INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

 

 (Sunto e riflessioni sulle dispense dell'insegnante)

 

 

 

 

 

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L’origine della Bibbia

 

 

Il termine Bibbia deriva dal greco biblioi che significa “Libri”. Essa, infatti, è un insieme di libri che raccolgono e raccontano l’esperienza di Dio fatta da Israele, dapprima vissuta, poi tramandata oralmente e, infine, messa per iscritto con il linguaggio e la cultura propria del contesto in cui è sorta.

 

 

La Bibbia nasce dall’esperienza di Dio

 

 

L’esperienza di Dio nasce da un incontro tra Dio e l’uomo nell’ambito della storia. Essa ha la sua origine nella libera iniziativa di Dio che, per mezzo di parole ed eventi, si autocomunica e si autorivela all’uomo.

 

Dio parla, dunque, per farsi capire e cogliere dall’uomo, un linguaggio storico fatto di eventi e parole intimamente connessi.

 

È evidente che il presupposto per realizzare questo incontro con Dio e renderlo proficuo è la disponibilità dell’uomo ad ascoltare e ad accogliere questo Dio che, per mezzo della storia e con un linguaggio storico, gli si autorivela.

 

Da qui l’esperienza di Dio.

 

Questa esperienza si attua storicamente attraverso le ierofanie e i Profeti che aiutano a comprendere l’accadere degli eventi e a leggere, quindi, la storia in senso teologico.

 

Due, dunque, sono gli attori della rivelazione: Dio, che liberamente si autocomunica all’uomo con un linguaggio che gli è proprio e a lui comprensibile; e l’uomo che si apre a Dio e gli si rende disponibile. Il tutto nel teatro della storia.

 

 

I tempi e le tappe della storia

 

 

Ecco, dunque, sinteticamente i tempi e le tappe della storia di Israele entro i quali Israele ha saputo cogliere la presenza di un Dio che lo interpellava:

 

- 1800            : è il tempo dei Patriarchi in cui Dio è colto e presentato come il “dio del clan”.

- 1650/1250    : è il tempo in cui Israele cresce e si sviluppa all’interno dell’Egitto e ne rimane schiavo ed oppresso.

- 1200            : è il tempo in cui Israele, dopo una peregrinazione di quarant’anni nel deserto entra

                       nella Terra Promessa e inizia una nuova epoca: quella della vita sedentaria.

- 1030            : è l’anno in cui inizia la monarchia con il re Saul.

-   933            : morte di Salomone e divisione di Israele in Regno del Nord o Regno di Israele e

                         Regno del Sud.

-   722            : Distruzione del Regno del Nord da parte di Tiglat Pilezer III, re degli Assiri.

- 597 / 538     : è il tempo dell’esilio in Babilonia del Regno del Sud o di Giuda.

- 520 / 515     : Ricostruzione del Tempio di Gerusalemme.

- 167 / 164     : Periodo ellenistico, persecuzione di Antioco IV Epifanie e lotta maccabaica.

 

Nell’ambito di questa storia, così scandita, Dio si rivela in vari modi all’uomo che, educato da Dio stesso per mezzo dell’esperienza del deserto e successivamente per mezzo dei Profeti, riesce a coglierlo nella storia e sviluppa varie comprensioni di Dio passando da una fase iniziale di  politeismo ad una successiva di enoteismo e, infine, al monoteismo. Un percorso storico, dunque, attraverso il quale Israele matura un graduale e sempre più profondo rapporto con Dio, sviluppando a livelli sempre più alti la sua spiritualità.

 

 

La Rivelazione come storia ed esperienza

 

 

Il farsi della rivelazione, dunque, si attua nella storia attraverso parole ed eventi strettamente connessi, una storia che, nell’ambito di quest’ottica, non è una semplice cornice della rivelazione, ma ne diviene uno strumento e sacramento di incontro tra Dio e l’uomo.

 

La Rivelazione, dunque, quale autocomunicazione di Dio all’uomo, che lo accoglie, si attua nella storia e ha una natura squisitamente relazionale. Essa si sviluppa nella storia e si esprime per mezzo della stessa e trova la sua massima espressione nell’incarnazione di Gesù.

 

Tale esperienza di Dio è possibile solo se ci si apre a Lui, donandogli fiducia, e lo si accoglie nella propria vita.

 

 

L’esperienza di Dio che si fa memoria

 

 

Nella storia, che si fa evento, l’uomo esperimenta il suo rapporto con Dio e tale esperienza viene cristallizzata nella Tradizione orale, trasmessa lungo i secoli alle generazioni future; in tal modo essa si fa memoria, cioè sottratta all’oblio, e viene rivissuta per mezzo della celebrazione dei culti e delle liturgie e si fissa negli scritti.

 

Lo scritto sacro, quindi, altro non è che la sedimentazione di questa esperienza di Dio rimasta sempre viva nel popolo d’Israele come nella comunità cristiana. Di queste esperienze se ne fa memoria nel culto e nella liturgia e per mezzo di queste, ancora una volta da noi rivissute.

 

Pertanto, il processo di sedimentazione di questi eventi e parole nella Bibbia è il seguente:

 

-    Esperienza di eventi in cui si intuisce e si coglie il trascendente;

-   Si raccoglie tali esperienze in racconti orali, costituendo attorno ad essi culti e riti liturgici il cui fine è riattualizzarli;

-   Infine, li si fissa in scritti e li si tramanda.

 

 

Il valore specifico della Bibbia

 

 

La Bibbia si pone in mezzo agli uomini con un suo valore specifico: quello di essere il libro di Dio per gli uomini, in quanto essa raccoglie l’esperienza di Dio fatta da un popolo, che pur dialogando con quel popolo si apre all’intera umanità e ad essa si propone.

 

Da questo Libro traspare anche una volontà salvifica persistente e tenace: vediamo, infatti, un Dio che ripetutamente nel corso della storia fa alleanza con l’uomo per mezzo di Adamo, Abramo, Noé, Mosè e, infine, Gesù Cristo.

 

Questa persistente volontà salvifica, rivolta all’intera umanità, non è pensabile che rimanga impermeabilmente sigillata nella Chiesa o nella Bibbia, ma trascendendone i limitati confini storici, si apre sotto forme e modi a Dio conosciuti, all’intera umanità.

 

La Chiesa stessa, infatti, nella GS al paragrafo 22 afferma che l’uomo che, aderendo onestamente e correttamente ai dettami della propria religione, può raggiungere validamente la salvezza. Infatti, Dio nella sua infinita misericordia e provvidenza, racchiude in ogni religione dei frammenti di verità, così che l’uomo, incontrandoli, incontri Dio stesso che in quei frammenti di verità si lascia cogliere dall’uomo e lo invita ad una adesione totale a Lui. Del resto negli Atti Pietro afferma, rivolto ai presenti: “In verità, mi sto rendendo conto che Dio non fa preferenza di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At. 10,34-35).

 

Un altro fatto significativo, poi, è quello in cui lo Spirito Santo opera autonomamente sui pagani lì presenti, per il solo ascolto della Parola, dando a vedere che Dio non ha bisogno di strutture o di permessi per operare, ma dona la salvezza tutti coloro che sono disponibili ad accoglierlo (At. 10,44-48).

 

 

Il metodo di approccio alla Bibbia

 

 

Stabilito che la Bibbia è una sedimentazione letteraria dell’esperienza storico-salvifica di Dio, va ora definito il metodo di approccio che non può essere né  quello scientifico, usato per le scienze; né quello storico, chiamato a definire storicamente i fatti.

 

Infatti, la Bibbia, pur essendo una raccolta ed esposizione di fatti storici ( e per questo aspetto può anche essere sottoposta al metodo storico), tuttavia essa si presenta come un libro di “Eventi storici”, cioè di fatti che racchiudono in sé un senso e un valore profondo, che il metodo storico e scientifico non possono cogliere, ma che, invece, colgono coloro che li hanno sperimentati e vissuti; e di ciò ne danno testimonianza che chiede solo di essere accolta e creduta.

 

La Bibbia, infatti, è essenzialmente un libro di fede che parla e si disvela ai soli credenti.

 

 

Il farsi dell’Antico Testamento

 

 

Nell’AT spese volte si legge che “Dio ha parlato”. Con tale espressione Israele non vuole dire di aver fisicamente udito la voce di Dio che gli ha parlato, ma soltanto di averne fatto esperienza nella storia, letta e interpretata in senso teologico.

 

Infatti, per i semiti “Dabar Jahwh” non significa soltanto “Parola di Dio”, ma anche “Azione di Dio”. La parola per loro ha un significato concreto che fa quello che dice, come si legge nella creazione: “ Dio disse … e cos’ fu”, esprimendo in tal modo tutta la concretezza e la potenza della Parola di Dio. E ancora, nella lettera agli Ebrei al cap. 4 si legge che “… la Parola è viva ed efficace…” cioè opera quello che dice. La parola per i semiti non è mai sentita e concepita disgiunta dall’azione.

 

Giustamente, quindi, la Storia della salvezza è intesa come uno sviluppo di eventi e parole intimamente connessi.

 

Logoj e Dabar hanno un significato totalmente diverso: l’uno è veicolo di idee, l’altro di azioni.

 

Quindi, quando la Bibbia afferma “Dio ha detto”, va inteso come l’evento che si compie in una azione storica; e quando si parla di evento si parla sempre di un fatto storico il cui significato ci è detto dalla Parola che lo compie.

 

 

La parola tramandata

 

 

L’esperienza che Israele fa di Dio per mezzo della parola-azione non viene persa nell’oblio, ma conservata nella memoria che si attua nei racconti, riti, culti e il tutto è affidato alla Tradizione che si fa carico di farla scorrere lungo i secoli, di generazione in generazione; e ciò senza che essa venga in qualche modo corrotta e ciò per l’alta concezione che Israele aveva dell’eredità spirituale e culturale che i Padri gli avevano affidato; sia anche per la rigorosa capacità di autocritica che non consentiva in alcun modo che i secoli la impolverassero.

 

Era, quindi, una memoria sempre viva perché proprio su di essa Israele aveva fondato e scommesso la propria vita.

 

 

Dalla Parola di Dio al “Libro di Dio”

 

 

La lunga tradizione raccolta in racconti e celebrata nel culto e resa viva nella liturgia, trova il suo approdo scritto intorno al X sec. a.C. per il Regno del Sud e il IX sec. per quello del Nord.

 

Due furono, dunque, i modi di trasmettere la Tradizione: uno orale e uno scritto. Entrambe furono fondate e accompagnate da uomini dotati di un profondo senso della Tradizione e della Parola di Dio.

 

Attorno a queste Scritture si sviluppa un sacro rispetto in Israele in quanto portatrici di una Parola viva. Esse, pertanto, diventano norma di vita, davanti alle quali ci si pone con una mentalità di fede.

 

 

Gesù Cristo compimento della Rivelazione

 

 

Quella Rivelazione incominciata con la creazione e proseguita con Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, il popolo, i profeti, trova la sua piena ed ultima attuazione in Cristo, così come prospettato dalla lettera agli Ebrei: “Dio che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del suo Figlio” (Eb. 1,1-2). E ancora, poi, nella parabola dei vignaioli omicidi: “… da ultimo inviò suo Figlio”. Da ciò si deduce come Cristo sia l’ultimo profeta, quello escatologico e, in quanto tale, esso è la pienezza della Rivelazione in cui Dio è totalmente rivelato: “Chi vede me vede il Padre” e ancora “Io e il padre siamo una cosa sola”.

 

In quanto pienezza della Rivelazione si pone anche come compimento della stesa. Sarà, infatti, Gesù stesso che rivolto ai due discepoli di Emmaus spiegherà se stesso ricorrendo alle Scritture, ammettendo implicitamente che l’AT era finalizzato al NT e qui già contenuto in nuce.

 

Gesù, pertanto, non si oppone all’AT, ma ne spiega il senso cristocentrico, quale tempo di preparazione al NT. Infatti Gesù stesso afferma di non essere venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento cioè pienezza, nel senso che lui, la sua persona era il compimento. Quindi, l’AT trova la sua completezza nel NT.

 

 

Il farsi del Nuovo Testamento

 

 

Come per l’AT, così anche per il NT si è passati, quanto alla formazione dei Vangeli, dalla tradizione orale a quella scritta attraverso tre fasi:

 

-          Esperienza del cristo morto e risorto;

-          Ricomprensione della sua figura e del suo messaggio alla luce della risurrezione;

-          Annuncio kerigmatico, predicazione itinerante, catechesi, culto, liturgia costituiscono la tradizione orale;

-          Apparizione dei primi scritti di tipo redazionale con una elaborazione teologica degli evangelisti e adattamento di materiale secondo i loro intenti e finalizzati alla comunità di destinazione.

 

Tali testi, che colmano la distanza tra gli apostoli e le comunità future, sono accolti all’interno delle comunità come Parola viva di Dio, che viene celebrata e attuata nella liturgia e tenuta altamente in considerazione presso le comunità. Infatti, nella 2Pt viene affermato che “Non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono quegli uomini” (2 Pt. 1,21)

 

La Tradizione apostolica recepita dai Padri e riflessa nei due passi di 2 Pt. 1,21 e 2 Tm, 3,16 in cui si legge che “… che tutta la Scrittura è ispirata da Dio” e che “…non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono quegli uomini”, parla apertamente, riguardo a quegli scritti, che Dio è l’autore principale delle Scritture in quanto le ha ispirate; mentre gli agiografi sono considerati strumenti nelle mani di Dio.

Questo, dunque, è l’atteggiamento e la comprensione della Chiesa primitiva nei confronti delle Scritture che sono tenute per questo in massima considerazione nelle comunità, quale presenza di Dio stesso in mezzo al suo popolo.

 

 

 

Alcune riflessioni sulla natura dell’ispirazione

 

 

 

Il contributo di S.Tommaso

 

 

Sulla logica della causa principale e strumentale, S.Tommaso arriva a concludere ciò che poi sarà ripetutamente ripreso dalla Chiesa:

 

-          Autore principale della Scrittura è lo Spirito santo;

-          L’uomo è solo l’autore strumentale.

 

Ciò significa che Dio, in quanto autore, è l’origine e la fonte della Rivelazione, mentre l’uomo compie un’azione strumentale, nel senso che, interiormente illuminato dallo Spirito, esprime con la cultura e con il linguaggio che gli sono propri la Rivelazione.

 

 

Il contributo di alcuni teologi

 

 

Dal XVI sec. in poi si incominciò prestare maggiore attenzione al tema dell’ispirazione, talvolta sottolineando eccessivamente l’azione di Dio, interpretandola quasi una dettatura; talvolta esaltando l’impegno dell’uomo a cui Dio quasi si accodava, limitando la sua opera ad una sorta di convalida ex postea.

 

 

La riflessione teologica e il magistero recenti

 

 

Providentissimus Deus” di Leone XIII (1893) è il documento più elaborato sul tema dell’ispirazione, anche se risente del momento storico, siamo nel XIX sec., in cui, sull’onda lunga dell’Illuminismo, si era sviluppata una forte critica ai testi sacri. Pertanto, nella dinamica dell’ispirazione, l’ispirazione di Dio viene particolarmente caricata al punto che quella dell’uomo, pur salvaguardato, passa in second’ordine.

 

Divino Affilante Spiritu” di Pio XII (1943), contrariamente alla Providentissimus Deus, qui viene evidenziata l’azione dell’agiografo che, pur mosso dallo Spirito, sa esprimere la rivelazione con contenuti culturali e linguistici propri.

 

Dei Verbum”, costituzione dogmatica sulla Rivelazione, elaborata dal Conc. Vat. II, sintetizza le due precedenti posizioni affermando che tutta la Bibbia è il messaggio di Dio espresso con linguaggio umano.

 

Karl Rahner afferma, con buona intuizione, che sia Dio che l’uomo sono autori della Bibbia, ognuno per le proprie competenze: Dio è autore dei Libri per ciò che concerne la norma di fede; mentre l’uomo è autore per quanto riguarda l’aspetto culturale e letterario che, ovviamente, rispecchia il contesto storico-culturale proprio dell’agiografo.

Espresso in termini filosofici, si potrebbe dire che Dio è autore della sostanza, l’uomo della forma.

 

Secondo Alonso Schokel partendo dall’analisi della nascita di un’opera letteraria si può capire la dinamica dell’ispirazione e come essa opera. Egli distingue tre momenti:

 

-          Raccolta di materiali che comporranno l’opera; in questa fase non necessariamente opera l’ispirazione.

-          L’intuizione è ciò che anima e fa lievitare i materiali; ciò avviene sotto l’impulso dello Spirito.

-          L’esecuzione dell’opera, infine, dà corpo, sotto forma storico-culturale, all’intuizione. È questo un momento creativo che si compie sotto l’azione dello Spirito.

 

  

La Bibbia per noi: realtà salvifica

 

 

Vi fu un tempo (XV sec.) in cui si penso alla Bibbia come ad un libro di verità assoluta, cioè che affermava il vero senza ombra di errore su tutto ciò che è il sapere umano: geografia, astronomia, storia dell’Antico Oriente, ecc. finché nel XIX sec. l’uomo sviluppò, sotto l’impulso dell’Illuminismo e dell’esaltazione della ragione, un forte senso critico, costringendo la Chiesa a rivedere il modo di approccio delle Scritture.

 

Dapprima la Chiesa cercò di adattare le affermazioni delle Scritture alle conclusioni della scienza; poi, cercando attraverso ricerche storiche e scoperte archeologiche la conferma che la Bibbia aveva ragione. In tal senso nel 1959 uscì un libro di Werner Keller dal titolo emblematico “La Bibbia aveva ragione”.

 

Ci volle, tuttavia, l’intervento del Vaticano II con la Dei Verbum per definire, una volta per tutte, che la verità della Bibbia non è di ordine storico o scientifico bensì essa è in ordine alla Salvezza dell’uomo.

 

Quindi le Scritture non devono giudicare sul piano dell’esattezza storica o scientifica, bensì sul piano della verità salvifica. In tal senso la DV al par.11 afferma che “…i libri della Scrittura insegnano pienamente, fedelmente e senza errore la verità di Dio in ordine alla salvezza”.

È questa verità, dunque, che va cercata e non tutte le altre verità inerenti al sapere dell’uomo.

 

 

Il problema della storicità della Bibbia: un libro che guarda alla santità dell’uomo

 

 

È indubbio, comunque, che la Bibbia racchiude in sé la storia di un popolo che si situa concretamente nell’ambito della storia e interferisce con la storia e la cultura di altri popoli. Quindi, la Bibbia non racconta dei miti, ma fa della storia, in cui troviamo un altro popolo, storicamente ben situato e che si muove in mezzo ad altri popoli, ma che, contrariamente a questi, scopre che in questa storia c’è la presenza di un Dio che lo interpella e stabilisce con lui un dialogo che si esprime con il linguaggio della storia: fatti, avvenimenti, personaggi, luoghi, ecc.; per cui tutta questa storia diventa per questo popolo un “Evento” di salvezza.

 

Israele, educato da questo Dio, impara a leggere la storia in senso teologico, cioè a scoprire in essa un Dio che opera e che lo chiama al dialogo. Quindi, Israele è chiamato a porsi davanti alla storia e a interpretarla perché questa storia da Fatto si traduca in Evento.

 

Nell’ambito di questa storia Dio si affianca a Israele, cammina con lui e lo segue nella sua evoluzione spirituale, conducendolo progressivamente e gradualmente ad una sempre maggiore comprensione del suo progetto di salvezza: ricondurre l’uomo alla sua santità iniziale.

 

 

La Bibbia offre la forza della Parola di Dio a chi crede

 

 

Nella Bibbia è racchiusa la storia di un Dio che, attraverso la storia di un popolo, cammina nella storia degli uomini. Tale storia è raccontata nella Bibbia per mezzo della parola, recepita quale parola di Dio che racchiude in sé la verità salvifica e la forza dello Spirito per coloro che credono.

Essa è una parola viva ed efficace (Eb, 4,12) ed è potenza di Dio per coloro che credono (Rm. 1,16). È questo il giusto modo di approcciare la Bibbia perché essa produca in noi la salvezza in essa contenuta.


 

Un libro che è stato canonizzato

 

 

Canone, dal greco kanon, significa regola, con riferimento a “regola di fede”. Quindi i libri canonici sono quelli conformi alla dottrina della fede.

 

La questione della canonicità delle scritture sorse per la chiesa primitiva nel II sec. e vediamo come già verso la fine di questo esistessero degli elenchi di libri a cui la Chiesa faceva riferimento per le proprie liturgie e per la propria vita. Ne è testimonianza il Codice Muratoriano, scoperto presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano da un certo Muratori. Esso è di origine romana ed è scritto in latino.

 

La necessità di creare all’interno della Chiesa degli elenchi ufficiali di libri fu dettato, da una lato, dalla consistente produzione letteraria che si stava diffondendo presso le comunità e, da qui, la necessità di mettervi un ordine; dall’altra, per evitare che si diffondessero scritti difformi dalla retta dottrina e dessero, quindi, garanzia di apostolicità.

 

A tale formazione contribuì, quale elemento di spinta esterna, il diffuso Marcionismo che, negando la continuità tra AT e NT, aveva epurato tutti quegli scritti neotestamentari che in qualche modo rivelavano in se stessi un certo influsso veterotestamentario.

 

Per quanto riguarda le Scritture ebraiche, esse vennero accolte all’interno della Chiesa con il nome di AT e ciò non solo perché Gesù vi fece più volte riferimento, ma anche perché egli usò proprio le Scritture ebraiche per definire la sua figura (Lc. 24,27) e dichiarò di esserne il compimento.

 

Inoltre, i discepoli le rilessero e le ricompresero in chiave cristologica dopo la risurrezione di Gesù.

 

I criteri fondamentali che orientarono la Chiesa primitiva nella cernita degli scritti neotestamentari furono essenzialmente tre:

 

-          L’Autorità apostolica, in quanto libri scritti dagli apostoli o dai loro stretti collaboratori. Tale aspetto rivelerà la sua fragilità quando ci ritroverà di fronte a scritti la cui paternità apostolica era discussa.

-          L’ortodossia degli scritti, in quanto conformi alla regola della fede.

-          La cattolicità degli scritti, in quanto riconosciuti dalla maggior parte delle Chiese.

 

La Chiesa cattolica, che in conformità alla Tradizione accoglie come ufficiale la traduzione dei LXX,  riconosce nella Bibbia 73 libri, di cui 46 appartenenti all’AT e 27 al NT.

 

Gli Ebrei riconoscono come canonici 22 libri, cifra che risulta da un raggruppamento di libri.

I Protestanti per quanto riguarda l’AT seguono il canone ebraico, mentre per il NT seguono quello cattolico.

 

 

 

PENTATEUCO E LIBRI STORICI

 

 

 

 

La formazione letteraria dell'A.T.

 

 

La Bibbia è il punto di arrivo di un lungo cammino storico in cui si è lentamente e gradualmente formata l'esperienza di un Dio colto nella storia. Si tratta, dunque, di un'esperienza storica riflettuta e interpretata. Tale esperienza, divenuta significativa per l'uomo, dapprima fu tramandata in forma orale e successivamente in forma scritta.

 

Tale esperienza, tuttavia, nel momento della redazione non fu semplicemente e fisicamente trasferita nello scritto, ma venne anche elaborata secondo criteri teologici propri del redattore e il tutto finalizzato alle comunità credenti di Israele.

 

E', pertanto, necessario entrare nel mondo storico, culturale e sociale di chi non solo ha vissuto questa esperienza del divino, ma l'ha anche, poi, rielaborata per iscritto per coglierne il senso e il significato più veri e profondi in essa contenuti.

 

 

LA  TORAH

 

 

 

La prima parte della Bibbia è denominata, secondo la tradizione ebraica, Torah; mentre per la tradizione dei Settanta Pentateuco.

 

Essa abbraccia cinque libri: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri e Deuteronomio.

 

La questione sulla loro formazione è tuttora aperta. In passato ci si era posti il problema dell'autore che la tradizione faceva risalire a Mosè. Si trattava della questione mosaica sorta ancora nel XV° sec. d.C. II problema si pose proprio perché il materiale, di cui è composto il Pentateuco, è di epoca recente (VI°-V° sec. a.C.) e, pertanto, non attribuibile a Mosè, la cui figura, invece, risale al XIII° sec. a.C.

 

In un momento successivo, nel XVIII° sec. d.C., a seguito di un'analisi letteraria e critica più attenta, si incominciò a rilevare nel Pentateuco un doppio uso del nome di Dio oltre che doppioni di racconti, differenze di stile e di vocabolario. Questo portò a formulare l'ipotesi di due documenti (J e E) inizialmente distinti e poi redatti assieme.

Una seconda ipotesi fu quella dei "frammenti" che riteneva di aver a che fare con brani diversi redatti, poi, assieme con aggiunte ed integrazioni (ipotesi dei complementi).

 

L'ipotesi dei documenti fu ripresa da Wellhausen il quale rilevò quattro tradizioni:

 

            - Javista ed Eloista, di epoca monarchica (1030 - 970 a.C.)

 

            - Deuteronomista (D), di epoca pre-esilica (720 - 600 a.C.)

 

            - Sacerdotale (P), di epoca postesilica (538 - 450 a.C.)

 

Il Gunkel, invece, affrontò la questione da un punto di vista di analisi letteraria colta nello ambiente vitale in cui è sorta. Nacque, così, la Formgheschichte che si proponeva, per l'appunto, lo studio delle forme letterarie colte nel loro Sitz im leben.

 

Von Rad, invece, ebbe il merito di unificare i due studi, quello dei documenti e della Formgheschichte, ipotizzando un "Esateuco" (Pentateuco + Giosuè), valorizzando lo Jahvista come raccoglitore primo delle tradizioni orali.

 

Ancor oggi, nonostante i continui e approfonditi studi, non si è riusciti a dare una risposta definitiva e soddisfacente a tutti gli interrogativi la redazione e la formazione delle tradizioni, prima orali e poi scritte. Tuttavia, oggi, si ritiene comunemente da tutti che l'attuale Pentateuco sia un'opera postesilica risalente in epoca persiana (VI°-V° sec. a.C.). Ciò, tuttavia, non esclude l'esistenza di tradizioni orali e scritte precedenti. Il problema è capire se prima dell'esilio (597 e 587 a.C.) esistesse una documentazione completa, una fonte unica.

 

In tal senso, lo Ska afferma che l'attuale Pentateuco sia opera postesilica (538-450 a.C.) e che sia una redazione di "cicli brevi", inizialmente isolati e facenti parte della memoria collettiva di Israele.

 

Nell'ambito del Pentateuco, inoltre, lo Ska rileva la presenza di vari codici legislativi (codice dell'alleanza, di santità, di purità e deuteronomico) e di alcune teologie della storia. Egli conclude, infine, che il Pentateuco è frutto di un lungo lavoro redazionale fatto di compilazioni, revisioni, aggiunte, modifiche che ha trovato compimento soltanto nel periodo postesilico.

