LETTERA AI GALATI


Traduzione e commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi



Scarica PDF

Scarica traduzione del testo greco




Preambolo

Per poter comprendere in tutta la sua profondità anche una sola lettera di Paolo è indispensabile conoscere chi è Paolo, poiché quando egli scrive trasfonde in quella lettera non solo il suo pensiero, ma tutto se stesso, poiché non c'è distinzione tra il pensiero di Paolo e i suoi sentimenti, la sua emotività, la sua umoralità, la sua passionalità, la sua veemenza, che rasenta il fanatismo, cioè l'assolutizzazione della sua profonda passione per Cristo, che non conosce ostacoli e sfida ogni pericolo e ogni limite imposto dalla ragionevolezza umana. Le sue lettere, infatti, non sono dei freddi e razionali trattatelli di cristologia o di teologia, ma strumenti attraverso i quali Paolo si rende presente con tutto se stesso presso la comunità, a cui egli indirizza la sua lettera. Le sue lettere pulsano della vita stessa di Paolo, che definire un appassionato del Cristo risorto sarebbe alquanto riduttivo. Lo potremmo definire come un veemente e indomabile fanatico del Cristo risorto, per il quale sopporta ogni sofferenza e peripezia (Rm 8,35-39; 2Cor 11,23-27) e attraverso il quale egli vede e legge la realtà che lo circonda e la vita stessa in tutte le sue espressioni. Tutti i problemi che egli è chiamato ad affrontare all'interno delle comunità da lui fondate sono approcciati e risolti attraverso e nel Cristo risorto. E tutto ciò è possibile perché tra Paolo e Cristo vi è una sovrapposizione di persone, che arriva ad essere una identificazione. Significative e rivelative in tal senso sono le sue affermazioni con cui egli definisce se stesso: “Sono stato crocifisso con Cristo: ora non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19b-20a); e, similmente, in modo più lapidario e incisivo: “Per me il vivere è Cristo” (Fil 1,21a). Qui c'è tutto Paolo.

Di seguito, pertanto, prima di introdurci alla lettura esegetica e al commento della Lettera ai Galati, cercherò di tratteggiare la figura di Paolo, la sua personalità, la sua esperienza con il Cristo risorto, la sua strategia missionaria, il suo pensiero, che sottende, qua e là, le sue lettere. Tutti elementi necessari per comprenderle, in particolare quella ai Galati, dove Paolo esprime con irruenza tutto se stesso. Una lettera importante, che formerà da base dottrinale a quella ai Romani, scritta circa un anno dopo quella ai Galati, tra il 57 e il 58 d.C., e ne riprende le tematiche dottrinali, dando loro uno sviluppo più organico e pacato e, quindi, molto più profondo. Del resto ben diversi tra loro erano i contesti in cui le due lettere erano sorte: di duro rimprovero e accorata difesa del Vangelo, che egli aveva predicato ai Galati, che lo avevano abbandonato per abbracciare il giudaismo, quella ai Galati; di conoscenza e richiesta di aiuto ad una comunità che egli non aveva fondato, ma di cui doveva avere l'appoggio economico e il sostegno spirituale per la sua futura missione in Spagna, quella ai Romani.

Note generali su Paolo

Dopo Gesù, Paolo è l’apostolo che maggiormente ha influenzato il pensiero cristiano; per alcuni è considerato il “fondatore del cristianesimo”, nel senso che il cristianesimo con Paolo uscì dai ristretti confini di Gerusalemme e della Palestina, staccandosi nettamente dal giudaismo ed aprendosi, invece, all’intero mondo dei Gentili, che costituiranno per Paolo un privilegiato terreno di conquista e di lavoro (Gal 2,7-9; Rm 1,5; 15,15-19).

Questa, infatti, è la specifica vocazione di Paolo, che egli stesso evidenzia in Gal 2,7-8: “ma per questo, avendo visto che mi fu affidato il vangelo dell'incirconcisione come Pietro (quello) della circoncisione, colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti”. E sarà proprio su questo terreno dei Gentili che Paolo dovrà scontrarsi con i giudeocristiani, che sostenevano la necessità di sottomettersi alla Legge di Mosè, tramite la circoncisione, per accedere alla salvezza in Cristo.

Un duro scontro questo, che farà soffrire non poco Paolo e che porterà al primo concilio della storia, quello di Gerusalemme nel 49 d.C., ricordato in At.15,1-33 e in Gal.2,1-10.

Egli è l’unico apostolo di cui abbiamo molta documentazione ed è il più commentato e conosciuto autore del N.T. Di lui o della sua scuola di pensiero si hanno complessivamente tredici lettere e numerosi riferimenti autobiografici, nonché ben 20 capitoli, che Luca dedica a Paolo e alla sua attività negli Atti degli Apostoli (capp.8-28). Neppure Pietro e Giacomo, che erano ritenute le colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), ebbero tanta risonanza. Di loro o comunque a loro attribuite ci sono rimaste soltanto due lettere di Pietro e una di Giacomo per complessivi 274 versetti.

Notevole il peso di Paolo e della sua scuola di pensiero, basti pensare che su 7957 versetti, che compongono l'intero Nuovo Testamento canonico, ben 20331 sono di Paolo o di scuola paolina, cioè il 25,55% dell'intero canone neotestamentario; mentre dei 27 libri di cui è composto il N.T. 13, quindi quasi il 50%, sono lettere di Paolo o di scuola paolina. Ma ciò che più lo contraddistingue è la profondità, la potenza e l'originalità di pensiero della sua teologia e della sua cristologia; nonché, da un punto di vista storico, le notizie che, tramite le sue lettere, ci pervengono circa la struttura, la vita e i problemi delle prime comunità credenti, cioè della chiesa nascente. Così che potremmo affermare, senza ombra di dubbio, che senza la persona di Paolo e della sua opera letteraria oggi il cristianesimo non avrebbe raggiunto la profondità del suo pensiero teologico e cristologico e probabilmente sarebbe stato fagocitato dal giudaismo o, quanto meno, avrebbe perso molto della sua originalità.

Una teologia e una cristologia quelle di Paolo del tutto originali e inedite. Basti pensare che, allorché Paolo scrive le sue lettere, tutte tra il 50 e il 60 d.C., i vangeli non erano stati ancora scritti. Il primo, quello di Marco, verrà composto tra il 65 e il 69 d.C., e Paolo, per primo, introdurrà le espressioni “vangelo” e “evangelizzare”, che ritroviamo nelle sue lettere, il primo, per ben 60 volte e 21 volte il secondo. Ed è sempre lui, per primo, a definire la sua predicazione come “il mio vangelo” (Rm. 2,16; 2Tm 2,8). Egli poi introdurrà nuovi termini e nuovi verbi, quindi, un nuovo vocabolario e un nuovo linguaggio per esprimere la novità dell'evento Cristo morto-risorto in quanto tale e in rapporto ai credenti.

Tuttavia le novità che Paolo predica non sono frutto di fantasia, ma si radicano nella fede, che egli ha acquisito e maturato presso le comunità credenti, che ruotavano attorno alle aree di Gerusalemme, Damasco ed Antiochia, dove rimarrà per una decina d'anni dopo l'evento di Damasco (circa 35 d.C.), prima di intraprendere i suoi viaggi missionari (45-57 d.C.), e delle quali riporta sovente nelle sue lettere formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da queste comunità. Una fede, quindi, non improvvisata o inventata, ma che si radica in quella delle comunità credenti e, quindi, della Tradizione. Lo ricorderà due volte in 1Cor 11,23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore2 quello che a mia volta vi ho trasmesso”; e similmente in 1Cor 15,3: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto”. Ma ciò che Paolo trasmette non è una ripetizione meccanica e pedissequa di formule dottrinali, ma il tutto passa attraverso il potente filtro del suo pensiero innovativo e della sua esperienza del Cristo risorto. Paolo, dunque, riflette su quanto ha ricevuto e lo elabora personalmente, adattandolo alle varie situazioni delle comunità, che gli si presentano di volta in volta.

Le sue lettere, pertanto, scritte tutte tra il 50 e il 60, si presentano come delle risposte scritte a degli interrogativi posti dalle varie comunità o a loro problematiche interne. Lettere, quindi, occasionali. Di conseguenza la sua teologia e cristologia non si presentano come dei trattati dottrinali stesi a tavolino, ma nascono da situazioni contingenti e in risposta ai problemi posti dalle singole comunità.

Il linguaggio dei suoi scritti, pertanto, è caratterizzato dall’immediatezza, dalla spontaneità, dalla vivacità di espressione, che talvolta si carica di sentimenti forti e di emozioni violente, fino a sfociare nell’insulto verso i suoi detrattori. Ma questo modo di procedere pone dei limiti: infatti, non sempre conosciamo le circostanze che hanno prodotto le risposte di Paolo; del resto non era necessario che le precisasse in quanto erano ben conosciute dalle comunità interessate.

La profondità, la ricchezza, la complessità del pensiero di Paolo e il suo lungo periodare non sempre giocano a favore della sua chiarezza e della sua immediata comprensione. Ne dà testimonianza in tal senso l’autore della seconda lettera di Pietro: “… come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina” (2Pt. 3,15-16).

Tuttavia, questa lettera, di autore anonimo, databile tra il 120 e 135 d.C. circa, ci dà delle informazioni interessanti intorno agli scritti paolini e precisamente afferma che:

Ed è proprio per questa complessità di un pensiero innovativo, creativo e dirompente che Paolo trova lungo il suo cammino di evangelizzazione numerosi avversari e detrattori, che formano una sorta di fronte antipaolino, una specie di task-force di contro-evangelizzazione, formata prevalentemente da giudeocristiani giudaizzanti, cioè da cristiani provenienti dal giudaismo, ma che, non avendo ancora compreso la novità dell'evento Cristo, continuavano a praticare la Legge mosaica e a predicare la necessità della circoncisione per poter accedere alla salvezza, subordinando in tal modo la novità dell'evento Cristo a Mosè. Ne troviamo traccia in 2Cor11,13-15.22-23; 12,11; Gal 1,6-7; Fil 3,2.18; Rm 16,17-18; Col 2,8.

Questioni introduttive alla biografia paolina


A) Le fonti

Paolo, tra tutti i personaggi che si muovono nel N.T., è quello che storicamente ci offre una maggiore ricchezza di dati sia perché numerosi sono gli agganci storico-geografici che possiamo rilevare dai testi in nostro possesso, sia perché l’attività missionaria di Paolo fu piuttosto lunga e soprattutto straordinariamente densa (45-57 d.C.).

Due sono i pilastri fondamentali, che ci offrono il maggior numero di dati biografici di Paolo: da un lato, le sue Lettere, benché il quadro cronologico che ne risulta sia scarso e frammentario; dall'altro, gli Atti degli Apostoli, l'opera lucana che dedica ben 20 capitoli su 28, di cui e composta, alla figura di Paolo e alle sue imprese missionarie. Luca, tuttavia, per la sua opera usa fonti di seconda e terza mano, per cui non sempre i dati fornitici direttamente da Paolo coincidono esattamente da quelli offertici da Luca. In tal caso, la preferenza va sempre accordata alla testimonianza di Paolo. Vanno poi tenuti presenti gli intenti narrativi di Luca, che nel raccontare gli inizi della storia della chiesa, mostra maggiori interessi per gli aspetti teologici che biografici. In altri termini, Luca è si uno storico come egli reclama di essere nel suo prologo al vangelo (Lc 1,1-4), ma è uno storico interessato.

Tuttavia, da una prudente combinazione di questi Scritti, integrati da altre fonti storiche esterne, possiamo stilare, con discreta certezza, un quadro biografico abbastanza soddisfacente, in particolar modo per quello che va dall'evento di Damasco fino all'arrivo a Roma di Paolo come prigioniero. Rimangono fuori dal quadro biografico il periodo antecedente la sua conversione, al di là di qualche cenno, fornitoci in parte dagli Atti e in parte dallo stesso Paolo, e quello dei due anni successivi al suo arrivo a Roma, di cui si possono fare solo delle ipotesi.

B) I cardini della cronologia paolina

Benché la questione sulla cronologia sia un problema di difficile soluzione per la lacunosità delle fonti, tuttavia vi sono negli scritti di Paolo, in particolare nella Lettera ai Galati 1,11-2,14 e negli Atti degli Apostoli, dei punti di riferimento storici certi, ragionando sui quali si può ottenere, con discreta precisione una soddisfacente cronologia della vita di Paolo.

Primo testo

2Cor. 11,32-33: “A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così fuggii dalle sue mani”.

Il re qui menzionato è Areta IV, monarca del regno dei Nabatei, che governò dal 9 al 39 d.C. e al quale Caligola (37-41 d.C.) affidò il controllo, almeno parziale, della città di Damasco, inglobata nella provincia romana di Siria, per il periodo 37-39 d.C. Pertanto questa fuga di Paolo, calato dalla finestra in una cesta per sfuggire al re Areta, avvenne in questo periodo, probabilmente nel 38 d.C., ossia dopo tre anni dalla conversione, avvenuta intorno al 35 d.C.

Secondo testo

Gal 1,13-2,14 in cui Paolo riporta le tappe fondamentali da prima della sua conversione fino all’anno 49 circa, anno in cui avvenne il primo concilio di Gerusalemme, il primo della storia della chiesa. Dopo la sua conversione, avvenuta nell'anno 35 d.C. e che egli legge alla maniera degli antichi profeti (Gal 1,15-16), mentre era diretto a Damasco, fu folgorato dall'incontro con il Cristo risorto. Rimane presso la comunità credente di Damasco per tre anni, durante i quali, compie, di sua iniziativa, un viaggio missionario in Arabia, facendo poi ritorno a Damasco (Gal 1,17).

Tre anni dopo (qui il dopo va sempre riferito al “dopo l'evento di Damasco”), quindi nel 38 d.C., fa la sua prima visita a Gerusalemme per conoscere i capi della chiesa madre, Pietro e Giacomo e vi rimane quindici giorni (Gal 1,18). Poi riprende la sua attività missionaria, sempre di sua iniziativa nelle regioni della Siria e della Cilicia (Gal 1,21)

Quattordici anni dopo l'evento di Damasco (35 d.C.), quindi nel 49 d.C., torna nuovamente a Gerusalemme, assieme a Barnaba e a Tito, per dirimere una questione di vitale importanza, a motivo della quale tutti i responsabili della chiesa di Gerusalemme, Pietro, Giacomo e Giovanni si ritrovarono assieme per prendere una decisione comune. La questione era se i pagani, convertiti alla fede in Cristo, dovessero essere circoncisi e, quindi, sottoposti alla Legge mosaica (Gal 2,1-10).

Terzo testo

At 18,1-2: “Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto. Qui trovò un Giudeo chiamato Aquila, oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall'Italia con la moglie Priscilla, in seguito all'ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei. Paolo si recò da loro”.

Di questo decreto di Claudio (41-54) parla anche Svetonio nella sua opera “Vita dei Cesari” nella parte riferita a Claudio, il quale “Judeos assidue tumultuantes impulsore Chresto Roma expulit3.

La data di questo editto di espulsione è solitamente posta nel 49 d.C.

Quarto testo

At 18,12-17: “Mentre era proconsole dell’Acaia Gallione, i Giudei insorsero in massa contro Paolo…

Lucio Giunio Gallione, fratello di Seneca, era proconsole a Corinto tra il maggio del 51 e il maggio del 52. La data si ricava da un’iscrizione epigrafica trovata a Delfi nel 1905, che riporta il testo di una lettera di Claudio allo stesso Gallione. In questa lettera Claudio menziona di essere stato proclamato imperatore per la 26^ volta. Questa 26^ acclamazione ebbe luogo tra il gennaio e l’agosto del 52. Ora, poiché il proconsolato durava un anno a partire da aprile, il rescritto può essere giunto a Gallione o all’inizio o alla fine del suo proconsolato. Nel primo caso la data è 52-53 nel secondo caso, più probabile, tra il 51 e il 52. È, dunque, in questo periodo, probabilmente agli inizi del 52 che Paolo viene accusato davanti a Gallione.

L'episodio qui riportato concorda con il secondo viaggio missionario di Paolo (49-52 d.C.), che in quell'occasione visitò Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto.

Deduzioni e tentativo di costruire una cronologia

Alla luce di questi quattro punti cronologici di riferimento e con l’aiuto di un certo ragionamento storico, si può tentare di stilare una cronologia paolina di massima. Ogni data qui proposta va, quindi, sempre accompagnata da un ”circa”:

Per altri, invece, Paolo dopo i due anni di prigionia compie altri viaggi che si collocano tra il 63 e il 67, anno in cui muore martire4


Cenni biografici di Paolo

Sulla base della cronologia qui sopra ipotizzata e con l'aiuto delle due fonti a nostra disposizione, Lettere paoline e Atti degli Apostoli, cercherò di delineare alcuni cenni biografici di massima su Paolo.

Paolo nasce tra il 5 e 10 d.C. a Tarso, capoluogo della Cilicia, posta sul fiume Cidno, che collega il Mediterraneo con l’interno. Tarso è un importante centro commerciale e di cultura greca (At 22,39a).

Egli appartiene alla tribù di Beniamino, da cui uscì il primo re di Israele, Shaul, di cui assume il nome, grecizzato, poi, in Saulos e latinizzato in Paulus (At 13,9a).

Il triplice nome, ebraico, greco e romano stanno ad indicare le tre culture che si incrociano in Paolo, rendendolo un cosmopolita, e che si rifletteranno nelle sue lettere e nel suo annuncio.

La famiglia di Paolo proviene dalla diaspora e il padre, cittadino romano per acquisizione, trasmette al figlio la cittadinanza romana, di cui Paolo si avvarrà davanti al tribuno (At 22,24-28). Viene educato al rigore della Legge ebraica e, ancora adolescente, il padre lo invia a Gerusalemme per una più completa formazione nelle tradizioni dei padri. Suo maestro, qui, sarà, Gamaliele (At 22,3), discepolo di Hillel, capostipite della corrente giudaica più moderata e più aperta, che si contrapponeva a quella più rigorista e tradizionalista di Shammai.

È da pensare, pertanto, che Paolo abbia acquisito da Gamaliele un giudaismo più moderato ed aperto, benché, poi, il suo carattere impulsivo e passionale ne abbia accentuato ed esaltato i toni, divenendo un fariseo intransigente fino a spingersi a perseguitare attivamente i cristiani di Gerusalemme e a “votare la condanna a morte contro di loro”. Questo particolare (At 26,9-10) fa pensare che egli facesse parte del Sinedrio, che solo aveva il potere di deliberare le condanne a morte.

In questo contesto di fanatismo religioso, Paolo presenziò e condivise la lapidazione di Stefano avvenuta, probabilmente tra il 35 e il 36 (At 22,20).

Fu proprio in questo periodo che Paolo, diretto a Damasco per eseguire dei mandati di cattura contro i cristiani, viene folgorato dall’incontro con il Cristo risorto, che lo chiama a diventare “ministro e testimone delle cose che hai visto” (At 26,9-16). Un’esperienza questa che ha radicalmente sconvolto l’esistenza di Paolo e che Luca richiama nei suoi Atti per ben tre volte (At 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20), benché Paolo non si riferisca spesso a questo episodio e quando lo fa (1Cor.15,5-8 e Gal. 1,12-17) è solo con una pallida allusione, quasi impercettibile.

Paolo visse questa esperienza del Cristo risorto come una chiamata (Gal 1,15-16), che produsse in lui un traumatico e radicale capovolgimento esistenziale, che lo portò ad una successiva maturazione della propria fede, inizialmente, all’interno della comunità credente di Damasco.

Infatti, Paolo inizierà il suo primo viaggio missionario nel 45. Fino ad allora egli rimane sostanzialmente in silenzio all’interno delle comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che diverrà poi, quest’ultima, la sua base logistica, da cui partirà per compiere i suoi viaggi missionari.

All’interno di queste comunità egli acquisirà gli elementi fondamentali della fede, che poi trasmetterà ai pagani. Egli stesso, infatti, in 1Cor 11,23 attesta: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso”, dove per “Signore” va inteso la comunità credente nel Signore e che si rifà alla tradizione fatta risalire al Signore stesso; e similmente in 1Cor 15,3 afferma che “Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto”. Le sue stesse lettere, del resto, denunciano la sua dipendenza dalle comunità, che egli ha frequentato durante il decennio di silenzio, che ha preceduto i suoi tre viaggi missionari. In esse, infatti, vi sono riportate formule e professioni di fede, formule kerigmatiche, testi liturgici, inni e parenesi, che Paolo non si è inventato, ma che ha mutuato da queste comunità, dislocate nelle aree di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia.

Dopo l’esperienza di Damasco Paolo si recherà subito in Arabia (Gal 1,17) e nella stessa Damasco annuncerà il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire, calato in una cesta dalle mura della città (2Cor 11,32-33).

Trascorsi tre anni dalla sua conversione, siamo intorno all'anno 38 d.C., Paolo si reca a Gerusalemme, una prima volta, per un incontro con Pietro e Giacomo e qui vi rimane 15 giorni (Gal 1,18-19). E qui vi ritornerà, saltuariamente, a predicare il Vangelo, ma sarà costretto a fuggire perché gli ebrei lo vogliono uccidere (At 9,28-29). Dovrà fuggire, pertanto a Tarso, dove rimarrà in silenzio per alcuni anni (At 9,30).

Da qui sarà recuperato da Barnaba e condotto nella comunità di Antiochia, che diverrà la sua comunità di riferimento per tutta la sua attività missionaria e dove rimase un anno (At 11,25-26).

Dalla stessa comunità di Antiochia Paolo e Barnaba furono inviati in missione. (At 13,2-4). Siamo nel 45 d.C. Inizia così il primo viaggio missionario di Paolo che durerà fino al 48 d.C. (At 13,1-14,28). I punti toccati dai due furono: Cipro, Attalia, Perge, dove Marco, cugino di Barnaba, lascerà i due (At 13,13), Antiochia di Psidia, Iconio, Listra, Derbe, quindi il ritorno per le stesse località.

Al loro rientro Paolo e Barnaba trovano peggiorate le relazioni tra i giudeocristiani e gli etnococristiani al punto da creare una rilevante crisi all’interno della chiesa primitiva: Paolo e Barnaba non esigevano la sottomissione dei pagani convertiti alla circoncisione e, di conseguenza, alla Legge di Mosè; mentre i giudeocristiani, in particolare il gruppo che faceva a capo a Giacomo, richiedevano la circoncisione.

Il dissidio fu tale che si ritenne necessario un vertice a Gerusalemme tra i vari responsabili della chiesa madre. A tale incontro vennero inviati dalla comunità di Antiochia Paolo e Barnaba. Fu il primo concilio, che si tenne a Gerusalemme nel 49 (At 15,1-33; Gal 2,1-10) che chiarì, in linea di principio, la questione, ma non risolse di fatto il problema, sul quale Paolo tornerà nella sua lettera ai Galati.

Rientrati ad Antiochia, Paolo, ormai abbandonato anche da Barnaba (At 15,37-39), parte con Sila, suo nuovo compagno (At 15,40-41), per il suo secondo viaggio missionario, che durerà dal 49 al 52 (At 15,36-18,22) e risultò importante per la fondazione delle comunità cristiane in Grecia e nella Galazia.

Il percorso di questo viaggio portò Paolo lungo il cammino delle precedenti comunità (At 15,36), che aveva fondato nel primo viaggio (45-48 d.C.). A Listra si unì a lui anche Timoteo che, pur di avere con sé, accettò di farlo circoncidere (At 16,1-3).

Diretto a Troade, per un’improvvisa malattia, Paolo fu costretto a deviare sull’altipiano della Galazia, dove fondò le prime comunità cristiane (Gal 4,13). Proseguì, infine, per Troade da dove toccò Neapolis, Filippi, Tessalonica, Berea, Atene, Corinto, Efeso e ritorno a Cesarea e da qui a Gerusalemme, per relazionare del suo viaggio agli anziani della chiesa madre.

Il terzo viaggio, avvenuto tra il 53 e il 57 (At 18,23-21,15), fu prevalentemente di ricognizione tra le varie comunità fondate e per rinsaldare i rapporti tra loro. Le città presso cui si fermerà più a lungo saranno Efeso e Corinto. Durante questo viaggio Paolo raccoglierà presso tutte le comunità da lui fondate una colletta per i poveri della chiesa di Gerusalemme, alla quale egli attribuisce un valore importante, perché la sua accettazione da parte dei responsabili della chiesa madre di Gerusalemme significava che i cristiani provenienti dal paganesimo erano definitivamente accettati in seno ad essa.

Dopo questo terzo viaggio Paolo viene fatto prigioniero a Cesarea nel 60 e da qui trasferito a Roma, dove rimase per due anni in uno stato di semilibertà. Muore martire sotto Nerone intorno al 67.

Note su alcune particolarità di Paolo


L'evento di Damasco

Un’attenzione particolare va data all’evento di Damasco, meglio conosciuto come la “conversione di Paolo”, per l’importanza fondamentale che questo ha avuto nella sua vita, sulla quale ha inciso profondamente, trasformandola radicalmente e improvvisamente.

Due sono le fonti testimoniali: gli Atti e gli stessi scritti di Paolo.

Gli Atti degli Apostoli ci forniscono tre diverse narrazioni (9,1-30; 22,3-21; 26,9-20) alquanto particolareggiate, dove viene messa in evidenza l’iniziativa di Dio. Sono racconti non sempre tra loro concordanti e dal sapore popolare, costruiti da Luca sulla falsariga delle chiamate bibliche:

Nell’ambito di questa chiamata Luca introduce anche la figura di Anania, che fa da tramite tra Paolo e la comunità credente di Damasco e che, man mano che i racconti procedono, lentamente scema fino a scomparire completamente nel terzo racconto di At 26,9-20. Questi è definito come un discepolo della comunità di Damasco (At 9,10) e “un devoto osservante della legge e in buona reputazione presso tutti i Giudei là residenti” (At 22,12).

Quanto agli Scritti di Paolo, questi ricordano l'evento, ma sempre con toni molto sobri, talvolta solo allusivi, e in modo strettamente personale. Dell’evento Paolo non parla mai in modo narrativo, ma mettendo in rilievo gli aspetti di grazia, di dono e di chiamata, che lo ha costituito missionario e apostolo. Il testo più significativo è quello di Gal 1,11-17, in cui Paolo si pone sulla linea delle chiamate profetiche. Egli, infatti, parla di “rivelazione”, di “una sua elezione fin dal seno di sua madre”, di “una chiamata per grazia”, di “una compiacenza di Dio nel rivelargli suo Figlio”. E quando Paolo parla di “compiacenza” allude ad un preciso disegno di Dio. A tutto ciò Paolo lega la sua missione di apostolo dei pagani. Un pensiero e una convinzione questi, che Paolo lascia trasparire chiaramente in apertura della lettera ai Galati, come una sorta di sua carta d'identità, mettendo in rilievo come il suo essere apostolo gli viene direttamente da Cristo e da Dio, suo Padre: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (Gal 1,1).

Una maggiore precisazione sull’evento, Paolo la aggiunge in 1Cor 9,1 e 15,8-9, in cui parla rispettivamente di “aver veduto” e di “apparizione”.

Quanto alla sconvolgente rottura con il passato, che tale esperienza ha provocato in lui, ne fa accenno in Fil. 3,7-11, così che tutti i valori del suo passato, in cui ha creduto fermamente, gli sembrano ora spazzatura.

Come, dunque, interpretare l’evento di Damasco? Parlare di semplice conversione è del tutto inadeguato. Qui c’è un’evidente frattura esistenziale tra il prima e il dopo evento, che segnerà non solo la sua intera esistenza, ma tutta la sua teologia, il suo modo di pensare. Non si tratta, dunque, di una lenta e graduale maturazione interiore di certi valori, bensì di una radicale e improvvisa rottura con il suo passato e di un nuovo e improvviso riorientamento esistenziale e modo di pensare.

Paolo e la comunità cristiana primitiva

Dopo la sua esperienza di Damasco, Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che sono nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco, dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia, da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario.

La dipendenza di Paolo da queste comunità si riscontra anche nelle sue lettere, dove riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici, che egli ha ricevuto come eredità di fede dalle comunità stesse (1Cor 11,23; 15,3). Così che si può ben dire che Paolo non fu il fondatore del cristianesimo, bensì il suo instancabile propagatore e il suo potente propulsore, ma sempre in una linea di continuità con la chiesa originale, da cui ha ricevuto la fede e in cui, per circa un decennio (35-45 d.C.), prima dei suoi viaggi missionari (45-62 d.C.), è stato formato.

Il metodo missionario di Paolo

Come sua strategia missionaria, Paolo sceglie sempre delle comunità che non hanno mai sentito parlare di Cristo. Lo attesterà apertamente in Rm 15,20: “Ma mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui”. Il motivo di tale scelta probabilmente è duplice: a) non perdere tempo ad annunciare Cristo là dove è già stato annunciato. Una scelta dettatagli dalla convinzione, molto diffusa comunque nella chiesa del I sec., dell'imminenza della parusia e, pertanto, l'urgenza di diffondere quanto più possibile, prima del ritorno di Cristo, il suo annuncio; b) la novità del “suo vangelo”, inoltre, rischiava di contrastare con le visioni forse meno aperte di altri missionari fondatori, con il rischio di creare turbamento e confusione nelle comunità fondate da altri.

Nel suo annuncio Paolo è mosso sempre da una sua personale convinzione circa un piano di salvezza prestabilito da Dio, che vede annunciare la salvezza prima al Giudeo e poi al Greco: “Io infatti non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco” (Rm 1,16), seguendo in tal modo la logica della storia della salvezza, secondo la quale Dio ha rivelato se stesso e conclusa la sua Alleanza prima con Israele, mostrando tutta la sua predilezione per questo popolo che si è scelto, costituendolo, dopo la sua liberazione dalla schiavitù egiziana, sua proprietà tra tutti i popoli, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,4-6). Soltanto a seguito del rifiuto operato da Israele, l'annuncio della salvezza verrà esteso ai pagani, così che il rifiuto di Israele era diventato motivo di salvezza per gli altri (Rm 11,11-12). Una teologia questa che egli svilupperà meglio in Rm 9-11.

Per questo motivo Paolo, nell'annuncio del suo Vangelo, punta sempre sui grandi centri urbani, caratterizzati dalla presenza di ebrei e di sinagoghe, alle quali volge per prime il suo annuncio e, soltanto dopo il loro rifiuto, si rivolge al mondo dei pagani, seguendo così le logiche di ciò che egli riteneva fosse un piano di salvezza prestabilito da Dio.

Le comunità da lui fondate non sono, nel loro nucleo originale, numerose, ma si tratta di poche persone, qualche famiglia, che deve, quasi sempre, abbandonare precipitosamente per le ostilità degli ebrei lì presenti. In genere lascia sul posto o invia successivamente uno o più collaboratori perché completino l’opera da lui iniziata. Poi si incontrerà di tanto in tanto con i suoi collaboratori e, in base alle informazioni ricevute, scrive le lettere.

Paolo non è un pastore d'anime, ma un indomito annunciatore della parola. Rivelativa in tal senso è l'attestazione di 1Cor 1,14-17: “Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo”.

Queste comunità credenti che egli riesce a fondare con la sua predicazione non sono da lui ritenute sua proprietà o sua conquista. Non sono chiese fondate in opposizione ad altre chiese, ma desidera che queste siano legate con la chiesa madre di Gerusalemme, per la quale fa raccogliere una colletta, segno di comunione e di riconoscenza per la fede da essa donata.

La colletta per la chiesa madre di Gerusalemme

È necessario spendere una parola sulla colletta, un gesto di carità verso la chiesa madre di Gerusalemme, nei confronti della quale tutte le comunità credenti sono debitrici per la fede ricevuta. Ma, al di là dell'impegno che egli si è preso personalmente davanti ai responsabili della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,10), per aiutare i poveri di questa chiesa, colpiti da una grave carestia (At 11,28-30), Paolo vede nella colletta uno strumento di solidarietà e di comunione di tutte le comunità credenti con la chiesa madre di Gerusalemme. La colletta, pertanto, diventa per Paolo uno strumento missionario ed ecclesiologico, per legare in un'unica comunione di carità in Cristo tutte le chiese.

La sua importanza è rilevata dal fatto che il tema della colletta viene ripreso ripetutamente da Paolo in varie sue lettere: Rm 15,25-26; 1Cor 16,1-4; 2Cor 8-9; Gal. 2,10, qualificandola come "servizio", "comunione", "grazia", "atto di culto".

Ma perché Paolo mostra un così particolare interesse per la colletta? Quale significato le attribuisce? Essenzialmente un triplice significato:

  1. Essa è un gesto di carità;

  2. E', inoltre, un impegno che egli si era assunto di fronte ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme (Gal 2,10) in occasione del Concilio (49 d.C.);

  3. Ma, soprattutto, per Paolo assume, da un lato, un significato di comunione tra la Chiesa madre di Gerusalemme e le Chiese periferiche da lui fondate, costituite da etnico-cristiani; dall'altro, ciò che per Paolo è più importante, diventa un riconoscimento ufficiale della Chiesa madre della missione di Paolo presso il mondo pagano.

La motivazione che sottende la colletta è triplice:

  1. Cristologica: Cristo si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà (2Cor.8,9);

  2. Ecclesiologico-sociale: non si tratta di rendersi poveri per arricchire gli altri, ma un atto di uguaglianza (2Cor 8,13);

  3. Teologico-scritturistica: Dio ama chi dona con gioia: “ha largheggiato, ha dato ai poveri; la sua giustizia dura in eterno” (2Cor 9,7-9)

Paolo, tuttavia, teme che la colletta, a cui lui attribuisce un grande valore e significato, possa anche non essere accolta (Rm 15,30-31). Dietro questo suo timore intuisce che qualcosa possa andare storto: egli non vede chiaro nel suo futuro, per la difficoltà dei rapporti con la Chiesa madre di Gerusalemme.

Il pensiero di Paolo e il suo Vangelo

Paolo fu certamente un teologo originale, profondo, fuori dagli schemi, ma non fu un pensatore sistematico. Il suo pensiero è occasionale e frammentario, variamente sparso tra le sue lettere, e ciò non permette di organizzarlo compiutamente.

Il nucleo centrale del pensiero di Paolo è il Cristo risorto. E non poteva essere diversamente, considerata l'esperienza da cui egli proviene.

Attorno al Cristo risorto Paolo sviluppa tutta una serie di tematiche ad argomenti prevalentemente contrapposti, sulle quali fonda tutta la vita morale e cristiana: fede e legge, luce e tenebre, carne e spirito, uomo vecchio e uomo nuovo, giustificazione e peccato, vita e morte, risurrezione, battesimo, ecc. Alla base di queste contrapposizioni ci sta probabilmente l'antitesi cristologica e pasquale “morte-vita”, “crocifissione-risurrezione”. Tuttavia, pur nella sua originalità e profondità di pensiero, Paolo si pone sempre nell'ambito dottrinale della Tradizione, che è già proprio del cristianesimo primitivo e che lo stesso Paolo testimonia nelle sue lettere, che riportano inni cristologici e formule di fede, che egli trova già elaborati nelle comunità credenti, che ha frequentato per un decennio dopo l'evento di Damasco. Del resto egli stesso attesta come la sua predicazione sia una sorta di trasmissione di ciò che anch'egli ha ricevuto, ponendosi in tal modo sulla linea della Tradizione cristiana (1Cor 11,23; 15,3).

Il pensiero e il Vangelo di Paolo si potrebbero così sinteticamente riassumere:

Nel suo grande disegno salvifico, Dio offre la sua salvezza a tutti, ebrei e gentili, in Cristo e per Cristo morto e risorto. Si diventa partecipi della salvezza unendosi a Cristo mediante la fede e il battesimo, morendo con lui al peccato e partecipando, così, alla sua risurrezione. Tuttavia, la salvezza, già presente, non è ancora definitiva finché egli venga. Ma, nel frattempo, colui che vive in Cristo è già stato liberato dal potere del peccato e della Legge e diventa un uomo nuovo, una creatura nuova, per opera dello Spirito Santo. Di conseguenza la condotta del credente deve adeguarsi alla nuova realtà, che è stata posta in lui dal battesimo e per mezzo della fede”.

Le lettere

Il pensiero di Paolo è raccolto ed esposto nel Corpus paulinum, che comprende 14 lettere a cui, idealmente, ne va aggiunta anche qualcun’altra andata perduta e della cui esistenza siamo a conoscenza, perché citata dallo stesso Paolo nelle sue lettere.

Quelle in nostro possesso sono in tutto tredici, alle quali se ne è aggiunta una quattordicesima, la Lettera agli Ebrei, di autore ignoto. Di queste, sette sono attribuite a Paolo, mentre le rimanenti sei sono di scuola paolina.

L’insieme di queste 14 lettere forma il Corpus paulinum, suddiviso in tre aree: le grandi lettere, sono le sette attribuite a Paolo, alle quali alcuni esegeti aggiungono anche la seconda ai Tessalonicesi; le lettere ecclesiologiche ai Colossesi e agli Efesini; le lettere pastorali, 1-2 Timoteo e Tito.

Tutte le lettere attribuite a Paolo sono state scritte tra il 50 e il 60 d.C. e costituiscono la primissima letteratura cristiana e tra queste, prima in senso assoluto, è la Prima ai Tessalonicesi, composta a Corinto nel 50 d.C.

Esse sono state scritte tutte in modo occasionale, in risposta ai problemi sorti, di volta in volta, nelle comunità che Paolo stesso aveva fondato e sono una sorta di prolungamento del dialogo pastorale.

Il linguaggio, pertanto, è spontaneo, immediato, vivace, appassionato e passionale, spesso polemico, sicuramente molto sentito e, per questo, molto avvincente. Certamente il tono non è mai meditativo e i contenuti non sono esposti in modo sistematico, ma buttati giù di getto e risentono molto della occasionalità e della contingenza del momento.

Esse, come già si è sopra accennato, sono caratterizzate da molteplici antitesi, come ad es. Adamo-Cristo; carne-Spirito; fede-opere; sapienza-stoltezza; uomo vecchio-uomo nuovo. All’origine di tutte queste antitesi c’è l’antitesi per eccellenza, quella cristologica e pasquale, da cui tutte le altre derivano: morte-vita. Sono giochi di chiari-scuri finalizzati a mettere meglio in evidenza il tema trattato.

Tutte le lettere di Paolo sono scritte nel greco della koinè e si strutturano essenzialmente in quattro parti: 1) il prescritto, che riporta il mittente, il destinatario e il saluto; 2) rendimento di grazie 3) corpo della lettera 4) conclusione o postscritto, comprendente le ultime raccomandazioni e i saluti finali. Unica eccezione a questo schema viene fatta dalla Lettera ai Galati, nella quale viene saltato il secondo punto: il rendimento di grazie, sia per la foga con cui Paolo si accosta ai Galati in questa occasione, e sia perché, visto il tradimento perpetrato alle sue spalle da queste comunità da lui fondate e particolarmente amate, non c'era proprio niente da rendere grazie.

Corpus paulinum:

Scritti attribuiti a Paolo o Grandi Lettere

Scritti di scuola paolina

Lettere ecclesiologiche

Lettere pastorali

Scritti di autore ignoto


Le lettere, poste sotto il titolo “Scritti di scuola paolina”, sono considerate come scritti pseudepigrafici, redatti nel contesto della tradizione paolina allo scopo di garantire e consolidare il pensiero di Paolo anche dopo la sua morte.

La pseudepigrafia era un fenomeno molto diffuso nell’antichità e consisteva nel porre dei propri scritti sotto il nome di personaggi importanti per dare valore e credibilità alla propria opera, agganciandola alla tradizione, verso cui si nutriva particolare rispetto.

I parametri per valutare l’autenticità o meno di uno scritto sono, in genere, lo stile, il vocabolario e la coerenza teologica, nonché il contesto a cui fanno riferimento.

Sono Scritti questi tenuti in notevole considerazione presso le comunità cristiane e, trattando tutti gli aspetti e le tematiche della vita cristiana, sono stati sentiti come normativi per il vivere cristiano.

Essi hanno certamente dettato legge a tutta la teologia successiva. Una teologia quella paolina complessa e profonda e, proprio per questo, si poteva prestare ad interpretazioni diverse, talvolta anche contrapposte, come si rileva dalla già citata 2Pt 3,15-16.

Un’ultima questione, posta dal Deissmann5, è la distinzione tra LetteraedEpistola. Secondo il Deissmann la Lettera è uno scritto privato, occasionale, vivace, immediato e mirato, il cui contenuto è prevalentemente comprensibile solo al destinatario. Mentre l' Epistola è una sorta di composizione letteraria, elaborata a tavolino con una esposizione di tipo sistematico e ragionato, rivolta ad una grande cerchia di persone. Un esempio di queste sono le “Lettere a Lucilio” di Seneca.

Le lettere di Paolo si pongono in una via di mezzo: sono sicuramente delle Lettere, ma non vi è esclusa la forma epistolare. Si prenda, ad esempio, la Lettera ai Romani, dove agli aspetti personali, rivolti ai destinatari, come nella sezione parenetica (12-16), si accompagna la sezione dottrinale (1-8).



COMMENTO ALLA LETTERA AI GALATI


PARTE INTRODUTTIVA





Panorama storico della Galazia

Agli inizi dell'era cristiana il termine Galazia designava la regione centro settentrionale dell'Asia minore, i cui centri principali erano Ancyra (l'attuale Ancara), Pessinunte e Tavio. Essa era abitata da popolazioni di origine celtica, che nel III sec. a.C. si erano stanziate in Anatolia, l'attuale Turchia.

In lotta con il regno di Pergamo, conquistarono l'indipendenza nel II sec. a.C., ma che, vinti dal console romano Manlio, persero nel 189 a.C., benché Roma avesse accordato loro una notevole autonomia.

Nel 25 a.C. la Galazia fu trasformata in provincia imperiale, con capitale Ancyra. Ad essa furono annesse alcune regioni centromeridionali: la Psidia, la Frigia e la Licaonia.

Bisogna, dunque, distinguerà la Galazia propriamente detta, quella settentrionale, dalla Galazia romana imperiale, che è quella amministrativa.

Posta dunque questa distinzione, si deve dire che se per Galazia si intende quella amministrativa imperiale, allora Paolo incominciò ad evangelizzarla già nel suo primo viaggio missionario (45-48); se, invece, intendiamo il ceppo originario, quello settentrionale, allora, Paolo la evangelizzò agli inizi del suo secondo viaggio missionario (49-53) e alla quale approdò casualmente, a seguito di una malattia, che lo costrinse ad una sosta forzata nella Galazia settentrionale, evitando in tal modo il soggiorno presso quelle comunità credenti, che stava visitando, temendo che presso di queste si fossero formati schieramenti a lui avversi, che in qualche modo potevano nuocergli. Meglio, dunque, rifugiarsi in zone in cui egli non aveva ancora operato e in cui non era ancora conosciuto per la sua attività e per il suo pensiero.

E' probabile, a mio avviso, che la Galazia, a cui Paolo si riferisce nella sua lettera, sia quella settentrionale. Infatti, in Gal 4,13 afferma: “Sapete che fu a causa di una malattia del corpo che vi annunciai la prima volta il vangelo”. L'episodio della malattia, benché non citato espressamente dagli Atti, si pone sicuramente nel secondo viaggio. Infatti, in At 16,6 Luca dice che “Attraversarono quindi la Frigia e la regione della Galazia, avendo lo Spirito Santo vietato loro di predicare la parola nella provincia dell'Asia”. Per Asia si intende, probabilmente, la regione di Efeso e Smirne. Quindi, invece, di proseguire per occidente, punta direttamente verso nord-nord-est dove, attraversando la regione della Frigia, raggiungono la Galazia. In che cosa consisteva questo impedimento dello Spirito Santo tale da costringere Paolo a deviare verso nord? Probabilmente è la “malattia. Il suo arrivo in Galazia nel suo secondo viaggio, infatti, non era programmato, ma fu un imprevisto causato dalla malattia, che Luca interpreta come impedimento dello Spirito Santo. Quindi, la Galazia, di cui si parla qui e a cui è rivolta la lettera, è la regione galata del nord e non quella amministrativa, successivamente formata da Roma con l'aggiunta di altre regioni.

Del resto, Paolo, originario della Cilicia, ben conosceva le regioni dell'Asia minore e le loro popolazioni, e di certo non avrebbe mai chiamato “Galati” abitanti che appartenevano alla Galazia solo amministrativamente, ma il cui ceppo originario era ben diverso, e parlavano, inoltre, una lingua diversa.

Da un punto di vista religioso i Galati, pur mantenendosi fedeli alle proprie credenze, tuttavia accolsero anche culti locali come quello della dea Cibele, molto diffuso nella Frigia e aveva il suo centro a Pessinunte.

Va poi tenuto presente, per meglio comprendere la lettera ai Galati, che le comunità ebraiche della diaspora, insediate sul territorio della Galazia, erano numerose, soprattutto nelle regioni meridionali. Probabilmente queste, nella loro azione di proselitismo, si insinuarono presso le chiese della Galazia, disturbando l'evangelizzazione di Paolo. Non va dimenticato, infatti, che Paolo per il Giudaismo era un traditore della Tradizione mosaica e de Padri e per questo passibile anche di morte.

Ma i veri i disturbatori e i sovvertitori delle comunità fondate da Paolo sono quasi certamente i giudeocristiani giudaizzanti, cioè quei cristiani che provenivano dal giudaismo, ma che erano ancora legati alla Legge mosaica, ritenendo che la salvezza portata da Cristo debba passare attraverso Mosè. Anzi, è molto probabile, se non certo, che siano proprio loro quelli a cui Paolo fa riferimento. Infatti in Gal 2,4 parla di “di falsi fratelli introdottisi”. Un termine questo “fratelli” con cui si definivano i credenti in Cristo, qui definiti “falsi” perché si discostano dal Vangelo annunciato da Paolo. In Gal 1,6-7, poi, Paolo parla di un “altro Vangelo” e di personaggi “che vogliono distorcere il vangelo di Cristo”. Se, dunque, Paolo parla di “Vangelo” e di personaggi che lo distorcono, questi non possono essere che i giudeocristiani giudaizzanti, che interpretano il Vangelo annunciato da Gesù non alla luce della novità dell'evento Cristo, ma alla luce della Legge mosaica, distorcendolo nel suo vero senso.

La comunità

La lettera ai Galati, benché nomini apertamente soltanto due volte i destinatari della lettera (Gal 1,2; 3,1), tuttavia contiene numerose informazioni circa le comunità a cui è indirizzata:

Essi erano estranei a Dio e asserviti a false divinità (4,8). Erano, quindi, cristiani provenienti dal paganesimo.

La loro religione consisteva nell'adorazione delle forze elementari della natura (4,3.9) dalle quali erano tenuti in dura schiavitù (5,1).

Paolo si fermò presso di loro a seguito di una malattia, che lo costrinse ad un fuori programma nella sua missione (4,13), e per loro sopportò fatiche e sofferenze (4,11.19).

I Galati lo avevano accolto come un “angelo di Dio, come Gesù Cristo” (4,14)

Essi prestarono ascolto con fede a Paolo (3,2.5) e fecero una profonda esperienza dello Spirito (3,2.4-5), che si manifestò in mezzo ad essi con segni prodigiosi (3,5).

I Galati, quindi, diventarono autentici spirituali, guidati cioè dallo Spirito (6,1) e acquisirono la libertà, sottraendosi alla sudditanza di false divinità. (4,8).

Ora, invece, stanno passando ad un altro vangelo (1,6) e sono così stolti che, dopo aver cominciato con lo Spirito, voglio finire con la carne (3,3). Essi stanno inconsapevolmente ritornando, una parte, al loro passato pagano (4,8-10); un'altra ancora sta abbracciando un cristianesimo giudaizzante (5,3-4).

