INTRODUZIONE AI
SINOTTICI
(Elaborazione dei
miei appunti integrati da sunto e riflessioni sulle dispense
dell'insegnante)
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Introduzione
Da un punto di vista
letterario i Vangeli non sono né memorie, né biografie perché,
in entrambi i casi, manca l’intento, da un lato, di voler
semplicemente ricordare la figura di Gesù; dall’altro, di voler
descrivere in modo coordinato e intenzionale la vita di Gesù.
Inoltre, rispetto agli
altri scritti neotestamentari, ai quali interessano
prevalentemente la morte e risurrezione di Gesù e le conseguenze
di queste sul vivere cristiano, i Vangeli si interessano in modo
rilevante della vita terrena di Gesù, del suo messaggio e delle
sue opere.
Essi possono essere
definiti prevalentemente come testimonianze di fede delle prime
comunità cristiane in Gesù e nel suo messaggio, così come loro
lo hanno capito, vissuto e creduto, rileggendolo alla luce della
morte/risurrezione.
Pertanto potremmo dire che
i tratti che caratterizzano questo nuovo genere letterario
sono i seguenti:
- Sono,
essenzialmente, l’annuncio di Dio nella storia e hanno per
oggetto l’ultimo e definitivo appello alla conversione
rivolto a tutti gli uomini.
- Sono,
inoltre, la testimonianza di una tradizione già formata che
è nata da una rilettura di Gesù e del suo messaggio alla
luce della risurrezione, nonché da una ricomprensione
dell’AT sotto tale luce, sicché Gesù ne diventa la chiave
interpretativa.
Essi raccolgono tali
testimonianze e le organizzano secondo una teologia propria
dell'evangelista e finalizzate alle comunità di
destinazione.
- Si
muovono nell’ambito di un Kerigma già esistente che
raccolgono e sviluppano grandi linee narrative.
- L’annuncio
della salvezza avviene sotto forma di narrazione storica
legata alla figura di Gesù.
- Sono,
infine, testimonianze di fede della comunità credente che
narra quanto lei ha sperimentato e compreso di Gesù e del
suo messaggio, riletto e ricompreso alla luce della
risurrezione.
Perciò, fede e storia
si compenetrano reciprocamente.
Quale
comprensione di fronte ai Vangeli?
I Vangeli non vanno
compresi come una biografia di Gesù da cui poter trarre i tratti
della sua personalità; né come una raccolta, quasi fotografica o
di cronaca, di fatti riguardanti la vita di Gesù; né come un
insegnamento di una dottrina morale; né, infine, come il luogo
in cui si prova la divinità di Gesù.
Essi, invece, devono
essere compresi come una testimonianza di fede delle prime
comunità che ci testimoniano la loro esperienza e la loro
comprensione della figura di Gesù e del suo messaggio alla luce
della risurrezione.
Essi, pertanto, sono da
considerarsi come il punto finale di raccolta di queste
testimonianze, orali e scritte, rielaborate dai singoli
evangelisti secondo una loro prospettiva teologica e finalizzata
alle comunità di destinazione.
Accostamento critico ai
Vangeli
Lettura sinottica
Si chiamano sinottici dal
greco
sun-oraw che
significa : sguardo d’insieme, per cui i tre vangeli di Mt, Mc e
Lc si possono leggere assieme.
Diverso è quello di
Giovanni che va per conto suo, sia per lo stile che per il
contenuto, altamente teologico rispetto agli altri tre; sia per
i fatti che vi sono riportati che non vengono menzionati dagli
altri e sia per il ritmo con cui si svolge la missione di Gesù:
nei sinottici sembra che si svolga in un anno, infatti, viene
riportata una sola pasqua; in Giovanni sembra che si svolga in
tre anni, in quanto vengono riportate tre pasque; inoltre, il
calendario della pasqua differisce da quello dei sinottici.
Lo strumento tecnico
grazie al quale si riesce a leggere i tre vangeli in parallelo
tra loro, su tre colonne, si chiama sinossi.
Aprendo la sinossi si
possono rilevare i seguenti casi:
- Materiali
riportati da tutti e tre gli evangelisti, quindi di triplice
tradizione: Mt, Mc, Lc.
- Materiali
che sono riportati solo da due evangelisti, e possono
assumere la forma di: a) Mc. + Mt
b)
Mc. + Lc.
c)
Mt. + Lc.
- Materiali
riportati da un solo evangelista : solo Mt. o solo Lc. o
solo Mc.
Quanto al secondo alinea, poco
consistente la forma Mc. + Lc. ; molto più consistente,
invece, la forma Mt. + Lc. composto prevalentemente dai
Logia.
Provenienti dalla fonte Q.
Quanto al terzo alinea,
sono materiali propri di ogni singolo evangelista e che lo
caratterizzano.
In Mc. Ne abbiamo solo una
modesta quantità : cinque.
Maggiormente consistenti e
molto conosciuti sono, invece, quelli che caratterizzano glia
altri due evangelisti, Mt. e Lc.
Una questione posta sui
Sinottici sono le loro concordanze e le loro
discordanze.
In altri termini: perché
gli evangelisti presentano concordanze e discordanze? Come
spiegarlo?
Le concordanze, in genere,
riguardano i grandi quadri narrativi comuni:
-
preparazione della
missione di Gesù;
-
ministero di Gesù
in Galilea;
-
Viaggio di Gesù a
Gerusalemme;
-
Passione e
risurrezione di Gesù.
Concordanze, inoltre, si
riscontrano anche in blocchi narrativi, come le dispute in
Galilea; concordanze che si ritrovano perfino all’interno di
tali blocchi e precisamente :
-
concordanze nelle
sequenze dei fatti;
-
concordanze di
parole;
-
concordanze di
particelle.
Questa notevole massa di
concordanze porta a pensare ad una interdipendenza, ma da
chi o da che cosa? Si rilevano, poi, anche delle discordanze.
Tutto ciò porta a
chiedersi quali relazioni ci sono tra i tre evangelisti e tra
questi e il loro ambiente.
Si sono formulate tre
ipotesi:
- Per
quanto riguardano le convergenze, si è pensato ad una
tradizione orale che, ben collaudata da tutte le
scuole rabbiniche, dove si affinavano continue tecniche
mnemoniche, avveniva con estrema fedeltà. Per quanto
riguarda, invece, le discordanze si faceva
riferimento alle varie situazioni in cui venivano
raccontati gli avvenimenti e che richiedevano un adattamento
narrativo. Questa tesi, però, viene ben presto abbandonata
perché non riesce a spiegare bene tutto.
- Interdipendenza,
cioè il copiarsi a vicenda. Una sequenza proposta fu : Mc.
sintetizza Mt. e Lc. il quale a sua volta dipende da Mt.
Questa tesi venne sostenuta osservando alcune confluenze
verbali, come ad es. in Mc. 1,32 . Questa tesi, tuttavia,
non riesce a spiegare la differenza di capitoli tra gli
evangelisti; infatti Mc. ne ha 16, Mt. 28 e Lc. 24.
Considerata la cura con cui veniva trasmessa la tradizione,
per quale motivo Mc. avrebbe saltato ben 12 capitoli in Mt.
e 8 in Lc. Per cui anche questa ipotesi venne abbandonata.
-
Ipotesi documentaria
o delle due fonti che, oggi, viene
sostanzialmente accettata da tutti. Tale ipotesi afferma che
la prima fonte fu Mc. da cui gli altri due dipendono; mentre
per il materiale che si ritrova solo in Mt. e Lc. si rimanda
ad una fonte che ci è sconosciuta e che convenzionalmente
viene chiamata Fonte “Q”, dal tedesco “quelle” che
vuol dire, per l’appunto, “fonte”.
Pertanto, quando ci
sono testi di triplice edizione, la fonte è Mc.; quando,
invece, il materiale è riportato solo da Mt. e Lc., allora
la fonte è la “Q”.
Per quanto riguarda il
materiale riportato solo in Mt. o solo in Lc. si fa riferimento
ad una fonte “S” (Sondergut) che significa: materiale
tipico di Mt. o di Lc. o di Mc.
Il metodo delle Forme (Formgeschischte)
È la storia delle forme
letterarie messe in rapporto all’ambiente (Sitz im Leben)
che le ha generate.
Tale metodo è sorto
intorno al 1920 ad opera di cinque teologi il cui intento era di
chiarire quel periodo oscuro di gestazione dei vangeli che va
dal 30 al 65 d.C.
Tale teoria ritiene che il
materiale dei sinottici esistesse inizialmente come materiale
“sciolto” in singole pericopi e racconti tramandati
oralmente o per iscritto e poi ricomposti redazionalmente
dall’evangelista in un momento successivo. Quindi, l’evangelista
si è limitato a fare un assemblaggio di vari pezzi variamente
recuperati dalla tradizione orale e presenti in seno alle
comunità.
E’ materiale, dunque,
raccolto senza nesso logico né di tempo, né di luogo e poi
cucito assieme dal redattore, anche se, in verità, dei pezzi,
talvolta, hanno qualche legame, magari costruito dallo stesso
evangelista.
Riveste importanza
fondamentale, quindi, l’individuazione delle forme presenti in
questi materiali nonché lo studio dell’ambiente vitale in cui ne
avveniva la trasmissione. Ciò permette di comprendere come
nascevano, si strutturavano e venivano, poi, trasmessi.
Passiamo, dunque, alla
classificazione delle forme per meglio, poi, comprendere i
contenuti, dato che questi sono strettamente legati alla forma:
-
Detti e
Insegnamenti
-
Racconti
-
Sentenze
inquadrate
Detti e Insegnamenti
Si presentano sotto forma di anche
di singoli versetti, singoli
LÒgia
di semplice struttura, ma anche più complessi. Ci sono
LÒgia,
poi, che assomigliano a forme sapienziali che si trovano
anche nell’A.T. , come ad es. “Così a chi ha sarà dato e sarà
nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”
(Mt. 13,12)
Detti di tipo
profetico,
come ad esempio le beatitudini (Mt. 5,3-11) che annunciano la
salvezza o che, invece, minacciano una condanna o un giudizio,
come ad es. i “Guai a voi” rivolti da Gesù agli scribi e
farisei per il loro eccessivo legalismo (Mt. 23,13-16) che porta
a violare o a travisare la Legge di Dio.
Detti di tipo
giuridico,
come ad es. “… perché con il giudizio con cui giudicate
sarete giudicati, e con la misura con cui misurate sarete
misurati” (Mt. 7,2).
Paragoni,
come ad es. “E’ più facile che un cammello passi per la cruna
di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt.
19,24).
Similitudini,
come ad es. “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro
nascosto …; … ad un mercante che va in cerca di perle preziose;
… ad una rete gettata in mare …” (Mt. 13,44-47).
Metafora
con cui si usa un’immagine per alludere alla realtà, come ad es.
“Voi siete il sale della terra …; … Voi siete la luce del
mondo” (Mt. 5,13-14).
Parabola
è una metafora sviluppata in un racconto e che punta ad un
concetto, come ad es. gli operai che, a varie ore del giorno,
sono stati chiamati a lavorare nella vigna e poi retribuiti
parimenti tutti con un denaro (Mt. 20,1-16). Tutta la struttura
di questa parabola porta a considerare un unico discorso: la
gratuità di Dio e della sua bontà, che supera le ristrette
logiche dell’uomo e del “do ut des”.
La parabola, dunque,
è un racconto metaforico fatto in vista
di …
Allegoria
è una serie di metafore che costituiscono un racconto; essa è
costituita da una serie di immagini che contengono in se stesse
il senso che l’allegoria vuole esprime e sono inserite in un
racconto, come ad es. il banchetto di nozze di quel re che gli
invitati rifiutarono, per cui il re mandò a convocare chiunque
si fosse trovato per la strada (Mt.22,1-14) o come il racconto
del Buon Pastore (Gv. 10,1-12). E ancorala spiegazione della
parabola della semente caduta su vari terreni (Mt. 13,18-23)
Racconti
I racconti hanno forme
letterarie diverse, ad es. di guarigioni, di esorcismo
che contiene in sé dei topici, cioè dei luoghi comuni che si
ritrovano in tutti i racconti di esorcismo, come ad es. nella
Tempesta sedata in cui si lascia intendere come questa ha
qualcosa di maligno da cui liberarsi; di miracoli del
tipo, per es., di moltiplicazione, che ha dei paralleli
anche nell’A.T. come nel racconto di Elia e la vedova di Zerepta
(1Re 17,10). Questo tipo di miracolo ha la caratteristica di non
aver nulla di clamoroso o di particolare nel suo svolgimento se
non gesti o parole del tutto comuni e normali, come il gesto del
benedire. Simili caratteristiche si ritrovano anche nel racconto
della pesca miracolosa (Lc. 5,4-9).
Paradigmi di
chiamata si compongono di 3 parti:
-
L’incontro
-
Un gesto o
una parola di chiamata
-
La sequela
da parte del chiamato
In tal senso si veda la
chiamata dei discepoli (Mt. 4,18-22) e quella di Levi (Lc.
5,27-28).
Paradigmi di
nascite miracolose come quella di
Giovanni e di Gesù, ma come se ne trovano anche nell’A.T. come
la nascita di Isacco o quella di Samuele.
Sentenze inquadrate
Questo tipo sono sentenze
“inquadrate” da un racconto la cui finalità è quella di
mettere in risalto la sentenza stessa. Quindi, come in un
quadro, la sentenza funge da tela e il racconto da cornice che
deve essere tale da non soffocare mai la tela, ma la deve,
piuttosto, esaltare.
Sono, quindi, cornici
preparatorie che puntano ad evidenziare il detto di Gesù.
Pertanto, a conclusione di
questa digressione sulle forme, potremmo dire che la
classificazione delle forme serve per una migliore
identificazione e comprensione del contenuto dei materiali che
da queste forme dipendono; materiale, inoltre, che è stato
selezionato in funzione delle esigenze dell’evangelista e
dell’ambiente a cui era destinato.
Contesti della formazione
dei vangeli
Come
si è sopra accennato, non tutto su Gesù è stato scritto nei
vangeli, ma solo quelle parti che gli evangelisti hanno ritenute
utili per i loro intenti e le loro comunità.
Infatti, è Giovanni stesso
che nel suo vangelo ai capitoli 20 e 21 afferma ripetutamente: “Vi
sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero
scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a
contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv. 21,25) e
ancora, specificando le ragioni della selezione, afferma: “Molti
altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non
sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti
perché crediate che Gesù è il Cristo,il Figlio di Dio, e perché,
credendo, abbiate la vita nel suo nome.” (Gv. 20,30)
Quindi ragioni di
testimonianza per la fede fu il criterio di scelta dei racconti
evangelici.
Ma da dove nacque il
materiale che, poi, formerà i vangeli? In quali contesti si è
formato?
Una luce in proposito ci
viene fornita dal metodo delle forme o
Formgeschichte la quale, attraverso un proprio metodo,
riesce a individuare le varie forme letterarie racchiuse nel
vangelo .
Ognuna di queste forme
linguistiche si distingue dall’altra in quanto possiede
determinate caratteristiche proprie che sono funzionali ad una
determinata situazione costante, ricorrente nella vita sociale;
in altri termini ognuna di esse è strettamente legata ad una
certa situazione di vita, cioè di Sitz im Leben,
di posto nella vita.
Proprio per questa stretta
connessione tra le forme e il Sitz im Leben si può risalire alla
loro collocazione nella vita della comunità.
Pertanto, il materiale
evangelico non va visto come un’opera individuale di un autore,
ma come un aggregato di tante piccole unità che preesistevano in
forma orale, autonomamente l’una dall’altra, e venivano
utilizzate dalla comunità primitiva in funzioni dei propri
bisogni della sua vita: liturgia, catechesi, eucaristia,
battesimo, kerigma, ecc.
In questi contesti,
dunque, si formavano i testi che poi venivano trasmessi
oralmente all’interno delle varie comunità.
Erano, dunque, ricordi che
nascevano dalla occasionalità sorta in un certo contesto.
Esempi di
contesti
(Sitz im Leben)
Liturgia:
come ad esempio gli inni cristologici in Paolo, Luca e Atti
degli Apostoli o le varie formule di fede variamente sparse
negli Atti e in Paolo.
Kerigma:
in cui vengono annunciati i primi elementi della fede che si
ritrovano,poi, nel vangelo.
Esorcismi:
in cui si attesta la santità e l’onnipotenza di Gesù e la sua
figura di Figlio di Dio. Inoltre, certi racconti di esorcismo
avevano una intonazione kerigmatica e spingevano ad interrogarsi
su Gesù.
Predicazione:
in cui si puntava dimostrare che Gesù era il messia.
Disputa
con i giudei che mirava ad un raffronto di contenuti di fede
propri con quelli del giudaismo.
Catechesi
cioè la necessità di spiegare il messaggio e la figura di Gesù a
chi si accostava al cristianesimo o anche ai cristiani per
consolidarne la fede.
Ci sono, dunque, dei
contesti adeguati per far memoria della figura di Gesù e del suo
messaggio. Sono proprio in questi contesti che nascono le prime
configurazioni su Gesù e il suo messaggio.
Si è venuto a creare così
una tradizione di racconti e testimonianze, occasionalmente
sorte in certi contesti vitali, che, poi, furono raccolti e
redatti assumendo la forma dei vangeli che sono messi in conto
ai quattro evangelisti.
Il metodo delle
redazioni (Redactiongeschichte)
Tale metodo era sorto negli anni ‘ 50 in reazione alla
Formgheschichte che, evidenziando troppo l’operato della
comunità, aveva messo in ombra quello dell’evangelista e del suo
lavoro teologico.
Con questo metodo si mette
in luce l’opera redazionale dell’evangelista, da cui traspaiono
i suoi intenti teologici e il suo pensiero in genere, con
un’attenzione particolare alla comunità di destinazione.
Quindi, dall’analisi della
redazione del testo traspare l’impronta e gli intenti
dell’evangelista.
Le forme redazionali di
maggior rilievo sono:
-
Le
cornici: formano l’introduzione e la conclusione delle pericopi;
-
Scelta e disposizione del materiale all’interno del racconto;
-
Modifica del materiale tramandato.
Quindi, nell’ambito della
composizione dei vangeli, gli evangelisti assumono la figura non
solo di redattori, ma anche di autori dei vangeli. Infatti, essi
non si sono solo limitati a raccogliere, nell’ambito delle varie
comunità, il materiale evangelico come fossero dei semplici
assemblatori di tradizioni, ma lo riordinarono e gli dettero
quella forma che rispecchiasse i loro intenti e tenendo conto
anche delle esigenze della comunità a cui erano indirizzati.
A tal punto sorgono
spontanee le domande: quale apporto gli evangelisti hanno dato
alla formazione dei vangeli? Quale impronta teologica e
letteraria? Qual era, poi, l’ambito ecclesiale per cui i vangeli
furono scritti? Quale tipo di comunità erano quelle a cui erano
destinati? È possibile definirne i problemi e una loro identità?
Gli evangelisti
all’interno di una cornice storica fanno vivere dei personaggi
al cui centro c’è Gesù. Compongono dei testi che sono stati
tratti dalla vita, dall’esperienza di Gesù e, poi, finalizzati
alle comunità e in loro funzione.
Il
lavoro degli evangelisti, dunque, fu di tipo redazionale sul
materiale ereditato dalle tradizioni e sviluppando su questo una
loro teologia, finalizzando, poi, il tutto alle comunità per le
quali i vangeli furono scritti.
Con quale metodo, dunque,
si può rilevare il loro pensiero teologico fatto filtrare
attraverso il lavoro redazionale? Attraverso un confronto
sinottico dei testi e le loro fonti: Mc. e Q, rilevando le
modifiche che ognuno fa su queste fonti e che diventano, in tal
modo, loro peculiarità che li contraddistinguono da tutti gli
altri; ne creano una loro identità e che spesso servono per
esprimere una loro teologia o un semplice miglioramento
stilistico o letterario.
Ad esempio, quando in una
pagina evangelica vengono riportate varie pericopi, si distingue
un vangelo da un altro dal modo con cui queste pericopi vengono
tra loro suturate, esprimendo, talvolta, in questa sutura,
l’intenzionalità dell’autore, una sua teologia e possono anche
costituire una chiave di lettura della parabola stessa o del
discorso di Gesù.
Attenzione, dunque, alle
cornici in cui si inquadrano i fatti, le parabole o le
pericopi.
Talvolta, nel raffronto
sinottico, si riscontra che non viene rispettato l’ordine delle
pericopi. Questi spostamenti sono spesso voluti per
servire una propria teologia o seguire una propria logica che
sottende tutto il vangelo o parte di esso.
Ad esempio, in Mc e Mt la
chiamata dei discepoli avviene all’inizio del vangelo perché,
secondo loro, i discepoli devono essere con Gesù fin dall’inizio
per riceverne il messaggio fin da subito.
Lc,
invece, sposta la chiamata più avanti, dopo che Gesù ha operato
ampiamente e nell’ambito della pesca miracolosa. Perché?
Il motivo è teologico:
prima Gesù fa l’annuncio che solo successivamente viene affidato
ai discepoli; per cui Lc distingue un tempo per Gesù e un tempo
per la chiesa. Sarà, infatti, con tale logica che egli produrrà
le due opere: il vangelo e gli atti.
È, dunque, importante,
chiedersi sempre del perché delle differenze tra i sinottici
poiché tutto segue una sua logica.
Ci sono, inoltre,
talvolta, delle concatenazioni di detti, perché con ciò
si vuole dare un senso specifico ai detti ed esprime un senso
teologico proprio di quell’evangelista.
Un’attenzione, ancora, va
rivolta agli spostamenti che, talvolta, avvengono all’interno
delle stesse pericopi, come per le tentazioni in Mt. e Lc.; Luca
sposta, rispetto a Mt, la tentazione di Gesù sul pinnacolo del
tempio. Ciò lascia trasparire l’interesse che Lc ha per
Gerusalemme, come centro della storia della salvezza.
Oppure ci sono delle
semplici modifiche all’interno delle singole pericopi,
che possono essere apportate per semplici fini stilistici, ma
possono anche rivelare degli intenti teologici.
Talvolta ci possono essere
delle differenze di tipo geografico, come per esempio,
tra Mt e Lc, quando si parla delle beatitudini. Mt afferma che
Gesù salì sulla montagna, mentre Lc parla di un luogo
pianeggiante. Anche qui si perseguono degli intenti teologici o
un particolare modo di vedere la figura di Gesù. In Mt, che fa
parlare Gesù dalla montagna, lo percepisce come il Dio che parla
al suo popolo, richiamandosi, in tal modo, al Mosè sul monte
Sinai. Lc, invece, raffigura Gesù su di un piano, in mezzo alla
gente, perseguendo, in tal modo, la figura di un Gesù venuto tra
il suo popolo per raccogliere Israele e ricondurlo, come buon
pastore, alla casa del Padre.
Tutta la tradizione evangelica, infine, ha alla base il Gesù
storico, ma ripensato alla luce della risurrezione. Da qui è
sorta la tradizione orale o qualche raccolta di scritti, magari
sotto forma di appunti, che servivano ai predicatori erranti
quale traccia per la loro predicazione e il loro annuncio, che,
forse, ha costituito quella che noi oggi chiamiamo la Fonte Q.
E, infine, c’è il lavoro redazionale dell’evangelista,
rimaneggiato secondo i propri intenti e la propria teologia,
tenendo presente la comunità di destinazione.
Quindi, prima di arrivare
ai vangeli c’è una lunga gestazione degli stessi che è
triplicemente stratificata, come sopra accennata:
-
Tradizione orale;
-
Tradizione scritta (fonte Q);
-
Redazione degli evangelisti e loro elaborazione teologica.
I metodi che studiano questi strati
si chiamano storico-critici o diacronici, cioè lo studio dello
sviluppo dei vangeli lungo il tempo, attraverso il tempo (di¦
crÓnoj).
Si parla, inoltre, anche
di metodi sincronici o contemporanei. Questi trascurano
l’analisi diacronica della formazione dei vangeli e ne accettano
il testo acriticamente, così come viene presentato.
Criteri generali per una
esegesi del testo
Il
testo è un tessuto fatto da un insieme di segni, quali : parole,
frasi tra loro collegate, connessioni grammaticali, aspetti
narrativi, ecc.
Un testo comincia a
prendere forma dall’insieme di queste connessioni che si
stabiliscono all’interno del testo stesso.
Talvolta, all’interno del
testo si rileva un cambio di personaggi, di ambiente, di sfondi,
ecc. Sono segni questi che formano connessioni tra loro,
stabiliscono una trama, costituiscono, infine, una struttura del
testo stesso.
Primo lavoro da fare,
pertanto, è evidenziare i segni e i loro legami, le connessioni
che si sviluppano all’interno del testo e che, nel loro insieme,
danno la struttura del testo.
Un secondo passo è dato
dalla rilevazione della semantica, cioè evidenziare il senso che
hanno questi segni scritti da autori antichi.
C’è, quindi la necessità
di comprendere il significato dei termini usati in quel contesto
storico-culturale e dai singoli autori.
Importante, ancora, è
capire quando e dove un certo termine viene usato. Per
questo è necessario comprendere lo sfondo storico e culturale in
cui si colloca il termine e l’uso che se ne fa all’interno del
testo.
Da questa analisi
semantica comincia, allora, nascere il senso del testo, tenendo
sempre presente, ovviamente, la struttura del testo, che forma
il quadro generale entro cui si muove il racconto.
Quindi, per una corretta
analisi del testo bisogna tener presente questi due punti:
-
Rilevare la trama o connessioni, che formano il quadro del
racconto;
-
Rilevare i segni cogliendo il loro significato all’interno della
trama.
L’esegesi, quindi, dà un
metodo di lettura dei testi ed è un controllo critico
sull’interpretazione di un brano, evitando con così fantasie
interpretative, rimanendo fedeli al messaggio che l’evangelista,
invece, ha voluto comunicare.
IL VANGELO DI MARCO
Aspetti storici
I
vangeli furono inizialmente pubblicati anonimi, in quanto che
gli autori erano conosciuti, e si riferivano alla comunità di
cui l’evangelista era l’espressione.
Inoltre, la questione dell’anonimia assume un significato
importante, poiché sta ad indicare che il vangelo è considerato
più che un’opera di un autore, il vangelo di Gesù Cristo
tramandato dalla comunità cristiana. Non interessa molto,
quindi, il nome dell’autore che, per altro, doveva essere noto
ai suoi destinatari.
Solo nel II° secolo appaiono le intestazioni “Kat£
M¥rkon”
“Kat£
Maqqaion”,
ecc.
Le testimonianze antiche
La
testimonianza sul secondo vangelo ci viene tramandata da Eusebio
di Cesarea (265-340) nella sua “Storia Ecclesiastica” : “Papia,
vescovo di Gerapoli, (ndr. tra il 150 e il 200) afferma
che Marco fu l’interprete di Pietro, scrisse con
esattezza, ma non secondo l’ordine dei fatti, tutto quello che
ricordava delle parole e degli atti del Signore. Egli, a dire il
vero, non ascoltò il Signore e non fu suo discepolo,
ma, come ho detto, fu, poi, discepolo di Pietro,
il quale impartiva i suoi insegnamenti secondo le esigenze, ma
non presentava in modo sistematico le parole del Signore; così
che non si possono imputare a Marco i possibili errori per
averle messe in iscritto così come le ricordava. Egli si
preoccupò soprattutto di non omettere nulla di quello che aveva
udito e di non commettere inesattezze.” (Eusebio, St. Eccl.,
3,39,15)
A
questa testimonianza di Papia, riportata da Eusebio, si
aggiungono altre testimonianze di Ireneo, di Tertulliano, di
Clemente di Alessandria, di Origene: tutte concordano nel legare
il vangelo di Marco alla predicazione di Pietro.
Su
questa testimonianza di Papia gli studiosi sono discordi.
Pareri favorevoli a Papia
Numerosi autori ritengono la testimonianza di Papia storicamente
valida e accettabile per questi motivi:
-
Altri autori
contemporanei di Papia ne parlano;
-
Nel vangelo
di Marco la figura di Pietro è rilevante;
-
Qualcuno,
inoltre, identifica Marco con quel “Giovanni, detto anche
Marco” (At.12,12), presso la cui casa si riuniva la prima
comunità cristiana; mettendo, in tal modo, in correlazione tra
loro la figura di Pietro con quella di Giovanni Marco.
-
In 1Pt. 5,13
Pietro cita Marco quale suo figlio.
-
Marco,
originario di Gerusalemme, compare negli Atti e in Colossesi,
prima discepolo di Paolo, poi, successivamente al litigio con
Paolo, discepolo di Pietro
Pareri sfavorevoli a Papia
La
critica sfavorevole alla testimonianza di Papia ritiene che
tutte le altre testimonianze contemporanee di Papia, in realtà,
non siano autonome, bensì dipendano da questa e la ripetano.
Inoltre non è da trascurare che la testimonianza di Papia non è
diretta, ma viene mutuata da “quel presbitero che era solito
dire…”, riferendosi al presbitero Giovanni di Efeso.
Sulla testimonianza di Papia, inoltre, si nutrono dei dubbi
perché la si ritiene apologetica. Infatti, la testimonianza di
Papia si sviluppa nel II° secolo, periodo questo in cui
incominciano a definirsi i primi testi cristiani del Nuovo
Testamento. Uno dei criteri è l’apostolicità dello scritto, cioè
l’aggancio dello scritto alla figura di uno o più apostoli.
I
testi, dunque, sono soggetti a critica e raffrontati con
l’incipiente canone. Ora, il vangelo di Marco, con il suo
linguaggio semplice, scarno, apparentemente disordinato e non
sempre ben chiaro nel suo esprimersi, faceva sorgere delle
perplessità in particolar modo se raffrontato con il più evoluto
e sciolto vangelo di Matteo o di Luca.
Ecco, dunque, che Papia dà valore al vangelo di Marco, facendolo
dipendere dalla predicazione di Pietro; e quanto al suo modo
disordinato di esporre e ad eventuali errori, questi sono fatti
dipendere non tanto da Marco che ha riportato fedelmente la
predicazione di Pietro, quanto a Pietro stesso che, invece,
predicava liberamente senza schemi predefiniti e
occasionalmente.
Valutazione dall’interno
Definire e comprendere Marco partendo dall’esterno del suo
vangelo diventa più laborioso e problematico. Più agevole,
invece, è il partire dall’interno da cui si possono trarre delle
indicazioni sull’autore, sulla destinazione del vangelo e sulla
comunità.
Infatti, se guardiamo le sue conoscenze geografiche, notiamo
come Marco non conosca bene la Galilea, mentre è più preciso
quando parla di Gerusalemme. Ciò fa supporre che egli sia di
Gerusalemme o, comunque, vi abbia soggiornato a lungo.
Un vangelo scritto a Roma nel 70 ?
Quando scrive il vangelo Marco non è più in Palestina, né scrive
per una comunità giudeo-cristiana. Infatti, la lingua da lui
usata è il greco della
koinš,
benché conosca anche l’aramaico, avendo tradotto le numerose
citazioni ricevute dalle sue tradizioni. È, quindi, un autore
bilingue che, benché non sia cresciuto nella diaspora, tuttavia
vi abita da tempo e lo è ancora al momento in cui compone la sua
opera.
Molto probabilmente il libro è stato scritto a Roma, come
comunemente si pensa, dopo la morte di Pietro, secondo Ireneo;
mentre per Clemente di Alessandria il vangelo fu scritto Pietro
vivente.
L’origine romana del libro, dopo la persecuzione di Nerone nel
luglio del 64, è ammessa dalla maggior parte degli studiosi per
i seguenti motivi:
- Al
cap. 12,42 Marco interpreta una moneta con riferimento
al sistema monetario romano: “Ma venuta una povera
vedova vi getto due spiccioli, cioè un quattrino”;
- C’è
la presenza di alcune parole latine grecizzate e varie
costruzioni latine;
- Il
successo del vangelo di Marco presuppone alle spalle una
comunità molto importante e influente come quella di
Roma.
Per
quanto riguarda la datazione vi sono due interpretazioni:
- Secondo
alcuni il cap. 13,2 conterrebbe un’allusione alla
distruzione del Tempio: “Vedi
queste grandi costruzioni? Non rimarrà qui pietra su
pietra che non sia distrutta”
e pertanto, la datazione va posta poco dopo il 70.
- Per
altri, invece, in ciò non vi è alcun riferimento al
Tempio, in quanto che il linguaggio usato da Marco
dipenderebbe da Daniele.
Inoltre, il
versetto 13,18 (“Pregate che
ciò non accada d’inverno”)
lascia intendere che Marco non
conosce ancora
quando questi fatti accadranno. Infine, i vv. 13,2 e
13,18 sono vaghi e imprecisi, come di uno che li prevede
da vicino. Pertanto, la datazione viene posta poco
prima del 70.
Destinatari del vangelo di Marco
Una comunità mista
Anche per questo aspetto si possono solo fare delle ipotesi
partendo dall’interno del vangelo, in quanto non abbiamo appunti
esterni che ci diano indicazioni nel merito.
La
comunità a cui Mc si rivolge sembra essere mista, cioè composta
di Giudeo-cristiani e etnico-cristiani. Questo è arguibile dal
fatto che l’autore si preoccupa di spiegare gli usi ebraici (Mc.
7,3-4; 14,12; 15,42), di tradurre le parole aramaiche, di
sottolineare il valore del vangelo per i pagani (Mc. 7,27;
10,12; 11,17; 13,10; 14,9).
