menti
e i propri cuori, rinnovandoli, per poter sempre discernere il bene
della volontà di Dio (12,2). Che cosa sia questo “bene”, viene
spiegato dal v.10: l'amore vicendevole, che si manifesta nella carità
fraterna, che si affina sempre più “prevenendo(vi) gli uni gli
altri nella stima”, quasi in una sorta di gara innescata da quella
carità che “è
paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si
vanta, non si gonfia, non
manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non
tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si
compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto
sopporta”
(1Cor 13,4-7).
Le
linee comportamentali personali (vv.11-12)
Il
primo rinnovamento va sempre fatto partendo da se stessi, quale
premessa al cambiamento e alla crescita della comunità, convergendo
su di essa i comuni sforzi per divenire “un cuore solo e un'anima
sola” (At 4,32). I vv.11-12 dettano i tratti fondamentali del
vivere credente, che ha il suo suo fulcro in quel “servendo il
Signore”, verso il quale essi convergono. Un servizio che è
caratterizzato da cinque elementi: a)
una diligente solerzia, cioè una operosità, un darsi da fare che
richiede attenzione e cura nei confronti di ogni singolo membro della
comunità nonché alle esigenze di quest'ultima, che tutti abbraccia
e tutti caratterizza, formando un solo corpo, ben sapendo che la sua
riuscita o meno dipende da ogni singola persona; b)
un servizio che deve toccare le profondità del cuore e della mente,
così da animare l'intera persona del credente, che trae in esso la
sua forza, facendo fermentare non solo la sua crescita spirituale, ma
anche quella degli altri membri della comunità. Significativo quel
“ribollenti nello spirito”, che rispecchia in qualche modo
l'indomito spirito di Paolo, che si getta nella mischia della sua
missione in modo fanatico, noncurante delle sofferenze che egli deve
patire per Cristo, poiché per Paolo “il
vivere è Cristo e il morire un guadagno”
(Fil 1,21); c) un
servizio che si alimenta nella speranza, che dice la forte tensione
escatologica in cui esso deve essere collocato e compiersi. Un
servizio che è proiettato fin d'ora verso una realtà che troverà
la sua definitiva pienezza nell'eternità di Dio, che si sta
costruendo nel proprio oggi e verso la quale ogni credente è in
cammino e in cui trova la giustificazione della propria fede e della
propria esistenza; d)
ed è in questo contesto di speranza, di fervore spirituale, che
spinge a superare ogni ostacolo, che si alimenta la pazienza del
credente, cioè nel sopportare le sofferenze che gli derivano da
questa sua scelta esistenziale di servire il Signore, nella
coscienza che il suo vivere è un vivere per il Signore; e)
da ultimo Paolo annota la necessità nella vita del credente di una
preghiera assidua, che dice una sorta di stretta e costante
connessione spirituale con quel Signore che egli sta servendo. Una
preghiera che affonda le sue radici e trova il suo primario alimento
nella Parola di Dio, che deve permeare la vita del credente, così da
creare in lui un costante orientamento esistenziale verso il suo
Signore, trasformando così l'intera sua vita in una liturgia, in cui
il suo vivere diviene nel servire il Signore atto di culto e di
offerta di se stesso a Dio (v.1).
Linee
comportamentali verso gli altri: condivisione e compartecipazione
(vv.13-16)
Il rinnovamento e l'evoluzione spirituale del credente devono trovare il loro sbocco naturale nella comunità, facendola fermentare attraverso i suoi carismi e nella coscienza che il servirla è un servire a Cristo, di cui la comunità è il corpo (vv.4-5). Condivisione e compartecipazione sono i due elementi che devono qualificare il credente in seno alla comunità, così che essa possa riflettere quelle caratteristiche che Luca dipingerà nei suoi Atti degli Apostoli per la sua comunità cristiana ideale: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,44-45); e similmente: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32).
La pericope si apre con il v.13 che le dà l'intonazione tematica: “prendendo parte alle necessità dei santi, perseguendo l'ospitalità”. Due sono qui le esortazioni: la prima riguarda i membri interni della comunità e la seconda quelli provenienti da altre comunità credenti e che vanno soccorsi e ospitati durante i loro viaggi. “Prendere parte delle necessità” significa condividere e fare proprie le necessità “dei santi”40, espressione quest'ultima che si ritrova sovente nelle lettere di Paolo e si riferisce ai credenti, che in quanto tali, sono “santi”, cioè partecipi della vita stessa di Dio, che per sua natura è il Santo per antonomasia e fonte di ogni santità. Il termine, in sé e per sé, è onnicomprensivo e riguarda i battezzati in genere, indipendentemente dalla loro collocazione storica, geografica e culturale, ma qui il senso definisce i membri della comunità credente e lo si arguisce dal fatto che viene subito aggiunta la specificazione dell'altra categoria dei santi, quelli che devono essere ospitati, dando, quindi, a loro conforto materiale e spirituale, condividendo i propri beni con loro. Un istituto quello dell'ospitalità molto diffuso nell'antichità e tenuto in grande considerazione anche per la scarsità di alberghi, ma sarebbe meglio parlare di taverne, che in genere non godevano di buona fama41, per cui i “santi” è bene che alloggino presso i “santi” e nulla abbiano a che spartire con un mondo profano e dissacrante, avulso da quella santità di cui è permeato, invece, il credente. Del resto Paolo tende a creare delle nette separazioni tra il mondo e le comunità credenti, cercando che queste evitino di rivolgersi al mondo esterno per risolvere i loro problemi e comunque se ne stiano lontane dal modo di vivere mondano (1Cor 5,9-13; 6,1-6).
Significativo è quel “perseguendo l'ospitalità” (v.13b), quasi a dire che se il credente deve essere portato naturalmente alla condivisione all'interno della propria comunità di appartenenza, deve tuttavia avere anche una particolare attenzione per l'ospitalità, cioè per l'accoglienza di quei credenti che provengono da altre comunità, poiché ciò che li accomuna e li qualifica non è l'appartenenza ad una comunità piuttosto che ad un'altra, bensì l'unica fede nell'unico Cristo, a cui si è stati cristificati per mezzo dell'unico battesimo. Tutti, quindi, al di là delle suddivisioni storiche ed organizzative, dal colore della pelle, dall'appartenenza culturale od altro, appartengono ad un unico corpo, che è Cristo. Un principio ecclesiologico che dovrebbe far riflettere sulle divisioni scandalose e, purtroppo, irreparabili dei cristiani, perché ormai storicamente troppo radicate e irreversibili.
Il richiamo del v.13b, probabilmente, fa riferimento alla comunità di Roma, la quale, in quanto comunità imperiale, era soggetta a continue richieste di aiuto e di ospitalità da parte di molti credenti provenienti dalle varie comunità sparse per l'impero. Essa, pertanto, doveva farsi luogo accogliente di questi loro fratelli, indipendentemente dalla loro provenienza e nazionalità e dalla loro cultura e religiosità, poiché in virtù della comune fede nell'unico Cristo tutti formano, al di là delle apparenze storiche, un unico corpo.
Seguono ora con i vv.14-15 alcune esortazioni, che sono linee di comportamento intracomunitario, che hanno, da un lato, l'intento di disarmare gli animi esacerbati dai rapporti tra membri della stessa comunità (v.14); dall'altro, il fine di spingere il credente a rendersi compartecipe spiritualmente, moralmente e psicologicamente con i membri della sua comunità (v.15). Quindi si passa dalla condivisione dei beni materiali alla compartecipazione spirituale e morale, poiché l'uomo non vive di solo pane.
Il v.14 esorta a benedire quelli che ci perseguitano e non a maledire. La persecuzione, di cui qui si parla, probabilmente non ha alcuna attinenza con le persecuzioni vere e proprie, che andavano, di tanto in tanto, a colpire le comunità credenti a motivo della loro fede. Qui si parla di quei comportamenti che possono ledere i rapporti tra membri della stessa comunità, inasprendoli e facendo soffrire le persone, vittime di angherie, prevaricazioni o prepotenze. Un aiuto in tal senso ci viene da 1Pt 3,8-9, di scuola paolina, che in qualche modo riprende proprio questo passo di Rm 12,14-16: “E finalmente siate tutti concordi, partecipi delle gioie e dei dolori degli altri, animati da affetto fraterno, misericordiosi, umili; non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo; poiché a questo siete stati chiamati per avere in eredità la benedizione”. Si sta, dunque, parlando di rapporti intracomunitari.
Dal modo di porsi nei propri rapporti intracomunitari, tenendo un comportamento che sia idoneo alla vocazione per cui si è stati chiamati e che qualifica il credente come “santo”, si passa, ora, con il v.15, all'esortazione della compartecipazione spirituale, morale e psicologica tra i membri della comunità credente: “Gioire con coloro che gioiscono, piangere con coloro che piangono”. Gioire e piangere, due stati d'animo opposti che abbracciano e si allargano a tutti gli altri intermedi. Si passa, dunque, dalla condivisione dei beni materiali ad una compartecipazione spirituale e psicologica, che va a toccare l'intimità dei sentimenti personali che, proprio per questo, coinvolgono ancor di più le persone, saldandole maggiormente le une alle altre, poiché ciò che crea l'unità, che sta particolarmente a cuore a Paolo, è il fondere assieme i propri animi, l'uno all'altro, proprio attraverso la compartecipazione dei sentimenti in cui l'uno si fa tutto nell'altro, così da fare di quella comunità un cuore solo ed un'anima sola (A 4,32).
Ed è proprio questo a cui punta il v.16, che in qualche modo riassume e approfondisce i vv.14-15: “Avendo in animo gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri”. In altri termini, tutti gli animi dei membri che compongono le singole comunità credenti devono essere conformati allo stesso modo di sentire, che è stato generato ed plasmato dalla propria fede, che ha come parametro di raffronto lo stesso Cristo Gesù. Un richiamo questo che Paolo già aveva espresso più esplicitamente in Fil 2,5, dove sollecitava la sua amatissima comunità di Filippi ad avere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, cioè il suo stesso modo di sentire, che lo ha portato a svuotare se stesso della sua gloria divina ed assumere una natura decaduta di schiavo, facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,6-8). Un richiamo che riecheggia, in qualche modo, anche in questo v.16: “rendete piena la mia gioia con l'unione dei vostri spiriti, con la stessa carità, con i medesimi sentimenti. Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso” (Fil 2,2-3). Il v.16b, infatti, benché in modo più stringato, quasi lapidario, esorta a non puntare in alto, dove tende ad affermarsi il proprio ego a danno degli altri, ma di puntare alle cose umili, dove l'ego è chiamato a porsi a servizio degli altri e non di se stesso a spese degli altri. Alla base di questi comportamenti Paolo sembra individuare la saccenteria, che gonfia il proprio ego, ma che crea divisioni all'interno della comunità. L'esperienza di Corinto, dove la comunità credente si era spaccata in diversi gruppi contrapposti tra loro, che facevano a capo a diversi maestri di sapienza (1Cor 1,11-12), secondo il modo di concepire le scuole filosofiche di quel tempo, dove ogni maestro aveva il suo gruppo di discepoli, aveva insegnato molto a Paolo. Nessun sapiente, dunque, nelle comunità, poiché la sapienza, se non ben intesa e bene spesa, diventa saccenteria e questa porta a contrasti e a divisione all'interno della comunità.
Tutto,
dunque, per Paolo deve muoversi all'interno della carità,
dell'umiltà e dello spirito di servizio, usando le proprie
attitudini, le proprie capacità e i propri carismi solo per il bene
della comunità, puntando a farla crescere nei suoi membri e non
facendo crescere se stessi a spese dei membri.
Linee
comportamentali verso gli altri: opporre il bene al male altrui
(vv.17-21)
Richiamandosi al v.9, con il quale la chiusura di questa pericope (v.21) fa inclusione, per il ripetersi dei termini “male” e “bene”, Paolo detta la linea comportamentale verso gli altri in genere: opporre il bene al male, vivendo in pace con tutti per quanto dipende da se stessi, evitando litigi e discordie, ma rimettendo ogni giudizio e ogni contesa nelle mani di Dio.
Il v.9b esortava a “respingere con orrore il male”, la quale cosa significa anche di non usare mai il male in risposta ad altro male, rifuggendo così dalla vendetta, quale forma di giustizia personale contro l'altro, poiché in tutto ciò viene escluso Dio, che è per sua natura Amore misericordioso e perdonevole, ma nel contempo giudice giusto, a cui Paolo invita il credente ad affidarsi, suffragando la sua esortazione con prova scritturistica, richiamandosi al contesto di Dt 32,35-36: “Mia sarà la vendetta e il castigo, quando vacillerà il loro piede! Sì, vicino è il giorno della loro rovina e il loro destino si affretta a venire. Perché il Signore farà giustizia al suo popolo e dei suoi servi avrà compassione; quando vedrà che ogni forza è svanita e non è rimasto né schiavo, né libero”.
Il rispondere al male con il bene trova la sua esemplificazione al v.20 che riporta Prv 25,21-22a, ma in cui riecheggia in qualche modo anche la predicazione di Gesù, che sollecitava di amare i propri nemici e di pregare per i propri persecutori (Mt 5,44), facendo del bene a coloro che ci odiano (Lc 6,27). In tal modo, conclude il v.20, “carboni di fuoco accumulerai sulla sua testa”. Un'espressione, quest'ultima, ambigua, ma il cui senso attribuito da Paolo è chiaro: il bene che tu fai ai tuoi nemici tornerà a loro condanna, così che “i carboni di fuoco” divengono qui metafora del giudizio di Dio, che Paolo aveva invocato al v.19 con quel “date spazio all'ira (divina)”, rafforzato dalla citazione scritturistica.
Il senso che Prv 25,21-22 dà alla frase è completamente diverso, anzi è opposto a quello che Paolo ha voluto dare qui: “Se il tuo nemico ha fame, dagli pane da mangiare, se ha sete, dagli acqua da bere; perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà”. Paolo omette la battuta finale di Prv 25,22 citando soltanto Prv 25,21-22a. Il senso che ne esce è quello del giudizio e della vendetta divina. In realtà il testo di Prv 25,22 intendeva dire che il bene che tu fai al tuo nemico in risposta al suo male, lo inquieterà e lo turberà (“carboni ardenti”), spingendolo a riflettere sul suo male, così che gli si aprirà la porta della conversione e “il Signore ti ricompenserà”. Un pensiero, questo di Prv 25,22, che si ritrova riecheggiante in qualche modo anche in Oscar Wilde, lo scrittore irlandese, formidabile battutista, il quale, in merito al perdono dei propri nemici disse: “Bisogna sempre perdonare i propri nemici. Niente li infastidisce di più”.
La
sezione dedicata ai rapporti con gli altri, intra ed extracomunitari
(vv.9-21), termina con una sorta di sentenza dal sapore sapienziale:
“Non lasciarti vincere dal
male, ma vinci il male con il bene”,
come dire, le tue energie negative e distruttive, trasformale in
energia positiva, poiché lì opera la potenza di Dio, che tutto
trasforma e salva.
I rapporti con
l'autorità e di amore verso gli altri in un contesto escatologico
(13,1-14)
Testo
a lettura facilitata
I principi teologici fondatori dell'autorità (vv.1-2)
1-
Ogni vita sia sottomessa alle autorità costituite. Non vi è,
infatti, autorità se non da Dio, quelle che ci sono, sono state
stabilite da Dio.
2-
Così che colui che si oppone all'autorità, si pone contro alla
disposizione di Dio, (e) quelli che si sono contrapposti
conseguiranno per loro stessi una condanna.
L'autorità costituita per il bene del cittadino (vv.3-5)
3-
Infatti, coloro che comandano non sono da temere per la buona opera,
ma per (quella) cattiva. Vuoi non temere l'autorità? Fai il bene, ed
avrai un elogio da quella,
4-
infatti è serva di Dio per te per il (tuo) bene. Ma qualora tu
compia il male, abbi timore: infatti, non porta la spada senza
motivo; infatti è serva di Dio e, per sua natura, punitrice fino
all'ira per colui che compie il male.
5-
Per la quale cosa (c'è) necessità di essere sottomessi, non solo
per l'ira, ma anche per coscienza.
Ossequienti, dunque, alle disposizioni delle autorità (vv.6-7)
6-
Per questo, dunque, pagate anche i tributi; infatti, quelli che (se
ne) occupano per questo stesso (ufficio) sono pubblici funzionari di
Dio.
7-
Restituite i debiti a tutti: a chi (dovete dare) il tributo, (date)
il tributo; a chi l'imposta, l'imposta; a chi il timore, il timore; a
chi la stima, la stima.
La legge dell'amore deve guidare il credente nei suoi rapporti sociali (vv.8-10)
8-
Non siate debitori di niente a nessuno, se non l'amore dell'uno verso
gli altri: poiché colui che ama l'altro ha adempiuto la Legge.
9-
Infatti, il “Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai,
non desidererai” e qualsiasi altro comandamento si ricapitola in
questo detto: amerai il prossimo tuo come te stesso.
10-
La carità non fa il male al prossimo; pertanto l'amore (è) pienezza
(della) Legge.
Il contesto escatologico in cui il credente è chiamato ad operare (vv.11-14)
11-
E questo, conoscendo il tempo, poiché (è) già ora che vi svegliate
dal sonno, poiché, adesso, la nostra salvezza (è) più vicina di
quando diventammo credenti.
12-
La notte è inoltrata e il giorno si avvicina. Deponiamo, pertanto,
le opere delle tenebre [ma] indossiamo le armi della luce.
13-
come durante il giorno camminiamo dignitosamente, non in gozzoviglie
e ubriachezze, né in libertinaggi e dissolutezze, né in litigi e
gelosia,
14- ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non abbiate cura della
carne per (la) bramosia.
Note
generali
Altro tema che ora viene affrontato da Paolo, seguendo una logica espansiva, da se stessi verso gli altri (12,9-21), dopo essere passati attraverso l'uso dei carismi, quali risorse personali da porre a servizio della comunità (12,3-8), sono i rapporti che i credenti devono tenere nei confronti dell'autorità in senso lato e, nello specifico, con riguardo a quelle civili e dei loro rappresentanti nello svolgimento delle loro funzioni. Rapporti che devono essere basati sempre seguendo una logica di amore, già richiamata in 12,9a e qui nuovamente ricordata in 13,8, formando così una sorta di inclusione che colloca qualsiasi rapporto, sia personale che intracomunitario ed extracomunitario, all'interno della carità, che è lo stesso amore di Dio che prende forma storica nell'agire del credente, santificando e sanificando il contesto sociale in cui opera. Rapporti, dunque, interpersonali mossi sempre dall'amore di Dio, che opera nel credente. Ma nel contempo va sempre respinto il male, rimanendo uniti nel bene che è Cristo (12,9b), usando le armi del bene per vincere il male (12,21).
In questo ampio contesto va letta la sezione 13,1-7, riguardante i rapporti del credente con l'autorità costituita.