La lettera, pertanto, è indirizzata a queste due tipologie di cristiani, i quali dopo aver abbracciato il Vangelo di Paolo, lo hanno abbandonato o quanto meno hanno inframmischiato le loro antiche credenze pagane o quelle giudaizzanti. Un tradimento, quindi, già consumato, allorché Paolo interviene con questo suo scritto, dichiarandosi pronto a generarli nuovamente in Cristo (4,19). Essi avevano aderito entusiasticamente alla predicazione di Paolo e alla sua persona, trasformandosi nelle loro vite e divenendo autentici testimoni dello Spirito. Ma ora il loro rifiuto diventa doppiamente drammatico, poiché implica non solo il rifiuto del Vangelo, con tutto ciò che ne consegue, ma anche della persona dello stesso Paolo, con il quale avevano instaurato un profondo rapporto non solo spirituale, ma anche affettivo (4,14-16), così che Paolo, rivolgendosi ai Galati arriva ad esclamare: “[...] mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù. Dov'(è) dunque la vostra felicitazione? Vi assicuro, infatti, che se (fosse stato) possibile avreste cavati i vostri occhi (e li) avreste dati a me. Sono diventato come un vostro nemico, dicendovi la verità?” (4,14b-16). C'è, quindi, anche un trauma emotivo-affettivo. Da qui la veemenza e la passionalità della lettera, dai toni talvolta sconsolati (4,11).

L'occasione della lettera

Ma perché Paolo scrive questa lettera così dura e drammatica alle comunità della Galazia? Cos'era successo?

Durante il suo terzo viaggio missionario (53-57) Paolo si sofferma lungamente ad Efeso (At.19,8.10), circa tre anni (At 20.31). Qui viene informato sulla nuova e allarmante situazione venutasi a creare tra le comunità della Galazia: “Vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo” (1,7). Questi hanno ammaliato i Galati (3,1) e vogliono imporre loro l'osservanza della Legge mosaica (3,2; 4,21; 5,4) e li inducono all'osservanza del calendario (4,10) che, probabilmente, è quello delle festività ebraiche, dato che nella lettera si parla di legge e di circoncisione. Calendario a cui erano rigorosamente legate la celebrazione delle festività e il culto ebraico.

Ma chi sono questi avversari di Paolo? Dalle indicazioni fornite dalla lettera, questi sembrano essere dei giudeocristiani in contro-missione, che cercano di svuotare il vangelo nella sua novità, riconducendolo al giudaismo. Paolo li apostrofa duramente: è gente che non agisce onestamente (7,17); che subirà una condanna per quello che fa (5,10) e che dovrebbero farsi castrare (5,12), con riferimento, probabilmente, all'autoevirazione sacra, quale gesto di consacrazione a Cibele, ponendo così questi giudeocristiani alla stregua dei pagani.

La Lettera

Quella dei Galati è una lettera unica nel suo genere, in cui nitidamente si riflettono tutta l'irruenza e l'impulsività di Paolo, che si traducono in uno scritto immediato e tumultuoso. Sintomatico è il fatto che, dopo il prescritto (1,1-5), Paolo salta completamente la sezione dei ringraziamenti, che caratterizza, invece, tutte le sue altre lettere, e si getta a capofitto nel problema che lo tormenta, e lo fa in modo ironico e sferzante: “Qaum£zw” (Tzaumázo), “Mi meraviglio”, “Stupisco”, che dà il tono a tutto lo scritto, decisamente polemico e sofferto.

E' una lettera molto importante sia perché, da un lato, ci offre, fra tutte le lettere, il più ampio spaccato autobiografico di Paolo (1,11-2,21); sia perché, dall'altro, ritroviamo in essa, esposte in modo appassionato questioni dottrinali, che elaborerà, invece, in modo più pacato e sistematico nella lettera ai Romani, scritta circa un anno dopo (57-58 d.C.), sicché le due lettere si completano e si richiamano a vicenda.

L'orientamento di tutto lo scritto è marcatamente polemico e apologetico. Sembra quasi che Paolo, in particolare nella sezione autobiografica, voglia autodifendersi e autogiustificarsi nei confronti dei propri denigratori, ma in realtà la sua è una difesa del Vangelo da lui annunciato. Lo stanno a testimoniare i termini “evangelizzare” e “vangelo“, che ricorrono ben 13 volte nell'ambito della sola sezione autobiografica. Un vangelo sul quale Paolo ha fondato e scommesso la sua vita e che con esso si identifica (Gal 2,20; Fil 1,21).

Quindi è corretto parlare di una difesa non di Paolo, bensì del Vangelo, che avviene a tre livelli: autobiografico (1,11–2,16), in cui l’apostolo ci fornisce notizie di prima mano sulla sua vita e il cui intento è dimostrare l'origine divina della sua missione e del suo vangelo, che sono stati approvati dagli anziani di Gerusalemme (2,2-9), con i quali egli tiene dei contatti. Un vangelo quindi che beneficia dell'ufficialità della chiesa madre di Gerusalemme; dottrinale (2,16), in cui si abbozza il tema centrale della riflessione teologica e cristologica di Paolo: la giustificazione si ottiene per mezzo della fede in Cristo Gesù e non con l’osservanza della legge, alla quale ci si sottomette attraverso la circoncisione; temi questi che riprenderà in modo più ampio e profondo nella lettera ai Romani; e, infine, psicologico, aspetto questo che permea tutta la lettera, ricca di sentimenti coloriti, veementi, appassionati, travolgenti. Una lettera scritta di suo pugno a grandi caratteri (6,11) e che imprime in essa il suo focoso carattere di fanatico di Cristo, a differenza di quella più pacata e ragionata ai Romani, scritta da Terzo su dettatura di Paolo (Rm 16,22). Qui c’è tutto il vero e genuino Paolo. Del resto, tutto ciò è comprensibile se pensiamo che la posta in gioco nella Galazia, ma non solo, era la sopravvivenza stessa del cristianesimo, che rischiava di essere fagocitato dal giudaismo.

La struttura della Lettera

Proprio per l'irruenza della lettera e la tumultuosità del pensiero e dei sentimenti di Paolo, dai quali questa lettera è pervasa, riesce difficile individuare la struttura dello scritto. Tuttavia, secondo la maggioranza degli studiosi, essa può essere tripartita come segue:

Introduzione (1,1-10):

Prescritto (1,1-5)

Esordio e Tema (1,6-10)

- Sezione autobiografica (1,11 - 2,14)

- Sezione dottrinale (2,15 - 4,31)

- Sezione parenetica (5,1 - 6,10)

Postscritto (6,11-18)

Numerosi studiosi recenti ritengono che Paolo abbia fatto ricorso in Galati alle regole della retorica greca, che prevedeva tre generi fondamentali:

Quello giudiziale, utilizzato sia per difendere che per accusare;

Quello deliberativo, che serviva sia per convincere che per dissuadere;

Quello dimostrativo, utilizzato in ambito pedagogico sotto forma di elogio o biasimo.

Nonostante tale orientamento, tuttavia non è stato ancora dimostrato che Paolo abbia fatto ricorso di proposito alla retorica greca, considerata l'immediatezza e la tumultuosità dello scritto; non è da escludersi, però, che in alcune parti della lettera vi abbia fatto un'applicazione spontanea, ma non scolastica, di tali regole.


PARAFRASI DELLA LETTERA AI GALATI


Premessa

Per meglio comprendere la Lettera ai Galati, sia nel suo sviluppo logico che nei suoi vari passaggi, ho pensato di riscriverla “raccontandola” con mie parole, mettendo così in chiaro gli intenti e il pensiero di Paolo, che non sempre appaiono di immediata comprensione. Al termine di ogni paragrafo ho messo in grassetto tra parentesi le coordinate a cui si riferisce il paragrafo della Lettera che ho parafrasato, così che il lettore possa muoversi più agevolmente all'interno della parafrasi e sappia a quale passo o sezione della Lettera essa si riferisce.


Parafrasi

I primi cinque versetti della Lettera ai Galati formano il prescritto, dove vengono presentati il mittente, Paolo, e i destinatari, le chiese della Galazia. Seguono i saluti.

Immediatamente dopo, 1,6-10, viene presentata la questione che forma l'oggetto e il motivo della lettera: vi sono dei personaggi che hanno predicato presso le comunità della Galazia un vangelo, che ha stravolto quello annunciato da Paolo. Ma, sottolinea Paolo, in realtà non vi è un altro Vangelo diverso da quello che egli ha annunciato ai Galati.

A dimostrazione di questa unicità del vangelo da lui annunciato, tesi questa che viene formulata in 1,11-12, Paolo dedicherà l'intera sezione 1,13-2,21, portando alcuni spaccati della sua vita, finalizzati a dimostrare essenzialmente tre cose:

  1. egli è stato chiamato e inviato ai pagani da Dio Padre;

  2. il Vangelo che egli annuncia gli è stato direttamente rivelato da Dio. Quindi la sua apostolicità e il suo Vangelo sono di origine divina e non vanno messi in discussione;

  3. anche la chiesa madre di Gerusalemme è in accordo con Paolo, sia sui contenuti della sua predicazione che sulla sua apostolicità dedicata al mondo pagano

Pertanto, Paolo presenta la sua carta d'identità a difesa del Vangelo che egli annuncia:

Una simile provocazione non è stata casuale, ma Paolo voleva attirare l'attenzione dei Galati sul tema della contrapposizione Legge-Fede. Ed è proprio su quest'ultimo aspetto che egli apre ora l'ampia sezione 3,6-18, in cui dimostrerà come il rapporto tra Dio ed Abramo e la Promessa che Egli fece al Patriarca fossero fondati esclusivamente sulla Fede e non sulla Legge, venuta 430 anni dopo (3,17).

La sezione 3,6-18 si apre attestando come la giustificazione di Abramo da parte di Dio è avvenuta perché “Abramo credette”, quindi per Fede e non per le opere di giustizia compiute dal Patriarca. Ed è proprio nella prospettiva di un rapporto con Dio fondato sulla Fede che Dio pose non solo su Abramo la sua benedizione, ma anche su tutte quelle persone che, alla pari di Abramo, avessero, come lui, intrattenuto rapporti con Dio fondati sulla Fede. Per contro, chi sceglie di rapportarsi con Dio attraverso le opere della Legge, questi sono posti sotto il segno della maledizione, perché, per la connaturata fragilità dell'uomo, la Legge non può essere adempiuta pienamente dall'uomo. La Scrittura, infatti, attesta: “Maledetto chiunque che non rimane (fedele) a tutte le cose scritte nel libro della Legge, per compierle” (Dt 27,26). Tuttavia questa maledizione, che la Legge fa gravare sull'uomo, e che Paolo meglio svilupperà in Rm 7,1-25, viene annullata da Cristo che, assoggettandosi alla Legge (4,4-5) e in base alla Legge reso un maledetto (Dt 21,23b), muore sulla croce, distruggendo nella sua carne la Legge fatta di decreti e prescrizioni (Ef 2,15a) e con essa anche la maledizione, che la Legge portava con sé, così che non vi è più nessuna maledizione e nessuna condanna per chi crede in Cristo Gesù (Rm 8,1); (3,6-18).

Sorge allora l'interrogativo: ma se la Legge pesa così negativamente sull'uomo e tale da escluderlo da Dio anziché favorirne il rapporto, “Perché dunque la Legge?” (3,19a) e in quale rapporto noi stiamo con la Legge?. Sarà la sezione conclusiva del cap.3, 3,19-29, a dare la risposta. La Legge fu imposta all'uomo a motivo delle sue trasgressione, divenendo così la Legge la Via certa per mantenersi fedeli a Dio, ma nel contempo, proprio per la fragilità dell'uomo, essa divenne occasione di peccato e l'uomo ha conosciuto il Male proprio a causa della Legge (Rm 7,7-10). Quindi, proprio quella Legge che ci doveva salvare, in realtà è divenuta per noi occasione di peccato e di morte (Rm 7,9.11). La Legge, pertanto non è in grado di dare la giustificazione (3,11a), perché poggia sulle sole forze dell'uomo. La sua funzione primaria, infatti, non era quella di salvarci, ma di conservarci in vista di Cristo, quel Cristo che è la vera Discendenza di Abramo, alla quale è stata data in eredità la Promessa, che Dio aveva fatto ad Abramo (3,16). Essa era simile ad un severo pedagogo, che ci teneva sottomessi in vista di Cristo per essere, poi, giustificati dalla Fede in lui. Ma giunto il tempo della Fede, non si è più sotto il pedagogo-Legge (3,24-25);). Una Discendenza alla quale noi siamo stati resi partecipi attraverso la sola Fede e di cui ci siamo rivestiti mediante il battesimo, così da formare un tutt'uno con questa Discendenza e una comune comunione tra di noi credenti, senza più distinzione di sesso o di razza o di posizione sociale (3,26-27). L'unità-comunione tra i credenti e questa Discendenza è tale da far diventare loro stessi discendenza di Abramo ed eredi, quindi, della Promessa (3,29).

Nei primi tre capitoli della Lettera ai Galati Paolo si rivolgeva a quei Galati che si erano lasciati traviare dai giudeocristiani giudaizzanti, lasciandosi asservire, mediante la circoncisione, alla Legge mosaica e, quindi, tradendo il Vangelo che Paolo aveva annunciato a loro. Tuttavia, all'interno delle chiese della Galazia, doveva esserci anche un secondo gruppo di Galati, che avevano lasciato il Vangelo di Paolo per tornare alla religione pagana, da cui provenivano e dalla quale Paolo li aveva inizialmente convertiti con il suo Vangelo. Si parla, infatti, di schiavizzazione sotto gli elementi del mondo (4,3); di un tempo in cui “non conoscendo Dio, foste assoggettati a divinità che per natura non (lo) sono” (4,8); si rimprovera di “rivolgervi di nuovo verso elementi deboli e poveri, ai quali volete nuovamente asservir(vi) come prima” (4,9) e di osservare ancora le festività pagane (4,10). Paolo, dunque, rivolge anche a questo secondo gruppo di Galati il suo sollecito e dedica loro la sezione cap.4,1-20. Il problema per questo secondo gruppo di Galati non è la circoncisione, e quindi l'assoggettamento alla Legge mosaica, ma il ritorno alla schiavitù dell'idolatria (4,3.8-10). E proprio sulla questione della schiavitù Paolo incentrerà questo cap.4, inducendo i Galati paganizzanti, ma nel contempo non escludendo i giudaizzanti, che richiamerà in questo contesto in 4,21, a riflettere sui due figli di Abramo, quello avuto dalla sua schiava Agar, per avere una discendenza; e quello di sua moglie Sara, che gli avrebbe dato un figlio, nonostante la vecchiaia inoltrata, secondo la promessa che Dio gli aveva fatto (Gen 17,15-19). Racconti questi che Paolo definisce come “allegorie” (4,24), cioè immagini che raffigurano il primo, la schiavitù sia della Legge che parimenti degli elementi di questo mondo; il secondo, la libertà, essendo questo il figlio della Promessa e, quindi, il vero erede del Patto di alleanza che Dio stabilì con Abramo.

Paolo apre il cap.4 riprendendo l'esempio di 3,24-25, dove si paragona la Legge ad un severo pedagogo che tiene sotto rigida sorveglianza il fanciullo in attesa della maggiore età, giunta la quale, il fanciullo acquista la sua condizione di uomo libero. Ora, invece, qui, similmente a 3,24-25, si parla di un erede piccolo, sottoposto, come se fosse uno schiavo, a tutori e ad amministratori finché non sia giunto il tempo stabilito dal padre, nel quale, raggiunta la maggiore età, egli diventerà persona libera nella pienezza del diritto. L'esempio, solo in apparenza simile a 3,24-25, in realtà differisce notevolmente. Qui si parla di un “tempo stabilito dal padre” (4,2), particolare questo che servirà a Paolo per rintrodurre i vv.4,4-6. Si parla, poi, in questo esempio di figlio schiavizzato da tutori e amministratori finché non sia giunto il tempo stabilito, e questo servirà a Paolo per introdurre la nuova categoria di destinatari di questo cap.4: gli schiavizzati sotto gli elementi del mondo (4,3), che comunque, in fieri, erano dei figli, che possono ora chiamare Dio con il nome di Padre (4,6), così che essi non sono più schiavi di questi elementi naturali, ma veri figli di Dio e, pertanto, anche eredi (4,1-7).

Fatta questa premessa, Paolo sottolinea che a quel tempo, cioè quando ancora non conoscevano il vero Dio, servivano divinità che tali non erano, ma ora, dopo averlo conosciuto ed averlo sperimentato nello Spirito Santo quale Padre (v.7), si chiede come possano rivolgersi ancora a tali divinità. E conclude la breve considerazione con scoramento, temendo di essersi affaticato inutilmente (4,8-11).

Dopo questo insieme di considerazioni fin qui addotte (1,1-4,11), Paolo crea una pausa, una sorta di spazio dei ricordi, giocando qui anche la carta degli affetti, che lega lui e i Galati fin dal loro primo incontro, allorché ammalato essi lo avevano accolto e ospitato con entusiasmo, come fosse stato un angelo di Dio, come fosse stato Gesù Cristo stesso e per lui sarebbero stati pronti a cavarsi gli occhi. E chiede se tutto quello che c'è stato tra di loro adesso non conti più niente, mentre essi danno ascolto a gente che cerca solo il loro tornaconto personale. E, riprendendosi dallo scoramento manifestato in 4,11, si dichiara pronto a generare nuovamente i Galati a Cristo (4,12-20).

Dopo questa pausa, Paolo riprende con una nuova formula i suoi rimbrotti contro i Galati, riferendosi esplicitamente a quelli che avevano abbracciato un cristianesimo giudaizzante (4,21), ma implicitamente, introducendo il tema della schiavitù, anche a quelli che si erano nuovamente sottomessi alla schiavitù degli elementi del mondo (4,3.8-10). Ora, Paolo, proprio sul tema della schiavitù, che si contrappone alla libertà (4,25-26), e si lega alla contrapposizione carne-Promessa (4,23), dà la sua interpretazione allegorica ai due figli di Abramo: Ismaele, avuto dalla schiava Agar, figura questa della donna schiava, così come schiava è la sua discendenza; e Isacco, avuto dalla moglie Sara, figura questa della donna libera. Il primo, frutto dei progetti umani di Abramo, che voleva darsi una discendenza secondo le proprie forze e iniziative; il secondo, frutto della promessa che Dio aveva fatto ad Abramo e che va ben al di là delle capacità dell'uomo. Il primo fa parte di una generazione di schiavi, che si muove secondo la carne; il secondo, in quanto figlio della Promessa, è capostipite degli uomini liberi, così come i Galati vi appartengono. Agar è figura del monte Sinai, dove Dio stabilì un Patto di Alleanza con Israele, attestato dalla Legge, e l'attuale Gerusalemme fanno parte dell'antico mondo di Agar, quello della schiavitù, di cui la Legge è espressione; mentre la vera Gerusalemme, che appartiene al mondo dei figli liberi, è quella celeste. Le due Gerusalemme e i loro figli sono tra loro in perenne contrasto, poiché la prima è nata dalla carne, mentre la seconda è nata secondo la Promessa e quindi secondo lo Spirito. Per questo la prima continua a perseguitare la seconda, ma alla fine il secondo prevarrà sul primo, poiché la schiava verrà cacciata dalla donna libera, il cui figlio rimarrà il vero erede, secondo la Promessa (4,21-29).

Sulla base delle testimonianze personali (1,11-2,21), delle esposizioni dottrinali e scritturistiche (3,1-4,31), Paolo, ora, conclude la sua Lettera dedicando ben due capitoli (5-6) alle esortazioni, che altro non sono che le conclusioni pratiche ed applicative di quanto fin qui premesso.

Il cap.5 consiste in una elaborazione di principi spirituali e morali, che fungono da premessa al cap.6, che consiste, a sua volta, in una serie di applicazioni pratiche in alcuni casi di tali principi.

Sinteticamente potremmo definire il cap.5 una esortazione a rimanere liberi in Cristo, senza mai asservirsi alla Legge, che comunque si compie pienamente nell'amore a Dio e al prossimo; amore che è frutto dello Spirito, che si ottiene per mezzo della fede, che si fa operosa nella carità.

Dopo la riflessione su Agar e Sara, allegoria della schiavitù che viene dalla Legge e della Libertà che proviene dalla Promessa e dallo Spirito, Paolo apre il cap.5 con l'attestazione che Cristo ci ha liberati perché rimanessimo liberi e non per assoggettarsi nuovamente alla Legge, perché chi si assoggetta nuovamente alla Legge decade dalla grazia e Cristo non gli gioverà più a niente. La giustificazione, invece, proviene dallo Spirito, che si ottiene per mezzo della fede. Quindi in Cristo non vale più l'essere circoncisi o incirconcisi, ma solo la fede, che si fa operosa nell'amore (5,1-6). Una pericope questa importante perché preannuncia i temi che svilupperà ai vv.13-26, dopo la pausa di riflessione (vv.7-12)

Similmente a 4,12-20, anche qui Paolo crea, ora, una pausa di riflessione su quanto è accaduto alle comunità della Galazia, lamentando come i Galati ora non diano più ascolto alla verità e come sia bastato un po' di lievito dei giudaizzanti per corrompere l'intera buona pasta delle chiese della Galazia, che correvano così bene nello Spirito. Ebbene, dice Paolo, questi saranno sottoposti al giudizio divino, chiunque essi siano (5,7-12). Queste continue pause di riflessione che interrompono la Lettera di Paolo sono molto significative, perché dicono quanta sofferenza e dolore ha provocato in lui la defezione delle chiese della Galazia, che egli ha fondato nella sofferenza.

Terminata la pausa di riflessione, Paolo riprende il tema enunciato nella pericope 5,1-6: la libertà a cui siamo stati chiamati in Cristo non deve intendersi come libertà di camminare ancora secondo la carne, ma va compresa come libertà che si esprime nell'amore, che si concretizza nel servizio vicendevole. Solo così si adempirà tutta la Legge, a cui i Galati si vogliono sottomettere: amando il prossimo come se stessi e non circoncidendosi. Questo significa camminare secondo lo Spirito, che si contrappone ai desideri della carne. Che cosa ciò significhi, Paolo lo esemplifica delineando comportamenti che si oppongono al proprio essere nello Spirito e a cui fa seguire altrettanti comportamenti, che caratterizzano, invece, coloro che si muovono secondo lo Spirito. Definiti, pertanto, i termini del vivere secondo la carne e secondo lo Spirito, Paolo attesta che coloro che appartengono a Cristo hanno crocifisso le loro passioni e, di conseguenza, vivono secondo lo Spirito e, pertanto, devono conformare anche il proprio vivere secondo lo Spirito (5,13-26).

Che cosa significhi concretamente vivere secondo lo Spirito, che si esprime nell'amore vicendevole, Paolo lo indicherà nella parte finale della sua Lettera, il cap.6, esemplificando: correggere amorevolmente chi è nell'errore; condividere le difficoltà altrui, senza volersi esaltare per questo, ma ognuno deve esaminare se stesso, per non cadere anche lui; condividere i propri beni con chi ci ha ammaestrati nella Parola. Comportarsi, quindi, bene, muovendosi secondo lo Spirito, poiché chi semina nella carne raccoglierà la propria rovina, ma chi semina nello Spirito raccoglierà la vita eterna. Mette, poi in guardia da quelli che spingono i Galati a circoncidersi, poiché lo fanno per interesse personale, per non essere perseguitati in quanto cristiani, poiché neppure i circoncisi osservano la Legge. Ma ciò che importa non è l'essere circoncisi o non circoncisi, ma l'essere creatura nuova in Cristo (6,1-18).


PARTE ESEGETICA E TEOLOGICA




Il prescritto (1,1-5)


Testo a lettura facilitata

Presentazione dell'autore della Lettera e sue credenziali (v.1)

1- Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti,

Co-mittenti e destinatari della Lettera (v.2)

2- e con me tutti i fratelli alle chiese della Galazia,

I saluti che si richiamano al piano salvifico di Dio annunciato dal Vangelo di Paolo ai Galati (vv.3-4)

3- grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e (dal) Signore Gesù Cristo,

4- che diede se stesso per i nostri peccati, per strapparci dal presente secolo malvagio secondo la volontà di Dio e Padre nostro,

Breve dossologia per la salvezza realizzata e manifestata nel Figlio (v.5)

5- al quale la gloria nei secoli dei secoli, amen.


Commento a 1,1-5

I primi cinque versetti, seguendo lo schema caratteristico delle lettere presso gli antichi, presentano l'autore della lettera (v.1-2a), i suoi destinatari (v.2b) e i saluti (vv.3-5).

Già in apertura della Lettera Paolo esibisce le sue credenziali, richiamandosi velatamente all'esperienza teofanica a cui alluderà in 1,15-16 e in qualche modo anticipandola qui. Egli si presenta come “¢pÒstoloj” (apóstolos). Termine questo che deriva dal verbo “¢postšllw” (apostéllo), che significa mandare, inviare, spedire. Il termine, quindi, più che dai Vangeli, che all'epoca in cui Paolo scrive le sue lettere ancora non esistevano, è mutuato da una funzione e da una posizione che alcuni credenti ricoprivano all'interno della propria comunità (Ef 4,11). Compito di tali “apostoli” doveva essere missionario ed di evangelizzazione. Erano probabilmente persone inviate dalla comunità di appartenenza ad annunciare il Vangelo. Esempi in tal senso ne troviamo in Rm 16,7, dove Andronìco e Giunia, che Paolo chiama “miei parenti e compagni di prigionia”, sono da lui definiti “insigni apostoli”. Più significativo è l'elenco delle funzioni all'interno della comunità in 1Cor 12,28, dove compare in prima posizione, quasi fosse una funzione fondamentale e di riferimento, certamente di importanza, il termine “apostoli”: “Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue”. Altrove, in 2Cor 11,13 vi sono personaggi che Paolo, sia pur in senso polemico definisce “falsi apostoli, operai fraudolenti, che si mascherano da apostoli di Cristo”; o, come in 2Cor 12,11, vengono definiti ironicamente come “superapostoli”. Esistevano, dunque, delle figure specifiche all'interno delle comunità credenti, che ricoprivano la mansione di “apostolo”.

Di certo, questi “apostoli” non dovevano essere soltanto persone di buona volontà, ma per il loro compito di annuncio dovevano essere culturalmente molto preparate, addentro alle questioni della fede e della dottrina, a conoscenza degli elementi della retorica e della predicazione. Potremmo definirli come abili retori e teologi, le punte di diamante della comunità stessa e, quindi, anche solidi punti di riferimento al suo interno. Il termine è certamente nato all'interno delle comunità credenti e designava determinate posizioni al loro interno, la quale cosa presuppone comunità già istituzionalizzate. Nei Vangeli il termine ricorre soltanto dieci volte6 e compare per la prima volta in Mc 3,14, dove si attesta: “E (ne) fece dodici [che denominò anche apostoli7] affinché fossero con lui e affinché li inviasse a predicare”, legando in tal modo la funzione di apostolo alla persona stessa di Gesù e caricandola, quindi, di una certa autorità e sacralità. È significativo questo, poiché lascia pensare che i Vangeli abbiano mutuato tale termine dall'uso corrente presso le comunità credenti e, facendolo risalire a Gesù, ne abbiano validato l'autorevolezza e la sacralità, una sorta di istituzione divina. Gli evangelisti, infatti, tendono a trasferire nei loro vangeli la situazione delle loro comunità.

Quindi la figura di “apostolo” doveva essere percepita dalla comunità credente come una funzione legata a Gesù e la cui mansione principale era quella dell'annuncio. E Paolo attesterà ciò di se stesso in 1Cor 1,17a: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo”. Paolo non è un pastore d'anime, ma un annunciatore, un seminatore della Parola, un apostolo per eccellenza, la cui apostolicità non dipende dai responsabili della comunità credenti, con i quali nulla ha a che vedere. E lo lascia intendere chiaramente in Gal 1,16b-18, dove dà inizio ad una sua prima missione, quasi d'impulso, senza prima consultare qualcuno, nemmeno i responsabili della chiesa madre di Gerusalemme, presso i quali si recherà soltanto tre anni dopo. Il suo mandato, infatti, lo ha ricevuto direttamente da Dio stesso: “non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti”. Significativa l'espressione “¢p' ¢nqrèpwn” (ap'antzrópon, da uomini), posta così, senza l'articolo determinativo “tîn” (tôn, gli) davanti al sostantivo “¢nqrèpwn” (antzrópon, uomini), indicando in tal modo l'origine non umana del suo incarico, concetto questo che viene rafforzato da quel “di' ¢nqrèpou” (di'antzrópu, per mezzo di uomo), negando in tal modo che un qualsiasi uomo abbia avuto a che fare con la sua apostolicità. Il riferimento qui è ai responsabili delle comunità credenti, gli unici in grado di conferire tale incarico. L'apostolicità di Paolo, pertanto, non ha in alcun modo a che vedere con gli uomini. Questa esclusione della dimensione umana dal suo essere apostolo prelude e implicitamente indirizza ad una diversa origine e provenienza, che si contrappone a quella umana. Una contrapposizione che viene rimarcata dalla particella avversativa “¢ll¦” (allà, ma), che precede l'espressione “per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre”, assegnando ad essa il senso di contrapposizione e, vista l'origine, di indiscutibile superiorità a qualsiasi titolo umano. E tutto ciò assegna a Paolo una indiscutibile fiducia e autorevolezza circa l'annuncio del Vangelo che egli ha fatto ai Galati, imprimendo su di esso il sigillo della veridicità, che esclude un qualsiasi altro vangelo (1,6-8).

Va colta la finezza con cui Paolo cita la vera origine della sua apostolicità: “per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre, che lo ha risuscitato dai morti”. Egli non si limita ad affermare che la sua investitura di apostolo discende da “Gesù Cristo”, come invece racconteranno in seguito gli evangelisti, facendo risalire a Gesù stesso l'istituzione dell'apostolicità, ma si spinge ben oltre, chiamando in causa lo stesso “Dio Padre” e, quindi, l'origine originante dello stesso Figlio, Gesù Cristo, la cui dipendenza dal Padre è resa più accentuata non solo dal titolo di Padre, ma anche dal fatto che Lui, il Padre, ha risuscitato Gesù dai morti. Quindi Paolo crea qui una sorta di catena di autorità e di potere: Gesù Cristo, che dipende dal Padre ed opera in nome e per conto del Padre, ma è Lui, il Padre, il punto assoluto di potere, che decreta la storia della salvezza, di cui Paolo è certamente uno strumento rilevante. Anzi, Paolo fa parte di questo piano di salvezza ideato dal Padre (1,15-16). Così facendo, Paolo fa risalire la sua apostolicità a Dio Padre stesso, inserendola in un contesto di piano salvifico, che ha per autore unico e supremo il Padre, che opera per mezzo del Figlio, Gesù Cristo, con la potenza dello Spirito Santo. Il richiamo, infatti, alla risurrezione di Gesù ad opera del Padre lascia intendere come questa sia espressione e realizzazione della Potenza del Padre, che è lo stesso Spirito Santo. Concetto questo che Paolo riprenderà in Rm 1,4: “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”.

Se Paolo è l'autore di questa Lettera ai Galati egli, tuttavia, non è il solo ad operare nel contesto di questo piano salvifico pensato dal Padre e attuato in Cristo con la Potenza del Padre, lo Spirito Santo; né tutto quello che dirà in essa è il solo frutto del suo pensiero, perché “con me tutti i fratelli”. I “fratelli”, termine questo con cui si definivano i credenti tra loro, qui non vanno compresi come un qualche gruppo particolare di persone con cui Paolo ha avuto a che fare, ma come l'intera umanità credente; quell'umanità che è in comunione con Paolo in virtù dell'unica fede in Cristo e che egli ricorderà in 3,27-28: “Quanti, infatti, siete stati battezzati in Cristo, siete stati rivestiti di Cristo. Non vi è fra (voi) Giudeo né Greco, non vi è (tra voi) schiavo né libero, non vi è (tra voi) maschio e femmina; tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù”. Tutti, quindi, sono in perfetta comunione tra loro al punto da formare un'unica realtà in Cristo. Ed è ciò che Paolo intende esprimere con quel “con me”. Paolo, dunque, non si presenta da solo ai Galati, ma con una doppia autorità: quella che gli viene da Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo e quella che gli viene dalla comunione con tutti i credenti nell'unica fede, dalla quale i Galati si sono scostati.

Dopo la presentazione dell'identità dell'autore della Lettera (1,1-2a), le cui credenziali sono già di per loro stesse sufficienti per imprimere il sigillo di garanzia della veridicità all'intera Lettera, seguono ora i destinatari: “alle chiese della Galassia” (1,2b). È l'unico caso tra tutte le sette le Lettere attribuite a Paolo8, in cui egli si rivolge “alle chiese” e non alla “chiesa” come è solito fare9. L'uso del plurale “chiese”, anziché “chiesa”, sta ad indicare che qui ci si trova di fronte ad una pluralità di comunità credenti, e come la Galazia sia un'ampia regione così da poter ospitare più comunità, ma nel contempo dice anche, da un lato, la fecondità dell'annuncio di Paolo e, dall'altro, l'entusiasmo spirituale che Paolo ha acceso presso i suoi ospiti e che egli ricorderà in un passaggio della Lettera: “Dov'(è) dunque la vostra felicitazione? Vi assicuro, infatti, che se (fosse stato) possibile avreste cavati i vostri occhi (e li) avreste dati a me” (4,15).

Seguono ora i saluti (1,3-5), che sono una formula di fede, simile ad un breve inno cristologico, che termina con una breve dossologia (1,5) e che in qualche modo va ad integrarsi e a completarsi con quel “Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” in 1,1b, affermando in tal modo il Mistero fondamentale su cui poggia la fede dei Galati: la morte-risurrezione di Gesù. Un tema, quello della morte e risurrezione, il cui schema risuonerà in vario modo e sotto varie forme all'interno della Lettera, dove si parla di libertà per i credenti, acquisita dalla morte-risurrezione di Cristo (5,1), dell'essere nuova creatura (6,15b), del morire alla Legge per vivere per Dio (2,19), dell'essere crocifisso con Cristo per vivere per Dio (2,20), del vivere secondo lo Spirito, camminando secondo lo Spirito (5,25). La stessa contrapposizione Legge-Spirito e carne-Spirito, che qua e là compare con più o meno evidenza nella Lettera, trova la sua logica nella morte-risurrezione di Gesù, dove il mondo vecchio è morto con lui sulla croce per essere rigenerato secondo lo Spirito nella risurrezione. Tema questo che verrà ripreso e approfondito da Rm 6,1-23.

L'apertura della sezione dei saluti inizia con una formula che è costante in tutte le Lettere paoline o di scuola paolina: “grazia e pace”, così come i saluti di chiusura di tutte le Lettere sono formulati secondo l'espressione di rito “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo” o “La grazia del Signore Gesù” o “La grazia del Signore nostro Gesù”, così da formare con il termine “grazia”, che compare all'inizio e alla fine delle Lettere, una grande ed unica inclusione che abbraccia l'intera Lettera, mettendola sotto l'egida della “grazia divina”. Ma cosa intende Paolo per “grazia”? Il termine, che ricorre 58 volte nelle sole Lettere a lui attribuite, ha un minimo comune denominatore, che lo lega a Dio Padre ed esprime il suo muoversi e il suo agire benefico, benevolo e misericordioso, che in vario modo si fa dono per gli uomini, finalizzato a riconciliarli con Lui per mezzo di Gesù Cristo, attraverso il quale questo dono benefico e misericordioso si è riversato su tutti gli uomini (Ef 1,4-8), egli stesso divenuto dono di amore del Padre all'intera umanità (Gv 3,16).

Quanto al termine “pace”, che qui come altrove si accompagna sovente a “grazia”, ricorre nelle sole Lettere attribuite a Paolo 31 volte ed è sinonimo di riconciliazione e di comunione con Dio Padre, ottenuta per mezzo di Gesù Cristo e che si riversa sui credenti e in essi si esprime e si manifesta nella loro capacità di perdono, di riconciliazione e comunione tra di loro e all'interno delle loro stesse comunità. Per questo Paolo abbina spesso i due termini, “grazia e pace”, poiché il dono della grazia si attua e si manifesta nella pace. In altri termini, l'azione di perdono e di misericordia in senso lato, che si riversa quale dono gratuito del Padre su tutti gli uomini per mezzo di Gesù Cristo, diventa per i credenti pace fatta con Dio Padre, cioè riconciliazione che si fa comunione di vita tra Dio e i credenti e i credenti tra di loro, così che tutti siano uno in Cristo e in lui nel Padre (3,27-28; 1Cor 15,28).

Grazia, dunque, e pace, quali doni che provengono da parte del Padre e “(dal) Signore Gesù Cristo”, in cui quel “dal” va letto e compreso come “per mezzo” del Signore Gesù Cristo. Non ci sono due diverse fonti di “grazie e pace”, ma unica, che è il Padre e si attua e si manifesta nel suo Figlio. Ed è a tal punto che Paolo fa una piccola pausa (v.4) per indicare ai Galati in quale modo questa “grazia e pace”, che provengono dal Padre attraverso Gesù Cristo, si sono attuate in lui: “il quale (Gesù Cristo) diede se stesso per i nostri peccati, per strapparci dal presente secolo malvagio secondo la volontà di Dio e Padre nostro”. In quel “diede se stesso” si esprime la totalità e la pienezza del dono che il Padre ha fatto nel suo Figlio, divenuto dono del Padre all'intera umanità (Gv 3,16). Un dono che ha una doppia finalità: distruggere in questo dono, che si esprime in modo unico e irripetibile ed ha il suo vertice nella morte di croce, “i nostri peccati”. Ed è proprio in questo che si attua e si manifesta la grazia del perdono misericordioso e incondizionato, che diviene il presupposto e la causa della pace, che è riconciliazione e comunione con Dio Padre in Cristo Gesù e che sottrae il credente dalla malvagità, in cui si trovava immerso, per essere trasferito in Dio (Col 1,13). E tutto ciò avviene “secondo la volontà di Dio e Padre nostro”, che dice, da un lato, come il tutto è avvenuto attraverso un prestabilito piano di Dio, che si manifesta e si attua nel Figlio (Ef 1,4.7-10); e dall'altro, come questo piano ha fatto si che Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, sia diventato anche “nostro Padre” (Gv 20,17).

Il v.5 diviene la logica conclusione delle considerazione fin qui addotte da Paolo, non solo riguardo al suo essere stato designato quale apostolo direttamente da Dio Padre e fatto così rientrare nel suo piano salvifico universale a beneficio dei gentili, ma anche per aver realizzato e manifestato in Gesù Cristo la la sua misericordia e il suo perdono, che mette in una nuova relazione di comunione il credente con Dio e che trova il suo vertice nella morte di croce e nella risurrezione, che Paolo esprime attraverso il connubio di “grazia e pace” .

A fronte di un simile progetto salvifico non resta a Paolo che innalzare una lode di ringraziamento per tanta benevolenza al Padre, “al quale la gloria nei secoli dei secoli, amen”.


Motivo e tema della Lettera (1,6-10)


Testo a lettura facilitata

Il motivo della Lettera (vv.6-7)

6- Stupisco che così rapidamente siate passati da colui che vi ha chiamati per grazia [di Cristo] ad un altro vangelo,
7- che non ve n'è un altro, se non alcuni che vi hanno sconvolto e che vogliono distorcere il vangelo di Cristo.

Anatemismi contro chi annuncia un Vangelo diverso da quello predicato da Paolo (vv.8-10)

8- Ma anche qualora noi o un angelo dal cielo [vi] annunciasse contro ciò che [vi] abbiamo annunciato, sia maledetto.
9- Come vi abbiamo detto e ora di nuovo dico: se qualcuno vi annuncia contro quello che avete ricevuto, sia maledetto.
10- Ora, dunque, blandisco gli uomini o Dio? O cerco di piacere agli uomini? Di più, se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo.


Commento ai vv. 1,6-10

Dopo il denso prescritto (vv.1-5), Paolo, secondo lo schema delle sue Lettere, dovrebbe passare ora al rendimento di grazie a Dio per l'impegno e la testimonianza nella fede dei destinatari; per i doni spirituali di cui si fregiano le comunità; per la loro testimonianza del vangelo e la sua diffusione che le caratterizzano o per l'operosità nella carità e l'impegno nella speranza. Sono questi i motivi spirituali del rendimento di grazie, che ricorrono nelle sue Lettere e che gli danno consolazione e testimoniano, nel contempo, la vita dei credenti a cui indirizza la sua lettera. Ma qui, in questa Lettera ai Galati, unica tra le Lettere attribuite a Paolo, non si accenna a nessun rendimento di grazie, poiché non c'è nulla di cui ringraziare. I Galati hanno tradito Paolo sia da un punto di vista umano, cosa che ricorderà in 4,13-16; sia perché hanno abbandonato il Vangelo che egli aveva annunciato loro.

Paolo, dunque, salta completamente la sezione del rendimento di grazie ed entra immediatamente nel merito della questione per cui egli scrive questa Lettera (1,6-10). La pericope è scandita in tre parti:

  1. il v.6 denuncia l'apostasia e apre con uno sferzante “Qaum£zw” (Tzaumázo, mi meraviglio, stupisco). La meraviglia e lo stupore di Paolo è contenuto tutto in quel “così rapidamente siate passati”, che dice come proprio egli non se l'aspettasse sia per le esperienze dello Spirito che essi avevano fatto dopo aver accolto il suo Vangelo (3,2-5); sia per come egli era stato accolto con entusiasmo e amorevolmente da loro, come fosse un angelo di Dio o lo stesso Gesù Cristo (4,13-16). Quando, dunque, Paolo scrive questa Lettera il tradimento era già stato consumato: “siete passati”. Ma quel “rapidamente” dice anche la fragilità della fede dei Galati, che doveva avere radici più emotive e sentimentali che dottrinalmente solide. Una conversione, quindi, superficiale, che non è riuscita a cambiare radicalmente la loro vita o quanto meno non aveva sufficienti motivazioni per sostenere il loro cambiamento o queste non erano sufficientemente profonde. Solo così si spiega quel “rapidamente”. Del resto, Paolo non è mai stato un pastore d'anime, ma un seminatore (1Cor 1,17a). L'azione pastorale la lasciava ad alcuni che a lui sembravano più interessati al suo annuncio e forse più preparati degli altri, e a loro dava la responsabilità della comunità appena fondata. E probabilmente sono stati proprio questi ad informare Paolo, mentre si trovava ad Efeso, dove ha dimorato per tre anni (At 20,31) e da dove scrive questa Lettera, di quanto stava succedendo presso le chiese della Galazia. Un esempio in tal senso lo si ha anche in 1Cor 1,11.

    Il passaggio è avvenuto “da colui che vi ha chiamati per grazia [di Cristo]”. Il “colui” che ha chiamato i Galati è lo stesso Dio Padre; chiamata che è avvenuta “per grazia” di Cristo, in cui il termine grazia va intesa quale dono misericordioso, che si è manifestato e attuato in Cristo. Nome quest'ultimo che qui la critica letteraria ha messo tra parentesi quadre, perché di incerta autenticità. Una chiamata che è avvenuta attraverso l'annuncio del Vangelo da parte di Paolo, al quale i Galati avevano inizialmente risposto con entusiasmo. E che si tratti di una defezione dal Vangelo di Paolo è suggerito dal fatto che Paolo parla di un passaggio avvenuto ad un altro vangelo. Questo lascia intendere che prima del secondo vangelo ve ne fosse stato un altro, quello annunciato da Paolo.

  2. Sarà, comunque, il v.7 ad accentrare l'attenzione sulla questione “vangelo”, del quale Paolo mette in rilievo l'unicità e l'esclusività, attribuendolo direttamente a Cristo e che egli in Rm 2,16 chiama “il mio vangelo”, quello che egli ha ricevuto, senza alcuna intermediazione umana , per rivelazione diretta da Dio Padre (1,11-12). Al di là di questo vangelo non ve ne sono altri “se non alcuni che vi hanno sconvolto e che vogliono distorcere il vangelo di Cristo”. Quindi non è una questione di un nuovo vangelo, ma di una distorsione dell'unico Vangelo causata da una errata interpretazione di alcuni, che leggono e comprendono il Vangelo di Cristo secondo uno schema mentale e culturale dal quale ancora non sono riusciti a liberarsi. Questi “alcuni” sono i giudeocristiani giudaizzanti, cioè cristiani convertitisi dal giudaismo, ma che sono ancora legati alla Legge mosaica, subordinando la salvezza portata da Cristo alla circoncisione, passando, cioè, attraverso il giudaismo e togliendo in tal modo la novità e l'unicità dell'evento Cristo in funzione della salvezza. Che questi siano dei cristiani provenienti dal giudaismo, lo lascia intendere il fatto che qui si parla di “un altro vangelo” e di distorcere “il vangelo di Cristo”. Quindi sono personaggi che credono nel vangelo portato da Cristo e per questo essi sono cristiani, ma Paolo aggiunge che questi cristiani distorcono il vangelo e li definisce come “falsi fratelli introdottisi, questi entrarono per spiare la nostra libertà, che abbiamo in Cristo Gesù, (e) per soggiogarci” (2,4). Sono dunque dei “fratelli”, termine questo con cui si designavano i credenti tra loro. Ma vengono definiti “falsi”, perché pur essendo cristiani, in realtà contestavano la “libertà”, cioè l'indipendenza dalla Legge mosaica con cui gli etnocristiani vivevano, alla quale volevano che anche essi fossero sottomessi attraverso la circoncisione. La distorsione quindi consisteva nell'interpretare il Vangelo di Cristo annunciato da Paolo alla luce della Legge mosaica, vanificandone in tal modo la novità portata da Cristo.

  3. Con i vv.8-9 Paolo passa agli anatemi con i quali si escludeva un membro dal popolo d'Israele e quindi dall'Alleanza e dalla Promessa, togliendogli in tal modo ogni identità sociale e religiosa. Nel N.T. essi corrispondono all'essere maledetti ed equivalgono ad una scomunica10. Paolo, quindi, contro questi tali che distorcono il Vangelo, non solo li maledice, ma li esclude anche dalla salvezza portata dal Vangelo di Cristo, che essi distorcono attestando la superiorità della Legge mosaica a Cristo. Lo fa con due passaggi progressivi. Il v.8 apre con un paradosso, che meglio accentua l'unicità esclusiva intangibile del Vangelo di Cristo: “qualora noi o un angelo dal cielo”. Lo stesso Paolo si autocondanna alla maledizione e si dichiara uno scomunicato, lanciando un anatema contro se stesso, se dovesse annunciare un vangelo diverso da quello che egli ha inizialmente annunciato ai Galati, fosse anche un angelo di Dio. Una sfida e un anatemismo che vengono lanciati in qualche modo anche contro il mondo di Dio, qualora qualcuno di questo mondo osasse annunciare un vangelo diverso da quello che egli ha annunciato. Un paradosso questo che arriva quasi al limite della blasfemia e della rivolta contro il mondo divino, dal quale Paolo non solo è stato chiamato per annunciare il Vangelo ai pagani, ma altresì questo Vangelo gli è stato rivelato direttamente da Dio Padre (1,16). Quindi, chiunque sia che appartenga a questo mondo e distorca il Vangelo proveniente da Dio stesso si pone contro Dio. Da qui la forza del suo anatema anche contro l'angelo dal cielo, cioè che appartiene al mondo di Dio. Per Paolo non fa differenza.

    Il secondo anatema viene lanciato con il v.9, che si rivolge esclusivamente al mondo degli uomini con quel pronome indefinito “qualcuno”. Due anatemi che di fatto Paolo lancia non solo contro il cielo e la terra, ma anche contro se stesso. E lo fa usando due diverse prospettive: dapprima parla di “vangelo annunciato” (v.8) e poi di “Vangelo ricevuto” (v.9), coinvolgendo in questo secondo aspetto i Galati e coloro che hanno distorto il Vangelo da loro inizialmente ricevuto.