 

 

La Tradizione Sacerdotale (P)

 

 

Di facile identificazione, va dal racconto della creazione del mondo in sette giorni (Gn. 1,1) alla morte di Mosè (Dt. 34,7-9).

 

Essa, sulla base di una lunga tradizione orale, fu probabilmente messa per iscritto dai Sacerdoti di Gerusalemme durante l'esilio babilonese (597-538) sia per tener vivo il culto e la tradizione dei Padri, sia in vista di una restaurazione del culto nel Tempio ricostruito (520 - 515 a.C.).

 

La Tradizione Sacerdotale (P) organizza la storia attorno ad una serie di genealogie ed è caratterizzata da :

                                   - ripetizioni

                                    - una certa rigidità

                                   - gusto delle precisioni numeriche

                                   - genealogie

                                   - liste

                                   - predilezione per ciò che riguarda il culto e la liturgia

                                   - interesse per il santuario, sacrifici e clero.

 

L'immagine che essa dà delle istituzioni culturali corrisponde a quella della comunità postesilica (538 - 450 a.C.).

 

Essa costituisce, probabilmente, il testo su cui si è basata la riforma di Esdra e da cui nacque il Giudaismo (395 a.C.).

 

Tale Tradizione, benché trasmetta materiali molto antichi, ha avuto una fissazione scritta recente, tra il VI° e V° sec. a.C.

 

 

La Tradizione Deuteronomica (D)

 

 

Facilmente individuabile perché contenuta, quasi esclusivamente, nel Deuteronomio. Tale Tradizione, rinunciando ad una storia delle origini, si incentra prevalentemente sull'insegnamento della Legge.

 

Il suo stile, data la sua natura pedagogica, è prevalentemente esortativo, con appelli all'obbedienza, avvertimenti, minacce e promesse. Il genere letterario è, dunque, quello della predicazione.

 

Tutte le prescrizioni della Legge sono collegate al centrale comandamento dell'amore (Dt. 6,4-9 : "Shemà Israel").

 

Questa catechesi, tuttavia, non è una predica calata dall'alto, ma è strettamente collegata agli avvenimenti della storia, a cui si riferisce di continuo e di cui evidenzia l'attualità nell'oggi.

 

L'attenzione che viene portata ai Leviti (Dt. 18,1-8) e al Tempio, quale unico santuario, fa pensare che questa Tradizione si sia sviluppata tra i Leviti, considerati i porta voce di Mosè (Dt. 27,9).

 

La fissazione scritta è avvenuta, probabilmente, quasi subito dopo la distruzione del Regno del Nord (722 a.C.) da parte dei Leviti rifugiatisi nel Regno di Giuda e ha subito continui sviluppi fino all'esilio babilonese (597 e 587 a.C.). E fu proprio sotto il Regno di Ezechia (716-687 a.C.) che si ebbe una prima elaborazione ufficiale poi "andata perduta" e sicuramente avvolta nel silenzio sotto i regni sacrileghi di Manasse (687-642 a.C.) e di suo figlio Amon (642-640). Ricomparirà sotto il Regno di Giosia che se ne servirà per attuare la riforma religiosa (622 a.C.) dopo quasi un cinquantennio (Manasse ed Amon) di degenerazione religiosa e l'introduzione di culti cananei nelle tradizioni di Israele.

Il testo, tuttavia, non doveva essere quello che abbiamo oggi, ma una versione ridotta, forse primitiva.

 

 

La Tradizione Jahvista

 

 

Questa Tradizione è originaria di Giuda e si è sviluppata sotto forma di vari racconti e messa per iscritto, probabilmente, sotto il Regno di Salomone (973 - 933 a.C.).

 

Essa costituisce le parti più antiche del Pentateuco ed è così denominata per il modo di chiamare Dio (Jhwh).

 

Il suo stile è molto colorito e vivace, concreto, pittoresco e immaginifico, molto vicino allo stile dei cantastorie e in cui Dio (Jhwh) assume aspetti antropomorfici.

 

Tale Tradizione, sviluppatasi in Giuda in ambienti vicini alla dinastia davidica, sembra avere lo scopo di ricordare a Davide e alla sua dinastia di essere l'erede della promessa divina fatta ad Abramo.

 

 

La Tradizione Elohista (E)

 

 

Questa Tradizione,a differenza di quelle delle altre, si trova sotto forma di frammenti o di spezzoni di racconti, frammistati all'interno della Tradizione Jahvista.

 

Essa è così definita per come viene denominato Dio (Elohim) ed è caratterizzata dal rapporto uomo-Dio; un rapporto molto distaccato in cui Dio non familiarizza mai con l'uomo, ma gli si rivolge per interposta persona (angelo o uomo) e ciò proprio per evitare di coinvolgere Dio in attività umane. Un Dio che, talvolta, assume aspetti temibili e incute un sacro timore che si esprime sotto forma di obbedienza.

 

Proprio questo aspetto del "timore" è caratteristico dei cicli che si muovono attorno ad Elia/Eliseo (IX° sec. a.C.), profeti del Regno del Nord, per cui si ritiene che tale Tradizione dovrebbe essersi sviluppata nel Regno del Nord e che dopo la distruzione di tale Regno (722 a.C.) è confluita al Sud dove venne sostanzialmente assorbita nella Tradizione Jahvista, dando così origine alla Tradizione Jeovista (JE) intorno al VI° sec. a.C., dal 722 in poi.

 

In conclusione, possiamo dire che le varie Tradizioni (J - E - D - P) nate in ambienti diversi (le prime due, J - E, nell'ambito dei due Regni e finalizzate a celebrarne le origini con proprie epopee. Le seconde due, D - P, nell'ambito religioso, levitico e sacerdotale, per dare consistenza all'idea di Dio, al culto e al rapporto con Dio, nonché per celebrare un'autogiustificazione della propria categoria) in realtà si muovono su di un unico terreno:

 

                        - unicità di origine

                        - unicità del Dio

                        - unicità del culto

 

Fu proprio questa unicità la base di una lenta e progressiva unificazione delle varie tradizioni. Un processo durato molti secoli e caratterizzato dalla preoccupazione di rispettare le Tradizioni dei Padri, benché il materiale in sè sia stato rimaneggiato e ritoccato.

 

 

Pentateuco, Torah, Formazione

 

 

Il termine Torah significa "Insegnamento" , "Legge" . Proprio con tale termine finisce il Deuteronomio (Dt. 32,45-47) e con lui il Pentateuco. Con il termine Torah, dunque, viene definito l'intero Pentateuco che diventa ad essere un insieme di racconti entro cui sono raccolti i vari codici di Legge. I racconti, infatti, narrano le opere di Dio per il suo popolo, mentre la Legge lo impegna nell'Alleanza. Un impegno, dunque, a vivere la Legge che diventa una risposta esistenziale alle opere salvifiche di Dio verso il suo popolo. Esse, su di un piano morale, costituiscono l'indicativo di salvezza; mentre l'impegno nella Legge ne è l'imperativo.

 

La Legge, pertanto, non è mai slegata dal contesto storico-salvifico, ma ad esso si aggancia e ne diventa sacramento, sicché potremmo dire che il racconto fonda la Legge.

 

Leggendo attentamente il Pentateuco rileviamo come questi muova dalla Promessa di Dio ad Abramo ("un popolo più numeroso delle stelle del cielo e della sabbia del mare" e "una terra dove scorre latte e miele") e descrive le vicende del cammino di questo popolo verso una "Terra dove scorre latte e miele", è la Terra della Promessa, un sogno per un popolo di nomadi. Ma non ne descrive l'entrata e la conquista che, invece, vengono affidate ad un libro storico, quello di Giosuè.

 

Dalle Tradizioni, invece, apprendiamo che il ciclo completo della Promessa è composto di tre parti:

 

                        - schiavitù in Egitto

                        - liberazione

                        - entrata nella terra promessa

 

Perché, dunque, il Pentateuco si ferma alle soglie di questa Terra?

 

Questo fece pensare ad alcuni (Von Rad) che il termine corretto non è "Pentateuco" bensì "Esateuco", ricomprendendo, pertanto, anche il ciclo della conquista narrata nel libro di Giosuè.

 

Si è rilevato, ancora, che il Deuteronomio costituisce una sorta di riepilogo generale dei primi quattro libri, in particolare di esodo e Numeri, quindi, quasi un doppione.

Inoltre, mentre i primi quattro libri danno spazio alla teologia sacerdotale, elaborata nell'esilio di babilonia (597-538 a.C.), il Deuteronomio non ne riporta traccia. Così si pensò (Noth) che il Deuteronomio fosse stato giustapposto ad un "Tetrateuco", ma in realtà costituisce un'ampia premessa dei "Libri storici".

Sta, comunque, di fatto che "Tetrateuco e Deuteronomio" coesistono sotto l'unica denominazione di "Pentateuco" che sembra essere il frutto di un dibattito e di un dialogo tra gruppi differenti e rifacentisi all'unico Dio.

 

 

Il contesto storico della formazione del Pentateuco

 

 

Dopo la vittoria di Ciro sui Babilonesi (539 a.C.), gli Ebrei, con apposito editto dello stesso (538 a.C.) possono rientrare in patria.

 

Ciò che gli esiliati (golah) trovano in patria è una grande desolazione:

 

      -     non c'è più il Tempio, cuore della vita sociale, culturale e religiosa;

 -     il culto è inesistente;

 -     la loro terra è stata occupata dai "goim", cioè dai pagani limitrofi o da  coloni esportati dai babilonesi stessi;

      -     non c'è più il culto della Torah;

 -     pagani ed ebrei convivono sulla stessa terra di Dio, dissacrandola e si sposano tra loro.

 

Pertanto l'identità politica e religiosa del popolo è sostanzialmente perduta.

 

Si impone, dunque, un recupero delle Tradizioni dei Padri, la ricostruzione del Tempio,che avverrà solo tra il 520 e il 515 a.C., la restaurazione del culto all'unico Dio e della sua Torah, nonché la separazione degli ebrei dai pagani.

In altri termini, si tratta di ricostruire l'identità del popolo, andata ormai perduta, poiché a tale identità è strettamente legata la Promessa e l'Alleanza.

 

Di fronte a tale situazione degenerata e degradata si pongono essenzialmente due gruppi:

 

 i circoli sacerdotali, raggruppati attorno ai sacerdoti, la cui preoccupazione primaria è quella di ricostruire l'identità religiosa del popolo attorno al Tempio, che stenta a ripartire (520-515 a.C.). Ciò avviene anche attraverso la separazione degli Ebrei dagli altri popoli, a partire dalla proibizione dei matrimoni misti.

 

 I circoli deuteronomisti, composti da laici. Anche per questi, come per i sacerdotali, l'identità del popolo si costruisce attorno al culto e attraverso la separazione di Israele dagli altri popoli, passando attraverso la proibizione dei matrimoni misti. Non solo, per questi circoli l'identità si ricostruisce anche attraverso una rilettura della storia del popolo, vista come storia di liberazione e salvezza, provenienti dall'unico Dio.

 

Pur con impronte teologiche diverse i due gruppi, sacerdotale  e deuteronomista, hanno in comune le stesse Tradizioni dei Padri e le Leggi pre-esiliche, che sono reinterpretate alla luce dei nuovi eventi, dando così origine al Pentateuco.

 

Un altro elemento che ha giocato a favore di un'unica Torah fu un elemento esterno: l'autorizzazione imperiale persiana, data da Artaserse ad Esdra di costituire nella Giudea un diritto comune a favore degli Ebrei, denominata "Legge del tuo Dio" (Esd. 7,11-28). Ciò ha spinto i diversi gruppi a catalizzarsi attorno ad un'unica Legge che ha favorito un'unica Torah, che diventa, a tal punto, un unico libro definito che va solo interpretato e non più modificato.

 

 

 

I  PROFETI  (Nevim)

 

 

 

Vanno sotto il titolo di "Profeti", così chiamati dalla Tradizione Giudaica intorno al II° sec. a.C., quei libri che vanno da Giosuè a Malachia.

 

Questi libri raccolgono scritti eterogenei:

 

      -    "I Profeti anteriori" o "Libri storici": Giosuè, Giudici, Samuele e Re;

 

 -     I veri "Libri profetici" attribuiti ai Profeti veri e propri: Isaia, Geremia, Ezechiele e 12 minori.

 

  

Il Profetismo

 

 

Il profetismo è un fenomeno che, poco o tanto, ha caratterizzato i popoli nell'antichità, ma assunto per Israele un'importanza particolare che lo ha condizionato nella propria storia e nella propria vita sociale.

 

Benché in tutta la storia di Israele si riscontri quasi sempre la presenza di qualche profeta (si pensi a Natan alla corte di Davide o ad Elia ed Eliseo ai tempi del re Acab), tale fenomeno ha assunto dimensioni molto rilevanti tra l'VIII° e il VI° sec. a.C.

 

Benché il profeta, talvolta, si esprima con gesti e comportamenti strani di portata simbolica, tuttavia la Parola rimane lo strumento essenziale con cui i Profeti attuano la loro missione.

 

Quella del profeta è una Parola che attua la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, gli insegna a leggere la storia in senso teologico e funge da coscienza del popolo stesso.

 

Il profeta si qualifica essenzialmente per tre elementi:

 

-   la vocazione, che talvolta contrasta con la volontà e la natura del profeta stesso (ad es.  Geremia e Giona)

-   la profezia che si avvera sempre e che non è mai in contrasto con la Torah e la Tradizione;

-   lo stile di vita del profeta stesso, che spesso è perseguitato per  l'annuncio che compie, ma a cui rimanefedele,  ma di  Dio.

 

La predicazione dei profeti, infine, non è mai teorica, ma parte sempre da situazioni concrete che il popolo conosce molto bene e tende a trascenderle senza esaurirsi in esse.

 

Tale predicazione, diffusa inizialmente oralmente e custodita nella memoria del popolo, fu messa per iscritto quasi subito dai profeti stessi o dai loro discepoli che la raccoglievano man mano che veniva proferita, benché un grande lavoro di redazione generale di tutti questi scritti, variamente sparsi, sia stata fatta durante e dopo l'esilio, diventando questi un punto di riferimento per la vita di fede e dottrinale di tutto il popolo.

 

 

 

I LIBRI STORICI (Profeti Anteriori)

 

 

 

I Libri storici (Giosuè, Giudici, Samuele e Re), datati posteriormente ai libri profetici veri e propri, sono detti anche libri dei "Profeti Anteriori" e, come tali, definiti e giustapposti ai libri dei "Profeti Posteriori" del canone ebraico.

 

Tali libri sono stati così definiti ("Profeti anteriori") per la loro attinenza, in qualche modo, con il fenomeno del profetismo. E ciò sia perché in essi molti racconti e capitoli sono dedicati ai profeti (basti pensare che nei soli Libri dei Re ben 22 capitoli su 47 sono dedicati a profeti vari); sia perché una tradizione giudaica li vuole scritti da alcuni profeti. Benché ciò storicamente non sia sostenibile, è tuttavia significativo il fatto che la storia ivi raccontata abbia subito una interpretazione profetica; e, infine, perché tali libri sono preceduti e, in un certo senso, preparati dal Deuteronomio che se, da un lato, è una sorta di sintesi dei quattro libri che lo precedono, dall'altro, esso risulta essere, secondo la Tradizione, un testamento spirituale di Mosè, qui considerato come capostipite e primo profeta (Dt. 18,15 ss) e benché nessun profeta si rifà Mosè, tuttavia nessuno lo ricusa.

 

 

 

GLI SCRITTI  (Ketuvim)

 

 

 

Il canone ebraico, dopo la Torah e i Nevim, inserisce i Ketuvim o "Altri Scritti". Sotto questa denominazione sono raccolti una lunga serie di Libri disomogenei tra loro per contenuto, per periodo di composizione e di stile. Essi si possono raggruppare per aree:

 

      -     Libri sapienziali: Proverbi, Giobbe, Qoelet, Siracide, Sapienza;

 -     Libri dei Salmi, tradizionalmente attribuiti a Davide, ma storicamente si distendono su di un arco di quasi    dieci secoli ed esprimono l'anima profondamente religiosa e pia del popolo ebreo che in questi canti poetici racconta la propria esperienza di Dio nelle varie situazioni di vita.

      -     Storiografia del postesilio: Esdra, Neemia e Maccabei;

      -     Letteratura edificante: Rut, Giona, Tobia, Ester, Giuditta;

      -     Letteratura apocalittica: Daniele.

 

 

  

 

GENESI  1-11 :  DIO, L'UOMO E LA CREAZIONE

 

 

 

 

Premessa

 

 

L'approccio all'Antico Testamento può essere determinato da interessi, ad esempio, di tipo storico, per cui l'attenzione viene accentrata sul formarsi di un popolo e sulla sua evoluzione. Oppure da interessi letterari, per cui si cerca il formarsi dei testi e il loro ambiente storico-culturale e vitale in cui sono sorti. Oppure da motivi di fede, per cui si cerca di cogliere la comprensione dell'esperienza  religiosa e l'evoluzione dell'idea di Dio e il rapporto con questi instaurato perché ciò può essere non solo importante per me, ma da questo potrei sentirmi interpellato esistenzialmente e, di conseguenza, chiamato a dare una risposta.

 

 

Osservazioni generali su Gn. 1-11

 

 

I primi undici capitoli della Genesi sono raccontati con linguaggio mitico, che è il linguaggio primitivo dell'umanità con cui essa ci racconta la sua storia e le sue riflessioni su questa. Infatti, questi capitoli costituiscono una matura riflessione sulle origini del mondo, dell'umanità e della condizione di male e corruzione in cui essa vive.

Sono, dunque, una sorta di riflessione sapienziale espressa con un linguaggio mitico, mutuato dalle culture della "mezzaluna fertile".

 

Questi capitoli costituiscono un preambolo alla storia dei Patriarchi in cui Israele presenta le proprie origini ed esprime la comprensione di se stesso: egli è il popolo nato dall'alleanza di Dio con i Padri (Abramo, Isacco, Giacobbe) e dalla promessa e benedizione date a loro. Quindi, il ciclo dei Patriarchi costituisce la culla di gestazione di Israele.

 

I primi undici capitoli, dunque, più che un libro di storia, sono una riflessione teologica e una comprensione di fede circa l'origine del mondo, dell'umanità e della sua sorte, espressa in forma mitica, la cui redazione si pone, probabilmente, nel periodo esilico e/o postesilico, che costituisce il momento di maggiore maturità spirituale e religiosa di Israele e fu premessa alla nascita dei Libri sapienziali.

 

 

La doppia tradizione sulle origini

 

 

I primi undici capitoli della Genesi sono strutturati su due tradizioni: quella Jahvista, la più antica (X° sec. a.C.) e quella Sacerdotale, più recente (VI°-V° sec. a.C.). Esse furono redazionalmente fuse intorno alla metà del V° sec. a.C., mantenendo integre , tuttavia, le loro caratteristiche. In linea di massima potremmo dire che dello Jahvista sono i racconti, del Sacerdotale le genealogie e le elencazioni in genere.

 

Queste di seguito le ripartizioni dei primi undici capitoli:

 

Jahvista

 

vv.   2,4b - 3,24   :  narrazione   della creazione e del peccato-castigo

vv.   4, 1-2           :  genealogia   di Adamo ed Eva - Caino e Abele

vv.   4, 3-16         :  narrazione   di un delitto e castigo (Caino e Abele)

vv.   4,17-26        :  genealogia   Caino-Lamech e Adamo-Enos

cap. 6-8 (brani)    :  narrazione    del diluvio

vv.   9, 18-19       :  genealogia    di Noè

vv.   9,20-27        :  narrazione    di un delitto-castigo (i figli di Noè)

cap. 10 (brani)              :  genealogia    Tavole dei popoli

vv.   11, 1-9         :  narrazione    della Torre di Babele

 

Sacerdotale

 

vv.   1, 1-2,4a      :  narrazione    della creazione

cap. 5                   :  genealogia   da Abramo a Noè

cap. 6-9 (brani)   :  narrazione    del diluvio e nuova creazione

                               genealogia    di Noè (6,9-10)

cap. 10                :  genealogia    Tavola dei popoli

vv.    11, 10-26    :  genealogia     da Sem ad Abramo

 

 

La prima pagina della Bibbia: Gen. 1,1-2,4a  (P)

 

 

Lontani dalla patria, privati del Tempio e del culto, dispersi in mezzo a popoli pagani, gli Ebrei rischiavano di perdere la loro identità religiosa e politica. Sarà compito della classe sacerdotale, sulla base degli antichi documenti ereditati dalle varie Tradizioni, ricostruire il passato del popolo restituendogli il suo significato e il suo senso teologico.

 

Proprio nell'ambito di questa logica si inseriscono i cap. 1,1-2,4a, di tradizione Sacerdotale, riguardanti la creazione del cosmo e che, a modo loro, costituiscono una risposta alla teologia idolatrica della creazione del mondo dei Babilonesi.

 

Nell'Enuma Elish, infatti, il dio creatore Marduk mette ordine sul caos primordiale, il rappresentato dal dilagare delle acque: Tiamat, il dio delle acque salate del mare e Apzu, il dio delle acque dolci sotto terra. Questo atto creativo veniva celebrata rituaomente a capodanno (Akitu) con una festa.

 

Riprendendo questo mito, il Sacerdotale sottolinea come non degli dèi fasulli sono all'origine del creato, bensì l'unico vero Dio, che con il suo Spirito aleggia sulle acque del caos primordiale e con la potenza della sua Parola mette ordine.

 

Si rilevi, a tal punto, come tutta la creazione dipende da un unico Dio creatore, evidenziando, quindi, un monoteismo già chiaro e affermato, cosa che avverrà solo dopo il periodo esilico.

 

Il racconto della creazione è ritmato da cadenze rigorosamente ripetitive. L'atto creativo di Dio è scandito da otto "Dio disse", per indicare la centralità di Dio nell'atto della creazione e la potenza creatrice della sua Parola da cui tutto trae origine.

 

Questi otto interventi divini sono distribuiti su sei giorni, mentre il settimo segna la fine di ogni attività ed è caratterizzato da tre verbi: "cessò" , "benedisse" , "consacrò".

 

"Cessò" sta a significare che tutto è compiuto e che, quindi, il settimo giorno è la pienezza della creazione.

 

"Benedisse" è il segno della fecondità che dà senso e vita all'intera creazione e ne garantisce la sussistenza.

 

"Consacrò" è l'atto del rendere sacro e riservato a Dio.

 

Da tutto ciò discende che il settimo giorno, cioè il sabato, è lo spazio entro cui è raccolto il tempo di Dio, che dà senso e compiutezza a quello dell'uomo.

Sei sono i giorni che esprimono il tempo dell'uomo, un tempo imperfetto, come dice il numero "sei" e che trova la sua compiutezza e il suo senso ultimo nel "settimo" giorno, che è lo spazio e il tempo di Dio, in cui ogni tempo ed ogni spazio confluisce e acquista il suo senso e il suo valore.

 

Infine, l'atto stesso della creazione è scandito, a sua volta, da quattro tempi:

 

"E Dio disse ..."   -   "sia ..."   -   "E ... fu"   -   "E Dio vide che ciò era cosa buona"

"E Dio disse ..." in quel "disse" è racchiusa la potenza della Parola creatrice, da cui tutto discende. E' quel Verbo eterno contemplato da Giovanni nel suo prologo: "In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio ... tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste" (Gv. 1,1.3) E' l'Eterno che in quel "disse" compie il suo primo atto rivelativo che troverà la sua pienezza in Cristo, il Verbo fatto carne, la Parola che si fa Evento.

 

"sia ..." esprime la volontà del Padre che viene attuata dalla Parola.

 

"E ... fu" esprime l'efficacia della Parola che attua e rivela quanto il Padre ha espresso nella sua volontà. Proprio in questo "... fu ..." la Parola manifesta la sua vera natura di attuatrice e rivelatrice e in cui il Padre si ritroverà pienamente. Infatti .....

 

"E Dio vide che ciò era cosa buona" la bontà della cosa consiste non solo nella sua innocenza primordiale, in cui si riflette la luce di Dio, ma anche nella perfetta rispondenza tra la volontà di Dio e l'attuazione-rivelazione della Parola. Il Padre si ritrova in quanto la Parola ha attuato.

 

Scorrendo nuovamente i miti della creazione dei tempi antichi, vediamo come questi si sviluppano secondo quattro schemi di pensiero:

 

-   Creazione per generazione in cui si parla di creazione in termini di nascita e si ritrovano presso i Sumeri e Babilonesi che forse riecheggia in quel "Toledot" (origini) di Gen. 2,4a. Infatti quel Toledot, tradotto con origini, indica di per sé l'atto del donare la vita ad un discendente, quindi nascere, venire all'esistenza.

-   Creazione in termini di battaglia e/o di vittoria (v. il poema dell'Enuma Elish, Marduk su Tiamat), concetto questo totalmente assente nella Bibbia in cui la creazione viene concepita come un atto rivelativo e donativo di Dio, assoluto e sovrano.

-    Creazione per mezzo di un atto materiale  v. l'Enuma Elish e Knum, il dio vasaio degli Egiziani che si riscontra anche nella Bibbia ripetutamente, in particolare nella creazione dell'uomo.

-    Creazione mediante la Parola, che sarà pienamente assunta da Israele.

 

L'intento dell'autore è chiaramente ed esclusivamente teologico finalizzato a difendere e a sottolineare cinque punti:

 

-   Rigoroso monoteismo: tutto è creato per mezzo dell'unico Dio da cui tutto discende. Non c'è concorso né concorrenza di altre divinità.

-   Il Dio conosciuto da Israele non è solo colui che si pone alle origini di Israele, ma anche della creazione stessa.

-   La benedizione, espressione di fecondità, sotto cui ogni creatura è posta.

-   La bontà del creato che se, da un lato, ne indica l'integrità e la perfetta rispondenza alla volontà di Dio;dall'altro, diventa lode del creatore.

-  Formazione dell'uomo e della donna, vertici della creazione e voce del creato, formati ad immagine e somiglianza di Dio che avvicina l'uomo a se stesso e su cui si fonda l'intera antropologia biblica.

 

 

Dio crea e offre alleanza all'uomo: Gen. 2,4a - 3,24  (J)

 

 

I capitoli 2 e 3 della Genesi sono variamente considerati dagli autori contemporanei:

 

-   C'è chi li ritiene mitici, nel senso che raccontano con un linguaggio immaginoso delle realtà metafisiche o  transtoriche.