Una sezione che va compresa all'interno del contesto storico-sociale in cui viveva la comunità di Roma, che era una comunità che faceva parte del grande impero romano, il cui potere era accentrato nell'imperatore, da cui si diramava tutta una complessa quanto capillare organizzazione sociale, politica e militare, che si muoveva in base al diritto civile, di cui i Romani erano maestri e cultori (7,1). Un istituto quello dell'autorità civile a cui Paolo dà il suo tributo, fondandolo teologicamente: “Non vi è, infatti, autorità se non da Dio, quelle che ci sono, sono state stabilite da Dio” (v.1b). L'intento di Paolo non è certamente quello di creare una filosofia, un'ideologia o tantomeno una sorta di culto dello Stato, quasi idolatrandolo, ma quello di aiutare i credenti a leggere teologicamente l'autorità, in sé e per sé, in quanto autorità, che si manifesta nelle istituzioni e negli uomini che la rappresentano.
Certamente le argomentazioni teologiche di Paolo a favore dello Stato e dei suoi rappresentanti vengono qui elaborate in senso generico ed astratte da situazioni contingenti, pensando ad una organizzazione statale correttamente funzionante, finalizzata per il bene sociale e dei singoli cittadini e sulla quale non si può che acconsentire, poiché, per loro natura, l'uomo e con lui la società che egli forma hanno bisogno di punti di riferimento sicuri, che li sappiano guidare ed orientare e gli garantiscano un quieto e sicuro vivere, che lo tutelino dai soprusi, dalle angherie e dalle prevaricazioni, assicurandogli una giustizia equa e salvaguardandolo dalle minacce esterne. Paolo, dunque, sta pensando ad una società in astratto, anche se il suo pensiero corre verso quella romana e imperiale, al cui interno si colloca la comunità credente di Roma e dalla quale non può prescindere
Tutto diventa, però, più complicato e discutibile allorché questa autorità assume il volto di suoi rappresentanti che possono essere corrotti o prevaricare i diritti individuali, calpestandoli, o innescando delle persecuzioni contro chi non la pensa allo stesso modo o è disposta a imprigionare e sopprimere persone che intendano far valere le proprie ragioni di fede o di convinzioni personali. Insomma, Paolo elogia l'autorità e le fornisce un fondamento teologico inoppugnabile, presentandola come il volto di Dio stesso, ma non prende in considerazione gli aspetti negativi e nefasti di un'autorità, che pensa solo a mantenersi tale a spese dei cittadini. Se, pertanto, l'autorità per Paolo è l'espressione della volontà di Dio, non va dimenticato come questa è rappresentata e gestita da uomini, che per loro natura sono corrotti e decaduti, disposti ai compromessi pur di ottenere quello che vogliono, e non sempre particolarmente illuminati. Come, dunque, rispondere a questa situazione concreta? La risposta Paolo l'ha già data a modo suo: respingere il male con il bene, rimanendo uniti in Cristo (12,9b.21). È la risposta non violenta alla violenza, con cui il primo cristianesimo si è imposto all'Impero romano stesso, vincendolo e diventandone guida di un nuovo potere illuminato con Costantino (313 d.C.); e secoli dopo un altro impero, quello britannico, soccombette a tale logica impersonata da Gandhi: opponendo il bene al male, la potenza dell'inerme sconfitto che sconfigge i suoi sopraffattori con la sua debolezza e che ha la sua radice nello stesso Cristo crocefisso, a cui si rifà il paradosso paolino: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor12,10), poiché la sua forza è Cristo, che ha sconfitto la morte con la sua stessa morte, aprendo il mondo ad una nuova prospettiva di vita..
Se il credente è chiamato a leggere teologicamente l'autorità, a cui è invitato a sottomettersi ed esserle ossequiente (vv.6-7), questi deve comunque muoversi nell'ambito dell'amore, bandendo dalla sua vita e dal suo operare odii, rancori e rivalità, puntando sempre al bene dell'altro e nei confronti dell'autorità improntando il suo rapporto alla correttezza e al rispetto, poiché nell'amore viene pienamente adempiuta la Legge ed ogni legge (vv.8-10).
Nell'ambito
di questo ampio contesto storico e di rapporti interpersonali,
sociali e con l'autorità costituita, il credente non deve mai
dimenticare il tempo che egli sta vivendo, quello escatologico, il
tempo dell'attesa del ritorno del Signore, che porta con sé il
giudizio (vv.11-14). È questo il faro che lo deve illuminare e
guidare nel suo vivere quotidiano e nel suo relazionarsi con gli
altri, adottando come logica di vita la correttezza, la sobrietà,
l'onestà, che hanno il loro comune denominatore nell'amore di Dio,
che si fa carità verso il prossimo. Ed è sotto la luce di questo
faro, illuminato dalle realtà ultime, che egli deve sviluppare un
atteggiamento critico nei confronti delle istituzioni e delle
autorità che attraverso queste operano. Una critica non in senso
negativo, denigratorio, aggressivo o distruttivo, ma costruttivo e
collaborativo, rilevando, là dove ce ne fosse bisogno, i deficit
istituzionali da emendare, dandosi da fare, qualora gli sia
possibile, in tal senso o, quanto meno, sviluppando una coscienza
critica fino all'opposizione aperta e alla disobbedienza civile,
qualora le istituzioni e le leggi calpestino la dignità dell'uomo o
siano gravemente lesive della stessa. Nessuna legge, infatti, può
essere posta contro l'uomo e i suoi diritti fondamentali, che gli
sono connaturati ed essenziali per poter vivere dignitosamente per se
stesso e la sua famiglia. Leggi simili sono intrinsecamente
illegittime, perché intrinsecamente immorali e perdono ogni autorità
impositiva e di conseguenza ogni autorevolezza, divenendo soltanto
strumenti violenti di potere, distruttivi dell'uomo e della stessa
società.
Commento ai vv.1-14
I
principi teologici fondatori dell'autorità (vv.1-2)
La sezione sull'autorità (vv.1-7) si apre con un'attestazione di principio: “Ogni vita sia sottomessa alle autorità costituite”. La motivazione, qui, diversamente che altrove, non è scritturistica, ma teologica e riflette in qualche modo il pensiero biblico, che vede la creazione e con essa ogni cosa esistente, compresa, quindi, l'autorità, come discendenti da Dio e ne esprimono il volere. Tutto, quindi proviene da Dio e tutto viene rimandato a Lui. Non a caso la Bibbia si apre con la solenne dichiarazione: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). In principio, dunque, viene posto Dio, da cui tutto discende, prende forma e vita. “Tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” rimarcherà Gv 1,3, parafrasando Gen 1,1. Concetti questi che già si trovano in Dn 2,20-22: “Sia benedetto il nome di Dio di secolo in secolo, perché a lui appartengono la sapienza e la potenza. Egli alterna tempi e stagioni, depone i re e li innalza, concede la sapienza ai saggi, agli intelligenti il sapere. Svela cose profonde e occulte e sa quel che è celato nelle tenebre e presso di lui è la luce”; e similmente Prv 8,14-16 rimandano a Dio la sapienza e l'intelligenza sovrane nonché il potere assoluto su tutta la storia: “A me appartiene il consiglio e il buon senso, io sono l'intelligenza, a me appartiene la potenza. Per mezzo mio regnano i re e i magistrati emettono giusti decreti; per mezzo mio i capi comandano e i grandi governano con giustizia”; e ancora Sap 6,1-3 ammonisce i potenti della terra: “Ascoltate, o re, e cercate di comprendere; imparate, governanti di tutta la terra. Porgete l'orecchio, voi che dominate le moltitudini e siete orgogliosi per il gran numero dei vostri popoli. La vostra sovranità proviene dal Signore; la vostra potenza dall'Altissimo, il quale esaminerà le vostre opere e scruterà i vostri propositi”. E parallelamente Ef 3,14-15 parlerà della “paternità” umana quale riflesso di quella divina: “Per questo, dico, io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ogni paternità nei cieli e sulla terra prende nome”.
È questo, dunque, il contesto culturale in cui si muove Paolo allorché sentenzia che “Non vi è, infatti, autorità se non da Dio, quelle che ci sono, sono state stabilite da Dio”. Una visione rigorosamente teocentrica, dunque, dell'autorità in tutte le sue forme, sia sociali che familiari. L'autorità costituita, pertanto, va intesa, ancor prima che dagli uomini, da Dio stesso, che in essa si riflette e per suo mezzo governa i popoli.
Se, dunque, il v.1a stabilisce il principio e il v.1b lo giustifica teologicamente, il v.2 ne trae le debite conseguenze: “Così che colui che si oppone all'autorità, si pone contro alla disposizione di Dio, (e) quelli che si sono contrapposti conseguiranno per loro stessi una condanna”. Non vi è, quindi, mediazione umana, ma il volto delle istituzioni è il volto stesso di Dio e il loro operare è quello di Dio. Siamo, dunque, all'interno di una visione delle cose rigorosamente teocentrica, che può andar bene nell'ambito del mondo giudaico, regolato dall'Alleanza e dalla Torah, dove il vivere del pio ebreo è scandito ritualmente dalla Legge divina, ma diventa problematico l'applicare lo schema giudaico al di fuori del suo contesto, poiché può diventare uno strumento repressivo di potere, che viola l'uomo, in primis, nella sua coscienza, imponendogli pesi per lui incomprensibili.
Va,
tuttavia, colto qui l'intento di Paolo, che certamente non è quello
di creare una identificazione tra Dio e lo Stato, quasi a farne un
culto da imporre ad ogni credente, una sorta di Statolatria, ma è
quello di aiutarlo a leggere teologicamente la storia in tutte le sue
espressioni, moderando la comprensione delle cose sulla scorta
dell'esortazione iniziale di 12,2. Su questa linea si posizionerà
sostanzialmente anche 1Pt 2,18, rivolgendosi ai rapporti
intrafamiliari: “Domestici,
state soggetti con profondo rispetto ai vostri padroni, non solo a
quelli buoni e miti, ma anche a quelli difficili”.
L'autorità
costituita per il bene del cittadino (vv.3-5)
Il v.2, nel presentare le conseguenze di chi si oppone all'autorità stabilita da Dio, funge anche da transizione alla pericope successiva, vv.3-5, dove attraverso uno schematismo di buoni-cattivi, premio-castigo viene presentata la dinamica elementare del funzionamento della giustizia, che elogia i buoni e perseguita i cattivi. Una giustizia che viene presentata al servizio di Dio stesso in funzione del bene del cittadino. Sono schematismi semplicistici, che prescindono dagli uomini che la gestiscono, cercando di coglier ciò che l'autorità, con tutto il suo apparato organizzativo ed esecutivo, dovrebbe essere e su cui non si può che accondiscendere.
Il
v.5 porta a conclusione la riflessione fin qui sviluppata dai vv.1-4,
esortando il credente, per le argomentazioni fin qui addotte, a
sottomettersi all'autorità in tutte le forme in cui essa si
presenta. Una sottomissione che vede due diversi e contrapposti
livelli di motivazione: quello del timore per la punizione e quello
della coscienza. Nel primo caso, il cittadino si sottomette solo per
timore, lasciando trasparire un livello di socialità molto primitivo
e immaturo, comprendendo la funzione dell'autorità come
un'istituzione semplicemente repressiva, da cui rifuggire
dribblandola, là dove possibile. Nel secondo caso, si fa appello
alla coscienza, cioè a quella parte più intima dell'uomo, dove il
credente si incontra con il suo Dio, ne comprende il bene e la sua
funzione, per cui la sua “sottomissione” all'autorità non è più
vissuta come un'oppressione insopportabile da scansare, ma una
collaborazione per il bene non solo proprio, ma anche, considerata
la funzione pubblica dell'autorità, sociale. Se il primo caso tende
a creare dei parassiti, che vivono sulle spalle degli altri, mettendo
in luce il proprio egocentrismo, il secondo caso vede il cittadino
integrato nella società, che collabora per il suo bene, nella
coscienza che questo bene dipende anche da lui. Posizione
quest'ultima che è in qualche modo figlia del contesto escatologico,
che verrà tratteggiato ai vv.11-14.
Ossequienti,
dunque, alle disposizioni delle autorità (vv.6-7)
I vv.6-7 concludono la parte dedicata al credente nei suoi rapporti con l'autorità civile e ne traggono le conseguenze. Il v.6 si apre, infatti, significativamente con l'espressione “di¦ toàto g¦r” (dià tûto gàr, per questo, dunque), dove quel “per questo” si aggancia a quanto fin qui detto, mentre il “dunque” enuncia che quanto fin qui detto trova ora la sua applicazione pratica.
L'esemplificazione accentra l'attenzione del lettore sui tributi, probabilmente nota dolente questa già ai tempi di Paolo, che sollecita i credenti a contribuire con i propri beni al bene dello Stato, la cui funzione è quella di garantire il bene primario della società, della sua organizzazione e della sua tutela. Anche in questo contesto di esazione di soldi e di beni a favore dello Stato, Paolo presenta gli esattori con un'espressione che sconfina nel sacro: “leitourgoˆ g¦r qeoà e„sin” (leiturgoì gàr tzeû), che significa pubblico funzionario, servo pubblico di Dio, ma anche ministro delle cose sacre o ministro sacro, e considerato il contesto di sacralità (vv.1-2.4.6) in cui questi “leiturgoì tu tzeû” sono inseriti è da pensare che Paolo attribuisca loro una sorta di servizio sacro, per cui questi pubblici funzionari di Dio vanno ricompresi come “sacri ministri di Dio”. Del resto Paolo non è nuovo a queste forme di sacralizzazione della raccolta di soldi. Si pensi alla colletta che egli sta facendo presso tutte le comunità di sua fondazione a favore dei poveri della chiesa madre di Gerusalemme, di cui parla in Rm 15,25-26; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10, qualificandola come “servizio”, “comunione”, “grazia”, “atto di culto”42.
Il
v.7 va a completare lo sfondo di quell'onestà e di quella
correttezza entro cui il credente deve muoversi, sollecitandolo a
restituire i debiti a tutti, dove il senso di quel “debiti”
(Ñfeil£j,
ofeilás),
alla luce di quanto segue (v.7c), va compreso non solo in senso di
denaro, ma anche di rispetto dell'altro per la figura istituzionale
che egli ricopre. Quindi viene qui implicitamente invocata una sorta
di giustizia egualitaria, quella di “dare a ciascuno il suo”, una
regola che fa parte delle tre regole spicciole quanto fondamentali
del diritto romano, che in qualche modo sono qui indirettamente
richiamate dal contesto: “honeste vivere”, “neminem lædere”,
“Unicuique suum tribuere”.
La
legge dell'amore deve guidare il credente nei suoi rapporti sociali
(vv.8-10)
Paolo continua, ora, le esortazioni al credente, richiamandolo ad un principio fondamentale che deve informare il suo modo di vivere e di relazionarsi con gli altri, comprese le autorità, così da creare in lui un stile di vita che lo sappia contraddistinguere in mezzo agli altri (Gv 13,35): la carità.
La sezione dedicata alle autorità (vv.1-7) terminava con l'esortazione di “restituire i debiti a tutti”, cioè tutto ciò che è dovuto agli altri non solo in termini di denaro, ma anche di beni morali e spirituali, quali il timore e la stima. L'esortazione viene qui ripresa in forma negativa: “Non siate debitori di niente a nessuno” così che tutti siano ristorati del loro dovuto, sciogliendo tutte le pretese e i nodi che li legava al credente sotto forma di debito. Solo un debito non deve essere mai sciolto e mai lo potrà essere, quello dell'amore vicendevole, che, in quanto tale, esso deve essere sempre “dovuto” all'altro. Un debito permanente, che si contrae dall'essere in Cristo, il quale “dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1b). Un debito di amore, dunque, che il credente ha ereditato da Cristo, in cui è stato cristificato con il battesimo.
Il
puntare tutto sull'amore è la via maestra per adempiere interamente
la Legge, che qui viene esplicitamente richiamata da Paolo. È
significativo come questa annotazione, che riguarda prevalentemente
il mondo del giudaismo, venga fatta alla comunità di Roma, indizio
che lascia intravvedere come questa comunità sia stata fondata da
giudeocristiani, probabilmente giudaizzanti, e risente quindi di tale
insegnamento, che affonda le sue radici nella Legge mosaica. Ebbene,
sembra qui esortare Paolo, questa Legge va superata nell'amore
vicendevole, poiché tutto ciò che essa prescrive è riassumibile
nell'amore, poiché “La carità non fa il male al prossimo”.
L'amore, quindi, non solo va oltre la Legge, ma, aggiunge Paolo,
anche “qualsiasi altro comandamento si ricapitola” in esso43.
Di quale altro “comandamento” sta qui parlando Paolo? È
probabile che esso faccia riferimento a quelli della Torah orale,
interpretativa di quella scritta, se si considera il contesto stretto
in cui il termine “comandamenti” è inserito; ma non va escluso,
se si considera il contesto più ampio, quello della sezione
sull'autorità, a cui è legata questa pericope sull'amore, che
questi “comandamenti” abbiano a che fare anche con l'autorità,
che incide con le sue disposizione sulla vita dei cittadini. Anche
queste, che riguardano il bene dei singoli cittadini, come
dell'intera società, sono ampiamente superate dall'atteggiamento di
amore per mezzo del quale si muove il credente. Un amore che si
concretizza nel rapporto di onestà, correttezza, scrupolosità
nell'osservanza, di attenzione e che affonda le sue radici nella
rettitudine di coscienza, con cui si esprime la maturità umana,
morale e spirituale del credente, reso sensibile alle problematiche
non solo individuali, ma anche sociali e che tutto abbraccia
nell'amore, che delinea nel credente un atteggiamento di totale
apertura verso l'altro; di totale donazione di sé all'altro e di
totale accoglienza in se stesso dell'altro, poiché l'amore supera
tutto e si fa tutto a tutti.
Il
contesto escatologico in cui il credente è chiamato ad operare
(vv.11-14)
La pericope in esame (vv.11-14) chiude non solo il cap.13, ma anche il cap.12, che era incominciato con una duplice quanto pressante esortazione, quella del v.1, che spingeva il credente ad orientarsi esistenzialmente verso Dio, trasformando la sua vita in un atto di culto a Dio e di consacrazione di se stesso e dell'intera realtà esistente; mentre il v.2 invitava a innescare un rinnovamento esistenziale partendo dalla propria mente, per poter discernere e perseguire la volontà di Dio nella quotidianità del proprio vivere, creando in tal modo una forte tensione esistenziale verso Dio e verso, ora lo sappiamo con questi vv.11-14, le realtà ultime, che stanno per manifestarsi. Il motivo, quindi, di questi incalzanti solleciti risiede proprio in questi ultimi quattro versetti del cap.13, che si aprono significativamente con l'espressione “Kaˆ toàto e„dÒtej tÕn kairÒn” (Kaì tûto eidótes tòn kairón), “E questo, conoscendo il tempo”, in cui la congiunzione “E”, con cui si apre quest'ultima pericope del cap.13, si aggancia all'intera sezione 12,1-13,10; mentre il pronome neutro “questo” (toàto, tûto) si riferisce a “tutto” ciò che è stato detto fin qui, abbracciando, quindi, anche l'intero cap.12 e includendo il “tutto” all'interno di una cornice escatologica, imprimendo al “tutto” una forte tensione spirituale.