La pericope degli anatemismi si chiude con il v.10, che funge da preambolo e da transizione all'ampia sezione successiva, 1,11-2,21, che riguarda le note autobiografiche di Paolo, la cui funzione precipua è quella di difendere la veridicità del Vangelo da lui annunciato ai Galati e tale da renderlo unico ed esclusivo e inalienabile.

Il v.10 pone due interrogativi retorici e un'affermazione perentoria, che formano la tesi che la sezione 1,11-2,21 si incaricherà di dimostrare e in qualche modo anticipa sia l'accusa che Paolo muoverà ai suoi avversari in 6,12-13 che l'episodio del voltafaccia di Pietro al sopraggiungere degli inviati di Giacomo (2,11-14): “Ora, dunque, blandisco gli uomini o Dio? O cerco di piacere agli uomini? Di più, se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo”. Paolo, dunque, si presenta l'uomo tutto d'un pezzo, inflessibile, scevro da compromessi là dove c'è in gioco il Vangelo, poiché qualsiasi compromesso a scapito del Vangelo toglierebbe a Paolo la sua credibilità di servo di Cristo ed ancor prima la sua identità di apostolo, mandato da Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo per annunciare il Vangelo ai gentili, tradendo la sua stessa missione.


Sezione autobiografica in difesa del Vangelo (1,11-2-14)


Parte prima della sezione autobiografica (1,11-24)


Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo alla sezione autobiografica (1,11-12)

11- Vi rendo, pertanto, noto, fratelli, che il vangelo che fu annunziato da me non è secondo l'uomo;
12- né, infatti, io l'ho ricevuto da un uomo né fui ammaestrato, ma per mezzo di una rivelazione di Gesù Cristo.

La vita di Paolo prima della chiamata di Cristo (1,13-14)

13- Udiste, infatti, della mia condotta quando (ero) nel Giudaismo, quando con slancio perseguitavo la chiesa di Dio e la devastavo,
14- e nel Giudaismo sopravanzavo su molti coetanei nella mia stirpe, essendo in modo più spiccato zelante delle tradizioni dei padri.

La chiamata di Paolo da parte di Cristo (1,15-16a)

15- Ma allorché Dio, che mi scelse dall'utero di mia madre e mi chiamò per mezzo della sua grazia, si compiacque
16a- di rivelare in me suo Figlio affinché lo annunci tra le genti,

La pronta risposta di Paolo alla chiamata di Cristo (1,16b-17)

16b- subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue,
17- né salii a Gerusalemme presso quelli (che erano) apostoli prima di me, ma me ne andai in Arabia e di nuovo ritornai a Damasco.

La visita di Paolo ai responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme (1,18-20)

18- In seguito, dopo tre anni, salii a Gerusalemme (per) conoscere Cefa e rimasi presso di lui quindici giorni;
19- degli apostoli, invece, non vidi (nessun) altro se non Giacomo, il fratello del Signore.
20- Quelle cose che vi scrivo, ecco, davanti a Dio, che non mento.

La ripresa della sua attività missionaria dopo la visita a Gerusalemme (1,21)

21- In seguito, andai nelle regioni della Siria e della Cilicia;

La missione di Paolo esclude i territori del Giudaismo (1,23-24)

22- ero, invece, sconosciuto di persona alle chiese della Giudea, che (sono) in Cristo.
23- avevano, invece, udito soltanto che colui che una volta ci perseguitava ora annuncia la fede che un tempo devastava,
24- e in me glorificavano Dio.

Note generali

La suddivisione della sezione autobiografica in due parti è dettata sia dal contenuto narrativo che da un'inclusione.
Quanto al contenuto narrativo della prima parte (1,11-24), a differenza della seconda (2,1-21), dove vengono riportati soltanto due episodi della vita di Paolo (2,1-15), accompagnati da una considerazione di natura dottrinale (2,16-21), questa prima parte è caratterizzata da una sequenza logica di eventi, che hanno portato Paolo ad essere quello che, al presente in cui scrive, è e che formano nel contempo anche la struttura narrativa di questa prima parte della sezione autobiografica:

  1. Preambolo narrativo, in cui Paolo mette se stesso e la sua missione sotto l'egida di un diretto intervento divino (1,11-12);

  2. La vita di Paolo prima della chiamata di Cristo eccelleva su tutti i suoi coetanei nel praticare la Legge mosaica, divenendo un feroce persecutore della “chiesa di Dio” (1,13-14);

  3. Ma, a seguito di una diretta e personale chiamata da parte di Dio stesso, che gli ha rivelato suo Figlio, affidandogli la missione di annuncio al mondo pagano, Paolo, senza consultare nessuno, ma obbedendo al mandato ricevuto direttamente da Dio, inizia subito la sua missione in Arabia (1,15-17);

  4. Soltanto dopo tre anni dalla sua chiamata, Paolo si reca presso i responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme, dove vi rimane quindici giorni per fare la conoscenza di Pietro e dove trova, sembra casualmente, anche Giacomo, un altro responsabile, assieme a Pietro e Giovanni della chiesa di Gerusalemme (1,18-20);

  5. Dopo questa visita, Paolo riparte per la sua missione, limitandola soltanto ai territori pagani della Siria e della Cilicia, evitando quelli di area giudaica (1,21-24);

Quanto all'inclusione, che delimita questa prima parte della sezione autobiografica, questa è data da due elementi: a) il medesimo argomento trattato sia in 1,13 che in 1,23: Paolo persecutore della chiesa di Dio; b) due identici verbi che si ripetono sia in 1,13 che in 1,23: perseguitare (™d…wkon, dièkwn, edíkon, diókon) e devastare (™pÒrqoun, ™pÒrqei, epórtzun, epórtzei).


Commento a 1,11-24

Preambolo introduttivo alla sezione autobiografica (1,11-12)

L'intera sezione autobiografica (1,11-2,21) si apre enunciando il tema che vi sarà trattato, mettendo in rilievo la centralità del Vangelo, che Paolo ha annunciato, la cui origine non va fatta risalire all'uomo o alla sua sapienza, ma gli è stato consegnato e in esso ammaestrato da Dio stesso per mezzo di una rivelazione divina (1,11-12). La missione di Paolo, dunque, come il Vangelo da lui predicato sono di origine divina. Ed è questo che mette il sigillo della veridicità sulla sua azione missionaria e sulla sua predicazione. Una questione questa che Paolo aveva già in qualche modo anticipato in apertura della Lettera, di cui riprende qui sostanzialmente l'identico linguaggio: “Paolo apostolo non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre” (1,1a). Attestazioni queste che egli sottoscriverà in 1,20 con una sorta di giuramento, chiamando in causa la testimonianza di Dio stesso su quanto egli va affermando: “Quelle cose che vi scrivo, ecco, davanti a Dio, che non mento”. Significativo è come si apre questa sezione: “Gnwr…zw g¦r Øm‹n” (Ghnorízo gàr imîn), “Vi rendo pertanto noto”. Si tratta, dunque, di una presentazione che assume qui il carattere di ufficialità. Il verbo “Gnwr…zw” (Ghnorízo), oltre che il significato di “rendere noto”, ha infatti anche quello di “dichiarare”. Ci si trova dunque di fronte ad una attestazione che ha valore asseverativo. L'espressione “Gnwr…zw g¦r Øm‹n” (Ghnorízo gàr imîn) forma, dunque, la cornice entro cui viene collocata l'intera sezione autobiografica, sulla quale viene impresso il marchio della veridicità.

La fonte del suo Vangelo, pertanto, così come la sua stessa vocazione non solo provengono direttamente da Dio Padre, ma fanno parte del suo piano salvifico. Ciò a cui Paolo qui allude è l'esperienza di Damasco, che gli ha radicalmente stravolto la vita e alla quale alluderà con molta discrezione altre due volte in 1Cor 9,1 e in 15,8 e che Luca, in forma narrativa, racconterà nei suoi Atti degli Apostoli per ben tre volte in 9,1-30; 22,3-21; 26,9-20, tanto fu determinante per Paolo e per la chiesa stessa tale evento. È da chiedersi che cosa avrebbe perso la chiesa in termini di profondità del Mistero di Cristo e di sviluppo del suo pensiero teologico e cristologico se non ci fosse stato Paolo. Francamente, se dovessimo togliere dal N.T. il Corpus paulinum rimarrebbe, a mio avviso, ben poco.

Il Preambolo di apertura di questa sezione autobiografica, pertanto, non solo annuncia il tema, ma dà anche il “la” all'intera sezione. Si tratta in buona sostanza di una sorta di enunciazione di tesi, che l'intera sezione autobiografica è chiamata a dimostrare.

La vita di Paolo prima della chiamata di Cristo (1,13-14)

Paolo inizia ora a tratteggiare a grandi linee il racconto della sua vita partendo da com'era prima dell'evento di Damasco, nota questa necessaria perché servirà ai Galati per comprendere quale trasformazione ha operato in lui tale evento e, quindi, mettere in rilievo la portentosità dell'intervento divino in lui, posto a garanzia del suo Vangelo. Serve, dunque, per creare un gioco di chiaro-scuro da cui emerge prepotente l'azione di Dio su Paolo: da fanatico persecutore della chiesa di Dio a fanatico testimone del suo Vangelo.

L'informazione che qui ci viene passata è scandita in due parti, in cui la prima viene spiegata in qualche modo dalla seconda: la prima riguarda l'attività di Paolo contro la chiesa di Dio (1,13); la seconda la sua condotta nel Giudaismo (1,14). La prima diviene, pertanto, conseguenza della seconda.

Il v.13 si apre con un “Udiste”, che lascia intendere come l'azione persecutoria di Paolo contro la chiesa avesse assunto una notevole notorietà ed un'eco profonda in molte regioni, così che tutti temevano questo “pazzo furioso”. Egli era conosciuto ovunque per questo suo fanatismo persecutorio, quasi una sorta di ossessione. Egli parla qui di una persecuzione che operava con “slancio”. L'espressione avverbiale “kaq' Øperbol¾n” (katz'iperbolén) ha il senso di “con grande forza”, “in modo eccessivo”, “all'eccesso” ed indica le modalità di esecuzione di questa persecuzione, che aveva come esito finale una devastazione della chiesa stessa, che lascia intendere il livello di distruzione che egli causava. I due verbi posti all'imperfetto indicativo, tempo durativo, (“perseguitavo” e “devastavo”), dicono la persistenza di questo suo comportamento distruttivo. Attività persecutoria che Paolo ricorda non solo qui ma anche in 1Cor 15,9 e Fil 3,6 e che Luca nei suo Atti descriverà in modo efficace ed impressionante: “Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione” (At 8,3); “Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore” (At 9,1a); “Io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arrestando e gettando in prigione uomini e donne” (At 22,4); “Anch'io credevo un tempo mio dovere di lavorare attivamente contro il nome di Gesù il Nazareno, come in realtà feci a Gerusalemme; molti dei fedeli li rinchiusi in prigione con l'autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti e, quando venivano condannati a morte, anch'io ho votato contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all'eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere” (At 26,9-11).

Il motivo di tanto accanimento Paolo lo evidenzia al v.14 dove rileva come egli “sopravanzasse nel Giudaismo i suoi coetanei” e quanto “fosse zelante nelle tradizioni dei padri”. Due attestazioni che denunciano più che una formazione culturale un tratto caratteriale di Paolo: egli era un passionale, un inarrestabile attivista, mosso dentro da un fuoco divoratore in tutto ciò che faceva. Nulla poteva fermarlo, nessun dubbio, nessun ostacolo. Egli, con foga, metteva tutto se stesso in ciò che faceva, senza curarsi di quanto gli stava d'intorno, pur di attuare i suoi progetti e i suoi intenti, che idealizzava. Lo si può ben definire un fanatico. Di certo la sua educazione culturale e religiosa ha favorito e rafforzato questo suo innato estremismo sempre pronto alla lotta e a nuove sfide, ma di certo non l'ha creato. Luca ne fa cenno nei suoi Atti, mettendolo sulle labbra di Paolo: “formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio” (At 22,3); “come fariseo, sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione” (At 26,5b). Egli era “un fariseo, figlio di farisei” (At 23,6).

Un idealismo, una foga e un fanatismo che lo rendevano inarrestabile anche nella sua missione. Di ciò ne dà una significativa testimonianza in 2Cor 11,23-28: “Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese”. E tutto ciò lo porterà ad esclamare: “Chi ci separerà dunque dall'amore di Cristo? Forse la tribolazione, l'angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?” […] Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (Rm 8,35.38-39).

Questo fu Paolo, un fanatico contro Cristo; ora, un fanatico per Cristo. Ma tra il primo e il dopo ci fu di mezzo l'evento di Damasco, che lo illuminerà anche sul senso del suo esserci e a cui egli, ora, allude ai vv.15-16a.

La chiamata di Paolo da parte di Cristo (1,15-16a)

Dopo aver accennato alla sua vita prima dell'incontro con Cristo, Paolo, ora, passa a spiegare in modo sintetico, ma nel contempo analitico le quattro fasi della sua radicale trasformazione e lo fa ricorrendo al linguaggio degli antichi profeti (Is 49,1; Ger 1,5), che colloca Paolo in un più ampio progetto di salvezza, che in qualche modo richiama Ef 1,4a: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”. Vi è, dunque:

  1. dapprima, una “scelta” di Paolo ad opera di Dio fin dal suo concepimento;

  2. poi la sua “chiamata” da parte di Dio. Una chiamata che è sequenziale alla scelta originale e si attua attraverso la “grazia”. Un grazia, che comunque, ha già operato nella scelta e che ancor prima si aggancia al piano salvifico di Dio Padre. Come, dunque, interpretare questa “grazia”? Poiché il tutto si inserisce in un piano salvifico, questa grazia va compresa come l'agire provvido e misericordioso di Dio nella storia, che lo ha spinto a donare suo Figlio al mondo, perché credendo in lui il mondo non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16). In questo agire divino, che è una chiamata alla salvezza di tutti gli uomini indistintamente (1Tm 2,4), a Paolo viene riservato uno spazio importante, poiché egli, fin dal suo concepimento, ma ancor prima, fin dall'eternità di Dio stesso, è destinato a manifestare suo Figlio alle genti, perché tutti in lui siano salvi, tutti in lui siano ricondotti a Dio e in Dio, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché la creazione e con essa l'umanità erano ancora incandescenti di Dio (Gen 1,31). Una visione cosmica della salvezza alla quale Paolo alluderà in 1Cor 15,26-27a.28: “L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. [...]. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti

  3. la terza fase parla di una “rivelazione” di Gesù, quale Figlio di Dio, da parte del Padre. Una rivelazione che avviene “in me”. Di che cosa si è trattato? Di una vera e propria visione del Mistero del Gesù morto-risorto e del senso del suo morire e risorgere? O di una illuminazione interiore, cosa che quel “in me” sembra suggerire? È importante capire cosa è successo realmente in questa terza fase, poiché da questo dipende il Vangelo di Paolo, che egli dice essergli stato rivelato da Dio stesso (1,11-12).

  4. la quarta ed ultima fase è “l'invio in missione tra le genti”. Tutto, dunque, è preordinato a quest'ultima fase, che è il coronamento di quella scelta originale e di quella chiamata a cui si è associata la rivelazione del Vangelo da manifestare alle genti. Un progetto che Paolo (o probabilmente la sua scuola, che comunque ne rispecchia il pensiero) definisce come il Mistero nascosto nei secoli e di cui egli è il ministro e cioè che i Gentili sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo, del quale sono divenuto ministro per il dono della grazia di Dio a me concessa in virtù dell'efficacia della sua potenza. A me, che sono l'infimo fra tutti i santi, è stata concessa questa grazia di annunziare ai Gentili le imperscrutabili ricchezze di Cristo” (Ef 3,6-8).

La pronta risposta di Paolo alla chiamata di Cristo (1,16b-17)

La passionalità irruenta di Paolo, che non conosce ostacoli, lo spinge ad attuare immediatamente l'incarico ricevuto: annunciare alle genti, cioè al mondo pagano, il Vangelo rivelatogli dallo stesso Dio Padre circa il Mistero del suo piano di salvezza attuato nel suo Figlio: “subito non chiesi consiglio alla carne e al sangue, né salii a Gerusalemme presso quelli (che erano) apostoli prima di me”. Quel “subito”, fatto seguire alla rivelazione e al mandato di annunciare, dice tutta l'immediatezza, quasi l'istantaneità con cui Paolo dà seguito al suo mandato; e lo fa senza chiedere “consiglio alla carne e al sangue”, un ebraismo per dire che Paolo prima di iniziare la sua missione non consultò nessun essere umano. L'unico punto di riferimento è la rivelazione e il mandato ricevuti da Dio e se stesso. Egli è certo dell'esperienza avuta, è certo che lui è stato chiamato e inviato, è certo che su di lui pesa e poggia il progetto salvifico, che Dio ha pensato anche per il mondo pagano e che la responsabilità è sua. Non c'è, dunque, bisogno di consigli e consultazioni. Non c'è bisogno di approvazioni o appoggi, perché “Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”, esclamerà in Rm 8,31. Per questo egli passa oltre anche ad ogni istituzione, come la chiesa-madre di Gerusalemme, poiché egli fa capo a Dio stesso e non a istituzioni umane, sia pur di fondamento divino. Il suo mandato, del resto, già lo ha detto in apertura della Lettera, proviene “non da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti” (1,1). Già in questo primo versetto c'è tutta la forza travolgente di Paolo, che lo mette al di sopra ogni istituzione umana. In lui opera la forza irresistibile di Dio, che si accorda perfettamente con il suo carattere passionale, irruento e inarrestabile. Da qui la sua decisione di iniziare la sua missione in Arabia. Il nome Arabia nel N.T. ricorre soltanto due volte e soltanto qui nella Lettera ai Galati, in 1,17 e in 4,2. Essa designa il territorio posto immediatamente ad est e a sud della Palestina, abitato dai Nabatei, una stirpe araba che si era stanziata lì nel III sec. a.C. e che nel corso del I sec. a.C. avevano esteso il loro territorio, che va da Damasco, al nord, fino a Gaza, a sud, ed aveva per capitale Petra. E Arabia era considerato dai Greci e dai Romani il territorio dei Nabatei11. Paolo, dunque, deve aver fatta la sua prima escursione missionaria in questo territorio dei Nabatei, appena di là di Damasco, dove ha avuto l'esperienza del Cristo risorto e dove risiederà per tre anni e qui vi ritornerà dopo questa sua prima esperienza missionaria.

La visita di Paolo ai responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme (1,18-20)

Ora il racconto di Paolo sulla sua vita dopo l'evento di Damasco prosegue con un “œpeita” (épeita, in seguito), che si ripeterà altre due volte in 1,21 e in 2,1, scandendo l'avanzare del racconto stesso. Un “œpeita” che acquista una doppia valenza all'interno della sua narrazione: il primo e il terzo (1,18 e 2,1) scandiscono il tempo a partire dall'evento di Damasco (35 d.C.), per cui i “tre anni” (1,18) e i “quattordici anni” (2,1) sono la conta che parte da tale evento; mentre il secondo “œpeita” fa riferimento alla visita che egli ha fatto ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme.

Un racconto che, non va mai dimenticato, Paolo spende sia per riaccreditare se stesso presso i Galati, presso i quali era stato screditato dai suoi avversari, i giudeocristiani giudaizzanti, che egli definisce in 2,4 “falsi fratelli”; e sia, e questo è il vero obiettivo del suo narrare, per difendere il Vangelo da lui annunciato e che gli è stato rivelato da Dio Padre stesso (1,16).

Ed è proprio per questo, per sottolineare come il suo mandato e il suo Vangelo non è da uomini né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre (1,1.15-16), che egli vuole mettere in chiaro anche l'episodio, che forse i Galati conoscono, quello del suo essersi recato a far visita ai responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme. Si nota in questo la preoccupazione di Paolo a minimizzare l'importanza di questa sua visita: essa avvenne soltanto tre anni dopo l'evento di Damasco, durante i quali egli aveva già iniziato la sua missione presso il mondo pagano su diretto mandato di Dio Padre, annunciando un vangelo che gli è stato rivelato da Dio Padre stesso. Quindi la sua visita a Gerusalemme è stata del tutto ininfluente sia sul suo mandato che sulla sua predicazione, anche perché dei responsabili e degli anziani di Gerusalemme ha incontrato soltanto Pietro e solo casualmente Giacomo, che egli indica come “il fratello del Signore”12, ma poi nessun altro; e qui vi è rimasto soltanto quindici giorni. Tutti questi particolari che circoscrivono questa visita alla chiesa-madre di Gerusalemme, tendono a minimizzarla, per mettere in rilievo l'indipendenza di Paolo e del suo Vangelo dagli uomini o da organizzazioni umane, evidenziando in tal modo, una volta di più, l'origine divina della sua missione e della sua predicazione, che già in apertura della Lettera mette in evidenza (1,1).

E conclude il racconto della sua visita alla chiesa madre di Gerusalemme, sottolineandone la veridicità: “Quelle cose che vi scrivo, ecco, davanti a Dio, che non mento”. Egli chiama qui in causa la testimonianza di Dio stesso su quanto egli ha appena detto, ma includendo implicitamente anche quanto egli dirà subito, qui di seguito. Ed anche in questa sottolineatura si sente tutta la preoccupazione di Paolo a minimizzare questa visita, sottolineando la sua indipendenza da ogni organizzazione umana. Egli non dipende da nessuna chiesa, ma soltanto da Dio Padre, che gli ha rivelato suo Figlio e lo ha inviato ad annunciarlo alle genti (1,15-16).

Ed è per evidenziare una volta di più l'indipendenza della sua missione e della sua predicazione che egli riprende a raccontare della sua attività missionaria, che aveva iniziato in tutta autonomia e di sua iniziativa immediatamente dopo l'evento di Damasco (1,17) ed ora, dopo l'incontro di Gerusalemme, prosegue per la Siria e la Cilicia (1,21; At 15,36-41). Un'attività che Paolo spende solo a favore del mondo pagano, escludendo quello giudeocristiano, non volendo invadere il territorio e le competenze di altri, cioè della chiesa-madre di Gerusalemme (1,21-24). Una divisione che verrà poi sancita nel 49 d.C., durante quello che viene definito il primo concilio di Gerusalemme (2,7-9; At 15,1-35).

Il motivo di fondo di questa divisione territoriale nella missione è essenzialmente di tipo culturale e religioso. La chiesa di Gerusalemme e i suoi inviati sono provenienti dal giudaismo ed hanno forti resistenze e molte perplessità nell'entrare in rapporti con il mondo pagano, che ritengono impuro e destinato alla perdizione, come lascerà trasparire l'episodio di Pietro ad Antiochia (2,11-15) e il sostanziale fallimento della colletta promossa da Paolo presso le chiese etnocristiane da lui fondate a favore della chiesa-madre di Gerusalemme (Rm 30-31), finalizzata a creare una comunione tra chiese giudeocristiane ed etnocristiane e, quindi, l'accettazione da parte del mondo giudeocristiano di quello etnocristiano, superando in tal modo le divisioni e le resistenze che ancora sopravvivevano nei giudeocristiani e nella stessa chiesa-madre di Gerusalemme nei confronti del mondo pagano13. Ci si trova di fronte ad un cristianesimo che risente ancora fortemente della Legge mosaica e tende ad essere, al di là delle dichiarazioni ufficiali, ancora giudaizzante, cioè tendente a vivere in conformità alle disposizioni della Legge mosaica, dando preferenza a queste piuttosto che alla novità dell'evento Cristo (At 15,5-6), come lasceranno intravvedere le dichiarazioni rilasciate dai responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme a chiusura del concilio (At 15,28-29). Per contro, Paolo e i suoi discepoli e con loro la chiesa etnocristiana di Antiochia hanno una visione sostanzialmente opposta: la salvezza portata da Cristo è parimenti per i Giudei e per i pagani e quindi se la salvezza viene da Cristo non può più venire da Mosè e, di conseguenza, non ha più senso la circoncisione. E benché anche la chiesa-madre di Gerusalemme in linea di principio fosse d'accordo su tale posizione dottrinale (At 15,7-11), tuttavia in linea di fatto operava contrariamente (2,12-13; At 15,1.5).

Parte seconda della sezione autobiografica (2,1-14)

Due episodi a testimonianza: concilio di Gerusalemme (2,1-10); Pietro ad Antiochia (2,11-14)

Primo episodio: gli eventi del concilio di Gerusalemme (2,1-10)


Testo a lettura facilitata

Preambolo (2,1)

1- In seguito, dopo quattordici anni salii di nuovo a Gerusalemme con Barnaba, preso insieme (con me) anche Tito;

Motivi e finalità della visita a Gerusalemme (2,2-6)

2- (Vi) salii a seguito di una rivelazione; e riferii a loro il vangelo che predico tra le genti, ma a parte, a quelli che decidono, affinché, in qualche modo, non corra o abbia corso invano.
3- Ma neppure Tito, che (era) con me, (pur) essendo Greco, fu costretto ad essere circonciso.
4- Ma a causa di falsi fratelli introdottisi, questi entrarono per spiare la nostra libertà, che abbiamo in Cristo Gesù, (e) per soggiogarci,
5- a questi non cedemmo alla sottomissione neppure per un istante, affinché la verità del vangelo persistesse presso di voi.
6- Da quelli che invece sembrano essere qualcosa, quali fossero allora non m'importa niente, Dio non prende (in considerazione) l'aspetto dell'uomo, a me, infatti, quelli che decidono non imposero niente,

La suddivisione delle aree di competenza dell'attività missionaria (2,7-9)

7- ma per questo, avendo visto che mi fu affidato il vangelo dell'incirconcisione come Pietro (quello) della circoncisione,
8- colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti,
9- ed avendo conosciuto la grazia che mi fu data, Giacomo e Pietro e Giovanni, che sono ritenuti essere (le) colonne, diedero a me e a Barnaba (la mano) destra di comunione, affinché noi per le genti ed essi, invece, per la circoncisione;

La richiesta di aiuto per i poveri della chiesa-madre di Gerusalemme (2,10)

10- (Ci sollecitarono) soltanto affinché ci ricordassimo dei poveri, e ciò mi preoccupai di fare proprio questo.


Note generali

Il secondo capitolo continua il racconto autobiografico di Paolo, non più in modo logico e sequenziale, come nella prima parte, cioè con un susseguirsi di episodi, ma prendendo due episodi significativi e utili a Paolo per sostenere la propria tesi: la sua totale indipendenza dalla chiesa-madre di Gerusalemme, che, comunque, appoggia la missione di Paolo e approva la sua predicazione, nonché la sua linea dottrinale circa la non circoncisione degli etnocristiani. Questo per rispondere implicitamente anche ai suoi avversari giudaizzanti, che lo pongono in contrapposizione ad essa.

Il primo episodio (2,1-10), riguarda una sorta assemblea plenaria degli apostoli ed anziani di Gerusalemme con i rappresentanti della chiesa di Antiochia, Paolo e Barnaba, e da questa inviati per dirimere una questione di vitale importanza: “Se non vi fate circoncidere secondo l'uso di Mosè, non potete esser salvi” (At 15,1b). In altri termini: la salvezza dipende dalla Legge mosaica o da Cristo? Ci si trovava, dunque, di fronte ad un aut aut: o Mosè o Cristo, entrambi irriducibili l'uno all'altro.

Fu questo, di fatto, benché non rientrante nell'ufficialità dei concili, il primo concilio della storia della chiesa, che ne conta ad oggi 21, avvenuto a Gerusalemme nel 49 d.C. dove viene dibattuta la questione dell'imposizione o meno della circoncisione ai cristiani provenienti dal mondo pagano e dove si risolverà, almeno in linea di principio e dottrinale, la questione, esentando gli etnocristiani dalla circoncisione e, quindi, di fatto negando alla Legge mosaica un qualsiasi potere salvifico, che viene invece attribuito al solo Cristo e alla sola fede in lui (At 10,34-35; 15,7-11). Una dichiarazione di vitale importanza, poiché viene superata la Legge mosaica e con questo superamento il cristianesimo si avvia ad acquisire la sua nuova identità, che lo distingue dal Giudaismo e ad esso la contrappone: Cristo e non più Mosè. Il giudaismo, pertanto, viene abbandonato e la chiesa, nata dal Giudaismo, percorre una nuova strada sua propria, non rinnegando il Giudaismo, da cui proviene e in cui comunque ha le sue radici, ma ritenendolo, invece, preparatorio all'evento Cristo (3,24-25).

Sempre nella stessa occasione verrà chiesto a Paolo di ricordarsi dei poveri della chiesa madre di Gerusalemme, colpiti da una grave carestia. Cosa che Paolo prenderà a cuore, quale segno di comunione tra le comunità giudeocristiane e quelle etnocristiane da lui fondate (2,10). Da qui ha origine la colletta, alla quale Paolo attribuisce una notevole importanza ecclesiologica (v. qui sopra pagg. 11-12).

I punti salienti di questa assemblea plenaria sono sostanzialmente tre:

  1. l'approvazione della linea missionaria di Paolo e del suo Vangelo da parte dei responsabili (“quelli che decidono” 2,2c) della chiesa-madre di Gerusalemme, per evitare fraintendimenti, contestazioni o contrapposizioni tra la linea dottrinale e teologica di Paolo e quella dei responsabili della chiesa. Un chiarimento necessario perché Paolo non vuole operare autonomamente e/o in contrapposizione alla chiesa madre di Gerusalemme, ma in comunione ad essa;

  2. l'esclusione della circoncisione, quale elemento necessario per aderire a Cristo e accedere alla salvezza e, di conseguenza, l'affermazione della supremazia della fede in Cristo sulla circoncisione, che viene abbandonata a favore della fede. La quale cosa significa l'abbandono della Legge mosaica e, di fatto, del giudaismo a tutto favore di Cristo, quale unico e nuovo evento di salvezza, al quale la Legge mosaica era preordinata;

  3. la suddivisione dei territori missionari e dei destinatari dell'azione missionaria: la chiesa di Gerusalemme si riserva la propria azione missionaria a favore delle aree del giudaismo; Paolo, quelle del mondo dei pagani. Una divisione che, come sopra accennato, riflette la riluttanza dei giudeocristiani, di cui la chiesa di Gerusalemme è rappresentante, nei confronti dei pagani e degli etnocristiani, ritenuti comunque impuri e, quindi, da evitare. Un comportamento che denuncia la difficoltà dei giudeocristiani a superare la loro cultura e la loro religione per il nuovo evento Cristo.

L'appendice conclusiva di questa cruciale e decisiva assemblea plenaria è una raccomandazione a Paolo da parte dei responsabili, perché si ricordi dei poveri, cosa che Paolo non solo se ne farà carico, ma attribuirà (2,10) un significato del tutto particolare, quello di una comunione tra tutte le comunità credenti sia giudeocristiane che etnocristiane, che presuppone implicitamente l'abbandono definitivo del giudaismo a favore esclusivo di Cristo.

Il secondo episodio (2,11-14), che qui Paolo riporta e che è in stretta relazione con la decisione dell'assemblea di Gerusalemme, qui sopra ricordata, anche se non in stretta linea temporale, riguarda il comportamento ipocrita di Pietro, che sta con un piede su due staffe e che denuncia come egli non abbia ancora superato quel giudaismo che condizionava fortemente i giudeocristiani e la stessa chiesa-madre di Gerusalemme, di cui Giacomo era un responsabile, una delle tre colonne di tale chiesa, assieme a Pietro e a Giovanni (2,9), nei confronti dei pagani e degli etnocristiani. Paolo prenderà posizione nei confronti di questo comportamento ambiguo da parte di Pietro. Un episodio questo che servirà a Paolo per rimarcare la nuova linea di comportamento che era stata, o quanto meno doveva essere stata, inaugurata con il concilio di Gerusalemme.

Il cap.2 della Lettera è strutturalmente diviso in tre parti. Le prime due riguardano rispettivamente i due episodi autobiografici di Paolo, qui sopra riportati (2,1-10 e 2,11-14); la terza parte (2,15-21) potremmo considerarla come una riflessione che Paolo ne ricava dal comportamento di Pietro e che costituisce una sorta di preambolo alla sezione dottrinale (3,1-4,31).

Un'attenzione particolare va posta sulla pericope 2,1-10 per lo sviluppo contorto del pensiero, che crea una qualche difficoltà di lettura e di comprensione. L'intera pericope dipende da 2,1 dove si parla della “salita a Gerusalemme” con “Barnaba e Tito”. Paolo riprende e sviluppa, quindi, ai vv.2 e 3 i due punti enunciati in 2,1. In 2,2 spiega i motivi della sua salita a Gerusalemme; in 2,3 introduce il tema degli etnocristiani incirconcisi, come lo era il greco Tito, per dimostrare come anche la chiesa-madre di Gerusalemme non ha avuto niente da ridire su questo etnocristiano e sul fatto che fosse incirconciso. Ma qui Paolo si attarda con i vv.4-6, creando in tal modo un notevole stacco tra i vv. 2,2 e 2,7-9, tra loro in qualche modo concatenati. Così che, concluso il discorso sull'incirconciso Tito, che occupa i vv.3-6, e sui motivi della sua salita a Gerusalemme (2,2), Paolo riprende nuovamente con i vv.7-9 il primo tema enunciato e solo in parte sviluppato in 2,1-2, riportando quella che probabilmente fu la conclusione unanime della sua esposizione ai responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme della sua linea di pensiero e della sua azione missionaria tutta dedita al mondo dei pagani (2,2), la suddivisione dei i territori di azione missionaria: la chiesa-madre di Gerusalemme si sarebbe riservata l'azione verso il mondo giudaico; Paolo il mondo pagano. Meglio sarebbe stato se i vv. 2,7-9 avessero seguito e portato a termine 2,2, mentre il tema della non circoncisione per gli etnocristiani, sviluppatosi attorno alla figura di Tito, averlo trattato dopo i vv. 2,7-9, cosa che farò nel mio commento. Il pensiero ne avrebbe guadagnato in chiarezza ed efficacia.

Commento ai vv. 2,1-14

Primo episodio: gli eventi del concilio di Gerusalemme (2,1-10)

Preambolo (2,1)

Con 2,1 Paolo inizia un nuovo racconto autobiografico, dandogli, con quel terzo ed ultimo “”Epeita” (Epeita, In seguito), una successione temporale a quelli precedentemente raccontati in 1,11-24. Quindi il racconto autobiografico riparte, tenendo presente, come punto di partenza del calcolo, il momento decisivo della vita di Paolo, l'evento di Damasco, avvenuto nel 35 d.C. I quattordici anni qui menzionati, pertanto, vanno fatti partire dal 35 d.C e quindi l'episodio qui narrato si colloca nel 49 d.C. Data questa che concorda con una carestia (46-48 d.C.) scoppiata sotto l'imperatore Claudio (41-54 d.C.), ricordata anche in At 11.27-30, e alla quale probabilmente ci si riferisce in 2,10, menzionando i poveri di Gerusalemme.

Paolo precisa che salì “di nuovo a Gerusalemme”, ma quattordici anni dopo. Il rilevare il lungo periodo tra l'evento di Damasco e la nuova visita a Gerusalemme ed anche, implicitamente, rispetto alla prima avvenuta tre anni dopo l'evento (1,18), dice come Paolo agisse autonomamente e come egli fosse di fatto svincolato dalle imposizioni e/o direttive della chiesa di Gerusalemme, per sottolineare ancor di più come il suo mandato missionario e il suo Vangelo non dipendessero da questa, ma da Cristo e da Dio Padre (1,1), che gli ha rivelato direttamente senza alcuna intermediazione umana il Vangelo di Cristo (1,11-12.16).

La sua nuova salita a Gerusalemme, la seconda dopo quella citata in 1,18, ve ne sarà poi una terza ed ultima tra il 58-60 d.C, viene compiuta non più da solo come in 1,18, bensì assieme a Barnaba, una figura eminente all'interno della chiesa primitiva14, con l'aggiunta di Tito15, che qui sembra essere una figura secondaria e provocatoria rispetto a Barnaba, ma che Paolo se ne servirà per dimostrare ai Galati che Tito, pur essendo greco e quindi un etnocristiano non circonciso, portato da Paolo in Gerusalemme davanti all'assemblea plenaria della chiesa di Gerusalemme, formata da giudeocristiani, non venne contestato per la sua presenza in mezzo a loro e non gli chiesero né gli imposero di circoncidersi. Questa per Paolo è la prova provata che i responsabili della chiesa di Gerusalemme avevano sposato la sua tesi, cioè la non necessità della circoncisione per accedere a Cristo e come essi avessero accettata la presenza di questo etnicocristiano senza rimostranze o pretese. Hanno torto, quindi, quei “falsi fratelli” (2,4), i giudeocristiani giudaizzanti, che gli vanno contro e lo contestano per la sua linea missionaria e dottrinale, predicando “un altro vangelo” (1,6), distorcendo quello di Cristo (1,7.)

Motivi e finalità della visita a Gerusalemme (2,2.7-9)

Paolo ora espone i motivi della sua salita a Gerusalemme e che cosa, dopo quattordicianni dall'evento di Damasco, lo ha mosso. Attesta che si recò nuovamente a Gerusalemme “a seguito di una rivelazione”. Come intendere questa “rivelazione”? Forse più che di origine divina o di ordine soprannaturale, questa “rivelazione” va intesa come una sorta di intuizione o di ispirazione, che Paolo ebbe per dirimere la questione circa la circoncisione degli etnocristiani. La questione, infatti, in At 15,1-2 viene affrontata in modo più realistico: vi erano dei giudeocristiani giudaizzanti, provenienti probabilmente da Gerusalemme (At 15,24), che sostenevano la necessità della circoncisione anche per i convertiti dal paganesimo, la quale cosa comportava due complicazioni, una di ordine naturale, nel senso che non tutti i convertiti dal paganesimo erano disposti a farsi circoncidere; una di ordine cristologico: la salvezza portata dall'evento Cristo veniva subordinata in tal modo alla circoncisione e quindi alla Legge mosaica e non più alla sola fede in lui. Da qui la necessità di trovare un chiarimento con la giudaizzante chiesa-madre di Gerusalemme16. Nella Lettera sembra che l'iniziativa sia partita da Paolo, ma At 15,1-3a, più credibilmente, la fa partire dalla etnocristiana chiesa di Antiochia, in cui era in qualche modo incardinato Paolo. Perché dunque Paolo attesta che si è mosso “a seguito di una rivelazione”? Egli probabilmente doveva sostenere davanti ai Galati, come già aveva preannunciato in apertura della Lettera (1,1) e confermato poi in 1,11-12, come egli, Paolo, fosse mosso e condotto nelle sue decisioni soltanto da Dio e non dagli uomini, ai quali non era in alcun modo sottomesso, cercando di compiacere soltanto Dio (1,10).

Precisata la causa che ha spinto Paolo a recarsi presso la chiesa-madre di Gerusalemme, ora egli precisa la finalità di tale visita: mettere al corrente i responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme delle proprie linee di pensiero circa la sua predicazione e la sua azione missionaria, rivolta esclusivamente al mondo pagano, rifuggito, invece, dalla chiesa giudeocristiana giudaizzante di Gerusalemme. Una esposizione che viene fatta “a parte” (“kat' „d…an”, kat'idían), cioè privatamente e non apertamente. Paolo è cosciente che la sua predicazione e la sua linea missionaria è innovativa e si discosta di molto dal sentire di quei giudeocristiani, che, pur convertitisi a Cristo, tuttavia non avevano ancora compiuto un deciso passaggio dalla Legge mosaica a Cristo, operando un netto stacco tra il prima e il dopo. Probabilmente perché, da un lato, erano fortemente condizionati dalla Legge mosaica, che regolamentava in modo quasi ossessivo ogni atto del loro vivere, così che tutta la loro vita era ritualizzata e quindi fortemente condizionata (Mc 7,3-4); dall'altro, probabilmente, i convertiti non avevano ancora colto bene la novità dell'evento Cristo e che cosa questo comportava. Del resto, ciò che Paolo ha portato all'interno delle comunità credenti e della chiesa primitiva era un qualcosa di sconvolgente e di non facile comprensione per i non addetti ai lavori. Ne dà in tal senso testimonianza 2Pt 3,15-16: “La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina”. Paolo, pertanto, per evitare inutili discussioni che potevano pregiudicare la sua posizione e inficiare i suoi intenti, preferisce rivolgersi “a parte” “a quelli che decidono”, probabilmente a Pietro, Giacomo e Giovanni, che egli in 2,9 attesta che erano considerati “le colonne” della chiesa-madre di Gerusalemme. Essi, assieme al consiglio degli agli anziani, erano quelli che nella chiesa primitiva formavano il nucleo responsabile della vita ecclesiale e della retta dottrina, in particolar modo in un'epoca di espansione del cristianesimo, dove non di rado predicatori, non adeguatamente preparati o vogliosi di emergere e di fare dei propri proseliti, rischiavano di creare turbamenti e divisioni all'interno delle comunità credenti appena formate o in fase di formazione. Esempi in tal senso si trovano attestati oltre che nella presente Lettera ai Galati, anche nella prima e seconda Lettera ai Corinti e nella prima Lettera di Giovanni.

Paolo, dunque, mette in chiaro non solo il suo pensiero teologico e cristologico, quello che egli chiama il “mio vangelo” (Rm 2,16; 2Tm 2,8), che ha ricevuto per rivelazione e non per ammaestramento umano (1,11-12), ma anche la sua posizione nei confronti del mondo pagano, al quale è diretto il suo vangelo (1,16). Questa decisione di salire a Gerusalemme per mettere in chiaro la sua posizione di missionario delle genti non va tuttavia intesa come un atto di debolezza da parte di Paolo nei confronti di Gerusalemme, quasi un atto di sottomissione o di pentimento per l'eccessiva libertà che si era presa da dopo l'evento di Damasco in poi (1,16-17.21), ma unicamente per evitare contrasti tra lui, le sue comunità e la chiesa-madre di Gerusalemme, per evitare, cioè, di trovarsi ancora di fronte a quei missionari giudeocristiani giudaizzanti che formavano una sorta di contro-missione a quella di Paolo, disfacendo quello che egli faticosamente costruiva. I responsabili della chiesa di Gerusalemme, “quelli che decidono”, pertanto, devono richiamare all'ordine questi missionari giudaizzanti e rassicurare gli etnocristiani (At 15,23-31) per evitare confusioni, scontri e divisioni tra chiese o all'interno delle stesse comunità credenti. E che questa sia la sua linea politica vincente lo attestano i vv.7-9, che parlano di una divisione delle aree di competenza di Paolo e di Pietro, il primo assegnato all'evangelizzazione delle genti, il secondo riservato all'area giudaica. In tal modo vengono evitate disturbanti invasioni di campo.

Tuttavia, Paolo in tutto questo non vede soltanto una soluzione di tipo organizzativo e gestionale per migliorare le relazioni ed evitare scontri comunitari o intracomunitari, ma vede due aspetti della stessa identica medaglia, che hanno come origine l'unico Dio e l'unico Cristo: “colui, infatti, che aveva operato in Pietro per l'apostolato della circoncisione operò anche in me per le genti” (2,8). Una suddivisione di compiti e di aree di competenza che vengono fatte risalire, pertanto, alla stessa volontà divina.

Paolo deve aver convinto i responsabili della chiesa-madre di Gerusalemme, quelli più importanti, considerati le colonne di tale chiesa (2,9). Questi, infatti, hanno riconosciuto a Paolo la grazia che gli fu data. Il riferimento qui è l'evento di Damasco, in cui a Paolo non solo fu direttamente rivelato il Mistero di Cristo, quale Figlio di Dio, da parte di Dio Padre stesso, ma ricevette anche l'investitura e il mandato di apostolo per le genti. Ora, tutto questo gli fu riconosciuto ufficialmente anche dai responsabili massimi della chiesa-madre di Gerusalemme così come anche in mezzo alle altre comunità credenti. La particolare posizione di Paolo, quindi, non è più un assunto tutto suo personale, ma diviene ufficiale e ufficializzato all'interno dell'intera chiesa primitiva. Un accenno in tal senso viene da 2Pt 3,15, dove si parla della sapienza di Paolo ricevuta da Dio stesso: “secondo la sapienza che gli è stata data”.

Un riconoscimento questo che viene sancito con una stretta di mano (2,9), con cui nell'antichità si concludeva un contratto. Un gesto questo che Paolo definisce qui di “comunione” e che va ben oltre ad una semplice intesa tra persone, poiché Paolo vede in questo il ricomporsi di due posizioni in Cristo, riconoscendo in loro stesse, sia pur in modi diversi, l'unico agire di Dio, che in Pietro opera per i circoncisi e in Paolo per i non circoncisi (2,8).

Il caso di Tito (2,3-6)

Definita e riconosciuta ufficialmente la sua posizione di apostolo verso il mondo pagano per diretto comando divino (1,16) presso la chiesa-madre di Gerusalemme e riconosciutogli il “suo vangelo”, ricevuto per rivelazione, ora Paolo accentra l'attenzione dei Galati sulla figura di Tito, un etnocristiano, greco e non circonciso, la cui presenza in mezzo all'assemblea plenaria della chiesa-madre giudeocristiana giudaizzante di Gerusalemme suona come provocatoria, ma nonostante ciò in alcun modo Tito fu né respinto né contestato dai responsabili, che nulla ebbero a che dire nel merito. Segno, dunque, per Paolo, che anche la chiesa-madre era d'accordo sulla linea della non circoncisione per gli etnocristiani e come questi potessero frequentare senza divieti o scandali ambienti giudeocristiani.

Paolo affronta la questione di Tito con la pericope 2,3-6, delimitata da una sorta di inclusione, data dall'espressione “Tito non fu costretto a circoncidersi” in 2,3 e “a me non imposero niente” in 2,6. In entrambi i casi Paolo evidenzia come “quelli che contano” e “che decidono” non imposero nulla né a Tito né a Paolo, segno questo che essi erano d'accordo con la linea missionaria di Paolo. Tutto, quindi, viene posto sotto l'egida del consenso, che implicitamente va a contestare quelli che, invece, vogliono imporre la circoncisione agli etnocristiani e che Paolo ora richiama in 2,4-5.

Al centro della pericope 2,3-6, infatti, Paolo, colloca i vv.4-5 tra loro antitetici, che mettono in rilievo la netta contrapposizione del pensiero giudeocristiano giudaizzante e quello di Paolo e con lui della chiesa di Antiochia, favorevole agli etnocristiani e che li spinse a ricorrere a Gerusalemme: “a causa di falsi fratelli introdottisi, questi entrarono per spiare la nostra libertà, che abbiamo in Cristo Gesù (v.4), a questi non cedemmo alla sottomissione neppure per un istante, affinché la verità del vangelo persistesse presso di voi (v.5)”.

Il motivo del ricorso, dunque, furono i “falsi fratelli”, termine questo, “fratelli”, con cui la chiesa primitiva designava i credenti in Cristo, ma questi erano “falsi”. Il motivo di tale falsità è duplice: da un lato, essi si intrufolano subdolamente nella comunità di Antiochia, ma è da pensare anche in tutte le comunità fondate da Paolo, se si considera che il problema viene rilevato in alcune altre sue lettere, non per partecipare alla vita di quelle comunità, ma per “spiare la nostra libertà in Cristo”, cioè il loro modo di vivere l'insegnamento di Cristo, libero da ogni vincolo della Legge mosaica. Tema questo che ritornerà sotto forma di parenesi in 5,1-7; dall'altro “per sottometterci”, cioè per ricondurre il libero vivere l'insegnamento di Cristo all'interno della Legge mosaica, sottomettendolo pertanto ad essa, la quale cosa significava che l'insegnamento mosaico prevaleva su quello di Cristo, vanificandone la novità e tutta la potenza salvifica ad esso legata. Il rischio concreto era che il nascente cristianesimo venisse fagocitato e, quindi, azzerato dal giudeocristianesimo e l'evento salvifico Cristo vanificato (5,2.4).