-    C'è chi considera come "eziologia metastorica", finalizzata a spiegare le cause dell'attuale condizione di decadenza dell'uomo, del male e del peccato. E' una sorta, dunque, di riflessione sapienziale

 

Quanto all'ambiente storico-culturale in cui questi due capitoli sono nati alcuni, pochi ma molto influenti, ritengono che siano nati già come documento in epoca salomonica (973-933 a.C.).

Altri, i più, ritengono che agli inizi esistessero dei "cicli di racconti", redazionalmente composti in tempi successivi e molto lentamente. Quando ciò sia avvenuto, se prima, durante o dopo l'esilio, ancor oggi non è chiaro.

Resta il fatto, comunque, che molti esegeti ritengono la teologia dello Jahvista molto elaborata: risente dei profeti, contiene un senso della storia e delle tecniche letterarie impossibili in epoca arcaica. Tale teologia, inoltre, non ha lasciato traccia nei profeti.

Il tutto, dunque, fa pensare una datazione piuttosto bassa.

 

Nel documento jahvista Dio è presentato come il Dio di Israele e, per mezzo suo, il Dio di tutti i popoli (Abramo, infatti, è presentato come una benedizione per tutti i popoli: "... in te saranno benedette tutte le famiglie della terra" - Gen.12,3 - ).

 

Tende, inoltre, a legittimare la dinastia di Salomone come erede legittimo delle promesse divine; tende a presentare il Tempio di Gerusalemme come l'unico santuario e, pertanto, il santuario universale.

 

Esso, infine, costituisce una risposta ad un momento di crisi di Israele, di cui si mette in luce la fede, la sua identità e la sua vocazione: egli è il popolo della promessa e della benedizione.

 

Inoltre, se da un lato vede la monarchia come la realizzazione delle promesse, dall'altro tende a reprime l'autosufficienza e l'indipendenza da Dio.

 

 

Il messaggio di Gen. 2,4b - 3,24

 

 

Per cogliere correttamente il messaggio dei cap. 2 e 3 della Genesi è opportuno tenere presente il carattere unitario dei racconti, il linguaggio mitico, mutuato dai vari racconti ed epopee assiro-babilonesi ed egiziane, caratteristici dei popoli della "mezzaluna fertile". Infine, non va trascurata la prospettiva di fede di Israele, basata essenzialmente sull'alleanza e la predicazione profetica.

 

Secondo il Lohfink la teologia dei cap. 2 e 3 rispecchiano integralmente la storia religiosa e di fede dell'antico Israele.

 

Infatti, il Lohfink crea un parallelismo tra quanto è avvenuto nel Paradiso Terrestre e la storia di Israele:

 

1) Israele è eletto a popolo di Dio in terra straniera e di schiavitù;

    Adamo è creato fuori dal "Giardino" in terra incolta e disabitata.

 

2) Israele, dall'Egitto, è condotto da Dio nella Terra "dove scorre latte e miele";

    Adamo viene posto da Jhwh nel "Giardino";

 

3) Jhwh dà il decalogo a Israele quale segno della sua alleanza con lui;

    Jhwh dà ad Adamo un comandamento.

 

4) Se Israele osserverà i comandamenti vivrà e avrà prosperità e pace;

    Se Adamo osserverà il comandamento potrà rimanere nel Giardino in cui c'è l'albero della vita.

 

5) Se Israele violerà i comandamenti riceverà il castigo: disgrazie, esilio e rovina;

    Se Adamo violerà il comando di Dio "morirà di morte" e dovrà andare in esilio.

 

 

Analisi del testo

 

 

Gen. 2,4b - 8: Dio plasmò l'uomo ('adam) con la polvere del suolo ('adamah) e soffiò nelle sue nari una alito di vita (nesamah) e lo pone in Eden (godimento) , a oriente, che è il luogo da dove sorge il sole, simbolo di Dio; quindi, è un giardino che gravita nell'area di Dio.

 

Il gesto del plasmare la creta , molto conosciuto in oriente, richiama il gesto di Hnum, il dio vasaio egiziano che plasma l'uomo sul suo tornio. Un gesto questo che è richiamato anche da Geremia in 18,2-4 in cui Dio è visto come un vasaio che nella sua bottega plasma un vaso sul suo tornio, che in questo caso raffigura il popolo.

 

La creazione dell'uomo avviene in due momenti: attraverso l' 'adamah, la polvere del suolo; e attraverso il nesmah, l'alito di vita. Questo alito di vita è la stessa vita di Dio che viene trasfusa in Adamo ed è ciò che lo rende immagine e somiglianza di Dio stesso.

 

L'uomo, dunque, fatto ad immagine e somiglianza di Dio e di poco inferiore agli angeli (sal.8,6) viene posto in Eden ad oriente, cioè in un luogo di felicità che è tale perché è ad oriente, cioè in seno a Dio stesso.

 

Con questi pochi tratti ci viene delineata tutta la dignità e la grandezza dell'uomo: nato da un gesto gratuito di Dio, reso suo partner e partecipe della sua stessa vita. Ma quell' 'adamah indica anche tutta la fragilità dell'uomo che gli sarà fatale.

 

Gen. 2, 9-14: in questo Giardino Dio pianta ogni sorta di albero gradevoli alla vista e buoni da mangiare e tra questi due alberi particolari: quello della vita e della conoscenza del bene e del male.

Un Giardino che è delimitato anche geograficamente da quattro fiumi, diramazioni di un unico fiume che proviene da Eden.

 

L'albero della vita, conosciuto in oriente e dall'Epopea di Gilgames, era il cibo di cui si nutrivano gli stessi dèi nei loro santuari e, data la loro immortalità, era considerato un cibo capace di dare l'immortalità. Quest'albero di vita è associato in Proverbi 3,18 alla Sapienza a cui l'uomo può accedere nuovamente e da cui può trarre una nuova vita.

 

L'albero della conoscenza del bene e del male, sconosciuto nelle letterature mesopotamiche, è la capacità del discernimento del bene e del male che permette di giudicare tutto in vista della propria o altrui felicità o infelicità. Torna qui il tema delle due vie che sono poste davanti all'uomo: quella della vita e quella della morte. Lo scegliere l'una o l'altra spetta all'uomo, ma diversi sono gli effetti.

Bene e Male sono i due estremi entro cui è racchiusa tutta l'esperienza umana, che ha origine divina, e di cui l'uomo ha voluto appropriarsi cadendo miseramente.

 

Il fiume che da Eden si suddivide, poi, in quattro parti, abbracciando l'intero Giardino (il quattro sta ad indicare la totalità), potrebbe simboleggiare la vita stessa di Dio. Se così è, allora si comprende come il luogo in cui l'uomo è stato posto è permeato e ravvivato dalla stessa vita divina in cui e grazie alla quale l'uomo vive e di cui gode.

 

Questa stupenda immagine paradisiaca trova il suo senso più vero nella stessa Apocalisse di Giovanni, in cui, al cap. 22,1-5, viene ripresa. E' significativo il fatto che la Bibbia si apra e si chiuda con questa immagine, che forma una sorta di grande inclusione, quasi a dire che l'uomo, proveniente dal mondo di Dio in tale mondo, in Cristo e per Cristo, vi ritornerà.

Tra questi due immagini è racchiusa tutta l'avventura umana e divina, un'avventura fatta di peccato e di Amore. Un mondo nuovo in cui "non vi sarà più notte e non si avrà più bisogno di luce di lampada né di sole, perché il Signore Dio ci illuminerà" per sempre (Ap. 22,5).

 

Gen. 2,15-17: Dio prende l'uomo e lo pone nel giardino dell'Eden perché lo coltivi e lo custodisca. Gli dà, poi, un comando: "Tu mangerai di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti".

 

In questi pochi versetti è racchiuso tutto il tema dell'alleanza di Dio con Israele. In tal senso significativi i verbi "prendere" e "porre" che richiamano l'esperienza di salvezza fatta da Israele: "Eravamo schiavi, Dio ci prese e ci pose nella terra ...".

E ancora gli altri due verbi "coltivare" e "custodire" tipici per esprime gli impegni dell'alleanza, che qui vengono usati per indicare la libertà-responsabilità dell'uomo nei confronti di Dio.

Ed infine, il verbo "mangiare", ripetuto tre volte e che assume sfumature diverse: "Tu mangerai di tutti gli alberi del giardino", cioè te ne puoi servire; "ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare", cioè non te ne devi appropriare, e questo perché l'uomo, pur essendo a Dio somigliante, non è a Lui uguale. E sarà proprio l'appropriarsi di questo albero che renderà l'uomo uguale a Dio e, pertanto, non potrà più stare con Dio: "Ecco, l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male".

 

Questi sono i patti della prima alleanza tra Dio e l'uomo a cui è legata la maledizione in caso di violazione: "perché, quando ne mangiassi, certamente moriresti".

 

 

Da Adamo ad Abramo: Gen. 4,1 - 11,32

 

 

I capitoli 4 - 11 costituiscono una serie di piccoli quadri il cui scopo è quello di documentare il progressivo e rapido dilagare del male nel mondo.

 

Quel "Dio vide che era cosa buona" di Gen. 1, ormai, è un ricordo lontano sostituito dall'amara constatazione di Dio che guarda la terra "ed ecco era corrotta" (Gen.6,12b).

 

Sono capitoli in cui, tuttavia, non c'è solo il male, ma anche la volontà di Dio di fare alleanza con l'uomo (Gen. 9,9-11); un Dio che dà la sua benedizione all'uomo e all'intera creazione (Gen. 9,1-7). Ha, dunque, inizio qui una nuova creazione rigenerata da un'alleanza e da una promessa (Gen. 8,20 - 9,17)

 

Gen. 4,1-16: la colpa primordiale produce qui i suoi primi devastanti effetti: Caino uccide Abele. Viene meno la solidarietà tra gli uomini. Abele è il primo uomo che esperimenta la morte e torna alla polvere da cui è stato tratto.

 

In questo delitto è racchiusa l'intera storia dell'umanità: Abele, l'uomo giusto e innocente, subisce la violenza del male.

 

Caino è l'espressione del male e del peccato inteso come il rifiuto di Dio che si concretizza in quello del prossimo fino alla sua soppressione. Questo è il peccato!

 

Gen. 4,17-26: Da Caino ad Enos. Il racconto non vuole esser una genealogia storica, ma un'altra prova del diffondersi del male. Lamek, infatti, introduce la poligamia (Lamek si prese due mogli) in netto contrasto con Gen. 2,24 in cui si sentenzia che "l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola".

Sempre Lamek si glorierà della vendetta che non ha limiti ed è sproporzionata all'offesa ricevuta: "Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette". E' il chiaro segno che ormai al male non c'è più limite e l'uomo ne è travolto in un crescente vortice che ormai non è più in grado di controllare.

Interessante è il v. 4,26b in cui viene usato per la prima volta il termine Jhwh, che secondo lo jahvista è conosciuto fin dalle origini, mentre in Es. 3,14 e 6,2 tale nome fu rivelato per la prima volta a Mosè.

 

Gen. 5,1-32: viene presentata una nuova genealogia da Adamo a Noè. E' la genealogia dei setiti (Set è un altro figlio di Adamo). Tale genealogia serve all'autore sia per colmare il vuoto fra il tempo di Adamo e quello di Noè che per dimostrare come Noè fosse l'erede legittimo delle benedizioni di Dio date all'umanità primitiva e delle promesse fatte all'uomo decaduto.

Le genealogie, soprattutto nella Tradizione sacerdotale, hanno un ruolo importante poiché in esse viene dimostrata la forza operante della benedizione divina che continua il suo cammino nella storia dell'umanità nonostante il peccato e il male: Dio, infatti, ha maledetto il serpente, ma mai l'uomo.

In questa genealogia compare la figura di Enoch, l'uomo buono per eccellenza in mezzo ad un'umanità corrotta e stravolta dal peccato. Egli viene definito come colui che "camminò con Dio" e che non conobbe la morte "perché Dio lo aveva preso"; e la sua vita fu di 365 anni, un numero perfetto, corrispondente ad un anno solare.

 

Gen. 6,1-8: sono i versetti che esprimono il livello drammatico che ha toccato il male e il culmine raggiunto dalla depravazione umana: "Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male". Questa drammatica constatazione è seguita dal triste proposito di Dio: "Il Signore si penti di aver fatto l'uomo e se ne addolorò in cuor suo ... E il Signore disse: sterminerò dalla terra l'uomo che ho creato e con l'uomo anche il bestiame ... perché sono pentito d'averli fatti". E' il segno che il male dell'uomo ha contaminato tutta la terra e ogni essere vivente.

 

Gen. 6,9 - 9,17: in questi capitoli vengono presentati due quadri antitetici: il diluvio e l'alleanza. Ad una corruzione cosmica fa riscontro un castigo di proporzioni cosmiche. Non c'è più spazio per la misericordia, più nulla può essere salvato, perché tutto è irrimediabilmente inquinato dal male.

Noè, tuttavia, "trovò grazia agli occhi del Signore" e per mezzo dell'arca (tebah, termine egiziano che indica una cassa e, quindi, per estensione, un battello), una sorta di cassa-battello, la cui descrizione più che ad un vero e proprio battello fa pensare all'architettura di un tempio mesopotamico, si salverà. Da quest'arca Dio trarrà fuori una nuova umanità e una nuova creazione e con questa nuova umanità, a lui fedele, stabilirà nuovamente un'alleanza il cui segno è l'arcobaleno, un segno che salvaguarderà l'umanità e la sua terra da altri castighi divini.

 

Gen. 9,18-29: questo quadretto presenta i figli di Noè, Sem, Cam, Jafet, da cui discenderà l'intera umanità, e il rapporto di questi con il padre. Essi più che persone sono la personificazione di popoli.

Abbandonata la storia universale dell'umanità, l'agiografo, ora, si occupa di preparare il terreno alla discendenza da cui uscirà Abramo. D'ora in poi la storia della salvezza procederà secondo il principio della selezione. Infatti, maledetto Cam per il suo rapporto sbagliato con il padre, e asservito Jafet a Sem, Noè benedice quest'ultimo da cui uscirà Abramo.

Si vede, dunque, come questo quadretto serve al redattore per compiere il passaggio da una storia universale ad una particolare, introducendo il principio della selezione, e per indicare da quale discendenza uscirà Abramo, una discendenza, comunque, benedetta.

Anche, qui, l'agiografo non perde l'occasione per far vedere come la decadenza morale sia comunque presente anche dopo il diluvio (Cam che scopre la nudità del padre).

 

Gen. 10,1-32: presenta la grande tavola dei popoli, discendenti dai tre figli di Noè. E' interessante notare come la genealogia non parte seguendo l'ordine di età dei figli (Sem, Cam, Jafet), ma parte alla rovescia: Jafet, Cam, Sem. Questo per accentuare la stirpe di Sem e accentrare l'attenzione su questa, da cui discenderà Abramo.

La tavola presenta 70 popoli, che sta ad indicare la totalità dei popoli della terra (70 è un multiplo di sette che indica totalità e pienezza), quasi a dire che tutte le nazioni della terra sono benedette in Abramo e in lui chiamate a partecipare al progetto di salvezza di Dio.

Gen. 11,1-9: questo racconto jahvista sembra essere stato spostato dopo la tavola dei popoli solo con la redazione finale. Infatti in Gen.10,5 i popoli sono già dispersi.

L'intento, qui, è ovviamente teologico: il progresso dell'umanità (dalle costruzioni in pietra si passa al bitume e al mattone) è speso contro Dio; e quella torre, che richiama molto le ziggurat mesopotamiche e che doveva essere una sorta di tempio per l'incontro con Dio, si trasforma in un atto di ribellione contro di Lui. Questo è il male che inquina anche il rapporto con Dio. Da ciò deriva la confusione delle lingue, cioè l'uomo che si ribella a Dio pregiudica anche la propria identità e non riesce più a capirsi.

 

Gen. 11,10-27a: quella genealogia di Sem già accennata in Gen.10,22-32 viene ora ripresa e messa a fuoco per introdurci alla figura di Abramo e con lui alle origini del popolo di Dio e alla storia della salvezza che, da questo momento in poi, assumerà dei connotati specifici e propri: dalla storia universale dell'umanità si passa, ora, a quella particolare di un piccolo popolo che Dio si è scelto e che diverrà il sacramento del Dio vivente qui nella storia.

 

 

 

LE TRADIZIONI SUI PATRIARCHI NELLA GENESI

 

 

 

 

Premessa

 

Di fronte al Pentateuco e, qui, alla storia dei Patriarchi è opportuno chiederci come queste storie siano nate e qual era l'intento del redattore.

 

Il Pentateuco sembra porsi come una risposta alla profonda crisi politica e religiosa scoppiata con l'esilio e nel postesilio.

 

E' probabile che già all'epoca dell'esilio esistessero cicli narrativi, racconti e materiale vario da cui il redattore, probabilmente sacerdotale, ha attinto ed elaborato secondo proprie linee teologiche, finalizzando il tutto alla comunità esilica e/o postesilica.

 

E' opinione comune tra gli studiosi, anche se non ancora definitiva, che i cicli sui patriarchi sono il risultato di un lungo e progressivo lavoro redazionale avvenuto su materiale originariamente diversificato secondo gruppi e tradizioni. Pertanto, non si deve pensare di aver a che fare con biografie definite, bensì con materiali svariatissimi formatisi  indipendentemente l'uno dall’altro e, poi, in tempi molto lunghi, concentratisi in varie fonti e tradizioni.

 

Questi personaggi originari erano figure a se stanti, indipendenti gli uni dagli altri, che il redattore, con l'escamotage delle genealogie, ha sapientemente uniti assieme secondo propri intenti teologici e finalità che si era proposte.

 

Probabilmente, in origine, c'erano vari gruppi che si rifacevano ad un proprio antenato e credevano nel dio del proprio padre.

 

Fu proprio da questi vari gruppi patriarcali che nacquero le figure di Abramo, Isacco, Giacobbe, Giuseppe ed atri patriarchi ancora, coordinati e unificati tra loro da genealogie e racconti fusi insieme.

 

 

Il senso delle tradizioni sui patriarchi

 

 

Al centro del formarsi della Bibbia (A.T.) ci sta l'Esodo, cioè l'esperienza liberatrice e salvifica di Dio attraverso la quale Israele riflette sulle origini del mondo e dell'uomo, nonché sulla sua condizione di decadenza, di peccato e di male.

 

Così nascono i primi undici capitoli della Genesi, quasi una riflessione mitica dal sapore sapienziale.

Così nasce la storia dei Patriarchi, una storia che si basa sull'alleanza, sulla promessa e sulla benedizione. Una storia che rivela la comprensione che Israele ha delle sue origini e a cui aggancia la propria identità. Così che la storia dei Patriarchi diventa ad essere il luogo di gestazione di Israele e gli fornisce una identità: egli è il popolo che trae origine dall'alleanza, dalla promessa di Dio date agli antenati che Lui ha benedetto.

 

Questo interesse per il proprio passato si fonda, probabilmente, su alcuni aspetti: o una ritrovata unità nazionale (monarchia); oppure per dare una risposta ad una gravi situazioni di crisi nazionali che rischiavano di distruggere la propria identità e la propria storia, come ad es. la distruzione del Regno del Nord (722 a.C.) , l'esilio (597-538 a.C.), periodo postesilico (538-400 a.C.).

Quindi Israele attraverso le genealogie, un filo che intesse le sue origini e la sua storia, l'alleanza e la promessa, costituisce la propria storia, si dà una identità e si crea una coscienza.

 

Tale ricerca delle proprie origini, comunque, riflette sempre la situazione di un popolo giunto ad una propria maturità storica, culturale, sociale e spirituale che gli spiega il presente e lo apre al futuro. In tal senso, si sta facendo strada tra gli studiosi che la stesura della storia dei Patriarchi sia di epoca postesilica; un periodo questo in cui Israele, riflettendo su se stesso va alla ricerca di una propria identità da ricostruire dopo un periodo di esilio che lo ha corroso e sconquassato nella sua struttura storica, culturale, sociale e religiosa.

 

In tali racconti sui Patriarchi confluiscono le tre Tradizioni Jahvista, Elohista e Sacerdotale.

 

 

La Tradizione Jahvista

 

 

Questa Tradizione nasce intorno al X° sec. a.C. nel periodo monarchico di David e Salomone (1010-970 a.C.) durante il quale quel agglomerato di tribù riesce a darsi una identità nazione sotto l'egida di un'unica monarchia.

 

Proprio in questo nuovo sentimento nazionale, corroborato dalle conquiste davidiche e dagli splendori salomonici, viene fatta una rilettura del proprio passato e in Davide e Salomone si vedono realizzate le promesse di Dio fatte ad Abramo; anzi, proprio in Davide si vede rafforzata per sempre questa promessa (Natan).

 

Si delinea così la teologia dello Jahvista:

 

-    Israele è una grande nazione in forza della promessa e della benedizione di Dio ad Abramo;

-    Questa salvezza acquista una valenza universale: "In te (Abramo) saranno bene dette tutte le famiglie della terra" (Gen. 12,3)

-    La storia dell'umanità, grazie ad Abramo, non è più sotto il segno della maledizione, ma della benedizione: "Farò di te un grande popolo e ti benedirò; renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione ... e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra" (Gen.12,2-3)

 

 

La Tradizione Elohista

 

 

Dopo lo scisma del 933 a.C., si rende necessari staccare totalmente il Regno del Nord da quello di Giuda e darsi, anche per il Regno del Nord, una legittimazione politica e religiosa. Fu così che, sotto la spinta dei profeti del Nord, nasce la Tradizione Elohista che punta a legittimare anche per Israele l'alleanza del Sinai e sostenere le esigenze della Legge contro un sincretismo religioso cananeo. In pratica, si trattava di resistere ai costumi, alle usanze e alle culture proprie delle popolazioni cananee.

L'Elohista, pertanto, presenta i Patriarchi come modelli di fedeltà a Dio: "Abramo ebbe fede nel Signore e per questo il Signore glielo accreditò come giustizia" (Gen.15,6).

L'elohista è una tradizione piuttosto limitata e frammentaria.

 

 

La Tradizione Sacerdotale

 

 

Quanto a questa Tradizione, essa nasce in periodo esilico a sostegno della fede di Israele e per rafforzarlo nella speranza.

 

La promessa di Dio non è legata alla bravura del popolo, bensì alla fedeltà di Dio che ha stabilito un'alleanza perenne con Abramo: "Stabilirò la mia alleanza conte e la tua discendenza dopo di te, di generazione in generazione, come alleanza perenne" (Gen.17,7). Proprio in forza di questa promessa ed alleanza essi, dunque, non avevano perso i loro diritti sulla promessa che è estesa anche a loro, nonostante le loro infedeltà.

 

La teologia delle tre Tradizioni (J-E-P) si può riassumere dicendo che Israele è una grande nazione a respiro universale (J); una grandezza che permane anche in una situazione di crisi per la fedeltà di Dio che apre il popolo alla speranza (P) e lo assiste nel suo cammino in mezzo alle genti (E).

 

 

 

Il ciclo di Abramo - Gen. 12 - 25 - spunti di esegesi

 

 

 

I racconti sui Patriarchi mostrano dei nuclei fondamentali:

 

-    ciclo di Abramo (Gen. 12-25), che presenta il materiale più arcaico dell'epoca dei  Patriarchi ed esprime più una riflessione teologica che una vera e propria storia, anche se non si esclude un certo nucleo di autocoscienza storica di Israele.

-    ciclo di Giacobbe (Gen. 25-35)

-    ciclo di Giuseppe (Gen. 37-50) in gran parte postesilico e costituisce l'aggancio  all'Esodo.

 

L'inizio dei cicli dei Patriarchi incomincia con Abramo ed è preparato da una breve genealogia in cui viene presentato l'ambiente parentale di Abramo (Gen. 11,27-32): Terach genera Abram, Nacor e Aran che genera Lot e Milca che va in sposa allo zio Nacor, mentre Abram sposa Sarai.

Mentre Terach rimane con Lot, Abram e Sarai se ne vanno da Ur dei Caldei e si stabiliscono a Carran dove Abramo riceve la chiamata.

 

Il movimento da Ur verso Carran e da qui, attraverso Canaan, in Egitto rientra nei normali flussi migratori delle popolazioni nomadi.

 

Quanto al distacco di Terach da Ur e di Abramo da Terach, rientrava anche questo nelle normali logiche migratorie: quando il clan o i clan diventavano troppo numerosi per soddisfare le proprie esigenze di vita e di pascolo, si staccavano e si formavano gruppi nuovi a se stanti.

 

Il Dio con cui Abramo interloquisce è già definito Jhwh e il parlare di Dio, espresso qui in modo antropomorfico, caro allo Jahvista, in realtà sono illuminazioni o ispirazioni interiori che si traducono in una forza che spinge a "fare".

 

Il Dio con cui Abram ha a che fare è il dio del Padre che diviene il Dio del clan. Qui non siamo ancora nell'ambito di un monoteismo, bensì di un enoteismo, un dio che prevale per importanza sugli altri. Esso diviene il dio del clan che interferisce con la vita e la sopravvivenza stessa del clan.

E' questo un dio che assume coloriture proprie del nomadismo e che si impegna con promesse che caratterizzano il nomadismo: la discendenza, che garantisce la sopravvivenza del clan; e la terra dove il clan aspira a stabilirsi.

Questo dio del clan è un dio nomade che è legato non ad un luogo, ma all'uomo e già si identifica con Jhwh, il Dio dell'Esodo e dei profeti. Infatti anche qui nell'Esodo questo Dio si muove con il popolo verso quella terra a cui questo popolo aspira e che costituisce la promessa di Dio.

 

Abramo è invitato ad "andare" e l' "andare" è il verbo proprio dell'Esodo. Si viene a creare, quindi, qui un parallelismo tra l'andare di Abramo verso la terra promessa e l'Esodo, cioè l'andare del popolo sempre verso la terra promessa.

Questo "andare" è accompagnato dalla promessa di una discendenza e di una terra ed è caratterizzato dalla benedizione che imprime alla promessa il marchio della fecondità di Dio.

 

Il racconto si chiude con il rilievo che "allora, Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore" (Gen.12,4a). In Abramo, quindi, Israele si scopre quale popolo dell'ascolto e della fede in Jhwh.

 

Abramo, pertanto, con il suo pellegrinare da Ur, Carran, Sichem, Betel, Negheb, Egitto diventa il modello degli esiliati che da Babilonia, ripercorrendo il cammino di Abram, torna in patria.

Questo modello di Abram servirà agli esiliati ritornati in patria per rivendicare il possesso della terra su quelli che erano rimasti, perché loro, come per Abram, avevano ricevuto l'ordine da parte di Dio di ritornare e di prendere possesso della terra.

 

Il racconto continua citando tre località: Sichem, Betel e Negheb che riflettono gli itinerari classici del nomadismo verso il sud e richiamano antichi luoghi di culto.

 

Il racconto si chiude con l'episodio di Abram e Sarai in Egitto con cui si vuole elogiare l'astuzia del patriarca e la protezione che Dio gli ha accordata.