Il richiamo a quanto fin qui detto è fatto seguire dall'espressione “conoscendo il tempo”, dove quel “conoscendo”, posto al plurale, si riferisce direttamente ai credenti della comunità di Roma, a cui questa lettera è indirizzata, ma altresì a tutti i credenti, i quali erano consapevoli della “qualità del tempo”, che essi erano chiamati a vivere. Non un tempo qualsiasi, inteso in senso cronologico o fisico, che verrebbe in tal caso espresso in greco con il termine “crÒnoj” (crónos), ma un “tempo particolare”, che qui viene definito con l'apposito termine “kairÒj” (kairós), che circoscrive un tempo opportuno, quello giusto, conveniente, quello propizio e favorevole, che qualifica lo spazio temporale riservato all'agire salvifico di Dio. Si tratta, dunque, non soltanto di un tempo di grazia e di misericordia, ma altresì di un tempo di attesa del ritorno del Signore, che nella chiesa del I sec. era vissuto intensamente come un ritorno imminente del Signore44. Sarà soltanto 2Pt 3,8-10, siamo qui già intorno al 120-130 d.C., che testimonierà come gli ardori dell'attesa imminente si andavano ormai spegnendo, predisponendo i credenti ad un'attesa più lunga.
Il contesto in cui, pertanto, Paolo scrive questa pericope è quello escatologico, dell'attesa del ritorno imminente del Signore. Da qui il suo sollecito a “svegliarsi dal sonno”, cioè da quel torpore spirituale che viene creato dal trantran della vita quotidiana e che vede il credente disperdersi nelle cose di tutti giorni, dimenticandosi il tempo in cui è chiamato a vivere. È lo stesso richiamo che viene fatto dalla parabola delle dieci vergini, che nell'attesa della venuta dello sposo, si erano addormentate, lasciando spegnersi la lampada della loro fede (Mt 25,1-13). Ma qui in Paolo la pressione a svegliarsi dal sonno si fa ancora più intensa con quel “adesso” (éra, óra), richiamandosi, pertanto, al momento presente, in cui l'attesa della salvezza, cioè del ritorno del Signore, che porta con sé la salvezza, sta per compiersi. Un ritorno che si è fatto più vicino “di quando diventammo credenti”. Un'espressione questa che lascia intuire quanto breve fosse pensato il tempo del ritorno del Signore, poiché la comunità di Roma non doveva avere, all'epoca in cui Paolo scriveva questa Lettera, intorno al 57-58 d.C., più di 20-25 anni e, quindi, il tempo dell'attesa del ritorno era pensato ormai come agli sgoccioli, quasi esaurito, tanto che l'autore della Seconda Lettera ai Tessalonicesi deve richiamare all'ordine la sua comunità, dove alcuni, ritenendo imminente il ritorno del Signore e con questo la fine della storia, vivevano in modo disimpegnato, poiché ritenevano che da un momento all'altro sarebbe giunta la fine dei tempi, quindi era inutile fare programmi di vita: “Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene” (2Ts 3,11-13).
Significativo quel aoristo ingressivo “™pisteÚsamen” (episteúsamen, diventammo credenti), che si richiama alle origini della fede di questa comunità e di ogni suo membro e li invita a ritornare, quasi in una sorta di pellegrinaggio spirituale alla loro scelta iniziale e a rinnovare le loro promesse.
Dopo
il v.11 che funge da cornice introduttiva a questa pericope dai toni
escatologici, Paolo passa ora, sia pur con un linguaggio metaforico,
ma molto espressivo, a tratteggiare il comportamento che i credenti
devono tenere in questo contesto di attesa della venuta del Signore,
che qui viene metaforizzato con la “notte è inoltrata e il giorno
si avvicina”, la notte dell'attesa della venuta del Signore, che
costituisce il fulcro e il punto di arrivo di arrivo di questa
attesa, che ormai si è fatta “più vicina di quando diventammo
credenti”. Lo “svegliarsi dal sonno” trova qui il suo
contrappunto nel “deporre le opere delle tenebre per rivestirsi
delle armi della luce”. Un linguaggio militare che funge da
metafora al vivere credente in questi tempi di attesa e che
ritroviamo anche in 1Ts 5,8, dove l'immagine della corazza assume il
significato della fede e della carità, mentre la speranza diviene
l'elmo. E il tutto in un contesto analogo a questo di Rm 13,11-14
(1Ts 5,1-8). Un linguaggio che compare similmente anche in Ef
6,11-18, dove l'aspetto militare della lotta e del combattimento
appare più esplicito e risente della catechesi battesimale, dove il
credente si ritrova in mezzo ad un mondo che non gli appartiene più
e che gli è diventato ostile, per cui è esortato a trasformarsi
“con il rinnovamento della mente per esaminare che cos'è volontà
di Dio, (ciò che è) buono e gradito e perfetto” (12,2). I
contrasti con questo mondo e il nuovo stato di vita del credente
vengono metaforizzati con le immagini della notte e del giorno, dove
vengono delineati i due comportamenti contrapposti: da un lato, il
camminare dignitosamente con onestà e correttezza come ci si
comporta in pieno giorno e che trova per il credente il suo vertice
nel v.14: il rivestirsi di Cristo, che comporta, ipso
facto, il rifiuto del
modo di vivere secondo le logiche della carne; dall'altro, queste
ultime, che Paolo enumera al v.13b con tre gruppi di binomi, che
rappresentano il modo sfrenato e decadente nell'accostarsi al cibo,
trasformando la gioia della convivialità in gozzoviglie ed
ubriachezze; così pure gli aspetti della sessualità nel loro
esprimersi devono essere improntati all'amore mentre secondo le
logiche della carne si trasformano in libertinaggi e dissolutezze; e
parimenti i rapporti interpersonali, che devono essere vissuti nella
carità scadono in litigi e gelosie. Comportamenti corrotti, che
hanno a che vedere con la notte e che hanno un comune denominatore:
la bramosia, parimenti a quelli dei credenti, i quali sono conformati
al Cristo.
I
rapporti intracomunitari tra i “deboli” e i “forti” nella
fede (14,1-15,13)
Testo
a lettura facilitata
Introduzione al problema relazionale tra i “forti” e “deboli” nella fede (vv.1-3)
1-
Accogliete colui che è debole nella fede, non per critica dei (suoi)
dubbi.
2-
(C'è) chi crede di (poter) mangiare tutte le cose, (c'è) chi,
invece, essendo debole (nella fede), mangia ortaggi.
3-
Colui che mangia non sia proclive al disprezzo nei confronti di colui
che non mangia, colui che, invece, non mangia non giudichi colui che
mangia, Dio, infatti, lo ha accolto.
Il comportamento di ciascun credente riguarda solo Dio (vv.4-5)
4-
Ma tu chi sei che giudichi il domestico altrui? Che stia ritto o cada
(riguarda) al suo Signore; ma starà ritto, perché il Signore può
farlo star ritto.
5-
Infatti, (c'è) chi discerne un giorno da giorno, chi, invece, stima
ogni giorno (uguale); ciascuno nel proprio animo sia pienamente
persuaso.
Siamo tutti credenti nell'unico Signore (vv.6-9)
6-
Chi ha in animo il giorno, (lo) ha per il Signore; e colui che
mangia, mangia per il Signore, rende, infatti, grazie a Dio; e colui
che non mangia non mangia per il Signore e rende grazie a Dio.
7-
Infatti, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se
stesso;
8-
infatti, sia che viviamo, viviamo per il Signore, sia che moriamo,
moriamo per il Signore. Pertanto, sia che viviamo sia che moriamo
siamo del Signore.
9-
Infatti, per questo Cristo morì e risuscitò, affinché sia il
Signore e dei morti e dei vivi.
Nessuno giudichi, ognuno renderà conto di se stesso a Dio (vv.10-13)
10-
Ma perché tu giudichi il tuo fratello? O, anche, perché tu sei
proclive al disprezzo (verso) tuo fratello? Tutti, infatti, ci
presenteremo davanti al tribunale di Dio,
11-
sta scritto infatti: “Io vivo, dice il Signore, per questo che
davanti a me si piegherà ogni ginocchio e ogni lingua inneggerà a
Dio”.
12-
Così, [dunque], ciascuno di noi darà ragione di se stesso [a Dio].
13-
Non giudichiamo(ci) più, dunque, gli uni gli altri; ma piuttosto
pensate questo, di non porre inciampo o scandalo al fratello.
Niente è impuro, ma su tutto prevalga la concordia e la carità (vv.14-23)
14-
So e (ne) sono convinto nel Signore Gesù che niente (è) impuro di
per se stesso, se non per colui che ritiene che qualcosa sia impura,
per quello (è) impura.
15-
Se, infatti, a motivo del cibo il tuo fratello si affligge, non
cammini più secondo l'amore; non mandare in rovina per il tuo cibo
quello per il quale Cristo è morto.
16-
Pertanto il vostro bene non sia screditato!
17-
Infatti, il regno di Dio non è cibo e bevanda, ma giustizia e pace e
gioia nello Spirito Santo;
18-
poiché, colui che serve a Cristo in questo (è) gradito a Dio e
stimato (presso) gli uomini.
19-
Così, dunque, perseguiamo le (opere) della pace e quelle della
edificazione degli uni e degli altri.
20-
Non distruggere, a causa del cibo, l'opera di Dio. Tutte le cose sono
pure, ma (sono) un male per l'uomo che mangia (causando) lo scandalo.
21-
È buona cosa (invece) il non mangiare carne, né bere vino, né ciò
per cui tuo fratello inciampa.
22-
La fede che tu hai, tienila per te stesso davanti a Dio. Beato colui
che non condanna se stesso in ciò che approva.
23-
Ma se colui che esita mangiasse, condanna (se stesso), poiché (ciò
non gli viene) dalla fede; tutto ciò che non (proviene) dalla fede è
peccato.
Il dovere dei “forti” nella fede (15,1-7)
1-
Noi, i forti, abbiamo il dovere di sopportare le fragilità dei
deboli e non compiacere a noi stessi.
2-
Ciascuno di noi sia gradito al prossimo per (il) bene a favore
dell'edificazione;
3-
anche Cristo, infatti, non compiacque a se stesso, ma come sta
scritto: “Gli oltraggi di coloro che ti oltraggiano caddero su di
me”.
4-
Queste cose furono scritte prima, furono scritte per nostro
insegnamento, affinché, per mezzo della perseveranza e del conforto
delle Scritture, avessimo la speranza.
5-
Ma il Dio della perseveranza e della consolazione vi dia lo stesso
modo di sentire gli uni verso gli altri secondo Cristo Gesù,
6-
affinché glorifichiate concordemente con una sola bocca Dio e Padre
del Signore nostro Gesù Cristo.
7-
Perciò accoglietevi gli uni gli altri, come anche Cristo ha accolto
voi per la gloria di Dio.
L'esempio di Cristo (15,8-13)
8-
Dico, infatti, che Cristo divenne servo della circoncisione per la
verità di Dio, per confermare le promesse dei padri,
9-
(e) che le genti, per la misericordia, glorificano Dio, come sta
scritto: “Per questo inneggerò a te tra le genti, e canterò al
tuo nome”.
10-
E di nuovo dice: “Rallegratevi, genti, con il suo popolo”.
11-
E di nuovo: “Lodate, popoli tutti, il Signore e lo esaltino tutti i
popoli”.
12-
E di nuovo Isaia dice: “Ci sarà la radice di Iesse e colui che
sorgerà a governare i popoli, in lui spereranno le genti”.
13- E il Dio della
speranza vi riempia di ogni gioia e pace nel credere, affinché
sovrabbondiate nella speranza in forza dello Spirito Santo.
Note generali
Se n'era già parlato della necessità di rinnovarsi nella mente di modo che il credente possa trovare sempre la volontà di Dio nel suo vivere quotidiano (12,2), mettendo in luce la sua sacerdotalità, che celebra il vero culto a Dio nella quotidianità della sua vita (12,1), sottolineando come le relazioni intracomunitarie dovessero essere fondate sull'amore vicendevole, nella coscienza che l'amore assolve ad ogni pretesa della Legge e di ogni tipo di legge (12,9-21; 13,8-10), mettendo a disposizione degli altri i propri carismi per la crescita dell'intera comunità e di ogni suo singolo membro (12,3-8), rimanendo ossequiosamente sottomessi all'autorità, in cui opera Dio (13,1-7), considerando, infine, il tempo escatologico che il credente è chiamato a vivere, nell'imminenza del ritorno del suo Signore, che porta con sé non solo la salvezza, ma anche il giudizio (13,11-14).
All'interno di questa cornice, che tratteggia le caratteristiche essenziali del vivere credente, Paolo, ora, inserisce una questione che doveva affliggere la comunità di Roma e che non doveva essere di poco conto, considerato che a questa dedica ben 46 versetti, argomentando con accuratezza (14,1-15,13).
La questione doveva vertere non solo sui cibi, che alcuni membri della comunità romana consideravano impuri, mentre altri non ne facevano alcun conto, ritenendo ogni cibo in egual modo accessibile, senza alcun distinguo, ma anche su questioni di calendario, per cui alcuni ponevano delle distinzioni tra giorni, mentre per altri ogni giorno era uguale a se stesso (vv.2.5-6.14-15.20-21).
Le questioni che si ponevano sui cibi, puri o impuri, o sui tempi scanditi dai calendari non erano nuove all'interno delle comunità credenti di quel tempo, benché assumessero delle sfumature e sfaccettature ben diverse tra comunità e comunità. Si pensi alla comunità di Corinto, al cui interno si dibatteva la questione del mangiare o meno le carni immolate agli idoli, che contrapponeva le due fazioni dei favorevoli e degli ostili. Paolo risolverà la questione puntando tutto sulla carità e il rispetto reciproco, poiché non tutti all'interno della medesima fede hanno raggiunto la maturità cristiana, che riteneva le carni immolate agli idoli alla stessa stregua delle altre carni, considerato che gli dei non esistevano, ma erano il frutto della fantasia umana, per cui il mangiare tali carni non comportava macchiarsi di idolatria (8,1-13).
Similmente, ma per quanto riguarda l'osservanza di particolari tempi scanditi dai calendari (Gal 4,10), si poneva la questione in Galazia. Ma qui la controversia era completamente diversa, poiché le comunità credenti della Galazia avevano abbandonato il vangelo di Paolo per aderire ad un altro vangelo, quello dei giudeocristiani giudaizzanti, che sostenevano come la salvezza fosse raggiungibile soltanto sottomettendosi alla Legge mosaica tramite la circoncisione (Gal 1,6-7). Qui si prospettava una vera e propria eresia, poiché si subordinava la salvezza portata da Cristo alla Legge mosaica, annullando, di fatto e per dottrina, la novità dell'evento Cristo.
Analogamente la questione si ritrova in Col 2,8.16-23, dove si denunciano elaborazioni innovative del pensiero religioso, provenienti probabilmente dalla gnosi, che vengono definiti come “vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo” (Col 2,8b), da cui derivavano osservanze riguardo a cibi, bevande e calendari (Col 2,16-23)45.
Ma qui a Roma come si erano create queste contrapposizioni? Le questioni poste sui cibi, sulla loro purità e l'osservanza dei calendari fanno pensare alla fazione dei giudeocristiani giudaizzanti che volevano imporsi sul resto della comunità di Roma. Ma chi erano questi giudaizzanti, considerato che la comunità di Roma era stata fondata inizialmente da loro e, quindi, dovevano aver data la loro impronta? Di conseguenza non ci sarebbero dovute essere dispute su queste questioni. Perché allora, invece, c'erano? L'unico motivo plausibile è che dopo la fondazione della comunità, avvenuta probabilmente circa un decennio prima che l'imperatore Claudio (41-54 d.C.) con proprio decreto nell'anno 49 d.C. espellesse tutti i giudei che giudeocristiani da Roma, a motivo dei continui contrasti tra loro, nella comunità di Roma fossero rimasti soltanto gli etnocristiani, cioè cristiani provenienti dal paganesimo. In questa comunità, pertanto, continuarono le conversioni, ma i nuovi convertiti non si sottoposero più alle originarie restrizioni imposte dai giudeocristiani fondatori, così che all'interno della comunità di Roma si era venuta a creare una situazione completamente nuova. Nel 54 d.C. muore l'imperatore Claudio e il suo decreto di espulsione decadde, così che i giudeocristiani espulsi, rientrarono nella loro originaria comunità di Roma, ma trovarono la situazione completamente cambiata. Era da pensare che, a tal punto, questi giudeocristiani fondatori, ritornati nella loro comunità di Roma, volessero ristabilire le cose com'erano originariamente. Da qui i contrasti tra queste due posizioni all'interno della comunità di Roma: chi voleva continuare nelle nuove libertà acquisite tra il 49 e il 54 d.C. e chi invece, dopo essere ritornato, voleva ripristinarle, così come erano in origine.
Paolo affronterà la questione ponendo la carità e il reciproco rispetto al di sopra di ogni questione, considerando che unica è la fede nell'unico Signore, che ognuno intende onorare secondo il proprio modo di concepire le cose e secondo la propria maturità cristiana. Paolo, tuttavia, si schiererà con i “forti” (15,1), dichiarando che tutto è puro, ma invitando nel contempo ciascuno a vivere secondo la propria coscienza, lasciando intendere come queste questioni di cibo e di calendari siano del tutto marginali e irrilevanti rispetto alla fede nell'unico Cristo, che non deve essere turbata da cose del tutto insignificanti al vivere cristiano.
La lunga sezione riguardante le questioni della purità dei cibi e del rispetto del calendario religioso (14,1-15,13) è scandita strutturalmente in sette parti, che propongo qui di seguito:
Introduzione al problema relazionale tra i “forti” e “deboli” nella fede (vv.1-3);
Il comportamento di ciascun credente riguarda solo Dio (vv.4-5);
Siamo tutti credenti nell'unico Signore (vv.6-9);
Nessuno giudichi, ognuno renderà conto di se stesso a Dio (vv.10-13);
Niente è impuro, ma su tutto prevalga la concordia e la carità (vv.14-23);
Il dovere dei “forti” nella fede (15,1-7);
L'esempio di Cristo (15,8-13).
Commento
ai vv.14,1-15,13
Introduzione al
problema relazionale tra i “forti” e “deboli” nella fede
(vv.1-3)
La pericope in esame introduce la questione sui cibi, che sta affliggendo la comunità di Roma: c'è chi non pone problemi sulla edibilità dei cibi; chi, invece, discrimina su questi. Due posizioni, quindi, tra loro contrapposte, che stavano probabilmente degenerando, portando scompiglio e divisioni all'interno della comunità, pregiudicandone la credibilità, considerando che quella di Roma era la comunità dell'impero e, quindi, punto di riferimento anche per altre comunità (1,8).