Ciò
fanno pensare, quindi, che il vangelo fosse rivolto ad una
comunità di non-Ebrei, fuori dalla Palestina
Tuttavia, la presenza di giudeo-cristiani si rileva dalla
particolare sottolineatura sulla questione del “puro e impuro”
(7,15ss) e la comunione di mensa tra pagani ed ebrei instaurata
da Gesù (8,15), la questione del digiuno (8,19) e
dell’osservanza del sabato (2,23 e 3,1ss).
È
questa, dunque, una comunità composta appartenente alla seconda
generazione di cristiani e che ha già aderito da tempo alla fede
e a cui Marco si rivolge non solo per consolidarla nella fede,
ma per illustrare loro lo specifico cristiano e spingerli alla
sequela.
Una comunità che vive tempi difficili
La
situazione della comunità a cui Marco si rivolge è quasi
certamente molto difficile. Si profilano, se già non ci sono,
persecuzioni, divisioni in famiglia per essere passati al
cristianesimo, prospettive di martirio e di guerra imminente o
già incipiente.
Una
situazione, dunque, di estrema difficoltà in cui la propria vita
quotidiana è messa in decisamente in discussione.
Questo stato di cose è individuabile in tre situazioni
concomitanti:
- La
persecuzione dei cristiani a Roma nel luglio del 64 da parte di
Nerone e a cui si allude, probabilmente, al 13,13 : “Voi
sarete odiati da tutti a causa del mio nome”
- La
guerra giudaica, scoppiata nel 63 e terminata con la distruzione
della fortezza di Masada nel 73, e che ha portato nel 70 alla
distruzione di Gerusalemme e a cui si allude in tutto il
capitolo 13.
Durante tale guerra vi
furono sollevazioni contro i giudei anche fuori dalla Palestina
e in cui vi furono coinvolti anche i cristiani, che all’epoca
erano ancora ritenuti una variante del giudaismo.
- La
conversione al cristianesimo comportava, talvolta, delle
spaccature all’interno della famiglia. Si creavano, quindi,
delle situazioni estremamente difficili di convivenza familiare
e a cui si allude, probabilmente, al 13,12 : “Il fratello
consegnerà a morte il fratello, il padre il figlio e i figli
insorgeranno contro i genitori e li metteranno a morte”.
Proprio a questi ultimi
Marco sottopone la situazione di conflittualità familiare che
Gesù ha dovuto subire e a cui si accenna al 3,20: “Allora, i
suoi uscirono per andarlo a prendere, perché dicevano: è fuori
di testa”; una conflittualità estesa anche ai suoi
compaesani e alle autorità romane e giudaiche.
In questa situazione c’è
anche chi tenta di salvarsi rinnegando la propria fede. Questi
Marco li mette in guardia dalle conseguenze: 4,19; 8,34-35.38 .-
Una comunità in attesa della Parusia
Legata alla persecuzione di Nerone (64) e alla guerra giudaica
(66-73), si sviluppa l’attesa apocalittica della Parusia.
Molte sono le dicerie che con questa guerra si sarebbe
realizzata la fine dei tempi e il ritorno del Signore.
Molte erano le figure di predicatori degli ultimi tempi e di
sedicenti messia che alimentavano tale clima di fine.
Marco mette in guardia dal non lasciarsi coinvolgere con facile
creduloneria (13,21). Infatti afferma che con questa guerra non
è ancora la fine (13,7), ma solo l’inizio dei dolori (13,8) e
che occorre, pertanto, perseverare fino alla fine (13,13). La
guerra giudaica, quindi, indica solo che la fine è vicina (13,28
ss); e che tale sia il clima di attesa, lo si arguisce anche dai
riferimenti che Marco vi fa, dandola per scontato e certa (9,1;
13,29 ss; 14,25.62).
La struttura del Vangelo
Tutto il Vangelo di Marco sembra ruotare attorno al
mistero messianico che avvolge l’intera figura di Gesù e
che si esprime nei titoli di Cristo e di
Figlio di Dio.
Due
titoli che disegnano, idealmente, due diversi e simili percorsi
lungo i quali si snoda un cammino di maturazione spirituale, che
si concluderà con il riconoscimento e la proclamazione della
vera natura di Gesù sia da parte degli ebrei (confessione di
Pietro) sia da parte dei pagani (confessione del
centurione).
Due
percorsi che già vengono preannunciati fin dall’inizio del
Vangelo : “Inizio del vangelo di Gesù Cristo,
Figlio di Dio” (Mc.1,1).
Il
primo percorso termina con la proclamazione di Pietro: “Tu
sei il Cristo” (Mc. 8,29); il secondo, invece, con il
riconoscimento e la confessione del centurione: “Veramente
quest’uomo era Figlio di Dio” (Mc. 14,39). In queste due
proclamazioni è l’intera umanità, giudaica e pagana, che si
inginocchia davanti alla figura di Gesù, riconosciuto quale
Messia e Dio.
Analisi della prima tappa (1,1 – 8,30)
La
prima tappa è caratterizzata dal titolo messianico “Cristo”,
che appare all’inizio (Mc. 1,1) e alla fine (8,29). Nel mezzo
sono disseminati vari interrogativi che si snodano attorno alla
persona di Gesù, quasi a creare un clima di suspense e
stimolare, quindi, l’attenzione del lettore: “Chi è mai
costui?” ecc.
Questa tappa è suddivisa in tre sezioni cosi costituite:
-
Prima Sez.: A) Sommario sulla
proclamazione del vangelo da parte di Gesù (Mc. 1,14-15)
B) Chiamata dei primi quattro discepoli (1,16-20)
C) Farisei ed erodiani tramano la morte di Gesù (Mc. 3,6)
-
Seconda Sez. A) Sommario
dell’attività taumaturgica ed esorcistica di Gesù (Mc. 3,7-12)
B) Costituzione del gruppo dei dodici (Mc. 3,13-19)
C) Compaesani di Gesù non credono in lui (Mc. 6,1-6/a)
-
Terza Sezione: A) Sommario
dell’insegnamento itinerante di Gesù (Mc. 6,6b)
B) Invio in missione dei dodici (Mc. 6,7-13)
C) I discepoli non comprendono Gesù (Mc. 8,14-21)
Come si può rilevare ogni sezione della prima tappa è
caratterizzata dal ripetersi di un unico schema:
-
Sommari sull’attività di Gesù:
Proclamazione, miracoli ed esorcismi, insegnamenti;
-
Discepolato:
Chiamata, costituzione del gruppo e invio in missione;
-
Progressiva e generale incomprensione di Gesù:
Farisei, compaesani e discepoli.
Questo schema ripetitivo sembra voler dire che l’annuncio di
Gesù provoca nei suoi ascoltatori da un lato un’adesione fino
alla sequela (discepolato) e dall’altro una progressiva
incomprensione della sua figura e del suo messaggio fino a
raggiungere i suoi più intimi (farisei, compaesani, discepoli).
La
prima tappa si chiude con la terza sezione in cui i discepoli
non comprendono (8,14-21). È un forte richiamo fatto ai
discepoli per la loro difficoltà a comprendere Gesù. Li
sollecita dal guardarsi dal “lievito dei farisei e dal
lievito di Erode “, cioè l’incredulità che accomuna i
farisei ad Erode.
Il
tema di questa pericope, pertanto, è l’incredulità e la
difficoltà di capire che hanno i discepoli.
Ed
ecco che Marco introduce subito la guarigione del cieco di
Betsaida (8,22-26) che, da un lato, rappresenta la cecità dei
discepoli; e dall’altro, preannuncia ed è in parallelo alla
confessione di Pietro (8, 27-30), che costituisce il vertice e
la chiusura di questa prima tappa.
Essa, pertanto, non è reale, ma simbolica e indica la cecità e
l’apertura di fede a Gesù.
Analisi della prima sezione
Mc. 1, 14 – 3,6
Dopo l’intestazione del v.1 (“Vangelo di Gesù Cristo Figlio
di Dio”), Marco apre il vangelo con un trittico concernente
l’attività del Battista, il Battesimo di Gesù e le Tentazioni in
cui si presentano le tematiche cristologiche più importanti:
Gesù, nell’ambito di una cornice teofanica, è presentato come il
Messia, investito dallo Spirito Santo e riconosciuto da Dio come
suo Figlio.
Marco presenta qui la carta di identità di Gesù, per cui quanto
Gesù farà da questo momento in poi sarà qualificato come azione
potente di Dio in mezzo agli uomini.
Dopo questo prologo (1,1-13) Marco introduce il v. 14 con
l’arresto del Battista per creare uno stacco netto tra il tempo
dell’AT, di cui Giovanni era l’ultimo esponente, e l’attività di
Gesù che caratterizza, invece, il NT.
Qui
Marco inserisce il suo primo sommario (1,14-15) in cui
presenta l’attività di Gesù in Galilea che assume in Marco una
valenza teologica particolare. Infatti, in Galilea si pone
l’inizio dell’attività del Gesù storico ed è il luogo dove egli
apparirà dopo la sua risurrezione, ricompattando il gruppo dei
suoi discepoli. Essa, quindi, per Marco diventa il centro di
diffusione del cristianesimo e della continuità storica della
missione di Gesù.
Questi sommari, in genere, stanno ad indicare l’inizio o la fine
di sezioni.
1,16-20 Chiamata dei primi quattro discepoli:
Vedi commento pagg. 20-22
1,21-34 Un sabato a Cafarnao:
costituisce una sottosezione caratteristica per descrivere una
giornata tipo del ministero di Gesù che si esplicitava nell’insegnamento
(“entrato proprio di sabato nella sinagoga, Gesù si mise ad
insegnare”), nell’attività esorcistica (“Allora un
uomo che era nella sinagoga, posseduto da uno spirito immondo,
si mise a gridare”), taumaturgica (suocera di
Pietro) e preghiera (“Al mattino si alzò quando
ancore era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto
a pregare”)
I
vv. 1,32-34 costituiscono un sommario di guarigioni ed esorcismi
che chiudono ed evidenziano, una volta di più, la giornata tipo
di Gesù.
1,39 la Galilea: “E
andò per tutta la Galilea predicando nelle loro sinagoghe e
scacciando i demoni”. È una frase tipo che costituisce con
il v. 1,14, altra frase tipo, (“Si recò nella Galilea
predicando il Vangelo di Dio”) una inclusione che
ricomprende diverse pericopi. Questa inclusione è caratterizzata
dalla predicazione di Gesù nella Galilea, che è il luogo
dell’annuncio per eccellenza e quello in cui Gesù radunerà i
suoi discepoli dopo la risurrezione. La Galilea, infine,
costituisce il luogo di inizio e della fine dell’opera di Gesù.
Da qui i discepoli partiranno per diffondere il Vangelo e
riprendere, in tal modo, la missione di Gesù.
1,40-45 Guarigione del lebbroso:
questo miracolo funge da transizione alla
successiva sequenza delle cinque controversie. La guarigione del
lebbroso come gli esorcismi sono segni dei tempi messianici:
l’annuncio e la testimonianza della presenza del Regno di Dio in
mezzo agli uomini. La guarigione dalla lebbra, considerata un
castigo di Dio e paragonata alla morte, è equiparata ad una
risurrezione. Il tocco di Gesù accompagnato dalla sua parola,
gesti che preludono ai sacramenti ed esprimono la presenza della
potenza di Dio in mezzo agli uomini, infondono una nuova vita al
lebbroso che si trasforma subito in un missionario e
annunciatore del Regno. Significativo, infatti, è il verbo greco
usato da Marco
khrÚssein
che sta ad indicare l’annuncio proprio dell’araldo e che
caratterizza il kerigma apostolico. Ciò sta ad indicare che chi
incontra Gesù ed è da lui guarito diventa missionario e
testimone anche se non in forma ufficiale. È, quindi, un
cripto-missionario che fa da eco alla predicazione di Gesù.
2,1-3,6 Le cinque dispute
A)
2, 1-12
Guarigione del paralitico
B)
2, 16-17 Gesù a mensa con
i peccatori
C)
2,
18-22 Disputa sul digiuno Gesù si dichiara “sposo”
titolo riservato a Dio
D)
2,
23-28 Disputa sul sabato (strappo
delle spighe)
E)
3, 1 –5
Disputa sul sabato (mano
inaridita)
La
prima e l’ultima disputa includono due miracoli, mentre le altre
tre centrali sono tra loro omogenee.
Esse sono strutturate in modo concentrico: le prime due
riguardano l’offerta di perdono ai peccatori. Qui Gesù mostra
non solo il suo potere di rimettere i peccati,
facendosi pari a Dio, ma si siede a mensa anche con i peccatori,
quasi in una sorta di banchetto escatologico a cui anche loro
sono chiamati. In altri termini Gesù annuncia che non c’è più
condanna per nessuno, ma a tutti viene offerta la salvezza di
Dio.
Le
ultime due riguardano la questione del sabato che
Gesù dichiara essere fatto per l’uomo e che Lui è anche
signore anche del sabato mostrando un’autorità che si
esprime nella sua superiorità alle prescrizioni della Legge
mosaica.
La
disputa centrale rappresenta il punto focale di
tutta la sezione: Gesù si attribuisce un titolo, quello di
sposo, che nell’AT era riferito a Jhwh, identificandosi con
Dio stesso.
Il
significato delle cinque controversie è cristologico e punta a
sottolineare il potere di Gesù al quale vengono attribuiti
privilegi propri di Dio, tanto da prenderne il posto: perdono
dei peccati e superiorità sulla Torah. E sarà proprio questa
presunta autorità di Gesù, recepita come bestemmia (si fa
pari a Dio), che porterà i farisei e gli erodiani a
complottare contro Gesù per farlo perire (3,6).
Queste dispute costituiscono per la primitiva comunità cristiana
una sorta di piccola carta delle libertà nei confronti del
giudaismo. Infatti, da un lato, rivendicano il potere
soprannaturale di Gesù e la legittimità della prassi
sacramentale della chiesa che rimetteva i peccati nel suo nome;
dall’altro, rispondono a delle questioni sorte all’interno della
chiesa primitiva, in cui convivevano giudeocristiani e
etnocristiani. Le questioni principali consistevano
nell’esclusione della commensalità con i gentili; nell’obbligo
del digiuno e nella segregazione dai peccatori. Questioni queste
che creavano divisioni e controversie nella chiesa primitiva.
Analisi della seconda sezione
Mc. 3,7 – 6,6/a
Con
questa seconda sezione si apre un nuovo scenario: Gesù si ritira
in riva al mare con i suoi discepoli ed è attorniato da una
grande folla che proviene dalla Galilea e da ogni altra parte
della Palestina. In questo elenco di regioni appare centrale la
Galilea, da cui si irradia la missione di Gesù. Il fatto che
l’attività di Gesù sia stata parzialmente posta al di là del
Giordano, attorno a Tiro e Sidone, rileva l’interesse
missionario di Marco. Tutto ciò per dire che il ministero di
Gesù, partito dalla Galilea, si protende verso tutto il mondo.
Nell’ambito di questo nuovo scenario Marco
inserisce il secondo sommario (3,7-12) dell’attività
taumaturgica di Gesù, guarigioni ed esorcismi. In particolar
modo gli indemoniati riconoscevano Gesù come “Figlio
di Dio”. Ciò serve a Marco per
anticipare qui un tema che tratterà nella seconda parte del suo
Vangelo (8,31-15,39).
In
3,13-19 Marco presenta la costituzione del gruppo dei
12. Si tratta di un episodio di capitale importanza per la
fondazione della chiesa che, nel numero di dodici apostoli,
viene opposta al vecchio Israele, fondato sui dodici figli di
Giacobbe e dichiarata, in tal modo, nuovo Israele escatologico,
aperto all’intera umanità.
Dal
v. 3,20 al 5,43 si apre una sottosezione con due
strutture a sandwich, tra cui si inseriscono il lungo cap.
4,1-34 e il cap. 5,1-20 :
- la prima 3,20-35:
a) I parenti di Gesù lo ritengono “fuori di testa”
(3,20-21)
b) Intermezzo degli
scribi che lo ritengono “posseduto da
Beelzebul“ (3,22-30)
c) Ripresa dei parenti di Gesù che
“stanno di fuori”
(3,31-35) e definizione della nuova
famiglia di Gesù, che sono quelli che “gli stavano seduti attorno”
A partire da questo passo Gesù incomincia a
creare una discriminazione tra quelli che
“stanno di fuori” e
quelli che, invece, “gli stanno
intorno”. Una discriminazione che si
attuerà, poi, in 4,1-34 attraverso le parabole che diventano,
così, uno strumento di separazione.
-
la seconda 5,21-43:
a) La figlia di Giairo: supplica a Gesù perché salvi sua
figlia (5,21-24)
b)
Racconto dell’emoroissa (5,25-34)
c)
Ripresa della figlia di Giairo: Gesù esaudisce Giairo (5,35-43)
Il
duplice racconto, preceduto dalla tempesta sedata e
dall’indemoniato di Cerasa, sottolinea la potenza di Gesù che si
esprime in vari modi: sulle forze della natura, sul demonio e
infine sulle malattie e la morte stessa.
I
due racconti, tra loro intrecciati, non sono tra loro estranei:
12 anni ha la fanciulla e 12 anni sono il tempo della malattia
dell’emoroissa, che si intromette sul cammino di Gesù verso la
fanciulla, creando in tal modo una forte tensione, data la
gravità in cui versa la fanciulla, che morirà prima dell’arrivo
di Gesù. Ciò serve, tuttavia, per dar maggior rilievo
all’intervento di Gesù stesso.
Entrambi gli episodi, comunque, hanno in comune la fede
incondizionata e persistente nell’opera di Gesù.
Come sopra accennato, tra queste due forme letterarie a sandwich
(3,20-35 e 5,21-43) si inserisce tutto il capitolo 4, 1-41 e i
primi 20 versetti del cap. 5.
4, 1-34 Discorso in parabole:
per il commento vedi da pag. 24 a pag. 34
4,35-41 Tempesta sedata:
la sera stessa Gesù, senza lasciare la barca sulla quale aveva
pronunciato il discorso delle parabole, si dirige sull’altra
sponda del lago.
Si crea, così, una continuità tra l’annuncio
della sua parola e il gruppo di quattro miracoli qui presentati
che, se da un lato sembrano confermare l’origine divina del suo
insegnamento, dall’altro,evidenziano come Parola e azione in
Gesù sono sempre intimamente connessi; ed ecco, quindi,
la
tempesta sedata, l’indemoniato di Gerasa, la
figlia di Giairo ed l’emoroissa.
L’attraversata avviene sul calar della sera, quando le tenebre
stanno per avvolgere ogni cosa, rievocando, in tal modo, il caos
primitivo, prima della creazione del mondo e l’azione
riordinatrice dello Spirito di Dio che aleggiava sulle acque,
manifestata, qui, in Gesù.
Il linguaggio qui usato è tipicamente
esorcistico: “Gesù sgridò il vento e
disse al mare:<<Taci, calmati>>. E
proprio di esorcismo sembra trattarsi: infatti, le acque
tumultuose sono sempre segno del male e del caos che minacciano
l’uomo. Gesù con il suo intervento rimette ordine e con la sua
potenza domina le forze del male.
Questo racconto, di natura esorcistica, viene strettamente
legato all’esorcismo successivo, quasi a creare un’unica azione
esorcistica: sulla natura, prima, e sull’uomo, poi, per dire che
il male, comunque si presenti, è sempre sovrastato dalla potenza
divina.
L’elemento di congiunzione tra la tempesta e
l’indemoniato sta proprio nelle parole “Come
scese dalla barca, gli venne incontro dai sepolcri un uomo
posseduto”.
Il
tema dominante, comunque, in questo gruppetto di miracoli è la
fede che viene a mancare nei discepoli, durante la tempesta; per
questo Gesù li rimprovera, quasi a dire che per vincere il male,
comunque si presenti, serve sempre la fede, questo atteggiamento
di apertura e di fiducia piena in Dio.
È
interessante, infine, rilevare come Marco al venir meno della
fede nei discepoli faccia seguire due esempi minori di fede:
quella di Giairo e della emoroissa in cui, invece, la fede viene
esaltata.
5,1-20 L’indemoniato di Gerasa:
durante la traversata Gesù aveva dominato le forze del male,
espresse nelle acque tumultuose del lago; ora, entrato in
territorio della Decapoli, Gesù inizia un’azione di
purificazione di questo territorio pagano. Infatti, il
territorio pagano, i sepolcri, la mandria di porci sono elementi
che nel linguaggio biblico esprimono la lontananza da Dio (V.
la parabola del figliol prodigo).
L’indemoniato, quindi, simboleggiava la situazione dei pagani,
schiavi del peccato e di Satana, mentre la sua liberazione e la
distruzione della mandria di porci indica l’azione potente e
purificatrice di Dio sull’uomo che incontra Gesù.
Gesù, tuttavia, non può rimanere a lungo in questo territorio
perché gli abitanti lo invitano ad andarsene: il loro
attaccamento ai beni non li rende ancora disponibili ad
accogliere il messaggio di salvezza portato da Gesù.
Come per il lebbroso guarito (1,40-45) che si fa
annunciatore e missionario della potenza di Dio in mezzo agli
uomini, così anche per questo indemoniato liberato, che voleva
farsi seguace di Gesù, si prospetta una missionarietà e una
testimonianza della potenza liberatrice di Dio in mezzo agli
uomini e a cui ogni uomo convertito è chiamato a dare: “<<Va
nella tua casa, dai tuoi, annuncia loro ciò che il Signore ti ha
fatto e la misericordia che ti ha usato>>. Egli se ne andò e si
mise a proclamare per la Decapoli ciò che Gesù gli aveva fatto”.
Diventa, quindi, un vero annunciatore del Regno direttamente
incaricato da Gesù a compiere tale missione in mezzo ai pagani.
6,1-6/a I compaesani di Gesù non credono in lui:
L’episodio conclude la seconda sezione e trova, quasi in un
continuo crescendo, una graduale sfiducia in Gesù. Nella prima
sezione c’erano i farisei che tramavano per farlo perire; qui ci
sono i compaesani di Gesù che lo rigettano e, infine, nella
terza sezione, saranno i suoi stessi discepoli che dubiteranno
di lui.
Lentamente Marco prepara il cammino di Gesù che lo porterà alla
croce.
Analisi della terza sezione
Mc. 6,6b – 8,21
“Gesù percorreva i villaggi insegnando”
(6,6b). Con questo brevissimo terzo sommario
inizia la terza sezione.
6,7-13 Invio dei Dodici:
la chiamata dei primi quattro discepoli (I Sez.), sfociata, poi,
nella costituzione del gruppo dei Dodici (II Sez.), si completa
ora con l’invio degli stessi. Questo invio costituisce quasi un
prolungamento della stessa attività missionaria di Gesù. In tal
modo i Dodici vengono qualificati come gli eredi naturali di
Gesù e costituiranno l’anello di congiunzione tra Gesù e la
Chiesa.
Interessante rilevare l’invio a coppie non solo per un reciproco
aiuto lungo il cammino, ma soprattutto per conferire alla
predicazione evangelica un carattere testimoniale, quale
messaggio escatologico. Infatti, secondo la Legge mosaica erano
necessari due testimoni per la validità della testimonianza.
6,14-16 Opinione della gente di Erode su Gesù:
tra l’invio e il ritorno degli apostoli è certamente passato un
certo tempo. Questo inserto redazionale, posto tra l’invio e il
ritorno, serve proprio per staccare i due momenti, da un lato,
e riempire il tempo della missione degli apostoli, dall’altro.
Durante questo tempo la figura di Gesù scompare dalla scena,
mentre vengono messe in rilievo le opinioni della gente e di
Erode su Gesù, nonché il martirio di Giovanni, con il quale si
sgombra definitivamente il campo a favore di Gesù. Ora, solo lui
è l’attore con cui hanno inizio i tempi nuovi.
In
questi versetti si rincorrono le opinioni sulla identità di
Gesù: lo si pensava il Battista redivivo o Elia. Infatti, era
opinione diffusa nel giudaismo che il profeta escatologico
sarebbe stato ucciso, ma Dio lo avrebbe risorto; così come si
attendeva il ritorno di Elia che avrebbe segnato la fine dei
tempi.
Erode fa sua la prima opinione e a Marco ciò serve per
introdurre la pericope della morte di Giovanni.
Questi versetti 6,14-16 con 8,27-30, entrambi parlano
dell’identità di Gesù, formano tra loro una inclusione che
delimitano questa intera terza sezione.
6,17-29 Morte di Giovanni Battista:
Marco aveva già accennato in 1,14 alla prigionia di Giovanni,
ora ne racconta la morte. Da Giuseppe Flavio sappiamo che essa
avvenne nella fortezza erodiana di Macheronte.
L’inserimento di questo racconto drammatico in questo contesto
ha lo scopo di prefigurare la morte di Gesù. Infatti, Giovanni
nel suo ruolo di precursore preparò la strada al Messia non solo
con la predicazione, ma anche con la vita. Le due vite di
Giovanni e di Gesù sono tra loro parallele: l’una preannuncia
l’altra e la testimonia.
La
testimonianza finale sulla sepoltura di Giovanni rende dignitosa
una morte tanto crudele, ammorbidendo la crudezza del racconto,
così come lo sarà, del resto, per Gesù.
6,30-32 Rientro dei Dodici dalla missione:
è questo l’unico caso in cui Marco chiama i Dodici con
l’appellativo di apostoli, forse per rimarcare la loro
natura di missionari, cioè di inviati. Essi al loro rientro “si
riunirono attorno a Gesù” che continua ad essere il centro e
il punto di riferimento dei suoi discepoli. Infatti, solo
attorno a lui il gruppo si ricostituisce a acquista la sua vera
identità: essere il suo prolungamento in mezzo alle genti.
Sezione dei pani: 6,33 - 8,26
Questa sezione è strutturata intorno a due moltiplicazioni di
pani tra loro parallele. La prima è rivolta ad Israele: le 12
ceste avanzate alludono chiaramente alle 12 tribù. La seconda si
riferisce ai pagani: le 7 ceste avanzate alludono alle settanta
nazioni dei gentili che compongono la terra abitata. Questo per
significare come la missione di Gesù e della Chiesa è aperta a
tutte le genti e tutte sono chiamate attorno all’unico banchetto
escatologico.
Il
termine pane, che ricorre 15 volte in questa sezione, serve da
filo conduttore a tutta la sezione e allude all’eucaristia,
quale banchetto attorno a cui tutti i popoli sono chiamati.
Infatti in entrambi i racconti, uno rivolto ad Israele a l’altro
ai gentili, Gesù “levò gli occhi al cielo, pronunziò la
benedizione, spezzò i pani e li dette ai discepoli perché li
distribuissero” (6,41 e 8,6). Il fatto che Gesù li dia ai
discepoli da distribuire allude come questi siano, ormai, il
tramite tra Gesù e le genti.
Quanto a Gesù, egli appare sullo sfondo di questa sezione come
il maestro e il pastore escatologico del nuovo popolo, che Dio
raccoglie e guida con premura.
6,33-44 Prima moltiplicazione dei pani:
l’insieme del racconto assume un carattere spiccatamente
messianico in cui Gesù appare come il pastore escatologico, che
sfama il popolo messianico con un pane prodigioso, e il maestro
da cui traspare la misericordia di Dio per il suo popolo,
rappresentato qui dalle cinquemila persone provenienti “da
tutte le città” : “Si commosse per loro perché
erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare
loro molte cose”.
Pur
non condiviso da tutti, tuttavia alcuni vedono in questo brano
un forte richiamo all’eucaristia sia per riferimento al pane che
alle parole proprie dell’ultima cena riportate al v. 6,41: “Presi
i cinque pani … levò gli occhi al cielo, pronunziò la
benedizione, spezzò i pani e li dette ai discepoli perché li
distribuissero”.
Le
dodici ceste di avanzi richiamano chiaramente le dodici tribù
d’Israele.
6,45-52 Gesù cammina sulle acque:
Il racconto è chiaramente epifanico e si scontra con la poca
fede dei discepoli. Infatti, la presenza della “sera” le
cui tenebre avvolgono i discepoli raccolti nella stessa “barca”
e “affaticati nel remare” nonché l’incapacità di
riconoscere Gesù che veniva verso di loro “è un fantasma”,
sono tutti elementi che denotano la difficoltà dei discepoli di
comprendere la vera natura di Gesù.
Gesù compie due gesti che rivelano la sua natura: “cammina
sul mare” e rivolto ai discepoli dice “Sono io”.
Nell’AT solo Dio cammina sul mare, mentre quel “Sono io”
richiama molto il nome di Jhwh. È chiaramente, dunque, quello
che Gesù compie qui una manifestazione della sua natura, ma
nonostante ciò i discepoli “dentro di loro si stupivano”
perché,afferma Marco, “non avevano capito il fatto dei pani,
essendo il loro cuore indurito” in cui Gesù si mostrava il
Messia di Israele e dei gentili. Infine, lo stupore, oltre ad
esprimere la loro difficoltà a comprendere, è un elemento che
esprime la reazione umana ad una teofania.
6,53-56 Guarigioni a Genesaret:
questo è un sommario che raccoglie l’attività
taumaturgica di Gesù e mostra una folla di persone ammalate che
accorrono a lui per essere guarite. Come nel v.34 Gesù “si
commosse per loro perché erano come pecore senza pastore”,
così riappare qui il Gesù buon pastore che accoglie le pecore
disperse di Israele, con un atteggiamento di misericordia verso
i malati. È la misericordia di Dio per un’umanità smarrita e
corrotta dal peccato.
7,1-23 La tradizione degli antichi:
Il cap. 7 costituisce un’ampia parentesi posta tra la prima e la
seconda moltiplicazione dei pani: la prima rivolta ad Israele,
la seconda ai pagani. Questa parentesi, pertanto, diventa
preparatoria alla seconda moltiplicazione dei pani in cui si
allude al banchetto escatologico e messianico aperto anche a
loro. Marco, quindi, prima di arrivare a queste conclusioni deve
preparare il lettore ad un graduale avvicinamento ai pagani,
togliendo ogni inciampo posto dalla dottrina giudaica.
Infatti, la severità della Legge circa il puro e l’impuro ,
accentuata da una rigorosa interpretazione delle scuole
rabbiniche, costituiva un notevole inciampo alla diffusione del
Vangelo tra i pagani. Pertanto, Marco prima di descrivere il
viaggio di Gesù verso il territorio dei pagani, dove avverrà la
seconda moltiplicazione dei pani, cerca di togliere ogni
barriera e impedimento legalistico.
La
pericope si divide in tre parti:
-
La prima, le
esigenze del comandamento di Dio violato dalla tradizione umana
(7,1-13)
-
La seconda,
l’abolizione della legge sulla purità dei cibi (7,14-15)
-
La terza,
spiegazione a parte ai discepoli sul significato della parabola
(7,17-23)
Le
tre parti sono individuabili dal cambiamento degli interlocutori
posti all’inizio di ogni parte: nella prima parte ci sono gli
scribi e farisei (7,1) a cui Gesù rimprovera di annullare il
comandamento di Dio con la loro tradizione (=interpretazioni
rabbiniche); nella seconda c’è la folla (7,14) a cui
Gesù si rivolge con un paragone (mastral) che afferma che
non è il cibo che entra nell’uomo a contaminarlo, ma ciò che
esce da lui; nella terza parte ci sono i discepoli (7,17)
a cui, a parte, nella logica della separazione tra “quelli
di fuori” e “quelli che sono intorno a lui” (4,11),
Gesù spiega la breve parabola, facendola precedere da un
rimprovero che sottolinea la loro incapacità di comprendere, del
resto già evidenziata nella sezione della prima moltiplicazione
dei pani e nella tempesta sedata. Con questa pericope sul puro e
l’impuro Gesù non interpreta la Legge, ma semplicemente la
toglie di mezzo, aprendo, in tal modo, la strada anche ai
pagani.
7,24-30 La donna cananea:
dopo la disputa sul puro e l’impuro con cui si abolisce ogni
barriera nei confronti dei pagani, Gesù ora entra decisamente
nel territorio dei pagani, prima a Tiro e poi nella Decapoli.
Ora egli svolge la sua missione in territorio pagano e rivolto
ai pagani, quasi a preludere la missione universale della
chiesa.
Il
centro di questo racconto più che l’esorcismo compiuto a
distanza è il dialogo tra Gesù e la donna. Che il vangelo della
salvezza fosse destinato primariamente ad Israele era cosa nota,
lo ricorda anche Paolo nella lettera ai Romani 1,16: ”Io non
mi vergogno del vangelo perché è potenza di Dio per la salvezza
di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco”; in tal
senso vanno lette le parole di Gesù rivolte alla cananea.
L’episodio in sé vuole sottolineare l’estensione della salvezza
anche ai pagani a cui è chiesto, al di là di ogni prescrizione
giudaica, la sola fede.
7,31-37 Guarigione di un sordomuto:
prosegue l’attività missionaria di Gesù in territorio pagano,
quasi a sottolineare l’universalità della missione salvifica di
Gesù.
L’episodio della guarigione del sordomuto è emblematica. Esso
rappresenta il mondo dei pagani completamente chiusi al
messaggio della salvezza e incapaci di attingervi senza
l’intervento di Gesù. E che così sia lo rileva la conclusione
del racconto, in cui il sordomuto scompare e viene sostituito
dalla folla di pagani, che attorniava il sordomuto e in cui si
rispecchiava, la quale proclama ora le lodi di Dio.
Gesù, quindi, dopo aver liberato i pagani dalla possessione di
Satana (figlioletta della cananea) ora li apre alla luce
della fede (guarigione del sordomuto).
8,1-10 Seconda moltiplicazione dei pani:
dopo aver liberato il campo dalla questione
del puro e impuro abbattendo ogni barriera tra giudei e pagani,
dopo aver esteso la sua missione in territorio pagano,
esorcizzando i gentili e aprendoli alla fede, ecco ora la
seconda moltiplicazione dei pani il cui significato sembra
essere quello di aprire la mensa eucaristica anche ai pagani. E
che ai pagani qui ci si richiami sembra dirlo il fatto di
trovarsi nel territorio della Decapoli e le sette ceste di pane
avanzato, con allusione ai settanta popoli citati in Gn 10.