Al pericolo insito in questo agguato del giudeocristianesimo nei confronti del cristianesimo, Paolo si contrappone nettamente senza alcuna incertezza o titubanza: “a questi non cedemmo alla sottomissione neppure per un istante”. L'espressione qui è mal costruita, poiché vi è un doppio destinatario di questo respingimento: da un lato, “a questi” e, dall'altro, “alla sottomissione”. Paolo intendeva dire che non vi fu nessun cedimento nei loro confronti, nel senso che non si lasciarono convincere dai loro fuorvianti ragionamenti e dalle loro assurde pretese, e che, quindi, respinsero la loro proposta di farsi circoncidere, la quale cosa significava accettare la Legge mosaica e sottomettersi alle sue prescrizioni. Una posizione questa che Paolo rileverà chiaramente in 5,2-4, che suona dogmatica e anatemistica: “Ecco, io Paolo vi dico che se vi fate circoncidere Cristo non vi gioverà a niente. Attesto nuovamente ad ogni uomo, che si fa circoncidere, che è obbligato ad eseguire la Legge tutta intera. Siete stati sciolti da Cristo (voi), che vi fate giustificare nella Legge, siete decaduti dalla grazia”.

Il motivo di una così netta presa di posizione contro questi giudaizzanti è precisata nella frase finale: “affinché la verità del vangelo persistesse presso di voi”. È questo l'intento e il senso dell'intera Lettera ai Galati: la difesa del Vangelo di Cristo contro l'attacco del giudeocristianesimo giudaizzante. Un “Verità” che si contrappone alla “falsità” di questi “falsi fratelli”. La Verità del Vangelo per Paolo è Cristo stesso, così come gli è stato rivelato (1,16). In gioco, quindi, per Paolo, c'era Cristo e con lui tutta la sua potenza salvifica, che rischiava di essere annullata e perduta da un ritorno a Mosè circoncidendosi.

A fronte di queste pretese dei “falsi fratelli”, Paolo contrappone la posizione ufficiale della chiesa-madre di Gerusalemme: né l'etnocristiano Tito fu costretto a circoncidersi (2,3) né a Paolo fu imposto nulla (2,6). Nessun rettifica e nessuna critica, dunque, da parte di quelli che “sembrano essere qualcosa”, cioè dei responsabili e delle persone eminenti della chiesa-madre di Gerusalemme nei confronti della linea dottrinale e missionaria di Paolo, approvata così ufficialmente presso tutte le comunità credenti. Questa, dunque, non è più la personale posizione di Paolo, ma dell'intera chiesa, alla quale devono allinearsi tutti i credenti, compresi i giudeocristiani giudaizzanti. Il concilio di Gerusalemme ha, quindi, ricomposto le due contrapposte posizioni della chiesa di Antiochia e di Paolo con quella dei giudei giudaizzanti di Gerusalemme, che altrimenti rischiavano di creare un primo scisma.

Questa nuova e ritrovata comunione all'interno della Chiesa primitiva viene ora rafforzata dal v.2,10, che conclude l'incontro tra i capi della chiesa-madre di Gerusalemme e Paolo con una viva raccomandazione, “affinché ci ricordassimo dei poveri”. Una semplice richiesta d'aiuto per i poveri, che particolarmente risentivano, proprio per la loro fragilità economica e sociale, dell'imperversante carestia avvenuta proprio in questo periodo, tra il 46 e il 48 d.C. (At 11,27-30), ma che Paolo, sensibile alla comunione ecclesiale tra tutte le comunità giudeocristiane ed etnocristiane, ha caricato di un significato particolare, che andava ben oltre alla semplice richiesta d'aiuto. Ha qui la sua origine la colletta, che Paolo estenderà a tutte le comunità etnocristiane da lui fondate, in aiuto ai poveri della chiesa-madre di Gerusalemme. L'accettazione di questa colletta proveniente dalle comunità etnocristiane da parte di Gerusalemme avrebbe definitivamente sancita la comunione tra giudeocristiani ed etnocristiani17.

Secondo episodio: Pietro ad Antiochia, un comportamento incongruente (2,11-14)

Testo a lettura facilitata

Un Pietro biasimabile (2,11)

11- Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi davanti a lui, poiché era biasimabile.

Il motivo del biasimo (2,12-13)

12- Prima che venissero alcuni da Giacomo, mangiava insieme con i gentili; ma quando vennero, si ritirava e si separò temendo quelli (che erano) da(lla) circoncisione.
13- E simularono con lui [anche] gli altri Giudei, così che anche Barnaba si lasciò sviare nella loro ipocrisia.

Paolo stigmatizza il comportamento di Pietro (2,14)

14- Ma quando vidi che non camminavano più rettamente conformemente alla verità del vangelo, dissi a Cefa davanti a tutti: <<Se tu, essendo Giudeo, vivi alla maniera dei gentili e non a quella giudaica, come costringi a vivere alla maniera giudaica i gentili?>>. È


Note generali


L'episodio di Pietro, che segue dopo il racconto dell'assemblea plenaria di Gerusalemme per dirimere la questione della circoncisione degli etnocristiani (2,1-10), non sembra accaduto subito dopo tale assemblea, ma molto tempo dopo. Il racconto, infatti, non inizia con “”Epeita” (Épeita, in seguito), come i precedenti racconti autobiografici (1,18.21; 2,1), concatenando in al modo l'episodio a quello precedente e dando così una sequenza temporale logica agli avvenimenti. Qui Paolo trae fuori dai suoi ricordi questo fatto, che è comunque legato alle decisioni prese in quel frangente dalla chiesa-madre di Gerusalemme. L'episodio, pertanto, attesta, da un lato, la nuova linea di relazioni intraecclesiale uscita dal concilio, tant'è che Pietro e i suoi siedono a tavola con gli etnocristiani; dall'altro, denuncia come tale linea non fosse stata gradita a tutti all'interno della chiesa di Gerusalemme e come questo concilio non fosse stato così pacifico come sembra apparire da At 15,1-33, poiché al solo apparire di personaggi provenienti dall'area di influenza di Giacomo, una delle tre colonne della chiesa di Gerusalemme (2,9), immediatamente Pietro e i suoi si alzano dalla mensa, che condividevano con gli etnocristiani, per separarsi da loro. Un episodio questo che dice anche il peso politico e l'autorità di Giacomo, “il fratello del Signore” (1,19) e forse proprio per questo, all'interno della chiesa di Gerusalemme.

Il racconto è scandito in tre parti: a) la posizione critica di Paolo nei confronti di Pietro (2,11); b) il motivo di tale posizione, che costituisce il cuore del racconto (2,12-13); c) la critica mossa da Paolo a Pietro, che rileva l'incongruenza del suo comportamento (2,14).

Anche questo episodio, similmente a quello di Tito (2,3-6), è delimitato da una sorta di inclusione data sia dal ripetersi dell'espressione “Ma quando” posta in apertura dei vv.11.14; e sia perché il v.11 trova la sua complementarietà nel v.14. Al centro del racconto ci sta l'episodio oggetto del rimprovero (vv.12-13), posto sotto l'insegna del biasimo e della critica di Paolo.

Da un'attenta analisi della Lettera e dei suoi particolari non sembra che Paolo l'abbia scritta di getto e mosso dal solo sentimento di sdegno verso i Galati per il loro tradimento, benché non manchi di passionalità e di ironia. Al contrario, è una Lettera soppesata attentamente e strutturata in modo molto razionale e critico, non priva di qualche forma retorica, finalizzata a mettere in rilievo l'incongruenza del comportamento dei Galati, fornendo loro una consistente argomentazione dogmatica e dottrinale, che verrà poi meglio ripresa e approfondita nella Lettera ai Romani.

Commento ai vv. 2,11-14

Il passaggio dal racconto del concilio di Gerusalemme a quello di Pietro è brusco, quasi inatteso. Ma a Paolo serviva un esempio concreto sia per poi poter introdurre il preambolo dottrinale (2,15-21), sia per dimostrare ai Galati la nuova linea della chiesa di Gerusalemme, che di fatto aveva assunto quella di Paolo, così che egli, ora, può opporsi apertamente e pubblicamente a Pietro. L'occasione del contrasto è Antiochia di Siria18, dove Pietro si era recato in visita. Qui Paolo si riferisce a Pietro con il soprannome aramaico che gli fu assegnato da Gesù (Gv 1,42), Cefa, che tradotto in greco significa Pietro, cioè roccia. Su questo significato Mt 16,18 giocherà poi l'assegnazione a Pietro del primato apostolico: “E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Il nome Cefa ricorre in tutto il N.T. soltanto nove volte, una in Gv 1,42 e altre otto volte nel solo Paolo, quattro in 1Cor e quattro qui in Galati19, mentre il nome Pietro nell'intero corpus paulinum ricorre soltanto due volte, qui in Gal 2,7.8. Sembrerebbe che presso gli etnocristiani Pietro fosse conosciuto più che con la traduzione greca con il nome originale aramaico “Cefa”. Paolo, infatti, pur scrivendo in greco e al mondo pagano, che parlava greco, usa sempre il nome aramaico Cefa e mai la sua traduzione greca di Pietro. È significativo, infatti, che in 1Cor 1,12 Paolo, riferendosi alle voci che correvano all'interno della comunità, divisa in gruppi contrapposti, alla maniera delle scuole di filosofiche dell'epoca, che facevano a capo ad altrettanti maestri, riporti il nome Cefa anziché Pietro: “Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: <<Io sono di Paolo>>, <<Io invece sono di Apollo>>, <<E io di Cefa>>, <<E io di Cristo>>”. E similmente qui in Galati Paolo si riferisce a Pietro con il solo nome di Cefa ed eccezionalmente con “Pietro” in Gal 2,7.8, dove si parla di cose tecniche, cioè della suddivisione dei territori di missione. Il nome Cefa, pertanto, sembra che nella chiesa primitiva fosse il nome familiare con cui ci si riferiva a Pietro, ricordando in questo l'assegnazione del ruolo che Gesù aveva dato a “Simone figlio di Giovanni” (Gv 1,42). Non va dimenticato che le Lettere di Paolo sono la prima letteratura cristiana e sono tutte lettere occasionali e, quindi, Paolo tende ad usare termini ed espressioni che ricorrevano presso le comunità credenti dell'epoca, come il nome “Cefa” e non Pietro. Nome quest'ultimo che s'imporrà nella successiva letteratura neotestamentaria rivolta esclusivamente al mondo greco-ellenistico, come i vangeli, gli Atti degli Apostoli e le lettere canoniche, in cui si abbandonerà il nome aramaico di “Cefa” a favore della sua traduzione di “Pietro”, forse anche per segnare uno stacco netto tra ciò che era un tempo il giudeocristianesimo giudaizzante e la nuova linea di un cristianesimo etnocristiano e, quindi, cattolico, cioè universale.

Paolo, pertanto, di fronte al comportamento di Cefa, in dissonanza con la linea dottrinale della chiesa madre di Gerusalemme, che prevedeva la non circoncisione per gli etnocristiani e quindi la loro non giudaizzazione, non esita a dichiararlo apertamente “biasimevole”. Che cosa significhi “biasimevole”, Paolo lo dirà in 2,14a, perché “non camminavano più rettamente conformemente alla verità del vangelo”. Quando Paolo parla di Verità del Vangelo, considerato che i vangeli, quando egli scrive, ancora non c'erano, intende la rivelazione che egli ha avuto del Mistero di Cristo (1,16a), Figlio di Dio, sul senso del suo incarnarsi (4,4-7), del suo morire e del suo risorgere (5,1-6). La novità, pertanto, portata da Cristo, che ha aperto la salvezza a tutti, indipendentemente dal loro essere giudei o pagani, ma tutti accomunati dall'unica fede in Cristo (3,28), veniva violata dal modo di comportarsi di Cefa. Che cosa questi abbia fatto, Paolo lo stigmatizzerà in 2,12-13. Pietro e altri giudeocristiani erano a tavola con degli etnocristiani, quindi cristiani provenienti dal paganesimo, non circoncisi. La Legge mosaica sanzionava una simile promiscuità con i pagani, i non circoncisi, che rendeva impuri, cioè ritualmente non idonei a compiere i sacrifici e a celebrare in genere il culto a Dio (Gv 18,28b). Pietro e gli altri giudeocristiani con lui si erano conformati alla nuova linea di rapporti sancita dal concilio di Gerusalemme, ma fu una conformazione di convenienza, così che l'apparire ad Antiochia dei personaggi della cerchia di Giacomo, Pietro fu preso da timore e si alzò da tavola, imitato dagli altri giudeocristiani, compreso Barnaba con il quale Paolo aveva stabilito un rapporto di fiducia e di stretta collaborazione. Fu dunque un cedimento su tutto il fronte e Paolo rimase solo a riprendere duramente Pietro e i suoi per un comportamento ipocrita e di sola convenienza, ma che denunciava la loro immaturità spirituale circa la loro comprensione dell'evento Cristo, del suo Mistero e del senso della sua venuta. Il giudaismo ha avuto la meglio su questi credenti in Cristo, ma che nel loro cuore e nel loro spirito erano ancora legati a Mosè e alle regole dell'antica alleanza. Paolo rileverà l'incongruenza del comportamento di Pietro: “Se tu, essendo Giudeo, vivi alla maniera dei gentili e non a quella giudaica, come costringi a vivere alla maniera giudaica i gentili?”. Ed è con questa ultima osservazione, che stigmatizza il comportamento di Pietro e con lui di tutti i giudeocristiani giudaizzanti, che Paolo aprirà la sezione dottrinale (3,1-4,31) con un preambolo introduttivo, dove, in 2,16, enuncerà un principio dogmatico e dottrinale di rilevante importanza, che poi egli riprenderà nel corso della sua Lettera e approfondirà in quella ai Romani, circa un anno dopo (57/58 d.C.).

Preambolo alla sezione dottrinale (2,15-21)

Testo a lettura facilitata

La posizione privilegiata dei Giudei nei confronti dei pagani (v.15)

15- Noi per natura Giudei e non peccatori tra i gentili,

L'assunto dottrinale: la giustificazione viene dalla fede e non dalle opere della Legge (v.16)

16- sapendo [tuttavia] che l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge se non per mezzo della fede di Gesù Cristo, anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù, affinché fossimo giustificati da Cristo e non dalle opere della Legge, poiché dalle opere della Legge non sarà mai giustificata ogni carne.

Le conseguenze: non è la fede che causa il peccato, ma il ritorno al passato (vv.17-18)

17- Ma se (noi), che cerchiamo di essere giustificati in Cristo, siamo trovati anche (noi) stessi peccatori, Cristo (è) dunque ministro del peccato? Che non sia (mai)!
18- Se infatti quelle cose che ho distrutto, queste edifico di nuovo, dichiaro me stesso trasgressore.

La nuova condizione di credenti in Cristo (vv.19-21)

19- Infatti per mezzo della Legge io sono morto alla Legge, affinché viva per Dio. Sono stato crocifisso con Cristo:
20- ora non vivo più io, ma Cristo vive in me; ma ora ciò che vivo nella carne, vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me.
21- Non rendo inutile la grazia di Dio; se infatti la giustificazione (viene) per mezzo della Legge, allora Cristo è morto invano.


Note generali

Questa pericope (2,15-21), conclusiva del cap.2, funge da preambolo all'ampia sezione dottrinale delimitata dai vv.3,1-4,31 ed è una riflessione teologica e cristologica, dai toni dottrinali, che Paolo sviluppa sull'episodio di Pietro ad Antiochia (2,11-14).

Ci troviamo di fronte ad una riflessione molto densa ed estremamente sintetica nel suo esprimersi così da rendersi quasi incomprensibile.

Paolo sviluppa il suo ragionamento per gradi, che ho cercato di individuare qui sopra, nella sezione del “Testo a lettura facilitata”.

La riflessione apre con la considerazione dello stato di privilegio dei Giudei verso i pagani (v.15), poiché essi sono stati edotti dalla Legge ed eredi della promessa e godono dell'identità di essere un popolo di sacerdoti e una nazione santa, proprietà di Dio in mezzo a tutti i popoli (Es 19,5-6). I Giudei, quindi, legati a Dio dalla Legge, che attesta l'Alleanza tra Dio e Israele, sono un popolo di esperti sulle cose di Dio e per loro natura dei santi e dei salvati. Uno status di vita invidiabile e niente da spartire con chi non è giudeo, considerato impuro, peccatore e destinato alla perdizione.

Ebbene, dice Paolo, noi giudei, edotti da Dio stesso sul suo Mistero e che abbiamo compiuto il passo oltre il giudaismo e la Legge mosaica, avendo compreso che la vera salvezza viene da Cristo e che la Legge è insufficiente per salvarci e mai ci salverà (v.16), come possiamo pensare ancora di poterci contaminare se entriamo in comunione conviviale con i pagani convertiti; pagani, che alla pari nostra, credono nell'unico Cristo, che ci accomuna tutti in lui in virtù dell'unica fede (3,28)? Come possiamo pensare ancora di diventare impuri e peccatori anche noi, solo perché stiamo assieme a loro? Forse, continua Paolo, che la fede in Cristo diviene causa di peccato e di perdizione per noi giudeocristiani? O forse non è il voler ritornare al nostro passato di giudaizzanti, che contrasta con la nostra nuova condizione di vita di credenti in Cristo, che ci fa sentire impuri e peccatori? Quindi non è Cristo e la fede in lui che causa la nostra perdizione, ma siamo noi, che abbandonando lui, ritorniamo al nostro passato di credenti in Mosè e che ci fa vedere e sentire questi nostri fratelli di fede e nella fede come degli impuri e dei peccatori (vv.17-18).

Cristo, infatti, assoggettatosi alla Legge e condannato in base alla Legge ha distrutto in se stesso la Legge e, morendo, è morto alla Legge ed ora vive per Dio nella pienezza e nella potenza dello Spirito. E così anche noi, associati a lui per mezzo della fede, siamo anche noi con-morti con lui alla Legge e con-viventi con lui per Dio (vv.19-20). Ma se noi continuiamo a rivolgere la nostra vita verso la Legge, conformandola ad essa, allora Cristo non ci serve per niente ed è morto inutilmente (v.21).

Dopo aver parafrasato questa pericope per rendere più evidente il pensiero non particolarmente cristallino di Paolo, ne propongo di seguito la struttura, per metter in evidenza i passaggi del ragionamento, che Paolo fa partendo dall'episodio di Pietro, per cui:


Commento ai vv.15-21

La posizione privilegiata dei Giudei nei confronti dei pagani (v.15)

Questa pericope si apre con un cambio di soggetto: non più Paolo o Cefa o Giacomo o i giudaizzanti o gli etnocristiani, bensì “Noi”, che designa i destinatari di questa breve riflessione dottrinale. Questi sono i “Giudei” convertiti al cristianesimo. Lo si arguisce dal v.16 e seguenti dove i verbi sono posti tutti alla prima persona plurale. Essi, ancor prima di esser cristiani, sono “Giudei”, che tali sono “per natura”, cioè fin dalla nascita, contraddistinti, otto giorni dopo, dal segno della circoncisione, che dice l'appartenenza all'Alleanza, che li fa eredi della Promessa (Gen 17,10-14). Ma questo “per natura”, va ben oltre dall'indicare la semplice nascita e dice come questo essere Giudei “per natura” sia uno status di vita, che trova la sua ragione d'essere a livello ontologico ancor prima che fisico (“fÚsei”, físei), poiché coinvolge il Giudeo intimamente e spiritualmente, legandolo esistenzialmente a Dio per mezzo dell'Alleanza. Segno tangibile di questa Alleanza è la Legge stessa, a cui si è strettamente legati e assoggettati attraverso la circoncisione. Il Giudeo, pertanto, è tale per sua intima natura, che lo coinvolge ad ogni livello: fisico, psicologico, morale, spirituale e ontologico. Giudeo, quindi, si nasce non si diventa e non si può cambiare. Sono puntualizzazioni queste che vanno tenute presenti perché consentono di capire quei giudeocristiani giudaizzanti, cioè quei giudei che, divenuti cristiani, continuano a vivere alla maniera giudaica, leggendo l'evento Cristo attraverso la Legge mosaica e quegli schemi mentali che sono loro intimi e costituiscono il loro prevalente, se non unico, modo di comprendere le cose, Cristo compreso.

L'annotazione con cui si apre 2,15 viene ora rimarcata con una contrapposizione, che rileva come i giudei concepivano i pagani: “non peccatori tra gentili”. Se i Giudei per loro natura era proprietà di Dio, popolo di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6), i pagani sono l'esatto contrario dei Giudei: sono dei peccatori, quindi impuri e destinati alla perdizioni. Ebbene, i Giudei non fanno parte di questo mondo, sono di tutt'altra pasta. Ciò che li separa e rende i loro rapporti impossibili e incomunicabili tra loro è l'Alleanza con Dio, che è concretamente significata nella Legge mosaica, che si esprime nel vivere quotidiano del pio giudeo in una miriade di norme e decreti, facendone una continua ritualità, così da opprimerla Mt 23,4). La lettera agli Efesini esprime bene questa divisione tra pagani e Giudei, definendo la Legge come un muro invalicabile, fatto di norme e precetti, che creava un rapporto di ostilità e inimicizia tra il mondo giudaico e quello pagano (Ef 2,11-15). Quindi i Giudei sono tutt'altra cosa dai pagani. Essi hanno Dio come loro Padre e da Lui sono stati creati (Dt 32,6; Is 43,1), chiamati alla santità, perché il loro Dio è santo (Lv 19,2). Essi, pertanto, non sono per natura dei peccatori.

L'assunto dottrinale: la giustificazione viene dalla fede e non dalle opere della Legge (v.16)

Presentata la superiorità morale, spirituale ed ontologica del Giudeo rispetto ai pagani, e in particolar modo dei “giudeocristiani”, che pur mantenendo la loro natura di giudei, sono altresì divenuti credenti in Cristo, ora Paolo esordisce con un densissimo assunto dottrinale, che rivolge ai giudeocristiani, a cui si riferisce con quel “sapendo” (“e„dÒtej”, eidótes). Il “sapere”, in cui riecheggia in qualche modo il Sal 142,2b, che Paolo ha manipolato aggiungendo “dalle opere della Legge”, e a cui essi devono far riferimento, è la catechizzazione con cui sono stati resi edotti della loro nuova condizione di credenti in Cristo, rispetto a quello che essi, in quanto Giudei, avevano creduto fino al loro incontro con Cristo.

L'enunciazione dottrinale, che formerà l'oggetto di riflessione e di approfondimento dell'ampia sezione dottrinale di 3,1-4,31, è stata particolarmente curata da Paolo, che l'ha elaborata secondo i criteri della retorica ebraica dei “parallelismi concentrici”, dove la parte centrale costituisce il cuore dell'assioma dottrinale ed è il messaggio che egli vuole ora sottoporre alla riflessione dei giudeocristiani, ma in questo caso ai Galati, perché anch'essi, che hanno dato ascolto ai giudeocristiani giudaizzanti, lasciandosi giudaizzare (1,6), riflettano sulla contrapposizione Legge-Fede, Mosè-Cristo, grazia-opere della Legge. Contrapposizione di tematiche che girano attorno al nucleo fondamentale della giustificazione: “sapendo [tuttavia] che l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge se non per mezzo della fede di Gesù Cristo, anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù, affinché fossimo giustificati da Cristo e non dalle opere della Legge, poiché dalle opere della Legge non sarà mai giustificata ogni carne” (v.16). Per cui si avrà:


A) l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge

    B) se non per mezzo della fede di Gesù Cristo,

       C) anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù,

   B1) affinché fossimo giustificati da Cristo e non dalle opere della Legge,

A1) poiché dalle opere della Legge non sarà mai giustificata ogni carne.

Tutte le singole attestazioni si completano a vicenda, per cui A) e A1) rilevano come le opere della Legge, cioè il conformare il proprio vivere alla Legge e a tutti i suoi precetti, così invasivi nella vita di ogni giudeo, non riusciranno mai a giustificare l'uomo davanti a Dio, sia perché l'azione giustificatrice qui non parte da Dio ma dall'uomo, che si pone in tal modo in una posizione sbagliata nei confronti di Dio, perché egli, peccatore, pretenderebbe da Dio, qualora riuscisse ad osservare perfettamente tutta la Legge, la sua salvezza, quale ricompensa dovuta per il suo impegno nei confronti della Legge; ma altresì perché l'uomo nella sua fragilità non riuscirà mai a rispettare tutti i precetti della Legge, così che la Legge diviene per lui un continuo atto di accusa e di condanna. Tematica, quest'ultima, che Paolo affronterà in Rm 7.

All'affermazione di A) e A1) si contrappone ora la dichiarazione di B) e B1) in cui si attestano due asserzioni di rilievo: la giustificazione viene dalla fede in Gesù Cristo (B), perché fosse Cristo e non la Legge a dare la giustificazione (B1). Vi è dunque uno spostamento dell'origine della giustificazione: dalle opere della Legge a Cristo. Paolo introduce, pertanto, un nuovo parametro di salvezza, che diviene centrale ed essenziale per accedere alla giustificazione. Il piano salvifico di Dio, tuttavia, non ha subito un cambiamento nel suo realizzarsi, ma un compimento: la Legge in funzione di Cristo, per cui, giunto Cristo, la Legge viene a decadere. Tema questo che Paolo affronterà in 3,23-25.

Tutto ciò premesso, Paolo giunge ora a conclusione di questo suo assunto dottrinale: “anche noi abbiamo creduto in Cristo Gesù” (C). Tutto, dunque, è incentrato e gira attorno unicamente ed esclusivamente a Cristo a cui si è aderito, diventando un tutt'uno con lui e in lui tra noi (3,28), per mezzo della fede. In quel “anche noi” Paolo abbraccia non soltanto i giudeocristiani, che persistono nell'osservanza delle prescrizioni mosaiche, ma anche i Galati, che si sono lasciati giudaizzare (1,6).

Le conseguenze: non è la fede che causa il peccato, ma il ritorno al passato (vv.17-18)

Dopo aver affermato che la sola fede in Cristo è causa della giustificazione, Paolo fa un passo indietro e torna al fatto che Cefa e i suoi, all'apparire di quelli che facevano parte della cerchia di Giacomo, si alzarono dalla mensa dove erano seduti con gli etnocristiani, incirconcisi e provenienti dal mondo pagano, per evitare di essere considerati impuri e peccatori come erano considerati tutti gli incirconcisi (vv.11-12). Quindi, il fatto che il credere in Cristo abbia invece consentito di sedersi a mensa con gli incirconcisi, diverrebbe, secondo la precettistica giudaica, motivo di impurità e di peccato, così che, afferma Paolo per assurdo, Cristo non diverrebbe più motivo di giustificazione, ma di peccato (v.17).

E qui Paolo si sofferma con una breve riflessione: “Se infatti quelle cose che ho distrutto, queste edifico di nuovo, dichiaro me stesso trasgressore” (v.18). In altri termini, ma è forse Cristo la fonte del peccato e dell'impurità o non sono piuttosto coloro che, lasciato Cristo, ritornano alla precettistica giudaica (riedificano di nuovo), che li giudica impuri e peccatori (trasgressori), perché siedono a mensa con gli incirconcisi?

Le cose distrutte, qui, per mezzo della fede in Cristo, sono le imposizioni della Legge mosaica, che vietano di sedersi a mensa con gli incirconcisi. Ma, dice Paolo, se queste io riedifico, cioè se torno a tali imposizioni, io divengo un trasgressore rispetto alla Legge mosaica, che ho riattivato in me attraverso la circoncisione e il rinnegamento di Cristo.

La nuova condizione di credenti in Cristo (vv.19-21)

Ora, Paolo fa un passo in avanti, attestando che la Legge, alla quale i giudaizzanti e gli stessi Galati vogliono sottomettersi con la circoncisione, è stata distrutta proprio attraverso la Legge stessa, per far si che l'uomo, liberato dalla Legge, viva liberamente per Dio e non sia più schiavizzato da tutta quella montagna di precetti che privano il credente di un autentico rapporto con Dio: “Infatti per mezzo della Legge io sono morto alla Legge, affinché viva per Dio” (v.19a).

Per comprendere il senso del v.19a, alquanto oscuro, è necessario fare qui un passo in avanti, partendo dai vv.19b-20, che lo spiegano. In questi versetti Paolo attesta che egli è stato crocifisso con Cristo ed ora non è più lui che vive, ma è Cristo che vive in lui. In altri termini, Paolo attesta che egli, per mezzo della fede in Cristo, è stato associato alla morte di Cristo, che fu una morte di croce causata dalla Legge stessa (Gv 19,7)20. Ma Cristo, morendo per mezzo della Legge ha distrutto in se stesso quella stessa Legge che lo aveva condannato alla morte di croce, avendola Cristo assunta in se stesso con la sua incarnazione (4,4-5). In tal modo Paolo, che è stato assimilato alla morte di croce di Cristo, anzi Cristo crocifisso ora vive in Paolo, anche in lui la Legge è morta e lui è morto alla Legge e, quindi, la Legge non ha più potere su di lui. In tal modo, fin da subito egli può, per mezzo della fede, vivere in profonda comunione con Dio in tutta sincerità di cuore e di vita, liberato da ogni vincolo della Legge. Un concetto questo che Paolo riprenderà, in modo più elaborato e più chiaramente in Rm 6,3-8: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione. Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. Infatti chi è morto, è ormai libero dal peccato. Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui”.

Ora ci è più chiaro ciò che Paolo intendeva dire con l'affermazione: “Infatti, per mezzo della Legge io sono morto alla Legge, affinché viva per Dio”. In altri termini, Paolo dice che Cristo morto a causa della Legge, ha distrutto in se stesso, morendo, la Legge stessa, che aveva assunto su di sé incarnandosi, liberando in tal modo l'uomo da un vincolo che gli impediva di entrare in perfetta comunione con Dio. Un processo, questo, che Paolo attesta che vive in lui per mezzo della fede, che lo ha messo in comunione con Cristo morto-risorto.

In tal modo, continua Paolo “Non rendo inutile la grazia di Dio”, cioè l'azione liberatrice di Dio avvenuta per mezzo del suo Cristo, incarnato-morto-risorto, si è attuata in me per mezzo della mia adesione-comunione a/in Cristo con la fede in lui. Ma per contro, continua Paolo, se si cercasse la giustificazione nella Legge, allora si renderebbe vana l'azione redentrice di Cristo, che ha distrutto in se stesso, proprio con la sua morte, quella Legge, alla quale ora, giudaizzanti e Galati giudaizzati voglio nuovamente aderire (v.21), ignorando che sono stati liberati dalla sua schiavitù (5,1-4)

Un intermezzo di riflessione (3,1-5): un'applicazione pratica del preambolo alla sezione dottrinale (2,15-21)

Testo a lettura facilitata

Il richiamo alla catechesi ricevuta dai Galati (3,1)

1- O stolti Galati, chi vi ha ammaliati, (voi), ai quali, davanti agli occhi, fu presentato Gesù Cristo crocifisso?

L'origine dello Spirito Santo (3,2)

2- Solo questo voglio capire da voi: avete ricevuto lo Spirito dalle opera della Legge o dall'ascolto della fede?

Fu tutta un'esperienza vana? (3,3-4)

3- Siete così stolti, (voi), che avete cominciato con lo Spirito, ora terminate con la carne?
4- Tanto soffriste inutilmente? Se almeno (fosse stato) anche inutilmente!

Da dove trae origine l'azione dello Spirito (v.5)

5- Colui che vi dà lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi (lo compie) dalle opere della Legge o dall'ascolto della fede?


Note generali

Dopo aver aver presentato alcune note autobiografiche finalizzate a dimostrare ai Galati l'origine divina non solo della sua apostolicità (1,1.15), ma anche del vangelo annunciato a loro e rivelatogli direttamente da Dio Padre (1,16) e come questa sua apostolicità e questo suo vangelo fossero stati accettati ed approvati dalla chiesa-madre di Gerusalemme (2,2.6-9), Paolo, dopo aver dunque dimostrato la credibilità del suo Vangelo e della sua apostolicità da un punto di vista storico, entra, ora, nel vivo della questione per dimostrare scritturisticamente e dottrinalmente come la sola fede in Cristo Gesù ha soppiantato completamente la circoncisione e le imposizioni della Legge mosaica, finalizzata a condurci a Cristo, giunto il quale, essa cessa la sua funzione (3,19-29); e come già la fede di Abramo, grazie alla quale egli ottenne la promessa, prefigurasse ed annunciasse il tipo di relazione che il credente deve avere con Dio: un rapporto di fede, che è fiducia e consegna di se stessi a Dio, ponendosi al suo servizio per la realizzazione del suo progetto di salvezza (3,6-18).

Il passaggio dalla sezione autobiografica (1,11-2,14) a quella scritturistica-dottrinale (3,6-4,31) è intervallato da due intermezzi: il primo, di tipo dottrinale (2,16-21), in cui viene impostato il tema della giustificazione per fede e non per opere della Legge; il secondo, di tipo parenetico (3,1-5), riprende in qualche modo il primo e lo applica al comportamento dei Galati, che hanno lasciato l'esperienza dello Spirito, ottenuto attraverso la fede, e li spinge a riflettere, sull'origine di tali esperienze, se queste sono state generate dall'aver creduto in Cristo o dalla Legge. Un preambolo, quest'ultimo, che in qualche modo, da un lato, è prodromo alla sezione dottrinale (3,6-4,31) e, dall'altro, preannuncia l'ultima sezione della Lettera, quella appunto parenetica di 5,1-6,18, che spinge i Galati a rimanere nella libertà acquisita nello Spirito e a vivere in conformità ad esso.

Questo secondo intermezzo di tipo parenetico (3,1-5), che precede immediatamente la sezione dottrinale, è caratterizzato da una serie di richiami e di interrogativi, che intendono spingere i Galati a riflettere sulla loro esperienza nello Spirito e si sviluppa in quattro passaggi:

La pericope è strutturata su di un versetto introduttivo (v.3,1), seguito dal corpo della pericope stessa, delimitato da un'inclusione data dal ripetersi dei termini “Spirito” e “Legge” in 3,2.5, nonché dallo stesso tema che li accomuna: l'origine dello Spirito e della sua azione. Al centro si pongono i vv.3,3-4, i quali, secondo la logica della retorica ebraica, sono i più importanti e qui sviluppano un duro richiamo a riflettere sull'insipienza del loro tradimento, che li ha portati alla deriva: dall'esperienza dello Spirito alla sottomissione della carne, vanificando tutto il loro sforzo e quello dello stesso Paolo.

Commento ai vv. 3,1-5

La meraviglia di Paolo al sapere che i Galati avevano abbandonato il suo Vangelo per un altro vangelo, distorto dalla predicazione dei giudaizzanti (1,6-7), si trasforma qui in 3,1 in sdegno per essersi lasciati abbindolare in modo così insipiente dai primi venuti. Significativo quel “¢nÒhtoi” (anóetoi) con cui si apre il cap.3 e che definisce i Galati come privi di intelligenza, incapaci di pensare e di ragionare e, quindi, insensati; ma nel contempo dice anche tutta la fragilità della loro fede, che Paolo ha saputo infondere in loro, ma probabilmente non ha saputo radicarla profondamente, poiché una volta gettato il seme della Parola, Paolo lasciava la cura pastorale ad altri, che non sempre erano all'altezza o più semplicemente non erano sufficientemente preparati o non sapevano far fronte all'eloquenza e alla retorica dei giudeocristiani giudaizzanti, molti dei quali provenivano dalla setta dei farisei o dei dottori della Legge e, quindi, gente molto abile ed esperta21. Del resto Paolo più che un pastore d'anime era un missionario dell'annuncio della Parola, tutto preso da una frenesia, che rasentava il fanatismo. Il mandato missionario ricevuto da Dio stesso, infatti, era quello dell'annuncio alle genti (1,16a; 2,7-9), cosa che ricorderà anche in 1Cor 1,17a: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo”. Tuttavia, dai brevi cenni sembra che i Galati avessero avuti tutti i rudimenti sufficienti per fondare la loro fede, ma non ne hanno fatto buon uso o quanto meno non ne hanno approfondito il Mistero: “(voi), ai quali, davanti agli occhi, fu presentato Gesù Cristo crocifisso”. Quel “davanti agli occhi” dice, da un lato, tutta la chiarezza dell'esposizione dell'annuncio circa il senso della morte di croce di Gesù. Questo per Paolo era il suo Vangelo, il Cristo crocifisso con tutto ciò che questo evento comportava per i credenti nel disegno del Padre (1Cor1,17b-24); dall'altro, lascia anche trasparire in qualche modo, richiamandosi a 2,19-20, come quel Mistero del Cristo crocifisso ora vive in lui e lui ne è un indomabile testimone (2Cor 11,23-29) e lo esprime nella sua incrollabile fede, così che loro, i Galati, lo possono vedere in lui, che è davanti ai loro occhi.

Proprio perché Paolo ha definito i Galati degli “¢nÒhtoi” (anóetoi), cioè incapaci di pensare e di ragionare, ora, egli li incalza con una stringente riflessione, che li costringe ad andare alle origini delle loro scelte. Quel “™x œrgwn nÒmou” (ex érgon nómu, dalle opere della Legge) e quel “™x ¢koÁj p…stewj” (ex akoês písteos, dall'ascolto della fede) evidenziati qui in 3,2 e ripetuti in 3,5, mettono nuovamente i Galati di fronte ad un bivio decisivo per la loro giustificazione e, quindi, per la loro salvezza: da dove proviene il dono dello Spirito, che è la vita stessa di Dio, di cui essi sono stati resi partecipi e rivestiti? Qual'è la fonte primaria di provenienza di questo Spirito: le opere della Legge o l'ascolto della Parola, che li ha aperti alla fede, grazie alla quale essi sono stati collocati, ipso facto, in Dio e ne condividono la Vita eterna fin da subito? Tuttavia qui non si tratta soltanto di capire la provenienza dello Spirito, ma anche di fare una scelta definitiva conseguente. Paolo, dunque, pone i Galati di fronte alle loro responsabilità, riconducendoli all'origine della loro scelta iniziale, che hanno tradito, spingendoli a ripercorrere il cammino originale per una nuova conversione. In tal senso egli si dichiarerà pronto a partorirli nuovamente nella fede: “figlioletti miei, che di nuovo partorisco finché Cristo abbia preso forma in voi” (4,19).

Posta dunque la questione su cui riflettere, Paolo ora prosegue incalzando più duramente i Galati. Torna qui, in 3,3, nuovamente l'attributo “¢nÒhtoi” (anóetoi), insensati, inintelligenti, ma che qui assume una diversa sfumatura. Nel primo “¢nÒhtoi” (anóetoi) in 3,1, associato al nome Galati, acquisiva un senso generico, che esprimeva sdegno per quello che essi, in quanto comunità della Galazia, avevano fatto. Ma questo secondo “¢nÒhtoi” (anóetoi), qui in 3,3, acquista un senso di offesa: ognuno di loro, ognuno che ha tradito la propria fede è uno stolto, un insensato, uno privo di discernimento. Qui non ci sono più i “Galati insensati e stolti”, ma il sottinteso pronome “voi”, che rende personalizzata l'accusa, rivolta a ciascuno di loro. Un'accusa i cui estremi vengono ora dettagliati: “avete cominciato con lo Spirito, ora terminate con la carne?”. In quel “aver cominciato con lo Spirito” Paolo allude all'esperienza spirituale acquisita a seguito della loro conversione a Cristo e che avrebbe dovuto evolverli sempre più verso Dio e il suo mondo dello Spirito, a cui essi appartenevano, mentre, per contro, sono degradati verso la carne, dove per “carne” si intende, in primis, la circoncisione con quanto essa comportava, cioè la sottomissione alla Legge mosaica con tutta la sua ritualità (le opere della Legge), che avevano la pretesa di fondare la propria salvezza su se stessi e non su Dio. Un tema questo che verrà ripreso e meglio dettagliato in 5,2-4, dove apparirà più chiaramente e più drammaticamente le conseguenze della scelta dei Galati: essi, che si sono assoggettati alla Legge, sono stati sciolti da Cristo e decaduti dalla grazia e Cristo non sarà più di alcun giovamento per loro, anzi tornerà a loro condanna.

Continua, dunque, Paolo con le considerazioni sugli inizi della loro conversione, che aveva causato loro le sofferenze delle divisioni intrafamiliari e ghettizzazioni sociali, per l'aver abbracciato la nuova fede. Testimonianze in tal senso ci vengono, alcuni decenni dopo, dagli stessi evangelisti, che nei loro racconti parlano di divisioni, emarginazioni e persecuzioni dei credenti in Cristo22. Ma lo stesso Paolo ne ha dato testimonianza su se stesso in 1,13: “Udiste, infatti, della mia condotta quando (ero) nel Giudaismo, quando con slancio perseguitavo la chiesa di Dio e la devastavo”. Ma sofferenze e difficoltà dovevano essere pervenute non solo dalle persecuzioni, ma anche dal dover adottare un nuovo tipo di mentalità, un nuovo modo di approcciare i rapporti sociali e di lavoro. La fatica, dunque, del cambiamento verso se stessi e verso gli altri; nel dover incominciare a ragionare in un modo completamente diverso, rinnegando le proprie tradizioni pagane. Tutta questa forte esperienza nello Spirito, che ha certamente causato sofferenze; tutto questo, chiede Paolo, è stato inutile? E conclude questa sua considerazione nichilista con un'affermazione sibillina, che lascia perplessi: “Se almeno (fosse stato) anche inutilmente!”. Con tale affermazione Paolo va ben oltre alle sofferenze personali causate dalla scelta operata inizialmente dai Galati, quella per Cristo. Con quel “fosse stato soltanto inutilmente”, intende dire che su di loro, per questo loro tradimento, per questo loro rinnegamento di Cristo subiranno anche un giudizio divino. Quindi è niente tutto quello che loro hanno sofferto per la loro scelta per Cristo e che ora hanno buttato via inopinatamente, dimenticandosi di tutto. Il peggio, sembra dire Paolo, deve ancora venire, poiché sui Galati pende ora anche il giudizio di Dio.

Dopo l'intermezzo così negativo e pesante dei vv. 3,3-4, Paolo riprende il v.3,2 e ne modifica parzialmente il senso. Se in 3,2 l'attenzione dei Galati era incentrata soltanto sulla fonte dello Spirito, qui in 3,5 l'attenzione viene spostata su chi non solo dona lo Spirito, ma anche opera in mezzo ai Galati portenti per mezzo dello Spirito stesso, cioè Dio Padre stesso. Ebbene, dice, Paolo l'azione del Padre, che opera in mezzo a voi con la potenza del suo Spirito, è causata dalle opere della Legge o non piuttosto dal fatto che voi avete accolto la Parola del mio Vangelo, intraprendendo così con Dio un nuovo rapporto, basato non tanto sulla vostra bravura nel fare o non fare determinate cose prescritte dalla Legge, ma perché vi siete aperti a Lui e vi siete resi disponibili a Lui nella fede?

Ed è proprio su questo tema della Fede in rapporto alla Legge che Paolo cercherà ora di risolvere l'interrogativo con la sezione scritturistico-dottrinale (3,6-4,31), in cui si evidenzierà il tipo di rapporto che Abramo ebbe con Dio, quale modello per tutti i credenti, e il senso della Legge.


Prima parte della sezione dottrinale: 

la prova scritturistica, Abramo-Fede; Cristo-Legge (3,6-29)


Testo a lettura facilitata

I credenti sono i veri figli di Abramo (vv. 3,6-7)

6- Come Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia,
7- sappiate, dunque, che chi (proviene) dalla fede, questi sono figli di Abramo.

La benedizione su Abramo si estende a tutti i credenti (3,8-9)

8- Prevedendo la Scrittura che Dio avrebbe giustificato le genti dalla fede, preannunciò ad Abramo che “In te saranno benedette tutte le genti”.
9- Cosi che coloro che (provengono) dalla fede sono benedetti con Abramo che credette.

Dalla Legge solo la maledizione (3,10)

10- Quanti, invece, sono dalle opere della Legge sono sotto la maledizione; fu scritto infatti che “Maledetto chiunque che non rimane (fedele) a tutte le cose scritte nel libro della Legge, per compierle”.

Ergo: solo dalla fede promana la giustificazione (3,11-12)

11- Pertanto (è stato) dimostrato che presso Dio nessuno viene giustificato nella Legge, poiché “Il giusto vivrà nella fede”;
12- ma la Legge non è dalla fede, ma “chi avrà fatto queste cose vivrà in esse”.

Cristo ha distrutto in se stesso la maledizione per poter accedere alla benedizione …. (3,13-14)

13- Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge essendo divenuto maledizione in nostro favore, poiché è scritto: “Maledetto ognuno che pende dal legno”,
14- affinché la benedizione di Abramo fosse, in Cristo Gesù, per le genti, affinché ricevessimo la promessa dello Spirito per mezzo della fede.

…. In quale modo ciò è stato possibile (3,15-18)

15- Fratelli, come uomo dico: nessuno viola o estende oltre un testamento convalidato, sebbene (sia un atto) di uomo.
16- Le promesse furono annunciate ad Abramo e alla sua discendenza. Non dice “E alle discendenze”, come (riguardassero) molti, ma come (riguardassero) uno, “E alla tua discendenza”, cioè Cristo.
17- Questo quindi vi dico: una Legge giunta dopo quattrocentotrent'anni non abolisce un testamento confermato prima da Dio, annullando la promessa.
18- Se infatti l'eredità (venisse) dalla Legge non (verrebbe) più dalla promessa; ma Dio ha fatto grazia ad Abramo per mezzo della promessa.


Il senso della Legge nel piano di salvezza di Dio (3,19-25)

19- Perché dunque la Legge? A causa delle trasgressioni fu imposta, finché non giungesse la discendenza, alla quale fu fatta la promessa, disposta per mezzo degli angeli per mano di un mediatore.
20- Ma non c'è un mediatore di uno (soltanto), Dio invece è uno.
21- Dunque la Legge (è) contro le promesse [di Dio]? Che non sia mai! Se infatti fosse stata data una Legge capace di dare la vita, la giustificazione verrebbe veramente dalla Legge.
22- Ma la Scrittura rinchiuse tutte le cose sotto il peccato affinché la promessa fosse data ai credenti dalla fede di Gesù Cristo.
23- Ma prima che venisse la fede, rinchiusi sotto la Legge, (da essa) eravamo custoditi in vista della fede, che doveva essere rivelata.
24- Così la Legge divenne il nostro pedagogo in vista di Cristo, affinché fossimo giustificati dalla fede;
25- ma giunta la fede, non siamo più sotto il pedagogo.

Ergo: tutti i credenti “uno in Cristo” sono figli di Abramo ed eredi della Promessa (3,26-29)

26- Tutti (voi), infatti, siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù:
27- Quanti, infatti, siete stati battezzati in Cristo, siete stati rivestiti di Cristo.
28- Non vi è fra (voi) Giudeo né Greco, non vi è (tra voi) schiavo né libero, non vi è (tra voi) maschio e femmina; tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù.
29- Ma se (siete) di Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa


Note generali

Dopo aver difeso il suo Vangelo portando a testimonianza alcune sue note autobiografiche, finalizzate a dimostrare come la sua apostolicità e la sua missione, così come il suo Vangelo non avessero origini umane, bensì divine, Paolo, ora, dopo due preamboli complementari l'uno all'altro (2,15-21+3,1-5), passa alla dimostrazione scritturistica della sua tesi, che aveva già enunciato in 2,16: la giustificazione proviene dalla fede e non dalle opere della Legge, poiché da queste mai nessuno è stato giustificato e mai lo sarà. Affermazione questa fondamentale, che crea una insanabile discriminazione tra il prima e il dopo, tra la Legge e la Fede, tra Mosè e Cristo. Si rende, pertanto, necessaria una solida dimostrazione che giustifichi una simile attestazione e Paolo lo farà in cinque passaggi:

  1. dapprima in 3,6-12, ricorrendo all'autorità delle Scritture. Ed è così che Paolo presenta la figura di Abramo, del quale mette in particolare rilievo il suo rapporto con Dio, fondato sulla fede e certamente non sulla Legge, che sarebbe venuta circa 430 anni dopo (3,17), così che tutti quelli che si rapportano a Dio nella fede sono da considerarsi i veri discendenti di Abramo, suoi veri figli e, quindi, i veri eredi della Promessa. Questo è il primo assioma, al quale saranno dedicati i vv.6-12. Una pericope questa densissima di citazioni scritturistiche, così che 3,6 si richiama a Gen 15,6; 3,8 a Gen 12,3; 3,10 cita Dt 27,26; 3,11 si richiama ad Ab 2,4b; 3,12 chiama in causa Lv 18,5; e 3,13 che a prova adduce Dt 21,23.