La pericope e con questa l'intera sezione 14,1-15,13 si apre con una significativa esortazione rivolta ai “forti”: “Accogliete colui che è debole nella fede, non per critica dei (suoi) dubbi”. Il primo verbo che qui compare e che dà il tono all'intera sezione è “proslamb£nesqe” (proslambáneste), che qui ho tradotto con “Accogliete”, ma che in greco assume una pluralità di significati, che meglio definiscono il senso di quel “accogliete”, quali “prendere con sé, conciliarsi, guadagnare a sé, condurre con sé, aiutare, dare una mano”. Già, dunque, il verbo che qui Paolo usa costituisce una sorta di programma per i forti e un sollecito di disponibilità per i “deboli”. Un'accoglienza che non deve essere finalizzata alla critica dei dubbi e delle incertezze altrui, ma improntata secondo una carità che sia senza ipocrisie (12,9a). Il punto cruciale di questa debolezza è la fede, che viene vissuta probabilmente in modo troppo legalistico da alcuni, influenzata dalla Legge mosaica, che discrimina tra cibo e cibo, mettendoci sopra l'ipoteca della purità, così che c'è chi mangia qualsiasi tipo di cibo, senza curarsene, mentre c'è chi si rifugia negli ortaggi, probabilmente quale ultima spiaggia qualora manchi il cibo kosher. Non è da pensare, qui, ad una religione particolare o ad una particolare corrente del giudaismo che si dedica al vegetarismo e tantomeno al veganesimo dei nostri giorni. Del resto è lo stesso Paolo che al v.14 sposta l'attenzione dei cibi sulla loro purità, lasciando intendere che qui ci si trova di fronte alla questione tutta giudaica dei cibi kosher.
Nessuna critica,
dunque, né alcun giudizio reciproci per i diversi e contrapposti
modi di porsi di fronte al cibo. La motivazione di questa esortazione
è teologica: “Dio, infatti, lo ha accolto”. Se, dunque, Dio ha
accolto chi è debole nella fede a maggior ragione il “forte”
deve rendersi disponibile a tale accoglienza, che ha il suo parametro
di raffronto in Dio stesso, tenendo presente che l'accoglienza da
parte di Dio pone su tale credente una sorta di ipoteca divina.
Il comportamento
di ciascun credente riguarda solo Dio (vv.4-5)
Il v.3 terminava con l'attestazione che “Dio lo ha accolto”, attraendo in tal modo il credente, sia pur esso debole nella fede, nell'alea divina e, pertanto, sotto la tutela di Dio. Di conseguenza nessuno è autorizzato a muovere critiche a chi beneficia di tale tutela, poiché esse vanno a colpire direttamente Dio, che ha l'ha accordata. Quindi, se a Dio sta bene come il suo tutelato si comporta, questo riguarda soltanto Dio ed è una questione che si regola soltanto tra Lui e il “debole”, il quale con la tutela riceverà da parte di Dio anche tutto ciò che è necessario perché egli stia diritto in piedi e non cada, cioè si salvi. Tenendo presente che è esplicita volontà di Dio che ogni uomo raggiunga la salvezza (1Tm 2,4), per cui Egli sa soprassedere alle formalità o alle modalità con cui il credente, debole nella fede, si rapporta al suo Signore, poiché a Dio non interessano le modalità con cui il credente lo ama, ma punta soltanto al suo cuore. Il resto fa parte delle formalità dettate dalle regole umane, che possono aiutare, favorire e/o abbellire o solennizzare il rapporto con Dio, ma non lo creano, poiché questo riguarda soltanto Dio e il credente, al di là di ogni forma e modalità di espressione, che, in quanto tale, non va mai confusa con la sostanza. Un errore questo, che sovente commetteva il giudaismo, creando una fastosità nel culto a Dio e impegnandosi in diatribe rabbiniche su ogni aspetto della Legge, ma trascurando la sostanza delle cose (Mt 23), così da ricevere i rimbrotti stessi di Gesù, che, richiamandosi a Is 29,13, ammoniva: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,8-9; Mc 7,6-7).
Ciò che tuttavia importa è che chi assume certi comportamenti nel suo rapportarsi a Dio sia, in coscienza, pienamente convinto, come chi, similmente ai cibi, “discerne un giorno da giorno, chi, invece, stima ogni giorno (uguale)”. Il riferimento qui è probabilmente al calendario ebraico, che scandisce le celebrazioni festive e il loro culto, al quale si fa riferimento anche in Gal 4,10.
Una
sottolineatura, questa della coscienza, di notevole rilievo, poiché
il cap.14 si concluderà proprio con una seconda annotazione sulla
coscienza, facendo obbligo al “debole” nella fede di comportarsi
secondo quanto gli suggerisce la sua coscienza (v.23), che è quel
intimo sacrario in cui il credente s'incontra con il suo Signore e da
Lui viene illuminato dalla sua Verità. Significativo in tal senso è
quanto attesta la costituzione dogmatica “Gaudium et Spes”:
“L'uomo ha in realtà una
legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa
dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il
nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con
Dio, la cui voce risuona nell'intimità”
(Gs, §16). Punto di riferimento, dunque, nel rapporto tra Dio e il
credente, al di là delle modalità e formalità con cui si esprime
tale rapporto, è pertanto la coscienza di ciascuno, che, non va
tuttavia dimenticato, deve essere sempre adeguatamente formata alla
Luce della Parola di Dio, così da escluderne una ignoranza
colpevole.
Siamo tutti
credenti nell'unico Signore (vv.6-9)
Dopo aver richiamato la motivazione teologica per cui ogni credente, sia pur esso debole nella fede, va rispettato nella sua debolezza, appellandosi alla coscienza personale sulla quale fonda la convinzione del proprio modo di agire, Paolo mette ora in evidenza un altro elemento, che deve portare a superare queste vacue quanto inutili contrapposizioni: la fede nell'unico Signore, che deve contraddistinguere e caratterizzare il modo di vivere e di relazionarsi tra credenti.
La pericope vv.6-9 è particolarmente elaborata e si sviluppa su tre passaggi:
il primo, v.6, richiama le modalità del vivere proprie di ogni credente, che costituiscono motivo di scontro tra le due fazioni dei “forti” e dei “deboli”, rilevando come le diverse modalità di comportamento, in ultima analisi, ognuno le compie pensando, nell'intimità della propria coscienza e per quanto gli consente la luce della sua fede, di onorare in cuor suo Dio. La finalità, quindi, è unica per tutti, anche se le modalità sono diverse: onorare Dio, rendendogli il culto dovuto con la propria vita. Sarà Dio, poi, il titolare e destinatario del culto, a valutare il tutto (v.4), ma non certo i credenti tra loro, puntandosi reciprocamente il dito contro, creando tra loro divisioni distruttive.
Il secondo passaggio, vv.7-8, porta alla luce una nuova realtà che è venuta ad instaurarsi in ogni credente a motivo della sua fede, unica per tutti: il vivere e il morire di ogni credente, cioè l'arco dell'intera sua esistenza con tutto ciò che essa contiene e in essa si esprime, non è più un vivere o un morire “per se stessi”, ma “per il Signore”, richiamandosi in qualche modo a 12,1. In altri termini, l'unica fede e l'unico battesimo ha riorientato il proprio vivere da se stessi a Dio, passando da un antropocentrismo egocentrico ad una visione teocentrica della propria vita, la quale, proprio in quanto tale, diviene necessariamente allocentrica (1Gv 4,20), rendendo il credente capace di superare i propri limitati orizzonti aprendosi ad un Dio, che lo illumina nei suoi rapporti con gli altri, scoprendo come l'amore per Dio passa attraverso l'amore per gli altri, così che, proprio attraverso l'unica fede, si è accomunati nell'unico Cristo, che deve fungere da comune denominatore per l'intera comunità credente e ogni suo singolo membro. E sarà questo il terzo passaggio, quello cristologico, che deve fare di una comunità credente una comunione nell'unico Cristo.
Il v.9 conclude l'esortazione richiamandosi al “vivere” e al
“morire” per Cristo, che tutti accomuna in se stesso, nella sua
morte, che esprime la debolezza del vivere umano, e nella sua
risurrezione, che dispiega la forza della nuova vita, a cui si
accede con la fede. In altri termini, egli, il morto-risorto, è
diventato, proprio per questo, il Signore sia dei vivi che dei
morti, a cui Paolo associa in qualche modo i “forti” e i
“deboli”, poiché egli è il Signore di tutti.
Nessuno
giudichi, ognuno renderà conto di se stesso a Dio (vv.10-13)
La
pericope in esame è inclusa dai vv.10.13, che ricordano, il primo,
come tutti si è soggetti al giudizio di Dio; mentre il secondo
esorta a non giudicare per non essere giudicati. Un'inclusione data,
quindi, per complementarietà di azione, ed è la conseguenza
dell'attestazione della Signoria di Dio su tutti (v.9), così che
tutti gli devono rendere conto, “forti” e “deboli” insieme,
accomunati in un unico destino: il giudizio di Dio, che Paolo
rafforza con una citazione scritturistica variamente combinata
assieme, attingendo in parte da Is 49,18b e in parte da Is 45,23b,
che attesta come Dio, il Vivente, è il punto di arrivo di ciascuno e
tutti lo riconosceranno come il Signore e Giudice supremo di tutti.
Pertanto, Paolo esorta i “forti” a non costituire con le loro
critiche ai “deboli” un inciampo, poiché anche questo loro modo
di comportarsi sarà oggetto del giudizio divino.
Niente
è impuro, ma su tutto prevalga la concordia e la carità
(vv.14-23)
Paolo giunge, ora, a conclusione delle sue esortazioni e di tutte le sue argomentazioni teologiche, cristologiche e scritturistiche, facendo prevalere una regola su tutto e che deve guidare sempre i rapporti interpersonali e intracomunitari, quella dell'amore vicendevole, che porta, in primis, al rispetto dell'altro e delle sue personali convinzioni, a costo di sacrificare le proprie pur di non turbare l'altro.
Paolo, ora, prende posizione schierandosi a favore dei “forti”, tra i quali include se stesso in 15,1, attestando, prima in forma negativa, “niente è impuro” (v.14) e poi in forma positiva, “Tutte le cose sono pure” (v.20b), suddividendo in tal modo il suo intervento in due parti: la prima (vv.14-19) si accentra sui “deboli” e a loro favore, assecondandoli nelle loro convinzioni personali, ma nel contempo rendendoli moralmente responsabili della loro posizione che hanno preso, esortando i “forti“ a camminare nell'amore, poiché il regno di Dio non è una questione di cibo, ma di beni spirituali che devono informare la vita dei credenti e delle loro comunità. La seconda parte si accentra sui “forti”, indicando loro la strada dell'amore che si fa condivisione anche delle fragilità dei “deboli”, evitando di essere loro d'inciampo, poiché anch'essi sono il frutto della redenzione operata da Cristo.
Anche questa ultima sezione del cap.14 è circoscritta da un'inclusione data per complementarietà di azione: al v.14b si attesta che se il “debole” ritiene che qualcosa sia impura, questa lo è veramente per lui; così che, conclude il v.23, qualora il “debole”, violando la propria convinzione di coscienza, mangiasse ciò che per lui è impuro, anche se di fatto non lo è, questi commette peccato. L'intera sezione, vv.14-23, si muove, dunque, all'interno dell'aleatorietà, dove non vigono regole morali precise e/o disposizioni dogmatiche, ma ci si muove facendo appello alla propria sensibilità morale e alla propria fede, nonché alla propria maturità spirituale.
Il v.14 si apre con una dichiarazione di Paolo che suona dogmatica, facendo, quindi, appello alla sua autorità apostolica: “So e (ne) sono convinto nel Signore Gesù”. Egli, dunque, “sa”, un “sapere” dietro il quale c'è la linea di condotta dell'intera chiesa. Il sapere di Paolo, pertanto, è quello della chiesa stessa e fa parte del suo patrimonio spirituale ormai acquisito e che la differenzia dal giudaismo. Un “sapere”, che tuttavia, Paolo radica nella propria coscienza e in essa si è consolidato, facendo parte ormai della sua stessa maturità di credente. Una convinzione che è “nel Signore Gesù”. Un'espressione quest'ultima che è rafforzativa del suo “sapere”, che qui chiama in causa, a testimonianza, lo stesso Signore Gesù. Quindi, come si vede, un'introduzione corposa e solida, chiamata a dare una solida credibilità all'intera sezione, dove pesa l'autorità apostolica di Paolo e della stessa Chiesa.
Ciò che Paolo “sa e di cui è convinto nel Signore Gesù” è che niente è impuro. Una questione quella sul “puro e l'impuro”, tutta giudaica, che ha sempre agitato le acque tra il cristianesimo del I sec. e il giudaismo, il quale riduceva la purità ad una mera funzione fisica contrariamente al cristianesimo, per il quale la purità era eminentemente una questione morale e spirituale. In tal senso magistrale è la diatriba tra il Gesù marciano e i farisei sulla questione della purità e impurità (Mc 7,1-23), che attesta la nuova linea di comprensione della chiesa nascente, che tende a trasfondere le comprensioni fisiche circa l'esecuzione della Torah da parte del giudaismo su di un piano squisitamente spirituale e morale, mettendosi sulla stessa posizione dei Profeti.
L'impurità dei cibi, quindi, per Paolo, non esiste, ma se questa è creduta in coscienza dal “debole” nella fede, a causa della sua debolezza, il cibo diventa impuro per lui. Un'affermazione questa che lascia trasparire come tutte le cose esistenti siano in loro stesse neutre, non essendo né buone né cattive, due qualità morali che non possono appartenere alle cose in loro stesse, ma sono attributi che vengono assegnati dall'uomo alle cose in base all'uso che egli ne fa e in base a come egli si posiziona nei loro confronti. Solo l'uomo è capace di azioni morali, poiché solo lui è capace di distinguere il bene dal male. La cosa, quindi, può assumere un significato buono o cattivo a seconda quello che gli attribuisce l'uomo in base alle sue conoscenze e alla sua coscienza, che va sempre rettamente formata alla luce della Parola di Dio, altrimenti il rischio è di confondere il bene con il male e viceversa. Quindi se il “debole” ritiene, secondo la sua coscienza e la sua formazione morale e spirituale, che per lui quel cibo non vada bene, non deve mangiarne, poiché ciò violerebbe degli imperativi morali di bene e di male, sui quali poggia la sua coscienza, per cui, concluderà Paolo al v.23, il “debole” “condanna (se stesso), poiché (ciò non gli viene) dalla fede; tutto ciò che non (proviene) dalla fede è peccato”.
Da qui l'esigenza che i “forti” non mettano in difficoltà i “deboli”, poiché questo potrebbe spingerli a violare le loro personali convinzioni, che si sono formate secondo la loro comprensione della fede, creando loro problemi di ordine morale, ma anche di disagio psicologico, mettendoli in imbarazzo con il loro proprio modo di sentire le cose. Sono persone, ricorda Paolo, per le quali Cristo è morto. La motivazione del rispetto dovuto a questi “deboli”, dunque, è duplice: la carità, che deve sempre animare e sostanziare i rapporti tra i credenti; e il pensiero che Cristo è morto per loro. Il rispetto, dunque, va alla persona e a Dio, che si è impegnato per loro nel suo Cristo.
Questa prima parte (vv.14-19) si conclude con un richiamo ed una riflessione sulle realtà spirituali che i credenti sono chiamati a condividere in comunione tra di loro, ma con un pensiero che va anche a quelli che non appartengono alla comunità: “Pertanto il vostro bene non sia screditato!”. Di quale bene qui sta parlando Paolo? E chi lo screditerebbe?
Il “bene” sembra essere quella ricchezza di doni spirituali di cui beneficia il credente in quanto inserito in una nuova realtà spirituale: il Regno di Dio, che nulla ha a che vedere con le questioni di cibo puro o impuro, che stanno dividendo la comunità di Roma, poiché è un Regno che è permeato dallo Spirito Santo e vive in esso, dove i veri beni spirituali, quelli che non vanno screditati, sono “ giustizia e pace e gioia”, che vanno vissuti secondo le logiche dello Spirito Santo, dove la giustizia acquista più che un senso retributivo, quello di dare a ciascuno il suo, un senso equitativo, quello di considerare tutti con pari dignità, che deve aprire alla pace, intesa non solo quale assenza di discordie, ma anche di riconciliazione, che si fa comunione di amore, così che la comunità con tutte le sue complesse interrelazioni possa essere vissuta nella gioia, quel bene escatologico finale, i cui raggi e riflessi devono rilucere e tralucere nelle comunità credenti, divenendo così testimonianza di nuove realtà che si sono insediate in mezzo agli uomini e che comunque gli stessi uomini, credenti o no, apprezzano.
Beni questi, afferma Paolo, che tuttavia possono essere screditati, sminuiti qualora all'interno delle comunità credenti vi siano discordie e divisioni. Screditati, dunque, ma da chi? Dai credenti, in primis, con il loro comportamento dissonante da quelle realtà e dai quei beni, di cui dovrebbero essere testimoni; screditati anche dalle altre comunità credenti, che vedono in quella di Roma, la comunità dell'impero, il punto di riferimento; ma altresì dallo stesso mondo pagano, che pur stima ed apprezza quei valori che sono comuni a tutti gli uomini e che fanno parte del patrimonio dell'umanità. Il male, infatti, come il bene, crea attorno a sé delle onde che si espandono e riverberano positivamente o negativamente su tutto e su tutti.
Da qui il richiamo a non distruggere “l'opera di Dio” per inutili quanto futili questioni di cibo. L'opera di Dio di cui qui Paolo parla è quanto è stato detto qui sopra, ai vv.14-19: il “debole” per il quale Cristo è morto, nonché il Regno di Dio, di cui le comunità credenti sono una testimonianza, un suo sacramento in mezzo agli uomini, in mezzo ai quali devono brillare “come astri nel mondo” (Fil 2,15).
Riprende, dunque Paolo, riaffermando questa volta in forma positiva come “Tutte le cose sono pure”, indirizzandosi questa volta ai “forti”, facendo capire come la loro libertà nei confronti dei cibi non deve mai essere spesa a danno dei “deboli”, creando scandalo e turbando le loro fragili coscienze, ma, anzi, al contrario, proprio perché loro sono i “forti” devono anche sapersi piegare alle esigenze dei “deboli” e quindi evitare di consumare cibi che i “deboli” ritengono proibiti per la debolezza della loro fede, che ancora guarda alle disposizioni mosaiche ed è da queste condizionata. Questo sarebbe un segno di grande forza morale e spirituale e soprattutto un atto di profonda e autentica carità, in cui riecheggia in qualche modo l'esortazione di 12,15-16a: “Gioire con coloro che gioiscono, piangere con coloro che piangono. Avendo in animo gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri”, con cui si evidenzia il rapporto di compartecipazione e condivisione intracomunitario, trasformando in tal modo la comunità credente in un luogo di comunione. Di conseguenza la propria fede di “forti” e di credenti spiritualmente evoluti non va mai spesa a danno dei deboli, ma questa fede va vissuta interiormente davanti a quel Dio, a cui si dovrà renderne conto.
Così
si chiude il cap.14 con quest'ultima pericope (vv.20-23), che
introduce il tema della seguente sezione 15,1-13: il dovere dei
“forti” nei confronti dei deboli.