Quindi Marco in tutto il cap. 7 ha creato un graduale cammino di
apertura verso i pagani: anche a loro è data la salvezza, anche
loro sono chiamati alla fede e attorno al banchetto eucaristico.
8,11-26 Segno dal cielo, Lievito dei farisei,
cieco di Betsaida: dopo la sua
missione in territorio pagano conclusasi con la moltiplicazione
dei pani e in cui viene esaltata la conversione dei pagani che
accolgono Gesù e si aprono alla fede e per questo sono ammessi
al banchetto escatologico, Gesù rientra in patria dove, invece,
trova durezza di cuore e incomprensione; si apre così un
accostamento tra i pagani che si aprono alla fede e i giudei
che, insieme ai discepoli, non comprendono Gesù e la sua figura
e lo respingono.
Nella prima parte, il
segno dal cielo, cioè quello del
messianismo di Gesù, viene da Gesù rifiutato perché già
manifestato nelle due moltiplicazioni dei pani.Pertanto,Gesù
abbandona definitivamente i giudei per la loro persistente
incredulità: “E lasciatili, risalì
sulla barca”.
Nella seconda parte, il
lievito dei farisei,
Gesù mette in guardia i discepoli dalla incredulità riscontrata
nei farisei che accomuna ad Erode e rimprovera duramente i
discepoli per la loro ottusità mentale che non riesce a leggere
la figura messianica di Gesù.
Ed
infine, la guarigione del cieco di Betsaida, che ha il suo
parallelo nel sordomuto della Decapoli. Là Gesù apre alla fede i
pagani, qui apre alla fede i discepoli. La guarigione graduale
del cieco simboleggia la conclusione di una tappa nella
formazione dei discepoli, iniziata con il viaggio in barca al
v.4,36.
Con
questo racconto Marco intende creare un ponte tra
l’incomprensione dei discepoli, rilevata numerose volte in
questa sezione, e la confessione di Pietro che conclude il lungo
cammino di fede fatto dai discepoli.
8,27-30 Confessione di Pietro:
essa costituisce la parte finale e culminante
della prima tappa del vangelo di Marco.
Nella prima parte del suo vangelo Marco era riuscito a creare
una forte tensione circa l’identità di Gesù con tutta una serie
di interrogativi sulla sua persona e il suo operato, che tutti
riconoscevano come nuovo ed esposto con una autorità superiore a
quella dei loro scribi e farisei, un’autorità e un messaggio mai
visti fino ad allora.
Una figura quella di Gesù che era rimasta
incomprensibile a tutti, sia ai Giudei che ai discepoli, la cui
comprensione, però, presuppone la fede. Ecco, dunque, la
sequenza del discorso in parabole che separa gli increduli dai
credenti. Ed ecco, infine, dopo un cammino di fede durato ben
otto capitoli, la confessione di Pietro: “Tu
sei il Cristo”.
I
discepoli, finalmente, hanno capito la figura e la natura di
Gesù: egli è il messia. Ora sono disposti a seguirlo fino alla
croce, che sarà il tema introduttivo della seconda tappa.
Infatti sarà proprio la croce che rivelerà Gesù non solo come il
Messia, ma anche come Figlio di Dio. La confessione di Pietro,
quindi, si può considerare, da un lato la fine di un cammino di
fede; dall’altro l’inizio di una nuova comprensione di Gesù come
Figlio di Dio, comprensione che avverrà solo attraverso il
cammino della croce, poiché solo in croce verrà riconosciuto
tale.
Analisi della seconda tappa (8,31 – 15,39)
La
seconda tappa è caratterizzata dalla rivelazione di Gesù quale
Figlio di Dio. Questa proclamazione è posta inizialmente
sulla bocca degli spiriti immondi, viene poi sottolineata
dall’epifania sul monte Tabor, trova un’eclatante conferma
nell’autoproclamazione di Gesù (Mc.14,62) che viene, alla fine,
riconosciuto tale anche dal mondo pagano, rappresentato dal
centurione.
Tuttavia, prima di arrivare all’apice conclusivo, c’è tutto un
graduale e progressivo cammino di maturazione del
rapporto con Gesù e della sua comprensione. Gesù, infatti,
istruisce i suoi discepoli sul destino del Figlio dell’uomo, poi
rivela la propria messianicità e alla fine si autoproclama
Figlio di Dio e, come tale, riconosciuto anche dal mondo pagano.
Quindi, l’intento teologico di Marco è quello di proporre un
cammino di graduale conoscenza di Gesù che porterà il discepolo
alla scoperta della vera natura di Gesù: egli è il Cristo e
Figlio di Dio.
Questa tappa è composta da tre sezioni.
La prima sezione (Mc.
8,31-10,52) è caratterizzata da un triplice schema
ripetitivo così formato:
-
Insegnamento
sulla passione : (Mc. 8,31-32 //
9,31 // 10,32-34)
-
Incomprensione e rimprovero : (Mc. 8,32b-33 // 9,32-34 //
10,35-41)
-
Ulteriore
istruzione :
(Mc. 8,34-9,1 // 9,35-37 // 10,42-45)
Inoltre, questa prima sezione è percorsa dalla ricorrente
presenza della strada che da Mc. 10,32 ha come meta Gerusalemme.
Questa prima sezione, come si può ben vedere, tratta
dell’annuncio della passione, che con difficoltà viene accolta
dai discepoli; una passione che fin da subito è orientata a
Gerusalemme, una strada che lega, quasi come un filo invisibile,
la ripetizione del triplice schema.
La seconda sezione (Mc.
11 - 13) è caratterizzata da un’unità tematica e rilievi
spazio-temporali:
-
L’unità
tematica emerge dalle cinque controversie (11,27-12,40) ed è
incentrata sul tipo di messianicità di Gesù e su chi è il Dio di
Gesù.
- Punto
spaziale ricorrente è il Tempio (Mc. 11,11.15.27 // 12,35 //
13,1.3)
- Punto
temporale sono la descrizione di tre giornate di Gesù di cui:
a)
la prima ha un inizio
aperto e si chiude con 11,11
b)
la seconda inizia con
11,12 e si chiude con 11,19
c)
la terza inizia con 11,20
e chiusura aperta
La terza sezione (Mc.
14,1-15,39) comprende il racconto della passione di Gesù e
inizia con una indicazione di tipo temporale (“mancavano due
giorni alla pasqua”) e con il proposito da parte dei
sacerdoti e degli scribi di uccidere Gesù.
Il
Vangelo termina con un epilogo (15,40-16,8) dominato dalla
presenza inaspettata delle donne e dall’annuncio della
risurrezione.
Analisi della prima sezione: 8,31 - 10,52
Prima parte
Mc.
8,31–9,1
La
confessione di Pietro ha riconosciuto Gesù come il Messia
atteso. La questione, ora, era quella di capire come questo
messianismo doveva essere manifestato e vissuto da Gesù.
Secondo le attese del giudaismo il Messia, uomo inviato da Dio,
doveva ricostituire nella gloria il regno di Israele e cacciare
l’oppressore romano. In tal senso si spiega la delusione dei due
discepoli di Emmaus: “Noi speravamo che fosse lui a liberare
Israele” (Lc. 24,21). Addirittura, gli Esseni attendevano un
doppio messia: uno sacerdotale e uno politico-militare.
È
importante capire questo per comprendere le reazioni negative
dei discepoli di fronte all’annuncio di Gesù circa un Messia
sofferente che doveva essere crocifisso. Era un qualcosa che
andava esattamente all’opposto delle comuni attese. Ecco,
dunque, perché Marco apre questa sezione con le parole “E
incominciò a insegnare loro …”
Si
tratta di una vera e propria catechesi riservata al gruppo dei
Dodici circa la vera natura del messianismo così come pensato da
Dio, molto diverso da quello pensato dagli uomini. Una
contrapposizione questa che viene sottolineata da Gesù che,
rivolto a Pietro, lo apostrofa: “Lungi da me Satana, perché
tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. Il
pensiero di Dio, dunque, non è conforme a quello degli uomini.
Del resto il diverso modo di pensare tra Dio e l’uomo è già
stato sottolineato dal deutero-Isaia: “Perché i miei pensieri
non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie”
(Is.55,8)
E
che esista un piano divino sul Messia sofferente lo si arguisce
dal verbo “dovere” usato da Marco “Il Figlio dell’uomo
doveva molto soffrire”
Proprio sul verbo “dovere” è interessante rilevare come
Luca usi questo verbo per indicare il progetto di salvezza del
Padre. È indubbio, quindi, che l’espressione usata da Marco
indichi un piano di Dio sul Messia che trova incomprensione da
parte dei discepoli, per questo Gesù “incominciò ad insegnare”
Ed
ecco, ora, al v. 8,34 sembra cambiare lo scenario: Gesù non si
rivolge più esclusivamente ai suoi discepoli, ma “convoca la
folla insieme ai suoi discepoli”.
È
interessante rilevare come, ora, Gesù associa i discepoli alla
folla: non li prende più in disparte come era avvenuto nel v.
4,11. Infatti, i discepoli, nonostante l’insegnamento sul Messia
sofferente, offerto loro da Gesù, si comportano come dei “Satana”
che la pensano secondo gli uomini e non secondo Dio. Per questo
vengono associati a “quelli di fuori”.
Questa espressione, inoltre, introduce un insegnamento generico
rivolto a tutti quelli che intendono seguirlo; un insegnamento
che è strettamente legato al concetto del Messia sofferente,
indicando così la natura della sequela, definita da cinque detti
che si ritengono autentici:
1) “Se qualcuno vuol
venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi
segua” non ritratta di una semplice proposta di ascetismo,
quanto, invece, di una rinuncia ai propri interessi terreni per
lasciar posto a quelli di Dio fino all’estremo, rappresentato
dal quel “prendere la croce”.
2)
“Perché chi vorrà
salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria
vita, per causa mia e del vangelo, la salverà”. Questa
pericope è di stile sapienziale e riguarda la salvezza o la
rovina della vita ed è strettamente legato, come conseguenza, al
precedente v.34.
3)
“Che
giova, infatti, all’uomo guadagnare il mondo intero se poi perde
la propria anima?
4) “E che cosa potrebbe
mai un uomo dare in cambio della propria anima?” Queste due
domande retoriche indicano che il possesso del mondo e di tutte
le sue ricchezze non può infrangere il potere della morte.
L’unica sicurezza per sfuggire al potere della morte va riposta
in Dio che è signore sia della vita che della morte; quindi, chi
si affida a lui e al suo inviato nel giudizio escatologico
otterrà la vera vita.
5) “Chi
si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa
generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si
vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo”.
Questa sentenza in Marco costituisce una spiegazione in chiave
escatologica dei
lÒgia
precedenti. I seguaci di Gesù vengono qui invitati a non
staccarsi da lui, ma a persistere nella fede nonostante le
persecuzioni, perché, in base alla legge del taglione, chi
rinnega sarà rinnegato.
Questa prima sezione si chiude con le parole “In verità vi
dico: vi sono alcuni qui presenti che non morranno senza aver
visto il regno di Dio venire con potenza” (9,1). È un
lÒgion
di tipo profetico ritenuto autentico, ma che qui a Marco serve
per passare al racconto della trasfigurazione in cui per tre
testimoni si compie questo detto di Gesù.
Intermezzo tra la prima e seconda parte
Mc. 9, 2 - 29
Tra
il primo e il secondo annuncio della passione Marco inserisce, a
mo’ di intermezzo due racconti: la trasfigurazione e la
guarigione del fanciullo epilettico; e una riflessione su
una diffusa credenza circa il ritorno di Elia.
Pietro aveva professato la messianicità di Gesù, ma senza
collegarla alla sofferenza. Ora, invece, è Dio a confermare
questa messianicità che viene, però, legata da Marco alla
sofferenza e alla morte (…se non dopo che il Figlio dell’uomo
fosse risuscitato dai morti). Ma ancora una volta i
discepoli non capivano che cosa volesse dire “risuscitare dai
morti”. La mente dei discepoli di fronte alla sofferenza e
alla morte del Messia è chiusa e non capisce.
Nel
racconto della guarigione del fanciullo epilettico ricorre
ancora una volta il tema dell’incredulità (… ma se
tu puoi qualcosa…) rimproverata da Gesù: “O
generazione incredula! Fino a quando starò con voi? Fino a
quando dovrò sopportarvi?” e al quale si ricorre per esservi
guariti: “Credo, aiutami nella mia incredulità”.
Circa il ritorno di Elia, Gesù conferma la credenza che si è
realizzata nel Battista in particolare al suo destino di
persecuzione e di morte che ha prefigurato e preannunciato
quella di Gesù.
Come si può rilevare, dunque, l’intermezzo conferma la
difficoltà da parte dei discepoli e, forse, della stessa
comunità di Marco, a comprendere un messianismo in prospettiva
della sofferenza e della croce e come, proprio questa,
costituisce la strada sulla quale i discepoli sono chiamati a
seguire Gesù.
Seconda parte
Mc.
9,31–9,37
La
seconda predizione sulla passione e morte di Gesù è introdotta
da una annotazione di tipo redazionale: Gesù da Cesarea di
Filippo, dove si trovava al momento della confessione di Pietro,
torna in Galilea, dove farà questo secondo annuncio.
Da
qui, poi, inizierà un viaggio che lo porterà verso Gerusalemme;
si tratta di un cammino verso la morte durante il quale,
lentamente e gradualmente istruirà, i suoi discepoli sul destino
del Figlio dell’uomo e delle sofferenze del Messia. Un destino
questo che richiama molto quello del sofferente servo di Jhwh
nel deutero-Isaia (53,1-12).
Gesù, dunque, per la seconda volta istruisce i discepoli
sul destino del Figlio dell’uomo: “Il Figlio dell’uomo è
consegnato (parad…dotai)
nelle mani degli uomini”.
In
questi primi due annunci Marco parla di un Gesù che “insegna”
e “istruisce”. Si tratta, dunque, ben più di un semplice
annuncio più volte ripetuto, ma di una vera e propria catechesi
impartita ai discepoli per la comprensione della figura di Gesù
e del senso della sua missione che diventano difficilmente
comprensibili perché sono associate alla sofferenza e alla
morte. La cosa, infatti, urtava contro le aspettative del
giudaismo.
Rilevante è quel “parad…dotai”
che è un passivo teologico, imputando, quindi, a Dio il fatto
che Gesù è consegnato agli uomini. Pertanto, la passione e morte
di Gesù, confessato come Messia dagli stessi discepoli, rientra
nei piani di Dio. Viene, quindi, ribadito che Gesù è un Messia
sofferente e che tale figura rientra nel progetto salvifico di
Dio.
Tuttavia, ancora una volta, i discepoli “non capivano il
discorso”. Il mistero di un Messia perseguitato e ucciso
esce da ogni schema umano, diventando, quindi, un mistero
impenetrabile che si rivelerà sul Calvario, dove Gesù,
paradossalmente, viene riconosciuto come “Figlio di Dio”.
Proprio sulla croce si rivelerà la vera natura di Gesù: Messia e
Figlio di Dio, il vero servo sofferente di Jhwh predetto dal
deutero-Isaia (53,1-12)
Come il primo annuncio della passione fu seguito da cinque
lÒgia
di Gesù (8,34-38), che costituiscono un insegnamento alla
comunità circa le modalità e le esigenze della sequela, così,
simmetricamente a quelli, qui Marco propone altri due detti
(9,33-37), inquadrati nell’ambito di una discussione avvenuta
tra i discepoli: chi fosse tra di loro il più grande, dando così
a vedere, ancora una volta, come essi non avessero recepito bene
il senso della missione di Gesù e la sua figura di Messia, servo
sofferente.
Questi due
lÒgia
vanno letti in riferimento alla figura del Messia sofferente,
servo di Jhwh. Così come il Messia si è fatto servo sofferente
di Jhwh per la salvezza di tutti, così i discepoli devono farsi
servi di tutti e il primo essere l’ultimo di tutti. Infatti i
Dodici dovevano diventare le guide spirituali delle comunità
cristiane; ma la loro vera grandezza consisterà nell’umiltà e
nel servizio dei fratelli più umili ed emarginati. Questo è il
senso del messianismo sofferente messo a servizio di Jhwh:
questa è la strada che i discepoli devono percorrere.
Il
secondo
lÒgion
diventa ad essere un’applicazione concreta del primo,
riguardante il servizio: servendo i bisognosi e gli ultimi,
raffigurati dal bambino, si serve Gesù stesso. Del resto anche
lui, pur essendo Figlio di Dio e Messia, si è fatto servo di
tutti.
Intermezzo tra la seconda e terza parte
Mc. 9,38 – 10,31
Tra
la seconda e terza parte della prima sezione Marco inserisce una
serie di lÒgia
suddivisi in due gruppi:
- l’uno
riguardante i responsabili della comunità che non devono con il
loro comportamento essere di scandalo
ai più piccoli, cioè ai fratelli ancora immaturi o non ben fermi
nella fede; nell’ambito dello scandalo è inserito anche il
rapporto dei discepoli che hanno visto un tale che cacciava i
demoni nel nome di Gesù. Gesù invita a guardare benevolmente
tutti quelli che operano nel suo nome. Questi non devono
costituire motivo di scandalo per i discepoli.
- l’altro riguarda una catechesi familiare della comunità che
comprende le seguenti tematiche:
- indissolubilità del
matrimonio (l’uomo non separi ciò che
Dio ha congiunto)
- il rapporto con i bambini (lasciate che i bambini
vengano a me)
- il rapporto con le ricchezze (giovane
ricco)
- la
ricompensa per chi segue Gesù (riceve il centuplo e la vita
eterna)
Terza parte
Mc.10,32-45
In
questo terzo ed ultimo annuncio Gesù e i discepoli si trovano
nei pressi di Gerusalemme; sono ormai giunti al termine di
questo loro cammino spirituale. L’ultima tappa, la più
difficile, l’unica che è posta in salita.
Marco afferma “Erano nella via, salendo a Gerusalemme, Gesù
li precedeva;ed erano stupefatti; quelli poi che lo seguivano
avevano paura”. Sono molto significative queste cinque
battute che dipingono lo stato delle cose dopo un lungo e
difficile cammino spirituale, giunto ormai alla fine:
- “Erano
nella via”, è la via spirituale che li deve portare alla
piena comprensione. Sono ancora, quindi, su di un cammino di
apprendimento e di comprensione della figura di Gesù e della sua
missione, che li vede lottare contro le loro logiche umane a cui
soccombono.
-
“Salendo
a Gerusalemme”, Gerusalemme è la meta finale in cui il
mistero della salvezza, nascosto in Dio dall’eternità, si dovrà
pienamente manifestare: morte e risurrezione. Qui il Messia
sofferente sarà ricompreso come “Figlio di Dio”. Ma per
giungere a Gerusalemme, il luogo del mistero di Dio e della sua
manifestazione, bisogna “Salire” . Il salire
comporta sempre un distaccarsi da un qualcosa, un lasciare
dietro alle proprie spalle un qualcosa che prima ci tratteneva;
è un rompere i vincoli con il passato per guardare avanti. Il
salire, poi, non è mai una cosa facile, comporta fatica,
comporta il vincere il peso di gravità che ci vorrebbe
trattenere in basso. Questo salire a Gerusalemme, dunque, indica
tutta la difficoltà dei discepoli di distaccarsi dalle loro
logiche umane per abbracciare le prospettive e gli orizzonti di
Dio.
-
“Gesù
li precedeva”, il maestro precede sempre i suoi allievi;
egli è sempre là dove essi ancora non sono. Gesù li precede nel
cammino, li precederà in Galilea. Questo “precedere” sta
ad indicare la costante iniziativa di Dio. L’uomo da solo non
riuscirebbe a cogliere il progetto di Dio se non fosse “preceduto”.
-
“ed
erano stupefatti”, il viaggio, ormai, è giunto al
termine: la luce dell’intelligenza di Dio si sta facendo strada
nel buio dell’intelligenza umana, che non comprende e con
difficoltà e riluttanza si apre alle logiche di Dio. Ecco perché
“erano stupefatti”. Lo stupore è la risposta dell’uomo
all’esperienza di Dio.
- “Quelli
poi che lo seguivano avevano paura”, se l’esperienza di
Dio e il comprenderne il disegno crea stupore, l’accorgersi di
esserne coinvolti (“lo seguivano”) incute paura.
Stupore e paura sono i
segni di una teofania, la risposta dell’uomo all’esperienza di
Dio. Non a caso, infatti, la trasfigurazione si è posta
lungo questo cammino verso Gerusalemme.
-
“E
presi con sé di nuovo i Dodici”, è molto significativa
questa battuta di Marco. Infatti, in 8,34, dopo aver presentata
l’incredulità di Pietro che Gesù chiama Satana, Marco dice “E
chiamata a sé la folla con i suoi discepoli”. Qui, per la
loro incomprensione e incredulità i discepoli sono associati
alla folla, cioè a “quelli di fuori” (4,11). Non sono più
con Gesù perché essi “non hanno il senso delle cose di Dio,
ma di quelle degli uomini”. Ora, invece, al termine del
cammino, proprio perché essi incominciano a comprendere e ad
accettare le logiche di Dio, Gesù “li prende con sé di nuovo”.
- “Ecco
noi saliamo a Gerusalemme”, il viaggio verso Gerusalemme
è, ormai, pressoché compiuto. I discepoli hanno compreso e sono
ritornati alla sequela di Gesù, hanno incominciato ad entrare
nelle logiche di Dio. Ecco perché, ora, salgono a Gerusalemme
assieme a Gesù. Gesù, qui, li coinvolge nel suo mistero di
salvezza che sta per compiersi e ne fa dei testimoni alle future
generazioni.
Ormai si è giunti alla fine del cammino e i discepoli hanno
finalmente compreso. Pertanto, Gesù li associa nuovamente a sé.
Tuttavia non tutti, ancora, hanno compreso. Ed ecco che, dopo il
nuovo insegnamento, altri due discepoli, Giacomo e Giovanni, non
comprendono ancora il senso del messianismo di Gesù. Infatti,
come per i due discepoli di Emmaus che speravano in un’azione
restauratrice del regno di Israele da parte di Gesù, dando a
vedere di non aver capito nulla della sua missione e figura,
così anche questi due non comprendono ancora, poiché chiedono
dei posti d’onore nel regno messianico che Gesù avrebbe
instaurato da lì a poco.
La
reazione degli altri dieci (¢ganakte‹n=irritarsi),
alla luce di quanto sopra e per l’insegnamento di Gesù che essi
avevano già recepito dopo il secondo annuncio della passione
circa chi fosse il più grande (9,33-35), non va intesa come una
protesta per essere stati scavalcati, ma una reazione alla
persistente incomprensione manifestata dai due. Infatti, ora,
essi sono stati presi di nuovo con Gesù
e con lui stanno salendo a Gerusalemme;
in altri termini, essi, ora, le cose le vedono dalla prospettiva
di Dio, ciò che non è ancora avvenuto per Giacomo e Giovanni.
L’incomprensione dei due verte, ancora una volta,
sul messianismo di Gesù che essi non comprendono come
sofferente. Infatti, chiedono a Gesù di sedere al secondo e
terzo posto “nella tua gloria”,
riferendosi chiaramente al regno escatologico. Gesù impartisce
loro un ulteriore insegnamento a parte e fa comprendere come il
sedersi ai primi posti nella gloria è strettamente collegato
alla sofferenza e alla morte; infatti Gesù risponde loro: “Non
sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o
essere battezzati con il battesimo con cui sono battezzato?”
Con
quel “Non sapete quello che chiedete” Gesù sottolinea la
loro incapacità a comprendere, mentre con la domanda “Potete
bere il calice che io bevo?” li porta a riflettere che il
cammino per raggiungere la gloria deve necessariamente passare
per la croce, facendo definitivamente capire a loro come il suo
messianismo è quello del servo sofferente (Is. 53,1-12).
Ora, Gesù in un’ultima lezione (10,42-45) fa capire a tutti i
suoi discepoli il senso più profondo del messianismo di cui lui
è investito e a cui loro sono chiamati: non i primi posti come
per i potenti della terra, ma l’umile servizio per tutti, come è
avvenuto per “il Figlio dell’uomo che non è venuto per essere
servito, ma per servire”; così “chi vuole diventare
grande tra voi, sarà vostro servitore”. La grandezza,
quindi, si misura nell’umile servizio agli altri e non nel
potere. Questo è il senso più vero del messianismo di Gesù.
È
probabile, infine, che questo racconto rispecchi una situazione
di conflittualità nella chiesa primitiva per la ricerca di
privilegi e di cariche onorifiche da parte di alcuni.
Questa prima sezione, infine, si chiude con il miracolo
del cieco di Gerico (10,46-52). Tale miracolo si
pone, non a caso, alla fine di questo lungo cammino di crescita
spirituale e di fede, al termine del quale, ora, tutti i
discepoli hanno compreso il senso del messianismo di Gesù.
Infatti, questo racconto riepiloga ed illustra la condizione dei
discepoli prima della fede e il cammino di conversione che essi
hanno compiuto.
Marco descrive la condizione di quest’uomo prima dell’incontro
con Gesù: “… un cieco mendicante sedeva lungo la via”.
Era la condizione dei discepoli prima della illuminazione
ricevuta dall’insegnamento di Gesù: erano ciechi,
cioè non comprendevano; ed erano seduti lungo la via,
cioè, chiusi nella loro cecità, erano incapaci di muoversi lungo
quel cammino spirituale che Gesù aveva loro ripetutamente
prospettato, ma che non riuscivano a percorrere per la loro
cecità.
Ma
ecco l’incontro e la chiamata: “Coraggio! Alzati, ti chiama”
una chiamata che è un invito a risollevarsi da quella condizione
di cecità. Significativo quel “Ÿgeire”
(alzati) il cui significato in greco assume varie
tonalità: svegliati, alzati, destati da morte. Indica
sempre l’inizio di una nuova condizione.
Prosegue Marco: “Gettato via il suo mantello, balzando in
piedi, venne da Gesù” è la pronta risposta alla chiamata.
Prima di andare da Gesù il cieco compie due gesti significativi:
getta via il suo mantello, che esprime il suo precedente
stato di vita, avvolto nella cecità mendicante; e balza in
piedi, che indica il pronto risollevarsi da una situazione
di povertà esistenziale. Vengono qui abbozzate le due condizioni
per “vedere”, cioè per raggiungere la luce della fede :
disponibilità ad abbandonare il proprio modo di vedere umano,
espresso dalla cecità; e la determinazione a cambiare modo di
vivere. Solo a queste condizioni ci si può avvicinare a Gesù;
solo a queste condizioni Gesù può operare la trasformazione da
cieco a vedente. Come si può rilevare, in poche battute viene
descritto il cammino della fede e le condizioni perché sia
percorso efficacemente.
Il
racconto termina con la sequela: “… e subito riacquistò la
vista e lo seguiva nella via”, la fede apre a nuove
comprensioni e a nuovi orizzonti e spinge alla sequela di Gesù.
Interessante è quell’imperfetto “ºkoloÚqei”
che indica l’effetto persistente della fede che lo spinge “nella
via”, cioè quella che porta verso Gerusalemme, dove si
compirà il mistero della salvezza in cui è coinvolto ogni
credente.
Analisi della seconda sezione: 11 – 13
Questa seconda sezione è dominata dal ministero di Gesù in
Gerusalemme che si sviluppa su tre giornate di cui una
delimitata, quella centrale (11,12-19), le altre due aperte.
Inoltre, ha come tema spaziale il Tempio che viene
nominato per la prima volta in Marco a partire proprio dal cap.
11 ed è citato per ben sette volte tra i capp. 11 e 13.
In
questi tre capitoli il Tempio assume sfumature particolari:
- E’
la conclusione del viaggio di Gesù
che, mossosi dalla Galilea, si conclude proprio nel Tempio dove
Gesù vi entra, ma senza compiere e dire nulla limitandosi solo a
dare uno sguardo tutto intorno; e , quindi, se ne esce subito
con i Dodici (11,11). Sembra, quasi, che Gesù, con questo
comportamento, voglia prendere idealmente possesso di quel
Tempio che lo vedrà protagonista in questo ultimo scorcio
della sua vita e sottrarlo ad una classe sacerdotale che
ne ha fatto un luogo di commercio e di vanto per restituirlo
al suo vero scopo: il culto.
E ciò si attuerà con
la
cacciata dei venditori del tempio, con il suo “aggirarsi
per il Tempio” (11,27) e con il “suo insegnare
nel Tempio” (12,35).
Si allude, infine, anche
ad un nuovo Tempio che assume coloriture escatologiche in quanto
che è aperto a tutti i popoli (11,17), un tempio che Gesù
distruggerà e ricostruirà in tre giorni (14,58). Si sta
profilando, quindi, la sagoma di un Tempio spirituale aperto a
tutti coloro che rendono un culto spirituale a Dio.
Questa sezione potremmo idealmente dividerla in tre parti:
-
Entrata
messianica di Gesù a Gerusalemme e presa di possesso simbolica
del Tempio (11,1-25)
-
Le cinque
controversie con le autorità giudaiche (11,27-12,44)
-
Discorso
escatologico (13)
Entrata messianica di
Gesù a Gerusalemme e presa di possesso del Tempio
Mc. 11, 1 - 25
L’entrata di Gesù in
Gerusalemme si rifà certamente ad eventi storici, anche se non
in modo così ridondante come appare. Probabilmente i discepoli e
numerosi pellegrini, che avevano visto a Gerico la guarigione
del cieco e conoscevano bene la sua fama di taumaturgo e che da
Gerico erano saliti con lui a Gerusalemme, vollero tributargli
un omaggio messianico. Dovette trattarsi di una manifestazione
spontanea molto semplice che si concluse alle porte della città
perché non provocò alcun intervento della guarnigione romana, né
fu menzionata durante il processo contro Gesù.
Tuttavia, questa entrata
venne riletta dalla prima comunità in chiave cristologica
postpasquale, vedendo in Gesù il re Messia atteso.
Infatti l’immagine di Gesù
che entra su di un puledro d’asina è stata vista come la
realizzazione della profezia di Zaccaria “Esulta grandemente
figlia di Sion, giubila figlia di Gerusalemme! Ecco a te viene
il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino,
un puledro figlia d’asina” (Zc. 9,9).
Inoltre la sottolineatura
che sul quel puledro “nessuno e mai salito” si addice
alla dignità regale, come lo stendere i mantelli al passaggio,
che richiama un rituale di intronizzazione del re (2Re 9,13).
Infine quell’acclamazione
“Benedetto colui che viene nel nome del Signore”
costituiva una benedizione con cui il sacerdote accoglieva i
pellegrini che salivano al tempio; ma con il giudaismo assunse
la valenza di un’acclamazione per l’avvento del Messia. Nel
vangelo, poi, il verbo
Ð
™rkÒmenoj ha
assunto la valenza di una acclamazione messianica.
In 11,11
Gesù entra nel tempio e “dopo aver guardato attorno ogni
cosa, essendo già l’ora tarda, usci verso Betania con i Dodici”.
È significativo questo passo in cui Gesù entra nel tempio,ma non
dice e non fa nulla se non guardare attorno ogni cosa,
quasi a dominare e a impossessarsi del Tempio, che sembra
costituire la meta finale di quel lungo viaggio iniziato in
Galilea.
Inoltre, con questo
silenzioso guardare di Gesù e il racconto del fico sterile,
nonché il passaggio da una giornata all’altra, Marco stacca
l’ingresso nel Tempio dalla purificazione dello stesso per
togliere il senso di impulsività al gesto della cacciata e
dargli, invece, un significato squisitamente profetico: quello
di un rinnovamento del culto basato sulla interiorità e nello
spirito.
11,12-25
con questi versetti inizia la seconda giornata di Gesù a
Gerusalemme che è caratterizzata dalla maledizione del fico
e dalla cacciata dei venditori dal tempio.
Da un punto di vista
letterario questi due episodi si presentano a sandwich:
-
Episodio del
fico sterile (11,12-14)
-
Cacciata dei
venditori ( 11,15-19) = sandwich
-
Ripresa sul
fico sterile (11,20-25)
Gesù, dirigendosi verso Gerusalemme da Betania, si imbatte in un
fico che ha tante belle foglie rigogliose, ma non ha frutti perché si era fuori stagione. Tuttavia, Gesù lancia,
comunque, una maledizione su quel fico. L’inciso, però, di Marco
“perché si era fuori stagione” spiega come la ricerca di
Gesù fosse assurda, sottolineando, pertanto, la valenza
simbolica del racconto che, proprio perché tale, include la
purificazione del Tempio a cui si riferisce.
L’albero del fico è una delle piante fruttifere più importanti
nella Palestina. Se ne parla spesso nella Bibbia anche come
simbolo di Israele (Os. 9,10; Ger. 8,13; 24,1-10).
Il
gesto di Gesù, pertanto, rivolto al fico esprime la condanna del
giudaismo che nonostante l’apparenza esteriore di un culto
solenne si era allontanato da Dio.
L’albero carico di foglie, ma senza frutti, designa forse lo
sfarzo del culto praticato nel tempio di Gerusalemme,
l’esuberanza dei riti solenni, ma privi di significato religioso
autentico che si fonda sulla sincerità di cuore. Numerosi in tal
senso sono i lamenti dei profeti nell’AT che caratterizzano
Israele come un popolo che onora Dio con le labbra, ma il cui
cuore è lontano da Lui (Is. 29,13).