  2. Con prova scritturistica viene dimostrato come Cristo, fattosi maledizione per noi, ha distrutto in se stesso, attraverso la morte di croce, la maledizione che gravava sulla Legge e che ci condannava irrimediabilmente a motivo della nostra fragilità, così che, abolita la maledizione, ogni credente avesse libero accesso alla Benedizione e alla Promessa per mezzo della fede in Cristo (3,13-14);

  3. il terzo passaggio è di natura giuridica, finalizzato a sostenere, anche su di un piano logico e umano, la correttezza delle affermazioni di Paolo, cioè che il Cristo è la vera ed unica discendenza e, di conseguenza, l'unico erede della Benedizione e della Promessa date da Dio ad Abramo e come la Legge, giunta ben 430 anni dopo tale Promessa non può averla inficiata, poiché il Patto che Dio ha fatto inizialmente con Abramo fonda su Dio stesso, quindi tale Promessa e tale Benedizione sono ancora valide (3,15-18);

  4. il quarto passaggio è finalizzato a mostrare il senso e il ruolo della Legge, istituita solo a motivo della fragilità dell'uomo, perché egli, proprio a motivo della sua fragilità e pochezza, non si disperdesse e con lui ogni possibilità di donargli la Promessa e la Benedizione. La Legge, dunque, nell'attesa che giungesse la vera Discendenza di Abramo, a cui era destinata la Promessa e la Benedizione divine, fungeva nei confronti dell'uomo come un severo pedagogo. Ma giunta la Discendenza, la Legge ha perso ogni valenza e ogni significato, poiché con la venuta della Discendenza ha esaurito la finalità del suo esserci, lasciando ora spazio alla Discendenza, con la quale ci si relaziona, sull'esempio di Abramo, solo con la Fede, così che ogni credente diviene partecipe della Promessa e della Benedizione, di cui la Discendenza è l'unica vera erede e depositaria (3,19-25).

  5. Il quinto ed ultimo passaggio è finalizzato a chiarire in quale modo il credente si relaziona con Cristo, vera Discendenza di Abramo, e in quale modo, quindi, viene reso partecipe della Promessa e della Benedizione in Cristo e per Cristo (3,26-29).


Commento ai vv. 3,6-29

La sezione scritturistica e dottrinale si apre con una grande figura veterotestamentaria, fondamentale nella storia d'Israele, quella di Abramo, il capostipite del popolo d'Israele. Una figura che è commentata da Paolo con un'attestazione, che egli mutua da Gen 15,6: “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia”. Quindi il rapporto tra Dio ed Abramo era fondato sulla fede. Ed è proprio la fede di Abramo in Dio che “gli fu accreditata a giustizia”. Quel “accreditare” significa che Dio ha riconosciuto che Abramo ha saputo conformare la sua vita alla sua Volontà, fidandosi della sua Parola e rendendosi in tal modo disponibile a Lui e mettendo la sua vita al suo Servizio. Le conseguenze di questo atteggiamento di piena disponibilità a Dio nella fede fu la Promessa di una Terra e di una discendenza numerosa quanto le stelle del cielo e quanto i granelli della sabbia del mare. In altri termini una grande fecondità, che è il segno tangibile della benedizione divina (Gen 1,22.28).

Abramo, quindi, diviene il prototipo dell'autentico rapporto che ogni credente deve avere con Dio, quello fondato sulla fede, così che tutti quelli che instaurano nella propria vita tale tipo di rapporto, conformandosi a quello di Abramo, può definirsi suo figlio, poiché ne possiede in qualche modo il DNA spirituale, la fede. Significativa, infatti, è l'espressione “chi (proviene) dalla fede” (“oƒ ™k p…stewjoi ek písteos), dove quel “ek, ek” dice l'origine del credente, colto qui come colui che proviene dalla fede, che per il suo particolare rapporto di fiducia, di apertura e disponibilità a Dio è stato generato ad una nuova vita dalla fede e il cui padre è proprio quel Abramo, che la Scrittura storicamente ha posto all'origine del popolo d'Israele, ma che da un punto di vista teologico, quale prototipo di una nuova umanità generata dalla fede e nella fede a Dio, è stato posto all'origine di un popolo di credenti, che supera i ristretti confini della storia per abbracciare l'intera umanità, ovunque questa si trovi lungo il cammino della storia.

Ed è in questa cornice universale di salvezza, che vede in Abramo il capostipite di un nuovo popolo più numeroso delle stelle del cielo e della sabbia del mare, che Dio affida ad Abramo la Promessa di una giustificazione, che si concretizza nella benedizione divina, che da Abramo si estenderà a tutti i credenti, che hanno impresso nella loro vita il DNA di Abramo, la fede, che genera l'uomo a Dio e lo colloca fin d'ora nella Vita eterna, che è la stessa Vita di Dio: “In te saranno benedette tutte le genti”. “Prevedendo la Scrittura” (3,8a). Si tratta di una previsione che allude ad un particolare disegno di salvezza che Dio ha iniziato con Abramo, ponendo su di lui il sigillo della sua benedizione, il segno di fecondità di vita nello Spirito, perché tale benedizione possiede in se stessa il principio vitale di Dio stesso, la sua fecondità, la capacità di generare la Vita e alla Vita23. Una benedizione che si attiva per mezzo della fede, perché chiunque crede abbia la Vita eterna (Gv 3,16). Una benedizione, quindi, ottenuta per mezzo della fede, capace di generare ogni credente alla Vita stessa di Dio. Ed è proprio questa dinamica di salvezza che Paolo definisce come “giustificazione”, cioè Dio che rende giusto l'uomo davanti a Sè, quel uomo che si affida a Lui e si rende a Lui disponibile nonostante la propria povertà, il proprio misero stato di peccatore, cioè di colui che ha smarrito la via della Verità e della Vita, allontanandosi da Lui24. Tutto ciò viene superato dalla volontà salvifica di Dio, che vuole che tutti gli uomini siano salvi (1Tm 2,4; Tt 2,11), rendendoli nuovamente “giusti” davanti a Sè, così com'era nei primordi dell'umanità, purché l'uomo, a sua volta, si collochi in una giusta posizione nei confronti di Dio, che è quella del suo rapportarsi con il suo Dio, che ha tragicamente abbandonato nei primordi dell'umanità, nella fede.

Contrapposte alle logiche della Fede sono le opere della Legge, cioè chi ritiene di ottenere la propria giustificazione compiendo esattamente ciò che la Legge dice, quale espressione della Volontà divina. Una giustificazione, quindi, che posa non più nella misericordia di Dio e nel proprio abbandono in Lui, ma su se stessi, sulle proprie capacità di riscatto, ritenendo, in questa egocentrica dinamica, Dio un terzo nei confronti di se stessi, con il quale si intreccia una sorta di rapporto commerciale: “do ut des”. In altri termini, io eseguo attentamente e con scrupoloso impegno la tua Volontà, che tu hai espresso nella Legge, e tu sei tenuto a ricompensarmi per le opere che ho compiuto in conformità alla Legge. La salvezza, pertanto, non dipende più da Dio, che in tal caso è un soggetto passivo, ma da me stesso. La giustificazione, pertanto, non è più teocentrica, ma egocentrica. Tutto gira attorno a me e tutto dipende da me.

Tuttavia, un simile rapporto non tiene conto della fragilità di cui è permeato l'uomo, incapace, proprio per la sua fragilità, di compiere le opere imposte dalla Legge. Un concetto questo che Paolo meglio esprimerà in Rm 7,21-24: “Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”. L'uomo, dunque, proprio per la sua fragilità non è in grado di compiere tutto ciò che la Legge gli comanda, per cui, proprio per questo, la Legge lo pone sotto la maledizione, che si traduce in condanna per l'uomo: “Maledetto chiunque che non rimane (fedele) a tutte le cose scritte nel libro della Legge, per compierle” (Dt 27,26). Dalla Legge, infatti non viene la salvezza o la giustificazione, ma solo un atto di accusa e di condanna, poiché la Legge dice di fare, ma io non faccio; dice di non fare, ma io faccio a motivo della mia debolezza. La Legge, dunque, ha messo in evidenza la mia condizione di fragilità e con essa ha preso vita il peccato, qui inteso come trasgressione della Legge, ed è divenuta per me motivo non di salvezza, ma di condanna e perdizione (Rm 7,7-10).

Paolo chiude la parte scritturistica di questa prima parte della sezione dottrinale attestando con 3,11a: “Pertanto (è stato) dimostrato” (“ Óti de .... dÁlon”, óti de … dêlon), riferendosi con questa espressione a quanto fin qui adotto con riguardo ai due preamboli, il primo assertivo dai toni dogmatici (2,15-21), in particolare 2,16 attorno al quale gira l'intera pericope; il secondo preambolo applicativo del primo, che fissa l'attenzione dei Galati sulla fonte del dono dello Spirito Santo, se dalle opere della Legge o dalla Fede (3,1-5), termine quest'ultimo che introduce la prima parte della sezione dottrinale e a cui si aggancia la figura di Abramo, prototipo del corretto rapporto dell'uomo con Dio, fondato esclusivamente sulla Fede, e, quindi, Padre di tutti i credenti (3,6-10).

Con i conclusivi vv.3,11-12, Paolo trae, pertanto, due attestazioni di natura dogmatica, che poggiano, a loro volta, su altre due citazione scritturistiche, che le rafforzano. La prima (3,11b) riguarda la giustificazione per le opere della Legge: “[...] presso Dio nessuno viene giustificato dalla Legge, poiché “Il giusto vivrà dalla fede” ” (3,11), dove quel “poiché” (“Óti”, óti) diviene giustificativo dell'attestazione dogmatica che lo precede e che gli è stata consentita dalla riflessione prodotta dal v.3,10. Va tuttavia detto che la citazione di Ab 2,4b (“Il giusto vivrà dalla fede”) è stata manipolata da Paolo per adattarla alla propria tesi. Il testo della LXX, infatti, parla della fedeltà di Dio nei confronti del giusto, che trae la sua vita dalla fedeltà di Dio alla sua promessa: “Dalla mia fedeltà il giusto vivrà” (“Ð de d…kaioj ™k p…steèj mou z»setai”, “ó de díkaios ek pisteos mu zésetai” Ab 2,4b), dove la fedeltà di Dio diviene causa e motivo della salvezza del giusto. Tutto, quindi, è imperniato sull'azione di Dio e non del giusto, al quale è chiesta soltanto la fede, cioè il fidarsi di Dio e lasciarsi da Lui condurre, così come ha fatto Abramo.

Il v.3,12 pone un implicito confronto tra la Legge e la Fede e ne valuta la diversa natura, poiché “la Legge non è dalla Fede”, cioè la Legge non si basa sui presupposti e sulla natura della Fede e, quindi, è priva di capacità di giustificazione, che invece sono propri della Fede. L'origine delle due sono, infatti, completamente diverse e nulla hanno a che vedere tra loro, ponendo l'uomo in un diverso, anzi, contrapposto atteggiamento nei confronti di Dio: la prima poggia sulla coscienza che il giudeo ha di se stesso, quella del saper eseguire le opere imposte dalla Legge, fondando la sua sicurezza sulla propria presunta onnipotenza e saccenza umana; sulla coscienza di essere appartenente ad un popolo di privilegiati ed eletti, superiore spiritualmente ad altri popoli, abile nell'interpretare e manipolare la Legge nel suo osservarla ed eseguirla (Rm 2,1.17-20). Una Legge, che, da parte sua, lega il premio della vita eterna alla sua perfetta esecuzione e a cui Paolo si richiama in 3,12b, citando Lv 18,5: “Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali, chiunque le metterà in pratica, vivrà. Io sono il Signore”, rafforzando in tal modo la coscienza del giudeo nel puntare tutto sulla sua perfetta esecuzione, divenendo egli stesso fautore della propria salvezza. Ma questa è pur sempre una Legge impositiva, che fa toccare i limiti della fragilità umana, mettendola in rilievo e traducendosi in una condanna per l'uomo, incapace di eseguirla compiutamente (Rm 2,1-29). Ed allora si toccherà con mano la durezza della Legge, che assicura la vita eterna a chi la sa osservare, ben sapendo quanto lontana sia una simile evenienza, per cui la benedizione promessa dalla Legge si traduce, a giochi finiti, in una maledizione e in una condanna per l'uomo e che farà gridare, sfiduciato, Paolo in Rm 7,24: “Io, uomo misero! Chi mi libererà dal corpo di questa morte?25

Per contro, in modo più realistico, la Fede si fonda sulla coscienza della fragilità umana e sull'aprirsi del credente a Dio, rendendosi pienamente disponibile a Lui, lasciando l'iniziativa della propria giustificazione a Dio stesso, in cui confida e si affida. Un atteggiamento di abbandono fiducioso nelle mani di Dio, cantato dal Salmista: “Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze. Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia” (Sal 130,1-2).

Terminata questa prima parte (3,1-12) della sezione dottrinale (3,1-4,31), un concentrato di numerose attestazioni scritturistiche, poste a sostegno della sua tesi, cioè che la giustificazione non proviene dalle opere della Legge, bensì dalla fede in Dio, sull'esempio di Abramo, prototipo e padre di ogni credente, Paolo, ora, apre la seconda parte (3,13-29) della sezione dottrinale (3,1-4,31), accostando alla figura di Abramo quella di Cristo, per dimostrare come anche lui, Cristo, non solo è figlio di Abramo (Mt 1,1), ma, proprio per questo, posto in così stretta relazione con Abramo, egli è indicato anche quale vera ed unica Discendenza di Abramo e, di conseguenza, come proprio il Cristo sia il vero ed unico erede della Promessa e come proprio da lui defluiscano su ogni credente, che si relaziona a lui per mezzo della fede, la Benedizione e la Promessa originarie, che Dio aveva fatto ad Abramo. Dunque, Cristo, vera Discendenza di Abramo, è l'unico erede e depositario della Promessa, a cui è legata la Benedizione divina (Gen 12,2-3), che porta con sé la fecondità stessa di Dio, che è Vita eterna, e che viene donata a tutti i credenti per mezzo della fede nella Discendenza, cioè Cristo.

Si passa, dunque, dalla tesi scritturisticamente sostenuta, secondo la quale Abramo è il prototipo e il padre di ogni credente (3,6-12), a quella cristologica che serve a Paolo per saldare Abramo a Cristo, facendolo vera e unica Discendenza e, quindi, unico e vero erede della Promessa e della Benedizione che Dio ha affidate ad Abramo. Una tesi che ora Paolo dimostra attraverso quattro passaggi, già sopra menzionati nelle “Note generali” (pagg.58-59, lett. b-e).

Cristo ha distrutto in se stesso la maledizione per poter accedere alla Promessa e alla Benedizione (3,13-14)

Con il v.3,10 Paolo aveva provato scritturisticamente, citando Dt 27,26, come coloro che si sottopongono alla Legge si sottopongono, ipso facto, anche alla maledizione, che essa porta inevitabilmente con sé, conseguente alla fragilità dell'uomo, incapace di adempierla pienamente. Ma come, dunque, togliere questa maledizione insita nella Legge, che ai tempi di Abramo ancora non c'era, poiché giunta successivamente, 430 anni dopo (3,17), e che impedisce di fatto il defluire della Promessa e della Benedizione da Abramo ai credenti, vanificando il progetto salvifico di Dio? La Legge, infatti, racchiudendo in se stessa ogni uomo con la sua fragilità, lo pone sotto la sua maledizione, poiché la Legge condanna chi la trasgredisce (3,22-23). Chi, dunque, ci libererà da questa Legge, che destina ogni credente, a motivo della sua fragilità e, quindi, della sua incapacità ad eseguirla perfettamente, alla perdizione ( Rm 7,24)? Sarà proprio questo il compito di questa seconda parte della sezione dottrinale, quello di sciogliere l'interrogativo. E lo fa introducendo una nuova tesi, di natura cristologica, che va a completare quella su Abramo, quale prototipo e padre di ogni credente (3,6-12).

Parallelamente all'attestazione di 3,6-7, fatta seguire da numerose citazione scritturistiche a suo sostegno, ora Paolo apre questa seconda parte della sezione dottrinale, il cui intento è saldare tra loro le due figure di Abramo e di Cristo, con una nuova attestazione, supportata scritturisticamente da Dt 21,23: Cristo condannato alla morte di croce a causa della Legge26 ne ha subito, proprio per questo, anche la maledizione, che questa Legge portava con sé, divenendo così egli stesso maledizione. A riprova di ciò Paolo cita Dt 21,23c: “Maledetto ognuno che pende dal legno”27. Cristo, dunque, sottoposto alla Legge, che ne ha causato la morte di croce, è divenuto una maledizione di Dio. Tuttavia tale distruzione della Legge, e con questa della sua intrinseca maledizione, nella carne crocifissa di Cristo, non è fine a se stessa, ma è la conditio sine qua non per sgombrare il campo da tale impedimento e consentire in tal modo il defluire della grazia da Abramo a Cristo e da Cristo agli uomini, realizzando in tal modo il piano salvifico del Padre.

Il v.3,14 è significativamente scandito, infatti, da due “affinché” (†na, ína), che indicano gli obiettivi della morte di croce di Gesù: “affinché la benedizione di Abramo fosse, in Cristo Gesù, per le genti, affinché ricevessimo la promessa dello Spirito per mezzo della fede”. Il primo “affinché” ha come obiettivo il togliere l'inciampo della Legge, così che la Promessa e la Benedizione di Abramo potessero liberamente fluire da Abramo a Cristo e da Cristo agli uomini; il secondo “affinchè” focalizza la finalità primaria dell'intero progetto salvifico iniziatosi con Abramo: far si che gli uomini potessero accedere, per mezzo della fede, alla Promessa e alla Benedizione, ora, in Cristo Gesù. I vv. 3,13-14, pertanto, formulano la tesi che verrà dimostrata nella successiva sezione 3,15-29 e che pone le basi per dottrinali cristologiche per l'enunciazione di 4,4-7.

I vv.3,13-14, tuttavia, costituiscono un passaggio brusco quanto oscuro: non è comprensibile, infatti, come dalla Legge, a cui Cristo fu sottomesso e condannato alla morte di croce, che lo ha reso una maledizione di Dio, possa scaturire la Benedizione e con essa anche la Promessa di Abramo a tutti i credenti. Ciò che Paolo sottintende, e che meglio lascerà trasparire in 4,5-6, è che Gesù, entrato nel mondo, venne da subito sottoposto alla Legge attraverso la circoncisione all'ottavo giorno (Lc 2,21-24) e successivamente con il bar mitzvah all'età di dodici anni (Lc 2,41-42), assumendo in se stesso, con la sua incarnazione, degradata dal peccato, in modo reale e non figurativo o simbolico, la Legge e con la Legge anche la maledizione intrinseca alla Legge stessa, così che morendo sulla croce egli ha distrutto la Legge nella sua carne e con essa la maledizione (Ef 2,13-16), liberando in tal modo l'uomo dal suo giogo, non gravando più su di lui con un pesantissimo fardello di regole e norme impossibili da eseguire perfettamente (Mt 23,4). Sarà infatti questo il senso di 5,1: “Cristo ci ha liberati per la libertà; state (saldi) pertanto e non siate di nuovo sottoposti al giogo della schiavitù”.

Distrutta, pertanto, la Legge con la sua maledizione attraverso la morte di croce, viene in tal modo tolto l'inciampo della Legge, così che questa Promessa e questa Benedizione, e con queste il progetto salvifico di Dio a favore dell'uomo, hanno ripreso a scorrere da Abramo a Cristo e da Cristo verso ogni uomo per mezzo della fede in Cristo. Una promessa e una Benedizione che qui, per la prima volta, assumono un loro preciso volto: quello dello Spirito Santo, che è Potenza creatrice, trasformante e rigenerante di Dio.

Anche il v. 3,14, benché chiaro nella sua attestazione non lo è assolutamente nella sua dinamica e nel suo senso. In altri termini: In quale modo la Promessa e la Benedizione, donate da Dio ad Abramo, sono passate da Abramo a Cristo? In quale modo ciò è stato possibile? E in quale modo, poi, da Cristo sono defluite verso l'intera umanità credente? In quale modo poi questa ne è rimasta coinvolta e quali ne sono state le conseguenze? Sono questi i quesiti che suscita il v.3,14 e che i tre successivi passaggi (3,15-18.19-25.26-29 ) s'incaricheranno di sciogliere.

Primo passaggio: in quale modo ciò è stato possibile (3,15-18)

Questo primo passaggio è teso a dimostrare, da un lato, lo stretto collegamento che esiste tra Abramo e Cristo; dall'altro, come la Legge, giunta successivamente, ben 430 anni dopo, non può in alcun modo modificare il Patto che Dio ha sancito con Abramo (Gen 15,17-18). Rimane, pertanto, valido sia le modalità del rapporto che Abramo instaurò con Dio, fondato sulla fede (Gen 15,6) e divenuto prototipo per ogni credente; sia il Patto di Alleanza, cui è legata la Promessa di una terra e di una numerosa discendenza, che Dio sancì con Abramo.

La dimostrazione della validità della tesi prende come parametro di raffronto il fondamento giuridico che garantisce, presso la civile società, un testamento o un patto o un'alleanza28, che esprimono la volontà di una o più persone tra loro: nessuno li può modificare se non le parti direttamente interessate. Se così è tra gli uomini, dice Paolo, tanto più questo vale presso Dio. Quindi il Patto di Alleanza sancito tra Dio e Abramo non può essere modificato e tanto meno annullato da una Legge venuta 430 dopo.

All'interno di questa dimostrazione giuridico-teologica, Paolo inserisce anche una sua interpretazione scritturistica, che è fondamentale per creare il collegamento tra Abramo e Cristo e, quindi, instaurare il passaggio diretto della Promessa e della Benedizione da Abramo a Cristo, baipassando in tal modo la Legge, che si era intromessa nel frattempo: “Le promesse furono annunciate ad Abramo e alla sua discendenza. Non dice “E alle discendenze”, come (riguardassero) molti, ma come (riguardassero) uno, “E alla tua discendenza”, cioè Cristo”. Il passo di riferimento scritturistico è probabilmente Gen 17,7, dove Dio, rivolgendosi ad Abramo, attesta: “Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te”. Quindi, secondo Paolo, quando Dio stabilì il suo Patto con Abramo e la sua “discendenza”, già nell'ambito del suo piano di salvezza, elaborato ancor prima della creazione (Ef 1,4), stava pensando a Cristo.

Quindi Paolo ha qui dimostrato come il Patto di alleanza che Dio ha stabilito con Abramo si è trasferito parimenti alla sua Discendenza, cioè a Cristo e nulla, neppure la Legge, giunta successivamente, può inficiare questo solido Patto primordiale tra Dio-Abramo-Discendeza Cristo.

Il v.3,18 completa la dimostrazione con l'ipotesi contraria, rilevando, in questo caso, la contraddizione, in quanto che la Promessa che Dio ha fatto ad Abramo fu un atto unico di misericordia e di amore, elargito ad Abramo in virtù della sua sola fede e, quindi, non può essere la Legge il fondamento e la fonte del Patto tra Dio e Abramo, né tantomeno sostituirsi ad esso, poiché in tal caso verrebbe esclusa la liberalità di Dio, cioè la grazia, nei confronti di Abramo: “Se infatti l'eredità (venisse) dalla Legge non (verrebbe) più dalla promessa; ma Dio ha fatto grazia ad Abramo per mezzo della promessa”.

Il senso della Legge nel piano di salvezza di Dio (3,19-25)

Dopo aver evidenziato la posizione perdente della Legge nei confronti della Fede (3,11), che caratterizza, quest'ultima, il rapporto di Abramo con Dio e con lui tutti i credenti, dei quali Abramo è prototipo e padre (3,6-12), Paolo ora esamina il senso della Legge nel contesto della storia della salvezza e quale sia la sua funzione.

L'analisi parte con un interrogativo posto sulla Legge, il cui senso è: se la Legge non proviene e non è causata dalla Fede né ha a che fare con la Fede (3,12), né è in grado di ottenere la giustificazione dell'uomo (2,16; 3,11), anzi, ne causa la condanna a motivo della sua fragilità (3,10); se tutto questo è vero, allora a che cosa serve la Legge e qual è il suo senso?

La risposta viene enunciata al v.3,19a e poi fatta seguire da una sorta di commento dato dai vv.3,19b-22, il cui intento è di precisare meglio l'attestazione di 3,19a, ma in realtà la complica notevolmente, rendendola decisamente oscura e ingarbugliata, tant'è che Paolo si vede costretto a dare ulteriori spiegazioni con i vv.3,21-22, che certamente non rasserenano il contesto, né lo rendono più facilmente raggiungibile. Per contro, l'autentico senso nonché il chiarimento del v.3,19a verranno offerti dall'esemplificazione data dai vv.3,23-25.

Paolo risponde all'interrogativo affermando che “A causa delle trasgressioni fu aggiunta, finché non giungesse la discendenza, alla quale fu fatta la promessa”. La Legge, dunque, si configura come una semplice aggiunta alla Promessa di Abramo; un'aggiunta che è venuta ben 430 anni dopo la Promessa (3,17) e, quindi, un elemento del tutto secondario e irrilevante nonché ininfluente rispetto alla Promessa, che per Paolo rimane il principio su cui s'impernia l'intera storia della salvezza (3,15-18). L'aggiunta, precisa ancora Paolo, “fu causata dalle trasgressioni”.

Qui si rende necessaria una precisazione tecnica, poiché sovente si vede attribuire all'espressione greca “tîn parab£sewn c£rin” (tôn parabáseon cárin) un senso finale e non causativo, per cui si dovrebbe leggere che la Legge fu data per provocare le trasgressioni e, quindi, alimentare il peccato, cosa che di fatto Paolo dirà in Rm 7,9.11. Ma il senso di quel “c£rin” (cárin) più genitivo, in questo contesto, esprime solo un senso di causa e significa “a causa di; con riguardo a; a motivo di; in considerazione di” e simili.

Cosa, dunque, intendeva dire Paolo che la Legge fu aggiunta “a causa delle trasgressioni”, considerato che le trasgressioni sono sempre tali rispetto ad un divieto e, quindi, presuppongono una Legge che vieti. Il termine “trasgressioni” è qui sinonimo di peccati, una realtà quest'ultima che è sempre stata presente indipendentemente dalla Legge, ma l'aggiunta della Legge ha fatto si che l'uomo peccatore si rendesse conto, da un lato, della sua peccaminosità (Rm 7,7); dall'altro, trovasse nella Legge la via maestra per non deviare dal cammino verso la Verità, che è Cristo. Il peccato, infatti, è l'esatto contrario della Legge. Il termine peccato in greco è reso con “¡marta” (amartía), che deriva dal verbo greco “¡mart£nw” (amartáno), che significa “sbagliare strada, deviare dalla verità e dal giusto, non raggiungere, fallire”. La Legge, dunque, ha lo scopo di raddrizzare il cammino dell'uomo tenendolo fermo verso la “discendenza”, cioè Cristo, evitandogli il peccato più grave ed ultimo, quello della sua perdizione. Quindi la Legge fu imposta, e non solo aggiunta29, per costringere il credente a prendere coscienza della sua fragilità e come la sua giustificazione non poteva essere raggiunta da una Legge, che continuamente condanna l'uomo per la sua incapacità di compierla pienamente (3,10) e, quindi, di eseguire la Volontà divina, espressa dalla Legge stessa.

Dopo aver spiegato il senso della Legge nell'ambito della storia della salvezza e la sua posizione del tutto secondaria rispetto alla Promessa, che invece è primaria e fondamentale in tale ambito, Paolo ora spiega l'origine della Legge, il cui intento è duplice: da un lato, rafforzare il senso della secondarietà della Legge, che non proviene direttamente da Dio, pur avendo origine divina, in quanto che essa è stata concepita e promulgata dagli angeli30 per gli uomini; mentre Dio in questo contesto ha avuto il ruolo secondario di mediatore, per stemprare la durezza della Legge; dall'altro, presentare Dio nel suo duplice ruolo di unico mediatore, quanto alla Legge, e di unico autore e attore della Promessa, in riferimento ad Abramo.

Per comprendere quanto affermato nel paragrafo qui sopra è necessario analizzare passo dopo passo i vv.3,19b e 3,20, per cui si avrà:

Questo è quanto dice 3,19b. Ora Paolo, con il v.3,20, giunge ad un secondo passaggio, decisamente molto più ingarbugliato, molto più oscuro e attorno al quale si sono sviluppate numerosissime interpretazioni, alle quali aggiungo anche la mia: “Ma non c'è un mediatore di uno (soltanto), Dio invece è uno”. Il v.3,20 è suddiviso in due parti: la prima (3,20a) attesta che “Ma non c'è un mediatore di uno (soltanto)”. Il v.3,20a si apre con una particella avversativa “Ma”, che contrappone quanto segue a quanto si è detto al v.3,19b, cioè che Dio è stato mediatore tra gli angeli e Mosè. In altri termini, Dio non fu soltanto mediatore di uno soltanto, cioè tra Mosè e gli angeli e, quindi, co-autore e co-responsabile della Legge data al popolo per mezzo di Mosè, “Ma” fu autore e responsabile anche della Promessa e del Patto di alleanza tra Lui ed Abramo (Gen 15,17-18). Quindi Dio ha trattato con Abramo, e Dio ha trattato con gli angeli a favore di Mosè e con lui del popolo. Quindi, Dio, là con Abramo; e Dio, qui con gli angeli. Ma, conclude Paolo in 3,20b: “Dio invece è uno”. Un'affermazione questa che non va presa in senso dottrinale (Dt 6,4), bensì in senso constatativo, cioè sia per quanto riguarda i rapporti di Dio con Abramo, sia per quanto riguarda la Legge elaborata dagli angeli con la mediazione di Dio, in entrambi i casi è sempre lo stesso identico Dio, il quale ovviamente non può aver negato la Promessa fatta ad Abramo favorendo la Legge, poiché avrebbe contraddetto se stesso.

Paolo, a tal punto, intuisce che una simile affermazione, elaborata dai vv. 3,19b-20, può causare una certa perplessità, poiché se Dio è co-autore della Legge e nel contempo autore del Patto di alleanza con Abramo, quest'ultimo fondato sulla Fede e l'altra sulle opere, in una insanabile contrapposizione, poiché “la Legge non è dalla Fede” (3,12a), allora la Legge non va contro la Promessa ottenuta per mezzo della sola Fede (3,6), considerato che “l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge se non per mezzo della fede di Gesù Cristo” (2,16a)? In altri termini, non vi è contraddizione in tutto questo? Ma allora, la giustificazione la si ottiene per mezzo della Legge o per mezzo della Fede, considerato che in entrambi i casi tutto viene ricondotto all'unico Dio?

La questione viene qui rilevata dal v.3,21a: “Dunque la Legge (è) contro le promesse [di Dio]?” e nel contempo Paolo la esclude in modo categorico: “Che non sia mai!”, riservandosi i vv. 3,21b-22 per spiegare l'apparente contraddizione, che poi meglio chiarirà con la successiva esemplificazione di 3,23-25, che riprenderà l'attestazione di 3,19a.

Il v.3,21a pone in un confronto-scontro diretto Legge e Promessa, la prima fondata sulle opere, le seconde fondata sulla Fede, per mettere in evidenza l'incompatibilità tra le due e l'irriducibilità l'una all'altra (3,12a). È evidente che non può esserci contraddizione in Dio, poiché se la giustificazione Dio la concedesse attraverso la Legge, rinnegherebbe in tal modo le Promesse fatte ad Abramo, fondate queste sulla sola Fede, riqualificando invece la Legge quale vera e autentica datrice di vita e fonte di ogni giustificazione, la quale cosa, però, andrebbe ad urtare contro il v.3,10, scritturisticamente provato, che pone, invece, sotto il segno della maledizione chiunque, che a motivo della connaturata fragilità umana, non compie perfettamente tutte le opere della Legge (Dt 27,26).

Il v.3,22 riprende, dunque, in qualche modo Dt 27,26, citato da Paolo in 3,10b, attestando come la Scrittura, qui da intendersi come il Pentateuco, che contiene la Legge, racchiude, a motivo della fragilità propria dell'uomo, tutte le cose sotto il “peccato”, inteso qui come trasgressione della Legge (3,19a). La quale cosa, di conseguenza, porta con sé la maledizione divina, causata dall'incapacità dell'uomo, e con lui dell'intera creazione, di osservare in modo perfetto la Legge. Significativo e fondamentale quel tocco di universalità espresso da quel “tutte le cose”, intendendo con queste non solo “tutti gli uomini”, bensì anche la creazione stessa, che è strettamente solidale con l'uomo (Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23). Preambolo questo alla pericope conclusiva di questo cap.3 (3,26-29) e tesi che Paolo sosterrà ampiamente in modo magistrale in Rm 1,18-3,31 e 8,19-22.

Conclude Paolo il v.3,22 con una frase finale: “affinché la promessa fosse data ai credenti dalla fede di Gesù Cristo”. In altri termini, la Scrittura, nel senso qui di Legge, ha accomunato l'intera realtà esistente, uomini e creazione, sotto il segno del peccato, a causa della loro fragilità, che condanna l'uomo e con lui l'intera creazione, non lasciandogli altra scelta che affidarsi a Dio, rivelatosi e operante nel suo Cristo. La strada del fallimento e della costrizione, dunque, diviene quella che porta alla scoperta della giustificazione per Fede. Da qui Paolo, riprendendo 3,19a, esemplifica, ora, il ruolo della Legge nel contesto della storia della salvezza, introducendo la figura del pedagogo, che presso il mondo greco-romano più che come un erudito e solerte educatore di fanciulli, era semplicemente uno schiavo, il cui compito era quello di custodire fisicamente, utilizzando anche mezzi severi e coercitivi, i figli del padrone fino alla loro maggiore età.

Paolo apre il v.3,23 attestando “Ma prima che venisse la fede”. Ma di quale fede si sta parlando qui, poiché essa era già presente in Abramo, prototipo e padre di tutti i credenti (3,6-7). Ma qui Paolo si sta spingendo ben oltre ad Abramo, per giungere alla “sua Discendenza”. È questa, infatti, ora, la vera depositaria della Promessa e della Benedizione, a cui ogni credente è chiamato ad accedere per mezzo della Fede nella Discendenza, sul modello di Abramo. Ed è questo, ora, il vero obiettivo di Paolo. Quindi, prima che giungesse il tempo della venuta della Discendenza, che 4,4a definisce la “pienezza del tempo”, e poter così accedere per mezzo della sola Fede ai beni della Promessa e della Benedizione, che si traducono in giustificazione. Si tratta, dunque, di un lungo cammino per poter accedere alla “pienezza del tempo”, che viene iniziato con Abramo, prototipo e padre di ogni credente, per giungere alla “sua Discendenza”, depositaria della Promessa e della Benedizione, dalle quali proviene la giustificazione. Un cammino lungo circa duemila anni, durante il quale comparve la Legge (3,17), la cui funzione fu di supporto e di maturazione spirituale e culturale lungo questo cammino verso la “Discendenza”. Un cammino, dunque, di preparazione finché la “fede venisse rivelata”. Si noti la precisazione di Paolo: non finché venisse rivelata la “Discendenza”, ma la “Fede” nella Discendenza. Paolo, dunque, sta qui scandendo la storia della salvezza attraverso i tempi della Legge e quelli della Fede, poiché entrambi i tempi designano i rapporti fondamentali che l'uomo è chiamato ad avere con il suo Dio, poiché sono proprio questi che determinano la sua salvezza, così come quello che Abramo tenne con Dio e dal quale scaturi la sua giustificazione: “Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia” (3,6).

La Legge, pertanto, lungo questo cammino, si configura come un severo pedagogo, il cui ruolo è quello di tutelare fisicamente il figlio del padrone, finché questi ha raggiunto la maggiore età, dopo di che termina la sua funzione. Si tratta, quindi, di una figura che il fanciullo incontra lungo il cammino della prima fase della sua vita e che l'accompagna fino al tempo stabilito dal padre, quello che Paolo, fuori metafora, chiama la “pienezza del tempo” (4,4a), quello della maggiore età, che vede il figlio capace di rapportarsi a suo padre con maturità e capace di rapporti sociali responsabili. È il tempo della vera figliolanza, fondata non più sulla paura del castigo, ma sulla fiducia che nel credente lo porta a scoprire Dio come un padre amorevole, di cui si può fidare e con cui intrecciare un rapporto di amore fiducioso, che gli consente di accedere alla vita stessa del Padre e dei suoi Beni, che ora gli appartengono. Insomma, il tempo della sua piena maturità fisica e psicologica. La funzione del pedagogo, pertanto, è delimitata nel tempo ed è destinata a scomparire con il sopraggiungere del tempo stabilito dal padre.

Che cosa comporta il tempo della pienezza, quello della maggiore età del credente (3,26-29)

Terminato, dunque, il tempo della Legge, si apre ora un nuovo tempo e con questo delle nuove prospettive per il credente, quello della Fede, che gli consente di accedere ad una nuova realtà che possiede in se stessa una nuova dinamica, poiché consente al credente di accedere alla stessa Vita di Dio attraverso la sola Fede. Promessa, Benedizione, Giustificazione, che sono iniziate con Abramo, trovano ora il loro pieno e definitivo compimento nella Discendenza, erede dei Beni promessi, a cui si accede attraverso la sola Fede, che caratterizza questa nuova fase della storia della salvezza.

Il v.3,26 apre questa nuova pericope, in cui viene descritto il nuovo stato di vita del credente, sia nei confronti di Dio che nei confronti degli altri credenti: “Tutti (voi), infatti, siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù”. Con il v.3,7 Paolo attestava che “chi (proviene) dalla fede, questi sono figli di Abramo”. Ma ora che i beni promessi ad Abramo son stati ereditati e pienamente compiuti nella Discendenza, in cui si è rivelata la Vita stessa di Dio, alla quale ora si può accedere attraverso la sola Fede, che, ora, colloca il credente in un nuovo rapporto di figliolanza nei confronti di Dio. Significativo in tal senso quanto dice Gv 1,12-13: “A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

Con il v.3,27 Paolo fa un ulteriore e conseguente passaggio: dalla Fede, che ci ha generati a Dio, al battesimo, che ci ha rivestiti di Cristo. La Fede, pertanto, viene pienamente attuata attraverso il battesimo, che dà pieno accesso a quei Beni promessi ad Abramo, ereditati dalla Discendenza-Cristo, e in essa pienamente compiuti. Questi sono la Vita stessa di Dio, alla quale si accede non direttamente, ma per mezzo di Cristo, di cui il credente viene rivestito nel battesimo. Un linguaggio figurato, ricorrente nell'A.T.31 e che caratterizza il linguaggio teologico e cristologico di Paolo32. L'abito, nel suo simbolismo, esprime lo stato di vita di chi lo indossa e ne rivela in qualche modo la sua essenza33. Rivestirsi, dunque, di quell'abito significa assumere su di sé e permearsi di ciò che quell'abito esprime. Rivestirsi, dunque, di Cristo significa che Cristo, la vera Discendenza di Abramo e la Promessa realizzata, permea ogni fibra del mio essere e mi trasforma ontologicamente, così che io divengo figlio nel Figlio e in Lui erede della Promessa. In altri termini, rivestirsi di Cristo significa essere cristificato, così da avere in Cristo, per Cristo e con Cristo accesso pieno alla Vita stessa di Dio, che è vita eterna, prefigurata in qualche modo in quei Beni, che erano la Promessa e la Bendizione. Significativo in tal senso è quanto il Risorto dice alla Maddalena, nel racconto giovanneo delle apparizioni, “va dai miei fratelli e dì loro: <<Salgo al Padre mio e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro>>” (Gv 20,17b). Il Risorto, dunque, è diventato nostro fratello, facente parte dell'unica famiglia, in cui egli condivide con noi suo Padre e la sua divinità: “Per mezzo di lui possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito. Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,18-19).

Ora, Paolo compie un ulteriore passaggio e presenta gli effetti di quella Fede, che ha portato i credenti al battesimo, con cui sono stati cristificati, cioè permeati di quell'unico Cristo che li ha resi e li rende Uno in lui, così che “Non vi è fra (voi) Giudeo né Greco, non vi è (tra voi) schiavo né libero, non vi è (tra voi) maschio e femmina; tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù”. Paolo elenca qui quelle caratterizzazioni storiche che distinguono e sovente contrappongono gli uomini, dividendoli tra loro:

  1. Non vi è fra (voi) Giudeo né Greco”, due nomi che richiamano i due mondi completamente diversi, divisi, contrapposti e incomunicabili tra loro, anzi nemici: il popolo ebreo, che Dio aveva insignito di una nuova identità e di una nuova dignità, suggellata dall'Alleanza significata nella Legge: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Dall'altra parte il mondo dei pagani, rappresentato dai Greci, che erano considerati come destinati alla perdizione e che nulla avevano a che vedere con la condizione di privilegio spirituale che, invece, godevano i Giudei; anzi entrare in contatto con questo mondo significava contaminarsi e diventare impuri.

  2. non vi è (tra voi) schiavo né libero”, era questa sostanzialmente la suddivisione sociale degli uomini di quel tempo, che condizionava profondamente le relazioni sociali, creando in esse delle gravi ingiustizie, soprusi, angherie ed odii sociali.

  3. non vi è (tra voi) maschio e femmina; tutti voi”, la stessa condizione di genere, non scelta, ma in cui ognuno si trova per nascita, era motivo di divisione e di contrapposizione, al cui interno l'uno soccombeva all'altro e la dignità dell'uno veniva disconosciuta e calpestata dall'altro.

Ebbene, dice Paolo, tutto questo ora non c'è più, poiché “tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù”. È questo l'effetto della Fede, che ha portato il credente al battesimo, in cui egli è stato rivestito e permeato di Cristo, divenendo in lui “uno con lui”, così che egli non vive più di vita propria, ma della stessa Vita divina, che è Vita eterna. È questa l'eredità dei Beni spirituali contenuti nella Promessa fatta ad Abramo, realizzatasi e rivelatasi ora in Cristo: “Ma se (siete) di Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa”. Una battuta finale questa con cui Paolo si riaggancia a quella di apertura: “Come Abramo credette a Dio e gli fu accreditato a giustizia, sappiate, dunque, che chi (proviene) dalla fede, questi sono figli di Abramo” (3,6-7). Un lungo e denso cammino, intriso di scrittura, dottrina e densi sviluppi teologici e cristologici, non solo per rifondare la fede nei Galati (4,19), ma anche per dar loro, e con loro anche ad ogni credente, le ragioni della propria Fede (1Pt 3,15).

Seconda parte della sezione dottrinale:

l'azione liberante di Cristo e filiazione divina (4,1-31)


Note generali

In questa seconda parte della sezione dottrinale Paolo riprende nuovamente le tematiche sviluppate nella prima parte (Promessa, Legge, Fede, Spirito, giustificazione) e ne dà uno sviluppo attuativo. È significativo, infatti, come sia apre questa seconda parte: “(Vi) dico ancora” (“Lšgw dš”, Légo dé). Si tratta, quindi, di un'aggiunta alla riflessione scritturistica e dottrinale fin qui condotta (2,15-3,31), che viene ora ampliata, ricomprendendo non solo quei Galati che si sono lasciati traviare dai giudeocristiani giudaizzanti (1,6-7), lasciandosi circoncidere (5,2-3), ma altresì quei Galati che rimanevano ancora legati a riti e credenze pagane da cui provenivano (4,3.8-11), frammischiandole alla nuova fede, similmente a quei giudeocristiani giudaizzanti, che erano ancora legati alle osservanze della Legge mosaica. Ed è così che il termine “Legge”, qui, in questo nuovo contesto, che potremmo definire misto, assume un significato meno netto e più sfumato, riguardando non solo la Legge mosaica, ma anche quella delle ritualità e credenze pagane. Paolo, infatti, qui sta rivolgendosi sia ai Galati, che si sono lasciati giudaizzare e che sembrano costituire il maggior problema per Paolo, sia a quei Galati, che non hanno ancora rotto definitivamente con il mondo pagano, ma che sembrano non costituire una grossa preoccupazione per Paolo.

All'interno di questo contesto di schiavitù imposta sia dal giudaismo che dal paganesimo, Paolo fonda cristologicamente la nuova libertà liberante, che porta con sé la filiazione divina, ottenibile per mezzo della Fede in Cristo per la potenza dello Spirito Santo. Una libertà liberante ed una filiazione divina causate dall'avvento dell'evento Cristo (4,4-7), che forma da preambolo alla sezione parenetica (5,1-6,18), che si apre con un'affermazione dai toni dogmatici e imperativi: ”Cristo ci ha liberati per la libertà; state (saldi) pertanto e non siate di nuovo sottoposti al giogo della schiavitù” (5,1).

Dopo questa ripresa applicativa (4,1-11) della prima parte della sezione dottrinale, molto densa, Paolo si rivolge nuovamente ed esclusivamente ai Galati giudaizzanti (4,21) apportando una nuova e inedita prova scritturistica che vede, da una parte, in Agar, la schiava di Abramo, dalla quale ebbe Ismaele (Gen 16,11.15), il figlio avuto seguendo le logiche dei progetti umani (Gen 16,1-4a), ma non di quelli divini, su cui, invece, era fondata la Promessa (Gen 15,1-6); dall'altra, Sara, la moglie di Abramo, sulla quale era stata posta la promessa divina (Gen 18,9-14), per cui il figlio nato da questa per la potenza divina, Isacco, è il vero figlio della promessa (Gen 17,19.21; 21,3). Ismaele, dunque, figlio di una schiava, è il capostipite di una discendenza di schiavitù (Gen 16,6-12); mentre Isacco, figlio di una donna libera, Sara, è il capostipite di una discendenza libera ed erede della Promessa, poiché egli stesso è il frutto della Promessa. Paolo, poi, lega Agar al monte Sinai, il monte della Legge mosaica, la Legge, dunque, della schiavitù, che trova la sua capitale nella Gerusalemme terrestre, che verrà d lì a pochi anni calpestata e distrutta con tutto il suo antico culto durante la prima guerra giudaica (66-73 d.C.); mentre i discendenti di Isacco, il figlio della Promessa, hanno per patria un'altra Gerusalemme, quella celeste, alla quale appartiene Isacco e con lui tutti i credenti, che hanno ereditato, per mezzo della Fede in Cristo, i beni celesti che la Promessa portava con sé e di cui era figura (4,21-31).

Tra i due blocchi dottrinali, sviluppati, il primo, cristologicamente (4,1-11) e il secondo scritturisticamente (4,21-31), Paolo inserisce un altro spaccato della sua autobiografia: l'evocazione del suo primo incontro, caloroso e pieno di attenzioni che i Galati gli avevano riservato, quasi fosse un angelo di Dio, anzi lo stesso Cristo (4,12-20). Paolo gioca anche la carta psicologica, per fare leva sui sentimenti e le emozioni che lo hanno legato, in una reciproca fiducia, con i Galati, quasi a voler rigenerare una nuova emozione di quel primo incontro, riportandoli alle origini della loro fede, per rinsaldare i loro reciproci rapporti di fiducia, logorati, probabilmente, dai giudeocristiani giudaizzanti, che lo avevano denigrato.