 

Gen. 15: E' questo un testo molto discusso e che non si ritiene antico. Esso potrebbe costituire un'inserzione di tipo redazionale in cui si cerca di sviluppare dettagliatamente  la promessa e l'alleanza di Dio con Abramo, accennate in Gen.12,1-4. E', quindi, una sorta di ripresa redazionale di Gen.12,1-4 in cui si sviluppa quanto là contenuto. Tuttavia il capitolo contiene una notevole ricchezza di elementi che sviluppano e arricchiscono Gen.12,1-4: promessa di un erede e di una discendenza più numerosa delle stelle del cielo, la sottolineatura che Abram "credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gen.15,6); infine, il rito dell'alleanza con cui Dio passando in mezzo agli animali divisi impegna se stesso con Abram e la sua discendenza.

 

Gen. 17: questo capitolo è scritto nel clima dell'esilio o del postesilio, e l'autore è perfettamente a conoscenza delle Tradizioni e dei termini dell'alleanza che rilegge, attribuendone le origini al rapporto di alleanza tra Dio e Abram.

 

Gli elementi fondamentali che costituiscono e fondano il rapporto Dio-Abramo e in Abramo, Dio-Israele sono:

 

-    un'alleanza seguita dalla promessa di una numerosa discendenza; un'alleanza che è perenne e che, quindi, non è legata al comportamento dell'uomo, ma alla promessa di Dio e, pertanto, a Dio stesso.

-    Il segno di questa alleanza diventa ad essere la circoncisione, comune all'epoca, ma che qui viene caricato di un significato nuovo.

-    Vengono cambiati i nomi di Abram e Sarai in Abramo e Sara, segno di un mutato   rapporto tra uomo e Dio.

 

Il tutto è irrorato dalla benedizione , segno della fecondità che Dio sparge a piene mani in Abramo e la sua discendenza.

 

Gen. 22: questo capitolo, riguardante il sacrificio di Isacco, viene attribuito alla Tradizione Elohista.

In esso si parla della prova a cui Abramo viene sottoposto per saggiare la sua fede e la sua fedeltà a Dio, provata in ciò che Abramo ha di più caro e che costituisce anche l'oggetto della promessa di Dio che, con la richiesta di sopprime Isacco, sembra rimangiarsi la promessa.

 

Il nucleo storico di questo racconto, finalizzato a mettere in rilievo la fede di Abramo che si fida di Dio contro ogni logica e ogni buon senso, si ritrova o in un grave pericolo a cui Isacco è stato sottoposto e, poi, così mitizzato; oppure per indicare come il Dio di Abramo, contrariamente agli altri dèi, rifiuta il sacrificio umano che, invece, caratterizzava i Semiti dell'Ovest.

 

Si ha qui, pertanto, il passaggio da un certo tipo di culto con sacrifici umani ad uno che sostituisce l'uomo con l'animale. Significativo, in tal senso, l'espressione: "Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio" (Gen.22,13b).

 

I versetti 15-18 sono chiaramente un'aggiunta tardiva che riprendono il tema dell'alleanza, della promessa e della benedizione.

 

 

Il ciclo di Isacco - Gen. 21.22.24.26

 

 

Il ciclo di Isacco non è indipendente, ma si intreccia con quello di Abramo (cap.21.22.24) e appare in secondo piano nella storia di Esaù e Giacobbe (Gen.25,19-28;27;28,1-9;35,27-29). Solo il cap. 26 appare interamente dedicato ad Isacco, benché sembri essere più che altro una raccolta di racconti su Isacco che si ritrovano nel ciclo di Abramo:

 

-   Ripresa in Gen.26,1-5 delle benedizioni e delle promesse ad Abramo, che si leggono in Gen. 12,1ss

-   Ripresa del camuffamento di Rebecca come sorella in 26,6-11 e che si ritrova in Gen. 12,10-20 e 20,1-18.

-   Ripresa dell'alleanza con Abimelek in Gen. 26,25-33 che si ritrova in 21,22-32

 

Le ipotesi formulate su questo cap. 26 sono due:

 

-    Questi sono pezzi di un antico ciclo di Isacco, i cui elementi essenziali sono stati inseriti nel ciclo di Abramo.

-    Oppure, l'ipotesi che non ci sia mai stato un ciclo di Isacco, ma uno solo di  Abramo/Isacco, per cui il cap. 26 diventerebbe un rafforzamento della figura di Isacco.

 

Da un punto di vista teologico, Isacco ci è presentato come il figlio della promessa in cui si realizzerà la benedizione di Dio:: il seme di Abramo è reso fecondo e diventerà nazione potente.

 

 

Il ciclo di Giacobbe - Gen. 25.27-35

 

 

Il ciclo di Giacobbe fu costituito secondo uno schema classico finalizzato a cantare le gesta dell'antenato, esaltarne il suo rapporto con il dio del clan e a rendere conto delle origini di Israele. In tal modo questi cicli patriarcali formavano da carta di identità di Israele.

 

Un ciclo questo che si intreccia con quello di Isacco, a cui Giacobbe sottrae con l'inganno la benedizione spettante ad Esaù; e, nella parte finale, con quello di Giuseppe.

 

Il materiale di cui è formato questo ciclo è prevalentemente dello Jahvista (cap.28-36) in cui si intreccia con elementi elohisti.

 

La narrazione dello Jahvista, sorta nel X° sec. a.C., ai tempi di Davide e Salomone, cerca di creare delle giustificazioni teologiche e politiche alle situazioni storiche del X° sec. e precisamente:

 

•    Nascita di Israele fondata da una federazione di 12 tribù, che trovano la loro origine nei 12 figli di Giacobbe e in cui Israele risulta essere il frutto di una promessa e di una benedizione che poggiano sull'alleanza di Dio con Abramo.

•   Tende a giustificare la sottomissione degli Edomiti (discendenti di Esaù), tagliati fuori dalla progenitura e dalle benedizioni, da parte del re Davide, discendente di Giacobbe, che aveva ricevuto autorità e potere su Esaù e la sua discendenza.

 

Mentre nel racconto di Betel, in cui avviene il sogno della scala, Dio rinnova con Giacobbe le promesse e le benedizioni fatte ad Abramo, riportando sostanzialmente il testo di Gen. 12,1ss.  A Betel la casa di Giacobbe, dunque, fonderà un santuario. Queste promesse si realizzeranno proprio a Carran, presso lo zio Labano di cui, poi, sposerà le figlie Lia e Rachele, divenendo per lo stesso Labano una benedizione.

 

Tra Labano, arameo, e Giacobbe si concluderà un accordo familiare, ma anche politico che stabilirà i confini tra i due gruppi: aramei e israeliti, giustificando, così, la superiorità di Israele sugli Aramei.

 

Importante, infine, la lotta che Giacobbe sostiene presso il fiume Iabbok con Dio, che si conclude all'alba e in cui Dio cambierà il nome di Giacobbe in Israele (colui che combatte con Dio) "... perché hai combattuto con Dio e gli uomini e hai vinto" (Gen.32,29). Una frase storica questa perché riassume e profetizza il destino di Israele sempre in lotta con Dio e con gli uomini, ma sopravvivendo lungo i secoli fino ai nostri giorni.

 

La Tradizione Sacerdotale, riscontrabile in alcune liste di nomi, dà un nuovo senso al viaggio di Giacobbe in Mesopotamia: esso serve per legittimare una delle leggi importanti in Israele: il divieto di sposare donne pagane per salvaguardare l'integrità delle Tradizioni dei Padri e della Torah.

 

Prima di partire per la Mesopotamia, Giacobbe riceve dal padre le benedizioni che si realizzeranno proprio a Carran, da dove, poi, riceverà ordine da Dio di ritornare in Palestina.

 

Questa tesi, per il Sacerdotale, si mostra valida anche per l'Israele in esilio a Babilonia: è sempre lo stesso Dio di Giacobbe che ordina il rientro in Palestina, la sua ripopolazione e ricostituzione. Come Giacobbe anche l'Israele dell'esilio è ora benedetto da Dio.

 

Questi cicli sui Patriarchi, e in particolare quello di Giacobbe, lasciano intravedere i movimenti di alleanza e rivalità tra i vari clan che, in questo dinamismo primordiale, dànno origine alle attuali popolazioni che si muovono nel X° sec. a.C. nella Palestina, per cui Giacobbe, Esaù e Labano sono divenuti rispettivamente Israele, Edomiti ed Aramei, giustificando, così, confini, conquiste superiorità, ecc.

 

Da tutti questi movimenti è emersa, o forse costruita, la figura di Giacobbe in cui Israele radica il suo passato, fatto di benedizioni, di promesse e di alleanze e di cui Israele è figlio.

 

Da uno sguardo d'insieme di questi cicli patriarcali nasce l'impressione della costruzione di un grande albero genealogico degli antenati di Israele e di popoli che con Israele si fondono, giustificando, in tal modo, i rapporti di Israele con questi.

 

 

Il ciclo di Giuseppe - Gen. 37-50

 

 

Il ciclo di Giuseppe, più che un racconto storico è una narrazione di tipo sapienziale in cui concorrono, in vario modo, tutte Tradizioni con la prevalenza di quella Jahvista.

 

Il racconto vuole evidenziare il Dio dei Padri che, pur non intervenendo visibilmente, guida le vicende terrene indirizzando al bene anche le azioni malvagie.

 

Il racconto trova la sua unità e la sua redazione finale intorno al VI°-V° sec. a.C., in epoca, comunque, quasi immediatamente postesilica. In tal senso è significativo l'episodio di Giuseppe che sposa l'egiziana Asenat (Gen.41,50). La presenza di tale episodio sta a significare che non erano ancora presenti le leggi integriste di Esdra (450 a.C.) e Neemia sul divieto dei matrimoni misti. Inoltre la figura di Giuseppe è tratteggiata secondo lo stile dei sapienziali del postesilio.

 

Il racconto forma da trait-d'union tra la storia dei Patriarchi, le cui vicende si svolgono prevalentemente tra la Mezzaluna fertile e la Palestina, e il popolo ebreo che con Esodo lo si ritrova in Egitto da almeno quattrocento anni, spiegando, in tal modo, la sua presenza colà e la sua condizione di schiavitù.

 

Con la vicenda di Giuseppe si chiude anche quella del padre Giacobbe.

 

Il cap. 49 raccoglie il testamento spirituale di Giacobbe ed è una panoramica sulle dodici tribù d'Israele, da cui emerge la figura di Giuda a cui è preannunciato il governo di Israele e l'avvento di una figura regale universale, quasi certamente Davide, e in cui la rivisitazione cristiana vi ha ravvisato quella di Cristo (Gen.49,8-12).

 

In questa carrellata sembra quasi contemplare una carta geografica e storica della Palestina in cui sono segnati i destini di tutte le dodici tribù.

 

La Genesi, infine, si chiude con la morte di Giuseppe che lascia ai fratelli la profezia che, nel chiudere la Genesi, si apre all'Esodo e vi serve da aggancio: "Poi Giuseppe disse ai fratelli :<<IIo sto per morire, ma Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questo paese verso il paese che Egli ha promesso con giuramento ad Abramo, Isacco e Giacobbe>>" (Gen.50,24).

 

 

 
 
IL LIBRO DELL'ESODO

 

 

 

 

Premessa

 

 

Il Libro dell'Esodo costituisce il fondamento storico-religioso di Israele senza il quale l'esistenza stessa di Israele e di tutto l'Antico Testamento non è pensabile. L'esperienza dell'Esodo, dunque, è fondante per Israele e ogni generazione la farà risuonare in sè. In tal senso recita il Talmud: "Ogni generazione deve considerare se stessa come uscita dall'esodo".

 

Un'esperienza forte quella dell'esodo a cui Dio, Israele, i Profeti e i Salmisti faranno continuamente riferimento e a cui si richiameranno nei momenti di difficoltà, così che Israele potrebbe essere definito come il popolo dell'Esodo.

 

I fatti e gli avvenimenti che vi sono riportati non vanno letti come storia nel senso in cui oggi si intende, anche se una certa base storica non è esclusa.

 

L'esodo ci si propone come una lettura teologica della storia, che è, quindi, "storia interpretata" che sfocia in una testimonianza di fede in cui i fatti diventano eventi; in cui la rigorosità scientifica della storia cede il posto all'evento vissuto come esperienza salvifica; in cui il quadro storico può diventare una cornice d'importanza del tutto secondaria, talvolta anche solo ornamentale e, comunque, sempre finalizzata a mettere in rilievo l'evento salvifico in essa colto.

 

Un altro elemento importante che si impone nella odierna esegesi è il tema della "Dimora", il luogo, cioè, della residenza di Dio dove Dio e l'uomo si incontrano. Essa diventa la testimonianza della presenza di Dio in mezzo al suo popolo; un Dio che si rivelerà non solo di essere con il suo popolo, ma che cammina con il suo popolo. In tal senso, il tema della "Tenda" diventa ad essere la chiave di lettura dell'intero Esodo e che trova la sua sintesi mirabile nel nome stesso di Dio, rivelato a Mosè: "ehjeh aser ehjeh": "Io sono colui che sono", ma anche "Io sono colui che sarò".

 

 

La struttura di Esodo 1,1 - 6,27

 

 

Essa presenta:

 

            - Due genealogie: Es.1,1-7  e  Es.6,14-27 che racchiudono tra loro ...

            - Tre sequenze: Es.1,8-2,22  ;  Es. 2,23-5,5  ;  Es.5,6-6,13

 

 

Prima genealogia: Es. 1,1-7

 

 

Si apre con l'elenco delle dodici tribù stanziatesi in Egitto con Giacobbe. Si evidenzia che la discendenza di Giacobbe era di settanta persone, cioè una grande quantità che troverà la sua eco nel versetto 1,7: "I figli di Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti e il paese ne fu ripieno". Si realizza qui la promessa di Dio ad Abramo: "Farò di te un grande popolo" (Gen.12,2).

 

 

Prima sequenza: Es.1,8 - 2,22

 

 

1) Si apre con l'annuncio di un nuovo faraone "che non aveva conosciuto Giuseppe", evidenziandone così l'estraneità con il popolo e la sua storia; e con la constatazione che Israele "è più numeroso e più forte di noi" costituendo in tal modo una seria minacci per l'Egitto.

 

2) Segue, pertanto, l'ordine di opprimere Israele, dapprima con lavori forzati; poi, con l'uccisione dei maschi. Una nota di colore che prelude al conflitto tra il popolo e il faraone e alla sconfitta di quest'ultimo: "Ma quanto più opprimevano il popolo, tanto più si moltiplicava e cresceva oltre misura" (Es.1,12). E' l'effetto della benedizione di Dio e della promessa fatta ad Abramo che non può essere vinta da nessuna potenza umana.

 

3) Si passa, pertanto, al racconto della nascita di Mosè, sulla falsa riga di quella di Sargon I°, grande conquistatore mesopotamico del XXV° sec. a.C., collocando in tal modo Mosè sulla linea dei grandi personaggi e mettendolo sotto la protezione di Dio.

La salvezza viene proprio dalla figlia del persecutore che, ironia della sorte, lo restituisce inconsapevolmente alla madre. Gli impone il nome di "Mosè", in ebraico Moseh,, collegato al verbo "masa" che significa "ritirare da". L'origine del nome, tuttavia, è egiziano ed è teoforico. Esso era unito al nome di divinità: Ah-mosis, Tut-mosis, Ra-mosis, ecc. che poneva il bambino sotto la protezione della divinità. Il nome di Mosè qui ci viene dato già depurato dal nome del dio.

 

4) Ci viene presentato un Mosè allevato presso la corte del faraone e che vive lo stato di oppressione del suo popolo. Ma per evitare che si possa equivocare sul chi salverà il popolo, Mosè, attraverso l'escamotage della fuga, viene rispedito nella terra dei Patriarchi da dove, purificato della cultura egiziana, sarà reso capace di ascoltare la voce del Dio dei Padri di cui diventerà il profeta e il servo.

 

 

Seconda sequenza: Es. 2,23 - 5,5

 

 

1) Attraverso una nota redazionale che chiude un'epoca iniziata con Es.1,8 ("Allora sorse in Egitto un nuovo re") il redattore afferma che "nel corso di quegli anni il re d'Egitto morì" (Es.2,23), riepilogando lo stato di prostrazione e di sofferenza in cui si trovavano gli Israeliti ed evidenziando l'attenzione e la cura di Dio "che si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe". Ancora una volta, dunque, la molla che fa scattare l'intervento di Dio è la promessa-alleanza che costituisce il leit-motiv di tutta la storia della salvezza. Dio, dunque, ancora una volta si mostra fedele a se stesso. E' in questa prospettiva che va capita la vocazione di Mose.

 

2) La narrazione prosegue con il racconto della vocazione di Mosè, che si sviluppa secondo lo schema delle vocazioni: teofania, missione, obiezione, segno, conferma, conclusione. La teofania è segnata da numerose ed estenuanti obiezioni da parte di Mosè che non sembrano finire mai, tant'è che Dio si irrita con Mosè. Quali segni Dio rivela il suo nome, opera i prodigi della mano lebbrosa e dei bastoni mutati in serpenti. Infine, la conferma della missione: "Ora va! Io sarò con la tua bocca" (Es. 4,12).

 

3) Viene presentata la missione di Mosè ad Aronne, accolta dagli Israeliti ("Allora il popolo credette"), ma, come previsto da Dio, respinta dal faraone.

La festa da celebrare era, probabilmente, il rito propiziatorio della pasqua in uso presso i pastori nomadi e seminomadi e che gli Ebrei avevano l'abitudine di celebrare. Ma quell'anno il faraone rifiutò sia per motivi di sicurezza delle frontiere che per una maggiore resa sui lavori.

 

Nel racconto sulla liberazione è interessante vedere le tre diverse prospettive delle Tradizioni J-E-P .

 

La Jahvista mette sempre in primo piano Jhwh e in secondo Mosè, ridotto ad un mero esecutori di ordini al servizio di Dio.

 

La Elohista, invece, presenta Mosè come lo strumento operativo di Dio; è messo in primo piano ed è un autentico protagonista.

 

La Sacerdotale, invece, vede Mosè come l'uomo del dialogo con Dio, che parla solitario nella nube con Dio. La figura di Aronne è decisamente rivalutata; diventa il responsabile dei sacrifici insieme ai leviti ed egli è sempre abbinato a Mosè.

Sembra che qui, a far da chiave di lettura della situazione, sia la situazione di Babilonia.

 

 

Intermezzo: il nome di Dio

 

 

Secondo la mentalità degli antichi, il nome rivela ed esprime l'essenza stessa della persona. E' una sorta di carta di identità, di credenziali che mette in comunione le persone tra loro.

Conoscere il nome è come un autodonarsi agli altri, un farli partecipi della propria vita. Esso è un po' come il marchio della persona che ne rivela la natura e l'impegno nei confronti dell'altro.

 

Il nome Jhwh sembra essere di origine pre-esilica ed è filologicamente legato al verbo "Hayah" o "Hawah", che significano "Essere" , "Esistere", ma anche "Essere agendo".

Quindi, il nome rivelato "Ehyeh aser  Ehyeh" può assumere diverse valenze, poiché il verbo "essere" (hayah) esprime il valore di "esserci", ma anche un senso futuro, così che l'espressione potrebbe essere parimenti e correttamente tradotta con "Io sono colui che sono", esprimendo così la costante presenza di Dio in mezzo agli uomini, diventando per eccellenza l'Emmanuele, il Dio con noi fino al punto, in Cristo, di condividere la sorte degli uomini.

Ma esso può anche voler dire "Io sono colui che sarò"; in altre parole Dio si qualifica come una presenza (Io sono) che cammina con gli uomini e si muove con loro nel divenire della storia (colui che sarò).

Si potrebbe, dunque, pensare a un Dio che, pur presente in mezzo agli uomini, si lascia da loro cogliere solo nell'esperienza e nel divenire della storia. E' un nome, dunque, che contiene in sè una promessa e apre l'uomo alla speranza: pur essendo con te, Dio è anche sempre là dove l'uomo non è ancora arrivato, e lo stimola a coglierlo nell'esperienza quotidiana, in una storia che inesorabilmente si evolve e diviene. Sicché egli può ben essere definito il Dio con noi e che cammina insieme a noi, assumendo, di volta in volta, il volto dell'esperienza.

 

Infine, il nome di Dio viene presentato nella Bibbia con varie espressioni come "El" o "Eloim", che contengono in sè una nota di universalità e indicano il Dio degli altri popoli e fanno riferimento alla divinità in generale.

 

Man mano, però, che la divinità viene sperimentata, accanto al nome "El" compaiono altri termini che ne definiscono le caratteristiche, legate all'esperienza della divinità, per cui si avrà: "El-Elyon" (Dio altissimo); "El-Shadday" (Dio onnipotente o della montagna); "El-Olam" (Dio eterno); "El-Betel" (Dio di Betel).

 

Ma se "El" è il nome generico di Dio, Jhwh è il nome di Dio per antonomasia, perché da lui stesso rivelato; è il nome che non si può neppure nominare e che viene, pertanto, sostituito con "Adonaj" (Signore).

 

 

Terza sequenza: Es. 5,6 - 6,13

 

 

In questa sequenza si accentra l'attenzione sull'apparente fallimento di Dio: alla richiesta di Mosè di concedere al popolo un atto di culto da compiersi a tre giorni di cammino nel deserto, il faraone inasprisce il lavoro agli Ebrei. L'opposizione del faraone, che prelude l'indurimento delle dieci piaghe, era già stato annunciato da Dio in Es.4,21: "... indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il mio popolo". Quindi, più che di sconfitta, bisogna parlare di un procedere delle cose secondo i piani di Dio. Ciò, tuttavia, provocherà una sfiducia del popolo nei confronti di Dio, a cui prima, invece, aveva creduto: "Allora il popolo credette" (Es.4,31).

 

E' questa, tuttavia, l'occasione per riprendere il tema dell'alleanza e della promessa a cui Dio, comunque, è fedele. Infatti, il cap.6 diventa una sorta di teologia della promessa. Esso si apre ripercorrendo le tappe della promessa e dell'alleanza fatta con i Padri: "Io sono il Signore! Sono apparso ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe ... Ho anche stabilito la mia alleanza con loro per dar loro il paese di Canaan. Sono ancora io che ho udito il lamento degli Israeliti e mi sono ricordato della mia alleanza" (Es.6,3-5). Mentre in Es.6,6-8 vengono riepilogati i temi dell'alleanza e della promessa.

 

 

Il racconto delle piaghe: Es. 6,28 - 11,10

 

 

Ciò che fa da sfondo a tutto il racconto delle piaghe e che è la causa del contendere, è l'arcaica usanza dei popoli nomadi e seminomadi di celebrare un sacrificio con l'aprirsi della nuova stagione (marzo-aprile) per propiziarsi le divinità e allontanare gli influssi malefici. Così, infatti, si esprime Es.5,1: "Lascia partire il mio popolo perché mi  celebri una festa nel deserto".

 

Questa festa, dunque, che ha origini nomadiche, pastorali e agricole, sarà caricata da Israele di un nuovo significato.

 

Il racconto delle piaghe, che poggia su due tradizioni (J-P) con qualche frammento di E, si sviluppa su dieci calamità che colpiscono l'Egitto e che, per alcune di queste, si riscontra un fondamento storico nell'Africa del Nord.

 

Tali piaghe, probabilmente in origine, erano soltanto una, la X°. Infatti, Es.4,23 afferma: "Io ti avevo detto lascia partire mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di farlo partire. Ecco, io faccio morire tuo figlio primogenito". Come si può ben vedere in questo versetto è riassunto tutto il motivo del contendere, viene emesso un giudizio ed una condanna: la morte del primogenito del faraone. Di un solo primogenito, dunque, non di tutti i primogeniti.

Posta in questi termini la cosa diventa più credibile e si può anche ipotizzare un fondamento storico: in primavera, l'epoca in cui anche da un punto di vista sanitario si risvegliano i virus, una pestilenza colpì gli Egiziani, ma non gli Ebrei che, peraltro, vivevano separati dagli Egiziani.

Le altre piaghe, pertanto, sono state aggiunte per evidenziare lo scontro tra Dio e il faraone, che non vuole cedere e indurisce il suo cuore.

 

In effetti, il tema dell'indurimento del cuore che, in vario modo, si ripete come un insistente ritornello al termine di ogni piaga, evidenzia la mancanza di disponibilità del faraone. Proprio su tale indurimento, a volte, si afferma che è il faraone ad indurire il proprio cuore, altre volte, invece, che è Dio che indurisce il cuore. In questa altalena si vuole evidenziare, da un lato, la responsabilità dell'uomo di fronte ai disegni di Dio a cui può anche opporsi e, dall'altro, un Dio che non fa indurire il cuore, ma abbandona l'uomo al suo indurimento.

 

Secondo la Tradizione Jahvista, le piaghe si snodano secondo lo schema del "6+1" in cui l'ultima e, forse, l'unica è quella decisiva e alla quale si aggancia il racconto della pasqua.

 

Il racconto delle piaghe, pertanto, diventa ad essere la risposta di Dio data al faraone, che risponde a Mosè e ad Aronne: "Chi è il Signore perché io debba ascoltare la sua voce?" (Es.5,2). Una risposta che si svilupperà in un crescendo che sottolinea la superiorità di Dio e che porterà il faraone ad esclamare: "Questa volta ho peccato, il Signore ha ragione. Io e il mio popolo siamo colpevoli" (Es.9,27). Pertanto nella prospettiva di Israele le piaghe diventano un modo per "dare ragione a Dio".

 

 

Il memoriale della pasqua  e  il passaggio del mare

        Es. 12,1 - 13,16                     Es. 13,17 - 14,31

 

 

L'esperienza della liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto è raccontato da due blocchi narrativi: il memoriale della pasqua (Es.12,1-13,16) e il passaggio del mar Rosso (Es.13,17-14,31).

 

Il memoriale della pasqua, più che raccontare l'uscita dall'Egitto, sembra essere una raccolta di testi liturgici che determinano la celebrazione di un rito costituito da tre aspetti che si rifanno ad un'unica esperienza: la pasqua, la settimana degli azzimi e il riscatto dei primogeniti.

A questi tre aspetti si aggiunge una sorta di legislazione complementare (Es.13,43-49) finalizzata ad individuare chi appartiene al vero Israele, la quale cosa fa pensare allo stato di confusione e di perduta identità in cui si trovava Israele al ritorno dall'esilio babilonese. All'interno di questo meticoloso rituale sono incastonati i fatti che accaddero nella notte di liberazione (la X° piaga) e ciò per agganciare il rituale alla storia e non renderlo una sterile litania di regole insignificanti. Il rituale, invece, è vivo perché affonda le sue radici nella storia e lo perpetua nel tempo, conferendo ad ogni generazione che lo celebra la carica di salvezza di quegli eventi, così che recita il Talmud: "Ogni generazione deve sentirsi personalmente uscita dall'esodo".