Si
introduce, a tal punto, a mo’ di sandwich, il racconto della
cacciata dei venditori dal Tempio (11,15-19).
Il
racconto presenta qualche dubbio di storicità sia per il numero
consistente di venditori dislocati in un Tempio che misurava 300
mt. per 450, con una superficie di 135.000 mq. , e sia perché il
gesto di Gesù avrebbe attirato il pronto intervento della
guarnigione romana posta nella confinante Torre Antonia, nonché
le guardie stesse del Tempio. È probabile, quindi, che il gesto
di Gesù non ci sia stato o che fosse di proporzioni molto
modeste e irrilevanti.
Il
rovesciamento dei banchi sta ad indicare idealmente il
rovesciamento del culto portato da Gesù: infatti, un culto
basato sugli animali e sulle offerte che metteva a posto
legalmente il fedele, ma lasciava indurito il suo cuore nei
confronti di Dio, non andava più bene.
Qual era, dunque il culto voluto da Gesù? Il senso più vero lo
si trova nelle parole stesse di Gesù che cita liberamente Isaia
(56,7), ma aggiungendovi qualcosa di nuovo che apre il tempio e
il culto a Dio, ad una prospettiva escatologica e messianica
completamente nuova e inaspettata: “La mia casa sarà chiamata
casa di preghiera per tutte le nazioni”. Quindi, il
Tempio è essenzialmente una casa di preghiera, cioè di un culto
spirituale aperto a tutte le nazioni. Pertanto, il
Tempio e il culto che hanno sempre caratterizzato la vita di
Israele viene sottratto ad Israele e aperto a tutti i popoli. Il
Dio di Israele diventa, così, il Dio di tutte le nazioni.
Dopo l’inciso del Tempio, vengono inseriti qui da Marco in modo
redazionale alcuni detti di Gesù riguardanti la fede, la
preghiera e il perdono (11,20-26).
Riprende, dunque, il racconto del fico maledetto che diventa,
ora, oggetto di alcune riflessioni riguardanti la fede e la
preghiera la cui efficacia dipende da due condizioni: sconfinata
fiducia in Dio e perdono verso i fratelli. Probabilmente sono
proprio questi i due atteggiamenti del nuovo culto gradito a
Dio, che sostituiscono gli animali e le offerte perché partono
dal cuore e coinvolgono la totalità dell’uomo.
Le cinque controversie con le autorità giudaiche
Mc. 11,27 – 12,44
Alle cinque dispute galilaiche (2,1-3,6) poste all’inizio
dell’attività pubblica di Gesù (due riguardanti il perdono e
i peccatori, due riguardanti la questione del sabato e una il
digiuno cristiano) fanno riscontro cinque controversie
(11,27-12,44) che ebbero luogo a Gerusalemme tra Gesù e i capi
dei giudei, posti pochi giorni prima della passione e morte di
Gesù.
Le
prime cinque dispute si conclusero con il consiglio tra farisei
ed erodiani di far perire Gesù; queste seconde cinque, invece,
si concludono con i capi del giudaismo che cercano di cogliere
Gesù in fallo per poterlo arrestare e metterlo a morte.
Si
noti come ormai la questione Gesù si è spostata di livello: dai
farisei e dottori della legge ai capi, responsabili
dell’amministrazione politica e religiosa di Israele.
Si
tratta di un raggruppamento di materiale eterogeneo che Marco ha
posto immediatamente prima del racconto della passione per
fornire le vere motivazioni dell’ostilità dei capi contro Gesù:
-
La questione
sull’autorità di Gesù (11,27-33) seguita dalla parabola dei
vignaioli omicidi (12,1-11)
-
La questione
del tributo a Cesare (12,13-17)
-
La questione
della risurrezione e i sadducei (12,18-27)
-
La questione
del primo dei comandamenti (12,28-34)
-
Questione
posta da Gesù sulla sua identità di “Figlio di David”
(12,35-37)
La questione dell’autorità di Gesù
è strettamente legata alla cacciata dei venditori dal Tempio ed
è modellato sullo schema delle dispute rabbiniche: ad una
domanda segue un’altra domanda per chiarire le posizioni dei
contendenti.
La questione è posta da un gruppo di componenti
il sinedrio che sono citati secondo la loro classe di
appartenenza: sommi sacerdoti, scribi e
anziani; sono le tre categorie che
compongono il Sinedrio, l’organo ufficiale e più elevato del
potere religioso e politico di Israele. Viene, quindi, posto in
risalto non solo il carattere ufficiale della domanda, ma viene
messo in rilievo come ormai la figura di Gesù e del suo
insegnamento è diventato un problema di vertici di potere.
Questa prima controversia termina con Gesù che
rifiuta di specificare la provenienza della propria autorità,
anche se in realtà la risposta viene implicitamente data.
Infatti Gesù chiede: “Il battesimo di
Giovanni veniva dal cielo o dagli uomini?”,
facendo così capire che, se veniva dal cielo, anche chi era
annunciato da Giovanni, cioè Gesù, proveniva dal cielo. La
risposta, sia pur velatamente, viene, ora, integrata con la
parabola dei vignaioli omicidi.
La parabola dei vignaioli omicidi (12, 1-12)
segue immediatamente la prima disputa ed è una velata risposta
all’interrogativo sull’origine dell’autorità di Gesù. Essa
costituisce un compendio della storia della salvezza che dai
profeti, simboleggiati dai servitori inviati, arriva fino a
Gesù, il figlio da ultimo inviato, e si prolunga oltre: “Il
Padrone verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna ad
altri” con chiara allusione alla ormai
imminente distruzione di Gerusalemme nella guerra giudica del
66-73 e alla “Promessa”
che sarà tolta ad Israele e data ad altri popoli. Si allude qui
chiaramente alla missione universalistica di Gesù e della Chiesa
che, ormai oltre i ristretti confini giudaici, si estende ai più
ampi orizzonti dell’umanità.
Gli
interlocutori della parabola sono sempre i sinedriti della prima
disputa.
La
parabola, benché allegorica, rispecchia la realtà
storico-culturale dei tempi di Gesù.
“A suo tempo inviò un
servo a ritirare da quei frutti della vigna”
probabilmente dopo cinque anni i base al Lv.19,23-25.
L’atteggiamento dei contadini che non vollero corrispondere i
frutti della vigna è verosimile; infatti in Palestina si
verificavano spesso delle ribellioni di contadini contro i
padroni. In questo contesto va letta l’uccisione del figlio: i
vignaioli pensavano che il loro padrone fosse morto, non
avendolo mai visto, perciò, uccidendo il figlio, speravano di
entrare in possesso della vigna rimasta senza proprietario.
La questione del tributo a Cesare
rappresenta, forse, un tentativo apologetico nei confronti di
Gesù accusato dalle autorità dei giudei di attività sovversiva
contro i romani.
La domanda posta a Gesù “E’
lecito o no pagare il tributo a Cesare”
costituiva un punto dottrinale scottante. L’imposta introdotta
nel 6 d.C. dai romani implicava il riconoscimento del potere
straniero su Israele ed era in contrasto con la concezione
teocratica dello stato di Israele e con le attese messianiche
dello stesso.
Inoltre, per i più estremisti, il versamento del tributo ad un
imperatore a cui si riconosceva un culto divino, assumeva il
significato di un atto di idolatria e di apostasia dalla fede.
Comunque, al di là dell’aspetto storico
contingente, da questa disputa emerge un insegnamento profondo
che va ben oltre la circostanza storica: “Rendete
a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.
Ma che cos’è di Cesare e che cosa, invece, di Dio? Di Cesare è
l’immagine sulla moneta e ciò dimostra che gli appartiene e ,
quindi, gli va restituita;ma a Dio, invece, appartiene tutto,
evidenziando così la supremazia di Dio su tutto, compreso l’uomo
che porta in sé l’immagine di Dio, per questo gli appartiene.
Non si trattava, quindi, di tracciare un confine tra sacro e
profano, ma di rivendicare il primato di Dio sull’uomo e sulla
sua storia: solo obbedendo a Dio l’uomo può tutelare la sua
dignità. In altri termini, la lealtà all’imperatore va
subordinata alla fedeltà a Dio.
La questione della risurrezione dai morti
era controversa: sentita dai farisei e largamente condivisa dal
popolo; negata, invece, dai sadducei. Tuttavia non era ben
chiara l’idea di resurrezione che era intesa dai farisei come un
prolungamento della vita terrena che, nell’immaginario del
popolino, comportava un accrescimento favoloso delle gioie
mondane.
I sadducei pongono una questione che si radica in
Dt. 25,5-10: la legge del levirato (levir=cognato)
E la applicano alla risurrezione che lasciano
intendere come una riviviscenza terrena, mentre Gesù precisa che
essa, invece, comporta una radicale e sostanziale trasformazione
di vita e di modo di vivere a cui non si possono applicare le
categorie umane. Gesù, pertanto, risponde ai sadducei
rifacendosi al Deuteronomio, l’unica scrittura da loro ritenuta
valida, richiamandosi al roveto ardente in cui Dio si presenta
come il “Dio di Abramo, Isacco e
Giacobbe”, un Dio, dunque, dei vivi e
non dei morti.
La questione del primo dei comandamenti
non era una questione di secondaria importanza nel mondo del
giudaismo e costituiva un problema serio per ogni pio ebreo. I
rabbini, per garantire l’esatta osservanza della Legge, avevano
enumerato 613 precetti, di cui 365 proibitivi e 248 positivi.
Non era, dunque facile regolarsi nella vita pratica di ogni
giorno in una selva precettistica simile.
Gesù risponde al pio scriba citando lo “Shema
Israel” tratto da Dt. 6,4-5 in cui,
dopo l’affermazione di monoteismo seguiva, come conseguenza
logica, l’amore esclusivo per Dio con tutto il proprio essere. A
questo comandamento Gesù aggiunge, separatamente dal primo,
l’amore per il prossimo, citando il Levitico: “Amerai
il prossimo tuo come te stesso”
(19,18).
È
interessante notare come il pio scriba li riprenda tutti
entrambi e li unifichi facendone un unico comandamento, la cui
osservanza vale ben più di ogni olocausto e sacrificio.
In
questa figura del pio scriba che viene, alla fine, approvato da
Gesù, non è difficile vedere l’atteggiamento favorevole di Marco
verso i giudei. Anche loro avevano la possibilità di ottenere la
salvezza aprendosi al messaggio di Gesù come aveva fatto lo
scriba.
Nelle parole dello scriba, infine, risuona la dottrina cristiana
dell’amore a tutto campo per Dio e per il prossimo; un amore per
Dio che si concretizza in quello del prossimo. Un amore che
supera tutti i culti giudaici e a questi muove critica.
La controversia termina con “e
nessuno osava più interrogarlo”. Ciò
indica che per Marco le controversie sono finite a questo punto.
Pertanto il brano seguente appartiene ad un altro genere
letterario
È
interessante rilevare come in queste ultime tre dispute (tributo
a Cesare, questione sulla risurrezione, primo dei comandamenti)
Gesù delinea la sua idea di Dio:
-
Tributo a
Cesare: evidenzia la supremazia di Dio su tutto e sugli uomini;
-
Risurrezione: indica che Dio è il Dio dei viventi;
-
Primo
comandamento: Dio è l’unico e non ammette concorrenza; pertanto,
a Lui va dato totale amore che si concretizza nell’amore del
prossimo.
Ecco, dunque, l’idea di Dio concepita da Gesù: Egli è colui che
sovrasta tutti e a cui tutto bisogna dare. È un Dio dei viventi
e che, unico, bisogna amare con la totalità della vita.
La questione posta da Gesù sulla sua identità di
Figlio di David
Mentre nelle controversie precedenti Gesù rispondeva a domande
poste da altri, qui è lui, di sua iniziativa, a porsi una
domanda e a rispondere a questa. Sembra che qui Gesù faccia
tutto da solo. Perché?
In
questi pochi versetti Gesù allude alla natura della propria
persona. Con la maledizione del fico e la cacciata dei venditori
dal tempio Gesù ha compiuto dei gesti profetici il cui senso
rimase oscuro ai presenti che gli chiesero con quale autorità
egli compisse queste cose. Tuttavia, l’atteggiamento, sia dei
discepoli che dei sinedriti, non era adeguato per poter
comprendere la figura di Gesù, evidenziando, in tal modo,
l’incapacità e l’inadeguatezza dell’uomo a comprendere l’azione
di Dio se non è Gesù stesso a rivelarlo.
Ed
è proprio questo il senso di questa pericope: poiché l’uomo non
è in grado di avvicinarsi adeguatamente a Gesù per poterlo
comprendere, Gesù stesso si autorivela e si offre alla
comprensione di tutti. L’iniziativa è sempre sua.
Con
questa pericope Marco chiude l’attività didattica nel Tempio e
prepara la risposta che Gesù darà al sommo sacerdote Caifa
davanti al sinedrio.
Quanto al salmo 110, citato da Gesù, non risulta che fosse
interpretato presso il giudaismo in senso messianico. In tal
senso, invece, lo è stato presso la chiesa primitiva che vi
vedeva l’esaltazione e la glorificazione di Gesù, quale Messia e
Figlio di Dio. La questione posta da Gesù sembra riflettere, in
realtà, la cristologia della chiesa primitiva che aveva
riconosciuto in lui non soltanto il Messia, ma anche il Figlio
di Dio.
L’ipocrisia degli scribi
(12, 38-40) viene stigmatizzata da Gesù con questi pochi
versetti. È una composizione chiaramente antifarisaica e
costituisce la logica conclusione di queste cinque controversie.
Vengono qui dipinti come ricercatori di onori e primi posti, da
un lato, e privi di scrupoli e di ogni umanità, dall’altro.
Questa pericope viene inserita qui per l’aggancio verbale del
termine “scribi”, citata in 12,28 e 38, ma anche perché
gli interlocutori di Gesù, lì presenti, sono gli scribi.
L’obolo della vedova
(12,41-44) La parola-aggancio che introduce questa pericope è il
termine “vedova” citato qui e nella precedente pericope.
Con questo episodio Marco chiude l’attività pubblica di Gesù.
Gesù viene presentato da Marco “seduto di fronte al tesoro,
osservava come la folla gettava monete nel tesoro”. Questa
di Gesù “seduto di fronte” è l’atteggiamento non solo del
maestro che sta per impartire la lezione, ma anche del giudice
che osserva il comportamento di chi gli sta di fronte e su cui
sta per emettere sentenza.
L’ambiente è quello del tempio dove erano disposte per la
raccolta delle offerte 13 cassette a imbuto che avevano la forma
di tromboni. Un incaricato ne riceveva le offerte e ne
proclamava ad alta voce l’ammontare. Era, quindi, questa
l’occasione per molti ricchi di ostentare la loro ricchezza,
considerata un segno della benedizione di Dio.
Interessante è la descrizione della figura della vedova: essa è
presentata come “una povera vedova”. Le vedove, come gli
orfani, erano in passato le categorie sociali più esposte e
ultime nell’ordine sociale, prive di ogni diritto. Questa vedova
gettò nel tesoro solo due spiccioli, poca cosa, dunque, ma era
tutto quello che aveva, Marco sottolinea “tutto quello che
aveva per vivere”.
Significativa questa ultima battuta, poiché la vedova dando
tutto quello che aveva per vivere è come se avesse gettata tutta
se stessa per il culto del Signore.
Posto il racconto alla fine dell’attività pubblica di Gesù e a,
quasi, poche ore dall’inizio della sua passione e morte, esso
assume un carattere prefigurativo del gesto di Gesù: il gesto
della vedova, improntato ad una religiosità semplice, ma
sincera, prefigurava il dono totale di Gesù che avrebbe offerto
la vita per la salvezza delle moltitudini e per un giusto culto
a Dio.
Passione e morte di Gesù
Mc. 14,1 – 15,47
Questi capitoli costituiscono in Marco la parte più
significativa e importante del suo Vangelo che, fin dall’inizio,
idealmente incammina il lettore sulla strada che porta ad una
graduale scoperta di Gesù: dapprima scoperto come Messia (8,29),
poi, con riluttanza, come Messia sofferente (8,31; 9,31;
10,33-34) e, infine, come Figlio di Dio (15,39).
Titoli, questi, che sono sempre radicati e strettamente legati
alla sofferenza e alla croce. Infatti, proprio sulla croce si
scoprirà la vera natura di Gesù quale Figlio di Dio (15,39).
Una
strada, quindi, che partendo dalla Galilea, lentamente e
gradualmente, si incammina verso Gerusalemme dove si compirà il
disegno di salvezza, pensato dal Padre fin dall’eternità. Una
strada che, lentamente e gradualmente, si rivelerà essere quella
della sofferenza e della morte di croce, a cui sono legati i
titoli di Messia e di Figlio di Dio.
Per
una migliore comprensione del racconto della passione è
opportuno considerare:
a)
L’importanza della
passione nel Vangelo di Marco;
b)
Unità letteraria della
passione;
c)
Genere letterario;
d)
Origine del racconto;
e)
Motivazioni che stanno
alla base del racconto;
A) Importanza della
passione nel vangelo di Marco
Il
racconto della passione e morte di Gesù è il vertice verso cui
tende tutta l’opera di Marco.
Il
titolo di Cristo e Figlio di Dio attribuiti a Gesù nel prologo
(1,1) inaugurano un cammino a due tappe: la prima porta
alla scoperta di Gesù quale Messia nella confessione di Pietro
(8,29) e la seconda alla scoperta di Gesù quale Figlio di
Dio nella professione di fede del centurione (15,39). È,
quindi, tutto il mondo, quello del giudaismo, prima, e quello
dei pagani, poi, che professano la loro fede in Gesù Messia e
Figlio di Dio.
Tuttavia il dramma della passione è prospettato lungo tutto il
cammino che porterà fino al Golgota:
- le cinque
dispute galilaiche (2,1-3,6) si concludono con la deliberazione
da parte dei farisei e degli erodiani di far morire Gesù (3,6).
-
I parenti
stessi di Gesù che, considerandolo un pazzo, se ne distaccano: “Allora,
i suoi, sentito questo, uscirono per andarlo a prendere perché
dicevano:<<E’ fuori di sé>>” (3,21)
-
Il rigetto
di Gesù da parte degli abitanti di Nazaret (6,1-6) : “E si
scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: << Un profeta non è
disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa
sua>> … E si meravigliava della loro incredulità” (6,3c-6/a)
-
La
confessione di Pietro, dopo la crisi galilaica, segnò una svolta
decisiva nel cammino di Gesù per imboccare decisamente la via
della croce. Infatti, tre predizioni della sua passione e
morte,accolte con riluttanza dai discepoli che concepivano il
messianismo di Gesù in termini gloriosi e terreni, scandiscono
quest’ultima fase del suo ministero.
B)
Unità letteraria del
racconto
Mentre per i capitoli precedenti al racconto della passione e
morte si ha l’impressione che Marco si limiti a imbastire tra
loro un rosario di pericopi cercando, dove possibile, di dare un
qualche nesso logico, per il racconto della passione gli episodi
esposti formano un’unità letteraria ben compatta e articolata. I
fatti sono strettamente collegati tra loro e incorporati in un
contesto unitario, tanto da risultare incomprensibili se vengono
tra loro isolati.
C) Genere letterario
Il
genere letterario è quello evangelico che non si ripromette di
fare una cronaca dei fatti dell’epoca, bensì di condurre la
comunità dei credenti ad una profonda intelligenza di
quell’evento.
D) Origine del racconto
Lo
Sitz im Leben del racconto della passione va ricercata
nella vita stessa della comunità primitiva e in particolare in
quelle assemblee liturgiche e di preghiera in genere di cui gli
Atti degli Apostoli, sebbene in forma idealizzata, ci hanno dato
testimonianza (At. 2,42). È molto probabile che fosse proprio in
queste assemblee, caratterizzate da un profondo spirito di
fratellanza e di preghiera, e dalla riflessione sulle Scritture
che venne approfondito il significato della passione.
E) Motivazioni che
stanno alla base del racconto
Quali furono gli interessi che mossero le prime comunità a
formulare i primi racconti orali sulla tragica vicenda di Gesù?
Certamente l’interesse primario fu quello cristologico che
diventò, quindi, la chiave di lettura di tutta la vicenda
storica e umana di Gesù.
Era
importante per le prime comunità comprendere cosa ci stava
dietro l’apparente fallimento della vita e della missione di
Gesù e come proprio dietro a tutto ciò ci stava il disegno
salvifico di Dio.
La
preoccupazione preminente di questi racconti, pertanto, non sta
nel riportare fedelmente e scrupolosamente i fatti avvenuti in
quel tempo, quasi fosse un reportage cronachistico, bensì
fornire una lettura di quei fatti che fu squisitamente teologica
e non storica.
La
finalità era suscitare la fede negli ascoltatori ben disposti.
Alla base di tutto, dunque, vi furono motivazioni di ordine
kerigmatico, apologetico, liturgico e parenetico.
Tutto ciò ha certamente influenzato la formazione della
tradizione e della redazione del racconto sulla passione e morte
di Gesù. Furono, dunque dei fatti ripensati e ricompresi sotto
questa luce.
Struttura e caratteristiche del racconto marciano
Il
racconto della passione si presenta come un’unità difficilmente
suddivisibile in sezioni o strutture.
Tuttavia, tra le varie proposte offerte dagli esegeti, ritengo
interessante quella di Léon-Dufour, senza, ovviamente, togliere
nulla alle altre.
Secondo Léon-Dufour il racconto della passione è strutturato in
cinque cicli; i primi due formano da preludio, i successivi tre
costituiscono il vero e proprio racconto della passione; ogni
ciclo, poi, si svolge con un ritmo ternario:
1- Ciclo del Tradimento (14,1-11):
Cospirazione del Sinedrio; Cena di Betania; Tradimento di
Giuda;
2-
II
Ciclo dell’Ultima Cena (14,12-25):
Preparazione ultima cena; Traditore svelato; Ultima cena;
3-
III
Ciclo del Getsemani (14,26-52):
Preannuncio dell’abbandono dei discepoli; Gesù al Getsemani;
Arresto di Gesù.
4- IV
Ciclo del processo religioso e civile (14,53 – 15,20b):
Gesù davanti al Sinedrio; Triplice rinnegamento di Pietro; Gesù
davanti a Pilato.
5- V
Ciclo della Crocifissione e morte (15,20c-41):
Viaggio al Calvario; Gesù crocifisso; Agonia e morte di Gesù in
croce.
Il racconto si conclude
con l’appendice della sepoltura, che funge da transizione al
racconto della risurrezione. Benché sia posto come
appendice, tuttavia, il racconto della sepoltura non è di
secondaria importanza dato che esso costituì uno degli elementi
fondamentali del kerigma (1Cor. 15,4). Inoltre fu addotto come
elemento di prova della effettiva morte di Gesù e preparatorio
all’annuncio della risurrezione.
Il sepolcro vuoto
Mc. 16,1-8
Con
questi versetti si chiude il vangelo di Marco, dato che i
successivi vv. 9-20 sono aggiunte che tradiscono una seconda
mano e non sono riportati nei codici più antichi e importanti
(v. pag. 55).
Certo è che una finale così brusca potrebbe stupire, ma essa è
pienamente conforme al messaggio teologico e dottrinale di
Marco, incentrato sul mistero del Cristo crocifisso che si
rivela soltanto nella fede. Benché Marco chiuda la sua opera in
modo così inaspettato, tuttavia gli elementi essenziali
kerigmatico sono tutti presenti: morte, sepoltura, risurrezione
e apparizioni; quest’ultima benché non raccontata come negli
altri evangelisti, tuttavia è predetta in 14,28 “Ma dopo la
mia risurrezione, vi precederò in Galilea” e ancora in 16,7
“Ora andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro, che vi
precede in Galilea. Là lo vedrete come vi ha detto”
Il concetto di vangelo in Marco
Il
termine vangelo in Marco ricorre ben otto volte, contro le
quattro di Matteo e le 2 degli Atti, mentre nessuna menzione è
fatta in Luca.
Di
queste otto volte, cinque sono senza specificazione e le
restanti tre, invece, ce l’hanno.
Per
comprendere, dunque, il senso che Marco attribuisce alla parola
“vangelo” è opportuno compiere un’analisi del testo letterario
in cui tale termine è situatati.
Mc. 13,10
“Ma
prima è necessario che il vangelo sia proclamato a tutte le
genti”
Il
versetto 10 è una interpolazione tra i vv. 9 e 11che parlano di
persecuzione e di testimonianza che i discepoli sono chiamati a
dare. Ciò significa che la proclamazione del vangelo avverrà
proprio nel mezzo delle persecuzioni e nel loro ambito e avrà
una valenza universale.
Quel “prima” più che valore temporale o
spaziale costituisce un semplice aggancio al contesto in cui
avverrà la proclamazione, sottolineando una volta di più come la
testimonianza del vangelo e le persecuzioni formano un binomio
inscindibile e come questo vangelo verrà proclamato e
testimoniato non solo con la parola, ma anche con il sangue.
Una
parola va spesa per l’espressione situata in v. 9 “a
causa mia” che è inserito in un ambito di
persecuzioni e di testimonianza: esso acquista qui una valenza
di sofferenza che il discepolo deve sopportare per l’annuncio:
questo è il destino di chi segue Gesù. Tale senso pesa anche
sugli altri due “a causa mia” che si trovano nei cap. 8,35 e
10,29.
Il
vangelo, dunque, si qualifica qui come quello del Gesù
crocifisso e risorto, testimoniato dai suoi discepoli che
seguono il suo destino.
Mc. 14,9
“In
verità vi dico che dovunque, in tutto il mondo, sarà annunziato
il vangelo, si racconterà pure, in suo ricordo, ciò che ella ha
fatto”
Questo versetto sottolinea, in modo quasi esagerato, come l’atto
della donna di ungere Gesù sarà ricordato ovunque sarà
annunciato il vangelo.
Va
rilevato, in primis, come Marco crea una stretta connessione tra
l’unzione e il Vangelo. Per comprendere il senso di questa
connessione, bisogna comprendere il significato dell’unzione che
viene spiegata da Gesù stesso: “… ungendo in anticipo il mio
corpo per la sepoltura …” (14,8). Quindi l’unzione è
strettamente legata alla morte di Gesù, che sarebbe avvenuta da
lì a pochi giorni, sicché questa scena indica la strada che Gesù
deve percorrere per attuare il piano di Dio.
Pertanto, ancora una volta, Marco lega il Vangelo alla passione
e morte di Gesù, per cui, per Marco, il vangelo è, innanzitutto,
l’annuncio di Gesù crocifisso e della necessità della croce in
tale annuncio.
Mc. 8,5 e 10,29
“Perché
chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”
(Mc. 8,35)
“Gesù
rispose:<< In verità vi dico: che abbia lasciato casa o fratelli
o sorelle o padre o madre o figli o campi a causa mia e
a causa del vangelo …” (Mc. 10,29)
Nei
sopra menzionati versetti Marco evidenzia per ben tre volte “a
causa mia e a causa del vangelo”. Queste espressioni
acquistano il loro senso e affondano le loro radici nel versetto
13,9, in cui spendersi “a causa” di Gesù comporta sofferenze.
Tale senso, qui, viene rispettato e confermato.
Infatti, in 8,35 l’espressione è preceduta dall’annuncio della
passione di Gesù e dalla necessità del discepolo di seguire il
maestro. Così, anche in 10,29 in cui l’espressione è
strettamente legata alle persecuzioni.
Tutto ciò conferma, ancora una volta, il concetto di Vangelo che
Marco ha: annuncio del messaggio di Gesù non disgiunto dal
cammino della croce che ogni discepolo è chiamato a percorrere e
che, proprio in ciò, attua il suo annuncio: quello di Gesù
crocifisso.
Mc. 1, 14-15
“Dopo
che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò in Galilea predicando il
vangelo di Dio e diceva:<<Il tempo è compiuto e il regno di Dio
è vicino; convertitevi e credete al vangelo>>.”
In
questi versetti Marco presenta Gesù come l’annunciatore del
regno di Dio, richiamando in tal modo la figura del messaggero
nel deutero-Isaia al versetto 52,7 (“Come sono belli sui
monti i piedi del messaggero di lieti annunci, che annuncia la
pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza”).
L’annuncio di tale Regno, tuttavia, assume la forma di “mistero”
per “quelli che sono di fuori” e che, invece, viene
affidato ai discepoli. E ciò per la durezza dei cuori che non si
aprono all’annuncio e costringono Gesù a intraprendere la strada
della croce (8,31).
Tale Regno per Marco è già presente in Gesù, benché il suo reale
compimento si ponga al di là della croce. Quindi, si passa da un
Vangelo di Dio, espresso in Gesù, ad un Vangelo proclamato,
sulle orme del maestro, dalla comunità cristiana.
Con
l’espressione “Vangelo di Dio” Marco vuole evidenziare
l’origine dell’annuncio; mentre con quel “Vangelo” indica
l’eredità lasciata alla Chiesa che, sulle orme di Gesù, lo
proclama.
Un’ultima osservazione va fatta sul termine “Vangelo” nel
versetto 1,15. Una forma così asciutta sembrerebbe propria di
Marco, ma, in realtà, essa affonda nella Tradizione delle prime
comunità. Infatti:
-
la formula
pistšuein en tö euaggeliw
non ha paralleli nel NT e
non è nello stile marciano.
- Quanto alla
“fede” Marco ne parla diversamente: per lui è la forza del
fidarsi di Dio, in particolare di fronte alla persona di Gesù.
Pertanto, sembra si possa concludere che Marco ha recuperato
l’intera espressione dalla Tradizione e inserita nella sua
visione di Vangelo.
Mc. 1,1
“Inizio del vangelo di
Gesù Cristo, Figlio di Dio”
“Arc¾
toÚ eØaggel…ou Ihsoà Cristoà, uƒoà qeoà”
Su
questa espressione vanno riportate alcune precisazioni:
-
L’espressione “uƒoà
(tou) qeoà”
non è testimoniata da tutti i codici. La preferenza va per la
formula breve “uƒoà
qeoà”
senza l’articolo, testimoniata anche in Mc. 15,39
(confessione del centurione).
-
Il titolo
Figlio o Figlio di Dio è quello che ha la maggiore valenza
teologica in tutto il vangelo.
-
L’espressione “eØaggel…ou
Ihsoà Cristoà”
è un genitivo che può avere in greco una duplice valenza:
soggettiva o oggettiva. Se oggettiva, come è credibile, allora,
Marco
ci dice che l’oggetto del Vangelo è proprio Gesù Cristo.
Un
ultimo appunto va fatto su quel “Arc¾“
Quale senso attribuirgli?
-
Alla sola
apparizione di Giovanni Battista (1,2-3) ?
-
Alla sola
introduzione del Vangelo (1,1-13) ?
-
Oppure a tutta l’opera di Marco (1 – 16)
?
Sembra essere proprio quest’ultimo il senso; cioè il Vangelo,
così come annunciato dalla Chiesa, accade nel modo in cui marco
lo descrive nella sua opera.
Tale “Arc¾“,
dunque, indica l’inizio di un processo che apre la storia a
nuove prospettive contenute in Gesù e nel suo messaggio.
In
quel “Arc¾“,
dunque, è contenuta tutta la forza del tempo futuro e che apre
la storia alla speranza.
Questo “Arc¾“
è incominciato con l’apparire storico di Gesù e la sua
predicazione, che lo ha portato, per l’ostilità dei capi, alla
morte, che dà al Vangelo un tono nuovo: esso è l’evento della
croce-risurrezione di Gesù, per cui si può parlare di “Vangelo
di Gesù Cristo”, che già da allora,
seppur velatamente, era anche Figlio di Dio.
PARTE ESEGETICA
LA CHIAMATA DEI
PRIMI DISCEPOLI
(Mc. 16 – 20)
Struttura del testo
In
questo passo ci viene presentata la chiamata (a coppie) dei
primi quattro discepoli in un duplice e identico schema
parallelo che si svolge come segue:
-
Gesù passa
presso il mare di Galilea e vede due pescatori;
-
Essi sono
intenti al loro lavoro quotidiano: due stanno gettando le reti e
due le stanno rassettando;
-
Gesù,
rivolgendosi a loro, li chiama, dettagliando la chiamata per i
primi due; solo citandola per i secondi due;
- La risposta
è per tutti e quattro identica: abbandonano subito il loro
lavoro;
- Infine,
tutti e quattro seguono Gesù.
Il
racconto della chiamata dei primi discepoli è riportato da tutti
i sinottici con le seguenti caratteristiche:
- Matteo
riporta quasi integralmente il testo di Marco, mentre Luca, pur
rifacendosi a Marco, tuttavia apporta una sua personale
rielaborazione del testo e dello stesso episodio.
Lo
scenario, per tutti i sinottici, è sempre quello del lago di
Genezaret, ma la chiamata in Luca è preceduta da un’ampia
sezione (Lc. 4,14-44) sul ministero di Gesù e, nell’immediato,
dal racconto della pesca miracolosa, al termine della quale
Pietro e gli altri, presi dallo stupore, riconoscono, quasi come
in una teofania, la potenza di Dio, per cui Gesù non ha che da
cogliere dei frutti già maturi.
Lo
schema usato da Luca, pertanto, è il seguente:
-
Ampia
descrizione del ministero di Gesù (Lc. 4,14-44);
-
Pesca
miracolosa dai toni teofanico;
-
Risposta
alla teofania: stupore e prostrazione davanti a Gesù;
-
Chiamata da
parte di Gesù:
-
Sequela.
Le
premesse, quindi, del ministero di Gesù e la pesca miracolosa
fondano la chiamata di Gesù, che appare come divina e tale è
riconosciuta.
Inoltre, la chiamata, inserita nel ministero di Gesù già
iniziato, sembra voler indicare che i discepoli non solo sono
dei chiamati a seguire Gesù, ma anche a prolungarne il
ministero, quali testimoni privilegiati.