Commento ai vv.4,1-31

Libertà e figliolanza divina cristologicamente fondate (4,1-11)


Testo a lettura facilitata

Il tempo dell'attesa stabilito dal padre (4,1-3)

1- (Vi) dico ancora: per tutto il tempo che l'erede è piccolo, in niente differisce da uno schiavo, pur essendo signore di tutti (i beni),
2- ma è sotto tutori e amministratori fino al tempo prestabilito dal padre.
3- Così anche noi, mentre eravamo piccoli eravamo schiavizzati sotto gli elementi del mondo;

La pienezza del tempo (4,4-7)

4- Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto (la) Legge,
5- per riscattare quelli sotto la Legge, affinché ricevessimo l'adozione ai figli.
6- Ma poiché siete figli, Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida “Abba, Padre”.
7- Così che non sei più schiavo ma figlio; ma se figlio, (sei) anche erede per mezzo di Dio.

L'involuzione dei Galati (4,8-11)

8- Ma in quel tempo, non conoscendo Dio, foste assoggettati a divinità che per natura non (lo) sono.
9- Ma ora, avendo conosciuto Dio, anzi siete stati conosciuti da Dio, come potete rivolgervi di nuovo verso elementi deboli e poveri, ai quali volete nuovamente asservir(vi) come prima?
10- Osservate giorni e mesi e tempi ed anni,
11- temo per voi, che in qualche modo mi sia affaticato inutilmente per voi.

Note generali

Con questa prima parte del cap.4 Paolo riprende 3,23-29 e ne dà ora il fondamento storico-cristologico, colto nell'ampio contesto di un disegno di salvezza, che già in qualche modo aveva anticipato in 3,23-25, affermando che vi fu il tempo della Legge, che aveva funzioni pedagogiche in vista di un altro tempo, quello della Fede, che prevedeva una nuova condizione di vita per il credente (3,26-29).

Il tempo della Legge viene qui riconsiderato nel suo aspetto primordiale, comune sia al popolo ebreo che ai Galati e in senso lato al mondo pagano. Fu il tempo del politeismo, in cui viveva e da cui proveniva anche Abramo e con lui, parimenti, i Galati. Un politeismo legato agli elementi della natura ai quali l'uomo, mosso dalle sue necessità quotidiane e dalla necessità di dare delle risposte alle questioni fondamentali della vita, aveva attribuito significati e valenze specifiche, che rispondessero alle sue esigenze esistenziali e spirituali. Elementi certamente vacui, ma sufficienti per coltivare nell'uomo l'esigenza di un mondo superiore, di divinità che lo sapessero guidare nel difficile e imprevedibile cammino della sua vita e della storia; elementi che lo aiutassero a comprenderla e a interpretarla, dandole un significato, che spiegasse e sorreggesse anche quello del proprio vivere.

Un tempo, quindi, capace di creare nel credente una forte tensione spirituale ed esistenziale verso realtà che sapessero coniugare il mondo divino con quello umano, instaurando tra i due un dialogo, così da spingerlo ad una sempre sua maggiore ricerca, che s'incarnerà in modo privilegiato in un popolo, che, ai piedi del Sinai, acquisirà una sua specifica identità, alla quale era legata una missione universale (Es 19,5-6), finalizzata ad essere un fermento di spiritualità in mezzo agli altri popoli34, così da prepararli ad un evento unico e irripetibile nella storia, che si attuerà e si manifesterà in un determinato momento della storia dell'umanità, quello che Paolo in 4,4a definisce “la pienezza del tempo”, verso il quale l'intera umanità, inizialmente raccolta e racchiusa sotto l'originaria Legge degli elementi naturali, stava inconsciamente andando. Un tempo che diviene il momento di congiunzione tra Dio e gli uomini e che assume il volto storico di suo Figlio, in cui il Padre tende la mano all'uomo e in cui l'uomo può finalmente ritrovare quel Dio, dalla cui dimensione era drammaticamente uscito e in cui era stato originariamente creato e in cui viveva.

Ed ora l'umanità è giunta a questa pienezza del tempo, caratterizzato dal dono dello Spirito (Gl 3,1-2), che imprime nel credente il DNA stesso di Dio, così che egli ne diviene figlio nel Figlio, in cui si svela e si compie il disegno pensato fin dall'eternità (Ef 1,4; Tt 1,2). Realtà, per accedere alle quali, serve una nuova sensibilità e una nuova luce, quelle della Fede. Di fronte ad un simile cambiamento epocale, unico e irripetibile, sembra che i Galati preferiscano corre dietro alle favole giudaizzanti e a un passato che non c'è più, anziché guardare avanti ed impegnarsi per raggiungere quella Terra Promessa, di cui loro sono, ora, gli eredi e che si è rivelata in Cristo, che costituisce la via di ritorno al Padre (Gv 14,6); la vera Terra Promessa prospettata ad Abramo e alla sua Discendenza, che l'avrebbe attuata e resa visibile agli uomini (1Gv 1,1-3).

Da qui lo scoramento di Paolo: “temo per voi, che in qualche modo mi sia affaticato inutilmente per voi” (4,11).

La struttura di questa pericope è composta a parallelismi concentrici in B):


A) Paolo si richiama al tempo in cui sia ebrei che pagani erano assoggettati alla schiavitù degli elementi di questo mondo, in attesa che giungesse il tempo stabilito dal Padre     (4,1-3);

    B) Un tempo che storicamente è giunto con Cristo, “nato da donna, nato sotto (la) Legge, per riscattare quelli sotto la Legge, affinché ricevessimo l'adozione ai figli”                (4,4-7);

A1) ma i Galati sembrano preferire ritornare all'antica schiavitù: “come potete rivolgervi di nuovo verso elementi deboli e poveri, ai quali volete nuovamente asservir(vi)             come prima?” (4,8-11)

In questa struttura i vv.1-3 si pongono in parallelo ai vv.8-11, formando una sorta di inclusione là dove in A) Paolo presenta la situazione antecedente l'avvento di Cristo nella pienezza del tempo e in A1) la situazione del dopo evento Cristo, che rimane immutata rispetto a quella descritta in A). Al centro, B), la posizione più importante secondo le logiche della retorica ebraica, viene collocato l'evento attuatosi e rivelatosi nella pienezza del tempo e il senso della sua venuta e del suo manifestarsi: la liberazione dalla schiavitù della Legge in vista della filiazione divina, per la potenza dello Spirito Santo.


Commento a 4,1-11

Il tempo dell'attesa prestabilito dal padre (4,1-3)

Con questa breve pericope (4,1-3) Paolo riprende la prima parte della sezione dottrinale e ne dà attuazione, spiegandone qui la dinamica. Questo dice quel “(Vi) dico ancora”. Si tratta, dunque, di un'aggiunta esplicativa, fatta seguire, in parallelo a quanto ha appena detto in 3,23-25, in cui aveva prospettato la Legge, alla stregua di un severo pedagogo nell'attesa della venuta di Cristo, da un altro esempio tratto probabilmente dal diritto ellenistico, che parla di un tempo stabilito dal padre per la maggiore età del figlio, fino ad allora sotto la Legge. Ma, mentre nel primo esempio, la Legge in vista di Cristo (3,24a), l'attenzione era focalizzata sul senso e sul significato della Legge nell'ambito dell'economia della salvezza (3,19), qui l'attenzione è accentrata sui “tempi” con cui questa economia della salvezza viene scandita e attuata. Parlare di tempi, infatti, significa parlare di spazi storici entro cui gli eventi salvifici si collocano, attuandosi e manifestandosi, entrando, quindi, nel vivo della storia, interpellando gli uomini e spingendoli ad operare, loro malgrado, una scelta esistenziale. E qui Paolo distingue tre tempi: quello dell'attesa, in cui in vario modo tutti erano sottomessi a leggi derivate dagli “elementi del mondo” (4,1-3); quello dell'attuazione, la pienezza del tempo, in cui la Discendenza, erede della Promessa e della Benedizione, prende forma storica (Fil 2,6-7; Gv 1,14), sottoponendosi anche lei alla legge “degli elementi di questo mondo” (4,4-7); e quello del dopo Cristo (4,8-11), che Paolo sottopone a critica per la risposta apostatica data dai Galati e da quanti come loro.

Paolo apre questa pericope (4,1-3) con un “(Vi) dico ancora” (4,1a) e la conclude con un “Così anche noi” (4,3a). Vi è un significativo cambio di persona: dalla 2^ persona plurale “Vi”, con cui Paolo si rivolge ai Galati, a “noi”, prima persona plurale, in cui Paolo amplia la platea delle persone coinvolte nell'esempio riportato ai vv.4,1-2. Chi c'è ricompreso in quel “noi”? Certamente i Galati e con loro il mondo pagano, ma altresì i Giudei o, per meglio dire, i discendenti di Abramo in senso carnale e spirituale. In altri termini, “tutti gli uomini”, qui colti, nella loro prima fase di evoluzione spirituale, di persone, che ancora non conoscevano il vero Dio (4,8). Un concetto questo che Paolo riprenderà in 4,12, dove egli si mette alla stregua dei Galati nelle sue origini giudaiche, che ha abbandonato per Cristo, così come loro hanno abbandonato le proprie pagane. Tutti, indistintamente, dunque, erano sottoposti a “tutori e amministratori fino al tempo prestabilito dal padre”. Si noti che qui non si parla più di un “pedagogo”, come per la Legge, perché una sola era la Legge e il popolo di riferimento soltanto uno, Israele, ma si parla di “tutori e amministratori”, due figure che indicano una pluralità di persone, che svolgevano tutte, in pari modo, due funzioni diverse: i primi, i tutori, avevano il compito di seguire ed allevare pedagogicamente i minori, tutelandoli, appunto, lungo il loro primo cammino esistenziale; i secondi, gli amministratori, dovevano amministrare i beni del minore, che fino al tempo stabilito dal padre era psicologicamente e giuridicamente incapace di goderne. Questi in senso lato possono essere pensati come autorità religiose, ognuna secondo la cultura propria del loro contesto sociale a cui erano preposte, il cui compito era quello di indirizzare spiritualmente i loro fedeli, secondo leggi e divinità facenti parte di quel popolo. E tutto ciò “fino al tempo prestabilito dal padre”. Si parla, dunque, di “un tempo prestabilito”, che lascia supporre, riferito all'economia della salvezza, un disegno del Padre per ricondurre tutti gli uomini in seno a Se stesso.

In questo variegato contesto di un'umanità variamente credente e soggiogata a credenze e a leggi religiose e divine diverse, Paolo inserisce con quel “noi” tutti gli uomini indistintamente: “mentre eravamo piccoli eravamo schiavizzati sotto gli elementi del mondo”. “Mentre eravamo piccoli”, espressione questa che verrà spiegata successivamente in 4,8, riferendosi ai tempi in cui ancora non si conosceva il vero Dio, quindi ai primordi dell'umanità, allorché, proprio per la sua ignoranza, l'intera umanità era “schiavizzata sotto gli elementi del mondo”, soggetta cioè a seguire leggi e disposizioni religiose dettate da “elementi del mondo” (“t¦ stoice‹a toà kÒsmoutà stoicheîa tû kósmu). Cosa intende Paolo con questa espressione che ritroviamo quattro volte nelle sue lettere?35. Considerata l'universalità con cui Paolo sta affrontando qui la questione, che ingloba sia ebrei che pagani indistintamente, questi elementi vanno compresi, dal lato dei pagani e inizialmente anche di Abramo36, come forze e potenze naturali che erano divinizzate e antropomorfizzate dagli uomini; dal lato degli ebrei, invece, si era sviluppato un culto degli angeli, ai quali si faceva risalire la Legge stessa (3,19) e ai quali si attribuiva il governo del mondo, delle forze naturali e degli astri37. Tutti elementi, questi, che in 4,9 verranno definiti “deboli e poveri” in riferimento alla potenza liberante di Cristo (4,4-7).

La pienezza del tempo (4,4-7)

In contrapposizione al tempo precedente, caratterizzato dalla sottomissione degli uomini alle deboli forze della natura, si contrappone ora, con quel “Ma quando” (“Óte de”, óte de), un nuovo tempo, definito come “la pienezza del tempo”, lasciando intuire come vi sia un disegno divino che scandisce la storia in diverse fasi temporali, entro le quali l'umanità è lentamente e progressivamente accompagnata fino all'incontro finale con quel suo Dio che aveva drammaticamente abbandonato nei suoi primordi. Tutta la storia, dunque, sembra convergere inesorabilmente verso questo punto, che potremmo definire come il punto “Alfa”, da cui riparte nuovamente una nuova umanità, in cammino verso il punto “Omega”, non più il tempo della pienezza, ma il tempo della compiutezza, allorché l'intera umanità sarà rientrata in seno al suo Creatore, così che Dio sia nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28).

Un tempo in cui si compie un evento scandito in due momenti consecutivi: l'invio di suo Figlio da parte di Dio, che “divenne carne” nel seno di una donna. Significativo quel “Mandò suo Figlio”, che in greco è reso con il verbo “™xapšsteilen” (exapesteilen), che dice un invio che fuoriesce da Dio stesso, quasi a dire come quell'inviato è uscito da Dio e ne possiede il DNA, trovando forma storica in una donna. Anche qui si ripete la particella “™k” (ek, da), che indica l'origine storica di questo Figlio uscito da Dio ed ora uscito anche da una donna. Il linguaggio di Paolo qui si fa concreto, quasi crudo e lesivo di quella sacralità, con cui fin qui ha circonfuso il Figlio di Dio: “nato da donna”. Il verbo “genÒmenon” (ghenómenon) non dice solo il nascere, ma anche il “diventare, il compiersi, l'aver luogo, il manifestarsi, l'accadere, il provenire da”. È il linguaggio della storia, quello proprio degli uomini, che dà attuazione ad una realtà storica, che ha la sua prima origine in Dio. Dio e l'uomo, dunque, si incontrano per la prima volta in una donna, così che la divinità si umanizza affinché l'umanità si divinizzi.

Un'incarnazione che non si limita a dare forma storica al Figlio di Dio, così da renderlo visibile e raggiungibile dagli uomini, ma va oltre: “nato sotto (la) legge”, cioè accettando tutte le limitazioni che l'incarnazione e l'essere uomo comportavano (Fil 2,6-8). Gesù, dunque, è un evento storico ad ogni effetto e, facendosi storia, ha assunto su di sé la storia nella sua interezza. Una storia fatta di fragilità, di dolore, di sofferenze, di fallimenti, di peccato (Rm 8,3). Un'assunzione della storia su di sé che lo ha portato nella profondità del suo abisso: la morte di croce. Ma è proprio qui che si attua il progetto di Dio: distruggere in quella carne di peccato, che ha assunto su di sé il proprio Figlio, il peccato stesso, qui inteso non come una semplice trasgressione ad una qualche disposizione della Legge, una semplice colpa morale, ma come lo stato, la condizione di vita degradata dell'uomo, collocato fuori dalla dimensione divina (Gen 3,23-24) e che in modo figurativo, ma significativo ha descritto Gen 3,16-19. Simbolo rappresentativo e concreto di tale stato è la morte, con tutto ciò che essa rappresenta in senso lato. In quell'incarnazione sottoposta alla legge del peccato, Gesù ha assunto su di sé e in se stesso l'intera umanità (Gv 12,32) e con essa, per un principio di solidarietà che lega i due38, l'intera creazione, anch'essa, suo malgrado, corrotta e assoggettata al peccato (Rm 8,20). Così che in quella morte sulla croce ogni uomo e l'intera creazione sono stati con-crocifissi e con-morti con Cristo (Rm 6,5-8).

Il senso e la finalità, dunque, di questo nascere da donna e sotto la legge, viene ora specificato dal v.4,5, che è scandito in due parti, ciascuna delle quali inizia con la particella finale “†na” (ína, affinché), che indica lo scopo di questa incarnazione: a) per riscattare quelli sotto la legge”, cioè sotto la legge del peccato, che costringeva l'uomo a vivere in una condizione di degrado esistenziale e morale, fuori dalla dimensione divina. Un “riscattare” che dice il riabilitare l'uomo di fronte a Dio, rendendolo nuovamente idoneo e capace a quel dialogo primordiale di collaborazione e di intesa che caratterizzava il primordiale rapporto tra Adamo-Eva e Dio (Gen 2,15); b)affinché ricevessimo l'adozione a figli”. Qui si va ben oltre ad una semplice riabilitazione, che riqualifica l'uomo nei suoi rapporti con Dio; qui per l'uomo si apre una nuova prospettiva di vita, una nuova condizione esistenziale e giuridica, che lo qualifica, per la prima volta nella storia della creazione, quale “figlio di Dio”. Un Dio, dunque, che riconosce in quell'uomo riscattato da suo Figlio non più una semplice creatura, che comunque tale rimane, ma un altro suo figlio, un figlio nel Figlio. Certo non della stessa natura del Figlio, generato dal Padre e che ne possiede, per così dire, il DNA, ma vede in quest'uomo cristificato, con-morto e con-risorto in e con Cristo, un altro suo figlio, reso tale proprio perché permeato e in-figliato da suo Figlio.

Se i vv.4,4-5 illustrano come il progetto del Padre si sia concretamente realizzato nella storia e ne indica le finalità, ora i vv.4,6-7 ne traggono le conseguenze, dapprima con il v.4,6, che viene aperto con un ““Oti dš” (Óti dé, ma poiché), dal senso causale ed esplicativo insieme, che illustra gli effetti della realizzazione di tale progetto del Padre in e per Cristo: “Ma poiché siete figli, Dio mandò lo Spirito del Figlio suo nei nostri cuori, che grida “Abba, Padre””. Stabilita, dunque, la figliolanza divina dell'uomo, reso figlio nel Figlio, serve ora che esso lo divenga realmente anche nelle sue relazioni con il Padre. Da qui il trasfondere la vita stessa di Dio, lo Spirito Santo, nel figlio reso tale in suo Figlio, così che esso, a pieno titolo, possa ora invocarlo con il titolo di Padre, anzi “Abbà” che significa, più che Padre, Papà, aggiungendo in tal modo quel tocco di confidenzialità e di familiarità totalmente sconosciuto nell'A.T. nei confronti di Dio, così da far esclamare Ef 2,19: “voi dunque non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”.

Paolo, ora, con il v. 4,7 trae un'ulteriore conclusione, conseguente alla prima (4,6): “Così che non sei più schiavo ma figlio; ma se figlio, (sei) anche erede per mezzo di Dio”. Viene qui sottolineato il passaggio dallo stato di schiavitù, generato dall'essersi sottomessi agli “elementi del mondo” (4,3), alla nuova condizione esistenziale di figli di Dio, acquisitaci per mezzo del Figlio, e, in quanto tali, anche eredi. Vi è, dunque, tutta una concatenazione logica e storico-spirituale, che parte dall'azione del Padre, che invia suo Figlio, che s'incarna in una donna e s'incardina nella storia, per riscattare gli uomini assoggettati alla legge del peccato e per farne figli nel Figlio, relazionandosi a Dio come Padre, in quanto permeati della vita stessa di Dio, lo Spirito Santo, così che sono diventati figli, sia pur di adozione, ad ogni effetto (1Gv 3,1a), e tali da far esclamare al Risorto, rivolto alla Maddalena, “Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”, condividendo con noi suo Padre e implicitamente la sua figliolanza. Ma tutto questo non si ottiene con un'osservanza perfetta della Legge, impossibile per la connaturata fragilità dell'uomo (2,16; 3,10), ma è soltanto opera di Dio: “per mezzo di Dio”. In altri termini, per grazia e non per merito.

Il v.4,7 richiamandosi al tema della schiavitù, contrapposta al nuovo stato di vita, che vede il credente quale figlio di Dio, Paolo anticipa in qualche modo la pericope successiva, 4,8-11, che stigmatizza l'incapacità dei Galati di evolvere in questa pienezza del tempo, inaugurata da Cristo. Anzi, Paolo lamenta un'involuzione dei Galati, da uno stato di libertà e di figliolanza divina ad uno di schiavitù.

L'involuzione dei Galati (4,8-11)

Dopo l'inciso cristologico di 4,4-7, che spiega l'attuarsi storico del progetto salvifico del Padre, finalizzato a liberare gli uomini dalla schiavitù degli elementi della natura per elevarli alla libertà della figliolanza divina attraverso l'evento Cristo, comparso nella pienezza dei tempi, e per mezzo dello Spirito Santo, Paolo, ora, riprende con il v.4,8 la pericope 4,1-3, contrapponendo il passato di schiavitù sia dei Galati che del mondo ebraico, assoggettato “a divinità che per natura non (lo) sono” con la nuova condizione esistenziale, cristologicamente illustrata in 4,4-7. Pone, dunque, a confronto non solo due tempi, ma anche due modi di vivere tra loro contrapposti, rimarcando la loro involuzione spirituale ed esistenziale con quel duplice “p£lin” (páliv, di nuovo, nuovamente) e con quel “¥nwqen” (ánotzen, come prima), che attestano il loro tradimento e la loro apostasia, ma nel contempo il loro fallimento: “come potete rivolgervi di nuovo verso elementi deboli e poveri, ai quali volete nuovamente asservir(vi) come prima?”. Un ritorno, dunque, al passato, che di fatto non solo li condanna , ma aggrava anche la loro condanna, poiché essi non solo hanno “conosciuto” Dio, ma Dio stesso “ha conosciuto” loro (4,9a). Il riferimento qui è a 3,1-3. Il verbo “conoscere” (“gnÒntej”,ghnóntes e “gnwsqšntej”,ghnosténtes) assume qui una valenza che va ben oltre alla semplice conoscenza filosofica o intellettuale e allude all'esperienza che essi hanno fatto di Dio e Dio di loro con il dono dello Spirito (3,1-3). Una conoscenza quella riguardante Dio nei confronti dei Galati, che allude altresì ad un piano salvifico che risale alle origini di Dio stesso. I Galati, dunque, erano nel progetto di Dio fin dall'eternità. Egli li ha conosciuti ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) e li ha scelti e consacrati a Se stesso con il dono dello Spirito Santo, rendendoli partecipi in tal modo della sua stessa Vita, anzi riconoscendoli quali figli nel Figlio. Quel verbo posto al passivo teologico (“gnwsqšntej”,ghnosténtes) dice le attenzioni che Dio ha riservato nei confronti dei Galati e con loro dell'intera umanità, indipendentemente dalle etichette storiche che essa ha assunto lungo i secoli (3,26-28).

Dopo queste brevi considerazioni (4,8-9), Paolo cede allo scoramento (4,10-11), constatando il comportamento apostatico dei Galati, che si sono nuovamente asserviti alla schiavitù degli elementi di questo mondo, le cui festività e culti erano scandite in “giorni e mesi e tempi ed anni”. Il riferimento qui sembra riferirsi ad una sorta di calendario liturgico, che può riguardare quello giudaico, ma non esclude quello delle ritualità pagane. Lo scoramento diventa palpabile in 4,11 dove Paolo, quasi ripassando nel proprio animo le difficoltà con cui ha generato i Galati alla fede, vede ora sfuggigli nel nulla tanta sofferenza e fatica. Un momento di scoramento che, tuttavia, controbatterà in 4,19, dichiarandosi pronto a partorire nuovamente i Galati a Cristo, a ripetere, dunque, tante sofferenze purché essi ritornino a Cristo.

Il v.4,11, che vede Paolo abbandonarsi al ricordo di tante fatiche per partorire i Galati a Cristo, nel contesto della dinamica dello scritto funge da preambolo alla pericope successiva (4,12-20), che si richiama alle origini dell'incontro di Paolo con i Galati e all'amicizia che ha legato i due.

Il momento psicologico e affettivo, giocato sull'onda dei ricordi (4,12-20)

Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo (4,12)

12- Vi prego, fratelli, siate come me, poi anch'io (ero) come voi. In niente mi offendeste;

Il ricordo del primo incontro, da cui poi si è originata la fede dei Galati (4,13-14)

13- sapete che a causa di una infermità della carne vi annunciai per la prima volta (il vangelo),
14- e (fu quella) la vostra prova nella mia carne, non foste proclivi al disprezzo né (mi) respingeste, ma mi accoglieste come un angelo di Dio, come Cristo Gesù.

Una riflessione sui sentimenti e le emozioni su quel loro primo incontro (4,15-16)

15- Dov'(è) dunque la vostra felicitazione? Vi assicuro, infatti, che se (fosse stato) possibile avreste cavati i vostri occhi (e li) avreste dati a me.
16- Sono diventato come un vostro nemico, dicendovi la verità?

Il confronto tra Paolo e i Giudaizzanti (4,17-18)

17- (Questi) vi cercano con ardore, non onestamente, ma vogliono tagliarvi fuori, perché cerchiate appassionatamente loro.
18- È buona cosa essere emulati nel bene sempre e non solo quando mi trovo presso di voi,

Paolo pronto a ripetere quell'incontro per rigenerare i Galati a Cristo (4,19-20)

19- figlioletti miei, che di nuovo partorisco finché Cristo abbia preso forma in voi;
20- vorrei ora essere presente presso di voi, e cambiare la mia voce, poiché sono in imbarazzo davanti a voi.


Note generali

Uno spaccato di vita evocato sull'onda dei ricordi. Certamente nulla di sentimentale, ma tutto viene giocato in funzione del Vangelo e del ricondurre alla sua Verità i Galati, lasciatisi traviare dai giudeocristiani giudaizzanti (1,6-7). Il contesto storico in cui si inserisce questo primo ed unico incontro di Paolo con i Galati è durante il suo secondo viaggio missionario (49-52 d.C.). Dopo il concilio di Gerusalemme (49 d.C.), Paolo invita Barnaba a visitare le comunità già fondate per sentirne le necessità e dar loro conforto e sostegno spirituale. Barnaba, però, si rifiuta di accompagnare Paolo, perché questi non vuole con sé Giovanni, detto Marco, cugino di Barnaba, ritenuto inaffidabile. Ne nacque una discussione che portò i due a separarsi, così che Paolo, abbandonato da Barnaba, prende con sé Sila e intraprende questo suo secondo viaggio missionario (At 15,37-39), che lo porterà presso le comunità di Filippi, Tessalonica, Atene e Corinto (At 15,36-18,22). Fu durante questo viaggio, mentre si dirigeva a Troade, che Paolo venne colto da una malattia che lo costrinse a sospendere il suo viaggio e a rifugiarsi presso la regione della Galazia, dove ebbe il suo primo incontro con i Galati, annunciò loro il suo Vangelo e li convertì, fondando delle comunità.

Di quale malattia sta qui parlando Paolo? Forse la stessa di cui parla in 2Cor 12,7b: “mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia”. Paolo parla di un angelo di satana, un demone che lo affligge nella carne, mentre i Galati, a causa di questa sua malattia, vedono in lui un angelo di Dio, anzi lo stesso Gesù Cristo. Una malattia che Paolo, quindi, attribuisce ad un demone e i Galati vedono in essa il manifestarsi di entità spirituali. Una simile malattia, che viene compresa in tal modo e dà adito a simili interpretazioni, è probabile che essa possa essere stata l'epilessia. Questa nell'antichità era considerata come il “male sacro”, una sorta di possessione demoniaca a motivo delle modalità del suo manifestarsi, che incuteva sospetto, diffidenza, timore. Ippocrate scrisse nel V sec. a.C. un trattato su questa malattia, che intitolò significativamente “La malattia sacra”. Altrettanto significativo e quanto ci documenta un antico testo di medicina babilonese, dove viene descritta l'epilessia e le sue manifestazioni, attribuendo a ciascuna di esse il nome specifico di un demone. Similmente Mc 9,17-18 presenta un caso di epilessia, che viene attribuito ad un demone: “Gli rispose uno della folla: <<Maestro, ho portato da te mio figlio, posseduto da uno spirito muto. Quando lo afferra, lo getta al suolo ed egli schiuma, digrigna i denti e si irrigidisce. Ho detto ai tuoi discepoli di scacciarlo, ma non ci sono riusciti>>”.

Il racconto, essenziale nel suo esprimersi, è tuttavia molto articolato nella sua dinamica narrativa. Si possono, infatti, distinguere cinque passaggi:

  1. Un preambolo introduttivo, che invita i Galati a seguire l'esempio di Paolo (4,12);

  2. Il ricordo del primo commovente incontro dei Galati con Paolo, da cui, poi scaturirà la loro adesione al Vangelo e la fede (4,13-14);

  3. Una riflessione sulle emozioni e sentimenti suscitati nel loro primo incontro (4,15-16);

  4. Il confronto tra Paolo e i Giudaizzanti e i loro secondi fini (4,17-18);

  5. Paolo pronto a ripetere quell'incontro per rigenerare nuovamente i Galati a Cristo (4,19-20)


Commento ai vv.4,12-20


Preambolo introduttivo (4,12)

Paolo apre questo momento di rievocazione, che ha profondamente coinvolto sia lui che i Galati, con un'esortazione un po' sibillina: “Vi prego, fratelli, siate come me, poiché anch'io (ero) come voi”. Cosa intendeva dire Paolo con questa sollecitazione. La soluzione sta, a mio avviso, nella seconda parte: “siate come me, poiché anch'io (ero) come voi”. In altri termini, come ora i Galati, convertiti ad un cristianesimo giudaizzante si comportavano secondo la Legge mosaica (5,1b-3), anche Paolo, prima di essere quello che è ora, era un giudeo fanatico, come lo sono ora anche loro, ligio alla Legge e alla Tradizione dei Padri (1,13-14). Ma dopo che ha incontrato Cristo ha abbandonato tutto ritenendo il tutto sterco, letame (¹goàmai skÚbala, egûmai skíbala): “circonciso l'ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l'ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo” (Fil 3,5-8). Ma, ora, quel Paolo là non esiste più, dopo l'incontro con Cristo. A ragione, dunque, Paolo si pone di fronte ai Galati quale esempio da imitare: “siate come me”, rimanendo saldi in Cristo e lasciando perdere la schiavitù della Legge e degli elementi naturali.

L'esortazione viene accompagnata da un laconico invito alla rappacificazione, che cerca di sgombrare il campo da possibili risentimenti, asti o malanimi, che creano divisioni: “In niente mi offendeste”. L'Apostolo, dunque, cerca di non mettere il tradimento dei Galati sul piano personale, poiché in Paolo non c'è spazio per il proprio “ego”, così che questo possa in qualche modo adombrare Cristo e rendere difficoltoso il ritorno dei Galati al suo Vangelo. Innanzitutto Cristo! Solo Cristo! Il resto è tutto in funzione di lui.

Il ricordo del primo incontro, da cui poi si è originata la fede dei Galati (4,13-14)

Dopo questo sollecito a distendere gli animi e a rimanere saldi nell'originaria fede in Cristo, così come egli gliel'ha annunciata (3,1) e così come egli lo è stato dopo il suo incontro con Cristo sulla via di Damasco, Paolo ora ritorna con la mente a quel tempo del loro primo incontro e ne rievoca le circostanze, cercando di risvegliarne le emozioni. Non si tratta di un “revival” romantico dei bei tempi andati. L'obiettivo di Paolo, qui, è quello di ricreare quel contesto così favorevole che portò i Galati ad abbracciare Cristo, nella speranza che l'evento si ripeta (4,19). Non va mai dimenticato che l'obiettivo primario dell'intera Lettera è convincere i Galati a ritornare al suo Vangelo.

Fu, dunque, una malattia che li fece incontrare (4,13). Certamente un contesto poco favorevole, poiché Paolo si presentava loro in tutta la sua fragilità carnale e tale che lo stesso messaggio del suo Vangelo poteva risentirne negativamente. La sua malattia, probabilmente l'epilessia, certamente non era una buona credenziale. Ma i Galati, forse proprio per le antiche credenze su questo tipo di malattia, ritenuta sacra e manifestazione della divinità, andarono oltre agli impressionanti effetti dell'epilessia, cercando di cogliere il messaggio divino che Paolo portava in sé, attribuendogli, proprio grazie alla malattia, un significato divino, così da ritenere Paolo un angelo di Dio, anzi lo stesso Messia. Fu, dunque, per i Galati quella malattia una prova che essi seppero superare, poiché non si soffermarono sui suoi effetti ripugnanti e per certi aspetti spaventosi, ma cercarono di coglierne il significato, così che questa malattia di Paolo divenne per i Galati un segno divino che Dio ha posto su di lui e, di conseguenza, motivo di fede nel suo Vangelo.

Una riflessione sui sentimenti e le emozioni su quel loro primo incontro (4,15-16)

Ed è a tal punto che Paolo fa una brusca fermata nel suo racconto sul loro incontro. E dall'ovattato ricordo di quel momento, getta i Galati nel presente di una realtà che ha tradito proprio quel momento, chiedendo loro dov'è andato tutto il loro entusiasmo e quel profondo affetto, che sapeva di venerazione per lui, per il quale si sarebbero “cavati gli occhi”. Di certo questa espressione non va intesa nel senso che Paolo soffriva agli occhi così che i Galati erano pronti a dare i loro per lui, come qualche esegeta ha pensato, ma in senso figurato, per dire che avrebbero dato loro stessi, tutto ciò che avevano di più caro per lui. Un'espressione questa in uso anche presso di noi, sopratutto nei linguaggio dialettale.

Al v.4,15, dove Paolo ricorda il rapporto profondamente favorevole che i Galati avevano instaurato con lui, ora, egli accosta, ancor più bruscamente e con fare risentito, l'attuale atteggiamento avverso che essi hanno nei suoi confronti e che affondava le sue radici nel dubbio e nel sospetto generati nei Galati dagli avversari di Paolo, così che lo porta ad esclamare, con tono accusatorio, “Sono diventato come un vostro nemico, dicendovi la verità?”, lasciando tralucere come loro siano diventati nemici della Verità che Paolo ha annunciato loro. Un'accusa questa che apparirà più chiaramente in 5,7.

Il confronto tra Paolo e i Giudaizzanti (4,17-18)

Ora Paolo porta allo scoperto, chiamandoli direttamente in causa, i suoi avversari, che lo hanno denigrato presso i Galati, nonché i loro subdoli intenti: vogliono troncare i rapporti che i Galati hanno con Paolo, per farne una loro conquista a sue spese: stornarli da Paolo per accentrarli su loro stessi. I loro intenti e i loro sentimenti, dice Paolo, sono disonesti. Su questo punto Paolo ritornerà in modo più esplicito e dettagliato in 6,12-13, svelando il progetto dei suoi avversari: da un lato, essi preferiscono essere circoncisi così da evitare problemi e persecuzioni da parte del mondo giudaico e pagano, considerato che Roma aveva un atteggiamento favorevole verso gli ebrei, ma non verso i cristiani; dall'altro, l'aver portato i Galati alla circoncisione è per loro un motivo di vanto personale nei confronti dei Giudei, dei quali si accattivano la simpatia e i favori. Ma proprio su quest'ultimo punto Paolo si era già espresso in 1,10: “Ora, dunque, blandisco gli uomini o Dio? O cerco di piacere agli uomini? Di più, se piacessi agli uomini, non sarei servo di Cristo”.

Il v.4,18 chiude i rimbrotti di Paolo nei confronti dei Galati, deviati dai giudaizzanti, per il comportamento che essi hanno tenuto nei suoi confronti e, riprendendo il tema dell'accoglienza che essi gli avevano riservato agli inizi (4,14-15), rimarca, con l'amaro in bocca, il suo rimprovero, come quell'atteggiamento a lui favorevole, quello di allora, allorché egli era ancora in mezzo a loro, sarebbe dovuto continuare sempre, anche durante la sua assenza, mentre, invece, lo hanno tradito con il primo venuto.

Paolo pronto a ripetere quell'incontro per rigenerare i Galati a Cristo (4,19-20)

Il tono con cui si chiude questo inciso (4,12-20) è decisamente affettuoso e tenero come quello di una madre che si rivolge ai suoi amatissimi figli. Come tali, nel linguaggio missionario, erano considerati i convertiti (1Cor 4,15; Fm 1,10). Sull'onda del ricordo del primo incontro con i Galati, che ha generato con l'annuncio del suo Vangelo (4,13-14), Paolo ora sta partorendo nuovamente i Galati attraverso la presente Lettera, che deve diventare per i Galati motivo di riflessione e di approfondimento delle ragioni della loro fede, alle quali Paolo ha dedicato l'ampia sezione dottrinale 2,15-4,31. Con il v.4,19, infatti, Paolo non esprime un desiderio, quello di partorire nuovamente i Galati, ma li sta già partorendo nuovamente: “che di nuovo partorisco”. Il tempo verbale è al presente indicativo. Non si tratta, quella del parto, di un'azione momentanea e di breve durata, ma continua nel tempo “finché Cristo abbia preso forma in voi”. È un'azione che punta a ricostruire l'immagine di Cristo nei Galati, così che questi non siano stati cristificati e, parafrasando 2,20, non siano più loro che vivano, ma Cristo viva e agisca nuovamente in loro. Del resto Paolo lo aveva già sollecitato in 4,12a: “Vi prego, fratelli, siate come me”, mentre in 1Cor 11,1, scritta alcuni anni prima, tra il 53 e il 54, di quella ai Galati, scritta tra il 56 e il 57, esortava i Corinti a farsi suoi imitatori, come egli lo è di Cristo.

Chiude questo inciso delle rimembranze il v.4,20, dove Paolo esprime tutto il suo rammarico e il suo imbarazzo per i toni duri e decisi che pervadono la Lettera e conclude con una sorta di abbraccio riconciliatore, esprimendo il suo desiderio di essere nuovamente presente in mezzo a loro per far sentire tutto il suo calore materno. Resterà, purtroppo, solo un desiderio e un sogno.

Una nuova e inedita prova scritturistica (4,21-31)

Testo a lettura facilitata

I destinatari di quest'ultimo insegnamento scritturistico (4,21)

21- Ditemi, voi che volete essere sotto la Legge: non sentite (cosa dice) la Legge?

La citazione del testo scritturistico di riferimento (4,22-23)

22- È scritto infatti che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla libera.
23- Ma quello dalla schiava è nato secondo la carne, quello dalla libera secondo la promessa.

L'esegesi di Paolo sul testo citato (4,24a)

24- Queste cose sono dette per allegoria; esse (le due donne), infatti, sono le due alleanze,

L'attualizzazione dell'esegesi scritturistica (4,24b-27)

24b- una dal monte Sinai, che genera per la schiavitù, questa è Agar.
25- Agar è il monte Sinai in Arabia, (essa) corrisponde all'attuale Gerusalemme, (che), infatti, è schiava con i suoi figli.
26- Invece, la Gerusalemme di lassù è libera, questa è la nostra madre;
27- è scritto infatti: “Rallegrati sterile che non partorisci; erompi e grida, (tu) che non partorirai; poiché molti sono i figli di colei che è abbandonata più di colei che ha marito”.

L'applicazione al mondo giudaico e pagano (4,28-31)

28- Ma voi, fratelli, siete figli della promessa come Isacco.
29- Ma come allora colui che era nato secondo la carne perseguitava (colui che era nato) secondo lo spirito, così (è) anche ora.
30- Ma che cosa dice la Scrittura? Caccia via la schiava e il suo figlio, poiché non sarà erede il figlio della schiava con il figlio della libera.
31- Perciò, fratelli, non siamo figli di una schiava, ma della libera.

Note generali

Paolo in 3,7 affermava che i veri figli di Abramo sono quelli che provengono dalla fede. Ma Abramo ebbe molti figli (Gen 25,1-6). Si rende quindi necessario comprendere di quali figli si parla, poiché non tutti sono uguali. Paolo, qui, prende in considerazione i primi due figli: Ismaele, avuto dalla schiava Agar (Gen 16,11.15); e Isacco, avuto dalla moglie Sara, quello promessogli da Dio (Gen 17,15-21; 18,9-14). Su queste due tipologie di figli, di origine servile il primo e libera il secondo, Paolo giocherà ora una nuova e inedita prova scritturistica, che vede contrapposti quei Galati, che da figli della promessa, quale fu Isacco, preferiscono ora diventare figli di una schiava, come Ismaele. La distinzione non è da poco, perché qui si tratta di capire chi è il vero erede e, quindi, a chi sono destinati i Beni della Promessa e della Benedizione (Gen 25,5) e di conseguenza quale approccio si deve avere con Dio, se per mezzo della circoncisione e sottomissione alla Legge mosaica; o per mezzo della fede, grazie alla quale Abramo ottenne la Promessa e la Benedizione.

Una simile precisazione si era resa indispensabile perché nel giudaismo si ritenevano vera discendenza di Abramo i circoncisi, sia perché la circoncisione divenne il segno dell'Alleanza tra Dio e Abramo e tutta la sua discendenza (Gen 17,10-12) e sia perché Dio impose, nello specifico, ad Isacco la circoncisione dopo otto giorni dalla nascita (Gen 21,4). Paolo intende, con questa ultima parte della sezione dottrinale, dimostrare, invece, come i veri figli di Abramo siano del ceppo non di Ismaele, frutto di un escamotage umano per ottenere una discendenza, ma di Isacco, frutto delle viscere di Sara, la donna libera, moglie di Abramo, secondo la Promessa. Pertanto, Isacco è il figlio e la discendenza della Promessa; Ismaele, invece, è e rimane figlio di una schiava, nato da logiche umane (Gen 16,1-4a). Entrambi furono circoncisi (Gen 17,25; 21,4), ma diversa fu la loro origine: fondata sulla Promessa, a cui Abramo credette (Gen 15,6); fondata su progetti umani il secondo (Gen 16,1-4a); figlio di una donna libera Isacco; figlio di una schiava Ismaele.

La dimostrazione scritturistica e dottrinale si sviluppa su cinque passaggi:

  1. I destinatari di quest'ultimo insegnamento scritturistico (4,21);

  2. Il riferimento scritturistico (4,22-23);

  3. L'esegesi di Paolo sul testo citato (4,24);

  4. L'attualizzazione dell'esegesi scritturistica (4,25-27);

  5. L'applicazione al mondo giudaico e pagano (4,28-31)


Commento ai vv.4,21-31

I destinatari di quest'ultimo insegnamento scritturistico (4,21)

Il piglio con cui si apre (4,21) quest'ultima parte della sezione dottrinale (2,15-4,31) ha un certo che di spavalderia e di sfida che Paolo lancia a quei Galati, che hanno deciso, tramite la circoncisione, di sottomettersi alla Legge; ma nel contempo scandisce l'intera pericope (4,21-31) in due parti: la prima (4,21a) riguardante la Legge, intesa come norme vincolanti (“essere sotto la Legge”); la seconda (4,21b), ciò che essa intende dire con le sue immagini e i suoi racconti (“non sentite (cosa dice) la Legge?”).

Significativo quel “voi che volete”, che fa risalire la scelta dei Galati ad un libero atto di proprio arbitrio, che li rende responsabili della loro scelta e ne dovranno pagare le conseguenza. Tema quest'ultimo che verrà ripreso in 5,4: “Siete stati sciolti da Cristo (voi), che vi fate giustificare nella Legge, siete decaduti dalla grazia”. È questo il prezzo che devono pagare quei Galati, che dopo aver conosciuto Cristo e fatto l'esperienza dello Spirito (3,2-5), hanno rifiutato il loro nuovo stato di vita per sottoporsi all'economia della Legge.

Il riferimento scritturistico (4,22-23)

In modo conciso Paolo pone la questione, che presuppone un'approfondita conoscenza delle Scritture da parte dei Galati, considerato che egli qui si limita ad una semplice citazione di un lungo racconto biblico riguardante la nascita di Ismaele e di Isacco (15,1-18,16; 21,1-21). Probabilmente è da pensare che i Galati abbiano ricevuta un'adeguata istruzione da parte dei giudaizzanti prima di accedere al giudaismo, sottoponendosi alla circoncisione. Ma l'impostazione così schematica ed essenziale nella sua esposizione lascia intuire che Paolo qui abbia voluto presentare gli elementi basilari, su cui poi svilupperà la sua esegesi scritturistica, elevando i personaggi di questo racconto biblico a figure tipo, sfrondandoli delle loro identità storiche: non vengono nominate le rispettive madri, Agar e Sara, né i nomi dei due figli, Ismaele e Isacco, ma solo Abramo e i due suoi figli, colti nel loro rapporto di origine: il primo, Ismaele, nato da una schiava, Agar, e secondo le logiche della carne, intesa qui non in senso paolino di decadenza e di peccato, ma di logiche umane, che escludono comunque Dio dai piani umani; il secondo, Isacco, ha la sua origine da una donna libera, Sara, moglie di Abramo, ed è il frutto della Promessa, impossibile da realizzarsi per gli uomini, considerate le avanzate età di Abramo e di Sara per poter avere dei figli, ma non impossibile a Dio (Gen 18,14). Isacco, quindi, secondo il racconto biblico è il figlio della Promessa, cioè quello che rientrava nel piano salvifico di Dio e non, come per Ismaele, secondo i progetti e i calcoli umani.

L'esegesi di Paolo sul testo citato (4,24)

Definiti, dunque, in premessa, i personaggi del racconto (4,22-23), ora, Paolo ne dà una sua prima interpretazione esegetica in termini generali, accentrandosi non più sui figli, ma sulla loro origine, da cui essi dipendono e sono caratterizzati: le due donne, che rappresentano le due alleanze. Come Paolo arriva a dire che queste rappresentano le due alleanze? Non vi è nulla che spinga in tal senso, ma Paolo avverte in apertura del v.4,24, che “Queste cose sono dette per allegoria”. La Scrittura, infatti, parla per immagini e per racconti. È necessario, quindi, saper cogliere al suo interno, sotto quelle immagini e sotto quei racconti il messaggio che essa porta con sé e non limitarsi ad osservarla pedissequamente in modo insensato. Essa racconta una storia, che porta in se stessa un messaggio salvifico, che affonda le sue radici in un progetto di Dio per il recupero dell'umanità in se stesso, dal quale essa era drammaticamente uscita nei suoi primordi. Questo messaggio e questo progetto di salvezza si sono fatti storia attraverso questi racconti e queste immagini, di cui Paolo tenta ora una loro spiegazione, dandone poi un'applicazione storica.

L'attualizzazione dell'esegesi scritturistica (4,24b-27)

Stabilito il criterio di lettura allegorica, e quindi simbolica e metaforica, del racconto sull'origine di Ismaele e Isacco dalle rispettive madri, Agar, la schiava, e Sara, la libera, che rappresentano le due alleanze, ora Paolo ne dà un'applicazione concreta, pratica, dettagliata, in termini storici, contrapponendo all'interno della pericope 4,24b-27 le due donne. La prima alleanza, dice Paolo, proviene “dal monte Sinai” ed è un'alleanza che produce schiavitù; quel “e„j doule…an” (eis duleían) porta in se stesso un senso finale e di scopo e dice “per la schiavitù”. In altri termini, “questa Agar”, figura-tipo dell'alleanza sinaitica, non può che generare schiavitù, poiché questo stato di cose è inscritto nel suo DNA. E questa, sottolinea Paolo, “è Agar”. L'espressione “questa è Agar”, con cui termina il v.4,24b, viene ripresa e rimarcata con più forza, quasi a voler togliere ogni equivoco o incomprensione, in apertura del successivo v.4,25: “Agar è il monte Sinai in Arabia”, il monte su cui Dio stipulò un'Alleanza con il suo popolo e gli impose la Legge, che qui viene letta come di schiavitù.