Il
dovere dei “forti” nella fede
(15,1-7)
Paolo apre quest'ultima sezione sui rapporti tra “forti” e “deboli”, dando una regola di carità applicata concretamente e che va a completare quella già suggerita in 14,21, dove esortava che “È buona cosa (invece) il non mangiare carne, né bere vino, né ciò per cui tuo fratello inciampa”. C'è, dunque, una sorta di obbligo morale (“abbiamo il dovere”), che s'impone ai “forti” nella fede nei confronti dei deboli, quello di mettere da parte se stessi, le proprie esigenze, la propria evoluzione spirituale e la propria maturità in Cristo, per dare spazio ai “deboli” nella loro fragilità. La finalità di tutto questo è “per il bene”. Di quale bene Paolo qui parli lo lascia intendere subito: “a favore dell'edificazione”, e quale sia il senso di questa edificazione viene specificato ai vv.5-7, dove si parla dello “stesso modo di sentire” (v.5), così da celebrare unanimi con le proprie vite e in comunione gli uni con gli altri la comune lode a Dio. In altri termini, una comunione di vita che si esprime nell'unanimità dell'unica lode a Dio, celebrata nella propria vita, attraverso la comunione di amore reciproco (v.6). Di conseguenza, conclude Paolo, “deboli” e “forti”, tra i quali Paolo, con quel “noi” iniziale (v.1a), colloca anche se stesso, devono deporre le loro ostilità e le loro incomprensioni, accogliendosi reciprocamente per favorire l'edificazione di quel unico corpo di Cristo, che è la comunità credente stessa e che si esprime nella comunione di amore gli uni verso gli altri, che proprio in questo diviene azione di culto personale e comunitario a Dio e che qui Paolo definisce come “glorificare Dio”.
Il
punto di forza e di riferimento, su cui poggia l'esortazione, è
Cristo stesso, che visse la propria vita cercando di non compiacere
se stesso, soddisfacendo i propri interessi, ma quelli del Padre,
fino a sopportare le offese di coloro, che proprio per la debolezza
della loro fede, non compresero il senso dell'evento Gesù, rimanendo
legati alla Legge e alle antiche Alleanze dei loro Padri. Ed è
proprio questo “modo di sentire di Gesù”, che pone gli interessi
del Padre sopra i propri, che deve diventare il punto di riferimento
e il parametro di confronto su cui conformare e commisurare la
propria vita, spingendo, quindi, i credenti ad accogliersi gli uni
gli altri sull'esempio di Cristo, che per glorificare il Padre con la
propria vita ha saputo accogliere in lui ciascuno di noi con tutte le
sue fragilità e le sue debolezze, per farne un'unica offerta di lode
al Padre.
L'esempio
di Cristo (15,8-13)
Con i vv.3.5 Paolo aveva indicato Cristo quale fondamento e parametro di raffronto del vivere credente. Ora con questa pericope vv.8-13 porta a supporto della sua esortazione a sfondo cristologico un susseguirsi di cinque citazione scritturistiche, che, in una ricomprensione cristologica, definiscono Cristo come strumento della misericordia di Dio, grazie al quale le genti glorificano Dio e si uniscono al suo popolo nell'unica lode. Una visione questa che non solo è cristologica, ma anche ecclesiologica, là dove le genti si uniscono al popolo di Dio, i nuovi cedenti in Cristo, in un'unica lode e in lui riconoscono il loro unico Signore.
Con il v.3 Paolo aveva sottolineato come Cristo aveva subordinato la sua volontà a quella del Padre, cercando di compiacergli in tutto e qui, al v.8, ne porta un esempio, che riecheggia in qualche modo Gal 4,4-5 e Fil 2,6-8: “Cristo divenne servo della circoncisione per la verità di Dio”, in altri termini Cristo ha rinunciato alle sue prerogative divine, quale la sua connaturata gloria divina, per assumere una natura umana corrotta dal peccato (Fil 2,6-8), sottomettendosi alla Legge mosaica tramite la circoncisione all'ottavo giorno (Lc 2,21) e la celebrazione del suo bar mitzvah all'età di dodici anni (Lc 2,42.46-47), per riscattare quelli che erano sotto la Legge/legge non solo quella mosaica, bensì anche quella del peccato (Gal 4,4-5; Rm 5,20). La finalità dell'asservimento di Cristo alla volontà del Padre era pertanto duplice: da un lato, dare compimento alle promesse fatte ai Padri e riecheggiate nei Profeti (Mt 5,17); dall'altro, aprire a tutte le genti il messaggio della Verità, cioè il Vangelo, facendo così dei due, giudei e pagani, un unico popolo, superando i limiti della Legge mosaica che li separava e li contrapponeva tra loro (Ef 2,13-16).
A sostegno della sua argomentazione Paolo porta una sequenza di citazioni scritturistiche che si richiamano, nell'ordine di citazione, a 2Sam 22,50 e Sal 18,50 (v.9b); Dt 32,43 (v.10); Sal 117,1 (v.11) e, infine, Is 11,10 (v.12).
Il v.13 chiude la sezione sui “forti” e i “deboli” nella fede (14,1-15,13) con un augurio e un saluto alla comunità di Roma, così divisa tra “forti” e “deboli”, tra etnocristiani di ultima generazione e giudeocristiani, ritornati dall'esilio imposto da Claudio (49 d.C.), che li aveva espulsi da Roma per turbolenze. Il v.13 si riallaccia al v.12 con la parola aggancio “in lui spereranno le genti”, dove si mette in luce il tema della speranza cristiana, che per Paolo è certezza di realtà in attesa di manifestazione.
Dio
è qui definito come il “Dio della speranza”, cioè il Dio che ha
fondato il suo progetto di salvezza sulle promesse che hanno trovato
la loro attuazione in Cristo, ma che attendono per la loro piena
manifestazione il tempo dell'eternità, allorché Dio sarà
nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28). È questo tempo escatologico
di attesa, che va vissuto nella speranza, che anima e sostanzia la
fede del credente, così che essa diviene “fondamento
delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono”
(Eb 11,1). Un tempo, dunque, questo di attesa che va vissuto con
“ogni
gioia e pace nel credere”,
dove la gioia acquista una valenza non più messianica, ma
escatologica di realtà in cui già viviamo anche se non ancora
definitivamente e pienamente; mentre la pace richiama quella
riconciliazione che si è ristabilita tra Dio e gli uomini nel Cristo
risorto (Lc 24,36; Gv 20,19.21.26) e che deve riflettersi nella
riconciliazione fraterna nei singoli membri della comunità di Roma
come in quelli di ogni comunità credente, così da apparire ed
essere una comunione di amore vicendevole, sotto l'egida dello
Spirito Santo, che è potenza creatrice di Dio, capace di rigenerare
e rinnovare tutte le cose, facendo di ogni singolo credente e di ogni
comunità ecclesiale una nuova creatura e una nuova realtà in
Cristo46,
rigenerati per della sua Parola (1Pt 1,23).
Epilogo
(15,14-33)
Testo a lettura
facilitata
Scuse
di Paolo per il suo intervento sulla comunità di Roma, dettatogli
dal suo ministero (vv.13-22)
14-
Sono io stesso persuaso, fratelli miei, quanto a voi, che anche (voi)
stessi siete ripieni di bontà, ricolmi di ogni conoscenza, capaci
anche di ammonirvi gli uni gli altri.
15-
Vi ho scritto, in qualche parte, con più audacia, per ricordarvi
(ciò che già conoscete) per la grazia che mi è stata data da Dio
16-
per essere, io, ministro di Cristo Gesù per le genti, compiendo il
sacro ufficio del Vangelo di Dio, affinché l'offerta delle genti
fosse gradita (a Dio), santificata nello Spirito Santo.
17-
Pertanto ho [il] vanto in Cristo Gesù per le cose riguardanti Dio.
18-
Infatti non oserò dire un qualcosa che non sia ciò che Cristo ha
operato per mezzo di me, per l'obbedienza dei popoli, con parola ed
opera,
19-
con potenza di segni e di prodigi, con (la) potenza (dello) Spirito
[di Dio], così da portare a compimento, da Gerusalemme e in giro
(ovunque) fino all'Illirico, il vangelo di Cristo,
20-
così da farmene un vanto di evangelizzare (soltanto) dove non fosse
invocato il nome di Cristo, per non edificare sul fondamento altrui,
21-
ma come sta scritto: “A quelli che non fu annunciato di lui, (lo)
vedranno, e quelli che non udirono, comprenderanno”.
La Spagna, il nuovo progetto missionario di Paolo (vv.23-24.28b-29)
22-
Anche per questo ero impedito molte volte di venire da voi;
23-
ma ora non avendo più spazio in queste regioni, avendo, invece, da
molti anni, un grande desiderio di venire da voi,
24-
spero, infatti, quando andrò in Spagna, passando, di vedervi e di
essere accompagnato là da voi, (non) prima che mi sia saziato di voi
un poco.
[…]
28b-
me ne andrò in Spagna (passando) da voi;
29-
Ma so che, venendo da voi, verrò in pienezza della benedizione di
Cristo.
La
colletta per i poveri di Gerusalemme e le preoccupazioni di Paolo
(vv.25-27.30-33)
25-
Ora vado a Gerusalemme per rendere un servizio ai santi.
26-
Infatti la Macedonia e l'Acaia stabilirono che fosse fatta una
qualche comunione a favore dei poveri dei santi in Gerusalemme.
27-
(Così) stabilirono, perché sono loro debitori; se, infatti, le
genti parteciparono ai loro beni spirituali, (queste) devono anche
prestare loro un servizio nelle cose carnali.
28a-
Pertanto, dopo aver portato a termine questo e dopo aver assicurato a
loro questo frutto,
[...]
30-
Vi esorto, [fratelli], per il Signore nostro Gesù Cristo e per
l'amore dello Spirito, di soccorrermi con le preghiere per me presso
Dio,
31-
affinché sia liberato da quelli che sono increduli nella Giudea e il
mio servizio a favore dei santi in Gerusalemme sia bene accetto,
32-
affinché, venendo nella gioia presso di voi, per volontà di Dio,
(mi) riposi con voi.
33-
Il Dio della pace (sia) con tutti voi, amen.
Note generali
Con questi ultimi quindici versetti del cap.15, che formano il postscritto, Paolo tende, da un lato, a smorzare i toni per i suoi decisi interventi dottrinali e parenetici su di una comunità che non aveva fondato lui, ma di cui aveva bisogno per i suoi nuovi progetti missionari (vv.14-22); dall'altro, accenna al suo progetto missionario per la Spagna, in cui egli vorrebbe coinvolgere anche la comunità d Roma, come supporto logistico, economico e spirituale (vv.24.28b); ed infine, accenna alla colletta per i poveri di Gerusalemme, esprimendo in questo tutti i suoi timori, poiché egli non è ben visto e mal sopportato sia dai Giudei che dai giudeocristiani giudaizzanti della chiesa madre di Gerusalemme.
Benché
sia la parte conclusiva della Lettera, tuttavia essa ci fornisce
elementi interessanti, da un punto di vista storico, della persona di
Paolo, del suo modo di operare e della sua instancabile azione
missionaria, che non conosce soste od ostacoli e, con il cap.16,
vedremo anche la fitta rete di conoscenze e di collaboratori, di cui
Paolo si era attorniato per operare nella diffusione del Vangelo.
Paolo, già lo si è detto sopra (pag.11), non
aveva la stoffa del pastore, ma del missionario, poiché era sua
convinzione dell'imminenza del ritorno di Cristo, per cui era
impellente per lui, più che curare le anime, diffondere il suo
Vangelo per prepararne la venuta (1,1).
Commento ai vv.14-33
Scuse
di Paolo per il suo intervento sulla comunità di Roma, dettatogli
dal suo ministero (vv.13-22)
Dopo ben oltre 14 capitoli in cui Paolo è intervenuto in modo risoluto, quasi a gamba tesa, sulla comunità imperiale di Roma, fondata da giudeocristiani giudaizzanti, probabilmente per dare una dritta alla sua fede, quasi certamente giudaizzante (pagg.16-18), attraverso otto capitoli (1,16-8,39) di una corposa lectio magistralis sulla giustificazione per mezzo della fede e non per mezzo delle opere della Legge; dopo aver dissertato sui destini di Israele in rapporto al mondo pagano (9,1-11,36); e dopo aver esortato la comunità, richiamandola nei suoi rapporti intracomunitari ed extracomunitari (14,1-15,13), Paolo si rende conto di essere andato giù pesante (v.15) nei confronti di una comunità che neppure aveva fondato lui, ma di cui aveva bisogno per i suoi progetti missionari riguardanti la Spagna (15,24.28), per cui, ora, tende a smorzare i toni giustificando il suo intervento legandolo al suo ministero, in quanto apostolo delle genti (11,13), su cui fonda la sua autorità e autorevolezza.
Il v.14 è finalizzato a blandire la comunità di Roma definendo i suoi membri come “ripieni di bontà, ricolmi di ogni conoscenza, capaci anche di ammonirvi gli uni gli altri”. Un'immagine, dunque, di una comunità spiritualmente evoluta, matura e capace di una propria buona autogestione, quella che Paolo dipinge qui, quasi a volersi scusare per i suoi interventi e,in qualche modo, defilarsi silenziosamente, per non intralciare l'organizzazione della comunità con le sue dinamiche interne e per evitare dei risentimenti nei suoi confronti da parte dei suoi membri.
Egli si rivolge a loro con l'espressione ecclesiologica “fratelli miei”, termine questo che ricorre nella sua Lettera 19 volte, ma con il l'aggettivo possessivo “miei”, che accentua il tono di ecclesialità e, quindi, del suo coinvolgimento anche nella comunità di Roma, soltanto qui e in 7,4, dove si esprime in termini ecclesiologici, ma su sfondo cristologico. Paolo, dunque, anche se non è il fondatore di questa comunità romana ne è tuttavia partecipe e, pertanto, non un estraneo che cerca di intromettersi.
I versetti che seguono, vv.15-22, sono finalizzati a mettere in rilevo la sua figura di apostolo delle genti, la cui apostolicità e, quindi anche la conseguente autorità con cui si è rivolto alla comunità di Roma, è fondata su Cristo e da lui proviene.
Con il v.15, tuttavia, Paolo riconosce di essersi rivolto alla comunità di Roma con “audacia”, il cui termine greco “tolmhrÒteron” (tolmeróteron) significa, oltre che audacia, anche “coraggio, ardimento, temerarietà”, lasciando intravvedere come in questa “audacia” vi sia anche una qualche nota di sfrontatezza. In altri termini, Paolo si rivolge alla comunità di Roma senza tanti fronzoli e tanti peli sulla lingua, poiché quando c'è di mezzo Cristo, niente può fermare Paolo, che, in tali frangenti, non è portato ad essere molto diplomatico e accomodante: prima Cristo! Un'audacia ed una sfrontatezza che gli è stata dettata dal fatto che egli è “ministro di Cristo Gesù per le genti”, la quale cosa lo spinge a compiere “il sacro ufficio del Vangelo di Dio”, cioè il predicare Cristo, che viene colto, con quell'espressione “sacro ufficio”, come azione di Dio in mezzo alle genti, così che le genti si convertano a lui. Una conversione che Polo legge come la sua offerta di queste genti a Dio, rese sante nello Spirito Santo, cioè rese partecipi della vita stessa di Dio, che è il Santo per eccellenza. E in questa sua missione ad gentes egli celebra il suo culto personale di lode e di ringraziamento a Dio (12,1). E tutto questo e per tutte le cose che riguardano Dio per Paolo costituisce motivo di vanto, rilevando in tal modo il suo orgoglio per il carisma della sua apostolicità, che si radica in Cristo ed è posta a servizio di Cristo a favore delle genti.
Paolo, quindi, cerca di spiegare il senso della sua missione alla comunità di Roma, avvolgendola in un contesto di sacralità e santità, evidenziando in essa aspetti teologici e cristologici, oltre che cultuali (vv-15-16), ma nel contempo affermando con decisione la sua apostolicità e l'autorità che gli viene da questa (v.17).
I vv.18-20 sono dedicati a presentare i contenuti della sua apostolicità e della sua missione, nelle quali e per mezzo delle quali opera Dio stesso, che si esprime per mezzo di “segni e prodigi”, espressione questa che si ritrova altre quattro volte nel N.T.47 per indicare la potenza con cui Dio opera in mezzo agli uomini, che è potenza dello Spirito Santo, che avvolge nella sua santità tutti gli uomini che accolgono la Parola della predicazione, che è parola dello stesso Cristo, rigenerandoli così alla vita divina (1Pt 1,23), dalla quale erano drammaticamente fuoriusciti nei primordi dell'umanità (Gen 3,16-24). Una potenza che si è sprigionata in Paolo e che si è estesa da “da Gerusalemme e in giro (ovunque) fino all'Illirico”. Significativo questo movimento geografico espansivo, che ha come suo epicentro Gerusalemme, dove sono accaduti gli eventi della salvezza e nella quale ha sede la chiesa madre, e che in qualche modo richiama At 1,8, dove il Risorto costituisce testimoni i suoi discepoli da Gerusalemme fino ai confini del mondo.
Paolo sintetizza qui i suoi viaggi missionari in quel “in giro (ovunque)” che comprende l'intera Asia minore, l'attuale Turchia, con puntate a Corinto, Atene e nel Peloponneso, fino all'illirico, una vasta regione romana che andava dalla Macedonia e dalla Tracia, al sud, fino ai confini con Venezia, l'area, grossomodo, della ex Jugoslavia. Nello specifico, il riferimento all'Illirico riguarda le aree di Tessalonica, Filippi, Berea, Neapoli e, quindi l'estremo sud dell'Illirico. Tutti territori dove ancora non era stato diffuso “il vangelo di Cristo”. Significativa la nota del v.20, dove Paolo attesta la sua preoccupazione nel diffondere la predicazione del Vangelo, là dove non era mai stato annunciato, per evitare sovrapposizioni di annunci e perdite di tempo e, probabilmente, considerata la novità del Vangelo paolino, anche conflitti con il vangelo predicato dai giudeocristiani giudaizzanti, ancora legati alla Legge mosaica, con i quali Paolo spesso ha avuto modo di scontrarsi, sia nelle chiese della Galazia che qui nella stessa Roma. Una scelta questa che egli cerca di giustificare anche scritturisticamente, mutuando in modo molto libero e a suo uso e consumo Is 52,15b, tratto dal quarto canto del Servo di Jhwh (Is 52,13-53,12), preferendo al testo ebraico, più difficile, quello greco, che più si addice ai suoi intenti, spiegando come il suo Vangelo fosse destinato “A quelli che non fu annunciato di lui, (lo) vedranno, e quelli che non udirono, comprenderanno” e quindi non a quelli che già hanno udito e hanno visto a seguito di altra predicazione.
Una scelta questa di
Paolo che tuttavia non viene rispettata qui a Roma, poiché in
1,13.15 attesta l'esatto contrario: “Ma
non voglio, fratelli, che voi ignoriate che (mi) sono proposto di
venire presso di voi e (ne) fui impedito fino ad ora, per avere un
qualche frutto anche tra di voi, così come anche tra gli altri
popoli […] così che, per quanto sta in me, (sono) pronto ad
annunciare il vangelo anche a voi che (siete) in Roma”; e
similmente lo lascia intendere in 1,5-6. L'eccezione è dovuta a due
motivi fondamentali: la comunità di Roma è la comunità dell'Impero
romano e, quindi, occupa una posizione importante e centrale rispetto
alle altre comunità variamente sparse nell'Impero, per le quali essa
doveva costituire un punto di riferimento (1,8). Per questo si
rendeva necessaria una dritta da punto di vista dottrinale,
considerato che il primo annuncio a Roma fu portato da
giudeocristiani giudaizzanti; il secondo motivo era quello di
attirare la comunità di Roma nella sua alea di logica missionaria ed
evangelica in vista dei suoi nuovi progetti missionari per la Spagna,
per i quali egli aveva bisogno del supporto logistico e spirituale di
questa importante comunità.