Storia delle Forme: la Chiamata
Lo
schema dei racconti di chiamata, considerato il loro ripetersi,
sembra radicarsi in 1Re 19,19-28 in cui viene raccontata la chiamata di Eliseo da parte di Elia. Qui, come per altre
chiamate del NT, si ha uno schema tripartito:
-
La
descrizione di un
movimento
che porta all’incontro e l’attività
professionale del chiamato;
-
La
chiamata, di cui si descrivono le
modalità: Elia getta il suo mantello su Eliseo; Gesù getta la
sua parola, come in una azione creatrice;
-
La
sequela che comporta sempre un
abbandono della propria professione e un conseguente cambiamento
di vita;
Nei
tempi della risposta, però, si verifica uno scostamento
significativo: in Eliseo è dilazionata; con i discepoli è
immediata, per evidenziare l’urgenza dei tempi, che sono gli
ultimi. Gesù criticherà la dilazione.
Nell’ambito della chiamata dei quattro si
aggiunge un elemento nuovo: “Vi farò
diventare pescatori di uomini” che dà
il senso alla chiamata aprendo delle nuove prospettive per una
missione che si pone nel futuro post-pasquale e la giustifica.
Lettura redazionale (Redactiogeschichte)
Marco situa la chiamata dei primi discepoli immediatamente di
seguito al 1° sommario (Mc. 1,14-15) del ministero di Gesù e al
suo annuncio del Vangelo, quasi a dire che la sequela è
strettamente connessa e si radica nell’annuncio, divenendone, in
tal modo, una risposta radicale.
Significativi, inoltre, sono i nomi dei primi
discepoli (Simone/Andrea e
Giacomo/Giovanni) che compariranno
ripetutamente nel corso di tutta l’opera di Marco (Trasfigurazione,discorso
escatologico, al Getsemani con Gesù).
Essi sono costituiti testimoni fin dall’inizio, creando, così,
un ponte ideale tra Gesù e la prima comunità di credenti.
Analisi del testo Mc. 1,16-20
L’iniziativa di Gesù
Mc. 16 e 19
Il racconto della chiamata inizia con un
movimento di Gesù: “passando”.
È il movimento di Dio che passando in mezzo agli uomini
coinvolge nel suo cammino il destino degli uomini che lo
accolgono.
Il
movimento elettivo avviene presso il mare che in Marco assume
diverse valenze:
- E’ il luogo
dove avviene l’insegnamento;
- Dove
Gesù esprime la sua potenza sulle forze del male (tempesta
sedata; cammino sulle acque);
- Quando Gesù
si muove sul mare esprime l’espandersi della sua missione verso
i pagani;
- Qui ha
valore di inizio della missione discepolare, quasi una nuova
creazione, infatti, tutti i discepoli hanno legata la loro vita
al mare/male, da cui vengono chiamati e ricreati
pescatori di uomini, da
cui si diparte una nuovo mondo: quello dello Spirito.
Legato al movimento di Gesù c’è anche il “vedere”.
Il veder in Marco, precede sempre un’azione di Gesù e, pertanto,
esprime la sua iniziativa.
Il
suo non è un vedere a vuoto, ma finalizzato all’elezione e cade
non su degli uomini anonimi, su dei nomi, per indicare la
stretta relazione tra Gesù e gli eletti.
Nel contesto quotidiano
Mc. 16b e 19b
La chiamata di Gesù coglie i futuri discepolo in
una situazione di normalità quotidiana: è il Dio che passa e nel
suo cammino coinvolge i destini degli uomini disponibili e li
trasforma (vi farò diventare pescatore
di uomini); c’è un cambiamento di
vita: niente è più come prima.
Come si esplicita la Chiamata
Essa si esplicita in tre modi:
-
Formula introduttiva: “Gesù disse
loro”. Quel vedere selettivo ed elettivo si traduce ora in
parola creativa del discepolo, caratterizzata dalla sequela.
- Una
parola imperativa: “Venite
dietro di me”. Con quel “Venite”
Gesù esprime l’autorità di Dio sulla vita degli uomini e sulla
sua disposizione nell’ambito del piano di salvezza.
Con quel “dietro di me”,
usato 5 volte da Mc. in senso spazio-temporale, Marco esprime la
stretta relazione tra Gesù e i suoi discepoli, che quasi
fisicamente ne ricalcano le orme per poi proiettarsi nella
testimonianza post-pasquale.
Questo “dietro
di me” si trova, oltre che qui, anche
in 8,33-34, all’inizio della seconda parte del vangelo e posto
nell’ambito dell’insegnamento sulla necessità della croce nella
sequela di Gesù. Mostra, pertanto, come la sequela porti
inevitabilmente il discepolo al rinnegamento di sé e alla croce
Una
parola al futuro: “e
vi farò diventare pescatori di uomini”
. La congiunzione “kai”,
lì inserita, può assumere un valore finale, per cui l’imperativo
“Venite dietro di me”
è finalizzato al diventare pescatori di uomini, che costituisce
la missione dei discepoli.
Quindi, il seguire
Gesù non è un isolarsi dal mondo (“Facciamo
qui tre tende”), ma un aprirsi alla
sua universalità.
Inoltre, quel futuro
“Vi farò diventare”
sta a significare che ancora non sono pescatori di uomini, per
cui la chiamata inserisce il discepolo in un cammino di crescita
spirituale e di conformità al suo maestro, al termine del quale
lo aspetta la sua missione: essere pescatori di uomini.
L’essere, poi, “pescatori
di uomini” assume una duplice valenza:
soteriologica, in quanto i pescatori/discepoli tireranno fuori
dal mare/male
i pesci/uomini
; ed escatologica, in quanto che la pesca
ha sempre assunto, anche nelle parabole di Gesù, il senso di un
giudizio finale e di separazione da chi resta, invece, nel
mare.
Abbandono del lavoro e del padre
Mc. 1,18 e 20b
La risposta all’appello di Gesù è seguita da quel
“Subito”
che esprime l’urgenza e la determinazione nella risposta.
Tuttavia, ciò che segue al Subito non è la sequela, ma
l’abbandono, da un lato, il proprio lavoro quotidiano e delle
sicurezze ad esso legate; dall’altro, il padre, cioè gli affetti
familiari, in cui uno trova la propria sicurezza psicologica,
spirituale e fisica.
Quindi, ciò che Gesù chiede è lo spogliarsi di ogni sicurezza
per rendersi totalmente disponibili all’appello (V. il
racconto del giovane ricco e di Abramo che lascia la sua terra e
la sua casa). L’abbandono, quindi, è la “conditio sine
qua non” per la sequela.
La sequela di Gesù
Mc. 1,18b e 20c
Il racconto della chiamata si chiude in entrambi
i casi con il verbo “lo seguirono”.
È l’atto conclusivo preceduto dall’accoglimento della chiamata e
dell’abbandono precedenti per abbracciare in piena libertà Gesù
con cui condivideranno la vita e la missione, nonché la croce.
La comunità dei discepoli
È interessante rilevare come la chiamata non è
rivolta a singoli, ma a coppie di fratelli (Simone/Andrea
e Giacomo/Giovanni). Si tratta, dunque
di una “con-vocazione”
che porta alla formazione della prima comunità di discepoli;
questo per dire che la sequela porta alla formazione della
comunità attorno a Gesù.
LA GUARIGIONE DELLA
SUOCERA DI PIETRO
Mc. 1, 29 – 31
Il
passo si presenta in forma concentrica: A A1
C
B B1. Al centro C ci sta l’opera di Gesù, che
presale la mano, la svegliò. Quindi il racconto è una sorta di
cornice che inquadra e mette in rilievo, l’opera salvifica di
Gesù.
Comparazione Sinottica
Mt 8,14-15 // Lc 4,38-39
Il
passo si trova anche in Mt e Lc.
Mc.
e Lc. Pongono il racconto entro contesti molto simili tra loro:
la giornata di un sabato a Cafarnao.
Per
entrambi la guarigione della suocera di Pietro è preceduta dal
racconto dell’esorcismo all’interno di una sinagoga, quasi ad
associare la malattia della suocera ad una forma di possessione
demoniaca. E così, infatti, la interpreterà Lc.; e così la
lascia intravedere Mc.
Mt, invece, inserisce la guarigione della suocera
nell’ambito di 10 guarigioni. Queste vengono lette attraverso la
citazione del Servo sofferente di Jhwh, tratta da Isaia 53,4 (Egli
ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie)
, acquisendo, in tal modo, una coloritura teologica particolare:
Gesù anticipa nelle guarigioni la sua azione redentiva che si
attuerà pienamente e definitivamente nella morte e risurrezione.
Inoltre, in Mt. la narrazione è molto succinta e tutta
incentrata su Gesù e la sua azione; non vi è presenza di altri
personaggi.
In
Lc. sia racconto che contesto, nell’abito del quale il racconto
è posto, sono molto simili, quasi identici, a quelli di Mc.
In Lc. la guarigione assume il valore di un
esorcismo; infatti si dice che Gesù “minacciò
la febbre” che “lasciò”
subito la suocera. Inoltre Lc. aggiunge che si trattava di una “grande
febbre”. Dall’insieme del racconto
lucano sembra che la suocera sia posseduta dalla febbre come da un
demonio. Lo schema prodotto in Lc. è quello dell’esorcismo:
situazione, rimprovero, liberazione.
Storia delle forme
Considerata la vivacità del racconto, pur nella concisione di
Mc., questo dà l’idea di un fatto realmente accaduto sotto gli
occhi di testimoni diretti, quasi per dare conferma testimoniale
delle capacità guaritrici di Gesù, una sorta di autenticazione
anche per le altre guarigioni.
Lo
schema seguito da Mc. è proprio del racconto delle guarigioni:
-
Descrizione
della situazione e dell’incontro con il taumaturgo;
-
Indicazione
o descrizione della malattia;
-
Richiesta di
risanamento;
-
Atto
risanatore con gesto o parola;
-
Constatazione del miracolo;
-
Dimostrazione o conferma della guarigione.
In
questo passo l’idea da veicolare era quella di un Gesù guaritore
e il suo rapporto con Pietro e la sua famiglia.
Lettura redazionale
Versetto 1,29
“E usciti dalla sinagoga, si recarono subito in
casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni”
Alcuni autori a quel “uscire
dalla sinagoga” di Gesù e dei
discepoli danno il senso che, finché si rimane “nella
sinagoga”, cioè nel giudaismo, ci si
pone solo degli interrogativi su Gesù (1,36) senza essere in grado di darsi
una risposta.
Per averla, bisogna “entrare
nella casa di Simone”, cioè nella
chiesa.
Benché tale interpretazione sia molto suggestiva e
significativa, tuttavia essa è molto improbabile.
Più
interessante, invece, è accentare la propria attenzione sul
termine “casa” che in Marco ricorre ben 27 volte.
Essa è vista come un luogo di separazione e di ritiro; un luogo
teologico dove Gesù istruisce, opera e annuncia. In due casi (11,17 e 13,35) assume una valenza ecclesiale.
Verosimilmente si può pensare che il termine
casa
richiami la realtà ecclesiale di Marco e l’esperienza che questa
faceva nella Chiesa radunata nelle case.
Quindi, quanto accade nella casa di Pietro potrebbe alludere
all’esperienza ecclesiale della prima comunità credente. Ciò è
anche confermato dalla presenza di Gesù e dai suoi primi
discepoli, quale primo nucleo fondante la Chiesa.
Versetto 1,30
“Ora,
la suocera di Simone giaceva (letto) febbricitante; e subito gli
dicono di lei ”
In
questo versetto si dicono due cose: la suocera giaceva
febbricitante.
Anticamente la febbre era considerata una malattia che consuma
lentamente la vita e la porta verso la morte; come un castigo di
Dio e, più tardi, come una sorta di possessione demoniaca.
Quel giacere, inoltre, sta ad indicare lo stato di
prostrazione in cui si trovava la donna.
L’insieme del quadro fa capire la gravità della situazione di
una donna fisicamente e moralmente prostrata. La gravità
inoltre, viene accentuata da quel “subito gli dicono di lei”
che funge da richiesta indiretta.
Versetto 1,31/a
“Ed
egli, avvicinatosi, la svegliò, presale la mano”
Il
gesto di Gesù è semplice : le prende la mano. Ma proprio in
questa semplicità del gesto viene esaltata la potenza
taumaturgia di Gesù. È questo il gesto proprio del taumaturgo
che nel toccare trasferisce la propria energia rigenerante e
rivitalizzante.
Il
gesto del guarire “prendendo per mano” trova in Marco
altri due esempi: nel racconto della figlia di Giairo: “Presa
la mano della bambina, le disse …” (Mc. 5,41); nel racconto
del giovane indemoniato: “Ma Gesù, presolo per mano, lo
sollevò ed egli si alzò in piedi“ (Mc. 9,27).
Proprio questo sembra essere il senso di questo racconto: il
riportare la suocera di Pietro da uno stato di morte ad uno di
vita. Ciò viene sottolineato dal verbo
Àgeiren
(risvegliò).
Questo verbo, all’interno delle prime comunità, esprimeva la
risurrezione dai morti e richiamava l’azione battesimale, a cui,
qui, però, non si fa riferimento. Tuttavia, il verbo che
significa svegliare, destare, allude alla condizione di chi
entra a far parte della Chiesa. Infatti, qui, ci sono tutti gli
elementi che lo stanno ad indicare: casa/comunità, presenza di
Gesù e dei discepoli, quale nucleo fondante la chiesa.
Versetto 1,31/b-c
“E
la febbre la lasciò, ed essa li serviva”
Si
vedono qui gli effetti del gesto taumaturgico di Gesù: “La
febbre la lasciò” ed “essa li serviva”. Quel “… la
lasciò”, espresso in greco con l’aoristo che indica un gesto
puntuale nel tempo, sta ad indicare l’immediatezza della
guarigione e la potenza del gesto.
La
dimostrazione della guarigione avviene in quel “… li serviva”;
l’uso dell’imperfetto sta ad indicare un’azione continuativa e
perdurante nel tempo. Questo servire è la conseguenza e la
risposta al “risveglio”. Quindi il gesto taumaturgico di
Gesù spinge al servizio.
Marco, però, ha un concetto particolare di servizio che egli
esprime in 10,45 (“Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto
per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in
riscatto per molti”) da cui traspare chiaramente come il
servire significa mettere la propria vita a disposizione di Gesù
e degli altri e,in particolare, all’interno della comunità.
L’INSEGNAMENTO IN
PARABOLE
Mc
4, 1–34
Il contesto
Le parabole (4,1-34)
si situano all’interno della prima parte del Vangelo di Marco
(1,1-8,30) e all’interno della seconda sezione
(3,7- 6,6/a).
In
questa seconda sezione, che inizia con il secondo sommario
sull’attività taumaturgica ed esorcistica di Gesù (3,7-12),
viene costituito il gruppo dei Dodici (3, 13-19), che forma il
fondamento della futura comunità credente.
Di
particolare rilievo è la sequenza “3, 20-35” in cui si
incomincia a separare “quelli di fuori”
(3,31-32 e 4,11) da “quelli che sono intorno a Gesù con i
Dodici” (3,34 e 4,10). Questi sono la nuova famiglia di Gesù
(3,34).
È
questa, infine, la sequenza in cui Gesù incomincia a parlare per
mezzo delle parabole (3,23 e 4,2), che assumeranno, una funzione
discriminante (4, 11.33-34) tra quelli che odono l’insegnamento
di Gesù.
In
questa seconda sezione, dunque, avvengono tre cose importanti:
- Gesù
costituisce il gruppo dei Dodici a cui affiderà la
continuità della sua missione;
- Compie una
separazione netta tra “quelli dentro” e “quelli
di fuori”, cioè tra quelli che gli credono e quelli no.
- Incomincia
ad insegnare per mezzo di parabole che diventano uno strumento discriminante.
Articolazione narrativa di 4,1-34
Questa sequenza (4, 1-35) si apre con un nuovo scenario: Gesù
non si trova più “in casa” (3,20), ma si trova sul lago.
C’è, inoltre, anche una nuova folla, molto più grande e,
inoltre, qui Gesù per la prima volta incomincia ad insegnare per
parabole, che diventerà il suo strumento di insegnamento e di
separazione.
È,
quindi, uno scenario nuovo per dirci la nuova direttiva che sta
per prendere l’insegnamento di Gesù. Una nuova direttiva, del
resto, che già era stata preannunciata con al costituzione dei
Dodici (3,13ss) che già è una sorta di separazione; infatti,
ogni chiamata ed elezione è una separazione; e con la
separazione tra “quelli di fuori” e “quelli che sono intorno a
lui con i Dodici”.
Il
suo insegnamento è rivolto solo a coloro che sono disponibili ad
accoglierlo.
Questa sequenza, inoltre, sembra presentare delle incongruenze:
- In 4, 1-2,
Gesù è in riva al lago in mezzo ad una grande folla;
- Poi in 4,10
appare, all’improvviso e inaspettatamente, da solo con “quelli
che erano intorno a lui con i Dodici”;
- Infine, in
4, 33-34 Gesù sembra essere tornato nuovamente in mezzo alla
folla.
Qual è, dunque, il senso di questa apparente disarticolazione?
Cosa vuol dirci con ciò Marco?
A)
L’insegnamento di Gesù
Mc. 4, 1-3
Il
passo incomincia con il dire che “Gesù incominciò ad
insegnare”; che “insegnava loro molte cose in parabole”
e che “diceva loro nel suo insegnamento”.
Queste tre espressioni lasciano intendere che, qui, Gesù
incomincia ad attuare un ampio insegnamento che va ben al di là
delle singole parabole riportate (4, 3-9; 4,26-29;
4,30-32).
Inoltre, quel “Ascoltate”, che introduce la parabola del
seminatore, sembra confermare un discorso più ampio che si
svolge con le modalità della parabola.
Ciò
è anche rafforzato da 4,10 in cui si parla di “parabole” e non
al singolare “parabola”.
B) La domanda rivolta a Gesù
Mc. 4,10
Qui
i discepoli chiedono a Gesù la spiegazione delle “parabole”,
mentre precedentemente era stata riportata solo quella del “Seminatore”.
La soluzione sta nel fatto che quella del Seminatore era
solo esemplificativa di un ben più ampio discorso parabolico.
Questa domanda (“I suoi insieme ai Dodici lo interrogavano
sulle parabole”) serve a Marco ad un duplice scopo: da un
lato, spiegare perché Gesù insegna solo per mezzo delle
parabole, confermando in tal modo la separazione tra “quelli
di fuori” e “quelli di dentro” di cui già si era
accennato in 3, 21.31.34 e che, poi si riprenderà in 4,11.33-34
; dall’altro gli serve per introdurre la spiegazione della
parabola del Seminatore.
C) Il dialogo in disparte
Mc. 4,10-25
Si
viene qui a creare una nuova situazione: mentre prima, in 4,1-2,
Gesù era in mezzo alla folla (“E si riunì attorno a lui una
folla enorme”), qui si ritrova solo con “i suoi insieme a
Dodici”. Infatti, con il versetto 4,10 si viene a creare una
netta separazione tra la folla e “quelli che stanno attorno a
lui con i Dodici”. Con questo artifizio, Marco si rende
conto che Gesù stava in mezzo alla folla, ma separandola dai
suoi introduce un nuovo scenario, la cui spiegazione viene data
al versetto 4,11.
D) Le due parabole del Regno
Mc. 4, 26-29 e 30-32
Vengono qui presentate due parabole del Regno (quella della
Semente e quella del Seme di senapa).
Tali parabole, ai vv. 4,33-34 vengono riagganciate
all’insegnamento che Gesù rivolgeva, prima del 4,10, alle folle,
delimitando, pertanto, l’insegnamento “in disparte” ai
versetti 4,10-25.
Con
tali parabole, quindi, Marco, da un lato, fa rientrare Gesù tra
la folla, e, dall’altro, chiude la parentesi del discorso fatto
“in disparte” ai suoi.
E) Il sommario
Mc. 4,33-34
L’intento di questo sommario non è quello di riepilogare
l’attività di Gesù in riva al lago, bensì offrirci una linea di
comportamento nuova in Gesù: quella, da un lato, di parlare solo
in parabole; e, dall’altro, quella di spiegarle ai suoi
separatamente dalla folla, annunciando, in tal modo, una
separazione tra “quelli di fuori” e “quelli che sono
intorno a lui con i discepoli”.
F) La ripresa narrativa
Mc. 4,35-36
Con
questi versetti, Marco oltre che concludere il discorso sul
lago, dandogli così una fine logica, introduce anche quanto
segue immediatamente: la tempesta sul lago.
G) Conclusione e riepilogo
Riepilogando, si può dire che la sequenza dell’insegnamento in
parabole (Mc. 4,1-34) è inserita nella seconda sezione (Mc. 3,7
- 6,6/a) della prima parte del Vangelo (Mc. 1,1 – 8,30).
Questa seconda sezione si sviluppa come segue:
- Inizia con
un sommario dell’attività taumaturgica ed esorcistica di Gesù
(Mc. 3,7-12);
- Prosegue con
la costituzione del gruppo dei Dodici (Mc. 3,13-19);
-
Si apre,
poi, un primo scenario: “Entrò in una casa e si radunò di
nuovo attorno a lui molta folla” . Con tale scenario si
apre un discorso molto importante sul metodo di insegnamento di
Gesù (Mc. 3,20-35).
In
queste prime tre battute Gesù imposta il suo metodo di lavoro:
A)
Costituisce il gruppo dei
Dodici (Mc. 3,13-19) a cui affidare il suo insegnamento e il
proseguo della sua missione.
B)
Distingue la gente in due
gruppi: “quelli di fuori” che dubitano di lui (Mc.
3,31-32) e “quelli intorno a lui” che definisce la sua
famiglia (Mc. 3,34)
C)
Infine, Gesù incomincia a
insegnare per mezzo di parabole (Mc. 3,23)
Ed
ecco che con il capitolo 4, 1-34 Gesù dà inizio all’insegnamento
per parabole assunte come metodo di insegnamento.
Infatti con 4,1-2 si imposta l’inizio di un qualcosa di nuovo.
Ciò lo fa capire il cambio di scenario: dalla “casa” in
cui è entrato al 3,20 e dalla folla quivi radunata intorno a
lui, si passa “lungo il mare” dove c’è una nuova folla,
definita qui, in contrapposizione a quella attorno alla casa, “enorme”
(Mc. 4,1); inoltre al 4,2 si parla di un insegnamento su molte
cose fatto in parabole. Quindi, benché, poi, segua solo la
parabola del Seminatore (Mc. 4,3-9), in realtà
l’insegnamento è ben più ampio e implica il metodo delle
parabole.
Terminata la parabola del
Seminatore, Marco introduce, a
sorpresa, la sezione 4,10 esordendo con quel “Quando, poi, fu
solo”. Marco sa di aver iniziato in 4,1 in mezzo ad una enorme folla, per cui, ora, con questo cambio di scenario
improvviso e inaspettato, opera un inciso, che va dal 4,10 al
4,25, con cui raggiunge due scopi:
-
Spiegare
perché egli parli solo per mezzo di parabole, motivando il suo
nuovo metodo di insegnamento.
-
Spiegare il senso della parabola del
Seminatore.
Il
tutto termina con due
lÔgia
sulla
lucerna e sulla misura (Mc. 4,21-25).
L’inciso, pertanto, iniziato con il 4,10. termina qui con il
4,25.
Con
due parabole sul Regno (4,26 “la Semente” e 4,32 “Il
granello di senapa”) Marco riprende l’insegnamento alle
folle, lasciate in riva al mare con la sospensione di 4,10.
Ciò
lo si arguisce grazie ai versetti 4,33-34. Infatti, in essi si
legge “Con molte parabole di questo genere annunziava loro la
parola come potevano intendere”. L’espressione “di questo
genere” fa riferimento alle due parabole in 4,26 e 4,32;
mentre l’espressione “annunziava loro secondo quello che
potevano intendere” si riferisce alle folle di 4,10.
Ecco, dunque, come Marco riprende il discorso lasciato in
sospeso e, qui, lo chiude.
Infine, questi due versetti, 4,33-34, costituiscono da soli un
sommario che ha una molteplice funzione:
-
Affermare
che, quanto detto sopra, si tratta di un ampio discorso condotto
per mezzo di parabole.
-
Costituire
una logica conclusione di tutto l’insegnamento dato sul lago
alle folle e che in 4,10 erastato sospeso.
- Offrire una
linea di comportamento nuovo in Gesù: quello di parlare per
mezzo di parabole e di spiegarle a parte ai dodici.
- Introdurre
alla tempesta sul lago. (4,36).
La struttura del testo di 4,1-34
La
struttura del testo è concentrica e mette in rilievo la
centralità della spiegazione della parabola.
La
sezione è così strutturata:
A)
Introduzione narrativa
(4,1-2) Spiegazione A’) Conclusione narrativa
(4,33-34)
della
B)
Parabola del seminatore
(4,3-9)
Parabola
B’) Parabole del
Regno (4,26-32)
C)
Affermazioni
generali (4,11-12) Mc.
4,13,20 C’)
Affermazioni generali (4,21-25)
La
struttura, dunque, è formata da:
-
una
Introduzione e una Conclusione;
-
da tre
parabole: una del seminatore e due del Regno;
-
da due passi
di Affermazioni generali.
Il
tutto forma una sorta di triplice cornice finalizzata a mettere
in evidenza il senso della spiegazione della parabola.
Nella “Introduzione narrativa” (4,1-2) vengono evidenziati tre
elementi importanti:
- L’insegnamento viene fatto per mezzo di parabole: “Insegnava
loro molte cose in parabole”.
- Gesù è
seduto: “… e là restò seduto” ; è la posizione del
maestro che deve dare un insegnamento importante.
- Vi è una
folla enorme: “E si riunì attorno a lui una folla enorme”
Questi due ultimi elementi danno da pensare che quanto segue è
di vitale importanza.
All’ “Introduzione narrativa” (4,1-2) fa eco la “Conclusione
narrativa” (4,33-34) in cui viene ribadito, in modo sommario
che “con molte parabole annunciava loro la parola” e “Senza
parabole non parlava loro”.
L’elemento evidente che compare è il termine
parabola,
peraltro citato ben sette volte nella presente sezione.
Tutto ciò sta a significare che lo strumento letterario della
parabola sarà di grande importanza nell’ambito di tutto
l’insegnamento e l’annuncio di Gesù, e a maggior ragione se lo
pensiamo come l’unico ed esclusivo strumento di comunicazione e
di insegnamento: “Senza parabole non parlava loro”.
Ora, rimane da capire perché Gesù utilizzi solo lo strumento
delle parabole per il suo insegnamento.
La
risposta ci viene offerta da versetti 4,11-12: “A voi è stato
dato il mistero del Regno di Dio; a quelli di fuori, invece,
tutto viene esposto in parabole, perché guardino, ma non
vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e
non venga loro perdonato” .
Come si può ben vedere la parabola diventa uno strumento di
discriminazione che spacca in due l’auditorio di Gesù: “Voi”,
cioè quelli che stanno attorno a Gesù e che Gesù ha eletto per
sua famiglia (3,34); e “quelli di fuori”, cioè
quelli che non stanno attorno a lui e non appartengono alla sua
famiglia.
È
interessante rilevare come con l’espressione “quelli di fuori”
nella prima comunità cristiana erano designati in “non-credenti”.
Sono quelli, in sostanza, che pur avendo ascoltato
l’insegnamento di Gesù, non l’hanno accolto. Questi sono messi
in contrapposizione al “Voi”, cioè quelli intorno a Gesù
insieme ai Dodici (4,10) e che hanno fatto un’opzione di fede,
rendendosi disponibili ad accogliere il messaggio.
A
questi, dice Marco, “è stato dato il mistero”, ossia il
disegno salvifico di Dio. A questi viene spiegato “a parte”
il senso delle parabole e ciò per dono di Dio (“è stato dato”,
trattasi di un passivo teologico, in cui l’attore principale è
Dio).
Un
rilievo va posto nella seconda parte del v. 4,11: “A quelli
di fuori, invece, tutto avviene in parabole”. Viene qui
descritta la condizione dei non-credenti. Quel “tutto” è
posto in parallelo al “mistero del Regno di Dio” e ad
esso si riferisce. Ebbene, per i non-credenti questo Regno di
Dio viene annunciato con parabole, cioè con delle immagini che
possono cogliere con la loro intelligenza, ma che rimangono
impenetrabili nel loro contenuto. Per questo occorre
l’intelligenza di Dio che viene da lui data solo a chi vuole. La
loro cecità, dunque, è perseguita da Gesù intenzionalmente.
Questa intenzionalità è espressa dalle due finali: “Affinché
guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano; affinché
non si convertano e non venga loro perdonato”.
Questa frase viene rilevata da Marco dal profeta Isaia (6,9-10)
in cui si parla dell’indurimento del cuore che, oltre alla
responsabilità dell’uomo, implica anche l’azione di Dio.
Marco, pertanto, citando Isaia, trasferisce e applica tale
contenuto e senso a “quelli di fuori” quasi per dire che
la loro incredulità rientra in un piano divino. La cosa balza
meglio agli occhi nella contrapposizione delle due espressioni “A
voi è stato dato”, mentre a “quelli di fuori” viene
oscurato il messaggio per mezzo della parabola.
In
entrambi i casi si usa il passivo teologico per indicare che in
tutto ciò c’è l’azione di Dio sull’uomo.
Questa discriminazione fatta da Dio dipende dall’uomo, cioè
dalla sua disponibilità ad accogliere l’evento del Regno. Per
questo ai credenti, proprio per la loro disponibilità ad
accogliere, viene spiegato a parte per soccorrere la loro in
inintelligenza. Mentre ai non-credenti, proprio per la loro
incredulità e durezza di cuore, non si offre nessuna
spiegazione.
Per
questo la parabola diventa discriminante: essa è accessibile
solo a chi crede.
Ai
vv. 4,1-2, fanno eco i vv. 4,33-34. Essi evidenziano, una volta
di più, la discriminazione operata per mezzo della parabola: “…
come potevano intendere” e ancora “… ma in disparte , ai
suoi discepoli spiegava ogni cosa”.
Ciò
sta a significare che quelli che sono intorno a Gesù hanno una
comprensione piena del messaggio espresso in parabole, perché
ciò è stato dato loro da Dio; per questo hanno una comprensione
superiore. In altri termini, serve il dono della grazia per
poter cogliere il disegno di Dio. L’uomo con la sua sola
intelligenza si ferma alla scorza della parabola; per
arrivare alla polpa serve la spinta di Dio, che è un dono.
Infatti, per “quelli di fuori” la parabola diviene un
muro difficilmente valicabile con le loro sole forze, che sono
espresse con quel : “… come potevano intendere” posto al
v. 4,33.
Inoltre, la discriminazione fra gli uditori di Gesù, di cui la
parabola è lo strumento attuatore, è evidenziata dalla stessa
struttura della sezione 4,1-34.
Infatti con i vv. 4,1-2 Gesù è presentato in riva al lago con
una enorme folla attorno a lui, tra cui, però, non compaiono i
discepoli e alla quale Gesù parla in parabole. È interessante
notare qui l’assenza di “quelli che stanno attorno a lui con
i Dodici”, da un lato; dall’altro il fatto che Gesù parla in
parabole, la cui finalità, come si è visto, è quella di
separare.
All’improvviso, però, al 4,10 cambia completamente lo scenario:
non c’è più la folla, né è menzionato il luogo, quasi per creare
uno stacco netto. Qui la situazione è rovesciata: non si parla
più di folla, ma ci sono solo “quelli insieme a lui con i
Dodici” ai quali, invece, spiega le parabole.
Ecco, dunque, ancora una volta, evidenziata la separazione come
metodo di annuncio, e qui fatta per mezzo della struttura stessa
della presente sezione, contrapponendo i vv. 4,1-2 al v. 4.10.
Del
resto questa “separazione discriminante” che sembra
essere l’elemento caratterizzante l’annuncio di Gesù e di cui le
parabole sono lo strumento attuatore, non compare solo qui in
4,1-34 ma è già preannunciato in 3,21 (“… i suoi uscirono
fuori”); in 3,31 (“… e stando fuori mandarono a chiamarlo”)
e in 3,32 (“… quelli che stanno fuori ti cercano”); e in
contrapposizione 3,34 (“… e guardando intorno quelli che gli
stavano seduti attorno in cerchio, dice: ecco mia madre e i miei
fratelli”)
La fine dell’accecamento
Mc. 4, 21-25
Anche la struttura di questo passo è concentrica secondo lo
schema: A B C A’ B’
All’interno dei vv. 4, 21-25 viene ripetuta due
volte l’espressione “Diceva loro”.
La prima serve per staccare con la “spiegazione della parabola”
precedente; la seconda per dividere il blocco in due unità
strutturalmente identiche: ci sono due immagini (la
lampada e la misura) seguite da una
massima di carattere generale. Al centro due ammonizione
all’ascolto.
Prima parte del blocco: la lampada
Mc. 4,21-23
Questo detto, probabilmente è una risposta a chi faceva
pressioni su Gesù o la Chiesa a moderare la loro azione e il
loro annuncio per non incorrere in sanzioni o persecuzioni da
parte delle autorità. La lucerna, chiaramente, simboleggia Gesù
o la Chiesa nella loro funzione di illuminare. Ma che cosa deve
illuminare la venuta della lucerna? Lo si arguisce dal versetto
immediatamente successivo: ciò che è nascosto, poiché il destino
del nascosto è quello di essere messo in luce.
Appare, dunque, chiaro che la funzione di questa lucerna è
quello di rivelare e rendere raggiungibile ciò che
è nascosto.