Ma Paolo va oltre, non si limita ad un tempo ormai lontano, quello del Sinai, ormai solo un ricordo, ma ne trae le conseguenze di quella alleanza sinaitica, che trova la sua rappresentante allegorica in Agar, la schiava. Una schiavitù che si estende anche ai giorni in cui Paolo scrive e che vede, ora, Gerusalemme, cuore pulsante del Giudaismo, della Legge e del culto giudaico, la fondazione storica di quell'Alleanza sinaitica, i cui figli, sono tutti assoggettati alla Legge e resi schiavi di un sistema legislativo e cultuale, ormai, fine a se stesso e che impedisce al credente un autentico rapporto con il suo Dio, fondato, sul cuore e sulla vita, intrappolato e ingessato com'è da una ridda di leggi e norme che gli impediscono anche di vivere una vita ritualizzata e scandita da queste norme. Mt 23,4 denuncia proprio questo stato di cose: “Legano infatti pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito”. Una denuncia che già era stata lanciata da Is 1,11-17 contro un culto svuotato dell'autentico rapporto di amore con Dio e con il prossimo e tutto incentrato su di una mera esecuzione della Legge. Cosa che Gesù stesso denuncerà nel racconto di quel fico, che ha trovato significativamente proprio sulla strada che portava a Gerusalemme e al Tempio (Mt 21,19-20; Mc 11,13; Lc 13,6-7). Un fico ricco di foglie, ma privo di frutti, metafora del culto e del modo di vivere del giudaismo, schiavizzato ormai dalla Legge, che lo ha reso insensibile a Dio e al prossimo. Tutto un sistema cultuale e di modo di vivere, di cui Gerusalemme era simbolo, che e verrà distrutto definitivamente nelle due guerre giudaiche del 66-73 d.C. e del 132-135 d.C. , che decretarono la fine del Tempio e con esso del sacerdozio e del culto.

Alla Gerusalemme terrena, cuore pulsante del Giudaismo, Paolo, ora, contrappone un'altra Gerusalemme, quella celeste (4,26), quella che è figlia ed erede della Promessa e della Benedizione, fatte ad Abramo ed ottenute per mezzo della fede, che diviene il parametro fondativo di ogni rapporto autentico con Dio (3,6). Quella nuova Gerusalemme che Ap 21,2 vede discendere dal cielo, figura della nuova comunità di credenti in Cristo. È una Gerusalemme che Paolo definisce “libera”, con riferimento alla schiavitù della Legge. Questa Gerusalemme è riconosciuta da Paolo come la vera madre dei credenti. Non viene più citato qui il nome di Sara, la sterile, ma madre di una innumerevole discendenza di figli, ma Paolo allude comunque a lei citando Is 54,1, sublimandola in un'altra e nuova Sara, che diviene figura-tipo della nuova Gerusalemme, la nuova comunità dei credenti in Cristo, la discendenza promessa ad Abramo (3,16). Sara, infatti, è la donna designata da Dio per essere la sorgente di vita di quel Isacco con il quale Dio stabilirà un'alleanza eterna, divenendo non solo suo Dio, ma anche quello della sua discendenza: “No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco. Io stabilirò la mia alleanza con lui come alleanza perenne, per essere il Dio suo e della sua discendenza dopo di lui” (Gen 17,19).

L'applicazione al mondo giudaico e pagano (4,28-31)

A conclusione dell'intera sezione dottrinale (2,15-4,31) e dopo numerose citazioni scritturistiche, accompagnate da altrettante riflessioni, sia cristologiche che scritturistiche, Paolo passa, ora, alle disposizioni pratiche comandate e raccomandate ai Galati (4,29-30), facendo riemergere in loro la coscienza di essere loro, richiamandosi a 3,7, i veri figli di Abramo (4,28.31), così come lo fu Isacco, con il quale Dio ha stabilito la sua eterna alleanza (Gen 17,19). Ma nel contempo crea un parallelismo tra il rapporto tenuto tra Ismaele-Isacco e quello tenuto tra Giudei-Galati.

Quest'ultima pericope è delimitata dai vv. 4.28.31, che formano tra loro inclusione per complementarietà tematica, la quale dà il tono all'intera pericope e giustifica le direttive che Paolo impartisce ai Galati nei confronti dei Giudei (4,30).

I vv.4,28.31, richiamandosi a quanto fin qui detto (3,7; 4,22-27) attestano, da un lato, che i Galati sono i veri figli di Abramo (3,7) alla pari di Isacco, con il quale Dio ha instaurato un'alleanza e in lui con la sua Discendenza (Gen 17,19), in cui i Galati sono sollecitati a ritrovarsi; dall'altro, in quanto figli della promessa, alla pari di Isacco, come lui i Galati sono figli di Sara, figura-tipo della nuova alleanza, la nuova Gerusalemme celeste, figli della donna libera.

In questo contesto di libertà che li contrappone ai Giudei e ai giudaizzanti, che li stanno insidiando con un vangelo in netta dissonanza con quello di Paolo (1,6-7), i Galati sono comandati da Paolo a rompere senza indugi i rapporti con questi, cacciandoli dalle loro comunità, in virtù e sull'esempio di quanto attesta la stessa Scrittura: “Disse allora ad Abramo: <<Scaccia questa schiava e suo figlio, perché il figlio di questa schiava non deve essere erede con mio figlio Isacco>>” (Gen 21,10).

Dalla dottrina (2,15-4,31) alla parenesi (5,1-26) e da questa alla pratica (6,1-18)

Note generali alla sezione 5,1-6,18

Dopo aver edotto i Galati con dovizia di citazioni scritturistiche, riflessioni cristologiche e teologiche, nonché di assunti dogmatici, fornendo ai Galati i fondamenti e le giustificazioni della loro fede, così da renderla solida e salda, contrapponendosi alle pretese sia dei Giudei che dei giudeocristiani giudaizzanti “che vi hanno sconvolto e che vogliono distorcere il vangelo di Cristo” (1,7b), Paolo, ora, in chiusura di lettera, passa alle esortazioni e raccomandazioni, riservando ad esse i capp.5-6, per complessivi 44 versetti. Ma se il cap.5 è un'applicazione di quanto fin qui detto, mettendo in rilievo le linee fondamentali ed essenziali del senso della scelta fatta per Cristo e del proprio vivere credente, il cap.6 scende nella pratica della quotidianità, sul come comportarsi in alcune circostanze della vita, improntandola sull'amore servizievole e la reciproca comprensione, quale concreta applicazione degli assunti esposti nel cap.5 (6,1-11) e termina con una una riflessione che vede contrapposti gli avversari di Paolo, alla ricerca dei propri interessi, a Paolo stesso, che si presenta come crocifisso a Cristo, richiamandosi in qualche modo a 2,20, per poi concludere a considerare il nuovo stato di vita, che ha costituito i Galati nel rango di nuove creature in Cristo.

L'intero cap.5 si sviluppa attorno alla contrapposizione tra libertà e schiavitù, tra spirito e carne, tra il “voi” carnali, che si sottopongono alla schiavitù della Legge per mezzo della circoncisione (5,4), e il “noi” spirituali, che seguono la legge dello Spirito, fondata sulla speranza, che si fa operosa nell'amore (5,5), per terminare con il mettere in evidenza i comportamenti contrastanti e contrapposti di chi vive sotto la schiavitù della carne e di chi vive, invece, secondo la libertà dello Spirito (5,16-26), mettendo così allo scoperto, in modo netto e senza equivoci, due diverse e contrapposte categorie di persone, qualificate per la loro scelta di vita e il loro orientamento esistenziale.

Un denso approfondimento delle linee fondamentali del vivere o meno secondo lo Spirito e secondo la carne, che viene inframezzato, quasi a non volerne appesantire la riflessione, con delle considerazioni personali, che Paolo sviluppa su se stesso e sui sobillatori dei Galati, suoi avversari (5,7-12).


Testo a lettura facilitata

Esortazione tematica (5,1)

1- Cristo ci ha liberati per la libertà; state (saldi) pertanto e non siate di nuovo sottoposti al giogo della schiavitù.

Le conseguenze di chi si sottopone alla Legge (5,2-4)

2- Ecco, io Paolo vi dico che se vi fate circoncidere Cristo non vi gioverà a niente.
3- Attesto nuovamente ad ogni uomo, che si fa circoncidere, che è obbligato ad eseguire la Legge tutta intera.
4- Siete stati sciolti da Cristo (voi), che vi fate giustificare nella Legge, siete decaduti dalla grazia.

Lo stato di vita di chi si muove secondo lo Spirito (5,5-6)

5- Noi, infatti, per mezzo dello Spirito (ottenuto) dalla fede, aspettiamo ansiosamente (la) speranza di giustificazione.
6- In Cristo Gesù, infatti, non vale qualcosa né la circoncisione né l'incirconcisione, ma la fede che si fa operosa per mezzo dell'amore.

Intermezzo riflessivo (5,7-12)

7-Correvate bene; chi vi ha ostacolati, (voi che) non date più retta alla verità?
8- La persuasione non (proviene di certo) da colui che vi chiama.
9- Un po' di lievito fa fermentare tutta quanta la pasta.
10- Io ho fiducia in voi nel Signore che non penserete nient'altro; ma chi vi turba sopporterà il giudizio, chiunque egli sia.
11- Ma io, fratelli, se predico ancora (la) circoncisione, perché sono ancora perseguitato? Così annullerei lo scandalo della croce.
12- Volesse il cielo che si mutilassero quelli che vi sobillano!


Commento ai vv.5,1-12

Esortazione tematica (5,1)

Questa prima sezione del cap.5 si apre significativamente con un'attestazione, che funge da imperativo assoluto, il quale, pur posto in apertura della terza parte della Lettera, quella parenetica, che in genere occupa sempre la parte finale di una lettera, tuttavia la domina interamente: “Cristo ci ha liberati per la libertà” (5,1a). Un assunto che trova il suo fondamento cristologico e la sua giustificazione in 3,13-14, dove si attesta che la morte di Cristo in croce ha tolto la maledizione imposta dalla Legge sui credenti, così che questi, ora, possono accedere alla Benedizione e al dono dello Spirito per sola fede. Non, quindi, per mezzo di una Legge destinata soltanto a mettere in luce la fragilità dell'uomo, condannandolo per la sua connaturata incapacità a compierla, ma solo per mezzo della fede, mettendo in rilievo, invece, il dono di grazia, che si manifesta nella misericordia di Dio, rivelatasi e attuatasi in Cristo (Tt 2,11; Lc 1,72.77-78). Del resto, Paolo lo aveva già attestato in 2,16, come “l'uomo non è giustificato dalle opere della Legge se non per mezzo della fede di Gesù Cristo, [...], poiché dalle opere della Legge non sarà mai giustificata ogni carne”. La libertà, quindi, che Cristo ha guadagnato attraverso la sua morte di croce, con la quale ha distrutto in se stesso quella carne di peccato e quella Legge, che ne esaltava tutta la fragilità, assunte su di sé con la sua incarnazione (4,4-5; Gv 12,32), viene ora resa disponibile anche al credente, perché anch'egli possa parteciparvi, entrando in comunione con Cristo per mezzo della fede. Una libertà, quindi, finalizzata a rendere liberi i credenti; quella libertà che le comunità paoline godevano e che Paolo aveva già menzionato in 2,4, raccontando come dei falsi fratelli “entrarono per spiare la nostra libertà, che abbiamo in Cristo Gesù, (e) per soggiogarci”. Ed è proprio per evitare questo nuovo assoggettamento che Paolo, in virtù della libertà acquisitaci da Cristo, esorta i Galati: “state (saldi) pertanto e non siate di nuovo sottoposti al giogo della schiavitù”. Un'esortazione, quindi, ad evitare una involuzione spirituale, che non solo sottometterebbero i Galati nuovamente alla schiavitù, ma tornerebbe anche a loro condanna, perché, dopo aver sperimentato il dono dello Spirito, acquisito attraverso la fede, lo hanno di fatto rinnegato e rifiutato (3,1-3).

Un'esortazione che, di fatto, in 5,1b spacca e contrappone tra loro due categorie di Galati o, a ben vedere, due realtà, due mondi: da un lato, quelli che aderiscono all'invito di Paolo, cioè di rimanere saldi in Cristo; dall'altro, quelli che, invece, si sottopongono “nuovamente39 alla schiavitù”, che qui va intesa in riferimento alla sola Legge mosaica, considerata la riflessione con cui la Lettera, ora, prosegue ai vv.5,2-4. Una contrapposizione che prelude alle due successive pericopi, 5,2-4 e 5,5-6, in cui il “voi” carnali si contrappone al “noi spirituali”.

Il v.5,1, pertanto, diventa il preambolo introduttivo all'intero cap.5.

Le conseguenze di chi si sottopone alla Legge (5,2-4)

I vv.5,2-4 riprendono l'esortazione a non sottoporsi “di nuovo al giogo della schiavitù”, con cui termina il v.5,1b, e ne illustrano le conseguenze, qualora i Galati aderissero alla Legge mosaica tramite la circoncisione.

La breve pericope, formata da soli tre versetti, è stesa in modo molto accurato, a parallelismi concentrici, probabilmente perché ritenuta fondamentale da Paolo, in quanto che descrive lo stato di vita di chi si fa circoncidere in rapporto a “Cristo che ci ha liberati”, rilevandone in tal modo la contrapposizione e la dissonanza. Per cui si ha il seguente schema:

A) Il v.2 (A), che trova il suo parallelo, al v.4 (A1), attesta con tono dogmatico come la circoncisione, l'atto con cui si entra nel giudaismo e nell'antica Alleanza mosaica, di fatto rende vana l'azione liberatrice di Cristo, che ci ha liberati perché vivessimo il nostro rapporto con Dio nella piena libertà di suoi figli (4,6-7) e non più di schiavizzati da “dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7)40, che di fatto, a motivo della nostra connaturata fragilità, ci condannano, precludendoci ogni accesso alla salvezza, che viene data per grazia e non per meriti provenienti dalle opere della Legge .

A1) Dopo l'intermezzo del v.3 (B) con cui Paolo descrive le condizioni di vita di chi si sottopone alla Legge per mezzo della circoncisione, ora, con il v.4 (A1) riprende il tema enunciato al v.2 (A), mettendone in evidenza le conseguenze: “Siete stati sciolti da Cristo (voi), che vi fate giustificare nella Legge, siete decaduti dalla grazia”. Quel “essere stati sciolti da Cristo” lascia intendere, da un punto di vista storico, che l'apostasia non solo sia sia già avvenuta, ma che questa si sia anche già consolidata; da un punto di vista teologico e cristologico, viene attestato che non vi è più nessun rapporto tra il credente e Cristo, che in tal modo viene abbandonato a se stesso, poiché egli si affida alla Legge per riscattare se stesso, non confidando più nel dono della misericordia divina, attuatasi in Cristo, in lui manifestatasi e da lui offertaci. Chi cerca la giustificazione nella Legge, infatti, poggia la sua fede nelle proprie capacità di saper eseguire la Legge in tutte le sue pretese, ponendosi davanti a Dio in un atteggiamento di parità, riducendo tutto il suo rapporto con Dio alla convenienza del “do ut des”. In altri termini, io eseguo la tua volontà espressa nella Legge e tu mi dai quello che mi aspetta. Nessuno può mettersi davanti a Dio e trattarlo come un suo pari, poiché la salvezza non è il frutto di trattative commerciali, ma è dono, che consiste nell'essere resi partecipi della stessa vita divina, che non ci appartiene per natura, ma ci viene concessa per misericordia e quale dono di grazia (Rm 4,1-5). Di conseguenza, il cercare la propria giustificazione nella Legge e nelle sue opere anziché nel dono di grazia significa esporsi davanti a Dio, avendo in tal modo rifiutato la sua azione di misericordia operata in Cristo. Si è, dunque, “decaduti dalla grazia”, cioè ci si è posti fuori dal progetto salvifico di Dio, avendolo rifiutato nel suo Cristo, puntando, invece, su se stessi. In tal senso ammonisce il Salmista: “Se consideri le colpe, Signore, Signore, chi ti potrà resistere? Ma presso di te è il perdono, perciò avremo il tuo timore” (Sal 130,3-4).

Lo stato di vita di chi si muove secondo lo Spirito (5,5-6)

Al “voi, che vi fate giustificare nella Legge”, puntando sulle sole forze umane e, quindi, sulla propria carnalità, fa ora da contrappunto e da contrapposizione il “noi” degli spirituali, cioè di quelli che hanno fatto la scelta di rimanere in comunione con Cristo, e in lui con il Padre, per mezzo della fede. Questa, proprio perché crea un atteggiamento di apertura e di disponibilità del credente nei confronti di Dio, diviene altresì un canale di comunicazione e di comunione tra Dio e il credente, che, nella coscienza della sua connaturata fragilità, decide di affidarsi al dono di grazia e di misericordia, attuatosi e manifestatosi in Cristo. Ed è da qui, dalla fede, che ci proviene la potenza rigenerante dello Spirito Santo (3,2), che ci accorpa alla vita stessa di Dio, facendo della nostra vita un suo riflesso, così com'era nei primordi dell'umanità allorché Dio, dopo aver creato tutte le cose, ancora incandescenti della sua divinità e avvolte ancora nella sua luce divina (Gen 1,3), “vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a).

Avvolto e permeato, dunque, dalla potenza di Dio, lo Spirito Santo, che lo rende fin d'ora partecipe della Vita stessa di Dio, e mosso da questa verso di Lui, il credente “aspetta ansiosamente la speranza della giustificazione”, in cui quel “ansiosamente” dice il forte stato di tensione e di attrazione del credente verso il suo Dio e che farà esclamare Paolo, prigioniero ad Efeso in attesa di sentenza, che potrebbe essere anche di morte, “Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno” (Fil 1,21) su cui egli chioserà: “Sono messo alle strette infatti tra queste due cose: da una parte il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d'altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne” (Fil 1,23-24). Una forte tensione spirituale che farà esclamare, secoli dopo, a S.Francesco: “Mio Dio, mio tutto”.

Una tensione spirituale animata dalla “speranza di giustificazione”, in cui la “speranza” ha qui natura divina e non umana e dice la certezza di ciò che si spera e che già in qualche modo si possiede, anche se non ancora in modo pieno e definitivo. Ed è proprio questa non ancora definitività che crea lo stato di forte tensione spirituale, quella di un “già, ma non ancora” e che spinge il credente verso quella pienezza e definitività, che può ottenere soltanto varcando la soglia dell'eternità, dove la giustificazione diviene una realtà compiuta, allorché Dio, finalmente, è tutto in lui (1Cor 15,28c).

Ed è in questa ampia prospettiva di forte tensione escatologica, in cui è collocato il credente, che Paolo ora inserisce la sua considerazione sull'essere circoncisi o non circoncisi, cose umane e carnali, che nulla hanno a che vedere con la nuova realtà inaugurata e manifestatasi in Cristo, posta sotto il segno della Vita stessa di Dio, che è Spirito Santo. In lui “infatti, non vale qualcosa né la circoncisione né l'incirconcisione, ma la fede che si fa operosa per mezzo dell'amore”. Realtà umane contrapposte a quelle divine; carnalità e spiritualità, a cui si accede alla prima attraverso la circoncisione e la fiducia in se stessi e nelle opere della Legge; alla seconda per mezzo della fede in Cristo Gesù, la quale non è una semplice astrazione intellettuale, ma deve divenire esistenzializzazione della Vita divina nella nostra vita quotidiana. Una fede, dunque, che esige che il credente lasci trasparire nella sua quotidianità esistenziale quel Dio che vive ed opera in lui e che per sua natura è “Amore”, cioè totale apertura di sé agli altri, totale donazione di sé agli altri, totale accoglienza degli altri in se stesso. Amore che dice reciproca compenetrazione esistenziale, una sorta di osmosi esistenziale, che si fa comunione di vita.

Una vita, dunque, quella del credente, che fonda non più sulla carnalità della circoncisione, bensì sul triplice pilastro della speranza, che è tensione e attrazione verso Dio e che pone la vita del credente sotto il segno dell'escatologia, quello del già e non ancora e che diviene il motore del suo agire per Dio e segna inconfutabilmente il suo orientamento esistenziale verso Dio e per Dio; della fede, animata e sostenuta dalla speranza che è certezza di beni futuri, già presenti nel credente in virtù proprio della fede e che crea in lui una profonda comunione osmotica con Dio, che si esprime e si manifesta necessariamente attraverso il linguaggio dell'Amore, poiché, per sua essenza, Dio è Amore (1Gv 4,16), così che l'amare è l'agire stesso di Dio, che opera nel credente e che si manifesta storicamente nella Carità.

Intermezzo riflessivo (5,7-12)

Dopo un pressante richiamo a rimanere fedeli a Cristo (5,1.5-6), rafforzato dalla minaccia della perdizione (5,2-4), ora Paolo crea un momento di pausa, che sa di sfogo personale, e invita i Galati a riflettere su quanto sta loro accadendo a motivo dei giudaizzanti.

Una pericope questa scandita tematicamente in tre parti, riguardanti: a) la defezione, causata dai giudaizzanti (5,7-9), alla quale viene contrapposta la speranza di Paolo che tutto rientri e i Galati ritornino all'unità in Cristo (5,10); b) la confutazione delle calunnie dei giudaizzanti nei confronti di Paolo (5,11); c) una pesante e sarcastica imprecazione contro i giudaizzanti conclude l'intermezzo (5,12).

La pericope si apre (5,7) riprendendo i vv.1,6-7, rimodulandoli in termini più concisi. Al “Stupisco che siate passati ad un altro vangelo” (1,6) corrisponde qui il “Correvate così bene” (5,7a) e il “non date più retta alla verità” (5,7c); al “se non alcuni che vi hanno sconvolto e voglio distorcere il vangelo” (1,7b) corrisponde il “chi vi ha ostacolati” (5,7b).

L'immagine che qui Paolo propone con quel “Correvate così bene” è quella della corsa negli stadi, che ricorre più volte nelle sue lettere41, perché sottende l'idea del gareggiare contro gli avversari, cercando di vincerli per raggiungere la meta ed ottenere in premio la corona di alloro. Una gara che non è semplice, ma richiede allenamento e disciplina, controllo del proprio corpo (1Cor 9,24-27). Un gareggiare che ben corrisponde al vivere dei cristiani in mezzo ad un mondo pagano pieno di insidie e minacce. Ma in questa corsa i Galati sono stati ostacolati, sgambettati dai giudaizzanti, così da non dare più retta alla Verità del Vangelo di Paolo, che qui non punta il dito contro i Galati, ma addossa la colpa ai giudaizzanti, che hanno impedito la corsa dei Galati. Sono loro il vero inciampo e i veri nemici del Vangelo.

I Galati, dunque, non danno più retta al Vangelo di Paolo, poiché si sono lasciati persuadere dai giudaizzanti. Una persuasione, precisa Paolo in 5,8, che di certo non è opera di Dio e non rispecchia, quindi, la sua volontà. Di conseguenza i giudaizzanti non provengono da Dio e tanto meno sono da Lui inviati, come, invece, lo è Paolo (1,1.15-16). Significativo come Paolo parafrasi Dio con l'espressione “colui che vi chiama”, riferendosi a 1,6. Il il verbo “chiamare” è qui posto all'indicativo presente “vi chiama” e non “vi ha chiamato”, poiché dopo la defezione dal Vangelo si è chiusa una prima fase ed ora se ne sta aprendo un'altra, che in qualche modo ripete la prima: come allora vi ha chiamati, così anche ora vi chiama, per mezzo della voce di Paolo, facendo così eco a 3,19 dove egli si dichiarava pronto a partorire nuovamente i Galati a Cristo. Una chiamata, quindi, che è incominciata allora, ma che continua anche adesso.

Alla chiamata si aggiunge anche un richiamo ad avere attenzione, poiché “Un po' di lievito fa fermentare tutta quanta la pasta” (5,9). Il lievito, qui visto in senso negativo quale elemento che corrompe tutta la pasta. Il riferimento è a quel manipolo di giudaizzanti, probabilmente non molti, che formavano una sorta di task-force, che seguiva Paolo nelle sue missioni presso le diverse comunità credenti da lui fondate e, dopo che se n'era andato, s'infiltravano in esse in contro-missione. Ne bastavano, dunque, pochi, ma ben preparati, per corrompere l'intera pasta delle comunità della Galazia.

Paolo, ora, dopo tante raccomandazioni, esortazioni, richiami decisi, duri, talvolta al limite dell'offensivo, attenua il tono della sua voce e si dichiara fiducioso nei confronti dei Galati, che tornino ad essere uno in Cristo e che questo sia il preminente loro pensiero, che non devono più volgere altrove, confidando egli nel Signore o che ritiene (i Galati) ancora nel Signore, non è chiaro a chi si riferisca quel “™n kur…J” (en kirío), forse ad entrambi i sensi. Comunque vadano le cose, Paolo pone sotto il giudizio divino l'operato dei giudaizzanti, indipendentemente da chi essi siano. A chi allude Paolo con quel “chiunque egli sia”? Non è da escludersi che egli pensi anche ai responsabili della chiesa madre di Gerusalemme e, in particolare alla figura di Giacomo e al suo entourage di discepoli, tanto temuti sia da Pietro che da quei giudeocristiani che erano con lui e che Paolo aveva duramente ripreso per il loro comportamento ambiguo (2,11-14).

Con il v. 5,11 cambia completamente il tema. L'attenzione non è più rivolta ai giudaizzanti in riferimento ai Galati, ma, ora, in riferimento a Paolo, che si vede costretto a difendersi da una falsa accusa nei suo confronti, che lo incolpava di predicare o quanto meno di essere anche lui favorevole alla circoncisione. Quale sia il motivo di queste illazioni da parte dei suoi avversari non ci è dato di sapere, ma il riferimento potrebbe essere l'episodio di Timoteo, figlio di madre ebrea e di padre greco, che Paolo fece circoncidere “per riguardo ai Giudei che si trovavano in quelle regioni; tutti infatti sapevano che suo padre era greco” (At 16,1-3). Ma, controbatte, Paolo, “se predico ancora (la) circoncisione, perché sono ancora perseguitato?”. La persecuzione a cui qui Paolo fa riferimento proviene sia dai Giudei, per i quali Paolo era un traditore nei confronti della Tradizione dei Padri e di conseguenza passibile di morte; sia dal mondo pagano, che si mostrava favorevole ai Giudei e ai loro culti o quanto meno li tollerava, ma nei confronti dei cristiani, una sconosciuta setta fuoriuscita dal giudaismo, che si stava pericolosamente diffondendo ovunque, questi erano visti con sospetto e perseguitati all'occasione. Ecco, quindi, che l'essere favorevoli alla circoncisione e il predicarla oltre che il praticarla avrebbe risolto quasi tutti i problemi di Paolo. Ma così non era, perché Paolo di fatto è perseguitato e mal visto dai Giudei, dai quali ha subito numerose condanne e scontato altrettante pene (2Cor 11,23-25). Dunque sono tutte falsità che i suoi avversari hanno imbastito su di lui per denigrarlo. Del resto se Paolo si fosse conformato alla circoncisione e, quindi, si fosse sottomesso alla Legge mosaica, lui e la sua predicazione, avrebbe “annullato lo scandalo della croce”. In altri termini, la novità dell'evento Cristo morto-risorto sarebbe venuta meno, fagocitato dal giudaismo. Un tema questo che aveva già affrontato in 1Cor 1,18-25, dove lo scandalo della croce era una sfida che Dio aveva lanciato all'intelligenza degli uomini, tutti dediti alla ricerca di prove e di sofismi, ma che non ha saputo cogliere nella croce l'agire potente di Dio: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Ebbene, dice Paolo in in Gal 5,11b, tutto questo sarebbe stato vanificato e sarebbe andato perduto se lui avesse predicato la circoncisione, che comportava la sottomissione dell'evento Cristo alla Legge mosaica (5,2.4).

L'intermezzo 5,7-12 si chiude con un'invettiva piuttosto pesante contro i giudaizzanti, che attesta, da un lato, tutto lo sdegno di Paolo contro di loro; ma, dall'altro, lascia perplesso il lettore perché rasenta in qualche modo la volgarità: “Volesse il cielo che si mutilassero quelli che vi sobillano!”. Il senso di questa sfuriata sostanzialmente dice: questi giudaizzanti, già che c'erano, oltre che circoncidersi, si potevano pure evirare, così che decaduti essi stessi da Cristo e dalla grazia (5,2-4), potevano trovare il loro definitivo assetto tra i pagani, ai quali allude con quel “si mutilassero”; mutilazione in uso presso il culto della dea Cibele, diffuso nella Galazia, in particolar modo a Pessinunte. In tal modo verrebbero posti fuori completamente dal ciclo della salvezza, considerato altresì che Dt 23,2, al quale si erano sottoposti i giudaizzanti, accettando di farsi circoncidere, attesta che “l'eunuco e l'evirato non entrerà nell'assemblea del Signore”42. La quale cosa equivaleva ad una scomunica.

Come vivere in modo autentico la libertà: linee fondamentali per le comunità della Galazia (5,13-26)


Testo a lettura facilitata


La libertà va spesa nell'amore servizievole (5,13-15)

13- Voi, infatti, fratelli, siete stati chiamati alla libertà; basta che la libertà non (sia) l'occasione per la carne, ma per mezzo dell'amore fatevi servi gli uni degli altri.
14- Infatti tutta la Legge si compie in una parola, nel “Amerai il prossimo tuo come te stesso”.
15- Ma se vi mordete e vi divorate gli uni gli altri, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri.

Prodromo ai vv.5,19-23 (5,16-18)

16- (Vi) dico, camminate secondo lo Spirito e non soddisferete il desiderio della carne.
17- La carne, infatti, desidera (ciò che è) contro lo Spirito, lo Spirito contro la carne; infatti queste cose sono contrapposte le une alle altre, così che fate quelle cose che non volete.
18- Ma se siete mossi secondo lo Spirito, non siete sotto la Legge.

Le opere della carne (5,19-21) e i frutti dello Spirito (5,22-23)

19- Le opere della carne sono manifeste, queste sono fornicazione, impurità, dissolutezza,
20- idolatria, magia, rancori, contesa, rivalità, collere, intrighi, discordie, fazioni,
21- invidie, ubriachezze, gozzoviglie e cose simili a queste, che vi ho appena detto. Come vi ho già detto che coloro che fanno queste cose non erediteranno il regno di Dio.
22- Il frutto dello Spirito, invece, è amore, gioia, pace, magnanimità, bontà, benevolenza, fedeltà,
23- mansuetudine, moderazione; contro tali cose non vi è Legge.

Crocifiggere la carne per vivere secondo lo Spirito (5,24-26)

24- Quelli che sono di Cristo hanno crocifisso la carne con le (sue) passioni e i (suoi) desideri.
25- Se viviamo secondo lo Spirito, ci conformiamo anche secondo lo Spirito.
26- Non siamo vanagloriosi, provocando(ci) gli uni gli altri, invidiando(ci) gli uni gli altri.



Note generali

Paolo aveva aperto questo cap.5 con una sorta di proclama, che fungeva da tema all'intero capitolo: “Cristo ci ha liberati per la libertà; state (saldi) pertanto e non siate di nuovo sottoposti al giogo della schiavitù” (5,1). Libertà e schiavitù, dunque, due realtà antitetiche e irriducibili l'una all'altra, sono prospettate ai Galati e si pongono davanti a loro come due parametri di vita, due modalità di spendere la propria vita. In ultima analisi, due strade che si aprono davanti a loro, quella della vita e quella della morte (Dt 30,15; Ger 21,8)

Ma cosa significa essere stati liberati per la libertà, in funzione della libertà? E che cosa significa vivere da schiavizzati? E in che cosa consiste la libertà e, invece, la schiavitù? In cosa consiste il giogo che ci sottopone alla schiavitù? E che cosa, per contro, ci rende veramente liberi per poter vivere quella libertà che Cristo ci ha guadagnato? Sono queste le questioni di fondo che quest'ultima sezione del cap.5 affronta, scandendole in quattro passaggi, finalizzati ad approfondire il senso del vivere la libertà o la schiavitù. In altri termini le modalità del vivere che si prospettano ai Galati:

  1. La libertà va spesa nell'amore servizievole (5,13-15);

  2. Prodromo ai vv.5,19-23 (5,16-18);

  3. Le opere della carne (5,19-21) e i frutti dello Spirito (5,22-23);

  4. Crocifiggere la carne per vivere secondo lo Spirito (5,24-26)

Questo ultimo scorcio del cap.5 si è reso necessario per evitare dei fraintendimenti presso i Galati circa il senso della Libertà, che non è libertinaggio, non è dare sfogo alle proprie passioni, non è anarchia, non è libertà agli egoismi personali o sociali, non è, infine, permissivismo, cioè il violare o l'andar oltre le regole del proprio vivere personale e sociale, poiché questo porta alla distruzione della vita personale e sociale. La libertà dell'umo, infatti, non è mai assoluta, ma è sempre relativa e condizionata, proprio perché l'uomo non è un essere assoluto, ma relativo e condizionato. Non vi è in realtà una libertà per il male, poiché questo porta all'autodistruzione ed è negazione dell'essere. L'uomo è stato “costruito” per la Vita (Gen 1,1,27), dove egli trova l'affermazione e la pienezza di se stesso, del proprio essere; e non per la morte, che è negazione, distruzione, nichilismo.


Commento ai vv.5,13-26

La libertà va spesa nell'amore servizievole (5,13-15)

Il v.5,13 apre quest'ultima sezione del cap.5 e ne funge da prologo introduttivo, dove Paolo detta i parametri dell'autentica libertà. Esso riprende il proclama di 5,1a e lo rimodula mettendo in evidenza come quel “per la libertà” sia in realtà una chiamata alla libertà dei Galati, una sorta di loro connaturata vocazione. Tuttavia, il fatto che i Galati non siano più oppressi da una Legge che imponga loro ciò che devono o non devono fare, questo non significa che essi siano liberi di dare sfogo ai propri egoismi, che qui Paolo simbolicamente esprime con il termine carne, in cui racchiude tutte le debolezza umane, che spingono l'uomo a vivere in modo contrario allo Spirito. Per superare, dunque, questo grave handicap, grave proprio perché la “carne” è connaturata all'uomo e si esprime nella sua fragilità esistenziale, Paolo indica lo strumento fondamentale per superarlo: “ma per mezzo dell'amore fatevi servi gli uni degli altri”. L'amore, dunque, è lo strumento che si contrappone alla “carne” (“¢ll¦ di¦”, allà dià, ma per mezzo). Non si tratta, tuttavia, di un amore astratto, su cui si può dire tutto e il contrario di tutto, ma che trova la sua esplicitazione e la sua concretezza nel “farsi servi gli uni agli altri”, cioè servizievolmente disponibili agli altri, mettendo in second'ordine i propri egoismi. Ed è a tal punto che Paolo gioca la sua ultima carta contro quei Galati e quei giudaizzanti che hanno deciso di sottoporsi alla Legge. Ebbene, è proprio la Legge che attesta ciò che Paolo sta dicendo e li spinge a conformarsi al suo Vangelo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18b), poiché nell'amore si compie interamente la Legge e nell'Amore non ci sono limitazioni, poiché le due caratteristiche fondamentali di questo Amore, che lo contraddistinguono quale autentico, sono l'oblazione di sé per l'altro e l'accoglienza dell'altro in se stessi, dove “accoglienza” significa fare spazio in se stessi per l'altro, mettendo da parte le proprie pretese e i propri egoismi, facendo dell'altro il centro di me stesso, passando così dall'egocentrismo all'allocentrismo. Tuttavia in quel “altro” non va colto soltanto l'altro da me, ma anche Dio stesso (Dt 6,5). Solo così l'Amore diviene completo e acquista senso il proprio donarsi all'altro, poiché l'Amore per Dio non può che esprimersi che attraverso l'amore per il prossimo. Attesta, infatti, 1Gv 4,20b, “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”. Due realtà molto diverse tra loro, Dio e l'uomo, ma che s'intrecciano tra loro nell'amore, che per sua natura è donativo e non conosce secondi fini.

L'insistenza sull'amore, che si fa attenzione e servizio agli altri, contrapposto alla carne non sembra essere qui casuale, ma trova una sua prima applicazione negli asti e nei rancori che dividono le comunità della Galazia: “Ma se vi mordete e vi divorate gli uni gli altri, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”. Probabilmente un'allusione alle divisioni e ai contrasti che si erano venuti a creare tra le comunità della Galazia, guastate dalla loro giudaizzazione.

“Carne” e “Amore”, dunque, sono i due elementi, tra loro contrapposti attorno ai quali Paolo fa, ora, ruotare la restante sezione (5,16-26), in un continuo susseguirsi di richiami che si approfondiscono sempre più man mano che questa prosegue, fino a raggiungere il vertice, che vede il credente nel suo associarsi a Cristo, crocifiggendo la propria carne, per aprirsi in tal modo ad una più piena e completa esperienza dello Spirito, che è esperienza essenzialmente di Amore. Tema quest'ultimo che Paolo riprenderà in Rm 6,5-9.

Prodromo ai vv.5,19-23 (5,16-18)

La contrapposizione tra “Carne” e “Amore”, che serviva a Paolo, probabilmente per redarguire le divisioni, gli odii, gli asti e i rancori dei Galati, indicando loro la via per superarli, ricompattandosi in Cristo, ora si rimodula in una contrapposizione tra “Carne” e “Spirito”, più consona al linguaggio paolino. Non si tratta di un cambiamento di parametro, da Amore a Spirito, ma di un approfondimento dell'Amore, colto qui quale espressione dello Spirito (5,22a), che è la linfa vitale di Dio stesso, che per sua natura è Amore (1Gv 4,8.16) e trova la sua massima espressione donativa nell'incarnazione di suo Figlio, rendendosi storicamente raggiungibile all'uomo, offrendogli la possibilità di un suo ritorno a Lui (Gv 3,16).

Una contrapposizione che non è teorica, ma che trova il suo terreno di scontro nella vita stessa, alla quale Paolo allude in quel “camminate”. La vita colta come un cammino esistenziale, che assume le diverse coloriture in base all'orientamento e al senso che si dà al proprio vivere. Da qui l'esortazione a muoversi esistenzialmente secondo le logiche dello Spirito, escludendo in tal modo, ipso facto, i desideri della carne. E l'esclusione è implicita e automatica poiché “Carne” e “Spirito” sono due realtà tra loro contrapposte e irriducibili l'una all'altra. Il v.5,17 è fondamentale in questo passaggio per far comprendere l'incompatibilità delle due realtà, che non possono convivere nei Galati. Si parla, infatti, di “carne contro lo Spirito e di “Spirito contro la carne”, di realtà “contrapposte”. Non si tratta soltanto di una contrapposizione ideologica, ma esistenziale e che incide in ogni scelta, in ogni sentimento, in ogni desiderio. Tutto diviene motivo e terreno di scontro tra queste due realtà, così che il credente, che è immerso nella sua carne e vive per mezzo di questa, ma nel contempo è collocato, per mezzo della fede, nella nuova realtà dello Spirito, diviene egli stesso terreno di scontro, “così che fate quelle cose che non volete” a motivo della connaturata fragilità del credente. Una conclusione questa, che Paolo riprenderà in Rm 7,21, dopo una lunga riflessione sul tema della Legge, colta nell'intero cap.7 quale fautrice non di salvezza, ma di peccato e fomentatrice di una profonda e insanabile divisione all'interno della coscienza dell'uomo, che vede il bene prospettato dalla Legge, ma toccando i limiti della propria fragilità che lo spinge al male, così che “Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un'altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,21-23).

Paolo, ora, in 5,18, fa un ulteriore passo in avanti, spostando ora l'attenzione dei Galati dalla carne alla Legge, associando in tal modo, implicitamente la Legge, alla carne: “Ma se siete mossi secondo lo Spirito, non siete sotto la Legge”. La logica paolina, infatti, vorrebbe che “se vi muovete secondo lo Spirito, non siete sotto la carne”. Questo ulteriore spostamento si muove in parallelo allo spostamento “Amore-Spirito”, per cui si ha “Carne-Legge”. In altri termini, come la Carne non ha nulla a che vedere con lo Spirito, così la Legge non ha più nulla a che vedere con questo, poiché la funzione della Legge è quella di mettere in rilievo le deficienze della carne, che nulla ha che vedere con lo Spirito. Da qui l'esortazione di muoversi secondo lo Spirito, che ci consente in tal modo di estraniarci dal potere della Legge, che con lo Spirito, alla pari della Carne, nulla ha a che vedere. Infatti, attesterà Rm 8,14-16: “Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: <<Abbà, Padre!>>. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio”.

Le opere della carne (5,19-21) e i frutti dello Spirito (5,22-23)

La contrapposizione Carne-Amore (5,13-15) e Carne-Spirito (5,16-18) erano prodromi ai vv.5,19-23, dove Paolo entra ora nel concreto e nel vivo dei comportamenti, formulando dei cataloghi di vizi e di virtù, che hanno a capo la Carne i primi, lo Spirito i secondi. Di fatto sono dei parametri comportamentali di riferimento forniti a Galati, perché possano confrontare e valutare il modo di vivere la loro quotidianità in rapporto a se stessi, agli altri e a Dio. Cataloghi che probabilmente Paolo ha stilato pensando al modo di vivere dei Galati e alle comunità della Galazia. Quando, infatti, Paolo scrive lo fa sempre pensando alla comunità destinataria della sua lettera.

Benché questi sembrino elencati a caso, in realtà sono suddivisi in quattro gruppi, che vanno a toccare quattro fondamentali aspetti della vita. Il primo e il quarto gruppo (lett. a.d.) fanno riferimento a se stessi; il secondo e terzo gruppo (lett b.c.) a Dio e al prossimo. Quindi il secondo e terzo gruppo sono inclusi tra il primo e il quarto, quasi a dire che questi due centrali dipendono e risentono dal modo di essere della persona e come questi la coinvolgono.

  1. Il comportamento sessuale deviato è rappresentato dalla fornicazione, impurità, dissolutezza (5,19b). È significativo come Paolo apra l'elenco accentrando l'attenzione dei Galati sul modo di vivere la sessualità, poiché questa costituisce un elemento caratterizzante e interamente pervadente la persona. Ogni aspetto del proprio vivere, personale, sociale, religioso e lo stesso modo di approcciare la realtà sono influenzati dalla propria sessualità, colta qui non come genitalità, ma come elemento caratterizzante il proprio essere maschio o femmina. Alterare con una cattiva gestione le forze defluenti dalla propria sessualità crea dei notevoli disordini non solo nella persona, ma nei rapporti interpersonali, che si riversano sull'intera società, degradandola.

  2. I propri deviati rapporti con Dio e in senso più ampio con il mondo del soprannaturale, a cui fanno riferimento l'idolatria e la magia (5,20a). Un richiamo forse a quei Galati che, provenienti dal paganesimo, non si sono ancora completamente liberati da questo e ai quali Paolo si era già rivolto in 4,1-11. Il culto del vero ed unico Dio deve partire da una vita purificata non solo dagli idoli e dalla magia, ma anche da comportamenti idolatrici, che deviano il credente verso le cose, allontanandolo dal suo Dio o fidandosi più delle cose che di Dio, attribuendo ad esse poteri o significati apotropaici e scaramantici.

  3. I propri deviati rapporti con gli altri generano una società destabilizzata da forti tensioni interne, come rancori, contese, rivalità, collere, intrighi, discordie, fazioni (5,20b). Una denuncia probabilmente della situazione delle comunità della Galazia, di cui Paolo aveva già fatto accenno in 5,15. Si tratta di un modo degradato di vivere i rapporti interpersonali e sociali, che possono generare disordini e ingiustizie e certamente un clima sociale avvelenato, che fomenta odii e divisioni sociali, che possono sfociare in conflitti sociali o in persecuzioni e, comunque, non giova a nessuno, facilitando prepotenze ed angherie.

  4. i propri rapporti con se stessi: invidie, ubriachezze, gozzoviglie (5,21a). Un'ultima categoria che va a completare la gestione della propria sessualità (lett.a). Anche questa riguarda i rapporti con se stessi e denunciano un modo di vivere scomposto e degradato, che disperde e banalizza la propria vita, svuotandola di ogni significato e togliendo ogni dignità all'uomo.

L'elenco di questi vizi termina con una valutazione generale che li accomuna tutti e su cui pesa il giudizio divino: “Come vi ho già detto che coloro che fanno queste cose non erediteranno il regno di Dio”. Il “Come già vi ho detto” non fa certamente riferimento al testo della presente Lettera, poiché in nessuna sua parte si dice o quanto meno si allude ad un simile giudizio. È probabile che Paolo faccia riferimento al primo incontro con i Galati e al periodo della loro catechizzazione. Quanto al resto del versetto, che esprime una netta condanna, escludendo chi vive in questo modo dal Regno di Dio, richiama da vicino Rm 14,17-19, che presenta la situazione inversa di questa, ma parallela a questa: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole”.

Il catalogo, in contrapposizione a quello precedente, quasi in un gioco di contrasto, prosegue ora con l'elenco, breve, delle virtù (5,22-23), che designa alcune sfaccettature, molto significative, di uno stile di vita, che ha il suo comune denominatore nello Spirito, che è Vita stessa di Dio. Chi vive, pertanto, in questo modo, Dio vive in lui e da lui traspare un qualche raggio delle qualità divine, così che coloro che incontrano questi testimoni, incontrano Dio stesso, che trasfonde in loro la sua luce.

Anche queste virtù sono raccolte in quattro gruppi, secondo il loro significato e senso:

  1. Gli elementi che caratterizzano il Regno di Dio: amore, gioia, pace. L'amore che dice una comunione donativa di vita con l'altro; la gioia, che attesta la pienezza di vita e non è più adombrata dalla necessità, poiché essa ha trovato il suo senso compiuto in Dio stesso; pace, che dice riconciliazione, che si fa comunione, che si apre ad un amore osmotico, reciprocamente compenetrante, dove tutto si ricompone;

  2. L'amore attualizzato e testimoniato dalla magnanimità, dalla bontà e dalla benevolenza. L'amore, in quanto tale è donativo e caratterizzato dalla totale apertura di sé all'altro; dalla totale donazione di sé all'altro; dalla piena accoglienza dell'altro in sé. Da questo atteggiamento amoroso prendono forma la magnanimità, la bontà e la benevolenza, che sono addentellati dell'amore;

  3. Il fondamento di ogni rapporto autentico è caratterizzato dalla fedeltà, che esprime la solidità di questo stato vitale divino nel credente e ne testimonia il persistente orientamento esistenziale, necessario e indispensabile perché il cammino del credente verso il suo Dio, che ritrova in se stesso e incontra negli altri, non venga mai meno, pena la propria perdizione.

  4. Uno stile di vita in cui si riflette Dio è caratterizzato dalla mansuetudine, in quanto Dio è amore compassionevole, comprensivo e benevolo, lento all'ira e pieno di misericordia (Sal 85,15; 102,8; 144,8) e si esprime in sapienza, cioè in un modo di vivere caratterizzante e qualificante (Gc 3,13), che Gc 3,17 dipinge come una “sapienza che viene dall'alto che è anzitutto pura; poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, senza parzialità, senza ipocrisia”; e dalla moderazione che è la contropartita della mansuetudine e la consente, poiché il termine greco che definisce la moderazione è “™gkr£teia” (enkráteia), che dice anche continenza, temperanza, riservatezza, dominio di sé; quel creare in sé quel contesto sacrale di silenzio interiore dove Dio non solo possa essere accolto, ma anche ascoltato.

Anche questo breve elenco di virtù, che sono un riflesso della Vita stessa di Dio in chi le pratica, si conclude con una breve considerazione: “contro tali cose non vi è Legge”. Torna nuovamente, sia pur in modo implicito e soltanto allusivo, il tema della libertà e della schiavitù, della Carne e dello Spirito. La Legge, infatti, era stata definita da Paolo come un severo pedagogo, che ci teneva richiusi sotto la sua rigida tutela in vista della fede (3,23-24), il tempo della figliolanza divina, della vera libertà che Cristo ci ha acquisito e ci ha donato perché rimanessimo liberi dal giogo della schiavitù. Cristo, dunque, è il vero spazio della libertà, dove ogni credente è chiamato a vivere la propria vita e dove la Legge ha cessato ogni sua influenza, poiché vivere in Cristo significa vivere della stessa vita di Dio, che è vita di Amore.