La
Spagna, il nuovo progetto missionario di Paolo (vv.22-24.28b-29)
Come
in 1,10-13, anche qui, v.22, Paolo attesta che la sua visita alla
comunità romana era già da tempo nei suoi pensieri e nei suoi
progetti, ma che fu impedita per la sua intensa e frenetica attività
missionaria accennata qui sopra al v.19. I vv.23-24.28-29, che
seguono spiegano i motivi per cui, ora, si è reso disponibile a
visitare questa grande comunità imperiale: da un lato, egli ha
esaurito la sua missione presso il mondo orientale, come già aveva
anticipato al v.19, per cui ha già progettato di annunciare, ora, il
suo Vangelo al mondo occidentale, partendo dalla Spagna
(vv.23a.24a.28b); dall'altro, vuole coinvolgere in questo suo
poggetto missionario anche la comunità di Roma (v.24), poiché gli
serve una base logistica e un fattivo appoggio di persone, che lo
sostengano nel suo progetto con mezzi anche economici e
organizzativi. Infatti, tutta la rete organizzativa, che Paolo si era
creato per la sua missione orientale, ora, qui non è più
utilizzabile, per cui è necessario ritessere una nuova
organizzazione missionaria a suo supporto e la comunità di Roma,
numerosa, benestante e addentro alle politiche imperiali e
probabilmente con qualche aggancio politico, era per lui l'ideale per
inaugurare un nuovo ciclo missionario qui in occidente.
La
colletta per i poveri di Gerusalemme e le preoccupazioni di Paolo
(vv.25-27.28a.30-33)
Tra i doveri che gli hanno impedito fin qui di realizzare il suo desiderio di visitare la comunità di Roma e sostare per qualche tempo presso di essa (vv.1,12; 15,23b.24b) non vi fu soltanto la sua intensa attività missionaria in oriente, ma anche un altra incombenza, a cui Paolo attribuisce una particolare importanza e un particolare significato. Si tratta di una raccolta fondi presso le comunità da lui fondate, formate tutte da etnocristiani, cioè cristiani provenienti dal paganesimo, a favore dei poveri della chiesa madre di Gerusalemme.
L'idea gli era stata suggerita da Giacomo, uno dei tre capi, probabilmente il più autorevole, della chiesa madre di Gerusalemme. Gli altri due erano Pietro e Giovanni, considerati, assieme al primo, le colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9). Questi, in occasione della chiusura della prima assemblea conciliare (49 d.C.), per dirimere la questione se i pagani dovessero essere circoncisi o meno per accedere alla comunità credente, questione che si è risolta a favore della non circoncisione (Gal 2,4-10; At 15,23-28), gli aveva chiesto di ricordarsi dei poveri di Gerusalemme (Gal 2,10). Da qui l'origine di una colletta, di cui Paolo parla più volte, qui, in Rm 15,25-26; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,1048 e alla quale attribuisce un particolare significato ecclesiologico e di comunione fraterna. Se, intatti, la Chiesa madre di Gerusalemme, con forti tendenze giudaizzanti, avesse accolto le offerte provenienti dalle chiese di fondazione paolina e formate da etnocristiani, non solo avrebbe riconosciuto la validità della missione di Paolo, ma avrebbe anche accolto in sé queste chiese formate da pagani convertiti, superando in tal modo l'ostacolo del giudaismo, che separava ancora i giudeocristiani giudaizzanti dagli etnocristiani. Una questione questa di cui si parlerà anche in Ef 2,11-17 e alla quale verrà data una risposta cristologica.
Quando Paolo scrive questa Lettera si trova a Corinto, durante il suo terzo viaggio missionario (53-57 d.C.), l'ultimo, durante il quale raccoglie dei fondi per i poveri di Gerusalemme. Un viaggio che deve essere giunto al termine, così come la colletta doveva essere stata già completata se al v.25 scrive “Ora vado a Gerusalemme per rendere un servizio ai santi”, considerato, poi, come in 16,1-2 apre la sezione dei saluti raccomandando alla comunità di Roma di accogliere “Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre”, porto orientale, quest'ultimo, di Corinto, alla quale deve aver affidata la presente Lettera per la comunità di Roma; mentre al v.28 guarda al già dopo colletta: “Pertanto, dopo aver portato a termine questo e dopo aver assicurato a loro questo frutto, me ne andrò in Spagna (passando) da voi”.
Con i vv.26-27 Paolo si sofferma un istante per spiegare il senso di quello che egli chiama in modo “enigmatico” per la comunità di Roma, ma molto significativo in se stesso, “un servizio ai santi”, cioè la colletta, che qui Paolo comprende come un “servizio”, che le chiese della Macedonia e dell'Acaia, in comunione tra loro, avevano deciso, su pressante invito di Paolo (1Cor 16,1-3; 2Cor 8,1-4). Significativo quel “santi” riferito inizialmente ai membri della chiesa madre di Gerusalemme, in quanto essa era considera come il resto santo di Israele. Un titolo che, poi, venne esteso a tutti i credenti, in quanto, per fede e battesimo, facenti parte della vita stessa di Dio, che è il Santo per definizione; o, fors'anche, perché la chiesa si era compresa quale il nuovo Israele, che aveva aderito alla Parola di Gesù, riconoscendolo quale Cristo, inviato dal Padre e nel quale si erano compiute tutte le Promesse.
Il motivo per cui le chiese dell'Acaia e della Macedonia decisero di comune accordo una raccolta fondi a favore della chiesa madre di Gerusalemme e dei suoi poveri, fu un gesto di riconoscenza per il dono della fede e della Parola, che esse ricevettero da questa, contraccambiando e, in qualche modo sdebitandosi con essa. E in questo contesto Paolo aveva rivolto una particolare attenzione alle chiese della Macedonia, scrivendo la sua seconda Lettera ai Corinti, chiesa questa che apparteneva alla regione dell'Acaia, mettendo in rilievo la particolare generosità di queste chiese, che pur nella loro povertà e pur vessate dalle persecuzioni non lesinarono gli aiuti: “Vogliamo poi farvi nota, fratelli, la grazia di Dio concessa alle Chiese della Macedonia: nonostante la lunga prova della tribolazione, la loro grande gioia e la loro estrema povertà si sono tramutate nella ricchezza della loro generosità. Posso testimoniare infatti che hanno dato secondo i loro mezzi e anche al di là dei loro mezzi, spontaneamente, domandandoci con insistenza la grazia di prendere parte a questo servizio a favore dei santi” (2Cor 8,1-4).
Ora, Paolo, terminata la sua missione in oriente (vv.19b.23a) e conclusa la colletta presso le chiese etnocristiane da lui fondate (v.25), sta per completare la sua missione portando a Gerusalemme i frutti della colletta, ma forti timori lo assalgono (vv.30-32), così che il v.28 sembra volerli in qualche modo esorcizzare, guardando oltre quest'ultimo gravoso impegno e già pensando al suo soggiorno presso la comunità di Roma, dove organizzerà la sua nuova missione occidentale in Spagna: “Pertanto, dopo aver portato a termine questo e dopo aver assicurato a loro questo frutto, me ne andrò in Spagna (passando) da voi”. Cosa che purtroppo non gli riuscirà, poiché, dopo il suo ritorno a Gerusalemme verrà arrestato e in catene trascinato a Roma.
Il v.30 apre con un'esortazione che suona come una richiesta di soccorso spirituale alla comunità di Roma, che lascia trasparire una notevole ansia ed inquietudine per un pericolo imminente. Due sono sostanzialmente i timori che assillano Paolo: gli increduli nella Giudea e i dubbi sulla buona accoglienza della sua colletta. Quanto ai primi, il riferimento è ai giudei “increduli”, cioè che hanno resistito e respinto l'annuncio di Cristo, tra i quali egli eccelleva nella persecuzione dei cristiani a difesa della religione dei Padri con un fervore che sconfinava nel fanatismo (Gal 1,13-14; At 8,3; 22,4-5; 26,9-11), così che tutta la chiesa lo temeva ovunque, ma che ora, con un voltafaccia inspiegabile ha abbandonato, subendo per questo persecuzioni e maltrattamenti (2Cor 11, 24-25a; At 20,22-23). Una simile apostasia era passibile di morte. Tra questi, probabilmente, vanno inclusi anche quei giudeocristiani giudaizzanti che non vedevano di buon occhio il “suo Vangelo”, che demonizzava la religione dei Padri, la Torah e la circoncisione, sostituendo alla Legge mosaica la sola fede in Cristo (At 21,17-25).
Ed è proprio la posizione avversa di quest'ultimi che gli fa temere che la sua colletta venga respinta dalla chiesa madre di Gerusalemme, dove l'eminente e predominante figura di Giacomo, di tendenze fortemente giudaizzanti, influenza notevolmente gli indirizzi dottrinali e le regole del vivere comunitario (Gal 2,11-13; At 15,28-29).
Considerato il clima ostile che lo accolse a motivo del suo Vangelo, che contrastava notevolmente con le credenze giudaiche e con i giudeocristiani giudaizzanti, è pensabile che la sua colletta sia stata respinta e Paolo arrestato e in catene trascinato a Roma per essere giudicato dall'imperatore in quanto cittadino romano49. Qui a Roma rimase in semilibertà vigilata per due anni, dopo i quali si sono perse le tracce. Probabilmente morì martire durante la persecuzione di Nerone intorno all'anno 63 d.C. 50.
La sezione del postscritto termina con un augurio di pace, che sembra un invito alla riconciliazione tra le posizioni contrastanti degli etnocristiani, i “forti” nella fede, e dei giudeocristiani giudaizzanti, i “deboli” nella fede, all'interno della comunità di Roma e ai quali Paolo ha dedicato l'ampia sezione 14,1-15,13. Ma non va troppo enfatizzata questa soluzione, poiché l'espressione “il Dio della pace” è una formula che si riscontra anche in altre Lettere e va fatta rientrare nel normale saluto cristiano51.
Significativo
quel “Amen” finale, che chiude la Lettera ai Romani,
sottoscrivendola in tutti i suoi contenuti, mettendoli sotto
l'autorità apostolica di Paolo. Il termine “Amen” è uno dei
pochi vocaboli ebraici che si è conservato anche in greco, ha la sua
radice ebraica in “
'mn”,
che significa “certamente, veramente, sicuramente”, che implica
sicurezza, solidità, fermezza, per cui siglare la Lettera con un
“Amen” finale significa imprimere su quella Lettera il segno
della veridicità52.
I
saluti, un elenco di personaggi variamente impegnati per il Vangelo
(16,1-27)
Testo a lettura facilitata
Febe, la diaconessa di Cencre (vv.1-2)
1-
Vi raccomando Febe, la nostra sorella, che è
diaconessa della chiesa di Cencre,
2-
affinché l'accogliate nel Signore, come si conviene ai santi,
assistetela in qualsiasi faccenda avesse bisogno di voi; infatti
anche lei divenne protettrice di molti, anche di me stesso.
Aquila e Prisca, strenui collaboratori di Paolo (vv.3-5a)
3-
Salutate Prisca ed Aquila, miei collaboratori in Cristo
Gesù,
4-
questi per la mia vita esposero il loro stesso collo, i quali
ringrazio non solo io, ma anche tutte le chiese delle genti;
5a-
(salutate) anche la chiesa (che si riunisce) presso la loro casa.
Altri nomi variamente titolati (vv.5b-16)
5b-
Salutate il mio caro Epeneto, che è primizia dell'Asia
per Cristo.
6-
Salutate Maria, la quale molto si affaticò per voi.
7-
Salutate i miei parenti Andronico e Giunia, miei
compagni di prigionia, questi sono insigni tra gli apostoli, che
furono in Cristo anche prima di me.
8-
Salutate Ampliato, mio diletto nel Signore.
9-
Salutate Urbano, nostro collaboratore in Cristo e il
mio caro Stachi.
10-
Salutate Apelle, provato in Cristo. Salutate quelli di
Aristobulo.
11-
Salutate Erodione, mio parente. Salutate quelli di
Narciso, che sono nel Signore.
12-
Salutate Trifena e Trifosa, che si sono affaticate nel
Signore. Salutate la cara Perside, che si affaticò
molto nel Signore.
13-
Salutate Rufo, l'eletto nel Signore e sua madre ed
(anche) mia.
14-
Salutate Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma e i
fratelli (che sono) con loro.
15-
Salutate Filologo e Giulia e Nereo e sua sorella, e Olimpia
e, con loro, tutti i santi.
16-
Salutate(vi) gli uni gli altri con il bacio santo. Vi salutano tutte
le chiese di Cristo.
Un'ultima esortazione: guardarsi dalle deviazioni dottrinali (vv.17-20)
17-
Vi esorto, fratelli, di soppesare (attentamente) coloro che creano
discordie e scandali contro la dottrina, che voi avete imparato, e
allontanatevi da loro;
18-
costoro, infatti, non servono a Cristo nostro Signore, ma al loro
ventre, e con un linguaggio seduttore e un bel parlare ingannano i
cuori dei semplici.
19-
Infatti, la vostra obbedienza è giunta a tutti; mi rallegro, dunque,
per voi, ma voglio che voi siate esperti riguardo al bene, ma integri
riguardo al male.
20-
Il Dio della pace spezzerà Satana sotto i vostri piedi molto presto.
La grazia del Signore nostro Gesù (sia) con voi.
Altri si uniscono ai saluti di Paolo (vv.21-23)
21-
Vi saluta Timoteo, mio collaboratore e Lucio e
Giasone e Sosipatro, miei parenti.
22-
Vi saluto nel Signore,(anch') io, Terzo, che ho scritto
la lettera.
23-
Vi saluta Gaio, ospite di me e di tutta la chiesa. Vi
saluta Erasto, amministratore della città e il
fratello Quarto.
Un finale inatteso (vv.24-27)
24-
(La grazia del Signore nostro Gesù Cristo (sia) con voi, amen)53.
25-
[A Colui che può fortificarvi secondo il mio Vangelo e la
predicazione di Gesù Cristo, secondo la rivelazione del mistero
taciuto per secoli eterni,
26-
ma che fu manifestato ora per mezzo delle Scritture profetiche,
secondo il comando del Dio eterno, reso noto a tutte le genti per
l'obbedienza della fede,
27-
al solo Dio sapiente, per mezzo di Gesù Cristo, a Lui la gloria per
i secoli, amen].
Note
generali
È sempre affascinante leggere questa lunga teoria di nomi che giungono a noi dal lontano 57/58 d.C. Nomi di persone che non abbiamo mai conosciuto e che, al di là del loro nome, non ci dicono niente, ma dietro ai quali si nascondono storie di persone che hanno intrecciato relazioni tra loro e con Paolo; persone che si sono impegnate individualmente, rischiando la propria vita per il Vangelo e per i suoi ministri e, come per loro, è da pensare anche per molte altre persone, non in nome di un'ideologia, ma in nome di una persona, che tutti riconoscevano e adoravano come Dio, il Cristo Signore, sul quale avevano scommesso le loro vite. Un personaggio, quest'ultimo, che non aveva molte credenziali da spendere per se stesso se non la fede di chi lo ha visto, toccato, lo ha ascoltato e lo ha compreso e riconosciuto quale Verbo della Vita (1Gv 1,1-4).
Personaggi, che Paolo presenta circoscritti da una piccola cornice, che dice il motivo di quella citazione e di quel ricordo e, nel contempo, dicono anche i diversi ruoli che essi ricoprivano all'interno della propria comunità e delle chiese in genere. Sono un pezzo di storia della chiesa primitiva, quella, forse, la più importante, poiché si trattava di una chiesa in fase di formazione e che doveva inventarsi tutto, persino gli scritti, che noi oggi chiamiamo Nuovo Testamento, ma che allora non esistevano, e tra quelli, che via via si producevano, doveva operare una cernita, inventandosi delle regole, il canone (II sec. d.C.), per fissare e garantire la Verità di quegli scritti, che sono giunti fino a noi e che ci consentono, a nostra volta, di contemplare il Verbo della Vita nella “sua gloria, gloria come unigenito da Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14b). E il tutto facendo riferimento soltanto al primo annuncio della Parola, che avevano accolto e rielaborato in modo insuperabile nelle loro teologie e cristologie, che sono giunte fino a noi.
Nomi che facevano parte del quotidiano di Paolo e di ogni credente e attorno ai quali giravano le comunità credenti, che via via si amplificavano e si consolidavano, generando altre comunità credenti ancora. Nomi che tolgono le origini della chiesa dal loro anonimato e consentono quasi di toccarle nel loro lento e non sempre facile formarsi. Nomi che hanno creato un tessuto connettivo all'interno delle singole comunità credenti e queste tra loro, dando a tutte un unico volto, quello della Chiesa, che ha accolto la Parola del suo Signore e ne prosegue la missione lungo i secoli, proponendo a tutti il messaggio di salvezza.
Nomi, quindi, che non vanno letti, ma meditati e accolti in noi, poiché essi fanno parte dell'unica Chiesa, a cui apparteniamo anche noi e a noi si propongono quale esempio di impegno personale per il Vangelo, lasciandoci, in tal modo, la loro eredità.
Sono nomi che attestano come Paolo, benché non avesse fondato lui la comunità di Roma e non l'avesse mai visitata, tuttavia gli erano noti e con cui aveva avuto a che fare, sicuramente in altri luoghi e presso altre comunità, la quale cosa attesta come le comunità credenti fossero strettamente connesse tra loro da una fitta rete di personaggi, che si muovevano di continuo tra una comunità e l'altra, tanto che Paolo in 12,13 esorta a prendere “parte alle necessità dei santi, perseguendo l'ospitalità”, sollecitando, proprio qui in 16,1 ad accogliere Febe, probabilmente latrice della presente Lettera, come si conviene ai santi. Un'ulteriore testimonianza che dice come Paolo nello svolgere la sua missione si servisse o quanto meno faceva costante riferimento ad una fitta rete di personaggi, in tempi in cui non esistevano altri mezzi di comunicazione se non le proprie gambe e, se andava bene, qualche cavallo o le rischiosissime navi, gusci galleggianti in balia dei venti e delle tempeste, e in merito alle quali Paolo ricorda i suoi naufragi: “tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde” (2Cor 11,25b). Viaggi che erano tutt'altro che sicuri e dei quali Paolo attesta in 2Cor 11,26-27: “Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità”. Questo era il contesto in cui si muoveva non soltanto Paolo, ma anche tutti questi personaggi, di cui Paolo ci ha passato una qualche traccia. Personaggi variamente impegnati per il Vangelo.