 

 

I riti della pasqua

 

 

Si agganciano a delle antichissime tradizioni di pastori nomadi i quali, dopo lo stanziamento invernale, a primavera, nel mese di abib (=spighe, divenuto dopo l'esilio nisan), tra marzo aprile, riprendevano il loro migrare in cerca di nuovi pascoli. Prima di riprendere il loro migrare, celebravano dei riti propiziatori: al chiarore della luna piena, la notte prima di partire, sacrificavano i primi nati del gregge e con il loro sangue tingevano le tende a scopo propiziatorio, mentre l'agnello veniva mangiato in famiglia in una sorta di pasto cultuale, il cui significato era quello di rinsaldare i vincoli di parente.

 

Era questo, probabilmente, la festa che gli Ebrei avevano chiesto al faraone di poter celebrare e che il faraone ha respinto, dando origine al contenzioso sfociato, poi, nella liberazione del popolo.

 

Fu proprio questa festa, dalla mancata celebrazione, che venne caricata da Israele di un nuovo significato, strettamente collegato alla liberazione.

 

 

Il rito degli azzimi

 

 

Inizialmente separato dalla pasqua, fu successivamente, dopo l'esilio, unito ad essa in quanto che cadente nello stesso tempo ed avente, sostanzialmente, lo stesso significato. Esso era una festa essenzialmente agricola, che richiama il tempo di Israele in Canaan.

 

Questa festa agricola, massot, dava inizio alla mietitura e comportava una processione al tempio in cui si offriva alla divinità il primo covone, ed aveva un contenuto propiziatorio.

Durante questa festa si faceva il pane non lievitato, cioè azzimo, perché il vecchio lievito veniva gettato per lasciar posto a quello nuovo: era l'inizio di una nuova vita che si lasciava alle spalle quella vecchia.

 

Anche a questa festa agricola Israele conferirà un nuovo significato strettamente legato alla liberazione dalla schivitù. Sarà proprio il versetto 12,39 a consentire tale aggancio: "Fecero cuocere la pasta che avevano portato dall'Egitto in forma di focacce azzime, perché non era lievitata: erano stati cacciati, infatti, dall'Egitto e non avevano potuto indugiare".

 

 

Consacrazione e riscatto dei primogeniti

 

 

Risale in epoche arcaiche e se ne trova, probabilmente, traccia in Gen.22 (Sacrificio di Isacco) dove già qui si nota il passaggio dal sacrificio umano a quello sostitutivo con l'animale.

 

Il sacrificio dei primogeniti è un caso che rientra nella più vasta offerta delle primizie con cui l'uomo religioso, rinunciando alle primizie, riconosceva la supremazia di Dio su tutto e a cui le consacrava per mezzo del sacrificio. Per questo ogni primogenito veniva consacrato al Signore e, poi, riscattato con il sacrificio vicario di un animale. Infatti, questo è l'ordine di Dio: "Riscatterai ogni primogenito dell'uomo tra i tuoi figli" (Es.13,13) e questo perché per primo Dio stesso, nella notte dello sterminio, ha risparmiato i primogeniti degli ebrei. Pertanto, questi gli dovranno essere consacrati e l'uomo potrà riaverli solo se, in loro sostituzione, offrirà un sacrificio vicario di animali.

 

  

Il passaggio del mar Rosso: Es. 14

 

 

Il passaggio del mar Rosso, descritto dal cap.14 di Esodo, raccoglie in sè due tradizioni: la Jahvista e la Sacerdotale.

 

Per la prima (J) "Il Signore, durante tutta la notte, risospinse il mare con un forte vento d'oriente, rendendolo asciutto" (Es.14,21); mentre per la seconda (P) è la mano di Mosè che divide le acque e le raccoglie.

 

L'intero cap.14 si impernia su tre discorsi di Jhwh e un discorso di Mosè.

 

E' interessante notare come ad ogni discorso di Dio (Es.14,1-4; 14,15-18; 14,26) viene fatta seguire l'attuazione di quanto Dio dice. Tale modo di procedere richiama l'atto della creazione che alla Parola di Dio, definita da Ebr. 4,12 "viva ed efficace", risponde l'attuazione di quanto proclamato: "E Dio disse:<<Sia la luce>> e la luce fu" (Gen.1,3).

 

Inoltre, in Es.14,16-21 vediamo Dio che divide il mare e appare l'asciutto, richiamando Gen.1,9: "Le acque che sono sotto il cielo si ritirino in un solo luogo e appaia l'asciutto".

 

Da questi elementi traspare chiaro come l'opera della salvezza, il passaggio del mar Rosso, si configuri come una nuova creazione, l'inizio di una nuova storia.

 

Infatti, il popolo si trovava tra il mare, simbolo del caos primordiale e di morte, e gli Egiziani che vogliono riprendersi il popolo. Israele, dunque, si ritrova nel suo momento "zero" della sua storia in cui tutto è perduto e finito: Israele sta per essere annientato, l'azione di Dio vanificata e il popolo sta per tornare ad essere "non-popolo" perdendo la sua identità. E' proprio a tal punto che si inserisce l'atto salvifico e creativo di Dio: "Io mostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito" (Es.14,4).

 

Inoltre, due dei tre discorsi di Dio evidenziano un Dio che rendono ostinato il cuore del faraone, cioè lo abbandona a se stesso, così che il faraone si stupisce di aver lasciato partire il popolo e si spingerà al suo inseguimento fin dentro l'asciutto del mare per riportare il popolo in schiavitù.

 

E' questa l'esperienza del Male: incapace di evolvere verso situazioni nuove, ma tende sempre a ripiegare su se stesso e a tornare alle situazioni originali. Non c'è evoluzione, non c'è speranza.

 

Ma sopra questo caos primordiale risplende la gloria di Dio, così come lo Spirito di Dio aleggiava sopra le acque primordiali (Gen.1,2b). Questa gloria di Dio che è la luce primordiale da cui nasce la nuova creazione. La luce, gloria di Dio, è il primo atto creativo da cui tutto discende: "Io dimostrerò la mia gloria contro il faraone e tutto il suo esercito, così gli Egiziani sapranno che io sono il Signore" (Es.14,4.17).

 

Il terzo discorso di Dio ordina a Mosè di rinchiudere gli Egiziani nelle acque del mare: il Male è rinchiuso nel caos primordiale da cui è uscito. E' l'atto inverso della creazione: la creazione separa le acque, mentre qui esse vengono rinchiuse; il male, dunque, è l'involuzione della creazione.

 

Il discorso di Mosè, che è il quarto pilastro su cui si regge l'intero cap.14, risuona provvidenziale in mezzo ad un popolo che sta per tornare "non-popolo" ed essere inghiottito dal Male: "Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore opera per voi ... il Signore combatterà per voi e voi sarete tranquilli" (Es.14,13). Risuona qui il tema della "guerra santa" intesa come Dio che combatte per il suo popolo. E' la lotta primordiale per la creazione in cui "la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque" (Gen.1,2).

E' proprio su queste acque del caos primordiale che aleggia sovrano e incontrastato lo spirito di Dio. Ed è proprio da qui che scaturirà la nuova creazione, che porta in sè l'impronta divina: "... e Dio vide che ciò era cosa buona" (Gen.1,4). Ed è proprio qui che la luce sarà separata dalle tenebre, il male dal bene.

Dio, dunque, è vincitore del caos fin dai primordi: ed ecco che la paura degli Israeliti si trasforma in fede: "Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro gli Egiziani e il popolo temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè" (Es.14,31).

 

Le grandiose gesta di Dio, ricordate nel cap.14, risuonano, ora, nel cap.15, il Canto di Mosè, che riprende sottoforma epica, lirica e liturgica il cap.14.

 

La datazione di tale canto è incerta e, comunque, non è risalibile all'epoca di Mosè per le citazione dei Filistei al v.14, anche se contiene un nucleo arcaico, il v.21, il Canto di Maria, che alcuni autori ritengono il vero canto originale a cui, poi, sono stati premessi i primi 18 versetti.

 

 

Dal mare alla montagna: l'esperienza del Sinai

                      Es. 15,22 - 18,27

 

 

Questi capitoli narrano delle prime vicende del popolo ebreo nel deserto. Esso si qualifica subito come una prova che consiste nella penuria dei beni essenziali: acqua e cibo. Essi sono elargiti con il contagocce e sono strettamente correlati a Dio.

 

Le prove presentate in questi capitoli sono tre: Due riguardanti l'acqua (Mara e Massa e Meriba); una riguardante il cibo (manna al mattino, quaglie alla sera). In tutti e tre i casi il popolo leva le sue mormorazioni contro Dio e lo sfiducia.

 

Nella prima prova, acque di Mara, Dio risana le acque, ma lega questo bene essenziale ad una legge: "In quel luogo Dio impose una legge e un diritto" (Es.15,25). Benché questa legge nn sia specificata, tuttavia l'autore lascia intuire che si tratta della legge dell'ascolto: "Se tu ascolterai la voce del Signore tuo Dio e farai ciò che è retto ai suoi occhi ..." (Es.15,26). Questa legge dell'ascolto, da un lato, aiuta Israele a leggere e interpretare i segni, cioè a leggere la storia in senso teologico; dall'altro, lo predispone ad accogliere l'Alleanza e il suo Decalogo.

Infine, Israele deve capire che i beni essenziali per la sua sopravvivenza sono strettamente legati all'ascolto che deve farsi vita.

 

Il secondo racconto (cap.16), di Tradizione Sacerdotale, narra la vicenda della manna. Tale racconto è finalizzato alla istituzione e giustificazione del sabato, quale giorno consacrato al Signore. Esso è il cairos, il tempo di Dio che da senso e compiutezza a quello dell'uomo. La manna sarà un segno sacramentale della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: "è il pane che il Signore vi ha dato in cibo" (Es.16,15).

Come per le acque di Mara a cui Dio ha legato la legge dell'ascolto, così alla manna Dio ha legato la legge del sabato, il tempo di Dio: solo osservandolo l'uomo può accedere al bene esistenziale.

 

Ed, infine, la terza prova presso le acque di Massa e Meriba a Refidim. Anche qui la prova è ritmata dalla continua mormorazione. Questa prova ha come obiettivo di mostrare come i beni vitali non solo sono nelle mani di Dio, ma sono un suo dono. Infatti Dio dice a Mosè: "Prendi in mano il bastone con cui hai scosso il Nilo e va ... tu batterai sulla roccia, ne uscirà acqua e il popolo berrà" (Es.17,5-6). Il bastone di Mosè è l'emblema della potenza divina, è la stessa forza di Dio che qui permette al popolo di vincere la sete. Il racconto si chiude con una domanda: "Il Signore è in mezzo a noi si o no?" (Es.17,7). La risposta è costituita dal racconto seguente: la battaglia tra Amalek (discendenti di Esaù) e Israele (discendenti di Giacobbe); torna, qui, la rivalità tra i due fratelli. La vittoria di Israele è chiaramente dovuta alla presenza del Signore in mezzo al suo popolo: infatti, quando Mosè pregava Israele vinceva.

 

  

L'Alleanza al Sinai:  Es. 19,1 - 24,11

 

 

Questi capitoli raccolgono il "codice dell'alleanza" ed esprimono l'esperienza spirituale più viva e profonda che Israele ha fatto di Dio e di cui l'Alleanza con il suo Codice sono testimonianza.

 

Infatti, sarà proprio in questa profonda esperienza di Dio, che segnerà Israele per sempre fino ai nostri giorni, che Israele acquisirà la sua identità donatagli da Dio: "Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la mia proprietà ... voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es.19,5-6).

 

Una identità sacra, dunque, che costituisce Israele quale sacramento vivente di Dio in mezzo agli uomini e che è strettamente legata a due elementi tra loro inscindibili: l'ascolto e l'osservanza ("Se vorrete ascoltare la mia voce e custodire la mia alleanza")

 

L'origine del testo, in particolare le sue parti più antiche (Es.19,10-19 e 34) è cultuale e/o liturgica, benché il testo nella sua stesura attuale è certamente postesilica.

 

L'elemento nuovo, pertanto, che caratterizzerà Israele, d'ora in poi, è l'Alleanza che, secondo la cultura dell'epoca, crea quasi un legame di sangue tra i due contraenti.

 

Lo schema dell'Alleanza offerto dal cap.20 segue i più antichi protocolli in uso in Oriente, (circa una trentina quelli rinvenuti tra il XVIII° e il VII° sec. a.C.) e in particolare quelli provenienti dall'impero Assiro e dagli Hittiti.

 

Sostanzialmente essi propongono il seguente schema:

 

                        - Preambolo

                        - Prologo storico

                        - Lista delle parti

                        - Clausole dell'alleanza

                        - Lista dei testimoni

                        - Benedizioni e Maledizioni

 

Questo insieme letterario piuttosto complesso contiene la grande confessione di fede in Jhwh, visto come liberatore e Signore unico.

 

Tutto il racconto, contenuto nei cap. 19,1-24,11, è incorniciato dai versetti 19,7-8 e 24,3.7, che tra loro si corrispondono: "Mosè andò a riferire al popolo tutte le parole del Signore e tutte le norme. Tutto il popolo rispose insieme e disse:<<Tutti i comandi che ha dato il Signore noi li esieguiremo>> (Es.24,3) Si crea, quindi, una sorta di inclusione che testimonia la totale adesione del popolo su tutto ciò che è contenuto nel testo incluso, cioè i termini dell'Alleanza che con questa adesione diventa parte della vita e della storia di Israele, che nell'Alleanza troverà il senso della propria storia e la propria identità.

 

 

La Torah e il Decalogo

 

 

Il Pentateuco raccoglie in sè il Decalogo che sono i principi fondamentali su cui si informa il rapporto tra Dio e il suo popolo: essi sono due, quello di Es. 20,1-17  e  Dt. 5,6-21 .-

Queste linee fondamentali, che inquadrano in senso generico le relazioni tra Dio e Israele, sono seguite e specificate da cinque codici variamente sparsi nel Pentateuco:

 

                        - Codice dell'Alleanza :  Es. 20,22 - 23,19

                        - Codice Sacerdotale   :  Es. 25-31 e 35-40

                        - Codice di purità        :  Lv.   8 - 15

                        - Codice di santità       :  Lv. 17 - 26

                        - Codice deuteronom.  :  Dt. 12 - 26

 

Va da sè che questa enorme raccolta di leggi, che affondano le loro radici in racconti che li vincolano alla storia e dalla quale scaturiscono, quasi a testimonianza dell'esperienza di Dio in essi fatta, benché accreditata a Mosè e all'esperienza del Sinai, in realtà esse hanno diverse origini e tempi di formazione diversissimi e molto lontani tra loro. Esse vanno dai tempi dei Patriarchi alla monarchia e fino al secondo Tempio (520-515 a.C.). Costituiscono, quindi, una miscellanea il cui redattore postesilico ce ne dà una redazione essenziale e coordinata per codici.

 

 

Il decalogo: il problema dei dieci comandi

 

 

Il decalogo (in gr. deka logoi - in ebr. aseret haddebarim) costituisce un patrimonio morale e spirituale non solo di Israele, sul quale ha sviluppato 613 precetti, di cui 365 negati e 248 positivi, ma anche dell'intera umanità, indipendentemente dalla cultura e religione di appartenenza. Infatti nel decalogo sono contenute le linee guida essenziali che ineriscono alla struttura fondamentale dell'uomo nel suo rapportarsi con la divinità, se credente, o con gli altri. Sono norme essenziali di vita, la cui violazione intacca la stessa natura dell'uomo, pregiudicandone la sua stessa esistenza e il suo equilibrio esistenziale.

 

Questo decalogo è l'unico dato direttamente da Dio al suo popolo, senza la mediazione di Mosè, e forma una sorta di codice genetico, insito nella natura umana.

 

Il decalogo ci è giunto in due versioni diverse: Es. 20,1-17 e Dt. 5,6-21 con delle leggere varianti di cui le più significative sono:

 

•    La diversa motivazione adotta per l'osservanza del sabato. In Esodo ci si aggancia alla creazione del mondo condotta in sei giorni, mentre il settimo Dio riposò (Es.20,11). Mentre in Deuteronomio ci si aggancia alla liberazione dalla schiavitù (Dt.5,15)

•    L'inversione delle ultime due parole. In Es. 20,17: "Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo". Mentre in Dt. 5,21 si ha: "Non desiderare la moglie del tuo prossimo, non desiderare la casa del tuo prossimo"

 

Diverso è, infine, il modo di conteggiare i comandamenti:

 

•     Quello dei Rabbini che includono nei comandamenti il prologo: "Io sono il Signore tuo Dio, ecc.", ma unificano i due comandi "Non avrai altri dèi di fronte a me" con "Non ti farai idolo alcuno"

•     Quello dei cattolici e luterani che escludono il prologo, unificano, come i rabbini, i vv. 3-6, ma dividono i due comandi: quello di non desiderare moglie e casa del prossimo.

•     Quello degli ortodossi e dei riformati, che hanno diviso i due comandi: il "Non avrai altri dèi" e "Non ti farai idoli" che, probabilmente, è anche la più corretta.

  

Il decalogo: una lettura esegetica

 

 

Il decalogo oltre che essere presentato come le "dieci parole" è anche indicato come le "due tavole" (Es.32,15 e Dt.5,22). Infatti, è possibile dividerlo formalmente in due parti che riguardano le due tematiche di cui è composto:

 

•     Comandamenti riguardanti il rapporto con Dio.

•     Comandamenti riguardanti il rapporto con il prossimo.

 

Da un'analisi del testo, preso da Esodo, rileviamo come l'espressione "Signore tuo Dio" ricorra ben cinque volte nei versetti di Es. 20,2-12, mentre da Es. 20,13-17 l'espressione è sostituita con "il tuo prossimo".

 

Inoltre, vediamo come l'espressione  in Es.20,2 "Io sono il Signore tuo Dio che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto" formi una inclusione con Es.20,12 "... nel paese che ti dà il Signore tuo Dio".

Le due espressioni, infine, se ben si osserva, sono tra loro complementari, in quanto che la prima indica l'inizio dell'Esodo: "Il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto"; la seconda, invece, la fine: "... nel paese che ti dà il Signore tuo Dio".

 

Infine, è interessante rilevare come questa prima parte del decalogo si apre con l'affermazione che "il Signore è il tuo Dio" e si chiude con "Onora il padre e la madre", cioè l'invito di "glorificare" (questa è la traduzione letterale) il padre e la madre, riconoscendo in essi l'autorità di Dio; riconoscendoli strumenti di Dio e suoi collaboratori nel dare e conservare la vita.

 

Per questo insieme di cose, possiamo, dunque, concludere che l'intero decalogo è strutturalmente diviso in due blocchi: doveri verso Dio e verso il prossimo.

 

La parte centrale, sia in Esodo che in Deuteronomio, è riservata al sabato, come giorno sacro al Signore, il tempo di Dio che dà senso e significato a quello dell'uomo, benché diverse siano le motivazioni che giustificano il sabato: in Esodo ci si rifà alla creazione e al riposo di Dio nel settimo giorno; mentre in Deuteronomio ci si riferisce all'esperienza della liberazione che è vissuta da Israele come una nuova liberazione: ciò che re un non-popolo è diventato popolo, ricevendo una nuova identità ai piedi del monte Sinai: sarete mia proprietà, sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa.

 

Il nucleo storico e più antico del decalogo sembra essere Dt.5,6-10 e 17-21. Mentre quello di Esodo sembra essere una inserzione tardiva.

 

Benché il decalogo sia attribuito a Mosè, tuttavia esso ha origini lontane e sembra essersi formato tra il 722 e il 622 a.C. e l'esperienza del postesilio (538-450 a.C.) in un ambiente agricolo.

 

I destinatari sembrano essere contadini possidenti terrieri che hanno schiavi e schiave e che furono la maggioranza della popolazione.

 

"Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù"  (Es. 20,2)

 

Questo versetto forma il prologo al decalogo e lo giustifica. Una giustificazione che nasce e si radica nella storia, in quel evento di liberazione, grazie al quale, Israele da non-popolo è passato ad essere popolo di Dio e da questi ricevette la propria identità: sarete mia proprietà, sarete un regno di sacerdoti e una nazione santa.  Per cui quanto segue diventa ad essere un sigillo di garanzia, un sacramento di un'Alleanza  e di protezione.

Un popolo, quindi, liberato per rimanere libero e il Decalogo ne è sigillo di garanzia e testimone dell'azione liberatrice e liberante di Dio. Esso, quindi, costituisce l'orizzonte entro cui leggere il decalogo

 

"Non avrai altri dèi di fronte a me" (Es. 20,3)

 

Questo primo comandamento è la conferma di quel "Io sono il Signore tuo Dio" per cui Israele si qualifica proprietà di Dio e Dio l'unica divinità di Israele.

Non si può parlare ancora qui di puro monoteismo che, invece, maturerà durante l'esilio. Infatti, qui, Dio vieta di contrapporre a Lui altri dèi. Non si negano, quindi, gli altri dèi, né li si ritengono inesistenti o invenzioni umane, ma si vieta di contrapporli a quel Dio da cui Israele fu tratto in salvo o di metterli in concorrenza con Lui. Siamo, quindi, ancora in una fase preliminare di enoteismo, cioè di un Dio al di sopra degli altri dèi. Sarà solo in un secondo momento (esilio) che gli altri dèi sono "argento e oro, opera delle mani dell'uomo" e, pertanto, incapaci di intrattenere qualsiasi relazione con l'uomo stesso, perché "hanno la bocca, ma non parlano; gli occhi e non vedono; le orecchie e non odono".

 

"Non ti farai idolo né immagine alcuna ..." (Es.20,4-6)

 

Questo secondo comando è complementare al primo e proibisce di farsi qualsiasi immagine o idolo perché essi dànno un'idea distorta ed errata di Dio.

Identificare Dio con l'immagine illude l'uomo di possedere Dio, per cui egli è lì e non altrove, racchiuso nella materia lavorata dall'uomo. L'immagine è statica, mentre Dio è dinamico: egli è il Dio con noi (Io sono colui che sono), ma anche un Dio che cammina nella storia con il suo popolo, anzi lo precede: "Il Signore marciava alla loro testa per guidarli sulla via da percorrere" (Es.13,21); e ancora: "Io sono colui che sarò". Un Dio, dunque, che rimanda la sua comprensione all'esperienza della storia, come dire "sperimenterai nella storia chi è Dio".

 

Divieto perché le cose sono inadeguate a rappresentare Dio e incapaci di entrare in relazione con gli uomini.

 

Questo secondo comando, quindi, sottolinea l'invisibilità e l'inafferrabilità di Dio, due aspetti della sua trascendenza.

 

Ciò che, invece, rappresenta Dio è proprio lo "spazio vuoto", segno della sua trascendenza. Ciò spinge l'uomo ad una continua ricerca di Dio che non lo fissa mai nelle cose, ma lo spinge sempre oltre.

Il vuoto, dunque, cioè la trascendenza, è l'unico segno adeguato a rappresentare Dio.

Significativa, in tal senso, è l'arca dell'Alleanza, adornata da quattro cherubini adoranti e in mezzo a loro il "Vuoto": Dio è sempre là dove l'uomo non lo pensa, Egli è colui che sarà, così si chiama Dio.

 

"Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio" (Es.20,7)

 

Pronunciare il nome di Dio significa chiamarlo in causa per un giudizio e per testimonianza. Non farlo invano significava non usare il nome di Dio e, quindi, Dio stesso per cose false, pratiche magiche e oscene.

Il nome di Dio è stato rivelato perché Israele lo lodasse e lo adorasse, entrando, così, in relazione con Lui. Ogni altro uso è condannato.

 

Nominare Dio significa entrare in relazione con Lui, renderlo presente e darne testimonianza. Esso esprime la dimensione stessa della storia: "heyeh aser heyeh".

 

"Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato, il giorno del Signore, tuo Dio ..." (Es.20,8-11)

 

Sulla questione del sabato ci vengono proposte due versioni: quella di Es.20,8-11 e di Dt.5,12-15 .- Il primo aggancia il sabato alla creazione, impostata su un ciclo di 6+1 giorni, di cui sei sono di lavoro e uno di riposo. La seconda lo aggancia alla liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana.

 

L'origine del sabato in Israele non è chiara. In Egitto si conosce un ciclo di dieci giorni e uno di quindici giorni a Babilonia, in cui il quindicesimo giorno è dichiarato "shappatu",cioè giorno nefasto in cui era pericoloso svolgere attività lavorativa.

 

Tuttavia in Israele, ancor prima dell'esilio, vigeva il sabato come giorno di riposo (Es.23,12 e 34,21) con scopi umanitari, ma inteso anche come "tassa" da pagare a Dio, padrone della terra nel concetto di anno sabbatico.

Sarà solo in epoca esilica e postesilica che verrà teologicamente motivato.

 

Si ha, quindi, una graduale trasformazione del sabato: da giorno nefasto a giorno di riposo a scopo umanitario, a memoriale della liberazione dalla schiavitù e, quindi, dal lavoro perché l'uomo, libero dagli impegni, si dedichi a Dio.

E' un giorno per il Signore: "Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro", cioè giorno fecondo e a lui riservato; anzi, proprio perché a lui riservato è fecondo.

E, infine, a memoriale della creazione: l'inizio della vita. Esso è il tempo di Dio in cui trova senso e compimento quello dell'uomo.

Infine, questo comandamento diventa essere un'eco del prologo: "Io sono il Signore tuo Dio". E' l'affermazione di Dio che trova la sua esplicitazione nel sabato, quale giorno del Signore a Lui consacrato: è il tempo di Dio.

 

 

I comandamenti dal V° al X°

 

 

I comandamenti dal V° al X° riguardano il prossimo e in particolare sono finalizzati a salvaguardare l'integrità fisica e morale dell'altro sotto i vari aspetti che assumono la configurazione dell'onore dovuto al padre e alla madre (V°), letteralmente è glorificare, che significa riconoscere l'importanza e l'autorità propria della persona da glorificare, poiché nei genitori si attua la presenza di Dio, la loro autorità è quella di Dio ed essi collaborano con lui nel dare e conservare la vita; non a caso ad esso sono legate le due benedizioni di una vita lunga e serena, che nella Bibbia sono assegnate a coloro che onorano e rispettano Dio; non a caso esso si lega al comandamento precedente sul sabato: gli unici due comandamenti in positivo e tra loro legati proprio per questo. Nel sabato si richiama l'attenzione su Dio, così come qui sui genitori. Si viene, quindi, a creare un parallelismo tra Dio e i genitori, considerati strumenti di Dio.