Crocifiggere la carne per vivere secondo lo Spirito (5,24-26)

Paolo trae ora le conclusioni di quest'ultima sezione del cap.5 (vv.13-26), dove si vedono contrapposte due stili di vita improntati alla Carne e allo Spirito e tutto viene ricondotto nuovamente a Cristo, colto qui come il “crocifisso”, al quale sono associati i credenti, così che come Cristo, rivestito di una carne di peccato l'ha distrutta con la sua morte di croce, similmente coloro che hanno aderito a lui mediante la fede e il battesimo si sono rivestiti di lui, venendone assimilati (3,27). Ogni credente, pertanto, è chiamato, per sua natura di credente, a considerarsi crocifisso e morto alla carne, che genere passioni e desideri, che fungono da motore ad un modo sregolato di vivere, che è stato sopra descritto (5,19-21). Un tema questo che Paolo riprenderà, approfondendolo, in Rm 6,1-23.

Alla crocifissione e morte della propria carne di peccato, in quanto assimilati al Cristo morto in croce (Gv 12,32), Paolo fa ora seguire un nuovo stile di vita, che assimila il credente alla risurrezione di Cristo e che consiste nel vivere secondo le logiche dello Spirito, che sono le logiche di Dio. Morti dunque al peccato, ma viventi per Dio sotto l'egida dello Spirito, poiché “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Con la morte e la risurrezione di Cristo si sono innestate in ogni credente delle nuove realtà spirituali, alle quali il credente è chiamato fin d'ora a viverle, conformando a queste la propria vita.

Con il v.26, che in qualche modo riprende il v.15, si chiude questo denso cap.5 con un'ultima esortazione, che funge da preambolo tematico al cap.6: “Non siamo vanagloriosi, provocando(ci) gli uni gli altri, invidiando(ci) gli uni gli altri”. Vanagloria e invidia, dunque, secondo Paolo, sono i due elementi tra loro interconnessi che sono all'origine delle divisioni e delle rivalità intercomunitarie e intracomunitarie, che trascinano dietro di sé asti, rancori, vendette, prevaricazioni, odii. La vanagloria, infatti, che ha la sua matrice nell'egocentrismo, quale smodato culto di se stessi, che spinge il proprio “ego” all'affermazione di sé a spese degli altri, vede in questi solo dei rivali da abbattere ed è alimentata dall'invidia. Essa è esattamente il contrario dell'amore, che si radica nell'allocentrismo e vede nell'altro non un rivale da abbattere, ma un'opportunità di realizzare se stesso nell'affermarlo. Il credente, pertanto, deve cercare di fare del bene all'altro, poiché in questo suo operare per l'altro trova nel contempo la sua realizzazione e la sua affermazione.

È con questo spirito di attenzione donativa e accogliente nei confronti dell'altro che Paolo affronta la sezione 6,1-11, tutta dedicata alla pratica dell'amore intracomunitario.

La pratica della vita cristiana: alcune regole e suggerimenti (6,1-11)

Testo a lettura facilitata

Richiamare chi è nell'errore con dolcezza e comprensione (6,1)

1- Fratelli, se un uomo viene sorpreso in un qualche errore, voi, i spirituali, correggete costui in spirito di dolcezza, avendo cura di te stesso, affinché anche tu non sia tentato.

L'aiuto vicendevole (6,2-5)

2- Portate i pesi gli uni degli altri, così compirete pienamente la Legge di Cristo.
3- Infatti se qualcuno pensa di essere qualcosa, mentre è niente, inganna se stesso.
4- Ciascuno invece esamini la propria opera, e allora avrà modo di vantarsi verso solo se stesso e non verso l'altro;
5- ciascuno infatti porterà il proprio peso.

Un singolare scambio di beni (6,6)

6- Ma colui che viene istruito nella Parola condivida con colui che (lo) istruisce tutti i suoi beni.

Ognuno raccoglie ciò che ha seminato (6,7-8)

7- Non fuorviate, Dio non si lascia schernire; infatti ciò che l'uomo avrà seminato, questo anche raccoglierà;
8- poiché colui che semina nella sua carne dalla carne raccoglierà rovina, colui che invece semina nello Spirito dallo Spirito raccoglierà vita eterna.

Il bene sia sempre al primo posto (6,9-11)

9- Ma operando non trascuriamo il bene, poiché a suo tempo, non stancandoci, raccoglieremo.
10- Ora,dunque, finché abbiamo tempo, facciamo il bene verso tutti, maggiormente verso gli amici di fede.
11- Vedete con che caratteri grandi vi ho scritto con la mia mano.


Note generali e commento a 6,1-11

Dopo le esortazioni, accompagnate da approfondimenti cristologici e pneumatologici, del cap.5, che indicavano la via principale che i Galati dovevano percorre, quella della libertà da spendere nell'amore servizievole, muovendosi secondo le logiche dello Spirito, Paolo ora, con il cap.6, sulla scorta delle indicazioni del cap.5, presenta una sorta di casistica, che deve fungere da parametro comportamentale all'interno delle comunità credenti. Due, quindi, sono gli elementi che la sottendono: l'amore servizievole, che deve essere comprensivo, sensibile, attento, disponibile, pronto all'aiuto vicendevole, lasciandosi guidare dallo Spirito, alluso in quel “voi, gli spirituali”.

Gli aspetti salienti della vita comunitaria, presi in considerazione da Paolo, si muovono, pertanto, tutti attorno all'esemplificazione di che cosa significhi “amore servizievole” e “muoversi secondo lo Spirito”:

  1. Richiamare chi è nell'errore con dolcezza e comprensione (6,1), è questo il primo parametro di raffronto che Paolo propone, la cui natura generica lo fa assurgere a regola di comportamento. All'interno della comunità vi è chi può sbagliare ed ecco che “gli spirituali” sono chiamati ad intervenire, in una sorta di obbligo morale. Ma che cosa intende Paolo per “gli spirituali”? Essi sono coloro che lasciandosi guidare dalle logiche dello Spirito ne sono anche illuminati ed hanno una maggiore comprensione delle cose (1Cor 2,14-15). Proprio per questo essi si devono muovere, secondo tali logiche, con dolcezza, che è una sensibile attenzione alla persona in errore ed è una delle tante sfaccettature dell'amore. Ma nel mentre che essi, mossi dallo Spirito, soccorrono chi è vittima della sua fragilità, devono nel contempo porre attenzione alla propria, poiché gli spirituali non ne sono indenni, finché vivono nella carne. “Unum facere”, dunque, ma “aliud non omittere”, fare una cosa senza tralasciare quell'altra, nella coscienza che ognuno può essere soggetto all'errore. Un motivo in più per accostarsi con animo misericordioso a chi è caduto in errore. Una regola bonaria, quindi, che la comunità matteana, con il rapido diffondersi del cristianesimo e l'allargarsi delle comunità credenti, elaborerà in modo più complesso e graduale, puntando, da un lato, al recupero del fratello caduto in errore, e, dall'altro, alla salvaguardia della comunità in caso di sua riluttanza: “Se il tuo fratello commette una colpa, va e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,15.17).

  2. L'aiuto vicendevole (6,2-5) potrebbe essere considerato uno sviluppo del precedente, poiché ogni credente, qui, è chiamato ad interessarsi delle difficoltà e dei problemi del proprio fratello condividendoli con lui. In questo Paolo vede il compiersi la Legge di Cristo, che è la Legge della solidarietà, che si fa vicinanza e condivisione alla triste condizione dell'uomo. Egli, infatti, ha condiviso con noi la nostra natura di peccato43, sottomettendosi alla Legge per riscattarci dalla sua schiavitù (4,4-5). È sempre lui che si mette in fila, assieme ai peccatori, per farsi battezzare assieme a loro con un battesimo di penitenza; lui che non era peccato si è fatto peccato insieme a noi, per riscattarci dal peccato (2Cor 5,21). Ed è su questo esempio di un Cristo, che si è svuotato dello splendore della sua gloria per assumere una natura di schiavo come la nostra (Fil 2,6-8), che Paolo invita i Galati a soppesarsi attentamente: nessuno è così bravo e santo da potersi vantare davanti agli uomini, ritenendosi qualcuno, mentre di fronte a Dio è niente (Sal 129,3). Una vanagloria, dunque, che dà l'illusione di una santità che non c'è, perché profondamente segnati dalla nostra fragilità. Ogni buona opera ed ogni dono che ognuno può scoprire in se stesso va valutato interiormente nel segreto della propria coscienza, dove l'uomo s'incontra con il suo Dio, così da comprendere che questo deve diventare per lui non motivo di vanto nei confronti dell'altro o contro l'altro, bensì dono a favore dell'altro, come esorta 1Pt 4,10: “Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio”. Tutto il bene che ognuno scopre in se stesso, quale riflesso della luce divina, va speso a beneficio dell'altro e dell'intera comunità, poiché, conclude Paolo, “ciascuno infatti porterà il proprio peso”, come dire che ognuno dovrà rispondere di se stesso, dell'uso che egli ha fatto delle proprie energie, dei propri talenti, che gli sono stati dati non per gloriarsi vacuamente davanti agli uomini o farli pesare su chi è in difficoltà, ma a giovamento del proprio fratello, poiché “ogni volta che avete o non avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete o non l'avete fatto a me” (Mt 25,40.45). L'attenzione verso l'altro, pertanto, va rafforzata dalla coscienza che nell'altro è sacramentato Cristo stesso.

  3. Un singolare scambio di beni (6,6): “Ma colui che viene istruito nella Parola condivida con colui che (lo) istruisce tutti i suoi beni”. Una simile esortazione, che nasce da una prassi assodata nella chiesa primitiva e alla quale Paolo dedicherà l'intero cap.9 della sua 1Cor e nello specifico 9,13-14: “Non sapete che coloro che celebrano il culto traggono il vitto dal culto, e coloro che attendono all'altare hanno parte dell'altare? Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo”. Il riferimento alla disposizione data dal Signore probabilmente è quella che Lc 10,7 riporta nel suo Vangelo, nel contesto in cui l'evangelista riporta le regole che normano l'azione dei primi missionari itineranti: “Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché l'operaio è degno della sua mercede. Non passate di casa in casa”. Una prassi ecclesiale che riecheggerà anche in Rm 15,27 nel contesto della colletta dove comunità etnocristiane, su invito di Paolo, hanno fatto una raccolta fondi per la chiesa madre di Gerusalemme, verso la quale si sentono debitori per l'annuncio del vangelo ricevuto: “L'hanno voluto perché sono ad essi debitori: infatti, avendo i pagani partecipato ai loro beni spirituali, sono in debito di rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali”. Una prassi di cui Paolo non ha mai voluto beneficiare, benché ne avesse diritto, per evitare sia di gravare sulla comunità a cui annunciava il suo Vangelo; sia per non dare adito a malelingue di farsi mantenere dalla comunità.

  4. Ognuno raccoglie ciò che ha seminato (6,7-8). Dopo questa breve esemplificazione, Paolo crea ora una breve pausa di riflessione, accentrando l'attenzione dei Galati su di un detto (6,7b), fatto seguire da una sua precisazione di approfondimento (6,8), e il tutto fatto precedere da un ammonimento che sa di minaccia e che contiene in se stesso la previsione di un giudizio divino che grava sull'operato di ciascuno: “Non fuorviate, Dio non si lascia schernire” (6,7a). Un invito quindi ad essere sinceri, retti ed onesti nel proprio operare, poiché, a giochi finiti, i conti li dobbiamo fare con Dio, così che su ciascuno pesa il giudizio divino. Da qui la necessità di porre attenzione a come si opera, poiché ognuno raccoglierà ciò che ha seminato. In altri termini, ogni opera che si compie porta con sé delle conseguenze, che cadranno a beneficio o a danno di chi la compie. E ciò che è discriminante tra il beneficio e il danno, tra il bene e il male della propria opera è il senso che si dà a questa: se questa è fondata sulla vacuità della propria carne, cioè riguarda i propri interessi personali e serve ad alimentare il proprio “ego” allora verrà pagato con la moneta della carne, che per sua natura è destinata alla corruzione ed ha una consistenza effimera. Per contro chi gioca la sua vita secondo le logiche dello Spirito, da questo otterrà la propria ricompensa, che è Vita eterna.

  5. Il bene sia sempre al primo posto (6,9-11). Una conseguenza logica di 6,7-8, che si traduce in una esortazione a tener sempre presente nel proprio operare il bene. In altri termini, ogni propria azione, lo stesso proprio vivere deve essere improntato e orientato al Bene, lasciandolo trasparire dal proprio modo di vivere ed operare, muovendosi sotto l'azione dello Spirito e lasciandosi plasmare dallo Spirito. Un bene che va compiuto “finché abbiamo tempo”. È questo il luogo e lo spazio che ci è concesso per compierlo, qui e ora. Lo spazio e il luogo della nostra vita, poi, nell'aldilà saremo totalmente e pienamente quello che siamo stati qui. È questo, dunque, lo spazio e il tempo in cui costruiamo la nostra salvezza. È un bene, dunque, che deve sempre trovare spazio nel nostro operare e deve essere speso sempre “verso tutti”, dove quel “tutti” riguarda sia, in primis, i nostri fratelli nella fede, ma senza escludere quelli che ancora non lo sono, poiché tutti siamo figli di un unico Padre, “il quale fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45b).

Terminata la prima sezione del cap.6 (vv.1-10), Paolo aggiunge ora con il v.6,11 una nota personale, che potremmo definire come extra tematica, con la qual intende sottolineare quanto fin qui detto in questa prima sezione, molto densa per i suoi contenuti di regole e suggerimenti fondamentali del vivere le relazioni intra ed extracomunitarie. Elementi importanti, poiché sintetizzano nella pratica del vivere quotidiano quanto fin qui detto nell'intera Lettera, in particolar modo per quanto riguarda la contrapposizione della Carne e dello Spirito, che sono a capo di due modi di condurre la propria vita. Regole e suggerimenti che qui Paolo ha scolpito, quasi lapidariamente, in questa prima sezione del cap.6 a “caratteri grandi” e “scritti con la sua mano”, sottolineandone l'importanza primaria per la vita comunitaria, richiamando in tal modo, da un lato, l'attenzione dei Galati sul calibro delle lettere con cui scrive queste cose, quasi a voler imprimerle bene nel loro spirito; dall'altro, dicendo loro che questa Lettera è stata scritta di sua mano44, evidenziando in al modo il suo interesse personale per loro, rendendosi in qualche modo presente in mezzo a loro con questa Lettera e, quindi, suggerendo implicitamente di accoglierla con quel entusiasmo e quel rispetto che gli avevano riservato nel loro primo incontro (4,12-15).

Un versetto questo, il 6,11, che in genere viene riferito all'ultima parte della Lettera, 6,12-18 e posto in sua apertura, ma che, invece, a mio avviso, dovrebbe essere riferito a 6,1-10, sia per l'importanza delle regole e suggerimenti per la vita comunitaria, che contiene questa sezione, sia perché il verbo “œgraya” (égrapsa, scrissi) è posto all'aoristo e fa riferimento ad eventi passati, puntuali nel tempo, e non a quelli devono accadere o stanno per accadere. Nel suo aspetto verbale l'azione espressa da questo aoristo ha più un senso terminativo che ingressivo o incipiente. Non c'è qui un'idea di inizio. Se Paolo avesse voluto riferirsi alla sezione conclusiva di questa Lettera (6,12-18) avrebbe detto: “Vedete con che caratteri grandi vi “scrivo adesso” con la mia mano” o “vi sto per scrivere adesso”. Anche perché quello che Paolo scrive in 6,12-18 è sostanzialmente soltanto un richiamo di quanto ha già detto nel corso della Lettera e non qualcosa di nuovo a cui porre attenzione.

Ultime considerazioni e saluti finali (6,12-18)


Testo a lettura facilitata

Tesi: il comportamento subdolo e incoerente di chi predica la circoncisione (6,12-13)

12- Quanti vogliono piacere nella carne, questi vi costringono ad essere circoncisi, solo per non essere perseguitati a motivo della croce di Cristo;
13- Infatti, neppure quelli che si sono circoncisi osservano (la) Legge, ma vogliono che voi siate circoncisi per gloriarsi nella vostra carne.

Antitesi: la glorificazione che Paolo cerca per se stesso: la croce di Cristo (6,14)

14- Quanto a me non vi sia se non l'essere glorificato nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale per me il mondo è crocifisso e io per il mondo. (2,20-21)

Sintesi: ciò che veramente conta: l'essere nuova creatura in Cristo (6,15-16)

15- Non è, infatti, la circoncisione (che conta) qualcosa, né l'incirconcisione, ma (l'essere) nuova creatura.
16- E quanti si conformeranno a questa regola, pace e misericordia su di loro, e sull'Israele di Dio.

Conclusione e saluto finale (6,17-18)

17- D'ora in poi nessuno mi dia sofferenze, io, infatti, porto nel mio corpo le stimmate di Gesù.
18- La grazia del Signore nostro Gesù Cristo (sia) con il vostro spirito, fratelli; Amen.


Note generali

Con il v.6,11 si è chiusa la prima sezione del cap.6 (vv.1-11) e con questa l'intera Lettera. Ora Paolo dedica questi ultimi sette versetti (vv.12-18) ad una sorta di sunto di quanto fin qui detto, suddividendo i vv.12-16 in tre parti con la formula caratteristica della dialettica, Tesi, Antitesi e Sintesi:

Il tutto si conclude con un perentorio e seccato invito da parte di Paolo a non essere più infastidito inutilmente da queste continue e inutili contrapposizioni, aggiungendo in tal modo alle sofferenze, che egli già sta soffrendo per la sua testimonianza del Cristo crocifisso, a cui egli è associato, altre sofferenze ancora, dovute alla pochezza di fede dei Galati (6,17). La durezza di questo richiamo viene stemprata con un saluto fraterno, ma fatto a denti stretti per la sua concisione e secchezza. Sembra quasi che Paolo si congedi dai Galati in modo brusco, forse deluso per le notizie ricevute su di loro, che gli danno poche speranze di un ritorno. E, purtroppo, sarà così.


Commento ai vv.6,12-18

Tesi: il comportamento subdolo e incoerente di chi predica la circoncisione (6,12-13)

Con i vv.6,12-13 Paolo riprende e approfondisce il v. 4,17, portando alla luce le vere intenzioni dei suoi avversari. Là, in 4,17, aveva fatto soltanto una enunciazione: “(Questi) vi cercano con ardore, non onestamente, ma vogliono tagliarvi fuori, perché cerchiate appassionatamente loro”; qui, ora, ne porta le motivazioni. Perché questi giudaizzanti “vi cercano con ardore, non onestamente”? Due sono i motivi, oltre al fatto che essi vogliono diventare il punto di riferimento dei Galati (“perché cerchiate appassionatamente loro”): “vogliono piacere nella carne”, in altri termini non vogliono mettersi in contrasto con il mondo del giudaismo, al quale sono ancora legati, e con il mondo pagano greco-romano, che guardava con una certa indulgenza e benevolenza al giudaismo, contrastando, invece, quella che era considerata inizialmente una nuova setta giudaica, i cristiani. Ebbene, dice Paolo, questi giudaizzanti cercano di attrarvi nel loro cristianesimo giudaizzante per compiacere, da un lato, i Giudei, dall'altro i pagani, evitando così di essere perseguitati, dissociandosi da un cristianesimo duro e puro, rappresentato dalla sola Croce di Cristo, un vero scandalo per i Giudei, che non concepivano un Messia crocifisso e perdente; e una follia per i pagani, che ritenevano la croce il segno della condanna e del fallimento (1Cor 1,23). Per questo, afferma Paolo, questi vi spingono a circoncidervi, sottomettendovi alla Legge mosaica, distorcendo in tal modo il Vangelo di Cristo (1,7), poiché subordinano il messaggio salvifico del Vangelo alla Legge mosaica. Una Legge, che per la sua complessità e gravosità è stata resa impraticabile (Mt 23,4), così che neppure loro, che tanto tengono alla Legge, dalla quale non sanno distaccarsi, la osservano (Rm 2,1.17-24), ma vogliono invece che voi la osserviate. E questo soltanto per potersi gloriare del loro proselitismo e, quindi, fare bella figura nei confronti dei Giudei. I Galati, in buona sostanza, in questo contesto, sono soltanto delle vittime, una sorta di trofeo da sbandierare ed esporre presso i Giudei, salvaguardandosi dalla loro persecuzione. I Galati, quindi, sono stati ingannati e usati per scopi del tutto personali.

Antitesi: la glorificazione che Paolo cerca per se stesso: la croce di Cristo (6,14)

In 6,12-13 Paolo ha presentato ciò che i cristiani giudaizzanti cercano per ottenere riconoscimenti, approvazione e affermazione personale presso la propria comunità e presso il mondo giudaico: ricondurre il cristianesimo nell'alveo mosaico attraverso la circoncisione. In tal modo non avrebbero più avuto problemi. Questi giudaizzanti, dunque, cercavano il proprio compiacimento e il proprio tornaconto nell'approvazione degli uomini, ragionando secondo le logiche della carne e vergognandosi, in ultima analisi, del loro Messia crocifisso, “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). Ora Paolo contrappone a loro l'oggetto della sua glorificazione e del proprio compiacimento, il fondamento della sua esistenza: la croce del Signore nostro Gesù Cristo. Una croce alla quale Paolo vede assimilato non soltanto se stesso, ma l'intero mondo, l'intera creazione. Una croce, dunque, che possiede in se stessa una valenza sia personale che universale. È, infatti, l'intero mondo che su quella croce è stato crocifisso, così come ogni singolo uomo è stato attratto e assimilato ad essa (Gv 12,32), così che l'uomo vecchio, quello che è stato generato dal primo Adamo, quello dalla carne despiritualizzata e corrotta dalla colpa originale e che non apparteneva più alla dimensione divina, da cui era fuoriuscito ai primordi dell'umanità, l'uomo decaduto, ora, è stato con-crocifisso a Cristo e con-morto con lui (Rm 6,6-7); e assieme a lui, per un principio di solidarietà, anche l'intera creazione45. Del Resto Paolo già lo aveva detto di se stesso in 2,19b-20: “Sono stato crocifisso con Cristo: ora non vivo più io, ma Cristo vive in me; ma ora ciò che vivo nella carne, vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me”.

Se, dunque, per i Giudei e per il mondo la Croce di Cristo è soltanto stoltezza, follia, scandalo e vergogna, per Paolo essa è il fulcro attorno al quale gira ogni uomo e l'intera creazione, preambolo e promessa della glorificazione di Cristo, nuovo Adamo, e con lui di ogni credente e dell'intera creazione: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,3-4). E con l'uomo anche l'intera creazione (Rm 8,19-23)

Sintesi, ciò che veramente conta: l'essere nuova creatura in Cristo (6,15-16)

La contrapposizione tra cristianesimo giudaizzante, circoncisione, Legge mosaica e Croce di Cristo, che Paolo storicizza nella polemica di circoncisione e incirconcisione, con tutto ciò che esse comportano a livello storico, spirituale ed ontologico, viene ora sintetizzata e superata da una nuova categoria ontologica: “l'essere una nuova creatura”, la quale si colloca in una nuova dimensione, quella dello Spirito, testimoniato da una fede che si fa operosa per mezzo dell'amore (5,6b). Il v.6,15, infatti, riprende sostanzialmente il v.5,6, dove si attesta che “In Cristo Gesù, infatti, non vale qualcosa né la circoncisione né l'incirconcisione, ma la fede che si fa operosa per mezzo dell'amore”, dove quest'ultima espressione viene sostituita con “l'essere una nuova creatura”, creando in tal modo un parallelismo tra le due espressioni, così che l'essere nuova creatura comporta il vivere la propria fede, manifestandola attraverso l'amore, un amore reciproco e servizievole, cioè l'essere attenti e disponibili gli uni agli altri (5,13c). Un amore che è frutto dello Spirito (5,22a). Di conseguenza, l'essere nuova creatura significa muoversi secondo le logiche dello Spirito, che è Amore, che è l'essenza della vita stessa di Dio (1Gv 4,8.16). All'interno di queste logiche perde di significato la contrapposizione “circoncisione”-”incirconcisione”.

Il v.6,16 evidenzia come il v.6,15 non sia una semplice considerazione, ma lo fa assurgere a regola di vita, cioè a modo di vivere, che vede i credenti non più contrapposti tra loro tra circoncisi e incirconcisi, ma tutti riuniti tra loro sotto un unico comune denominatore, quello di essere nuove creature in Cristo, contraddistinte e qualificate dall'amore reciprocamente servizievole, così che “Non vi è fra (voi) Giudeo né Greco, non vi è (tra voi) schiavo né libero, non vi è (tra voi) maschio e femmina; tutti voi, infatti, siete uno in Cristo Gesù” (3,28). Un un'unica realtà ontologica che ingloba tutti e tutto (Ef 1,10; 1Cor 15,28).

Una regola a cui tutti i credenti sono chiamati a conformarsi e che avrà come effetto su di loro “pace e misericordia”. Pace, che è riconciliazione con Dio, la quale si riverbera sotto forma di riconciliazione tra i credenti, tra i quali, la misericordia, che hanno trovato e di cui hanno beneficiato in Cristo, si traduce e si fa amore vicendevole, pronto al perdono e all'accoglienza, perché per primi si è stati accolti e perdonati da Dio in Cristo.

Una pace e una misericordia, che suonano come una sorta di benedizione finale non solo sui credenti, ma anche “sull'Israele di Dio”, cioè quell'Israele che Dio aveva sempre sognato fin dai tempi del monte Sinai; un Israele che sapesse ascoltare veramente la voce di Dio in ogni tempo e ovunque si manifestasse, senza ingessarla in due tavole di pietra, divenendo in tal modo sua proprietà, nazione santa e popolo di sacerdoti (Es 19,4-6), i cui veri eredi sono coloro che hanno saputo riconoscere ed ascoltare la voce di Dio risuonare nel suo Cristo. Un tema quest'ultimo molto caro a Paolo e che riprenderà in modo appassionato e profondamente sentito in Rm 9-10.

Conclusione e saluto finale (6,17-18)

Una conclusione che giunge inattesa per le modalità del suo esprimersi; buttata lì in modo brusco, dura e secca, che tradisce rabbia, irritazione e delusione, ma nel contempo anche molta amarezza, perché sente di aver perso in qualche modo la sua comunità a causa dei giudaizzanti: “D'ora in poi nessuno mi dia sofferenze, io, infatti, porto nel mio corpo le stimmate di Gesù”. Paolo, con tono perentorio, ordina ai Galati in buona sostanza di smetterla con queste contrapposizioni tra circoncisi e incirconcisi ed apostasie, che gli creano solo sofferenze, che si vanno ad aggiungere a quelle che già gli procurano le stimmate, che egli porta nel suo corpo e che lo hanno associato alla croce di Cristo. Paolo certamente non fa riferimento a quelle di cui alcuni nostri santi hanno beneficiato, come S.Francesco o, più vicino a noi, Padre Pio, che hanno visto riprodursi nel proprio corpo i segni della crocifissione di Gesù. Paolo si ritiene un crocifisso con Cristo e vive nella sua carne i patimenti di Cristo (2,20) e che elenca in 2Cor 11,23-28. Queste sono le stimmate a cui Paolo fa riferimento. Non c'è, dunque, bisogno che i Galati ne aggiungano altre, causate dalla loro defezione al suo Vangelo.

Un duro e secco richiamo, dunque, fatto seguire da un altrettanto secco saluto e augurio, che suona come una formula di fede, probabilmente in uso presso le comunità credenti di quel tempo e che Paolo deve aver appreso in quel decennio che ha vissuto presso le comunità di Gerusalemme, Antiochia e Damasco, dopo la sua esperienza del Risorto sulla via di Damasco. La grazia, cioè la pienezza di vita che è del Signore, defluisca da lui a ciascuno dei Galati e in mezzo ai Galati, dunque, permanga. Significativa l'espressione “Signore nostro Gesù Cristo”, dove con il nome Gesù si riconosce il Figlio di Dio fattosi carne, mentre con l'appellativo di Cristo, cioè Messia, l'Unto di Dio, a cui si aggiunge anche “Signore”, un titolo questo in cui si riconosce la signoria universale del Risorto. Da questa formula spicca quel “nostro” con cui si riconosce non solo che lui ci appartiene e ci ha riqualificati e rigenerati a nuove creature, ma anche che noi apparteniamo a lui.

Una formula di fede, dunque, densa, rivolta ai credenti, che nel gergo proprio delle comunità primitive erano definiti “fratelli”, riconoscendosi in tal modo figli dell'unico Padre, da lui generati mediante la fede (Gv 1,12-13). Il tutto termina con un perentorio “Amen”46, probabilmente strettamente legato alla formula di fede, più che alla Lettera, e che sancisce la benedizione divina imposta sui Galati, e che la conferma come in una sorta di giuramento, dandole solennità.




Bibliografia





NOTE

1Da questi 2033 versetti che compongono gli scritti paolini sono stati scorporati i 303 versetti che compongono la Lettera agli Ebrei, la quale, benché inserita nel Corpus paulinum, tuttavia non è attribuile né a Paolo né alla sua scuola.

2Quando qui Paolo parla di “aver ricevuto dal Signore” non si riferisce a visioni particolari, ma ad una Tradizione che viene fatta risalire al Signore.

3Traduzione: L'imperatore Claudio “espulse da Roma i Giudei che creavano tumulti sotto la spinta di Cresto”. Il nome “Cresto” va compreso come una deformazione di “Cristo”, appellativo che era attribuito a Gesù, da cui ne seguì quello di “cristiani”, quali seguaci di Cristo. A Roma vi era la presenza di due folte comunità di Giudei e di cristiani, che, probabilmente per motivi di proselitismo, non di rado creavano problemi di ordine pubblico, così che l'imperatore Claudio pensò bene di espellere da Roma i Giudei, ma con loro anche i cristiani.

4Cfr. Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, II,22,1-2: “1. Come successore di Felice, Nerone inviò Festo, davanti al quale Paolo fu processato e poi mandato prigioniero a Roma. Era con lui Aristarco, che l'apostolo, in un passo delle sue lettere chiama giustamente compagno di prigionia (Col 4,10a ndr). Anche Luca, che ha riportato per iscritto gli Atti degli apostoli, terminò a questo punto la sua narrazione, precisando che Paolo passò a Roma due interi anni in libertà e vi predicò senza ostacoli la parola di Dio. 2. Dopo aver sostenuto la propria difesa in giudizio, si dice che ripartì per il ministero della predicazione, ma ritornò una seconda volta a Roma sotto Nerone e vi subì il martirio. Durante la sua prigionia scrisse la seconda lettera a Timoteo, in cui accenna alla sua prima difesa ed alla fine imminente

5Gustav Adolf Deissmann (1866-1937) è uno storico e teologo tedesco, il cui nome è legato ad approfonditi studi di filologia dell'Antico e del Nuovo Testamento e sul cristianesimo primitivo.

6Cfr. Mt 10,2; Mc 3,14; 6,30; Lc 6,13; 9,10; 11,49; 17,5; 22,14; 24,10; Gv 13,16.

7L'espressione è posta dalla critica testuale tra parentesi quadre per indicare un testo di dubbia autenticità. Rimane, comunque significativo il contesto in cui il termine “apostoli” è stato inserito, poiché ne definisce il senso: persone che stanno con Gesù e e sono da lui inviate a predicare. Tuttavia il termine ricorrerà ancora un'altra volta soltanto in Mc 6,30, dove si esprime comunque esattamente il concetto di 3,14: persone che si riuniscono attorno a Gesù, stanno con lui e riferiscono a lui circa la loro missione: gli apostoli si riuniscono presso Gesù e gli esposero tutto quanto fecero e quanto insegnarono”. Marco, dunque, per primo tra gli evangelisti riporta la funzione della figura di “apostolo”, figura questa che non si è inventato, ma che certamente ha trovato all'interno delle comunità credenti, legandolo alla volontà stessa di Gesù, caricandolo di una sua sacralità.

8Vedi sopra, pag 13

9Cfr 1Ts 1,1; 1Cor 1,2; 2Cor 1,1. Sono gli unici casi in cui Paolo si rivolge ai destinatari chiamandoli “chiesa”. Altrove si rivolge si rivolge a loro con diverse formulazioni: “a tutti coloro che si trovano in Roma” (Rm 1,7); “a tutti i santi che sono in Cristo Gesù che si trovano in Filippi” (Fil 1,1).

10Sulla questione cfr. la voce “Anatema” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

11Cfr. la voce “Arabia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia, ed. EDIZIONI PIEMME, Casale Monferrato, 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005.

12Lo stato attuale della ricerca circa i fratelli e le sorelle di Gesù è sostanzialmente riassumibile in tre posizioni: 1) sono veri fratelli carnali di Gesù, nati da Giuseppe e Maria; 2) sono figli di Giuseppe, che gli sono nati da un precedente matrimonio e, quindi, più che fratelli o sorelle si dovrebbe parlare di fratellastri e sorellastre; 3) si tratta non di fratelli o sorelle in senso stretto, ma di parenti di Gesù. Il termine ebraico ‘ah, infatti, estende il suo significato ben oltre a quello di fratello carnale, abbracciando l’intera parentela. In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, nota 2 di pag.297, op. cit. La questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù è una questione tutta interna alla Chiesa cattolica, a motivo del dogma sulla verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Circa i sopra menzionati punti 2) e 3) non c’è nulla che li sostenga in modo serio. Infatti, quanto ai figli di Giuseppe, ereditati da Maria e da Gesù, ne parla il Protovangelo di Giacomo, un apocrifo del II sec. Una soluzione questa che troverà numerosi sostenitori nel mondo dell’antica patristica greca e siriaca, ma scarsa risonanza in quella latina. Una soluzione questa che S.Girolamo squalifica come “espressione delirante degli apocrifi”. Da parte sua il Padre della Chiesa suggerisce, invece, un’altra soluzione: egli si rifà all’ebraico ‘ah il cui significato, come abbiamo visto sopra, ha un senso più ampio del semplice fratello carnale, estendendosi, a motivo della povertà linguistica dell’ebraico, anche alla parentela. Tuttavia va precisato che, nonostante i nomi ¢delfÒj/¢delf» (adelfós/adelfé) che ricorrono circa 833 nell’A.T., vengano estesi talvolta anche alla parentela, questi, di fatto, sono usati quasi sempre per indicare i fratelli/sorelle di tipo carnale o in senso metaforico; soltanto poche volte assumono anche il significato esteso di parente. Questa soluzione, tuttavia, è ancor oggi il cavallo di battaglia del mondo cattolico. Sennonché i vangeli e gli scritti neotestamentari in genere sono stati stesi in lingua greca e non in quella ebraica. Questa, la lingua greca, possiede una vastissima gamma di termini per indicare i vari gradi di parentela (i termini da me rilevati sono 21), per cui gli autori avrebbero potuto ricorrere tranquillamente al ricco vocabolario greco, che definisce la parentela in tutte le sue sfumature. Va poi sottolineato come gli autori neotestamentari dimostrino di saper distinguere i fratelli o le sorelle dai parenti o dalla parentela, per i quali usano il termine appropriato di “suggen…j” (singhenís, parente) o “suggene…a” (singheneía, parentela), termine questo che ricorre 16 volte negli scritti neotestamentari. Luca, inoltre, sa accostare e distinguere i fratelli dai parenti, usando termini greci appropriati per l’una e per l’altra categoria (Lc 14,12; 21,16). Da ultimo, va detto che il termine fratello e sorella ricorre nel N.T. circa 334 volte ed è sempre usato o in senso proprio di fratello e sorella carnali o in senso metaforico di correligionario, appartenente alla stessa fede, o di connazionale. Non si capisce, quindi, perché gli evangelisti, parlando di fratelli o sorelle di Gesù, avrebbero dovuto intenderli nel senso di cugini o parenti in senso lato, quando per questi termini avevano a disposizione un’ampia scelta di vocaboli, che, all’occorrenza, hanno sempre usato in modo appropriato. Lo stesso Paolo parla in senso generale di “fratelli del Signore” (1Cor 9,5) e di “Giacomo, fratello del Signore” (Gal 1,19). Del resto, lo stesso Tertulliano, nell’ambito della difesa dell’umanità di Gesù, nel commentare il passo evangelico della madre e dei fratelli di Gesù venuti a trovarlo (Mt 12,46-50), parla apertamente in Adversus Marcionem 4,19 di vera madre e di veri fratelli di Gesù (“et vere mater et frates eius”).
Qui non si vuole sostenere una tesi piuttosto che un’altra, né prendere una posizione contro qualcuno o contro qualcosa, ma si vuol rilevare, necessariamente in modo sintetico, soltanto i dati che ci provengono da un’analisi degli Scritti neotestamentari. Sul tema ci sentiamo di poter condividere pienamente la tesi del Barbaglio. Questi, al termine della sua riflessione circa la questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù, afferma: “In conclusione, condivido quanto scrisse molti anni or sono M. Goguel: <<Per la storia non esiste affatto il problema dei fratelli di Gesù: esiste solo per la dogmatica cattolica>> (La Vie de Jésus, Paris 1932, 243). I due piani devono essere tenuti rigorosamente separati: il dato storico assai probabile, per non dire certo, dei fratelli uterini di Gesù non ha alcuna legittimità di proporsi come eversore di un dogma di fede; […]. Da parte sua la credenza di fede non può ergersi a giudice inappellabile in una questione storica”. (Cfr. G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea – Indagine storica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2005).

13La Lettera agli Efesini affronterà da un punto di vista cristologico la questione, affermando che nel sangue di Cristo ogni barriera, cioè la Legge mosaica con tutte le sue prescrizioni, era stata distrutta e quindi superata, formando così un uomo nuovo, una nuova realtà in Cristo (Ef 2,11-17).

14Barnaba è il soprannome di Giuseppe, originario di una famiglia sacerdotale giudaica, proveniente da Cipro (At 4,36). Fu una figura di missionario eminente all'interno della chiesa primitiva e molto attivo in essa. Egli fu rappresentante degli apostoli presso la chiesa etnocristiana di Antiochia (At 11,22) e fu lui che, preso Paolo da Tarso, lo condusse nella chiesa di Antiochia (At 11,25) e fu sempre lui che lo sponsorizzò presso la chiesa di Gerusalemme, convincendola della sincerità della conversione di Paolo (At 9,26-28), così che Paolo venne accettato senza più timori. Questi era cugino di Giovanni Marco (Col 4,10), che Paolo non volle più con sé dopo che questi lo abbandonò in uno dei suoi viaggi missionari. Il rifiuto di Paolo provocò una lite tra lui e Barnaba, che invece voleva dare ancora fiducia al proprio cugino. Così anche Barnaba abbandonò Paolo e continuò la sua missione per conto proprio (At 11,35-40). Luca lo descrive come un uomo virtuoso e pieno di Spirito Santo (At 11,24).

15In At 15,1-41, il capitolo che riguarda il concilio di Gerusalemme, qui ricordato da Paolo in 2,1-10, si parla di Paolo e Barnaba, che vengono inviati a Gerusalemme per dirimere la questione della circoncisione per gli etnocristiani, ma non si parla mai di Tito, qui invece citato da Paolo. Tuttavia in At 15,2b Luca racconta che “fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro andassero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione”. Quindi in quel “alcuni altri” si può pensare che fosse incluso anche Tito. Non vi è dunque contraddizione. Qui Paolo, in 2,3, lo cita esplicitamente soltanto per evidenziarne la presenza provocatoria in mezzo all'assemblea plenaria di una chiesa giudeocristiana qual'era la chiesa-madre di Gerusalemme, in quanto che Tito era greco e non circonciso, dimostrando così che neanche la chiesa-madre di Gerusalemme non si era scandalizzata per questo e non aveva imposto la circoncisione a Tito. La citazione di Tito da parte di Paolo serve, dunque, a Paolo per sostenere la sua tesi, cioè che anche la chiesa-madre di Gerusalemme era d'accordo sulla non circoncisione degli etnocristiani.

16Ho definito la chiesa-madre di Gerusalemme come “giudaizzante” sia perché il racconto dell'ipocrisia di Pietro ad Antiochia (2,11-14) testimonia come ancora presso tale chiesa vigesse la regola giudaica del non sedersi a mensa con i pagani, ritenuti impuri; e sia per le regole che Giacomo, al termine dell'assemblea plenaria di Gerusalemme, ha consegnato a Paolo, perché venissero osservate anche presso gli etnocristiani. Regole che riguardavano al purità giudaica (At 15,19-21).

17Sulla questione della colletta vedasi sopra, pagg 11-12 del presente studio.

18Antiochia di Siria ai tempi di Paolo fu una metropoli che contava all'incirca 300.000 abitanti e fu un punto d'incontro di culture eterogenee e razze diverse. Il cristianesimo qui vi fu importato all'epoca del martirio di Stefano (circa 34 d.C.), a seguito della concomitante persecuzione. Diffusosi rapidamente, la chiesa di Gerusalemme inviò ad Antiochia Barnaba, dove svolse il suo ministero di coordinamento di questa chiesa nascente, dapprima da solo e successivamente con Paolo (At 11,25). Assieme fecero della città il centro di un cristianesimo che accoglieva chiunque credesse in Cristo, indipendentemente dalla sua provenienza, giudeo o pagano che fosse, e, quindi, fu una chiesa favorevole all'etnocristianesimo. Paolo ne fece non solo la sede della sua dimora, ma anche la sede logistica dei suoi viaggi missionari, supportato dai credenti di Antiochia, la quale ebbe, durante l'impero romano, una grande importanza per il cristianesimo nella Chiesa primitiva. Qui, per la prima volta, i discepoli di Gesù vennero chiamati cristiani(At 11,26). Ed è in questo contesto di un cristianesimo aperto e accogliente chiunque credesse in Cristo, che si verificò lo spiacevole episodio di Pietro.

19Il nome Cefa ricorre quattro volte in 1Cor 1,12; 3,22; 9,5; 15,5. E altre quattro volte in Gal 1,18; 2,9.11.14.

20Cfr. anche Mt 26,63-66; Mc 14,60-6; Lc 22,66-71

21Dai racconti dei vangeli, gli autori lasciano sovente intuire come farisei e scribi, che Luca definisce come dottori della Legge, si siano fatti seguaci di Gesù. In tal senso cfr. Mt 8,19; 13,52; Mc 12,28-34; Lc 23,50-53; Gv 19,38-40

22Cfr. Mt 10,16-22; 24,9; Mc 4,17; 13,9.12-13; Lc 12,11.52-53; 21,16-17; Gv 9,22; 12,42; 16,2

23Il termine “benedizione” ha il suo corrispondente ebraico in berakah, che, a sua volta, deriva da “berek”, che significa “ginocchia”, un eufemismo che allude agli organi genitali, preposti alla generazione della vita.

24Il termine “peccatore” in greco è reso da Paolo con “¡martwlÒj” (amartolós), che deriva dal verbo “¡mart£nw”, che significa “deviare, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, da ciò che è giusto, fallire”.

25La traduzione è mia ed è stata tratta dal testo grego di Nestle-Aland, Novum Testamentum, Graece et Latine, 27^ edizione,

26Cfr. Mt 26,63-66; Mc 14,60-64; Lc 22,67-71; Gv 19,7

27Il contesto scritturistico completo in cui è inserito Dt 21,23c è il seguente: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità”. Dt 21,23, tuttavia, non fa riferimento alla crocifissione, poiché tale esecuzione capitale non era in uso presso gli ebrei, bensì la lapidazione. Talvolta, però, per accentuarne la pena a monito di tutti, il cadavere del lapidato veniva appeso ad un legno fino al tramonto e non oltre, poiché “l'appeso è una maledizione di Dio”.

28Il termine greco “diaq»kh” (diatzéke) ha molteplici significati come disposizione, ordinamento, disposizione testamentaria, testamento, accordo, patto, alleanza.

29Il verbo “prosetšqh” (prosetétze) ha tra gli altri diversi significati anche quello di “imporre”, che comunque non sembra stonare, considerando come poi il contesto di 3,23-25 parla di custodia, di rinchiudere (3,23) e di pedagogo (3,24), che nel mondo greco-romano altro non era che un servo, preposto alla custodia fisica del minore, custodia che sovente era alquanto dura e severa nella sua conduzione, non escluse le pene corporali.

30Paolo qui si rifà ad una comune credenza affermatasi nel N.T. e formatasi attorno a Dt 33,2. Attestazioni in tal senso si hanno nel N.T. in At 7,53 ed Eb 2,2

31Cfr. Is 61,4; 59,17; Zc 3,4; Sal 93,1.

32Cfr. 1Ts 5,8; 1Cor 15,53-54; 2Cor 5,3; Rm 13,12.14; Ef 4,24; 6,11.14

33Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

34Cfr. Sal 9,12; 95,10; 104,1; Is 12,4; 61,9; 1Cr 16,4; Tb 12,6;

35Cfr. Gal 4,3.9; Col 2,8.20

36L'avvento del monoteismo come fenomeno religioso non fu immediato, ma ha subito un percorso lungo secoli, passando da un iniziale politeismo, comune all'intera umanità, ad un successivo enoteismo, cioè il far prevalere un dio su altri dei. In genere era il dio del padre o dei padri, per giungere infine al monoteismo. Tracce di questo lungo passaggio le troviamo in Es 20,2-5 dove Dio si presenta come l'unico su tutti gli altri dei e dichiara di esserne geloso. Quindi non si esclude l'esistenza di questi dei, come farà esplicitamente Paolo in 1Cor 8,4, ma se ne impedisce soltanto il culto e Dio se ne dichiara geloso.

37Cfr. la voce “Elementi del mondo” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne, R.P. Martin, D.G. Reid, edizione italiana a cura di Romano Penna, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999

38Cfr. Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23

39Una nota va riservata su quel “nuovamente”, che allude alla precedente condizione di “schiavitù degli elementi del mondo” (4,3.8), cioè la condizione di pagani. I Galati, infatti non provengono dal giudaismo, bensì dal paganesimo, che, alla pari del giudaismo, è una forma di schiavitù (4,1-3.8-11). I Galati, pertanto, dalla schiavitù del paganesimo sono passati ora nuovamente ad un'altra schiavitù, quella del giudaismo.

40Il riferimento di Mt 15,9 e Mc 7,7 è alla Torah orale, cioè a quella ridda di norme interpretative della Torah scritta, che si è cumulata nei secoli e che, di fatto, si è sostituita lentamente alla Torah scritta (Mt 15,6; Mc 7,13).

41Cfr. Gal 2,2b; 1Cor 9,24.27; Fil 2,16; 3,12.4; 2Tm 4,7. Altrove con riferimento a Paolo, cfr. At 20,24; e similmente in Eb 12,1

42La traduzione di Dt 23,2 è mia ed è stata tratta da testo greco della Settanta (OÙk e„seleÚsetai qlad…aj kaˆ ¢pokekommšnoj e„j ™kklhs…an kur…ou, Uk eseleúsetai tzladías kaì apokekomménos eis ekklesían kiríu)

43Cfr. Rm 8,3; Fil 2,6-8; 2Cor 8,9; Ef 4,32

44Secondo l'uso del suo tempo, considerata la laboriosità dello scrivere in quei tempi, tanto che si era inventata la professione dello scriba, cioè il professionista della scrittura, anche Paolo si serviva di un suo “segretario” come appare in Rm 16,22. Egli raramente scriveva le Lettere o interveniva soltanto nelle parti finali nei saluti come in 1Cor 16,21

45Cfr. Gen 6,5-7.11-13; Rm 8,19-23

46Il termine “Amen” deriva dalla radice ebraica “ 'mn”, che ha il senso di fermezza, solidità, sicurezza che viene imposto su ciò per cui si pronuncia l'Amen. Non è, quindi, un semplice augurio che “così sia”, ma una sorta di giuramento, che imprime la veridicità su ciò su cui si pronuncia, dandole solennità. - Cfr. il vocabolo “Amen” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997- Nuova edizione rivista e integrata 2005.