Quanto
a questo cap.16, benché non si possa parlare di una vera e propria
struttura attorno a cui si distribuisce il testo e il pensiero di
Paolo, tuttavia, ho cercato di dargli un assetto suddividendolo in
sei parti, che propongo qui di seguito:
Febe, la diaconessa di Cencre (vv.1-2);
Aquila e Prisca, strenui collaboratori di Paolo (vv.3-5a);
Altri nomi variamente titolati (vv.5b-16);
Un'ultima esortazione: guardarsi dalle deviazioni dottrinali (vv.17-20);
Altri si uniscono ai saluti di Paolo (vv.21-23);
Un finale inatteso (vv.24-27).
Commento
ai vv.1-27
Febe,
la diaconessa di Cencre (vv.1-2)
Il primo personaggio che compare nella lunga lista dei saluti è Febe, alla quale, però, Paolo non rivolge i suoi saluti, ma, invece, affida alle cure della comunità di Roma. L'essere posta in cima alla lista dei saluti, ma non per essere salutata, ma per essere raccomandata in modo particolare, lascia supporre che questa Febe, che proviene da Cencre, il porto orientale di Corinto, dove Paolo sta dettando questa Lettera (v.22), e si reca poi presso la comunità di Roma, stia svolgendo un servizio per conto di Paolo e probabilmente è la latrice di questa Lettera ai Romani.
Il nome è chiaramente greco e appartiene alla mitologia greca. Febe era figlia di Urano (cielo) e di Gea (terra) e il significato del suo nome (Fo‹boj, Foîbos) è “splendente, lucente, puro, chiaro”. La nostra Febe, pertanto, era un'etnocristiana. Essa è definita da Paolo con tre appellativi: “la nostra sorella”, “diaconessa” e “protettrice”. Quanto all'espressione “la nostra sorella” questa designa non soltanto la comunanza di fede che lega i membri della comunità credente, ma in particolar modo definisce questa Febe come una particolare collaboratrice di Paolo. Lo si arguisce non solo dall'aggettivo possessivo “nostra”, che la lega in modo personale a Paolo, la quale cosa verrà confermata al v.2b, dove si dice che “lei divenne protettrice di molti, anche di me stesso”, ma altresì dall'articolo determinativo che precede il termine “sorella”. Il termine “fratello/sorella” in Paolo, viene, infatti, riferito sia ai credenti in genere che alle persone impegnate nella missione o agli stessi suoi collaboratori. Questo secondo caso si verifica spesso quando il sostantivo “fratello/sorella” è accompagnato, come qui, dall'articolo determinativo54. Essa è poi qualificata come “diacono” (di£konon, diákonon), al maschile, pur esistendo il termine greco corrispondente al femminile: “diakÒnissa” (diakónissa, diaconessa). Perché questa discordanza di genere? Difficile a dirsi, forse perché Paolo pensava a lei non come donna, ma come persona facente parte dell'istituzione diaconale e, pertanto, ufficialmente preposta con specifico incarico ad un qualche servizio o a più servizi all'interno della comunità; oppure più semplicemente una svista di Terzo, colui che, sotto dettatura di Paolo, stava scrivendo questa lettera (v.22).
Il senso del diaconato all'interno della comunità credente risiede sia nel verbo stesso, che significa servire, prestare o svolgere un servizio, procurare, fornire o somministrare un servizio, essere d'aiuto, soccorrere qualcuno; sia in At 6,1-4: “In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: <<Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola>>”. L'istituzione del diaconato nella chiesa del I sec., pertanto, sembra risiedere nella necessità della comunità di istituire al suo interno dei servizi a favore dei credenti, che, via via il tempo passava, aumentavano sempre più di numero e con il numero anche le loro esigenze, sgravando in tal modo altri uffici sacri e vitali per la comunità stessa e per la missione, come quello della predicazione della Parola, demandando altri uffici ad altre persone dedicate, che operavano tuttavia in nome e per conto della comunità credente ed erano rivestite di autorità, che consentiva loro di svolgere ufficialmente l'incarico a cui erano preposte. Questo il senso originale del diaconato presso la chiesa primitiva. Successivamente, allorché la chiesa con l'imperatore Costantino entrò a far parte dell'amministrazione imperiale e si istituì l'ordine sacro sacerdotale con tutti i diversi gradi di appartenenza, anche il diaconato fu incorporato in questo “ordo sacerdotalis”, rivestendolo di una sua sacralità. Da qui si pose il problema dell'investitura di tale ordine anche alle donne, che il concilio di Nicea (325 d.C.) escluse al §19 ultimo capoverso: “Quanto alle diaconesse in particolare, ricordiamo, che esse, non avendo ricevuto alcuna imposizione delle mani, devono essere computate senz'altro fra le persone laiche”. Tuttavia il concilio di Calcedonia (451 d.C.), al §15 attesta: “Non si ordini diacono una donna prima dei quarant'anni, e non senza diligente esame. Se per caso dopo avere ricevuto l'imposizione delle mani ed avere vissuto per un certo tempo nel ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia anatema insieme a colui che si è unito a lei”. Dal che si deduce che anche le donne potevano diventare diaconesse, includendole, quindi, in un grado dell'ordine sacerdotale. Si parla, infatti, di ordinazione attraverso l'imposizione delle mani; si parla di un diligente esame e di nubilato, il corrispondente del celibato maschile. Quindi sembrano esserci tutti gli elementi perché queste, diremmo noi oggi, fossero “consacrate” diaconesse e partecipassero al sacerdozio, sia pur nel suo grado immediatamente inferiore, quello, appunto, del diaconato. Comunque, questo, è un problema che non riguardava, a quel tempo, Paolo e il senso della diaconia non era quello che pensiamo noi oggi, benché quello abbia messo le basi per questo.
Il terzo appellativo, che viene assegnato a Febe, è quello di essere “protettrice” (prost£tij, prostátis) di molti ed anche di Paolo stesso. Il termine “prostátis” è il femminile di “prost£thj” (prostátes), che significa, quest'ultimo, “colui che sta alla testa, capo, presidente, sovraintendente, prefetto, protettore, difensore”. Attribuire tutti o qualcuno di questi titoli a Febe probabilmente è eccessivo, considerata la condizione delle donne all'epoca di Paolo, tuttavia essa è definita da Paolo come “protettrice di molti, anche di me stesso” e, pertanto, essa doveva occupare una certa posizione sociale altolocata, che le consentiva di tutelare i molti, compresa la difficile posizione di Paolo. Non è da escludersi che questa Febe, definita non a caso “prost£tij” fosse moglie di un “prost£thj” e che attraverso suo marito riuscisse ad essere “prost£tij”, cioè protettrice di molti, compreso Paolo.
I
tre appellativi, che qualificano Febe, sono racchiusi all'interno di
una cornice esortativa: accoglietela “come si addice ai santi”.
Un'espressione a doppia faccia, poiché potrebbe essere riferita sia
ai membri della comunità di Roma, per cui Paolo li esorta a
praticare l'ospitalità come si addice ai santi. Un'esortazione che
aveva già aveva fatto in 12,13: “prendendo parte alle necessità
dei santi, perseguendo l'ospitalità”, sollecitando in questo le
attenzioni e la cura che Dio stesso, il Santo per antonomasia, mostra
nei confronti dei suoi santi, cioè dei suoi figli generati a Lui per
mezzo della Parola e della fede. Ma nel contempo, l'espressione
potrebbe essere rivolta a Febe, per cui Paolo sollecita la comunità
di Roma ad accogliere Febe, come si conviene nell'accogliere i santi,
cioè con lo stesso riguardo che i credenti devono saper accogliere
Dio stesso, che dimora in ogni credente con la sua Santità.
Posizione quest'ultima che lo stesso Gesù giovanneo ricorda ai suoi:
“Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e
noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23),
così che, completerà il Gesù matteano in 25,40.45: “ogni volta
che avete o non avete fatto queste cose a uno solo di questi miei
fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Quindi in ogni “santo”
vi è sacramentato Cristo stesso e il Padre. Da qui l'esortazione di
Paolo.
Aquila
e Prisca, strenui collaboratori di Paolo (vv.3-5a)
I nomi di Aquila e Priscilla, secondo gli Atti degli Apostoli (At 18,2.18.26), o Prisca secondo Paolo (Rm 16,3; 1Cor 16,19; 2Tm 4,19), compaiono 6 volte nel N.T. e sempre in coppia. Si tratta di 2 coniugi giudeocristiani, oriundi dal Ponto, una regione romana prospiciente sul Mar Nero, e che Paolo trovò a Corinto. Tutta la loro storia e i rapporti che essi tennero con Paolo sono raccontati da At 18,1-3.18-19.24-26: “Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei (49 d.C). Paolo si recò da loro e poiché erano del medesimo mestiere, si stabilì nella loro casa e lavorava. Erano infatti di mestiere fabbricatori di tende. Paolo si trattenne ancora parecchi giorni, poi prese congedo dai fratelli e s'imbarcò diretto in Siria, in compagnia di Priscilla e Aquila. A Cencre si era fatto tagliare i capelli a causa di un voto che aveva fatto. Giunsero a Efeso, dove lasciò i due coniugi, ed entrato nella sinagoga si mise a discutere con i Giudei. Arrivò a Efeso un Giudeo, chiamato Apollo, nativo di Alessandria, uomo colto, versato nelle Scritture. Questi era stato ammaestrato nella via del Signore e pieno di fervore parlava e insegnava esattamente ciò che si riferiva a Gesù, sebbene conoscesse soltanto il battesimo di Giovanni. Egli intanto cominciò a parlare francamente nella sinagoga. Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio”.
Qui Paolo li chiama suoi collaboratori “in Cristo Gesù”, espressione quest'ultima che dice come questi fossero impegnati nella diffusione e nella testimonianza della Parola alla stregua di Paolo o similmente a lui. Il legame con Paolo e la loro preparazione cristiana dovevano essere molto forti se Paolo li prese in missione con sé e se, poi, questi ospitarono in casa loro una delle comunità di Efeso o la comunità di Efeso (1Cor 16,19b) e poi, similmente, fecero in Roma (Rm 16,5), qui ritornati dopo la loro espulsione a seguito dell'editto di Claudio (49 d.C.), successivamente abrogato da Nerone (54-68 d.C.); non solo, ma ebbero la sufficiente preparazione da correggere dottrinalmente anche Apollo, un altro giudeocristiano come loro, che Luca definisce colto e addentro alle Scritture.
Il
loro slancio cristiano e la loro dedizione a Paolo furono tali da
esporre “il loro stesso collo”, cioè esposero le loro stesse
vite pur di salvare quella di Paolo. In cosa siano consistiti questi
rischi è difficile dirlo. Forse questi riguardavano il tumulto sorto
in Efeso a causa della rivolta degli argentieri, costruttori di
idoli, che videro diminuire drasticamente i loro affari a motivo
delle conversioni provocate dalla predicazione di Paolo (At 19,23-41)
e a cui forse Paolo si riferisce in 2Cor 1,8: “Non vogliamo infatti
che ignoriate, fratelli, come la tribolazione che ci è capitata in
Asia ci ha colpiti oltre misura, al di là delle nostre forze, sì da
dubitare anche della vita”. Questa seconda Lettera ai Corinti fu
scritta a Filippi nel 55-56 d.C. circa, cioè l'anno successivo a
quella prima ai Corinti, scritta ad Efeso nel 53-54 d.C. circa, dove
avvenne la rivolta degli argentieri. Gli eventi, quindi, erano
abbastanza recenti, quando Paolo scrive la Seconda Lettera ai
Corinti, menzionando il pericolo corso ad Efeso. Lo si arguisce anche
dal modo di esprimersi di Paolo in 2Cor 1,8, che dà l'idea di un
pericolo in cui era incorso di recente e che doveva essere ancora
vivo nella memoria della comunità di Efeso.
Altri
nomi variamente titolati (vv.5b-16)
Segue ora una lista di 24 nomi dei quali non conosciamo nulla oltre a ciò che Paolo stesso ricorda di loro e che li qualifica in vario modo in riferimento ai rapporti che essi ebbero con lui. Un appunto va fatto sul v.7 dove si menzionano Andronico e Giunia, probabilmente marito e moglie, compagni di prigionia di Paolo, definiti come “insigni tra gli apostoli”, quindi essi stessi apostoli, posti ad un elevato livello rispetto agli altri apostoli. Il termine “apostolo” qui non va inteso in senso istituzionale e dottrinale, che la chiesa posteriore a Paolo ha ristretto ai Dodici, ma va inteso in senso lato come di persone designati alla diffusione del vangelo e alla fondazione di comunità credenti, di cui erano responsabili. Quindi punti di riferimento solidi per le comunità credenti.
L'elenco
dei saluti termina con l'esortazione a salutarsi reciprocamente con
il bacio santo. Un'espressione quest'ultima che si ritrova quattro
volte in altrettante lettere di Paolo (Rm 16,16; 1Cor 16,20; 2Cor
13,12; 1Ts 5,26) e una quinta volta in 1Pt 5,14 con la variante
“bacio della carità”. Espressioni queste che si riferiscono
all'uso liturgico all'interno delle comunità cristiane ed era
espressione di comunione e di carità tra i suoi membri. La sezione
dei saluti si chiude con l'annotazione: “Vi salutano tutte le
chiese di Cristo”, da intendersi come tutte le chiese che fondano
la loro fede in Cristo, esprimendo così la loro comunione nella
loro unica identità che è Cristo, che di tante ne fa una sola.
Un'ultima
esortazione: guardarsi dalle deviazioni dottrinali
(vv.17-20)
Nel contesto dei saluti (vv.3-16.21-23) compare all'improvviso e del tutto inatteso, quasi come un ricordarsi all'ultimo momento, un problema, che forse non era così evidente nella comunità di Roma come quello dei “forti” e dei “deboli”, a cui Paolo aveva dedicato l'ampia sezione 14,1-15,13, ma comunque presente e minaccioso e tale da poter montare, creando divisioni e scandali all'interno di una comunità, che era al centro dell'impero e sotto l'attenzione di tutte le altre chiese variamente sparse in esso (vv.1,8b; 16,19a). Non è chiaro di che si trattasse esattamente, ma da quanto si può ricavare dagli accenni forniti sembra che all'interno della comunità ci fossero state delle persone, molto abili nel parlare e nell'argomentare le loro tesi, quindi persone molto istruite, così da indurre “i cuori semplici”, cioè persone non particolarmente avvedute e dottrinalmente poco preparate, a cadere nei loro discorsi, che si ponevano in collisione con la dottrina e l'insegnamento ricevuto, creando in al modo condizioni di scandali, divisioni e discordie. Chi erano questi personaggi che rischiavano di mettere sossopra la solidità della fede della comunità di Roma? L'unico indizio è “costoro, infatti, non servono a Cristo nostro Signore, ma al loro ventre”. Si potrebbe pensare a dei giudeocristiani giudaizzanti, che ponevano questioni di puro e impuro sui cibi, ma questa questione ha già formato oggetto di riflessione e di ampia argomentazione nella sezione dei “forti” e dei “deboli” (14,2-3.14-15.20-21). Non è, quindi, probabile, considerata la sua stringatezza di pensiero, che Paolo ci torni sopra una seconda volta. Quindi con quel “non servono a Cristo nostro Signore, ma al loro ventre” è da intendersi soltanto che questi tali più che servire a Cristo, pensavano soltanto ai loro bassi e vili interessi, puntando a creare intorno a loro stessi dei gruppuscoli, così da far emergere la loro presenza all'interno della comunità. Non penso, con quello che ci troviamo in mano oggi, che si possa andare oltre nel campo delle ipotesi, diversamente si rischia di sconfinare nella fantasia.
Se
il primo intento di questo intervento è quello di denunciare una
certa situazione pericolosa all'interno della comunità di Roma
(vv.17-18), il secondo motivo (v.19) è quello di rafforzare nel
bene, rendendo vigile e attenta la comunità di Roma nei confronti di
questo male subdolo, che potrebbe esplodere causando seri danni non
solo per la chiesa di Roma, ma anche per le altre chiese che a questa
guardano.
Il v.20 chiude questo breve intervento, che da come si struttura sembra essere quasi un biglietto vagante, che nella sistemazione degli scritti canonici del II sec., qualcuno ha inserito qui, perché non andasse perduto. Ovviamente siamo sempre nel campo delle ipotesi.
Significativo quel “Dio della pace”, cioè che crea e dona concordia e comunione di intenti, che sembra contrapporsi ai pericoli delle discordie e degli scandali con cui inizia al v.17, aprendo contro costoro, equiparati, con un linguaggio escatologico ed apocalittico, a Satana, un giudizio di condanna con quel “spezzerà” molto presto, con cui Paolo si riferisce alla venuta imminente di Cristo. I toni, quindi, sono escatologici.
Ed
ecco la chiusura, si badi bene, non della Lettera, ma di questo
frammento (vv.17-20) con il saluto cristiano: “La grazia del
Signore nostro Gesù (sia) con voi”. Un'espressione che ritroviamo
sostanzialmente identica in 1Cor 16,23 e molto simile in 2Cor 13,11;
Fil 4,9b; Col 4,18b; 1Ts 5,28; 1Tm 6,21b e 2Tm.
Collaboratori
di Paolo che si uniscono ai suoi saluti (vv.21-23)
Interrotta da questo frammento, continua ora la trafila dei saluti, questa volta non più di Paolo, ma dei suoi collaboratori, tra cui compare tra i primi Timoteo, al quale Paolo ha indirizzato due lettere, cosiddette pastorali. Un personaggio questo che probabilmente Paolo ha generato nella fede (1Tm 1,2) e che tratta con l'affettuosità di un padre verso il proprio figlio, di cui si preoccupa per la sua salute precaria in 1Tm 5,23 e gli suggerisce una diversa dieta: “Smetti di bere soltanto acqua, ma fa uso di un po' di vino a causa dello stomaco e delle tue frequenti indisposizioni”.
I
saluti contenuti ai vv.22-23 non sono di Paolo, ma di Terzo, il
segretario di Paolo, che scrive questa Lettera sotto sua dettatura. È
l'unico scrivano che emerge dall'anonimato dei numerosi scrivani che
servivano Paolo. A lui egli associa anche Gaio, che lo sta ospitando,
sempre nello spirito di 12,13, dove si invitano i credenti ad
interessarsi dei problemi dei santi, praticando tra loro
l'ospitalità. A questi si aggiunge anche un personaggio eminente,
Erasto, l'amministratore della città, probabilmente di Corinto, da
dove Paolo scrive questa Lettera ai Romani tra il 57-58 d.C., e al
quale associa Quarto, definito genericamente “fratello”, cioè
credente. Quanto ad Erasto, questi è un personaggio che compare
anche in At 19,22 associato, come qui in Rm 16,21a.23b, a Timoteo,
dove Luca li definisce “due suoi aiutanti”; e in 2Tm 4,20 dove si
dice che “Erasto
è rimasto a Corinto”,
dove era amministratore della città. Probabilmente si tratta dello
stesso personaggio.