Ma
in che consiste questo nascosto?
La
terminologia nascosto/manifesto, segreto/luce ci rimanda
nell’ambito del mistero che in Mc. 4,10 si rivela essere il
Regno di Dio.
Esso è già avvenuto, come cosa segreta, in Gesù ed è
nascostamente presente nella Chiesa; ed ora, essi, quali
“lucerne” lo rendono manifesto con le loro opere e messaggio.
Il
tutto termina con un invito ad ascoltare, cioè a rendersi
disponibile ad accogliere l’illuminazione della lampada: “Se
uno ha orecchi per intendere, intenda”.
In
conclusione, potremmo dire che nei vv. 4,21-23 c’è, da un lato,
l’annuncio della rivelazione che sarà tale per tutti;
dall’altro, l’ammonimento a non perdere quei beni che ci sono
stati dati con l’annuncio.
Seconda parte del blocco: la misura
Mc. 4, 24-25
Con
i versetti 4,24-25 si introducono dei detti di Gesù il cui
significato richiama il giudizio escatologico per la presenza di
verbi quali “sarete misurati”, “sarà dato” che
indicano delle azioni future, il cui soggetto sottointeso è Dio.
Questa seconda parte inizia con il verbo “Fate attenzione
a quello che ascoltate”. È, quindi, un forte richiamo il
cui accento cade sull’ascolto che chiarisce il senso dei verbi “misurare”
e “avere”.
L’ascolto, quindi, deve portare ad
attribuire il giusto valore
(misurare)
alle cose ascoltate nell’annuncio del regno di Dio.
Siamo, dunque, di fronte a coloro che hanno già
ascoltato la Parola. È un invito, pertanto, a conservare nel
tempo quell’avere,
cioè la fede e il Regno, che è stato dato loro; e questo al fine
di essere anche loro misurati, cioè valutati sull’atteggiamento
di disimpegno negligente nei confronti del Regno dato, perché
può essere anche tolto e perso perché non apprezzato.
La parabola del seminatore
Mc. 4, 3b – 8
La
parabola è una forma di paragone in cui il secondo termine di
paragone va ricercato nell’ambito di tutto il racconto e, in
particolare, nella sua punta.
La
parabola del seminatore si presta ad una duplice
interpretazione:
- Parenetica
-
Storico-salvifica
Aspetto parenetico
L’aspetto parenetico, benché ancor oggi di uso comune come lo fu
nell’esegesi patristica, ha molti motivi a sfavore:
- Nelle
parabole e metafore a sfondo parenetico, prima viene presentato
l’aspetto positivo, poi quello negativo; vedasi ad es. “La
casa sulla roccia contrapposta a quella sulla sabbia”
o “Le cinque vergini sagge contrapposte a quelle stolte”
. In questa parabola, invece, la struttura è inversa: prima si
parla dei terreni cattivi, poi di quelli buoni.
-
L’immagine
dei terreni non si presta alla parenesi perché è statica: un
terreno cattivo non diventa mai buono;
- Inoltre, la struttura stessa del racconto esclude la parenesi:
la struttura di superficie è quaternaria, scandita per
quattro volte dal quel “parte cadde”.
Quella di fondo, invece, è binaria: “non
dare frutto” e “dare
frutto” che ha come parallelo i “tre
terreni infruttuosi” e i “tre
fruttuosi”.
-
A dare
unitarietà a tutto il racconto è la figura del seminatore e il
suo gesto del seminare, per cui unico è il dramma narrato:
quello del successo
e dell’insuccesso,
simboleggiato dai terreni infruttuosi
e da quelli fruttuosi
in cui il frutto matura senza più intoppi.
Pertanto, l’interpretazione parenetica non sembra essere
condivisibile. Infatti i toni della parabola non sono di tipo
esortativo. Sia la resa del terreno che la sua infertilità sono
giustificate da un semplice elenco di cause che non coinvolgono
la libertà dell’uomo, per cui sono sottratte all’impegno della
persona. Pertanto, non si dà parenesi.
Aspetto storico-salvifico
Questo secondo aspetto può avere una duplice soluzione:
- escatologica
- apologetica
L’interpretazione escatologica
contrappone all’insuccesso iniziale il successo finale. Questa
interpretazione si appoggia sul fatto che un gruppo di parabole
riguardanti il Regno (granello di
senape, lievito: Mt. 13, 31-33; semente che cresce da sola:
Mc.4,26-29) mostra questa struttura di
contrasto. Questa, pertanto, diventerebbe una lettura di
speranza.
Infatti, visti gli insuccessi di Gesù e della prima Chiesa,
perseguitata, questi potrebbero far pensare che l’escatologico
Regno di Dio non sia ancora in atto. Ad essi si ribadisce che,
nonostante gli insuccessi, Dio sta per instaurare gradualmente
il suo Regno e il suo intervento porterà il frutto sperato ed
atteso.
Sennonché in questa parabola non si parla di Regno, non c’è il
contrasto tra il presente e il futuro e, infine, le perdite di
semente gettata su terreni infecondi, non sono così
catastrofiche da far pensare alla perdita di tutto il raccolto.
Sono perdite normali messe in conto da ogni agricoltore.
Per
questi motivi l’interpretazione escatologica non sembra
convincente.
L’interpretazione apologetica
sembra essere quella più attendibile. Infatti, la parabola
accentra la sua attenzione sull’insuccesso della missione di
Gesù o della Chiesa e lo fa in modo analitico. Si parla,
infatti, del tipo di terreno: strada, sassi e spine; degli
elementi di contrasto: uccelli, sole, crescita delle spine; e
delle conseguenze negative: “mangiarono”,
“seccò”, “soffocarono”.
Il tutto viene fatto rientrare nella normalità di una semina,
come tante volte i contadini hanno sperimentato. Quindi,
l’infruttuosità del terreno rientra nella logica della
normalità, poiché a fianco dell’insuccesso c’è, comunque, un
terreno variamente fruttuoso.
Pertanto il dramma non è quello dei terreni, bensì quello del
seminatore, che dà unità a tutto il racconto, e del suo gesto di
seminare che può essere fruttuoso e infruttuoso.
È, quindi, la fruttuosità e l’infruttuosità che costituiscono
il dramma del contadino che semina.
Ma
tra la fruttuosità e l’infruttuosità l’accento viene posto
sulla infruttuosità; è questa che crea preoccupazione e
costituisce il dramma del contadino. Infatti, la fruttuosità
occupa solo un versetto (4,8), mentre il tema dell’infruttuosità
occupa ben quattro versetti (4,4-7) e viene descritta in modo
minuzioso e particolareggiato. Se così è, allora, non regge più
l’interpretazione escatologica, anche perché il racconto non
pone differenze tra tempi presenti e quelli futuri, ma solo un
raffronto tra terreni: quelli infruttuosi, su cui Marco si
concentra, e quelli fruttuosi che sono appena accennati.
Inoltre, la fruttuosità non è poi così eclatante, ma piuttosto
modesta.
Pertanto, ciò che rileva è l’infruttuosità
su cui si insite e la si descrive in modo particolareggiato e
minuzioso: si parla, infatti, del tipo di terreno: strada, sassi
e spine; degli elementi di contrasto: uccelli, sole, crescita
delle spine; e delle conseguenze negative: “mangiarono”,
“seccò”, “soffocarono”.
Tuttavia, il dramma della infruttuosità viene affrontato in
termini sereni perché già scontati. Infatti il contadino,
proprio perché il terreno prima della semina non veniva arato,
si attendeva che una parte della semente non portasse frutto e
andasse, quindi, perduta.
La
risposta apologetica, pertanto, afferma che è inevitabile che
quando si semina succeda così, cioè che una parte della semente
vada perduta. Così come è inevitabile che quando si semina
nell’ambito della storia si abbiano degli insuccessi, proprio
per i limi di questa storia e degli uomini che la producono.
La
parabola, pertanto, diventa essere anche una risposta alle
attese escatologiche del tempo che si figuravano un avvento
sconvolgente e rinnovatore della potenza di Dio che, distrutto
il regno del male, instaurava definitivamente e con potenza
gloriosa la Signoria di Dio in mezzo agli uomini.
Niente, quindi, segni potenti o sconvolgimenti della storia. Il
Regno di Dio che viene con Gesù non annulla la storia e
l’operato dell’uomo, ma li riscatta dall’interno inserendosi in
essi e nel rispetto della libertà dell’uomo che vi si può anche
opporre.
È
Dio stesso, quindi, che accetta di inserirsi nei limiti della
storia umana accettandone tutte le conseguenze: una storia che
limita anche l’azione di Gesù e con cui Gesù deve fare i conti
(Fil. 2,6-8).
Sembra essere questa una prima intuizione di Gesù che la sua
missione può anche fallire per la durezza del cuore degli
uomini. Gesù, comunque, sembra accettare questa sua fatica di
essere uomo in modo pacifico e senza agitarsi. Egli rimane
fedele a se stesso e alla sua missione fino alla morte.
Il
motivo di questa parabola risiede, quasi certamente, nel dubbio
dell’efficacia dell’azione di Dio in Gesù e nella sua Chiesa
dato che i risultati offerti erano ben lontani dalle
aspettative. È, pertanto, un invito a prendere coscienza che
l’uomo ha le sue resistenze di fronte all’azione di Dio.
Reale, pertanto, sembra essere il tono apologetico.
Marco, con la parabola del seminatore, sembra voler attirare
l’attenzione sul dramma della Parola nell’impatto con l’umanità:
essa può anche essere rifiutata, ma anche accolta e, dove ciò
accade, essa porta variamente il suo frutto.
Tutto ciò è visto da Marco in un’ottica di normale dialettica,
che non deve né stupire né demoralizzare o deludere, dato che
questa parola, cioè la predicazione missionaria della Chiesa,
porterà, comunque, il suo frutto.
Le due parabole del Regno
Mc. 4, 26-29 e 30- 32
Con i vv. 4, 26-32 si apre il racconto di due
parabole incentrate sul discorso del Regno: “la
semente che cresce da sola” e “il
granellino di senapa”.
Esse formano un unico blocco suddiviso in due
unità. Infatti, la duplice espressione “Diceva
loro” assume una doppia funzione: la
prima separa questo blocco dalla precedente spiegazione della
parabola del seminatore e, nel contempo, introduce la prima
parabola del Regno; la seconda, invece, divide il blocco in due
e introduce la seconda parabola del Regno.
La semente che cresce da sola
Mc. 4, 26-29
Questa prima parabola inizia con un paragone: “Il
Regno di Dio è come un uomo che getta il seme
nella terra” in cui i termini di
paragone sono il Regno di Dio e il resto della parabola che nel
suo svolgersi dinamico esplicita un aspetto di questo Regno.
Questo racconto, a seconda delle accentuazioni poste sui vari
aspetti della parabola, può produrre diverse interpretazioni. È
necessario, quindi, cogliere la parabola nel suo insieme.
Il
racconto presenta tre momenti:
-
il v. 4,26
in cui si parla della semina;
- i vv.
4,47-28 in cui si parla della crescita spontanea della semente e
della corrispondente inattività del contadino;
- il v.
4,29 in cui si presenta l’improvviso (“subito”)
passaggio da uno stato di inattività ad uno di attività del
contadino e della conseguente mietitura.
Il
racconto ha una struttura binaria incentrata sulla
contrapposizione “otan
de” (ma
quando) attorno a cui ruotano i due
termini di contrapposizione: i vv. 27-28 e il v.29.
Infatti, nei vv. 27-28 l’attenzione è incentrata sulla
inattività del contadino, accentuata ancor più dall’attività di
crescita autonoma della semente.
Nel v. 4,29, invece, l’attenzione è accentrata
sull’improvvisa ripresa dell’attività del contadino, che viene
rimarcata sia da quel “subito”
che da quella contrapposizione avverbiale “otan
de”.
All’improvviso cambia tutto.
I termini contrapposti sono “inattività”,
mentre il seme ancora immaturo sta crescendo; e l’improvvisa “attività”,
quando la messe è divenuta matura.
Quindi, parafrasando il Qoelet, potremmo dire che ogni cosa ha
il suo tempo: c’è un tempo per l’inattività e uno per
l’attività.
Viene, quindi, qui, evidenziato un protagonista
che tiene due comportamenti distinti, dettati da due diversi
tempi: uno della crescita, è il tempo dell’attesa e della
speranza; uno dell’azione, è il tempo della mietitura, che
secondo sia l’AT che il NT, assume il senso del giudizio divino
(Gl. 4,13, in cui si parla della
mietitura come del “Giorno del Signore”, inteso come giorno del
giudizio di Dio).
La
logica della parabola sembra, dunque essere questa: come il
contadino non può intervenire se non dopo la maturazione della
messe, così Dio deve attendere la maturazione della sua Parola
gettata sul mondo.
In
altri termini, Dio ritornerà e porrà fine alla storia con il suo
giudizio solo quando la sua parola sarà stata diffusa tra tutte
le genti, seguita dalla conversione dei giudei e dei pagani.
Con
tale parabola, infine, Marco risponde alla sua comunità, vessata
dalle persecuzioni e guerre, sembra essere in crisi verso la
Parusia che sembra non compiersi.
Il granello di senapa
La seconda parabola del
Regno si incentra sulla evidente contrapposizione “piccolo –
grande”. Infatti, il Regno, dice Marco, “è come un
granello di senapa che, quando è seminato per terra, è il più
piccolo, ma poi diventa il più grande di tutti gli
ortaggi ”. Una grandezza che viene accentuata ancor più
dall’estrema piccolezza del seme. E la punta della parabola è
proprio questo contrasto tra la piccolezza del prima e la
grandezza del poi.
Per meglio comprendere il
senso del racconto va focalizzato l’albero grande: questa
immagine è classica nella Bibbia (Ez.17,23; 31,6; Dn. 4,12.21)
per indicare il re il cui potere assicura protezione ai sudditi.
Come il re, così è il Regno.
La fase della “grandezza
dell’albero”, quindi, allude al Regno escatologico di Dio,
cioè un regno giunto nella pienezza del suo sviluppo e della sua
manifestazione. Infatti, l’albero grande indica un albero giunto
alla sua fase più piena e definitiva di sviluppo e, cioè, il suo
ultimo stadio.
Pertanto, il Regno,
identificato in tale albero grande, è un regno che ha raggiunto
la sua fase piena ed ultima ed è, pertanto, un regno
escatologico.
E come nel seme piccolo è
già racchiuso l’albero grande, creando così una continuità tra
il piccolo e il grande, così anche il regno presente, seppur
piccolo e quasi impercettibile, racchiude già in sé quell’azione
escatologica di Dio che condurrà tale Regno ad essere il più
grande di tutti e alla sua piena e definitiva manifestazione.
Ciò è come dire che
l’azione escatologica di Dio è già presente e iniziata; il
diventare definitiva è solo una questione di tempo, un tempo che
è segnato dall’attesa e dalla speranza.
Tutto ciò per far
comprendere la significatività dell’attività di Gesù che, seppur
iniziata ede espressa con modestia di termini, tuttavia segna
l’inizio degli ultimi tempi. L’escatologia è già iniziata ed è
qui presente e in Cristo risorto già compiuta anticipatamente.
Il piccolo seme
rappresenta il tempo della Chiesa, modesto nel suo svolgersi, ma
aperto ad una grande speranza per la quale ogni credente è
impegnato nell’oggi.
LA FIGLIA DI GIAIRO
Mc. 5, 22-24/a . 35-43
La struttura del testo
Il racconto si snoda
scorrevole. Dopo la cornice del v. 5,21 il racconto si sviluppa
in quattro scene, intercalate dalla guarigione della emoroissa
(Mc. 5,24b-33), posta tra la prima e la seconda scena.
Ogni scena si apre con un
verbo che indica movimento:
œcromai
(andare-venire)
e
eisporeumai
(entrare) che stanno ad indicare un cammino che
dall’esterno porta gradualmente fino all’intimità della camera
in cui si trova la fanciulla.
Lungo questo cammino
avvengono delle selezioni e delle elezioni:
- Nella
prima scena Giairo supplica Gesù ed Egli va con
lui accogliendo, in tal modo, la sua richiesta. La richiesta di
Giairo funziona da programma che unifica tutto il racconto: “Venendo,
tu imponga le mani, sia salva e viva”.
- Nella
seconda scena Gesù permette
di seguirlo solo ai tre discepoli (prima elezione):
Pietro, Giacomo e Giovanni. Saranno i testimoni del miracolo.
-
Nella terza scena Gesù caccia via
tutti e “prende con sé” i genitori della fanciulla e “quelli con
lui”. (seconda elezione)
In altri termini, Gesù
accoglie con sé solo quelli che gli credono e allontana,
invece, in non credenti. È una cammino, quindi, che ha come
discriminante la fede, che viene prova da difficoltà che si
frappongono lungo il cammino:
- Tra la prime e seconda
scena si introduce la guarigione dell’emoroissa che rallenta il
cammino di Gesù, aggravando, in tal modo, l’attesa.
- Nella
seconda scena si annuncia la morte della fanciulla
e si invita Giairo a rinunciare all’intervento di Gesù.
- Nella
terza scena viene confermata la morte della
fanciulla, data la presenza di quelli che urlano e strepitano e
che, poi, deridono Gesù. Di fronte a tale incredulità, da un
lato, Gesù esorta ad aver fede; dall’altro opera una selezione
discriminante ed elettiva.
Ancora, tutto il racconto
ruota intorno ai termini “morte – vita” :
-
“La
figlia mia è in fin di vita” ;
-
“La
figlia tua è morta” ;
-
“La
ragazza non è morta” ;
-
“Fanciulla,
dico a te, svegliati”.
Infine, stupisce l’ordine
che Gesù dà che “nessuno venisse a conoscenza di questi”
dato che la casa era piena di gente. In realtà, l’ordine è un
invito a dare la giusta interpretazione al miracolo.
La spiegazione del
testo
Analisi delle quattro
scene
Prima scena
Giairo ha una identità
precisa: è un capo sinagoga, personaggio importante ed anche
benestante, se si può permettere una casa con più stanze e dei “piangenti”.
Marco dice che “ha
veduto” Gesù: è l’aprirsi alla fede in Gesù e alla speranza
che la sua persona e il suo messaggio ha portato all’uomo.
Giairo “gli si getta ai
piedi “: è l’atto di riconoscimento della potenza salvifica
di Gesù e, per contro, della propria fragilità creaturale e
impotenza. Solo, quindi, riconoscendo la propria esistenza
bisognosa, Giairo coglie la potenza salvifica presente in Gesù.
L’atteggiamento di Giairo
è accompagnato dalla supplica che possiamo cogliere tripartita:
-
“La
mia figlioletta è agli estremi” : è il riconoscimento del
dramma parentale e della propria fragilità.
- "Vieni
e imponile le mani” : è la supplica di chi coglie in Gesù
una potenza salvifica.
- “Perché
sia guarita e viva” : esprime ciò che Giairo si attende da
Gesù che riconosce come unica speranza. In quel “viva”
sembra esserci una allusione alla nuova vita portata da Gesù e
che troverà piena attuazione nella risurrezione.
Interpolazione
dell’emoroissa
Tra le prime due scene si
pone l’interpolazione dell’emoroissa che sembra essere una
creazione di Marco. Essa ha una duplice funzione: da un alto,
crea un forte stato di tensione: Gesù “perde tempo” con
questa donna; e, dall’altro, sottolinea come la fede è fonte di
salvezza, incoraggiando Giairo la cui fede con questa dilazione
è messa alla prova.
Seconda scena
Con questa seconda scena Gesù prende l’iniziativa che perdurerà
fino alla fine del racconto: Gesù svela gradualmente la sua
potenza salvifica a chi gli crede, operando una discriminazione
tra credenti e non credenti.
Dopo la scena
rallentatrice dell’emoroissa, la fede di Giairo subisce un’altra
prova: l’annuncio della morte della figlia e l’invito, da parte
dei messi, a desistere, poiché di fronte alla morte, secondo
loro, non può più niente neanche Gesù, che chiamano con ironia “Maestro”,
come dire: bravo ad insegnare, ma non ha potenza da superare la
morte.
Gesù sente e interviene
con una triplice azione:
-
Invita Giairo a non temere, cercando di rincuorarlo e
tranquillizzarlo;
- Lo
invita a “credere solamente”: l’uso del presente indica
una fede che era già presente in Giairo e che al momento
persiste. Inoltre, Gesù con quel “solamente” invita
Giairo a superare ogni evidenza e di tenersi sempre e comunque
aperto a Lui. Si intreccia, così, tra Gesù e Giairo un rapporto
che, prescindendo dagli eventi, si basa solo sulla fiducia.
- Infine, opera una discriminazione: “Non permise a nessuno di
seguirlo” se non a “Pietro, Giacomo e Giovanni” i tre
testimoni della Trasfigurazione e della sua agonia al Getsemani.
Essi sono, così, costituiti testimoni privilegiati di eventi
anticipatori della Pasqua.
Da questo momento Giairo
sarà guidato da Gesù assieme ai discepoli in un’unica esperienza
di fede e di testimonianza.
Terza scena
In questa terza scena
Marco incentra l’attenzione subito su Gesù che appare come il
solo a vedere il trambusto di chi con i loro pianti gli
confermano la morte della fanciulla.
In questo “suo vedere”
Gesù rileva subito e da solo la nuova situazione di incredulità
dei presenti; e proclama che “la fanciulla non è morta, ma
dorme”. La risposta è la derisione dei presenti.
Come spiegare
l’affermazione di Gesù? Innanzitutto, Gesù, paragonando la morte
al sonno, tende ad escluderne la irreversibilità davanti alla
sua presenza e autorità che, al credente, si rivela potente al
di là della morte.
In tal modo Gesù mette in
rilievo la sua potenza: quando viene lui, la morte non è più
morte, ma solo un sonno passeggero.
La reazione dei presenti è
la derisione. Gesù da loro non si attende più niente e,
pertanto, come per i messi, li esclude dalla sua sequela. Solo i
genitori con i tre discepoli sono “con lui” e, pertanto,
gli unici testimoni accreditati per comprendere il prodigio come
la potente azione di Dio e l’annuncio della sua presenza in
mezzo agli uomini.
Quarta scena
Dopo un lungo cammino di
fede contrastata, durante il quale Gesù sollecita a perseverare
nonostante le apparenze e durante il quale opera una continua
discriminazione tra credenti e non credenti, eccoci, dunque,
nella stanza della fanciulla, in cui Dio manifesterà nel suo
cristo la sua potenza e l’avvento del suo Regno: la morte sarà
sconfitta.
Senza nient’altro dire
Gesù “prese la mano” della bambina. È il gesto
taumaturgico che si ritrova nella Suocera di Pietro e nel
Giovane indemoniato, ma che è, comunque, subordinato alla
Parola. Il gesto acquista potenza solo per mezzo della Parola.
Essa si esprime in quel “Talitha koum”, detto in aramaico
per mantenere la freschezza dell’annuncio.
“Svegliati” con
chiaro riferimento alla morte che, davanti a Gesù, non è più
morte, ma sonno.
E la Parola ottiene
immediatamente il suo effetto: “Subito la fanciulla si alzò”.
È un’azione creatrice che ci riporta alla creazione del mondo in
cui al comando “Sia la luce” la risposta immediata della
potenza creatrice fu “E la luce fu”. È Dio che con la sua
parola rende inefficace la morte e genera l’uomo ad una nuova
vita che sarà visibile nella risurrezione.
Questo mistero, è aperto
solo a chi crede, cioè a quelli che, dopo un lungo cammino di
fede contrastata, sono ancora lì con lui.
Marco annota come la
fanciulla abbia 12 anni, proprio come da 12 anni l’emoroissa
vedeva sfuggirle la vita.
Come con l’emoroissa Gesù
pone fine alla lenta agonia, così con la fanciulla fa ripartire
la nuova vita.
La reazione dei presenti è
di stupore: è la risposta umana di fronte all’irrompere
del divino. Le logiche umane sono state surclassate da quelle di
Dio.
L’ordine di silenzio
imposto da Gesù è frequente in Marco e viene correlato al
cosiddetto “Segreto messianico”. Ma questo no è il nostro
caso, dato che la presenza di numerose persone renderebbe
inutile la raccomandazione di Gesù.
Il silenzio chiesto da
Gesù no è sul fatto in sé, quanto sul suo significato in esso
contenuto e che apparirà chiaro nella risurrezione: egli è il
Cristo, potenza di Dio venuta ad instaurare la Signoria di dio
in mezzo agli uomini.
Infine, con quel “Datele
da mangiare” Gesù vuole rilevare che la fanciulla non è un
fantasma e che quella richiesta iniziale di Giairo è stata, per
fede, esaudita: “che essa viva”.
L’EMOROISSA
Mc.
25 - 34
Struttura del testo
Il
racconto dell’emoroissa si inserisce, a mo’ di sandwich, in
quello della figlia di Giairo che si qualifica come un cammino
di fede, che deve essere persistente, e che si rivelerà essere
lo strumento di selezione e di discriminazione tra “quelli di
fuori” e “quelli di dentro”.
L’aggancio al racconto
della figlia di Giairo avviene non solo per la
collocazione al suo interno, ma anche dal quadro introduttivo
che presenta la folla. Infatti, in 5,21b “molta
folla si radunò attorno a lui”; mentre in 5,24b “molta
folla lo seguiva”. Si tratta, dunque, della stessa folla:
là, attorno a Gesù; qui, in movimento con lui. Là è una folla
che si muove in un cammino di fede e diventa oggetto di
selezione ed elezione da parte di Gesù; qui, invece, funge da
contenitore che garantisce l’anonimato alla emoroissa e tale
folla diventerà l’interlocutrice di Gesù che farà emergere
dall’anonimato l’emoroissa.
Ed ora, viene subito
introdotta la figura della donna, una sorta di carta di identità
e di cartella clinica che la qualificano come una disperata
giunta, ormai, all’ultima spiaggia: soffre di perdite di sangue
da 12 anni; ha sofferto molto ha causa di molti medici; si è
depauperata inutilmente; il suo stato di salute è un lento e
progressivo cammino verso la morte.
Con questa premessa si
apre ora il racconto che viene giocato su due momenti
fondamentali tra loro paralleli e a ruoli invertiti:
-
L’evento che si svolge nella
segretezza;
-
L’evento svelato e il suo significato.
L’evento che si
svolge nella segretezza
Protagonista è la donna,
confusa nell’anonimato della folla, che tocca Gesù. Le
motivazioni del suo gesto vengono subito spiegate: “Se toccherò anche solo le sue vesti sarò salvata”. Il gesto
del toccare, quindi, è motivato dalla speranza che trova subito
risposta: “E subito si inaridì la fonte del suo sangue e
conobbe nel corpo che era guarita dall’infermità”. È quel
toccare che richiama il potere del taumaturgo che trasmette
proprio attraverso il tocco la sua energia vitale e risanatrice.
Dall’altra parte sta Gesù che resta del tutto passivo e a cui,
contrariamente alle altre guarigioni, non viene richiesto il suo
intervento. Sembra quasi che una forza sovrasti entrambi, una
forza che viene mossa dalla fede della donna.
L’evento svelato e
il suo significato
Contrariamente a prima,
qui è Gesù che prende l’iniziativa e coscienza che è successo
qualcosa dentro di lui. La sua presa di coscienza è
immediata, come immediata è stata la guarigione: “E subito si
inaridì la fonte del suo sangue”; “E subito Gesù, avendo
riconosciuta la forza uscita da lui…” creando così uno
stretta e diretta relazione tra l’effetto e la sua causa.
Gesù, dunque, divenuto attivo, fa emergere la donna dal suo
anonimato perché renda pubblica la sua testimonianza di fede.
Essa gli si prostra
davanti “presa da paura e tremando”: sono le reazioni
dell’uomo che si è incontrato con il mondo del divino da cui ha
tratto la salvezza.
Tutto il racconto,
pertanto, si svolge tra segretezza e svelamento. È
una partita che si gioca tra l’intimità della fede, di cui si
prende gradualmente coscienza nel proprio intimo, e la necessità
che questa venga esternata e, quindi, pubblicamente
testimoniata.
Una partita giocata, dunque, a tutto campo e che scorre su due
binari con ritmo alterno, composto da un’azioni esterne e
considerazioni interne:
- da un lato l’azione
della donna, che si avvicina a Gesù e lo tocca e il sangue si
arresta; e di Gesù che si volta verso la folla alla
ricerca della donna;
- dall’altro, la donna
che riflette sul senso della sua azione, generata
dall’ascolto (“avendo sentito ciò che si diceva di Gesù”)
e si rende conto di essere stata guarita; e Gesù che si rende conto anche lui della forza uscita da lui e
si
interroga su quanto gli è accaduto.
Spiegazione del testo
v. 5, 24b:
il racconto si apre con la presentazione di una “folla che lo
seguiva e lo comprimevano”. È chiaro l’aggancio al v. 5,21
in cui si dice “che si radunò molta folla attorno a lui”
creando in tal modo una unità di racconto e di tema.
In pochi versetti la folla
viene citata due volte: al v. 5,21 essa è oggetto di una lenta e
graduale selezione il cui criterio discriminante è la fede; al
v. 5,24b essa funge da contenitore anonimo entro cui si nasconde
e si muove la donna e diverrà l’interlocutrice di Gesù: “voltandosi
verso la folla diceva: <<Chi mi ha toccato le vesti?>>”
Ed è proprio dal dialogo tra Gesù e la folla anonima che uscirà
allo scoperto la donna con la sua fede.
Si tratta, quindi, ancora
una volta, di una selezione basata sulla fede. Marco sembra dire
che chi non ha fede o questa è piatta e grigia assomiglia ad una
folla anonima che segue Gesù alla periferia. Solo la fede fa
uscire le persone dall’anonimato e permette loro un rapporto
intimo con Gesù producendo in loro un radicale cambiamento di
vita.
vv. 5, 25-26:
Tra la massa anonima della folla si muove nascostamente una
donna; non ha nome, ma la sua figura è delineata dal dolore e
dalla disperazione. Marco con tratti netti e concisi, come è nel
suo stile, ne presenta la carta di identità e la sua cartella
clinica:
- “aveva
un flusso di sangue da dodici anni ”
- “aveva
sofferto molto da parte di molti medici ”
- “aveva
speso tutto quello che aveva “
- “non
aveva avuto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio”
Di questa donna il testo
greco afferma “Gun¾
oása ™n rÚsei a†matoj”.
È una donna, dunque, che non ”ha” un flusso di sangue, ma è
immersa in un flusso di sangue che quasi come un onda di piena
ha travolto la sua vita. Un’onda di sangue che l’ha resa
cultualmente impura e ha decretato la sua morte sociale: nessuno
poteva avvicinarsi a lei altrimenti ne sarebbe rimasto
contaminato e avrebbe dovuto sottoporsi, poi, al rituale della
purificazione. Inoltre quest’onda la rende sterile e ciò è visto
come un castigo e una maledizione di Dio. Non a caso il testo
greco definisce questa sua sventura con il termine
m£stix
che letteralmente significa frusta, flagello.
Vediamo come Marco
sottolinea che “aveva sofferto molto da parte di molti medici
“. Quindi la sofferenza più che dal male le proveniva dai
medici, dal suo affidarsi agli uomini che non sono stati in
grado di darle una soluzione alla sua sofferenza, anzi ne
avevano aggiunte altre.
Marco pone qui la premessa
di un passaggio fondamentale compiuto dalla donna: dai medici a
Gesù. L’incapacità degli uomini, quindi, spinge la donna a
cercare altrove la sua salvezza. L’uomo non può dare salvezza,
ma solo sofferenza. Non è lui che ha la chiave della vita.
La sua ricerca di salvezza
nell’ambito dell’orizzonte umano l’ha portata a dilapidare tutte
le sue sostanze. Quindi, alla vita che se ne sta andando
lentamente in quel flusso di sangue si aggiunge anche il suo
depauperamento di beni essenziali per la vita stessa. E tutto
ciò senza trarne alcun beneficio, anzi le cose peggioravano
lentamente, ma inesorabilmente.
Come si vede, la donna era
caduta in un baratro senza ritorno. Ogni speranza era stata
travolta da quel flusso impuro che la stava spingendo verso la
morte. Se pur si poteva chiamare vita quella che stava
conducendo.
5, 27-29:
prosegue Marco “e avendo sentito ciò che si diceva a riguardo
di Gesù”. Il movimento della donna che, quasi strisciando
nascostamente tra l’anonimato della folla arriva alle spalle di
Gesù, nasce dall’ “aver sentito”. È l’ascolto della
parola, dunque, che produce questo suo movimento, ancora
nascosto tra la folla, verso Gesù. Questo movimento nascosto
verso Gesù esprime il cammino interiore e segreto della fede che
si fa strada all’interno degli uomini. Un cammino che nasce
dall’ascolto e che è mosso dalla speranza di una vita diversa,
migliore, nuova.
Ed ora, ecco la donna che
“toccò il suo mantello”. Il gesto del “toccare”
corrisponde alla diffusa convinzione che nel guaritore
fosse presente una potenza divina, per cui il toccarlo si
creava un flusso vitale di travaso energetico. Questo toccare
Gesù esprime nella donna il desiderio di incontro con Lui.
Nonostante, quindi, le credenze il gesto della donna non è
magico, ma espressione di fede in Gesù. Saranno proprio le
parole della donna che accompagnano da vicino il gesto a darne
spiegazione: “Se toccherò anche solo le sue vesti sarò
salvata”. Il toccare della donna, dunque, è carico di
speranza ed è mosso dalla piena e totale fiducia in Gesù da cui
scaturisce la salvezza.
È molto significativo,
infine, il verbo
swq»somai,
che è un passivo teologico, e lascia intravedere come questa
salvezza proviene da Dio che ne è l’autore.