Questo gruppo di comandamenti, inoltre, assume la configurazione dell'uccisione violenta (VI°); il non commettere adulterio (VII°), perché esso viola l'unione carnale tra uomo e donna che, in Gen.2,24, sono visti come una carne sola e, in particolare, punta alla salvaguardia di "quella carne" che è il figlio. E ancora, la violazione di questo comando era una violazione di proprietà, poiché la moglie era considerata proprietà del marito, facente parte del suo patrimonio e dei suoi beni. In tal senso esso si aggancia e si completa con il X° comandamento, che vieta di desiderare la proprietà del prossimo, tra cui anche la moglie.

Il divieto, però, qui, grava sul "desiderare" che in ebraico non indica solo un moto interiore, ma l'attuazione di un progetto finalizzato a impossessarsi dei beni non propri. Quindi, il "desiderare", qui, diventa un attentato al prossimo.

 

E così pure il non rubare (VIII°), inerisce sempre alla corporeità e al patrimonio che costituisce per lui quel bagaglio necessario per vivere ed esprimersi. Sono i beni che formano un tutt'uno con la sua persona e che gli consentono di vivere in questa vita corporea.

 

Infine, il non pronunciare falsa testimonianza (IX°) si occupa della dignità dell'uomo e della sua vita, dato che la falsa testimonianza può portare il prossimo alla morte e, qui, si aggancia al divieto di uccidere, di uccidere attraverso la falsa testimonianza, per l'appunto.

 

 

 

 

IL LIBRO DEL DEUTERONOMIO

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

Il Deuteronomio è il libro conclusivo del Pentateuco e riassume in sè tutta l'esperienza religiosa di Israele e la conclude. Esso è presentato come le "parole di Mosè", una sorta di testamento spirituale di Mosè stesso che, qui, è percepito non solo come il legislatore, ma anche come l'archetipo del profetismo ebraico: l'uomo che parla in nome e per conto di Dio e lo rende presente in mezzo al suo popolo con la sua parola, aiutandolo a cogliere il senso della storia.

 

Il Deuteronomio costituisce anche il ponte di aggancio dei libri storici o dei profeti anteriori. In esso, ovviamente, primeggia la figura di Mosè che con la sua morte funge da spartiacque tra due epoche: quella del nomadismo, della schiavitù in Egitto, dell'esodo; e quella della conquista della terra promessa e dell'insediamento di Israele in essa.

 

Il nome ebraico, come al solito preso dalle prime parole del testo, è "Debarim", mentre quello greco dei LXX è Deuteronomion. Esso costituisce una cattiva traduzione dei LXX dal testo ebraico che, invece, parlava di "seconda copia" della legge che il re doveva trascrivere al suo insediamento (Dt.17,18).

 

Il Deuteronomio, pur contenendo la legge, è un testo che cerca di dare una lettura teologica storia umana e apre alla comprensione della Legge stessa.

 

 

L'origine del Libro

 

Secondo il Libro, il Deuteronomio si presenta come una serie di discorsi di Mosè. Ormai il popolo è arrivato in vista della Terra promessa; Mosè, vecchio di 120 anni, non vi può entrare per un manco di fede. Egli sta, dunque, per morire e salito sul monte Nebo detta le sue ultime volontà al popolo, incitandolo all'amore per la legge. E', dunque, una sorta di testamento spirituale, che, come per ogni testamento, avviene per iscritto.

 

La realtà storica è ben diversa. Il Deuteronomio, infatti, fa parte di una produzione letteraria nata all'interno di una vera e propria scuola di teologia, sorta nel Nord e sostenuta dai Leviti che, partendo da questo libro, elaborando materiali arcaici, ha composto il ciclo dei cosiddetti "Libri storici" (Giosuè, Giudici, 1.2 Samuele, 1.2 Re) dei quali il Deuteronomio costituisce una sorta di premessa.

 

Questi Leviti, con la caduta del Regno del Nord (722 a.C.), si rifugiano presso il Regno di Giuda portando i loro testi sacri e dove sostengono la riforma di Giosia (622 a.C.). Quest'ultimo, infatti, dopo un disastroso governo di Manasse e di suo figlio Amon (687-640 a.C.) che avevano tradito la religione e le tradizioni dei Padri introducendo riti e culti pagani, in occasione di lavori al Tempio, "scopre" il libro della Legge, che sembra essere stato una versione minore dell'attuale Deuteronomio, forse la prima stesura. Su questa Legge Giosia fa giurare fedeltà all'Alleanza e dà inizio ad una radicale riforma religiosa e cultuale togliendo tutti i santuari e accentrando il culto nell'unico Tempio di Gerusalemme.

 

 

Formazione redazionale del Libro

 

 

Il Deuteronomio, ben lungi dall'essere un libro scritto di getto da un unico autore, è il prodotto finale di un lungo cammino letterario e redazionale, che idealmente possiamo suddividere in tre tappe:

 

La prima tappa vede la costituzione del Codice Deuteronomico, raccolto nei cap.12-26 ed è una raccolta di leggi e di disposizioni che si richiamano al Codice dell'Alleanza, posto in Es.21-23. Nel "Codice Deuteronomico", tuttavia, le leggi sono più umanizzate e prestano una maggiore attenzione ai poveri e ai deboli; in esse riecheggia lo spirito sapienziale e lo spirito profetico. Per questo si ritiene che il primo nucleo sia stato steso nel Regno del Nord.  Accanto a questo nucleo primordiale, sempre in tale epoca, si costituì un testo esortativo, contenuto nei cap.5-11, e una raccolta di benedizioni-maledizioni, poste in coda nei cap.27-28 .

 

La seconda tappa si produce in occasione della caduta del Regno del Nord (722 a.C.), quando i Leviti, produttori del primo nucleo del Deuteronomio, si rifugiano nel Regno di Giuda dove, sotto Ezechia (716-687 a.C.) viene prodotta la prima edizione ufficiale, poi dimentica o, forse, perduta sotto il lungo e depravato regno di Manasse ed Amon (687-640 a.C.) e, poi, "ritrovata" sotto Giosia (622 a.C.). Da qui partì la riforma, basatasi proprio su questa prima stesura.

 

La terza tappa è da collegarsi alla caduta del Regno del Sud (587 a.C.). L'esilio, infatti, e in particolare il postesilio furono un'epoca di grande fecondità letteraria in cui si raggiunse una grande maturità spirituale e religiosa. Sarà, infatti, proprio durante l'esilio che Israele sposerà definitivamente il monoteismo. Durante questa epoca furono sistemate, rielaborate e redatte le Tradizioni, conservate, fino ad allora, in modo frammentario e sparso.  E' proprio in quest'ultima tappa che il Deuteronomio riceve la sua stesura definitiva con l'aggiunta dei cap. 1-4  e  29-34 .

 

 

Schema della struttura del Deuteronomio

 

 

La struttura è di tipo concentrico e così costituita:

 

 

A) Cap. 1-3 di tipo narrativo e appartenenti alla redazione finale (VI°-V° sec. a.C.)

 

    B) Cap. 4 di natura parenetica e appartenente alla redazione finale (VI°-V° sec. a.C.)

 

                        Cap.5-11 a sfondo parenetico

 

        C)            Cap.12-26: Codice Deuteronomico

 

                        Cap.27-28: Benedizioni-Maledizioni

 

    B') Cap.29-30 di tipo parenetico come il cap.4 e appartenente alla sua stessa epoca

 

A') Cap.31-34 di tipo narrativo come i cap.1-3 e appartenenti alla loro stessa epoca

 

 

Il contenuto del Libro

 

 

Oggi siamo in possesso di una trentina di trattati di vassallaggio cronologicamente disseminati tra il XVIII° e il VII° sec. a.C. provenienti dall'Impero assiro e dagli Hittiti.

 

Essi sono sostanzialmente impostati su di uno schema di alleanza tra il re e il vassallo che si ritrova, sia pur con delle varianti, in tutti. Ora, questo schema divenne una sorta di griglia di lettura di diversi testi biblici, soprattutto là dove si parla di alleanza e, in particolare, si cercò di leggere il Deuteronomio secondo questa chiave di lettura proprio perché qui si parla, in particolar modo, di Alleanza.

  

Ecco, dunque, lo schema:

 

1) Titolatura dei partners dell'alleanza;

 

2) Paragrafo storico: richiamo delle vicende storiche intercorse tra i contraenti e che motivano l'opportunità dell'accordo;

 

3)  Ingiunzione fondamentale: era una sorta di "dichiarazione di base" che esprimeva la volontà delle parti a mantenersi fedele al patto;

 

4) Ingiunzioni particolari: erano una serie di clausole che regolamentavano i rapporti tra i partners;

 

5) Testimoni: era una invocazione rivolta alle rispettive divinità, chiamate ad essere testimoni del patto e di intervenire, di conseguenza con le benedizioni-maledizioni

 

6) Benedizioni-Maledizioni: erano le conseguenze che investivano i contraenti per la loro fedeltà o violazione del patto stesso;

 

7) Conclusione: costituita dalle clausole che regolamentavano la conservazione e la lettura periodica dell'accordo.

 

Ebbene, questo schema, liberamente ripreso dai testi biblici e in particolare dal Deuteronomio, consente una lettura teologica dell'alleanza e dei libri storici.

 

Jhwh, Israele e l'elezione

 

 

Si pone un legame strettissimo tra la titolatura e gli eventi storici. In Dt.5,6 si legge: "Io sono il Signore tuo Dio" che costituisce la Titolatura e "... che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto e dalla condizione di schiavitù", che costituisce il Paragrafo storico.

Pertanto, la Titolatura qualifica immediatamente la posizione di Dio nei confronti di Israele: Egli è il Suo Dio e in quanto tale Egli si impegna personalmente nei suoi confronti al punto tale che la configurazione stessa di Dio cambia: Egli è il Dio di Israele. Questo Israele, di conseguenza, associato per sempre al nome di Dio e ne segue le sorti, come Dio seguirà quelle di Israele. Dio, dunque, viene, d'ora in poi, qualificato come il Dio di Israele, la quale cosa comporta un impegno e una fedeltà reciproci.

Questa reciprocità di impegno e di fedeltà è radicata in eventi storici per cui Israele può sperimentare e conoscere il suo Dio come il suo "Salvatore", che lo ha salvato e lo mantiene salvo.

 

Titolatura e Paragrafo storico, pertanto, costituiscono l'elemento fondante della elezione di Israele, in mezzo a tutti gli altri popoli, da parte di Dio. Una elezione che si concreta e si definisce ai piedi del monte Sinai, dove Dio definisce il suo popolo come "sua proprietà; regno di sacerdoti e nazione santa". Con queste parole d'investitura Israele riceve la sua identità e la sua missione. Con queste parole Israele è reso "Unico" da Dio perché a Lui riservato e, pertanto, consacrato.

 

Il modo concreto con cui il Deuteronomio evidenzierà questa unicità di Israele sarà quello di prescrivere un unico luogo di culto e un'unica pratica cultuale.

Tuttavia, per quanto il Deuteronomio insista sull'aspetto cultuale che unifica tutte le tribù in un unico memoriale che celebra la stessa storia di salvezza, saranno la Parola e un Giuramento che costituiranno il legame perpetuo tra Dio e il suo popolo, e ciò viene espresso nell'Alleanza che ha come sacramento il Decalogo.

 

Ecco ciò che rende Unico Israele: il fatto che lui è diventato il luogo storico della rivelazione divina, un sacramento vivente di Dio in mezzo agli uomini.

 

 

Israele e la Legge

 

Il Deuteronomio, più di ogni altro libro,, sottolinea l'importanza della Legge che trova la sua giustificazione nell'atto storico della liberazione dall'Egitto ed è esplicitata nel Decalogo, che costituisce il segno storico dell'Alleanza. La Legge, pertanto, diventa un dono perché quella libertà ottenuta venga anche mantenuta.

 

A questa Legge-dono, che diventa, pertanto, l'indicativo di salvezza, Israele deve rispondere con un'osservanza totale: con tutto il cuore, con tutta la mente.

 

Ma ai piedi del Sinai Israele non ha ricevuto solo una Legge, ma Dio gli ha anche conferito una identità e una missione per conservare le quali Israele deve obbedire alla Legge: "Ora se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la mia proprietà ... Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es.19,5-6).

 

Il dono e l'esistere di Israele come tale è sempre condizionato dall'accogliere nella propria vita, mediante l'ascolto, la Legge.

 

Ma ai piedi del Sinai Dio non si è limitato al dono della Legge e alla definizione dell'identità di Israele, ma proprio lì Dio costituisce Mosè quale suo intermediario e profeta il cui compito è quello di rendere presente Dio in mezzo al suo popolo, aiutarlo a leggere la storia in senso teologico e a fungere da coscienza del popolo.

 

Legge e Profetismo sono, pertanto, storicamente congiunti e complementari: la Legge esprime l'eterna e immutabile volontà divina, mentre il Profeta ne è il suo interprete e attuatore in mezzo al popolo di Dio. In tal modo il popolo si alimenta della Parola.

 

Questa Alleanza, sancita con il dono della Legge, contiene anche in sè il dono della Terra, un valore incommensurabile per un popolo nomade.

L'aderire esistenzialmente alla Legge diventa la condizione per entrare in possesso della Terra e vivere felici: "Osserverete diligentemente i comandi del Signore vostro Dio ... perché tu sia felice ed entri in possesso della terra che il Signore giurò ai tuoi padri di darti" (Dt.6,17-18).

 

Vediamo, dunque, come tutto dipende dall'osservanza della Legge: mantenimento della libertà, identità, missione, terra, tutto.

 

La Legge, pertanto, è un cammino di vita essenziale, la "conditio sine qua non".

 

Incarnando in sè la Legge, quindi, Israele non solo salvaguarda se stesso, ma incarna in sè la volontà di Dio stesso, diventandone sacramento vivente tra le nazioni; veicolo di Dio verso i popoli. Assume, in tal modo, Israele una configurazione universale così che si compie la promessa di Dio fatta ad Abramo: "In te si diranno benedette tutte le nazioni" (Gen.12,3)

 

 

Una storia di benedizioni e maledizioni

 

 

L'Alleanza tra Dio e l'uomo, che trova la sua sacramentalizzazione nel Decalogo, è posta nelle mani dell'uomo e dipende dalla sua volontà: "Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete ..." (Es.19,5). Per questo l'uomo è chiamato a compiere una scelta: "Io ti ho posto davanti a te la vita e la morte, la benedizione e la maledizione" (Dt.30,19). Dio, dopo aver consegnato le Tavole a Mosè, si ritira e le affida nelle mani del popolo. E qui sta tutta la fragilità dell'Alleanza, perché Dio si è affidato ad un popolo dalla dura cervice, ribelle e testardo. La "carne" è il luogo dove si realizza l'Alleanza, ma questa carne non è sempre pronta alla voce dello spirito. L'innata fragilità dell'uomo rende fragile e precario il rapporto con Dio.

 

Ma la grandezza dell'Alleanza sta proprio qui: Dio non si impone come un despota che non si fida di nessuno, ma si affida all'uomo, gli affida il suo creato e i suoi fratelli; di più, lo rende suo ministro perché compia il bene nel suo nome. Dio, pur conoscendo la debolezza dell'uomo, si fida di lui.

 

L'uomo è fragile, ma proprio in ciò si mostra la grandezza di Dio: nel fidarsi dell'uomo e nel legarsi a lui per sempre.

 

Ma l'uomo è anche capace di conversione: ed ecco che nel dolore e nelle lacrime dell'esilio Israele riscatta se stesso e mette le premesse per una storia in cui Dio diventa definitivamente il "Dio di Israele"

 

 

Lo stile del Libro

 

 

Il Deuteronomio ha un suo stile particolare proprio della parenesi che si radica in una cultura semitica.

 

Questo porta ad una ripetizione di espressioni stereotipate che sono snocciolate come in una litania: "Ascolta, Israele, ..."; "Ama il Signore con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima"; "Popolo consacrato", ecc.

 

Il fraseggiare si fa, talvolta, molto lungo, quasi si volesse dire tutto in un sol colpo. Il periodare si sovraccarica di sinonimi. Inoltre vi sono dei temi di fondo che formano quasi una trama che avvolge e intesse tutto il Libro: "Il riferimento ai Padri", "La memoria dell'uscita dall'Egitto", "L'incontro di Dio sull'Oreb", "Il dono della Terra", "L'importanza di ricordare la propria storia", ecc.

 

Mentre è l'Alleanza che fa da struttura portante di tutto il Libro e Mosè viene presentato come l'autentico maestro e profeta, l'unico a cui tutto l'Antico Testamento si rifà.

 

Da queste poche note si può ben rilevare come tutto l'impianto del Deuteronomio si presenta massicciamente strutturato, sovraccarico di richiami e di temi che si ripetono e contornati da espressioni che si ripetono quasi con fare ossessivo, e tutto ciò perché l'intento è parenetico e didascalico: gli autori vogliono che questi argomenti scendano in profondità nella vita dell'uomo e ne facciano parte.

 

 

 

 

 

 

I LIBRI STORICI  O  PROFETI ANTERIORI

                            Giosuè, Giudici, 1.2 Samuele, 1.2 Re                                 

La storiografia deuteronomistica

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

Il gruppo di libri che seguono il Deuteronomio (Giosuè, Giudici, 1,2 Samuele, 1,2 Re) sono denominati dalla Tradizione ebraica come i "Profeti anteriori" (per distinguerli da quelli posteriori: Isaia, Geremia, Ezechiele + i 12 Minori); mentre dalla Tradizione cristiana sono chiamati i "Libri storici". L'insieme di questi libri costituiscono quelli che gli storici e gli esegeti chiamano l' "Opera deuteronomista".

 

L'arco di tempo da questi coperto va dalla conquista di Canaan (1200 a.C. - Libro di Giosuè), passando attraverso il periodo di interregno tra le conquiste e l'istituzione della monarchia (1200-1030 a.C. - Libro dei Giudici) fino alla costituzione della monarchia, che segna un passaggio importante nella vita di Israele che assume, con questa istituzione, la connotazione di Stato e di nazione (1030-970 a.C. 1,2 Samuele) e da qui fino all'esilio babilonese (597, 587 a.C. - 1,2 Re).

 

Questi libri, pur radicandosi nella storia, non vogliono essere libri di storia e tanto meno cronache dell'epoca, bensì essi propongono una lettura teologica della storia stessa, concepita come il teatro dell'azione divina.

 

Essi si costituiscono, quindi, come un percorso di fede che va dall'esperienza di u Dio che dona la Terra ad un Dio che, nel corso dei secoli, si rivela come l'Emmanuele.

 

In essi, quindi, si intrecciano varie componenti: storia e teologia; esperienza di vita e interpretazione di fede. Una storia, comunque, che documenta la fedeltà di Dio nonostante la fragilità dell'uomo.

 

 

Il libro di Giosuè

 

 

Il libro di Giosuè risulta essere idealmente tripartito:

 

•     La conquista della Palestina (cap.1-12)

•     Suddivisione delle terre conquistate (cap.13-21)

•     Ultime vicende e morte di Giosuè (cap.22-24)

 

La narrazione della conquista della Palestina, che ci viene raccontata dal libro di Giosuè, sembra essere una marcia trionfale combattuta da Dio per il suo popolo, lungo la quale i popoli cedono il passo a Israele.

 

Questa, ovviamente, è una lettura teologica della storia in cui si vede la realizzazione della Promessa di Dio ad Abramo.

 

Ma come sono andate in realtà le cose? La questione dell'insediamento delle tribù nel territorio di Canaan è di difficile soluzione. In merito si sono fatte alcune ipotesi:

 

Conquista armata: c'è chi sostiene, in base a scavi archeologici che hanno segnalato città distrutte  risalenti intorno al 1250-1200 a.C. e che sono ricordate dalla Bibbia. Così che il libro di Giosuè sembra essere veritiero, cioè la conquista della Palestina fu rapida e supportata da tutte le tribù.

 

Ipotesi dell'infiltrazione pacifica: alcuni studiosi affermano che dalla lettura dei testi si intuisce come la penetrazione in Palestina fu tutt'altro che rapida; essa fu lenta e faticosa e ha subito dei contraccolpi del nemico. Sembra, quindi, più corretto parlare di una lenta penetrazione pacifica, in particolare in territori poco abitati, attraverso alleanze con città-stato e, probabilmente, con qualche azione militare.

 

In proposito è da tener presente che due furono gli esodi dall'Egitto: un esodo espulsione (Es.6,1b; 11,1; 12,39) che avvenne intorno al 1550 a.C. con la cacciata degli Hyksos e con loro i nomadi asiatici che con gli Hyksos si erano stabiliti in Egitto. Fra questi vi erano alcuni clan ebrei che si stabilirono in Palestina, conquistata da Tutmosis III (1501-1447 a.C.) in 17 campagne militari. Gli ebrei, qui installati, furono impiegati in varie zone della Palestina al servizio dell'Egitto.

 

Vi fu, inoltre, un altro esodo-fuga (1250 a.C.) che è quello che ha assunto una maggiore risonanza in tutta la Bibbia.

 

Che cosa avvenne?

 

Dopo la fallita riforma religiosa di Amenosis IV (1424-1388 a.C.), si impose la dinastia di nuovi faraoni che, provenendo dal delta del Nilo, dettero impulso a tale zona con ampie opere di bonifica e di edilizia. In tale opere vennero coinvolti alcuni clan di ebrei e gruppi di asiatici stabilitisi alle frontiere. Un'imposizione questa (corvé) che non fu gradita da questi nomadi e/o seminomadi che, approfittando di un periodo di debolezza dell'Egitto, riescono a ribellarsi e a sottrarsi ai lavori forzati. Si rifugiano in Palestina dove erano da tempo installate altre tribù. Praticamente fuggirono dall'Egitto solo le tribù appartenenti alla "Casa di Giuseppe" (Efraim e Manasse) e quella di Levi.

 

Al di là dei fatti, il libro di Giosuè va letto con gli occhi dei redattori finali, cioè quelli dell'esilio (597-538 a.C.) e del postesilio (538-450 a.C.) dai quali la figura di Giosuè è idealizzata come quella di Mosè; la Terra è vista come un dono di Dio che in ciò compie le sue promesse e il permanere nella Terra è legata all'osservanza della Legge. Quindi, l'entrata nella Terra è dono di Dio e non bravura di Israele; dono dell' Unico Dio, affermando così il monoteismo, caratteristico del periodo esilico e postesilico, e la rottura con l'idolatria dei cananei.

 

Il tema teologico di fondo di tutto il Libro può riassumersi bene nella frase: "Di tutte le belle promesse che Jhwh aveva fatte alla casa di Israele, non una andò a vuoto; tutto giunse a compimento" (Gs.21,45).

 

 

Il passaggio del Giordano: Gs. 3-5

 

 

Questi capitoli raccontano il passaggio del Giordano e la conquista di Canaan, la Terra promessa. Il racconto è scandito da quattro momenti fondamentali:

 

•     L'attraversamento del Giordano

•     La costituzione di un memoriale

•     La circoncisione del popolo

•     La celebrazione della Pasqua

 

Il racconto si chiude con la precisazione che "la manna cessò il giorno seguente" (Gs.5,12), segno inequivocabile della fine di un'epoca.

 

L'intero racconto è carico di significato e riproduce l'intero schema del passaggio del mar Rosso:

 

•     Là Dio si mise alla loro guida: "Dio guidò il popolo ... il Signore marciava alla loro testa" (Es.13,18.21) - Qui è l'Arca dell'Alleanza che si pone alla guida del popolo: "Portate l'arca dell'Alleanza e passate davanti al popolo" (Gs.3,6)

•     Là il mare si divide in due e gli Israeliti passano all'asciutto. - Qui le acque del Giordano si dividono e Israele passa all'asciutto.

•     La ci sono gli Egiziani che sono travolti dalle acque. - Qui ci sono i re cananei che, visto il miracoloso passaggio sono travolti dalla paura: "... si sentirono venir meno il cuore e non ebbero più fiato davanti ad essi." (Gs.5,1c)

 

Ciò che qui accade sta ad indicare che qualcosa di nuovo, rispetto a prima, sta avvenendo.

 

Innanzitutto vengono fatte due importanti affermazioni:

 

•     "Tutto il popolo uscito dall'Egitto morì nel deserto dopo l'uscita dall'Egitto ... il quale non aveva ascoltato la voce del Signore" (Es.5,4.6)

•     "La manna cessò il giorno seguente come essi ebbero mangiato i prodotti della terra" (Gs.5,12)

 

Esse stanno ad indicare che un ciclo storico si è chiuso e che se ne sta aprendo uno di nuovi. I segni della novità sono la circoncisione del nuovo popolo nato nel deserto e, quindi, non compromesso dall'infedeltà; e la nuova celebrazione della pasqua, la prima nella Terra promessa.

 

Quindi, Dio sembra voler rifare tutto da capo con un popolo che si qualifica per la sua fedeltà a lui, così come avviene per il diluvio universale: Dio distrugge un'umanità infedele e dà origine ad una nuova umanità uscita dall'arca. R tutto è talmente nuovo che in Sichem il popolo rinnoverà l'Alleanza con Dio.

 

 

La conquista di Gerico:  Gs. 6

             

 

La conquista di Gerico più che un'azione di guerra diventa una sorta di liturgia guerriera in cui Jhwh è il vero vincitore. Il tutto si risolve in un rosario di giri processionali intorno alla città, che viene conquistata più che dalle armi da una celebrazione liturgica.

 

Questo racconto sembra essere nato, secondo il De Vaux, da un'altro racconto precedentemente esistente, ma poi modificato con aggiunte sacerdotali e trasformato in un racconto cultuale.

 

 

L'assemblea di Sichem: Gs. 24

 

 

Chi è entrato in Canaan è un popolo nuovo, circonciso di recente e che celebra la pasqua per la prima volta. E' d'obbligo, dunque, che tale popolo rinnovi l'Alleanza con Dio perché si senta impegnato lui in prima persona.

 

Ecco, dunque, Dio che sciorina davanti al popolo tutta la storia e le sue imprese a favore del popolo (Gs.24,2-13). E' una sorta di memoriale che costituisce per il nuovo Israele un indicativo di salvezza in cui Israele stesso affonda le proprie radici e deve prenderne coscienza. A fronte tale indicativo Israele è chiamato ad operare una scelta: o con Dio o contro di Lui. Qui, pertanto, si costituisce il nuovo Israele che rinnova i patto del Sinai: "In quel giorno Giosuè concluse un'alleanza per il popolo e gli diede una legge e uno statuto in Sichem" (Gs.24,25)

 

 

 

 

IL LIBRO DEI GIUDICI

 

 

 

 

Questo Libro copre un arco di storia di circa duecento anni che va dal 1200 (1225) al 1030 (inizio della monarchia). Da un punto di vista storico è difficile stabilire cosa sia successo esattamente. Verosimilmente, Israele entrato in Canaan è soltanto una federazione di tribù alla ricerca di una propria identità e unità. Significativa in tal senso è l'alleanza in Sichem (Gs.24), da cui si arguisce la presenza di clan/tribù che già dimoravano in Canaan e che avevano adottato culti cananei. Israele, dunque, cerca una sua identità nazionale che verrà solo nel 1030 con l'avvento della monarchia.