Un
finale inatteso (vv.24-27)
La Lettera ai Romani termina in un modo molto insolito e del tutto difforme dalle altre Lettere paoline, rassomigliando, invece, molto alla chiusura di 2Pt 3,18b e a Gd 1,24-25, che terminano entrambe con una breve dossologia. La quale cosa ci porta a concludere che la dossologia di Rm 16,25-27 nulla ha a che vedere con questa Lettera, sulla quale cosa sembra essere d'accordo anche la critica letteraria, che mette tra parentesi quadre la pericope circoscritta dai vv.25-2755. La mia personale ipotesi è che questa dossologia sia stata inserita da un qualche amanuense nel II sec. d.C. per solennizzare la Lettera ai Romani, che risulta un vero monumento dottrinale e forse sulla falsariga di 11,33-36, posta a conclusione della trilogia 9-11 con cui Paolo, con grande sofferenza personale (9,1-3; 10,1-2), cercava di capire i destini di Israele in rapporto a se stesso e con il piano salvifico di Dio nei confronti del mondo pagano.
La Lettera, benché la critica letteraria vi abbia messo sopra dei punti interrogativi in quanto di dubbia autenticità, doveva terminare, a mio avviso, con il v.24, che di fatto è stato tralasciato, perché costituiva una ripetizione del v.20b, che chiudeva, però, non questa Lettera, che invece, prosegue con i saluti dei collaboratori di Paolo alla comunità di Roma (vv.21-23), ma un frammento di un qualche altro scritto di Paolo o, semplicemente, un biglietto occasionale di esortazione, che è stato incluso nella lettera ai Romani, probabilmente nel momento in cui si cominciavano a raccogliere e a classificare gli scritti neotestamentari per essere sottoposti al vaglio canonico nel II sec. d.C. La pericope vv.17-20, infatti, è stata collocata alla fine della lettera nella sezione dei saluti, risultando completamente fuori posto.
Il
v.24, pertanto, va tenuto, perché di fatto chiude con quel “amen”
finale la Lettera ai Romani e non va messo in relazione al v.20b,
quasi ne fosse un doppione, poiché quest'ultimo chiude quel inserto
circoscritto dai vv.17-20, che risulta essere una forzatura e nulla
ha a che vedere con la Lettera ai Romani. Se, infatti, si eliminasse
il v.24, come è stato fatto, la Lettera di Paolo si chiuderebbe in
modo del tutto anomalo rispetto alle altre sue lettere, poiché
terminerebbe con i saluti di Erasto e del fratello Quarto alla
comunità di Roma. Nessuna lettera si chiude in questo modo, ma tutte
si chiudono con il saluto cristiano molto simile al v.20b e a questo
v.24, che è stato soppresso: “La grazia del Signore nostro Gesù
Cristo (sia) con voi, amen”56.
La
dossologia: una densa riflessione cristiana sul progetto salvifico
disvelato in Cristo (vv.25-27)
L'inno dossologico che segue non sembra essere di Paolo, quanto di un qualche amanuense che lo ha variamente composto, mutuandone le parti dagli stessi scritti neotestamentari, che dovevano essergli ben noti e in quanto tali, ormai ampiamente diffusi e affermati presso le diverse comunità, che ormai popolavano l'impero romano. Una situazione simile ci porta intorno al II sec. d.C., a mio avviso, data di nascita di questa dossologia. Nel v.25a, infatti, ricorre l'espressione “secondo il mio Vangelo” (kat¦ tÕ eÙaggšliÒn mou, katà tò euanghélión mu), che ritroviamo identica in Rm 2,1 e 2Tm 2,8. Più che una firma di Paolo sembra essere un riporto da testi paolini, per far sembrare questa dossologia un testo paolino. Nel v.25b riecheggiano Ef 3,5-9 e Col 1,26; mentre nel v.26a non è difficile trovare traccia di Rm 1,2; 3,21, ma anche di At 3,18.24; mentre nel v.26b risuona Rm 1,5. La parte terminale della dossologia, v.27b la si ritrova sostanzialmente identica in Rm 11,36; 2Tm4,18 e in 2Pt 3,18. Si tratta, dunque, di una sorta di miscellanea scritturistica, che dice quanto addentro alla letteratura neotestamentaria fosse l'anonimo autore di questa dossologia, con la quale ha voluto solennizzare questa Lettera ai Romani, un capolavoro dottrinale e fondamentale della fede.
Il destinatario di questa dossologia è “Colui che può fortificarvi”, cioè lo stesso Dio Padre che è l'autore primo del progetto salvifico, che si è manifestato ed attuato in Cristo. Il verbo “sthr…xai” (steríxai), che ho tradotto con “fortificarvi”, significa anche “fissare saldamente, collocare saldamente, piantare”. Un verbo che dà l'idea di forza, di fermezza, di vitalità ed energia, che richiamano da vicino il dono della salvezza, che consiste nella trasformazione rigenerante del credente da uomo decaduto a figlio di Dio e partecipe della vita stessa di Dio, per mezzo della parola rigenerante del “mio Vangelo e la predicazione di Gesù Cristo”. Due espressioni equivalenti, che potrebbero risolversi in una endiadi: “il mio Vangelo che è la predicazione di Cristo” (1Ts 2,13). Quindi il messaggio rigenerante alla vita divina è quello di Cristo, che risuona nella predicazione apostolica (1Pt 1,23).
Il mistero taciuto per i secoli eterni si richiama al disegno del Padre che è quello di ricondurre all'obbedienza della fede non solo Israele, ma anche tutti i popoli pagani, puntando, quindi, ad una salvezza universale, richiamato in Ef 3,4-6: “Dalla lettura di ciò che ho scritto potete ben capire la mia comprensione del mistero di Cristo. Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo”. E similmente in Col 1,26-27: “cioè il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria”. Un mistero, cioè un disegno salvifico, che in qualche modo era stato preannunciato dai Profeti nelle Scritture “secondo il comando del Dio eterno”, cioè secondo la volontà stessa del Padre, che ha voluto che tale “mistero”, cioè disegno salvifico universale, rivelatosi e attuatosi in Cristo Gesù.
Il
v.27 riprende l'intonazione iniziale del v.25a, specificando come il
“Colui che può fortificarvi” altri non è che il “Dio
sapiente”, della cui sapienza Paolo già aveva intessute le lodi in
11,33-36. Una sapienza che inerisce al “mistero”, cioè al
disegno di salvezza universale rivelatosi ed attuatosi nel suo
Cristo. Lodi e riconoscimenti che non vanno direttamente dal credente
al Padre, ma attraverso il Mediatore unico e universale, Sacramento
d'incontro tra il Padre e gli uomini, Gesù Cristo: “
a Lui la gloria per i secoli, amen”.
Note
1Da questi 2033 versetti che compongono gli scritti paolini sono stati scorporati i 303 versetti che compongono la Lettera agli Ebrei, la quale, benché inserita nel Corpus paulinum, tuttavia non è attribuile né a Paolo né alla sua scuola.
2Quando qui Paolo parla di “aver ricevuto dal Signore” non si riferisce a visioni particolari, ma ad una Tradizione che viene fatta risalire al Signore.
3Traduzione: L'imperatore Claudio “espulse da Roma i Giudei che creavano tumulti sotto la spinta di Cresto”. Il nome “Cresto” va compreso come una deformazione di “Cristo”, appellativo che era attribuito a Gesù, da cui ne seguì quello di “cristiani”, quali seguaci di Cristo. A Roma vi era la presenza di due folte comunità di Giudei e di cristiani, che, probabilmente per motivi di proselitismo, non di rado creavano problemi di ordine pubblico, così che l'imperatore Claudio pensò bene di espellere da Roma i Giudei, ma con loro anche i cristiani.
4Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II,22,1-2: “1. Come successore di Felice, Nerone inviò Festo, davanti al quale Paolo fu processato e poi mandato prigioniero a Roma. Era con lui Aristarco, che l'apostolo, in un passo delle sue lettere chiama giustamente compagno di prigionia (Col 4,10a ndr). Anche Luca, che ha riportato per iscritto gli Atti degli apostoli, terminò a questo punto la sua narrazione, precisando che Paolo passò a Roma due interi anni in libertà e vi predicò senza ostacoli la parola di Dio. 2. Dopo aver sostenuto la propria difesa in giudizio, si dice che ripartì per il ministero della predicazione, ma ritornò una seconda volta a Roma sotto Nerone e vi subì il martirio. Durante la sua prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, in cui accenna alla sua prima difesa ed alla fine imminente”
5Gustav Adolf Deissmann (1866-1937) è uno storico e teologo tedesco, il cui nome è legato ad approfonditi studi di filologia dell'Antico e del Nuovo Testamento e sul cristianesimo primitivo.
6Traduzione: L'imperatore Claudio “espulse da Roma i Giudei che facevano continuamente tumulti, sotto la spinta di Cresto”.
7La precisazione non è inutile, poiché alcune lettere che compongono la letteratura neotestamentaria del I sec d.C. o nei primissimi decenni del II, benché si presentino sotto forma di lettera, in realtà, non lo sono perché o manca il prescritto o il postscritto, lasciando a vedere che sono, in realtà, piccoli trattatelli di qualche autore anonimo posti a edificazione delle comunità credenti. Fanno parte di questa categoria, a titolo esemplificativo, la Lettera agli Ebrei, totalmente priva di prescritto e postscritto; la Lettera di Giacomo, la quale pur aprendosi con un breve prescritto, i cui destinatari non sono ben identificati se non in senso universale, manca totalmente del postscritto, cioè dell'epilogo finale e dei saluti; similmente la Seconda Lettera di Pietro manca di un vero prescritto, perché non sono precisati i destinatari, né vi è un postscritto. Ugualmente dicasi per la Lettera di Giuda.
8Cfr. a titolo esemplificativo Gen 26,24; Nm 12,7; Gs 1,2.7; 2Sam 3,18; 7,5; Sal 88,21;
9Cfr. Rm1,1; 15,6; 2Cor 11,7; 1Ts 2.8.9
10Cfr. Mt 1,1; Mc 10,47.48; 12,35; Lc 18,38.39; 20,41; Gv 7,42
11Mi rendo conto che con queste mie attestazioni ho rotto la plurimillenaria convinzione dell'immutabilità di Dio, che Aristotele aveva definito il Motore Immobile. Ma se non ammettiamo che Dio nel suo entrare nella storia abbia abbia dovuto assoggettarsi necessariamente al divenire storico, che avendo investito suo Figlio, ha necessariamente investito l'intera divinità trinitaria, allora dobbiamo concludere che tutto il cristianesimo si basa su di una finzione docetica.
12Ef 1,16; Fil 1,3; 1Ts 1,1-2; 2Tm 1,3; Fm 1,4
13Cfr. Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23
14Cfr. Summa theologiae, I, q..2, a.3
15Cfr. Dt 7,9; Sal 30,6; 51,10; 85,15; Is 65,16
16Per i vv.10b-12 cfr. Sal. 14,1-3 gr; per il v.13 cfr. Sal 5,10 gr; per il v.14 cfr. Sal 10,7 gr; per i vv.15-17 cfr. Is 59,7-8; per il v.18 cfr. Sal 36,2
17At 26,9-10 raccontano dell'attività persecutoria di Paolo contro i cristiani e come Paolo anche lui votasse la loro condanna a morte. Poiché tale prerogativa apparteneva al sinedrio è da pensare che Paolo ne facesse in qualche modo parte.
18Cfr. Gen 12,1-3; 17,2-6; 22,17-18
19Cfr. Gs 7,19; Is 42,12; Ger 13,16; Mt 9,8; Lc 17,18; Gv 9,24; At 21,20; Rm 14,11; 15,6.
20Per una migliore comprensione di Gen 3 e di quanto qui Paolo sta dicendo circa l'universalità del peccato e della morte, conseguenti alla caduta di Adamo ed Eva, rimando al mio studio, pagg 9-17, in https://digilander.libero.it/longi48/Per%20un%20cammino%20cristiano.pdf
21Altri due sensi che il Rocci prospetta sono di luogo e di tempo, da escludersi entrambi, poiché non applicabili in nessun modo al contesto del cap.5. Non rimane, pertanto, che il senso causale, che tuttavia, va interpretato nell'ambito dell'intero contesto del cap.5
22Cfr. Rm 1,5; 6,16; 15,18; 16,19; 2Cor 9,13;10,5; 1Pt 1,22
23Cfr. Mt 8,12; 13,42.50, 22,13; 24,51; 25,30.
24Cfr. Gen 6, 5-7.11-13
25Cfr. Sal 45,5; 47,3; 67,17; 73,2; 75,3; 131,13.
26Cfr. Rm 1,7; 1Cor 6,1.2; 2Cor 1,1; 8,4; 9,1.12; 13,12; Ef 1,1.15; 3,8; 5,3; 6,18; Fil 1,1; 4,21.22; Col 1,2.4.26; 3,12; 2Ts 1,10; 1Tm 5,10; Fm 1,5.
27Cfr. Lv 19,2; 20,26; 21,8; Gs 24,19; 1Sam 2,2; 2Re 19,22; 2Mac 14,36; Gb 6,10; Sal 77,41; 88,19; Prv 9,10; Sir 23,9
28Cfr. 1Cr 28,9; 2Cr 16,9; Gb 10,6; Sal 10,4.5; 32,14; 65,7; 138,1.3.23; Prv 15,3; 16,2; 20,27; Ger 17,10
29Cfr. Mt 22,37.39; Mc 12,30-31; Lc 10,27.
30Cfr. Rm 5,17; 2Tm 2,12; Ap 5,10; 20,6; 22,5.
31Cfr. Sap 7,1; 15,7; Sir 27,5; 33,13; Is 29,16; 41,25; 45,9; 64,7; Ger 18,2-6
32In tal senso si si veda 6,1-2 con cui si cerca di precisare le affermazioni di 5,20-21, che potevano essere comprese come se il peccato fosse il motore della grazia; o 6,15 che cerca di precisare il senso di 6,14b per evitare che si potesse comprendere come, non essendo più sotto la Legge ma sotto la grazia, si potesse peccare liberamente, poiché non c'è più nessuna Legge che ci possa contestare il nostro peccato; o ancora i vv.7,7-11 che devono precisare il senso di 7,5-6 dove si attesta che le passioni e i peccati operano per mezzo della Legge. L'osservazione poteva essere: allora la Legge fomenta il peccato; e così similmente i vv.7,12-13 servono a contestare le possibili conclusioni errate, che si potevano dedurre dai vv.7,9-11.
33Il nome di Elia deriva dall'ebraico 'Eliyyahu, composto dal nome El (Dio) e Yah, abbreviazione che sta per Yahweh, altro modo per dire Dio. Quindi Elia possiede in se stesso la doppia radice con cui Dio era chiamato nella tradizione Eloista e in quella Javista, per cui si ha che “Dio è Dio”, cioè “Elia”.
34L'espressione “Non sia mai!” (m¾ gšnoito, mè ghénoito!) compare nelle Lettere di Paolo quattordici volte, di cui dieci volte nella Lettera ai Romani; tre volte nella Lettera ai Galati e una sola volta in 1Cor 6,15. Tutte lettere, quella ai Romani e ai Galati, che si muovono su un sensibile sfondo dottrinale.
35Il testo della TM è il seguente: “Chi mi ha fatto un anticipo ch’io debba rimborsare? Tutto ciò che c’è sotto il cielo mi appartiene”. Paolo che di solito segue la LXX, qui l'abbandona e preferisce la versione TM, più consona ai suoi intenti. Il testo della LXX recita: “O chi si contrapporrà a me o mi resisterà, se tutte le cose sotto il cielo sono mie?” (Gb 41,3). La CEI preferisce una traduzione diversa del testo, più deduttiva, adattandola al contesto: “Chi mai lo ha assalito e si è salvato? Nessuno sotto tutto il cielo”. Si tratta di un versetto, ma non l'unico, piuttosto controverso.
36Le espressioni “generata da Dio” e “figlia di Dio” con riferimento alla creazione vanno intese in senso metaforico, certamente non reale.
37Il termine “Amen” deriva dalla radice ebraica “ 'mn” che dà l'idea di fermezza, solidità, certezza e significa “certamente, veramente, sicuramente”. Per cui pronunciare “Amen” significa attestare che quanto si è detto risponde a piena verità, configurandosi come una sorta di giuramento.
38Cfr. i termini greci in 12,3.16; 14,6; 15,5
39Cfr. Lc 16,8; 20,34; Rm 12,2; 1Cor 1,20; 2,6.8; 3,18; 2Cor 4,4; Ef 1,21.
40Per un maggior approfondimento del termine “santi” nelle Lettere di Paolo, cfr. pag 112 del presente studio.
41Sul tema dell'ospitalità nel I sec. d.C. cfr. A. G.Hamman, La vita quotidiana dei primi cristiani, ed RCS Rizzoli Libri Spa, Milano1993, pagg. 48-60
42Sul tema della colletta cfr. pag 11 del presente studio sulla Lettera ai Romani.
43Cfr. Es 20,13-17; Dt 5,17-21; Lv 19,18.
44Cfr. 1Cor 7,29-31; 15,51-52; Ts 3,13; 4,15-17; 5,23; 2Ts 2,1; Gc 5,7a
45Sulla questione cfr. G. Barbaglio, Paolo di Tarso e le origini cristiani, Cittadella editrice, Assisi 1989, pag.270
46Cfr. 2Cor 5,17; Gal 6,15.
47Cfr. Gv 4,48; At 14,3; 2Ts 2,9; Eb 2,4
48Per un maggiore approfondimento sul tema della colletta vedasi pagg.11-12 del presente studio sulla Lettera ai Romani.
49 Sulla questione cfr. la voce “Colletta per i santi”, paragrafo 4, i risultati della colletta, in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999
50Sulle complesse vicende dei rapporti tra Paolo e la chiesa di Gerusalemme e in particolare con Giacomo, la fine della colletta, l'arresto di Paolo, il suo viaggio in catene a Roma e il suo soggiorno qui nonché la sua morte, cfr. R. Fabris, Paolo, l'apostolo delle genti, Paoline Editoriale Libri, Figlie di San Paolo, Milano, 1997; pagg.443-498
51Cfr. Rm 15,32; 16,20; 2Cor 13,11; Fil 4,9; 1Ts 5,23; 2Ts 3,16; Eb 13,20.
52Confronta la voce “Amen” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata, 2005.
53Il v.24, che viene saltato perché non sembra autentico, doveva chiudere la lettera, similmente ai successivi vv.25-27, che la critica letteraria ha posto tra parentesi quadre per indicarne la dubbia autenticità.
54Sulla questione cfr. la voce “Collaboratori, Paolo e i suoi” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne - R.P. Martin – D.G. Reid, Edizione italiana a cura di Romano Penna, Edizioni Sal Paolo, Cinisello Balsamo,1999 – Seconda edizione 2000.
55Cfr. Nestle-Aland, Novum Testamentum Graece et Latine, 27^ edizione, 1993
56In tal senso si confronti le chiusure delle lettere di Paolo o di scuola paolina: 1Cor 16,23; 2Cor 13,13; Gal 6,18; Ef 6,23-24; Fil 4,23; Col 4,18; 1Ts 5,48; 2Ts 3,18; 1Tm 5,20-21; 2Tm 4,22; Tt3,15; Fm1,25; Eb 13,24; 1Pt 5,14