Il passaggio, dunque, ora
è completato: dai medici, che non sono riusciti a darle la
salvezza, anzi l’hanno depauperata ancor di più riducendole
ulteriormente il suo spazio esistenziale, a Gesù in cui non vede
uno dei tanti curatori, ma l’ultima spiaggia, il Curatore per
eccellenza, l’unico in cui cercare la salvezza.
Vediamo in questo il
movimento della fede, un cammino che sposta l’uomo
dall’orizzonte umano a quello divino.
Ed ecco che la risposta a
questa fede semplice, ma profondamente trasformante, è
immediata: “E subito si inaridì la fonte del suo sangue”.
Ciò che gli uomini, a prezzo di sofferenze pagate a caro prezzo,
non hanno saputo dare, la donna lo ha ottenuto gratuitamente da
Gesù. Una sottolineatura per indicare come l’orizzonte della
salvezza è aperto gratuitamente a tutti coloro che vi si
accostano con fede.
Ora la donna è pervasa da
una silenziosa energia che le ridona la vita, strappandola dalla
morte verso cui stava scivolando inesorabilmente. Essa prende
coscienza di ciò che le sta capitando “e conobbe nel corpo
che era stata guarita dalla sua infermità”. È la
constatazione di una trasformazione che sta avvenendo nel suo
corpo, ma che è stata preceduta da una trasformazione interiore
che l’ha aperta alla vita. La guarigione del corpo, pertanto,
diventa, come nel paralitico, segno di quella avvenuta ancor
prima nello spirito. Questa trasformazione è opera di Dio, come
sembra indicarci il passivo teologico
™x»ranqh.
È interessante rilevare
come in tutta questa vicenda Gesù sia rimasto completamente
passivo e si sia lasciato manipolare da questa donna disperata.
Egli, infatti, non ha dato alcun consenso, non ha fatto nessun
gesto, né ha detto alcuna parola. Eppure, egli ne è fattivamente
coinvolto e a sua insaputa, senza avvedersene, guarisce questa
donna di cui non conosce neppure il volto né la sua sventurata
storia.
Che cosa, dunque, ha
provocato la guarigione della donna? La risposta è data da Gesù
stesso “Figlia, la tua fede ti ha salvata”. Dunque, non
la volontà di Gesù, non quella di Dio, ma la fede di questa
donna è stata la causa della sua salvezza.
Sembra, dunque, dirci Marco che la fede è la chiave che scatena
la potenza di Dio.
vv. 5, 30-34: Con
questi versetti ha inizio la seconda parte del racconto. Nella
prima si è vista la donna attiva, mossa dalla fede, che viene
contrapposta ad un Gesù del tutto passivo e ignaro, quasi
vittima di una donna che gli va alle spalle per carpirgli
l’energia della vita. Abbiamo visto come questo muoversi della donna verso Gesù, in realtà, è un cammino interiore di
fede che dal deludente orizzonte umano la muove verso quello
divino.
Il
v.29 si chiude con la donna che “conobbe per mezzo del corpo
che era stata guarita”. Il v.30 si apre con Gesù che
riconosce in se stesso la forza uscita da lui. Sia in Gesù
che nella donna, dunque, si opera un risveglio di coscienza. Non
fu certo il tocco fisico a scuotere Gesù, dato che egli si
muoveva in mezzo ad una grande folla che lo comprimeva (5,24b);
gli stessi discepoli, stupiti dalla reazione di Gesù, lo
redarguiscono ironicamente: “Vedi la folla che ti comprime, e
dici <<Chi mi ha toccato?>>”.
Il tocco di cui
Gesù parla, pertanto, non ha origine fisica, ma è un
tocco diverso, un tocco che lo scuote interiormente. Ciò che
risveglia la coscienza di Gesù è questo tocco intenzionale,
che è il punto conclusivo di un lungo cammino durato dodici anni
e disseminato di sofferenze, delusioni, impoverimenti. È la
conclusione di un cammino di ricerca della salvezza inutilmente
cercata presso gli uomini. Non è, dunque, un tocco qualsiasi,
ma l’unico che Gesù potesse sentire: quello della fede.
Gesù, dunque, chiede “chi” lo ha toccato. Non è una
domanda che punta a soddisfare una curiosità, bensì tende a
stabilire un rapporto diretto e personale con “chi” lo ha
intenzionalmente toccato. Gesù, pertanto, “guardava attorno
per vedere colei che aveva fatto questo”.
Con la sua domanda e con quel suo guardare d’intorno in cerca
della donna, Gesù ha instaurato un rapporto con essa, facendola
in tal modo emergere dalla folla.
Al
tentativo di Gesù di farla emergere dalla folla la donna
risponde con la paura e il tremore: è la reazione
dell’uomo al mondo del divino. Il turbamento, quindi, che ha
pervaso la donna nasce dalla coscienza che la sfera del divino
ha totalmente invaso la sua esistenza, sconvolgendola. Ecco,
dunque, la conclusione: “venne e si prostrò davanti a lui ”. Il cammino di fede della donna, iniziato nell’anonimato della
folla e percorso nel segreto della propria coscienza, si è ormai
concluso e l’incontro con Gesù la fa emergere a testimonianza di
tutti.
Ora la donna è prostrata ai piedi di Gesù, un gesto in cui essa
riconosce la sua creaturalità e la divinità di Gesù, e “così
gli disse tutta la verità”. Con questo suo “dire
tutta la verità” la donna si apre totalmente a Gesù e
inizia un dialogo profondo con lui, che esprime pienezza di
comunione e il raggiungimento di una fede piena e matura.
A
questa donna giunta alla fine di un cammino di interiore
maturazione di fede, chiamata ad emergere in una pubblica
testimonianza, Gesù risponde che proprio questa sua fede l’ha
salvata. Entrambi, dunque, riconoscono la potenza che, in vario
modo; ha operato in loro: la fede. Ed è proprio questa fede che
li ha fatti incontrare e ha fatto scaturire tra loro un dialogo
salvifico. Un incontro e un dialogo che hanno ricostituito non
solo il suo corpo, ma anche tutto il suo essere, aprendolo a Dio
e dando un nuovo senso alla sua vita.
Gesù si rivolge a lei in termini familiari e confidenziali
chiamando la donna con l’appellativo di “figlia”
evidenziando ormai tutta la tenerezza di Dio.
L’incontro con la donna termina con le parole di congedo di Gesù
“Va in pace e rimani sanata dalla tua infermità”.
L’espressione “va in pace” è una forma di benedizione che
esprime l’augurio di una pienezza di vita che proviene da Dio.
La
seconda espressione, invece, è un augurio di persistere lungo il
cammino della sua vita ritrovata.
L’ANNUNCIO ALLA TOMBA
VUOTA: PAURA E SILENZIO
Mc.
16, 1 – 8
Struttura del testo
L’intero brano è segnato
da verbi di movimento come
Ÿcromai e
fÚgw che in
otto versetti sono ripetuti ben 5 volte:
-
il
primo finalizzato all’ “ungere” il corpo di Gesù;
-
il
secondo finalizzato al raggiungimento del sepolcro;
-
il
terzo finalizzato all’entrata del sepolcro;
-
il
quarto e quinto finalizzati all’abbandono del sepolcro.
Quindi, i primi tre
verbi esprimono un graduale avvicinamento al sepolcro; i
secondi, invece, un rapido allontanamento; il tutto, quasi,
in un’unica azione di tipo pendolare il cui baricentro cade
sul messaggio del giovane.
Il v.1 ci
offre subito tre indicazioni:
- I
nomi delle donne
-
L’azione del comperare
- La
loro intenzione di andare al sepolcro per ungere il corpo di
Gesù; intenzione che poi non si attuerà e verrà sostituita dalla
nuova missione affidata dall’angelo.
I versetti 2-4
sono caratterizzati da:
-
due
precisazioni temporali: “di buon mattino … al sorgere del
sole” e “il primo giorno dopo il sabato”
- dai
due verbi “dire” e “vedere”, l’uno è in
risposta all’altro.
I versetti 5-8
racchiudo l’esperienza delle donne in un movimento pendolare
espresso dai verbi “entrando nel sepolcro” e “uscite,
fuggirono dal sepolcro” nel mezzo ci stanno le donne che
vedono ed hanno paura e il giovane che le qualifica come “quelle
che cercano Gesù” e alle quali affida una missione: “Andate
e dite”, ma che rimane inattuata; come vanificato sembra
l’annuncio del giovane che Gesù è risorto. Infatti il v. 8
sottolinea come non dicono niente a nessuno, ma si allontanano
precipitosamente.
Problemi di
autenticità: vv. 9 – 20
I vv. 9-20 costituiscono
la finale non marciana del vangelo di Marco. Infatti molti
codici tra i più importanti e qualificati non la riportano.
Inoltre, lo stile e il vocabolario tradiscono una mano diversa.
Infine, il contenuto di
questi versetti appare come una sintesi delle diverse
apparizioni riportate da altri vangeli.
Qualche esegeta
l’attribuisce a un certo Aristione (100 d.C.) ricordato anche da
Papia.
Il Concilio di Trento ne
ha, comunque, stabilita la canonicità in quanto riassume le
tradizioni di origine apostolica, anche se non redatto da Marco.
Analisi del racconto
Versetto 1
Inizia con una indicazione
di tempo: “Il giorno dopo il sabato” che si riallaccia a
quella del versetto 15,42: “e venuta gia sera … cioè la
vigilia del sabato” e in cui ci si riferisce alla sepoltura
di Gesù.
Questo, se da un lato
vuole dare continuità al racconto, dall’altro, ci dice che dalla
sepoltura di Gesù al momento in cui le donne vanno al sepolcro è
passato un giorno e mezzo circa.
Anche l’azione delle donne
di acquistare degli aromi per ungere il corpo di Gesù dà
continuità al racconto. Infatti, tale azione si pone come
completamento a quella di Giuseppe di Arimatea che aveva
acquistato, invece, un lenzuolo (Mc. 15,46).
Questo versetto, quindi,
crea una stretta connessione tra quanto era avvenuto prima e
quello che sta per accadere, creando, in tal modo, una
continuità tra il Gesù crocifisso e quello risorto, quasi a dire
che il corpo del Gesù risorto era proprio quello del Gesù
crocifisso.
Il fatto, poi, che le tre
donne si rechino al sepolcro un giorno e mezzo dopo la sepoltura
sembra attendibile o almeno verosimile, sia perché alla metà di
aprile a Gerusalemme non fa ancora caldo e ciò rallenta la
decomposizione del corpo; sia perché una credenza popolare
riteneva che lo spirito del defunto volteggiasse per tre giorni
attorno al corpo.
Non è, comunque, da
ritenere che Marco volesse con l’escamotage della scoperta del
sepolcro vuoto da parte delle tre donne renderle testimoni della
risurrezione; infatti, secondo la mentalità giudaica la
testimonianza delle donne non era valida. Forse anche per
questo, dopo aver ricevuto l’annuncio della risurrezione di
Gesù, le donne fuggono via senza dire niente a nessuno.
Tuttavia, la figura delle
donne in Marco acquista una notevole rilevanza: esse sono quelle
che suppliscono alla carenza dei Dodici che dall’arresto di Gesù
scompaiono completamente dalla scena.
Questo vuoto testimoniale
di eventi cruciali è riempito dalla discreta presenza delle
donne che, invece, seguono Gesù nella sua passione, morte e
risurrezione.
Esse sono, dunque,
l’anello di quella catena di testimonianza senza la quale essa
risulterebbe spezzata.
Infine, Marco lascia
intendere come le donne, qui, volgono la loro attenzione ad un
cadavere e che le loro prospettive sono ben diverse da ciò che
sta per accadere e in cui saranno coinvolte.
Versetti 2 –4
Questi versetti descrivono
l’andata al sepolcro delle donne. Il v. 2 si apre con una
precisazione di tipo temporale: “Di mattino molto presto”
che di per sé non dice esattamente a quale punto del mattino ci
si trovi. Sarà, invece, proprio quel aoristo ingressivo in quale
momento ci colloca quel “molto presto”: è “al sorgere
del sole”.
Sulla base di queste
indicazioni e conoscendo il giorno e l‘ora della morte di Gesù,
si arriva a concludere che dalla sua morte alla scoperta del
sepolcro vuoto è intercorso, in tempo reale, un giorno e mezzo;
tre giorni, invece, se contiamo il tempo secondo i criteri
ebraici, che contavano i giorni anche non interi. C’è in questi
tre giorni un richiamo ad Osea 6,2 “Dopo due giorni ci ridarà
la vita e al terzo ci farà rialzare”.
Prosegue il racconto con
il v. 3 che è un artifizio letterario per creare una suspense
che ha una duplice funzione: preparare il lettore a quanto verrà
subito dopo; e accentrare l’attenzione sulla pietra che chiudeva
il sepolcro.
Infatti, ecco che al v. 4
appare l’oggetto delle preoccupazioni delle donne e lo stato di
tensione creato con quell’artifizio letterario si risolve: “Il
masso era già stato rotolato ” con la sottolineature che era
una grande pietra.
È interessante l’uso del
passivo ¢pokekÚlistai,
“fu rotolata via”, che è da intendersi come un passivo
teologico, che indica l’intervento di un’azione divina la cui
potenza è evidenziata dalla definizione della pietra “benché
fosse molto grande”.
Vediamo, dunque, come
Marco con i vv. 3 e 4 crea tutta un’azione preparatoria a ciò
che avverrà dal v. 5 in poi: con un artifizio letterario attira
l’attenzione sulla pietra creando uno stato di suspense,
che si allenterà alla vista della pietra rotolata, in cui lascia
intendere la presenza di una potente azione divina, per cui il
lettore è già preparato a leggere quello che avverrà dal v. 5 in
poi quale intervento di Dio.
Versetti 5 – 8
Con questi versetti,
caratterizzati da tre verbi di movimento contrapposti (“Entrando”,
“Uscite”, “Fuggirono”) si crea un movimento pendolare che ha
come fulcro l’annuncio del giovane,
Il v. 5 inizia con “Entrando
nel sepolcro”. È l’atto conclusivo di un cammino condotto
nell’ambito dell’orizzonte umano: vogliono ungere il corpo di un
cadavere.
Esse, infatti, non cercano
un Gesù vivo, ma il suo cadavere in cui ogni speranza si è
spenta.
Ma ecco, contrariamente ad
ogni aspettativa, al di là, quindi, dell’orizzonte umano, “videro
un giovane”. In quel “videro” c’è l’aprirsi di un
nuovo orizzonte non più umano. Infatti esse vedono “un
giovane, seduto sulla destra, vestito di una veste bianca”.
Il fatto di veder un “giovanetto”
(nean…skoj)
e non un uomo adulto, sta ad indicare la percezione di una vita
nuova. Infatti il termine
nean…skoj
racchiude in sé il termine
neoj
che
significa nuovo. Egli è vestito di una veste bianca, segno della
sua appartenenza alla dimensione divina; e, inoltre, “è
seduto”, indicando in questa sua posizione, una certa
autorevolezza. Inoltre, egli si trova “sulla destra”,
indicando con ciò la sua posizione favorevole e privilegiata di
appartenenza al mondo divino.
Questa figura, quindi, di
chiara appartenenza al mondo divino, costituisce il sigillo di
garanzia al messaggio immediatamente seguente.
Le donne “furono prese
da stupore”: è la reazione dell’uomo al mondo del divino,
provocata dal senso del mistero tremendo che promana dal mondo
divino. È ciò che colpisce Mosè sul monte del roveto ardente,
Elia sul monte Oreb e gli israeliti ai piedi del monte Sinai.
Ed ecco, ora, il messaggio
che proviene dal mondo divino: “Non siate stupefatte”
sottolinea, da un lato, la reazione dell’uomo di fronte al mondo
del divino; e, dall’altro, le predispone a ricevere il
messaggio.
“Voi cercate Gesù di
Nazaret, il crocifisso. È risorto, non è qui”. Questo
messaggio racchiude in sé i toni e la coloritura dell’annuncio
kerigmatico e si avvicina molto agli Atti 4,10 “Gesù Cristo,
il nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato
dai morti” di chiaro tono kerigmatico.
L’angelo qualifica
l’azione delle donne con quel “Voi cercate Gesù nazareno, il
crocifisso” delimitando la ricerca delle donne al Gesù
storico, definito nella sua storicità dai due aggettivi “nazareno”
e “crocifisso”.
Cercare in questo
orizzonte squisitamente umano non porta nulla, poiché tale Gesù
non c’è più: “non è qui” Egli, infatti, si pone, ormai,
al di là della storia, poiché è risorto. Quindi, il cercare
delle donne deve essere rivolto verso altri orizzonti.
Ed ecco, ora, quel
ºgšrqh,
un aoristo passivo che indica un fatto puntuale nel tempo,
quasi a sottolinearne l’unicità e l’irripetibilità. È,
inoltre, un passivo teologico in cui l’azione del
risuscitare viene attribuita a Dio.
D’ora in poi la nuova
identità di Gesù sarà qualificata dal suo essere “crocifisso-risorto”
che lo proietta nella dimensione divina; infatti, Marco precisa
“non è qui”. La ricerca delle donne, pertanto, va
orientata altrove.
Con il v. 7 viene cambiata
l’originaria missione delle donne: esse si erano dirette al
sepolcro per ungere il corpo di Gesù. Una missione che muove
ancora nell’ambito dell’orizzonte umano. L’angelo, che annunzia
loro il Cristo risorto, fa mutare la missione originaria in una
nuova missione: “Ma andate, dite ai suoi discepoli e a Pietro
che vi precederà in Galilea, come vi ha detto”.
Con quel “andate dite”
le donne sono investite di una nuova missione.
L’attenzione, qui, si
sposta dal Gesù risorto ai discepoli e, in particolare, a
Pietro: colui che ha rinnegato e abbandonato Gesù deve, ora,
riprenderne la sequela e il ruolo che Gesù gli assegnerà.
Il messaggio inizia con
quel “egli vi precede in Galilea” con chiaro riferimento
alla predizione di Gesù in Mc. 14,28: “Ma dopo la mia
risurrezione vi precederò in Galilea”, sottolineando, in tal
modo, il compimento della profezia.
Questo “precedere”
sta ad indicare anche come Gesù è sempre la guida e il punto di
riferimento di tutti i credenti per una nuova sequela ormai
aperta a tutti.
Questo “precedere”
di Gesù avviene in Galilea che è il luogo da cui ha avuto inizio
la missione di Gesù, ma è anche, come dice il nome stesso, “la
terra dei gentili”, quasi a dire che da lì deve ripartire
l’evangelizzazione verso tutti i popoli.
Proprio in Galilea,
dunque, i discepoli “vedranno Gesù”. Il verbo “vedere”
assume qui un duplice significato: con riferimento alle
apparizioni e con l’aprirsi alla fede. Pertanto, proprio là in
Galilea i discepoli avranno una nuova comprensione del Gesù
risorto in cui si fonda la loro fede e quella di ogni credente.
Termina, infine il
messaggio “come vi ha detto” con chiaro riferimento a Mc.
14,28 .
Infine, il v. 8 si
presenta piuttosto enigmatico se si pensa che con questo termina
il vangelo di Marco.
In questo versetto, di
poche parole, vi si ritrovano due termini e due verbi che
sottolineano la profondità e l’intensità, quasi sconvolgente,
dell’esperienza divina che ha travolto le donne:
trÒmoj:
tremito, tremore;
œkstasij:
alienazione, agitazione, turbamento, delirio;
efoboànto:
avevano paura;
™xelqoàsai:
uscite;
œfugon:
fuggirono. Tutte cinque le espressioni raggruppate in un unico
versetto danno l’idea dell’intensità stravolgente
dell’esperienza del divino che le tre donne hanno fatto. Il
fuggire dal sepolcro indica il loro uscire dall’orizzonte umano
che le ha sempre condotte fino a quel momento per aprirsi ad una
nuova dimensione.
Ciò che, tuttavia, lascia
sconcertati è quel silenzio delle donne sulla visione avuta e
sul messaggio ricevuto, contravvenendo, in tal modo, all’ordine
ricevuto dall’angelo: esse “non dissero niente a nessuno”.
Tale espressione si presta
ad una duplice interpretazione: da un lato, essa esprime
l’ineffabilità dell’esperienza del divino, che supera ogni
esperienza umana; dall’altro, si può pensare che Marco, facendo
tacere le donne, le voglia escludere dalla cerchia dei testimoni
qualificati e accreditati, questo aspetterà, infatti, ai Dodici
e, in particolare, a Pietro. In tal modo, Marco rimette in gioco
i Dodici che fino a questo momento sono stati vergognosamente
assenti.
Non è da escludere,
inoltre, che secondo i giudei le donne erano escluse dalla
testimonianza e, comunque, non erano attendibili.
Troppo alta, quindi, la
posta in gioco per contravvenire alle regole e alla mentalità.
VANGELO DI MATTEO
Autore
Il
primo vangelo canonico appare attribuito a Matteo verso la fine
del I sec.
Secondo Papia, vescovo di
Gerapoli in Frigia (110-130) “Matteo mise in ordine i detti
(lÒgia)
di Gesù in lingua ebraica e ognuno li interpretò (ºrm»neusen)
come era capace” (Eus. Hist. Eccl.). Quindi, secondo
Papia, mentre Marco aveva riprodotto fedelmente, ma senza ordine
la predicazione di Pietro, Matteo fece una raccolta ordinata di
detti del Signore rilevandone l’accuratezza.
Tuttavia, non è chiaro che
cosa Papia intenda per
lÒgia
ed
ºrm»neusen.
Quanto al primo, se gli insegnamenti di Gesù o anche i fatti;
probabilmente si riferiva ad entrambi. Quanto al secondo, esso
può significare tanto spiegare quanto tradurre. Si tende a dare
la preferenza al termine “spiegare” in quanto che Papia
usa questo termine con tale accezione.
Quanto alla lingua, Papia
dice che il vangelo di Matteo è stato scritto in ebraico, benché
ciò non sia credibile perché il vangelo di Matteo non appare
come un’opera tradotta, ma scritta direttamente in greco, dato
che dei termini greci e delle forme stilistiche greche non hanno
neppure il loro corrispettivo in ebraico.
Quanto all’autore, esso
risulta essere un giudeo-ellenista a motivo di:
- conoscenze delle usanze e costumi ebraici;
- frequente ricorso all’AT con citazioni-compimento
- procedimenti letterari tipicamente semitizzanti;
In definitiva, Matteo è
uno che scrive in greco, ma con una mentalità e una cultura
ebraica.
Tuttavia non sembra essere
quel Matteo, pubblicano e discepolo di Gesù, citato al v. 9,9 e
da Mc e Lc con il nome di Levi. Infatti la conoscenza
delle tecniche letterarie rabbiniche si addicono più ad
uno scriba che ad un pubblicano. E che sia uno scriba
sembra confermarlo proprio un passo dello stesso vangelo: “Per
questo ogni scriba, divenuto discepolo del Regno dei cieli, è
simile ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose
nuove e antiche” (Mt. 13,52). È da escludere, infine, che
Matteo sia stato discepolo di Gesù anche perché il suo Vangelo
dipende per quasi l’80% da quello di Marco che, invece, non è
discepolo di Gesù. È difficile, quindi, che un apostolo, uno dei
Dodici, dipenda per la sua opera da uno che, invece, non lo fu
mai stato.
La
comunità di Matteo
La comunità a cui Matteo
si rivolge sembra essere giudeocristiani di origine
ellenistica ed è situata in un ambiente cittadino
di gente benestante (commercianti e possidenti
terrieri) a cui si affianca la categoria dei poveri e di
gente umile. Una comunità che ha sostanzialmente già
consumato la rottura con il giudaismo.
Ciò si rileva da alcune
caratteristiche letterarie e da alcuni aspetti della vita
sociale. Infatti, Matteo:
- scrive in un buon greco, grammaticalmente corretto e non di
traduzione. Ciò significa che la sua comunità lo capiva molto
bene.
- vi
sono parecchie citazioni scritturistiche che fanno pensare a dei
giudeocristiani ellenisti;
- per
ben 25 volte Matteo nomina il termine “città”, mentre il
termine “campo” viene nominato solo 14 volte;
- cita
per 28 volte il nome di monete di rilevante valore: monete in
oro, argento, talenti, ecc.
Tutto ciò fa pensare,
quindi, ad una comunità cittadina benestante e possidente
terriera. In tal senso è significativo il racconto del giovane ricco (Mt. 19,16-22) e la messa in guardia di Gesù
contro il pericolo delle ricchezze (Mt. 19,23-26) e la
ricompensa per chi lascia i beni terreni per la sequela
(19,27-20).
Forse anche proprio per
questo Matteo, a differenza di Marco, parla nelle beatitudini di
“poveri in spirito” per abbracciare anche i ricchi che
praticano la giustizia.
Inoltre, la comunità di
Matteo è una comunità che ha già consumato ampiamente la
rottura con il giudaismo farisaico a cui si contrappone
con determinazione.
A tal punto va fatta
una precisazione di tipo storico. L’ambiente in cui si muove
Matteo e la sua comunità è quello del
giudaismo del “dopo 70”.
Vi è una differenza
significativa tra il giudaismo prima del 70 da
quello dopo il 70.
Il Giudaismo
prima del 70 è caratterizzato da
un frazionamento di sette, raggruppate intorno alla Torah e al
Tempio e si differenziavano prevalentemente per
l’interpretazione e per il modo di intendere la Legge. I gruppi
conosciuti sono: farisei, sadducei, esseni e zeloti.
Il Giudaismo
dopo il 70 è caratterizzato
dall’assenza del Tempio e dalla concentrazione di tutta la vita
religiosa e spirituale attorno alla Torah e alla sua
interpretazione. La tragedia della guerra giudaica ha disperso i
gruppi del giudaismo. Rimasero solamente i farisei.
Questi, dopo la
distruzione di Gerusalemme, si rifugiarono ad Iamnia dove
fondarono la scuola di rabbinismo da cui escono i nuovi rabbi e
in cui l’interpretazione della Torah si fa più rigida per
salvaguardare l’identità del nuovo giudaismo, raccolto, ora,
soltanto attorno alla Torah, essendo il Tempio definitivamente
distrutto.
Il nuovo giudaismo che
nasce da Iamnia è di orientamento rabbinico-farisaico ed è
monolitico, produce interpretazioni sulla Torah e ne raccoglie
le tradizioni formatesi nel tempo. Da qui, nei secoli successivi
si formerà la Mishnah (Legge orale e sua interpretazione) e la
ghemarah (interpretazione della mishnah), la cui somma darà,
poi, il Talmud palestinese e babilonese tra il V e VI sec.
Il punto cruciale del
conflitto tra la comunità di Matteo e il nuovo giudaismo è
l’interpretazione della Torah e chi è l’interprete qualificato
per interpretarla. Per i Giudei, gli interpreti ufficiali e
accreditati sono i rabbini e la Tradizione. Mentre per Matteo e
la sua comunità il vero e unico interprete qualificato è Gesù
(V. cap.5 le sei antitesi). Posta in termini diversi, la
questione è di vitale importanza: dopo la distruzione di
Gerusalemme, chi è l’interprete e l’erede del giudaismo e della
Torah? Questo è il punto cruciale della questione.
La comunità di Matteo,
comunque, si caratterizza e si contrappone al nuovo giudaismo,
ormai monolitico e incentrato sul rabbinismo farisaico per tre
aspetti:
-
Gli aspetti sociali
sono dati essenzialmente:
a) dalla forte
polemica contro gli scribi e farisei (V. cap. 23)
b) La sinagoga
è sentita come un’entità estranea; si parla, infatti, di “Le
loro sinagoghe”, “le vostre sinagoghe”.
c) Matteo sente
la sua comunità come una
ekklesia,
termine che cita per ben tre volte; una
ekklesia che
ha gia una sua identità liturgica (battesimo, v. cap.28; ed
eucaristia, v. formulario in ultima cena).
d)
È una
comunità ben strutturata in cui si parla di sapienti, maestri e
scribi, quali funzioni interne della comunità e che sono state
mutuate dal giudaismo, ma che Matteo vuole differenziate da
questo (23,8-11)
- Gli aspetti Teologici
sono i seguenti:
a) Punto del
contendere è chi è l’autentico interprete della Torah.
b) Il Giudaismo
pensa che la shekhinah, la presenza gloriosa di Dio, si
realizzi nel Tempio; mentre per Matteo essa si realizza in Gesù;
è lui il nuovo tempio, in cui Dio è presente e si rivela.
c) La tomba
vuota per Matteo è la prova della risurrezione; mentre per il
giudaismo è la prova dell’imbroglio.
-
Conseguenze del distacco
sono l’isolazionismo in cui la comunità matteana viene a cadere.
Infatti, rotti i ponti con il giudaismo, la comunità si ritrova
isolata e perseguitata dal giudaismo, mentre è estranea al
paganesimo, anche se è aperta ad esso (V. il racconto dei Magi e
il cap. 28).
La presa di distanza dal
paganesimo risuona in alcuni passi di Matteo:
· “Quando
pregate non fate come i pagani”
· “Non
preoccupatevi di ciò che mangerete o vestirete; di queste cose
si occupano i pagani”
Pertanto, isolata dal
giudaismo e dal paganesimo, la comunità di Matteo, per difendere
la propria identità, esprime delle esigenze radicali.
Data e luogo di
composizione
Il luogo di composizione
dl vangelo di Matteo sembra essere Antiochia di Siria. Infatti
Antiochia è una città in cui si parla greco; è disseminata di
sinagoghe, la quale cosa giustificherebbe la polemica
antigiudaica e la contrapposizione della
™kklšsia.
La data è posta dopo la
distruzione di Gerusalemme (70 d.C.) di cui si vede traccia in Mt.
23,37-38: “Gerusalemme, Gerusalemme che uccidi i profeti ….
Ecco la vostra casa vi sarà lasciata deserta” e in termini
più chiari “Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe,
uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”
(Mt. 22,7).
Infine, la “Birkath ha
Minim” (benedizione contro gli eretici in cui si ravvisano
le comunità cristiane) viene posta,come datazione, nell’ 85,
tempo in cui si pone la spaccatura tra il giudaismo e il
cristianesimo. Quindi il Vangelo può essere datato intorno
all’80.
STRUTTURA DEL VANGELO
DI MATTEO
Sulla struttura del Vangelo di Matteo si sono avanzate varie
proposte:
-
Struttura pentapartita;
-
Struttura tripartita a base cristologica, che subì molte
critiche e fu presto abbandonata;
-
Trama
narrativa come organizzazione temporale degli eventi;
-
Trama
narrativa articolata su legami di causalità.
Struttura pentapartita
Essa raggruppa il
vangelo attorno a cinque grandi discorsi di Gesù, capp. 5-7
/ 10 / 13 / 18 /
24-25
in cui i racconti dell’infanzia e della passione-morte di Gesù
costituiscono rispettivamente il prologo e l’epilogo.
A proporre tale soluzione
fu il Bacon, indotto a ciò dal ripetersi per cinque volte, a mo’
di conclusione, l’espressione “Terminate queste parole …”
Questi cinque discorsi li
pensò come assimilabili al Pentateuco, mentre Gesù appare come
il nuovo Mosè.
Tale ipotesi, benché
suggestiva, tuttavia, fu sottoposta a dura critica perché:
-
non
valorizza i racconti dell’infanzia e della passione-morte,
relegandoli a semplici appendici.
-
Non
c’è corrispondenza seria tra il Pentateuco e i cinque discorsi.
Pertanto, sulla falsariga
di Bacon, si strutturò il Vangelo in sei parti: un prologo (1-6)
e cinque parti successive (5-9 / 10-12 / 13-17 / 18-23 / 24),
dando a tutto il vangelo un taglio decisamente catechetico,
facendo risaltare l’ordine finale di Gesù di insegnare tutto ciò
che lui aveva comandato (Mt. 28,20).
Trama narrativa
È un metodo che ci porta a
cogliere la trama che intesse la narrazione di tutto il vangelo
di Matteo.
Per una migliore
comprensione alcune definizioni:
-
Trama: è la
disposizione degli eventi attraverso una successione temporale e
il loro legame causale finalizzato ad ottenere una risposta
emotiva o affettiva agli eventi narrati.
- Evento:
è un
qualche cosa che accade, come, ad es., la nascita di Gesù o la
sua morte.
Essi si distinguono in
Eventi Nodali, che formano la struttura della narrazione e
senza dei quali la narrazione non regge. Ed Eventi satellite,
che sostengono e accompagnano quelli nodali evidenziandoli, ma
non sono essenziali al racconto.
- Blocco narrativo: è
l’insieme di un evento nodale con più eventi satellite.
Trama narrativa
come organizzazione temporale degli eventi
Il Vangelo di Matteo
si
apre con una cronologia che risale fino ad Abramo e si
chiude con Gesù che promette la sua presenza fino alla fine
dei tempi. Pertanto, lo spazio storico impegnato da Matteo va da
Abramo fino alla fine dei tempi, creando in tal modo un’ampia
prospettiva storica che ha a che fare con la storia della
salvezza, alla fine della quale Gesù appare come il Messia: “a
me è stato dato ogni potere” e il suo insegnamento rimane
sempre valido: “tutto ciò che vi ho comandato” e che è
giunto il tempo di far discepole tutte le nazioni. Quanto al
futuro c’è la promessa della sua presenza fino alla fine dei
tempi.
Trama narrativa che
scorre su legami di causalità
Inizialmente sembra che
Israele risponda al messaggio di Gesù (7,28-29 e 9,33) e Gesù
restringe la sua missione alle pecore di Israele.
Verso la metà della
narrazione (11,2 - 16,12) appare come probabile che Israele non
accetti Gesù come Messia, mentre i Farisei complottano contro
Gesù che definisce le folle incapaci di comprendere.