 

Ora, Israele si trova in Canaan e si ritrova a dover scontrarsi con le popolazioni limitrofe. Sarà proprio in questi momenti di crisi che sorgeranno delle figure carismatiche che, dando compattezza ai vari clan e/o tribù, riescono a far fronte agli assalti dei nemici. Queste figure sono chiamate Giudici (Sofetim). Il Libro ne presenta dodici. di cui sei maggiori e sei minori.

 

L'intento del Libro, tuttavia, non è storico, ma teologico la cui dottrina è contenuta in Gdc.10,6-16. L'aspetto teologico è trattato secondo uno schema quadripartito:

 

•    Il peccato in cui si evidenzia come il popolo si sia allontanato da Dio con delle infedeltà all'Alleanza: "Gli Israeliti facevano ciò che è male agli occhi del Signore"; oppure "Prestavano culto a Baal allontanandosi dal Signore". Il peccato è presentato come prostituzione e adulterio.

•    Il castigo è visto come reazione divina al cattivo comportamento del popolo e si concretizza nell'abbandono di Israele ai nemici da parte di Dio.

•    Pentimento: sotto la sferza del castigo gli Israeliti si ravvedono e tornano a Dio.

•    La liberazione è il quarto e ultimo atto del ciclo del peccato-conversione ed è la conseguenza del ritorno a Dio. Dio mostra la sua bontà e misericordia inviando un "salvatore", cioè un giudice. L'espressione, comunemente usata, è: "Il Signore suscitò un liberatore".

 

Il Libro in sè è composto da una duplice introduzione: una storica-geografica e una di tipo dottrinale, unite tra loro da una considerazione piuttosto significativa con cui l'autore dà una spiegazione religiosa agli insuccessi degli Israeliti: è l'infedeltà a Dio che provoca l'abbandono di Israele nelle mani dei nemici.

 

La prima parte dell'introduzione è episodica e presenta le figure dei giudici e le loro gesta (Gdc.3-16); vi sono, poi, due appendici: la prima narra l'origine del santuario di Dan, la seconda narra del crimine commesso dai cittadini di Gaboa.

 

 

 

1 e 2   SAMUELE

 

 

 

 

I due libri di Samuele , unitamente a quelli di 1.2 Re, dànno un ampio quadro storico che va dalla chiusura del periodo dei Giudici alla istituzione della monarchia e da questa fino all'esilio (587 a.C.)

 

Alla monarchia Israele ci arriverà per necessità di difesa e di sopravvivenza e per imitazione degli altri popoli.

 

Probabilmente, due secoli dopo l'entrata in Canaan, sono riusciti ad amalgamare religiosamente, culturalmente e politicamente le 12 tribù che da federazione passano a stato e nazione, dandosi, così, un'organizzazione amministrativa, politica e religiosa.

 

Il momento clou del passaggio, anche se velati tentativi di monarchia già c'erano stati in precedenza durante l'epoca dei Giudici (Gedeone e Jefte), si colloca sotto Samuele (1040 a.C.), il quale, con grande dispiacere e rammarico, accetta le richieste del popolo, assecondato in ciò anche da Dio.

 

Questi due libri erano considerati nella Tradizione greca e latina come un'opera unica con quella dei Re, ed erano denominati "Basileiwn AD", per la greca; "Regum I-IV", per la latina. Essi costituiscono una varia raccolta di materiali ance antichi e una fusione di diverse tradizioni e differenti fasi di elaborazioni.

 

L'intento sembra essere chiaro: da un lato, mostrare il passaggio dallo stato di federazione tribale del tempo dei Giudici a quello dell'istituzione della monarchia; dall'altro, mostrare la funzione critica del profetismo all'interno della monarchia.

 

Tre sono le figure dominanti in questi due libri: Samuele, il prototipo dei profeti insieme a Mosè, ultimo dei Giudici e padrino critico della monarchia, vista da Samuele come una rivale di Dio.

Saul, il primo re d'Israele, descritto con toni accesi e rivale di Davide, e che nel corso degli anni sarà sempre più avvolto dalla pazzia, che si manifesta con sentimenti d'ira incontrollata (solo l'arpa di David riuscirà a placarla) fino ad arrivare al suicidio.

Questo re, così vivo e sfortunato, servirà per lanciare una forte critica alla monarchia e ad aprire le porte a Davide.

Davide, il cui nome significa "amato, prediletto" e il cui valore numerico delle lettere "dwd" in ebraico equivale a 14, il doppio di sette, e ciò rimanda alla grandezza di questa figura che assume il senso di "pienamente amato". Proprio su questo 14 Matteo costruirà la genealogia di Gesù, qualificandolo come la realizzazione della promessa davidica, il nuovo David, l'unto del Signore. E' una figura che darà stabilità e grandezza al regno di Israele; costituirà Gerusalemme come capitale, in cui accentrerà il culto, renderà sicuri i confini, mettendo così le premesse allo splendore del regno di Salomone.

Una figura che, tra molte luci, è segnata anche da ombre: il delitto commesso per prendersi Betsabea, la ribellione del figlio Assalonne, lo strapotere del nipote Joab, la difficile e sanguinosa successione al trono, solo per dirne alcune.

 

Questa figura,nell'ambito della teologia, assurgerà a figura tipo della speranza messianica. A Davide, infatti, sarà legata la promessa di Dio di dargli "la discendenza" e di "rendere stabile il suo casato".

 

Saranno questi i tratti teologici di 1.2 Samuele: l'alleanza messianica con la casa di Davide e le logiche di Dio, che punta sempre le sue carte sul debole, sul minore, sulla sterile, proprio perché dalla storia traspaia sempre più chiaramente l'azione di Dio: è l'uomo che fa la storia, ma è Dio che la conduce.

 

 

 

1 e 2  RE

 

 

 

Il Libro dei Re, pur suddiviso artificiosamente in due libri dalla versione greca, rimane di fatto un'opera unica che abbraccia un ampio periodo di storia: dalla fine del regno di Davide e l'inizio di quello di Salomone (973 a.C.) fino all'esilio in Babilonia (587 a.C.).

 

Questo libro si presenta  come una continuazione dei libri 1.2 Samuele con i quali, inizialmente, formava un blocco unico ed era denominato "Basileiwn AD".

 

L'opera è suddivisa in tre parti:

 

•    Il Regno di Salomone (973-933 a.C.)

•    Lo scisma dei due regni (933 a.C.)

•    La storia dei due Regni con la disfatta di quello del Nord (722 a.C.) ad opera di Tiglat Pilezer III e quello di Giuda (597.587 a.C.) ad opera di Nabucodonosr e l'esilio a Babilonia.

 

 

Il Regno di Salomone (973-933 a.C.) La gloria del regno di Salomone ci è presentato sotto un triplice aspetto:

 

•    Il matrimonio con la figlia del faraone d'Egitto, che rafforzava l'alleanza, dava stabilità politica e militare, togliendosi, inoltre, dal fianco un possibile e temibile nemico. Il matrimonio, inoltre, gli valse la città di Ghezer, che dominava la grande arteria commerciale chiamata la "Via del  Mare"

•    La grande saggezza concessagli da Dio per amministrare saggiamente il popolo.

•    L'organizzazione del regno e lo splendore delle sue costruzioni, in particolar modo quella del Tempio.

 

Il Regno di Salomone fu sempre ricordato nella storia di Israele come il regno Ideale, il cui ritorno avrebbe segnato l'avvento dei tempi messianici.

 

Ma accanto alle luci il Regno di Salomone ebbe anche delle ombre:

 

•     debolezza verso le donne straniere, dalle quali è trascinato a culti idolatrici;

•     ribellione di Edom e Damasco;

•     oppressione fiscale e corvé

 

Lo scisma: alla morte di Salomone (933 a.C.) sale al trono Roboamo al quale si presenta Geroboamo con gli anziani e il popolo del Nord, formato da dieci tribù, per chiedergli la riduzione dei gravami fiscali e della corvé. Alla risposta negativa e tracotante di Roboamo, il Nord, al grido "Alle tue tende Israele!" si staccò.

 

Il grido "Alle tue tende Israele!" esprime un atto di rivolta, ma non di guerra. Esso aveva il significato di "ognuno per sè, si ritorna a casa". E' interessante rilevare come antiche testimonianze ci indicano in questo grido ci sia stata una manomissione da parte degli scribi e che originariamente diceva: "Ai tuoi dèi, Israele!" (in ebraico basta invertire due lettere per passare da "dèi" a "tende"). Con questa modifica si è voluto sopprimere un'antica impronta di politeismo. Infatti, Geroboamo ripristinerà gli antichi santuari di Dan e di Betel, ristabilendo gli antichi culti idolatrici dei vitelli d'oro.

 

Le motivazioni dello scisma furono sostanzialmente tre:

 

•     Il Regno del Nord mal sopportava quello del Sud;

•     Non era ancora consolidata la trasmissione ereditaria del Regno, per cui Israele voleva esercitare il diritto di voto;

•     Eccessivi gravami fiscali e di corvé.

 

 

Fine della monarchia ed esilio

 

Rezin, re di Aram, e Pekach, re di israele, vogliono costringere Acahz, re di Giuda, a formare una coalizione contro l'Assiria. Achaz rifiuta e per punizione Pekach e Rezin organizzano una spedizione punitiva contro Achaz che si rivolge per aiuto, diventandone vassallo, a Tiglat Pilezer III che, aderendo all'invito, distruggerà nel 722 a.C. il Regno del Nord. Da allora ci sarà storia solo per il Regno di Giuda, che terminerà, a sua volta, nel 587 a.C. con la rivolta di Sedecia, ultimo re di Giuda, contro i Babilonesi e l'esilio fino al 538 a.C.

 

Il Libro dei Re deve essere letto con gli occhi di chi l'ha scritto, cioè come una storia di salvezza il cui protagonista primo e Dio che porta avanti le sue promesse e i suoi progetti nonostante i disegni degli uomini: l'ingratitudine del popolo, il crollo dei due Regni, l'esilio.

 

Dalle catastrofi umane Dio salvaguarda sempre un resto fedele a cui affida i suoi disegni di salvezza.

 

 

 

 

 

I PROFETI D'ISRAELE

 

 

 

 

 

Premessa

 

 

Il profeta come dice la parola stessa pro-jhmi è colui che parla in nome e per conto di Dio; è colui che con la sua parola rende presente Dio in mezzo al suo popolo e lo aiuta a leggere la storia in senso teologico, cioè a vedere nella storia un Dio che opera e interpella, attraversi fatti ed avvenimenti, l'uomo che, grazie al profeta, messaggero di Dio e interprete della storia, riesce a intuirlo presente nella storia.

Esso è anche la coscienza del popolo, che richiama continuamente alla fedeltà dell'Alleanza, la cui trasgressione porta già in è la maledizione.

 

Inoltre, il termine profeta, nella sua radice ebraica "nabi" significa colui che è chiamato, con riferimento alla chiamata di Dio; ha, infine, un suo aggancio con il termine arabo "naba" che significa colui che annuncia. Pertanto, potremmo ulteriormente definire il profeta come colui che è chiamato da Dio per annunciare al suo popolo la parola stessa di Dio.

 

 

La profezia nell'antico Oriente

 

 

Il fenomeno del profetismo non fu una peculiarità di Israele, ma si ritrova anche presso altri popoli come l'Egitto, la Mesopotamia, Mari, Canaan.

 

Esso nasce da uno stato di estasi in cui il profeta coglie il messaggio divino e se ne fa interprete presso il popolo.

 

E', pertanto, interessante vedere come Dio si serve della cultura dell'uomo per parlare all'uomo.

 

In Egitto

 

Nella profezia in Egitto era assente la rivelazione di Dio e la preoccupazione di rivelare Dio. Gli oracoli mancano del senso della storia della salvezza e non si muovono in questo orizzonte, né possiedono un riferimento dottrinale. E' assente ogni forma estatica, mentre è presente un forte utilitarismo che si contrappone al disinteresse del profeta ebraico che, talvolta, proprio per il suo messaggio e la sua fedeltà ad esso è perseguitato.

 

In Mesopotamia

 

Quella mesopotamica è una civiltà in cui gioca molto la divinazione, presente in ogni attività di un certo rilievo. Le forme di divinazione sono quelle comuni a tutte le civiltà antiche: sogni, viscere di animali, visioni, ispirazioni, ecc. Manca totalmente il profetismo e il confine tra religione e magia è molto tenue e tende a confondersi.

 

In Mari

 

Mari, una località posta sulla riva del medio Eufrate, ci ha regalato una cinquantina di documenti di tipo profetico. Questo tipo di profetismo è molto simile a quello di Israele. Il luogo in cui avviene, in genere, la profezia è il tempio. La natura di questo profetismo è di tipo estatico e intuitivo. Il messaggio di solito è rivolto al re e i profeti sono persone sacre al dio, ma anche laici, uomini e donne.

  

Le differenze con i profeti dell'A.T. sono le seguenti:

 

•    Questi profeti non sono implicati personalmente;

•    Il carattere profetico è ancora episodico;

•    Manca il carattere religioso, l'appello alla conversione e la speranza escatologica. Non c'è  riferimento ad una storia di salvezza.

 

 In Canaan

 

La documentazione è scarsa; abbiamo solo due testi: la relazione di un viaggio e la stele di Zakur, re di Hamath. Vi sono degli elementi che coincidono con il profetismo d'Israele, come, e la frenesia estatica, il messaggio rivolto al re; il profeta non è né un mago né un indovino di professione ma si qualifica come un messaggero.

 

Il caso di Balaam

 

E' una figura eccezionale nel mondo extrabiblico che ha avuto a che fare con la storia di Israele nel momento della conquista di Canaan (1200 a.C.) allorché viene interpellato da Balak, re di Moab, per fermare l'avanzata di Israele. E' ricordato nelle tradizioni bibliche dello Jahviste ed Elohista.

 

Concludendo si può dire che il profetismo di Israele ebbe nel mondo extrabiblico una sua preistoria e, pertanto, non lo si può definire un esclusivo appannaggio di Israele. Si può, invece, dire che l'unico Dio, che parlò ai profeti di Israele,, incominciò a farlo partendo da lontano, quasi come per un'azione preparatoria. Si deve, comunque, dire che il profetismo d'Israele è unico nel suo genere sia per la fede in Jhwh che per l'azione di questi.

 

 

Il profetismo biblico

 

Il profeta che ci viene presentato dalla Bibbia è:

 

•    una guida suscitata da Dio e chiamata a difesa dell'identità stessa di Dio e del popolo e si pone contro ogni ingiustizia ed oppressione.

•    La missione del profeta si attua nell'ambito della storia della salvezza, rende presente in essa la voce di Dio e la spinge verso il suo fine.

•   E' l'uomo di Dio che giudica il presente e spinge a guardare il futuro, aprendo l'uomo alla speranza; è chiamato per ricordare agli uomini le esigenze di Dio; insegna al popolo a leggere la storia in senso teologico.

 

Il profeta, inoltre, non si presenta mai con proprie credenziali umane, ma è segno della presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Il profeta, quindi, aiuta il popolo, a cui è legato per missione e vocazione, a intrecciare la propria storia con quella di Dio, sicché ne diventa una: quella di salvezza.

 

Tutti i racconti di vocazione seguono uno schema letterario unico; sono tre gli elementi qualificanti la chiamata:

 

•   Teofania di tipo visivo e auditivo, evidenzia la relazione con Dio; il linguaggio teofanico serve per dare concretezza alla esperienza divina interiore.

•   Missione, si esprime con toni imperativi e aiuta a vedere il profeta come il messaggero di Dio; è accompagnata, talvolta, da obiezioni del chiamato e rassicurazioni da parte di Dio

•   Segno, quale conferma e investitura della missione. Ad Isaia Dio passa sulla bocca un carbone ardente; a Geremia Dio tocca la sua bocca; mentre Ezechiele mangia il rotolo che contiene la parola di Dio.

 

Gli elementi sono in genere accompagnati da una introduzione e una conclusione.

 

L'introduzione, in genere di origine redazionale, serve per inquadrare storicamente il profeta e legare la sua missione alla storia. Mentre la conclusione mette fine al racconto e ribadisce l'autenticità della chiamata.

 

Il racconto di chiamata è una invenzione letteraria per dare consistenza storica ad una esperienza vocazionale interiore e di tipo spirituale. I racconti, pertanto, ben lungi dall'essere delle falsificazioni storiche, insegnano, invece, a leggere teologicamente la storia.

 

I profeti, comunque, avevano la consapevolezza di annunciare la Parola di Dio e, pertanto, si sentivano impegnati in tal senso. Essi si sento ambasciatori di Dio, rivelandosi autentici uomini di Dio che rendono presente in mezzo agli uomini attraverso un messaggio che è in loro, ma che loro sentono che non gli appartiene.

 

Il profeta, quale uomo che rende presente Dio nella storia, è l'uomo che ponendosi dentro la storia e profondamente legato ad essa, ne denuncia le anomalie e costantemente la raffronta, la giudica con il messaggio che porta in sé.

 

Quale uomo di Dio che valuta e giudica la storia, il profeta usa la forma letteraria di un normale processo:

 

•   Presentazione dei protagonisti: testimoni, accusato e giudice accusatore;

•   Interrogatorio seguito da una requisitoria in cui vengono ricordati i benefici compiuti dalla parte lesa e l'infedeltà del popolo;

•   Si termina con una dichiarazione di colpevolezza e di condanna.

 

Il profeta, dunque, è un uomo che, situato nella storia dice la verità su di essa utilizzando la forma del processo e la stimola di continuo, orientandola verso Dio e verso la realizzazione del suo progetto di salvezza, aprendo così l'uomo alla speranza.

Tale processo è rivolto contro il popolo dell'alleanza o contro i suoi responsabili, qualificandosi, così, come il custode dell'alleanza e dei diritti di Dio e dell'identità del popolo. In tal modo il profeta evidenzia il peccato del popolo e ne diventa l'educatore.

 

 

Chi era il vero profeta?

 

Il fenomeno profetico non fu mai di facile interpretazione, cioè non esistevano criteri consolidati e certi che distinguevano il vero dal falso profeta.

 

Il vero profeta lo si può riconoscere dallo stile della propria vita e della sua condotta. E' l'uomo che sa mettere davanti a sè e ai propri interessi quelli di Dio e su questi scommette la propria vita. E' l'uomo che, appassionato di Dio, si cura del suo popolo e della sua continua conversione. E' l'uomo che vede realizzarsi quanto ha profetizzato ed ha una forte coscienza che il messaggio che porta in sè non è suo, ma gli viene da Dio.

 

 

Lo stile del profeta nell'annuncio

 

 

Nell'annuncio del profeta si possono individuare tre modalità principali di attuazione:

 

•     La narrazione

•     La parola profetica

•     Supplica e lode

 

Quanto alla parola profetica o messaggio è, a sua volta, composta da tre elementi fondamentali:

 

•     Il mittente        (Dio)

•     Il messaggero (profeta)

•     Il destinatario   (il popolo)

 

Una formula elementare questa, ma che si ritrova ovunque negli annunci profetici e si esplicita con espressioni del tipo "Jhwh mi disse", "Così dice Jhwh"

 

 

 

GLI INIZI DELLA PROFEZIA ISRAELITICA

 

 

 

L'inizio del profetismo in Israele è oscuro. I testi biblici parlano impropriamente di Abramo  come profeta (Gen.20,7); più propriamente di Mosè come profeta, nel senso che si riconosce a Mosè l'origine della profezia e dello Spirito profetico, mentre anche Maria, sua sorella, viene indicata come profetessa (Es.15,20)

 

Tuttavia il primo profeta riconosciuto come tale è Samuele a cui, accanto alla qualifica di profeta , viene associata quella di sacerdote e di giudice. Egli, infatti, è l'ultimo giudice in Israele e funge da spartiacque tra due epoche:quella dei giudici e la monarchia. Finisce così l'epoca d'ora in cui Dio era riconosciuto come l'unico capo in mezzo al suo popolo, anche se la monarchia sarà concepita in Israele come un servizio a Dio. Il re, infatti, è compreso come l'amministratore e il servo di un popolo che non è suo, ma di Dio.

 

Ai tempi di Samuele (1040 a.C.), tuttavia, sembrano esserci dei raggruppamenti di profeti (hebel nebi'im), che vivono in comunità e con i quali Samuele sembra avere sporadici contatti, ma la cui configurazione non ci è perfettamente chiara.

 

La profezia in Israele, dalle origini alla monarchia, ha conosciuto tre tappe fondamentali, caratterizzate dall'atteggiamento del profeta nei confronti del re:

 

•   La prima tappa (1010-973) potrebbe essere definita di "vicinanza fisica, ma distanziamento critico nei confronti del re". Erano profeti che vivevano alla corte del re, ma non erano asserviti al re, ma ne criticavano il comportamento. Rappresentanti questa categoria furono Gad e Natan.

•    La seconda tappa (950-910) potrebbe essere definita di "distanza fisica" che viene a stabilirsi tra il profeta e il re. Il vincolo del profeta non è con il re, ma con Dio. Il profeta non vive alla corte del re, ma per conto proprio. Esempio  di questo periodo fu Achia di Silo che esercitò sotto il regno di Salomone e Geroboamo; e Michea, che esercitò sotto il re Acab (875-853).

•   La terza tappa (875 - 800) caratterizzata da un "progressivo e definitivo distacco dalla corte e avvicinamento al popolo" anche se i profeti non smetteranno mai di rivolgersi al re, tuttavia si indirizzeranno prevalentemente verso il popolo, e il legame tra i due diventerà sempre più stretto. Sarà, infatti questo l'indirizzo definitivo. Rappresentanti di questa tappa sono Elia ed Eliseo.

 

Ecco, dunque, già agli inizi della monarchia (1030-933 a.C.) compaiono delle figure importanti di profeti, Gad e Natan, profeti alla corte del re Davide. Gad sembra essere un consigliere e un giudice, amico di Davide fin dalla sua vita errante. Natan, invece, interviene tre volte durante il regno davidico: per la costruzione del tempio; per denunciare l'adulterio e il crimine commesso da Davide (Uria e Betsabea); e, infine, per annunciare a Davide la discendenza e la stabilità del suo casato.

 

Mentre ai tempi di Salomone compare un certo Achia che predice a Salomone lo scisma delle dieci tribù e condanna quello religioso.

 

E ancora Michea, che rivolto al re Acab (875-853 a.C.), ha il coraggio di smentire il responso di ben quattrocento profeti di Baal e di predire la sconfitta e la morte di Acab stesso.

 

Ed infine, Elia, un grande profeta che, all'epoca di Acab e di Gezabele lottò, a rischio della propria vita, per l'affermazione del culto di Jhwh su quello di Baal. Il suo pelegrinaggio-fuga al monte Oreb "fu un far ritorno" all'antica spiritualità dei padri e del culto del vero Dio. Elia è l'uomo solo e perseguitato perché vero uomo di Dio.

 

Ad Elia fa seguito Eliseo che ne eredita lo spirito e ne continua l'opera politico-religiosa. I racconti e le tradizioni su Eliseo sono di tipo folkloristico e sembra che la tradizione ne abbia voluto fare un doppione di Elia al punto tale che la sua vocazione diventerà un "racconto tipo"

 

 

 

 

A M O S

 

 

 

Amos, il cui nome è un'abbreviazione di Amosya (Dio ha portato), inaugura la serie dei "profeti scrittori", cioè di quei profeti che hanno lasciato per iscritto ilo loro messaggio. A ciò fu probabilmente costretto Amosr per la brusca interruzione della sua missione, impostagli da Amasya, sacerdote di Betel (Am.7,12-13), santuario del Regno del Nord, fatto costruire da Omri (887-875), in concorrenza a quello di Gerusalemme, dopo lo scisma.

 

Di Amos sappiamo solo che nacque a Tekoa, un villaggio a circa 17 Km. a sud di Gerusalemme e a 9 Km. a sud di Betlemme.

 

Dal testo (Am.1,1 e 7,14) sappiamo che non apparteneva a famiglie o a gruppi di profeti, ma faceva il pastore (noqed) e il coltivatore di sicomori. Se fosse un possidente o un inserviente non ci è dato di sapere. Certo è che il termine "noqed" lo si ritrova applicato al re Mesha di Moab, il quale invia a quello di Israele centomila agnelli e la di centomila arieti. Ciò ha tato pensare che fosse un ricco possidente o, quanto meno, un capo di numerosi e ricchi greggi del re di Gerusalemme.

 

La compravendita di animali e la coltivazione di sicomori, però, non li trovai a Tekoa, bensì nella zona del Mar Morto e nella Shefala. Ciò lo costrinse a frequenti viaggi, e questo ne fa un uomo informato e al corrente degli avvenimenti dei paesi vicini e un profondo conoscitore delle situazioni politiche, sociali e religiose di Israele.

 

La sua attività si svolge sotto Geroboamo II, 787-747 a.C.,(Regno del Nord) e di Ozia, 781-740 a.C. (o Azaria - Regno di Giuda); probabilmente profetò tra il 750 e il 760 a.C. La sua missione fu di breve durata, forse qualche mese, e si svolse nel Regno del Nord a Betel, Samaria e Galgala, ma fu bruscamente interrotta da Amasya che lo denunciò presso il re.

 

 

Epoca

 

 

Amos svolge la sua missione tra il 760 e 750 a.C. sotto il regno di Geroboamo II (787-747 a.C.) al Nord e quello di Ozia (Azaria; 781-740) al Sud.

 

Su di un piano politico il regno del Nord conosce un ultimo quarantennio di prosperità, dovuto al declino della vicina Siria.

 

In questo periodo la popolazione raggiunse la massima densità, gli edifici erano splendidi e lussuosi; la produzione agricola aumento notevolmente e fiorì, pure, l'industria tessile e quella delle tintura. Inoltre, il controllo delle vie commerciali favorì, di conseguenza, il commercio e l'arricchimento della popolazione.

 

Ma proprio questo benessere generalizzato produsse una notevole spaccatura sociale: i ricchi erano sempre più ricchi e i poveri sempre più tali. Scomparve quell'antica solidarietà che legava i membri dell'alleanza, lasciando il posto all'iniquità, ad una profonda ingiustizia sociale, allo sfruttamento dei deboli e dei poveri, da parte dei potenti, coperti da tribunali iniqui.