Alla fine diventa
inevitabile che il Vangelo passi alle Nazioni: Gesù lo predice
nella parabola dei vignaioli perfidi (21,43)
In conclusione, si può
dire che la trama di Matteo ha a che fare con la storia della
salvezza, il riconoscimento di Gesù come Messia, il rifiuto di
Israele e l’apertura alle nazioni.
Primo blocco narrativo
Mt.
1,1 – 4,11
Evento Nodale
Mt. 1, 18-25
Nascita di Gesù ad opera
di Dio. Fin dall’inizio Gesù è posto in relazione con Dio e
viene presentato come compimento del suo disegno.
Eventi Satelliti
v. 1,1
: Gesù è designato come il Cristo
vv. 1,2-17
: Genealogia con la funzione di mostrare lo sviluppo storico del
disegno di Dio, di cui Gesù non solo ne fa parte, ma ne è anche
il momento culminate.
vv. 2,1-13
: presentazione dei Magi come rappresentanti dei popoli pagani
che rispondono positivamente. Mentre Erode risponde
negativamente con l’uccisione dei bambini e conseguente fuga in
Egitto e suo ritorno alla morte di Erode.
Già qui Matteo presenta
Gesù come colui che creerà una spaccatura tra gli uomini,
evidenziando la disponibilità dei pagani e la chiusura di
Israele.
vv. 3,1-17
: è il capitolo dedicato al Battista, al suo appello alla
conversione, ai suoi rapporti con Gesù e al battesimo di Gesù,
visto come una investitura profetica e divina.
vv. 4,1-11
: Tentazioni di Gesù in cui è messa alla prova la sua fedeltà a
Dio e in cui Gesù accetta di operare secondo le logiche del
servo sofferente e non con potenza.
Secondo blocco
narrativo
Mt.
4,12 – 11,1
Evento Nodale
Mt. 4, 12-25
Si compone di tre elementi
e risponde alla domanda come Gesù avrebbe svolto la sua
missione:
- Movimento verso la Galilea dove Gesù si stabilisce a Cafarnao e
inizia la predicazione del regno e l’invito alla conversione.
- Chiamata dei primi quattro discepoli.
- Annuncio della buona novella del Regno accompagnata da
guarigioni ed esorcismi con movimento, attorno a lui, di grandi
folle.
Eventi Satelliti
vv. 5,1-48
: Insegnamento sul Regno (beatitudini) e intorno alla
Legge.
vv. 6,1– 7,29
: Attività di insegnamento e catechesi.
vv. 8,1-9,34
: Guarigioni ed esorcismi.
vv. 10,1-15
: Gesù coinvolge nella propria missione i Dodici e li invia ad
annunciare e ad operare guarigioni ed esorcismi.
vv. 10,16-11,1
:Annuncio di tribolazioni e persecuzioni per il nome di Gesù.
Terzo blocco
narrativo
Mt.
11,2 – 16,12
Evento Nodale
Mt. 11,2-6
Su
sollecitazione dei discepoli di Giovanni, Gesù risponde con le
parole del profeta Isaia, presentando il senso del suo operare e
del suo annuncio che lo qualificano come il Messia atteso.
Eventi Satelliti
Accentuano l’identità di
Gesù e creano divisione tra gli ascoltatori: comprensione e
accoglienza tra i discepoli e la cananea; mentre i farisei, le
folle e la gente di Nazaret non comprendono e si oppongono a
Gesù.
Quarto blocco
narrativo
Mt.
16,12 – 20,34
Evento Nodale
Mt. 16,12-28
Gesù è riconosciuto come
il Cristo e il Figlio di Dio e, come tale, egli deve morire e
risuscitare il terzo giorno. Tale strada diventa paradigma per i
suoi discepoli finché egli non tornerà.
Quindi, l’identità di Gesù
e la divisione che essa provoca, ora, si arricchisce anche di
questi due nuovi aspetti: morte e risurrezione, strada obbligata
per i suoi discepoli.
Eventi Satelliti
Mt. 16,29-20,34
Si snodano evidenziando
ora l’uno, ora l’altro aspetto:
- Trasfigurazione, in cui viene confermata la sua identità di
Messia e Figlio di Dio.
- Ripetuti richiami alla sua morte e risurrezione,
controbilanciati dalla difficoltà di comprendere dei suoi
discepoli.
- Richiami di Gesù sullo stile di vita dei discepoli e sulla loro
fede e difficoltà di comprendere la vera natura del Regno.
- Stile
di vita all’interno della comunità.
Quinto blocco
narrativo
Mt.
21,1 – 27,66
Evento Nodale
Mt. 21,1-27
Gesù entra in Gerusalemme
acclamato come Messia e Profeta dalle folle e a cui fa da
contrappeso il sempre più duro rifiuto dei capi del popolo e in
cui la parabola del fico sterile denuncia la loro infruttuosità.
Eventi Satelliti
Mt. 21,28-27,66
Da un lato
evidenziano, in un continuo crescendo, il conflitto tra Gesù e i
capi con una serie di parabole in cui viene denunciata
l’ottusità di Israele e dei suoi capi: i due figli (21,28-32); i vignaioli ribelli (21,33-45); il
banchetto di nozze (22,1-4).
Seguono dei tentativi da
parte dei capi di mettere in difficoltà Gesù con la questione
del “tributo a Cesare” (22,15-22); la questione della “risurrezione
dai morti” (22,23-33) e quella sul “comandamento più
grande” (22,34-40).
A tali prove Gesù replica
con l’invettiva che occupa l’intero capitolo 23, dominato da sei
“Guai a voi” e si conclude con il lamento su Gerusalemme
per essersi ostinatamente chiusa all’ultimo richiamo di Dio.
Questo crescendo di
conflittualità tra Gesù e i capi sfocia nei capp. 26 e 27 con il
complotto, riuscito, da parte dei capi di Israele con
l’abbandono e il rinnegamento dei suoi e la crocifissione e
morte.
Sesto blocco
narrativo
Mt.
28, 1 – 20
Evento Nodale
Mt. 28,1-10
È l’annuncio della
risurrezione di Gesù entro una cornice teofanica: terremoto e
visione dell’angelo, contrassegnata dalla paura, quale reazione
dell’uomo al mondo del divino. Constatazione della nuova vita di
Gesù nelle apparizioni.
Eventi Satelliti
Mt 28,11-20
Recidiva nell’incredulità
da parte dei capi che diffondono delle falsità sulla tomba
vuota, contrariamente ai discepoli che lo adorano e ricevono il
mandato di rendere discepole tutte le nazioni, rassicurandoli
con la sua presenza fino alla fine dei tempi.
Questi eventi satelliti
mettono in evidenza il senso della risurrezione che apre la
storia a nuove prospettive.
IL MANDATO MISSIONARIO
Mt. 28, 16-20
Struttura
Il passo di Matteo
28,16-20 si suddivide in due parti delineate dalla diversità di
soggetti che in esse vi operano. Nella prima, (28,16-17),
gli attori principali sono i discepoli; nella seconda,
(28,18-20), è Gesù.
A sua volta la prima
parte si suddivide in altre due sottoparti:
-
I
discepoli vanno in Galilea, sul monte, secondo le disposizioni
di Gesù; (28,16)
-
I
discepoli, qui, vedono Gesù, si prostrano davanti a lui, ma
dubitano di lui (28,17)
Similmente, la seconda
parte si suddivide in altre tre sottoparti:
- Gesù
si presenta come il Cristo cosmico in cui ogni potere è stato
accentrato; (28,18)
- In
virtù del suo potere (dunque) affida la sua
missione che consiste nel fare discepole tutte le nazioni;
(28,19)
- Battesimo ed Insegnamento costituiscono le due modalità con cui
attuare la missione; (28,19b-20a);
Questa terza parte si
chiude con la promessa di una presenza continua nel tempo; una
sorta di affiancamento ai discepoli che operano nel suo nome e
che, operando nel suo nome, lo rendono nuovamente presente.
L’insieme della seconda
parte è caratterizzato dal ripetersi quasi ossessivo (ben 4
volte) del termine “tutto” : ogni potere;
tutte le nazioni; tutto quanto; tutti i
giorni. Esso dà il senso della totalità e della pienezza
dell’azione del Cristo risorto che si estende universalmente
senza più limiti spazio-temporali.
Interpretazione della
“Prima Parte”
Mt. 28, 16 - 17
L’orizzonte entro cui si
muovono i vv. 16 e 17 è essenzialmente ecclesiale. Infatti la
cornice storica caratteristica delle apparizioni (Gesù
appare, i discepoli non lo riconoscono, lui che si fa
riconoscere con qualche gesto, la gioia del riconoscimento, ecc.)
è completamente assente; l’impatto con Gesù è immediato: “E
vedendolo”. Matteo quando scrive è ormai lontano dalle
vicende storiche di quasi oltre mezzo secolo. L’impatto delle
emozioni e dei ricordi si sono attenuati lasciando spazio alla
fede della tradizione. Il vedere dei “discepoli”
ora è solo quello della fede; e i discepoli a cui Matteo qui
allude non sono più i primissimi seguaci di Gesù, bensì coloro
che compongono la comunità dei credenti, probabilmente la stessa
comunità di Matteo, la quale crede e adora Gesù come Figlio di
Dio, ma nutre dei dubbi sulla sua figura di risorto; ecco perché
“vedendolo si prostrarono, ma dubitarono”.
Il dubbio è una costante
che accompagna le apparizioni del Risorto e viene superato da un
gesto materiale di Gesù, come il mangiare; o da una verifica
empirica, come per Tommaso; o da una nuova apparizione, come in
Mc. 16,14ss. Qui, in Matteo, niente di tutto questo. Ciò che fa
superare il dubbio è la parola, il messaggio che Gesù lascia ai
discepoli. Siamo, quindi, ben lontani dai tempi dei fatti: la
cornice storica è sostituita dalla Parola; la fede poggia, ora,
solo sull’annuncio. È evidente, dunque, che qui Matteo si sta
rivolgendo alla sua comunità che è ormai lontana dalla risonanza
degli avvenimenti che hanno sconvolto quel tempo e che,
invece, risuonano ancora vivi in Marco.
Per Matteo il dubbio è
sempre un segno di fede piccola e non ancora matura che sembra
caratterizzare la sua comunità. Su di un paino religioso, il
dubbio si insinua quando la realtà divina si scontra con le
logiche umane. Matteo, dunque, sostiene questa piccola fede
della sua comunità con la solenne proclamazione dei vv. 18-20.
Matteo apre la scena
menzionando gli “Undici discepoli”. Sembra,
dunque, che qui egli si riferisca ai discepoli storici, in realtà per Matteo la figura dei discepoli è divenuta
paradigmatica nel senso che in essi vede riflessi i credenti
della sua comunità. Non fa, quindi, eccezione neppure in questo
passo, che viene riletto in chiave ecclesiale. Inoltre, quel “fate
discepole tutte le nazioni” lascia ben intendere che, ormai,
il concetto dei discepoli storici è stato superato per
lasciar spazio a quello più ampio di “discepolato universale”.
Gli “Undici discepoli
”, pertanto, che “vedono”, cioè credono, e che “si
prostrano”, cioè adorano la divinità di Gesù, ma dubitano
della sua risurrezione, riflettono, in realtà, la situazione dei
credenti della sua comunità che sono in bilico tra “l’adorazione
e il dubbio”.
Essi “andarono in
Galilea, sul monte dove aveva loro ordinato”. In
questo solo cap. 28 Matteo cita per ben tre volte (26,32 e
28,7.10.16), riagganciandosi al 26,32, il nome “Galilea”
quale luogo in cui i discepoli lo vedranno. L’importanza
della Galilea risiede nel fatto che proprio lì Gesù ha svoltola
prima fase del suo ministero. Vuole, dunque, che i suoi
discepoli ritornino alle origini storiche della sua missione,
creando, in tal modo, una continuità tra la sua missione storica
e quella di risorto, ora, presente e operante nei discepoli. Una
continuità che viene anche esplicitamente sottolineata nel v.20
“Insegnando loro tutto quanto vi ho comandato”:
l’insegnamento di cui, ora, i discepoli devono farsi carico è
strettamente agganciato a quello lasciato loro dal Gesù terreno,
creando, così, una stretta e inscindibile continuità tra storia
e metastoria.
Il monte,
su cui i discepoli sono chiamati, assume qui più che una
connotazione topografica, una teologica. È, infatti, sul monte,
anticamente concepito come la dimora del divino, che Dio appare
e si rivela, come avvenne nella trasfigurazione. Infatti, in
Matteo il monte designa costantemente il luogo della rivelazione
(5,1: monte delle beatitudini; 15,29: seduto sul monte guarisce ciechi, zoppi, storpi, muti e la folla
meravigliata glorificava Dio; 17,1: trasfigurazione).
Interpretazione della
“Seconda Parte”
Mt. 28, 18 - 20
v. 18:
questo versetto si apre con “e Gesù avvicinatosi, parlò loro”.
Interessante notare come Gesù si rivolge a dei discepoli che
credono si, ma sono assaliti dai dubbi. Ora egli sta per
rafforzarli nella fede; ecco, quindi, che “si avvicina a
loro”, cioè toglie le distanze del dubbio che lo
separano dai suoi discepoli e lo fa con la sua parola.
È assente qui la cornice
storica delle apparizioni che è sostituita, invece, dalla
presenza di Gesù che si muove verso di loro con la sua parola.
Siamo, quindi, nell’ambito del kerigma e della parola da cui
nasce la fede. Al dubbio, dunque, è opposta non più la storia,
ma il kerigma.
“A me è stato
dato ogni potere in cielo e sulla terra”.
Al centro di questa frase ci sta il termine potere (™xous…a)
che di per sé non qualifica il Risorto. Infatti, questo potere
Gesù lo ha anche nella sua dimensione spazio-temporale (“tutto
è stato consegnato a me dal Padre mio” 11,27); è, invece, la
modalità con cui Gesù ora esercita questo suo
potere: “in cielo e sulla terra”. È, dunque, un potere
universale, un potere cosmico: egli, ora, è il Signore.
v. 19
“Andando, dunque,” questo “dunque” lega il
potere universale di Gesù alla missione (“andando”) in
cui è riversato pienamente. Così la missione sembra essere la
conseguenza e l’attuazione di questo potere, che non è politico
o militare, ma salvifico. Come dire che proprio attraverso
questa missione promanerà la forza salvifica del Risorto che
investirà tutti gli uomini. Una missione che ha il carattere
dell’universalità come universale è il potere di cui questa
missione è depositaria.
Questa universalità, con
cui è caratterizzata questa missione, si esprime nell’imperativo
di “fate discepole tutte le nazioni”. Il verbo
maqhteÚw è
particolarmente usato da Matteo, mentre Marco e Luca usano il
verbo khrÚssw.
La differenza tra i due
verbi è notevole.
Mentre
khrÚssw è il
verbo del banditore ed esprime la proclamazione e l’annuncio
pubblico; contiene, dunque, in sé una nota di universalità che
coinvolge e investe chiunque ascolta;
maqhteÚw,
rispecchia, invece, la condizione del discepolo e significa “essere
discepolo di qualcuno; insegnare, ammaestrare”. Qui, quindi,
non c’è un semplice annuncio, ma esprime tutta la cura e la
preoccupazione perché questo annuncio attecchisca e porti
frutti abbondanti. Esprime un rapporto di dipendenza da un unico
maestro e ne sottolinea la sequela dei discepoli. È, dunque, un
verbo molto intenso e di profondo significato. Un verbo che
oltrepassa la stretta cerchia storica dei primi discepoli per
aprirsi alla universalità dei popoli.
L’obiettivo, dunque, della
missione non è un semplice annuncio di una lieta notizia, ma il
creare una sequela unica di un unico maestro. La finalità di
tale mandato, rivolto a tutte le nazioni, consiste nell’offrire
a tutti, indistintamente, l’opportunità di accedere all’unica
sequela che comporta un nuovo stile di vita.
Gli strumenti per attuare
questa sequela sono individuati nei due participi “Bapt…zontej”
e “did£skontej”,
battezzando e insegnando. Il battesimo e
l’insegnamento, dunque, sono i mezzi indicati da Gesù per
compiere la missione di rendere
discepole tutte le nazioni.
Il battesimo, già
liturgicizzato in Matteo nella formula trinitaria, diventa la
chiave d’ingresso alla comunità e indica l’appartenenza del
credente al Signore risorto. Mentre l’espressione “nel nome”
esprime l’aspetto salvifico del battesimo, invocando sul
catecumeno la Trinità, alla cui vita il credente con il
battesimo accede.
v. 20
L’altro strumento è l’insegnamento.
MaqhteÚw e
Did£scw
formano il binomio che unisce strettamente il maestro al
discepolo in un’unica sequela. La stretta sequela del discepolo
al maestro fa si che anche il discepolo sia costituito portatore
autorizzato dell’insegnamento del maestro e della tradizione.
Vediamo, dunque, come
questo insegnamento, finalizzato al discepolato, è altamente
missionario e investe tutti gli uomini che trovano nei discepoli
il loro paradigma.
Lo scopo dell’insegnamento
è “l’osservare tutto quanto vi ho comandato”. Osservare, dunque, esprime l’obbedienza concreta e
fedele a quanto comandato.
Con questa espressione
Matteo riallaccia il Gesù risorto a quello terreno, creando una
continuità che differisce solo nel modo di porsi, ma non nella
sostanza. Per Matteo, dunque, l’insegnamento del Gesù terreno,
riscattato dal Cristo risorto, diventa un comandamento (™neteil£men=
comandare, ingiungere, ordinare). Qui Matteo usa
l’aoristo (™neteil£men)
per indicare un fatto puntuale nel tempo (Gesù terreno) ,
ma che, in virtù della risurrezione, produce i suoi effetti
anche nel presente. L’annunciare, quindi, del Gesù risorto
implica il ricordo del Gesù storico.
v. 20b
Tutta questa seconda parte è segnata da una serie di participi “Avvicinatosi;
Andando; Battezzandoli; Insegnando” che scandiscono l’azione
del Risorto sui discepoli e il senso della missione a loro
affidata.
Ora, questa catena, quasi
d’improvviso, si interrompe, e irrompe con quel “Ed ecco”
la promessa del Risorto “Io sono con voi tutti i giorni fino
alla fine del tempo”.
Quell’espressione “sono
con voi” costituisce un forte richiamo
veterotestamentario, con cui Jhwh prometteva assistenza a
singoli personaggi o all’intero popolo impegnati in qualche
missione (Gs.1,5; ). Alla stregua di Dio, Gesù promette la sua
presenza gloriosa in mezzo ai suoi discepoli, che molto richiama
la shekinah, la presenza di Dio in mezzo al suo popolo. Si
viene, quindi, a creare una sorta di parallelo tra Gesù e Dio. “Il
Dio con noi” è l’Emmanuele e tale qui viene
presentato Gesù da Matteo.
Si viene a creare, qui,
un’ampia e importante inclusione con il v. 1,23 “Ecco,
la vergine avrà in grembo e partorirà un figlio e chiameranno il
suo nome Emmanuele (Is.7,14) che tradotto significa Dio con noi
”.
In questo passo appare
chiaramente come questo Gesù-Emmanuele costituisce l’elemento di
mediazione tra Dio e gli uomini e con la sua presenza diventa ad
essere il “Dio-con-noi”. Vista in questo orizzonte, tutta
l’opera di Gesù deve essere letta come il tentativo di ricucire
i rapporti tra Dio e gli uomini e riprendere quel dialogo,
interrotto nel Paradiso Terrestre, tra Dio e Adamo.
Tale ricostituzione di
rapporto e di dialogo avviene attraverso l’annuncio, la morte e
risurrezione di Gesù che offrono all’uomo la possibilità di
mettersi, in modo definitivo, nel giusto rapporto con Dio e di
riprendere quel dialogo interrotto.
Ora, questa presenza fino
alla consumazione del tempo ci dice come Dio, prima nel suo
Cristo, ora nella comunità dei credenti, è ritornato in mezzo
agli uomini e con la sua presenza li interpella e li spinge a
far nuovamente parte del suo mondo, come era nei primordi.
VANGELO DI LUCA
Introduzione
Vangelo e Atti degli
Apostoli costituiscono un’unica e inscindibile opera di Luca, il
cui intento era quello di presentare l’opera di Gesù che si
prolunga in quella della Chiesa. Solo nel II sec. l’obera viene
smembrata con l’inserimento del vangelo di Giovanni.
Lo stile di Luca è fluido
ed elegante di tipo narrativo e ricco di materiale suo esclusivo
(SLc) :
- risurrezione della figlia della vedova di Naim
- il
perdono alla peccatrice e il buon ladrone
- conversione di Zaccheo
- apparizione ai discepoli di Emmaus
- parabola del buon samaritano e del figlio prodigo
- parabola del ricco Epulone e Lazzaro
Inoltre, Luca ha fornito
il maggior materiale alla vita liturgica della Chiesa:
- Tre
inni: Magnificat, Benedictus, Nunc dimittis
- Ciclo
liturgico del Natale
- Annunciazione, Presentazione al tempio
- Natività del Battista
- Ascensione e Pentecoste
Autore
Il terzo Vangelo canonico
viene attribuito dal Canone Muratoriano (170 d.C.) e da alcuni
Padri della Chiesa a Luca.
Questo Luca viene più
volte citato da Paolo come suo compagno di missione e come
medico, benché, da un’analisi interna al vangelo, non risulti
essere né medico, considerato il lessico usato nel descrivere le
malattie; né compagno di Paolo, in quanto nei suoi scritti Luca
non vi rispecchia il pensiero. Inoltre risultano delle
discrepanze tra quanto Paolo riporta nelle sue lettere e quanto
Luca, invece, riporta negli Atti (v. Concilio di Gerusalemme).
Luca si presenta come un
cristiano proveniente dal paganesimo verso cui si mostra molto
sensibile e si pone nella generazione successiva a quella di
Paolo.
Data
Per quanto riguarda il
Vangelo viene posta tra l’ 85-90 per la menzione della
distruzione di Gerusalemme (70 d.C.). In tal senso significativo
è il cambiamento dell’espressione marciana “Quando vedrete la
desolazione dell’abominio là …” con “Quando vedrete
Gerusalemme circondata dagli eserciti” (Lc.21,20).
Quanto agli Atti, li si
fanno risalire intorno all’anno 62 per la mancata menzione del
martirio di Pietro e Paolo, avvenuto tra il 64-67.
Luogo di composizione
È sconosciuto benché varie
siano le proposte, ma non determinanti nelle motivazioni: Acaia,
Antiochia, Roma. Sicuramente non in Palestina, visto che
l’autore non ne conosce la geografia.
Destinatari
L’opera di Luca (Vangelo
+ Atti) è rivolta ai cristiani provenienti dal paganesimo e
appartenenti alle comunità paoline, considerata la rilevanza che
Luca dà alla figura di Paolo negli Atti. Inoltre perché evita
espressioni offensive ai pagani, ne difende l’autonomia dal
giudaismo, sottolinea la dimensione universale della salvezza,
riporta episodi e detti di Gesù che preludono alla missione
della Chiesa ai gentili.
Il problema che queste
comunità si pongono è di tipo ecclesiologico: quale identità
esse hanno nell’ambito della storia della salvezza, considerato
che esse non hanno mai partecipato al giudaismo? Luca risponde
prospettando la dimensione universale della storia della
salvezza che supera le angustie del giudaismo. Infatti ciò che
domina nell’opera lucana sono i rapporti tra
Israele-Chiesa-Pagani. Luca considera vero Israele coloro che
attendono il compimento della promessa di Cristo e si aprono
alla speranza.
STRUTTURA DEL VANGELO
DI LUCA
Dal prologo del Vangelo
non sembra che Luca si sia proposto di seguire particolari
schemi se non quello di narrare con ordine le vicende storiche
riguardanti Gesù, secondo un criterio apparentemente biografico.
Il Fitzmyer ne propone
uno, benché non sia, chiaramente, l’unico. Esso, tuttavia,
sembra essere il più accettabile perché nel suo svolgimento
rispetta quel raccontare con ordine voluto da Luca:
- Prologo (1,1-4)
- Racconto dell’infanzia (1,5 - 2,52)
- Preparazione al ministero pubblico (3,1 – 4,13)
- Ministero in Galilea (4,14 – 9,50)
- Viaggio verso Gerusalemme (9,51 – 19,27)
- Ministero a Gerusalemme (19,28 – 21,38)
- Racconto della passione e risurrezione (22 - 24)
Prologo
Lc.1,1-4
Il Vangelo si apre con un
prologo che sarà, poi, ripreso dagli Atti, dando, in tal modo,
unitarietà all’intera opera lucana che, aprendosi con l’infanzia
di Gesù, si chiude con l’arrivo a Roma di Paolo.
L’opera, pertanto, viene
suddivisa in due sezione: il tempo di Gesù (Vangelo) e il
tempo della Chiesa (Atti degli Apostoli).
A differenza degli altri
due sinottici, Luca nel suo prologo non annuncia tematiche, ma
illustra il metodo di ricerca, le fonti e lo scopo.
Racconto
dell’infanzia
Lc. 1,5 - 2,52
Il
materiale che compone questa sezione è proprio di Luca (SLc) ed
è, come impostazione, sostanzialmente diversa da Matteo:
- Il
racconto è molto più ampio (138 vv. in Lc, solo 48 in Matteo)
- Diverso uso dell’AT: strutturale in Matteo che sviluppa il suo
racconto intorno a 5 citazioni, Soltanto una in Luca con
funzione chiarificativa.
- Matteo vede in Gesù il compiersi della scrittura; in Luca Gesù è
solo l’attore principale. Non ci sono intenti dimostrativi.
- Lo
stile di Matteo è austero, ieratico, sacrale e sapienziale.
Familiare, idilliaco e narrativo quello di Luca.
-
Matteo struttura il racconto dell’infanzia su due tematiche:
origine divino-umana di Gesù e avvicinamento a Gesù dei Gentili
e rifiuto dei connazionali. Luca, invece, imposta il racconto su
un raffronto parallelo di due vite: quella del Battista e quella
di Gesù, allo scopo di evidenziarne il rapporto e sottolineare
la superiorità della figura di Gesù sul Battista.
Nonostante queste
caratteristiche proprie che ne fanno due racconti autonomi,
esistono, tuttavia, delle comuni convergenze:
- Concepimento verginale
- Nascita a Betlemme
- Appartenenza a stirpe davidica
- Sposalizio di Giuseppe e Maria
- Nascita sotto re Erode
- Dimora a Nazaret fino alla vita pubblica
Preparazione al
ministero pubblico
Lc. 3,1 – 4,13
In questa sezione Luca si
rifà, come materiale e struttura, a Marco con apporto di
materiale proprio e di fonte Q.
Questa “preparazione”
è composta prevalentemente da tre cornici finalizzate a mettere
in rilievo la figura di Gesù e il suo contenuto:
-
L’inquadramento della figura del Battista in un dettagliato
quadro storico serve a Luca per inserire l’azione di Dio e Gesù
nell’ambito della storia universale. In tal modo la storia della
salvezza si inserisce nell’ambito della storia umana e in essa
vi trova attuazione.
-
La
seconda distingue il tempo di Giovanni da quello di Gesù,
facendo terminare il tempo di Giovanni con il carcere e l’inizio
di quello di Gesù con il battesimo. Con Giovanni termina l’AT,
con Gesù iniziano i tempi nuovi.
-
La
predicazione del Battista che in Matteo e Marco assume toni
escatologici e penitenziali, in Luca si trasforma in una
parentesi basata sull’amore.
-
Il
battesimo, appena accennato, ha la funzione di inquadrare la
figura di Gesù in una cornice teofanica e di investitura
ufficiale da parte di Dio; mentre la genealogia posta
immediatamente dopo il battesimo, sottolinea la dimensione
divina di Gesù.
-
Le
tentazioni, prese da fonte Q, si concludono con Satana che
lascia Gesù al Tempio di Gerusalemme, quasi per dargli un
appuntamento, più avanti, al momento della passione.
Ministero di Gesù in
Galilea
Lc. 4,14 – 9,50
La prima fase del
ministero pubblico di Gesù viene inquadrata in Galilea secondo
uno schema geografico che si ripeterà, poi, nelle accuse contro
Gesù: “Costui solleva il popolo insegnando per tutta la
Giudea, dopo aver incominciato dalla Galilea, fino qui a
Gerusalemme” (Lc.23,5) e ancora “Voi conoscete ciò che è
accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea”
(At. 10,37)
Tale sezione è desunta in
buona parte da Marco e in parte da fonte Q e da fonte propria (SLc).
Tale ministero potrebbe
essere articolato in sei parti:
-
Inizio dell’attività pubblica inaugurata nella sinagoga di
Nazaret (4,14 - 6,11)
- Discorso della pianura (6,12-49) preceduto dalla costituzione
del gruppo dei Dodici e dalla folla che viene da ogni parte
della Palestina. Trova il suo parallelo, benché in forma
ridotta, in Matteo.
- Gesù,
taumaturgo e profeta incompreso e contestato (7,1-8,3) è
evidenziato dalla guarigione del figlio del centurione, dalla
risurrezione della figlia della vedova di Naim, da una
interrogazione sulla figura del Battista e dall’episodio della
peccatrice nella casa del fariseo.
- Insegnamento in parabole (8,4-21) in cui si riporta solo quella
del Seminatore, della sua spiegazione e del detto della
Lucerna.
- Ancora Gesù taumaturgo (8,22-56) in cui si riporta Marco 4,35 -
5,43: guarigione dell’indemoniato pagano e della figlia di
Giairo.
- Verso
la costituzione della Chiesa (9,51 – 19,27)
Viaggio verso
Gerusalemme
Lc. 9,51 – 19,27
Qui Luca si stacca da
Marco e attinge alla fonte Q e a materiale proprio (SLc). È
un’ampia composizione in cui il tema del viaggio verso
Gerusalemme viene ripetutamente richiamato.
Le indicazioni
topografiche sono vaghe e imprecise e ciò fa pensare che Luca
non stia descrivendo un viaggio reale, ma teologico in cui
Gerusalemme è vista come il centro e la meta di tutta la storia
della salvezza. Infatti, la sottolineatura di Gesù “… perché
non conviene che un profeta perisca fuori da Gerusalemme”
(13,33) dà la vera motivazione di questo viaggio: in Gerusalemme
si compie il grande mistero della salvezza pensato da sempre da
Dio.
Nel corso di questo
viaggio teologico verso Gerusalemme vengono compiute piccole
catechesi per l’istruzione della comunità.
Ministero di Gesù a
Gerusalemme
Lc. 19,28 –
21,38
Qui Luca riprende Marco.
Luca evidenzia in 19,28 come “Gesù proseguì davanti agli
altri salendo verso Gerusalemme”. Così Gesù precede i suoi
discepoli indicando loro la strada della sofferenza e della
croce, quali caratteristiche della sequela.
Entrato a Gerusalemme,
Gesù non la lascerà più. Infatti, dopo la sua entrata regale,
quale discendenza regale davidica profetizzata da Natan, Gesù si
stabilisce nel tempio e vi esercita la sua autorità e il suo
insegnamento, definendolo la sua casa.
Da questo momento in poi
il rapporto con i farisei e i capi del popolo si fa molto teso
in un continuo di scaramucce e trappole.
Passione e
risurrezione di Gesù
Lc. 22 – 24
Nell’ambito degli eventi
Luca si rifà liberamente a Marco.
Il messaggio teologico
di Luca
Luca,
pur dichiarando storico, è innanzitutto un evangelista,che cerca
di far emergere dai fatti l’evento salvifico Gesù.
La
sottolineatura storica degli eventi vuole evidenziare l’agire
salvifico di Dio nella storia. Il fattore tempo, pertanto,
diventa fondamentale perché è in esso che si attua e si
manifesta la salvezza.
Quindi, Luca, ben lungi
dall’essere un neutrale raccoglitore e redattore di fatti, ne
diventa interprete trasformando i fatti della storia in eventi della salvezza. Per Luca la storia della salvezza si
snoda in tre tappe: Il tempo di Israele, il tempo di Gesù e
quello della Chiesa.
Luca, infatti, fu definito
il primo teologo della storia della salvezza,
termine che ricorre 6 volte nel suo vangelo, contro 1volta in
Giovanni e 0 volte in Matteo e in Marco.
Per Luca, infatti, quella
salvezza offerta da Dio nell’AT continua ora nel NT in Gesù e
nella sua Chiesa. Una salvezza che si compie nell’ “oggi”,
termine che viene ripetuto in Luca ben undici volte. Esso indica
la salvezza già presente e attuata “hinc et nunc” nella
persona di Gesù e nelle sue opere e costituisce un tratto
caratteristico di Luca.
Accanto all’oggi della
salvezza si affianca spesso in Luca il “deve compiersi,
attuarsi”, lasciando sottintendere la presenza di un disegno
salvifico di Dio, predetto dalle Scritture, e che Gesù insegna a
legge, in tal senso, ai due discepoli di Emmaus.
Un altro aspetto molto
importante in Luca è la dimensione geografica espressa nella
categoria del cammino come via della
salvezza che Luca identifica in Gesù.
Egli apre in prima persona
questa via che, dopo la risurrezione, sarà percorsa dai suoi
discepoli e dalla sua Chiesa.
Non a caso, infatti, Luca
inquadra il ministero di Gesù in un grande itinerario che,
partendo dalla Galilea, si conclude a Gerusalemme, epicentro
della salvezza.
Il cammino di Gesù,
dunque, si chiude a Gerusalemme, e sarà proprio da Gerusalemme
che inizierà il cammino della Chiesa verso tutte le nazioni.
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