 

Da un punto di vista religioso, il culto si dispiega in splendide cerimonie, di cui il popolo va fiero, ma esso è corrotto dall'introduzione di culti cananei, della fertilità e della prostituzione sacra. Proprio questo ambiente lussuoso, ma profondamente iniquo è vivamente rispecchiato dalla predicazione di Amos, che pur di origine campagnola, sa leggere in profondità gli avvenimenti che segnano il regno di Israele e quelli delle popolazioni vicine. Infatti, mentre tutti sono storditi da questo lungo periodo di benessere, sul piano internazionale gli equilibri politico-militari su stanno rapidamente trasformando: la salita al trono di Tiglat-Pilezer III e dei suoi successori (Salmanassar V, Sargon II e Sennacherib) trasforma l'Antico Oriente in un enorme campo di battaglia, in cui l'Egitto appare come l'unica potenza in grado di opporsi all'Assiria. Sorgeranno, così, in Israele e in Giuda due partiti opposti: i filoassiri e i filoegiziani.

Osea e Isaia, contemporanei, assieme a Miche di Amos, difenderanno, ma inutilmente, la neutralità.

 

Il regno del Nord, filoegiziano, verrà spazzato via dalle armate di Tiglat-Pilezer III e poi di Sargon II nel 722. Si salverà, ma al prezzo di un pesante vassallaggio, Giuda che, tuttavia, si ritroverà distrutto nel 597 e 587 dalle armate di Nabucodonosor (babilonesi)

 

 

Il Libro di Amos

 

 

Può essere idealmente suddiviso in tre parti, precedute da un titolo e da un prologo (Am.1,1-2) e chiuse da un oracolo di restaurazione e salvezza, che alcuni studiosi dubitano di appartenere ad Amos.

 

Prima parte 

(Am.1,3-2,16)

 

E' costituita da una sequenza di sette oracoli contro sette nazioni confinanti con Israele e contro Israele e Giuda stessi.

Essi sono coniati su di un unico schema: "Per tre misfatti di ... e per quattro non revocherò il mio decreto ... Alla casa di ... darò fuoco e divorerà i sui palazzi."

La formula ("per tre misfatti ...",ecc.) sta ad indicare che la misura del male è ormai colma e che il giudizio è irrevocabile. Mentre il fuoco indica il giudizio divino di esecuzione della condanna e della purificazione del male.

 

Seconda parte 

  (Am.3 - 6)

 

E' costituito da una serie di oracoli di accusa e condanna, raccolti senza un ordine preciso.

 

Si parte dal ricordare che Israele è il popolo eletto e amato con cui Dio ha stretto un'alleanza e si arriva a denunciare l'impenitenza e la durezza di cuore di Israele, la perdita del senso morale, il culto in Betel, contrapposto a quello di Gerusalemme, ingiustizie sociali, orgoglio  e ostentazione di sicurezza, giudizio imminente e appello al ritorno a Dio.

  

Terza parte 

(Am.7 - 9)

 

Raggruppa il racconto di cinque visioni con l'inserzione, probabilmente da parte di un discepolo di Amos (Am.7,10-14) dello scontro tra Amos e Amasia.

 

Benché poste negli ultimi capitoli del libro, è da ritenere che esse siano all'origine della missione di Amos e che, grazie a queste, Dio abbia fatto conoscere e comprendere la situazione di iniquità e immoralità in cui Israele viveva e l'imminenza del giudizio divino. Da queste, infatti, poi, si svilupperanno tutti gli oracoli. E che queste stessero all'origine della chiamata di Amos, da cui, poi, tutti gli oracoli discendono, lo afferma il titolo stesso: "Parole di Amos, che era pecoraio di Tekoa, il quale ebbe visioni riguardo ad Israele" (Am.1,1).

 

Le visioni vanno tra loro appaiate: cavallette e fuoco (carestia e siccità); piombino e frutta matura (giudizio di Dio e imminenza del castigo); infine, lo scuotimento del santuario (fine di un culto inutile perché inquinato da opere inique). Senza santuario, l'uomo non può più incontrare Dio e invocare la sua misericordia.

 

 

Il messaggio di Amos

 

 

Benché il libro di Amos incominci con oracoli contro le nazioni limitrofi a Israele (Am.1,3-2,16) e prosegua, poi, con oracoli contro Israele (Am.3-6), tuttavia la missione di Amos inizia con delle visioni (Am.7-9) che sono preparatorie alla sua missione  e gli danno una lettura e una comprensione dei fatti e degli interventi di Dio nella storia. In esse è racchiusa tutta la tematica che sarà, poi, sviluppata negli oracoli alle nazioni e ad Israele (Am.1,3-6,14). E che così sia è lo stesso Amos che lo conferma nel titolo del libro: "Parole di Amos, che era pecoraio a Tekoa, il quale ebbe visioni riguardo a Israele" (Am.1,1).

 

Le visioni procedono appaiate: nella 1° e 2° visione vengono annunciati i castighi della carestia (cavallette) e della siccità (fuoco), entrambi condonati per l'intercessione di Amos che assume qui, come in Abramo (Gen.18,20-33), la figura dell'intermediario giusto che supplica Dio per altri e ottiene il favore.

Nella 3° e 4° visione Dio avverte che sta prendendo le misure a Israele e ne sta facendo una valutazione finalizzata al giudizio (Piombino), poiché l'iniquità di Israele è giunta a maturazione (frutta matura). Infatti, Israele è pieno di iniquità perché calpesta i poveri, stermina gli umili, imbroglia a grave danno dei poveri. Per questo le loro feste saranno cambiate in lutto e costringerà a penitenza e a ravvedimento tutti.

 

Per questo toglierà la sua presenza in mezzo al popolo lo abbandonerà a se stesso e al suo destino.

Il tempio sarà distrutto e rovinerà su di loro, cioè, il culto, di cui Israele andava orgoglioso, sarà la sua accusa e la sua rovina perché, come dice Isaia (Is.1,13), hanno mescolato assieme "delitto e solennità".

 

Le tematiche preannunciate dalle cinque visioni e successivamente sviluppate negli oracoli, sono prive dei grandi temi tradizionali: Alleanza, Legge, fedeltà a Jhwh, forse perché Israele era caduto così in basso da non essere più in grado da intenderli. Significativa, in tal senso, è l'espressione "Non sanno agire con rettitudine" (Am.3,10) che indica un profondo obnubilamento morale che rende la coscienza incapace ad intendere la voce di Dio.

Per questo, forse, Amos si sofferma esclusivamente sul comportamento iniquo di Israele, nella speranza che, facendolo riflettere su questo, possa, poi, intraprendere un cammino di conversione.

 

Da queste cinque visioni, poi, si diramano due filoni di oracoli a tema unico: la giustizia sociale strettamente legata a quella religiosa; l'uno rivolto alle nazioni limitrofe a Israele e l'altro rivolto a Israele stesso, contro il quale sono chiamati a testimonianza della sua grande iniquità e conferma della rettitudine di Dio, le nazioni pagane stesse (Am.3,9).

 

Il gruppo degli oracoli contro le nazioni pagane riguardano:

 

•     La crudeltà verso i vinti        (Damasco);

•    Le razzie compiute per allargare i propri confini, durante le quali si rastrellavano gli abitanti che, poi, venivano venduti come schiavi           (Filistei);

•    Deportazioni di israeliti presso i nemici, violando i patti di alleanza stabiliti con Israele (Fenici);

•    Atteggiamento di persistente ostilità di Edom (discendenti di Esaù) contro Israele (discendenti di Giacobbe), (Edom);

•    Tentativi di genocidio (Ammoniti);

•    Disprezzo verso i morti (Moab);

•    Denuncia di violazione dell'alleanza contro l'introduzione di culti idolatri  (Giuda);

•    Denuncia di gravi atti di ingiustizia verso i poveri e nei confronti dei giusti, impossessandosi dei loro beni, delle loro figlie per abusarne; denuncia contro la prostituzione sacra  (Israele).

 

 

Il redattore si aggancerà, poi, proprio su quest'ultimo oracolo contro Israele, in cui ha anticipato i temi che tratterà nei cap. 3-6.

 

Le accuse principali sono:

 

•    profonda decadenza morale che ha reso insensibile il popolo a Dio e, di conseguenza verso i membri del popolo dell'alleanza e che si concretizza in inique oppressioni verso i deboli;

•    incapacità di leggere la storia in senso teologico e, quindi, incapacità di conversione (Am.4,6-12);

•    Morale degradata al punto che il bene viene trasformato in male (Am.5,7) e ogni voce di profeta e di consacrato a Dio (nazirei) vengono respinti e dileggiati.

•    Denuncia di un falso culto fatto di esteriorità rassicuranti, ma inquinato da una condotta di vita inaccettabile (v. anche Is.1,11-17)

 

 

 

G E RE M I A

 

 

 

Contemporaneo di Sofinia, Abacuc, Nahum ed Ezechiele, Geremia nacque nel 650 a.C. ad Anatot, un villaggio levitico situato a nord-nord-est di Gerusalemme e da questa distante 6 Km.

Appartenente alla tribù di Beniamino, fu figlio di Chelkia, sacerdote ad Anatot e, probabilmente, discendente di Abiatar, sacerdote esiliato ad Anatot da Salomone per aver sostenuto il suo rivale Adonia nella corsa al trono.

Geremia fu chiamato da Dio ancora "giovane", nell'anno XIII di Giosia, cioè nel 627.

Il termine "giovane" (ebr. na'ar) ha fatto discutere molto, individuando l'età tra i 17/18 anni fino a 30 anni. E' molto più ragionevole se si pone l'età della chiamata intorno ai 20 anni.

 

L'epoca in cui Geremia esercita la sua missione può idealmente essere suddivisa in quattro momenti storici di cui tre coincidenti con altrettanti regni di Giosia (640-609 a.C.), Ioiakim (609-598 a.C.) e Sedecia (598-587 a.C.); il quarto momento da dopo la caduta di Gerusalemme ad opera di Nabucodonosor (587-582a.C.). Nel 582, anno in cui Ismaele assassina Godolia, successore di Sedecia, Geremia viene costretto a fuggire in Egitto, dove si perdono le tracce e dove, probabilmente, muore.

 

 

Durante il regno di Giosia

        (640 - 609 a.C.)

 

 

Nell'anno 627 a.C. Dio chiama Geremia ad essere il "profeta delle nazioni" (Ger.1,5) e tale sarà perché egli dovrà decifrare il senso degli avvenimenti internazionali (Egitto, Assiria, Babilonia), nei quali è implicato il suo popolo, e glieli deve far conoscere.

 

Durante la riforma di Giosia, inizialmente vista con sospetto perché troppo superficiale (Ger.8,8), si dedicherà, successivamente, a difenderla e a diffonderla soprattutto quando si trattò di demolire i tempietti sulle alture e il culto idolatrico ad essi legato e diffusosi sotto i regni (687-640 a.C.) di Manasse e di Amon, suo figlio, accentrando il culto a Gerusalemme e invitando anche i superstiti del Regno del Nord ad unirsi al culto centrale di Gerusalemme (Ger. 2-3 e 30-31)

Questa sua attività di  appoggio all'accentramento del culto gli valse l'incomprensione e l'inimicizia dei suoi parenti e dei suoi compaesani di Anatot, paese levitico, dove le famiglie sacerdotali e levitiche campavano sul culto locale.

 

Sempre in tale periodo si rivolse anche agli abitanti di Giuda, denunciando le violazioni dell'alleanza (Ger.11,3); il culto dei falsi dèi e l'abbandono del vero Dio (Ger.5,7); gli arricchimenti scandalosi a danno della popolazione più debole (Ger.5,26-31); le colpe dei sacerdoti e dei profeti (Ger.6,13); si scaglierà contro anche ai capi del popolo, che si sentono sicuri e sono convinti che la disgrazia non li può colpire (Ger.8,8 e 18,18). A questi annuncerà che "da settentrione si riverserà la sventura su tutti gli abitanti del paese" (Ger.1,14), cioè Babilonia.

 

La riforma che, in parte aveva animato Geremia, naufragherà completamente alla morte di Giosia (609 a.C.) a Meghiddo, nella battaglia contro il faraone Necao, per impedire il congiungimento delle truppe egiziane con quelle assire, alleate contro il nascente astro di Babilonia.

 

 

Durante il regno di Ioiachim

          (609 - 598 a.C.)

 

 

A Giosia succedette il figlio Ioacaz, appoggiato anche da Geremia, che regnò tre mesi e che venne, poi, dal faraone Necao destituito e portato in Egitto e sostituito con Ioiachim. Sarà questo il periodo più fecondo di Geremia e, forse, anche il più tribolato.

 

All'inizio del regno di Ioiachim, Geremia compie un gesto clamoroso: postosi davanti al tempio di Gerusalemme, pronuncerà il famoso discorso contro il comportamento persistentemente iniquo del popolo e dei suoi capi, che si ritengono al sicuro perché hanno il tempio, che considerano alla stregua di un amuleto portafortuna (Ger.7 e 26). Ebbene, se il loro comportamento non cambierà il tempio non li potrà salvare e sarà distrutto. Dopo questo discorso, Geremia poco mancò che venisse linciato. Scaglierà anche contro Ioiachim che amplia il proprio palazzo, schiacciando con tasse e corvé i poveri e i deboli (Ger.22,13-19).

 

Nel 605 a.C. avviene un inaspettato cambio di scenario internazionale: Nabucodonosor vince a Carchemis il faraone Necao e diviene la grande potenza del momento.

 

Geremia vede in questi il castigo di Dio che si avvicina e minaccia un'invasione babilonese se il popolo non si converte.

Proprio in questo frangente detta al suo segretario e discepolo Baruch gli oracoli divini che Ioiachim, sprezzante, strapperà sdegnosamente e li getterà nel fuoco; poi farà arrestare Geremia e Baruch, che riusciranno ad evadere.

 

E' probabile che a questi anni risalgano le "Confessioni di Geremia" con le quali , in un dialogo intimo e molto sentito, si lamenta con Dio per la sorte subita (Ger.11,18-12,6;  15,10-21;  17,12-18;  18,18-23;  20,7-18)

 

In questo periodo la predicazione di Geremia può essere così riassunta: Dio è scontento di Giuda. Si tratta di un popolo di peccatori (Ger.9,1-10), nessuno è più fedele a Dio (Ger.5-6); per questo il popolo è continuamente sollecitato a convertirsi (Ger.7,3; 25,3-6; 3,6-7), in caso contrario ci sarà un'invasione nemica (Ger.4) e il tempio e le città devastati (Ger.7,1-15); Gerusalemme sarà come un vaso di terracotta che si rompe (Ger.19). Denuncia, infine, l'oblio di Dio che si concretizza nel rifiuto dei profeti (Ger.5,12-13; 6,16-17) e della parola (Ger.6,10), nel falso culto (Ger.6,20; 7,18-21) e nella falsa sicurezza religiosa (Ger.7,1-15). Questa situazione è intollerabile a Dio e ne attira il castigo, cosa che avverrà nel 598 a.C.

 

 

Durante il regno di Sedecia

           (598 - 587 a.C.)

 

 

Dopo l'invasione di Nabucodonosr e la distruzione del Regno di Giuda, in cui Ioiachim viene deportato a Babilonia, sul trono viene messo Sedecia.

 

I primi anni furono sostanzialmente tranquilli da un punto di vista politico. Tuttavia, l'impatto psicologico e morale della prima deportazione fu devastante. Ci si rese conto che Dio non difende e salva il suo popolo incondizionatamente. Una verità dura e sconvolgente per il giudeo che si riteneva salvo solo per la sua appartenenza la popolo eletto.

 

E' in questo periodo che Geremia indirizzerà una lettera ai primi deportati (Ger.29). Gli esiliati erano divisi tra disperazione e speranza di un prossimo ritorno, alimentata anche da falsi profeti.

 

Geremia a questi scrive che l'esilio sarà lungo e che devono adattarsi alla nuova situazione. E' una lettera importante perché in essa già è contenuto il programma di vita del giudaismo della diaspora.

 

Nel 587 Sdecia, cedendo alle pressioni del partito di liberazione, si ribella al Babilonia rifiutandole il tributo. Geremia, l'unico ad opporsi, viene incarcerato. E' l'invasione e la fine di Giuda. Seconda deportazione e liberazione di Geremia che si affianca come consigliere a Godolia, nuovo governatore, che verrà assassinato nel 582 da Ismaele. Nuova invasione e terza deportazione. Geremia viene costretto dai suoi fedeli a rifugiarsi in Egitto dove si perderanno le tracce e dove, probabilmente morirà.

 

 

La figura morale e spirituale di Geremia

 

 

"Spinto dalla tua mano sedevo solitario" (Ger.15,17b). In queste poche parole è racchiuso l'intero dramma di Geremia, l'uomo solo a causa della Parola. Una solitudine che si concretizza nell'incomprensione dei suoi concittadini e regnanti; dei suoi stessi compaesani e familiari. Non conoscerà mai il conforto e l'affetto di una famiglia propria e non sarà mai padre; ma viene, invece, perseguitato, incarcerato, maltrattato e, controvoglia, trascinato in Egitto dove morirà dimenticato da tutti e nessuno conserverà il ricordo della sua tomba.

 

La causa del suo dramma fu la Parola che, se da un lato, saluta con gioia ("Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità; la tua parola fu la gioia e la letizia del mio cuore" - Ger.15,16), dall'altro la respinge perché gli sconvolge la vita ("Mi spezza il cuore nel petto, tremano tutte le mie membra, sono come ubriaco e un ebetito dal vino a causa del Signore e delle sue parole. Ger.23,9). Una Parola bizzarra che, a volte, sembra abbandonarlo e si fa rara e gli impone attese anche di giorni prima di farsi sentire nuovamente ("Al termine di dieci giorni la parola del Signore fu rivolta a Geremia" -Ger.43,7 - e ancora "Tu sei diventato per me un torrente infido dalle acque incostanti" - Ger.15,18). Una parola che non gli dà tregua e di cui Geremia non ne può più, perché egli è un uomo pacifico e tranquillo, molto sensibile e introverso ("Quando parlo devo gridare: <<Violenza, oppressione!>>. Così la parola del Signore è diventata per me motivo di obbrobrio e di scherno ogni giorno. Mi dicevo: <<Non penserò più a Lui, non parlerò più nel suo nome!>> Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo" - Ger.20,8-9).

 

E sarà proprio nelle sue "Confessioni" che darà sfogo al suo conflitto con Dio che lo ha messo in contrasto non solo con il popolo e regnanti, ma anche con gli altri profeti, che gli fanno concorrenza.

 

 

Il messaggio

 

 

Geremia è il propugnatore di una nuova religione basata sul sull'autenticità del rapporto con Dio; un rapporto che si fa più spontaneo e sincero; un rapporto che parte dalla vita e dalla storia, di cui egli fa una lettura teologica. E' una religione che si interiorizza sempre più, in cui la preghiera si fa più autentica e nasce dalla vita coinvolgendola.; una religione priva di formalità e che diventa comunione di cuori tra Dio e l'uomo, e che consente di scoprire il senso della vita e della storia.

Infatti, la maggior parte degli oracoli di Geremia sono una sistematica lettura della storia in cui agisce la salvezza offerta da Dio, ma da cui emerge, anche, violento il rifiuto dell'uomo.

 

Nell'ambito di questa cornice si inseriscono alcuni temi di fondo che caratterizzano la predicazione di Geremia:

 

•     Consolazioni e annuncio di una nuova alleanza.

•     Le "Confessioni" o intimo e appassionato dialogo con Dio.

•     La Parola di Jhwh.

•     Il senso del peccato.

•     Il discorso sul tempio.

 

 

Consolazioni e annuncio di una nuova alleanza

                       (Ger. 30-31 e 32-34)

 

 

Dopo la rivolta di Sedecia, contro Babilonia, Giuda subisce una seconda pesante deportazione (587 a.C.). Ai deportati in Babilonia Geremia dedica i cap. 30-31. Essi contengono una serie di oracoli che descrivono l'avvenire meraviglioso del popolo di Dio. I più antichi di questi oracoli sembrano essere rivolti all'Israele del Nord, la cui distruzione (722 a.C.) è ancora viva nella memoria dei sopravissuti, ma vengono reinterpretati e applicati a Giuda. Essi evidenziano il carattere inevitabile della sofferenza come strumento di educazione e purificazione per un popolo dalla dura cervice, nonché l'amore sovrabbondante di Dio (Ger.31,3-4). Viene dato spazio alla conversione (Ger.3,18ss) e agli appelli a questa (Ger.3,21c-22). Si riaccendono le speranze per i deportati (Ger.31,17).

 

Su questo sfondo di sofferenza purificatrice, di appelli alla conversione e voglia di ritorno al Signore, si apre la prospettiva di una nuova alleanza; nuova non per i contenuti, ma per modalità di porsi e di esprimersi: essa non si trova più all'esterno dell'uomo, quasi ingabbiandolo, ma nel suo interno, nella profondità del cuore (Ger.31,31-34), favorendo, così, un'autenticità di vita, una religione interiorizzata che interpella l'uomo nel suo intimo, purificato da ogni formalismo.

Si mettono, pertanto, qui, le basi per una religione universale, perché essa viene liberata dai ristretti spazi storico-culturali e radicata, invece, nell'intimo di ogni uomo di buona volontà, cioè disponibile a Dio.

 

 

Le Confessioni di Geremia: (Ger. 11,18-12,6; 15,10-21; 17,12-18; 18,18-23; 20,7-13)

 

 

In queste cinque pericopi Geremia esprime tutto il suo dramma e il peso del suo essere profeta.

 

Egli è stato investito di una missione: essere la parola di Dio, essere la sua bocca in mezzo al popolo.

 

Geremia è un uomo sensibile, introverso, pacifico e amante della vita semplice, ma la parola che deve annunciare è irruente, bizzarra, violenta e lo scuote in tutto il suo essere; una parola che gli provoca nemici, persecuzioni e lo rende solitario, perché tutti gli sono contro.

 

Significativa, in tal senso, è la quinta confessione (Ger.20,7-13) che mirabilmente sintetizza in sè tutto il più intimo e vero Geremia.

In essa Geremia esprime tutta la forza della parola di Dio che lo ha sedotto e a motivo della quale è diventato oggetto di scherno e di disprezzo. Una parola che lo spinge a proclamare castighi e catastrofi imminenti. Egli, pertanto, arriva a rinunciare alla sua missione, ormai divenuta troppo pesante e insopportabile; ma lo Spirito di Dio, che lo penetra fin nelle sue profondità, è incontenibile e lo spinge, controvoglia, a proseguire l'indesiderata missione e a maledire il giorno della sua nascita.

 

 

La Parola di Jhwh

 

 

Se il profeta è per eccellenza l'uomo della Parola, Geremia è il profeta tra i profeti, l'uomo che ha vissuto in sè tutto il dramma della Parola, che è il dramma stesso di Dio di fronte alla persistenza dell'uomo nel peccato, divenuto, ormai, un suo "modus vivendi".

 

Egli, unico tra i profeti, descrive il suo rapporto conflittuale e sofferto con questa Parola che gli ha, suo malgrado, sconvolto la vita. Ma forse proprio in questo suo sconvolgimento esistenziale il profeta, per la prima volta nella storia dell'umanità, rivela e manifesta il dramma di un Dio che si vuole donare all'uomo, ma è da questi respinto.

 

Geremia, l'uomo fatto parola da Dio, diventa figura viva e profetica di un'altra parola fatta evento: Gesù, Parola eterna del Padre. Egli nella sua vita ne ha preannunciato il dramma.

 

Geremia è l'uomo di Dio a lui consacrato, per questo egli dirà: "Quando le tue parole mi vennero incontro le divorai con avidità; la tua parola fu la letizia e la gioia del mio cuore, perché io portavo il tuo nome" (Ger.15,16).


Ma questa è una Parola che lo consacra, cioè lo riserva per Dio, per questo diventa un uomo solitario perché "spinto dalla tua mano sedevo solitario" (Ger.15,17b); una Parola che lo ha sedotto e gli ha fatto violenza e lo ha esposto quotidianamente agli insulti e alla derisione; una Parola dalla quale egli cerca di fuggire, ma che è talmente radicata in lui da precludergli ogni via di fuga (Ger.20,7-10).

 

La Parola, dunque, incarnata in Geremia, diventa per lui gioia, tormento, forza violenta, inquietudine e trova in lui un fedele servitore, benché suo malgrado.

  

Il senso del peccato

 

Il tragico destino di Giuda, distrutto e deportato a Babilonia, dà l'esatta dimensione degli effetti della colpa del popolo, che ha assunto il peccato come "modus vivendi", uno stato di vita che gli precludeva ogni possibilità di rapporto con Dio e di comprensione delle sue esigenze.

 

Questo peccato si articola in Geremia in quattro momenti:

 

•     Tradimento dell'Alleanza, base di vita per il popolo e configurazione della sua identità.

•     Non attenzione alla Parola di Dio, come conseguenza della violazione dell'Alleanza e della perdita della propria identità.

•     Non conoscenza di Dio e della sua azione salvifica, che costituisce quella base di ignoranza su cui il peccato si fonda. Da qui discende anche l'incapacità di una lettura teologica della storia.

•     Culto falso e idolatrico, che costituisce l'altra faccia del peccato, inteso come abbandono di Dio per seguire altre divinità.

 

 

Ecco che allora il peccato diventa una sorta di prostituzione, dimenticanza di Dio, ribellione, infedeltà, rottura, degenerazione.

 

Ed è proprio questo degenerato stato di vita che matura il castigo di Dio perché "essi si sono intestarditi, rifiutandosi di ascoltare le mie parole" (Ger.19,15)

 

 

Il discorso sul tempio

 

 

Dopo la morte di Giosia (609 a.C.), sale al trono, dopo una breve parenti di tre mesi di Ioacaz, Ioiakim.

 

In questa occasione Geremia pronuncia il discorso sul tempio, riportato nel cap.7 e le cui modalità sono descritte nel cap.26.

 

Il tempio e tutte le pratiche religione ad esse collegate (circoncisione, culto, festività) sono oggetto di contestazione da parte di Geremia, perché ad esse non corrisponde un adeguato atteggiamento di vita. Infatti, il popolo e i sui governanti hanno legato la loro elezione e la loro salvezza, per cui nulla può accadere a loro, al tempio, trasformandolo in una sorta di feticcio salva-tutto e portafortuna.

Ebbene, Geremia toglie loro ogni illusione e cerca di far capire come tempio e culto acquistano senso solo se sono espressione di un adeguato tenore di vita: è questo che dà senso al culto, al tempio e alla religione; diversamente tutto ciò viene dissacrato da una iniqua condotta e ricadrà su di loro a condanna.

  

Concludendo, potremmo dire che Geremia è il profeta che meglio di tutti ha interpretato il suo ruolo e ne ha illustrato e testimoniato il senso più vero e profondo, diventando un punto di riferimento per ogni credente che ha deciso la sua vita per Dio e si è consacrato, quale sacramento vivente, alla testimonianza della sua Parola.