IL VANGELO SECONDO MARCO



   Parte introduttiva


         Commento esegetico e teologico

        a cura di Giovanni Lonardi





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Premessa

La prima lettera di Giovanni inizia in modo significativo con la testimonianza del Verbo della Vita, che si attua attraverso l'annuncio, che crea comunione all'interno della comunità credente e con il Padre: “Ciò che era da principio, ciò che abbiamo udito, ciò che abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che abbiamo contemplato e le nostre mani toccarono, a riguardo del Verbo della Vita – e la vita si manifestò, e abbiamo visto e testimoniamo e annunciamo a voi la Vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi – ciò che abbiamo veduto e abbiamo udito annunciamo anche a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi. E la nostra comunione (è) con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo1” (1Gv 1,1-3).

Il principio, di cui si parla qui, non è un principio assoluto, metafisico o metastorico, che verrebbe in tal caso formulato con l'espressione “'En ¢rcÍ” (En archê, In principio)2, ma storico ed è espresso con la formula “¢p' ¢rcÁj” (ap'archês), in cui quel “apo” dice il punto di origine da cui tutto si è originato. Si tratta, quindi, di un inizio che ha avuto origine nella storia. E questo inizio storico è Gesù, sacramento di comunione con il Padre3, da cui tutto si è originato e al quale tutto viene ricondotto in un profondo ciclo vitale di comunione, che accorpa la comunità credente al Padre, dove si chiude il ciclo di comunione. E tutto ciò si attua attraverso l'annuncio accolto. Il verbo greco “¢paggšllomen” (apanghéllomen, annunciamo) non lascia dubbi. Il verbo “¢paggšllw” (apanghéllo) è composto da due parole: “apo+anghello” e quel “apo” dice la provenienza dell'annuncio, che va “da” “a”. Ci si muove, quindi all'interno di una catena di trasmissione che ha avuto la sua origine prima e assoluta nel Padre, che ha mandato il Figlio, il quale annuncia agli uomini, che, a loro volta, annunciano ad altri uomini e il tutto si attua attraverso l'annuncio della Parola, che passa di parola in parola, quasi come un eco inarrestabile che si propaga lungo i secoli e che investe l'intera umanità.

L'annuncio originariamente avveniva attraverso la predicazione di questo evento storico, Gesù, a cui si attribuiva un significato rivelativo e salvifico. Era, inizialmente, una predicazione semplice, diretta, vivace, priva di elucubrazioni teologiche (per queste dobbiamo aspettare l'impatto con il mondo greco) e per questo molto incisiva. Alcuni esempi di questa predicazione primitiva, definita kerigma, si trovano in At 2,22-36 e 3,12-19. Il verbo greco che la definisce è “khrÚssw” (kerísso), che significa bandire, gridare, proclamare come un araldo, annunciare, notificare, far sapere con pubblico bando. Un verbo questo che nel NT ricorre significativamente 61 volte, per indicare l'attività della predicazione orale, che caratterizzava questa nuova epoca. Per contro, altrettanto significativamente, il verbo “khrÚssw” nell'A.T. non compare neppure una volta. Questo significa che la predicazione orale ha avuto un peso determinante per la diffusione dell'annuncio cristiano, mentre nell'A.T. si deve parlare esclusivamente non di annuncio e, quindi, di proselitismo, benché questo non sia mancato4, ma di Tradizione, di catena di trasmissione5 e, quindi, di semplice conservazione. Tuttavia va detto che questo aspetto vitale della Tradizione non è mai mancato neppure alle origini della chiesa (1Cor 11,23; 15,23), ma, diversamente dal giudaismo, essa non ha mai limitato l'espandersi dinamico dell'annuncio6, perché non vi era preclusione alcuna nei confronti di nessun uomo, tutti chiamati egualmente ad accogliere l'annuncio di Vita, indipendentemente dalla loro appartenenza sociale, culturale e religiosa (At, 10,34-35; Rm 3,21-24). Non vi era, come nel giudaismo, un profondo senso di appartenenza e di esclusiva elezione (Es 19,4-6), che lo separava dagli altri popoli (Lv 20,24b.26; 1Re 8,53; Esd 10,11; Ne 9,2).

Il modello letterario del Vangelo di Marco

L'importanza del primitivo annuncio cristiano, che avveniva attraverso la predicazione orale, costituiva la missione principale di Paolo, che di se stesso attesta in 1Cor 1,17: “Cristo infatti non mi ha mandato a battezzare, ma a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo”; mentre in Rm 10,17 fa dipendere la fede dalla predicazione: “La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo”. La Parola annunciata, pertanto, costituiva la fondamentale dinamica di espansione del cristianesimo.

In questo primitivo quanto fondamentale contesto di trasmissione orale della fede, attraverso la predicazione dell'evento storico Gesù, che si riteneva evento di rivelazione del Padre e di salvezza, raggiungibile attraverso la fede, si inserisce un fenomeno completamente nuovo e inatteso: il vangelo di Marco, che funge da spartiacque tra la predicazione orale e quella scritta. Ho detto “predicazione scritta”, che sembra essere una contraddizione in terminis, poiché per sua natura la predicazione è sempre orale. Ma sta proprio in questa formula, “predicazione scritta”, il senso e la natura stessa del vangelo di Marco. Non a caso l'evangelista definisce fin da subito la sua opera scritta come “eÙaggšlioj” (euanghéllios) (1,1), cioè “un buono o lieto annuncio”. Si tratta, dunque, di un annuncio orale messo per iscritto. Questo è il vangelo di Marco. Un'opera scritta che attinge dalla predicazione orale e in essa si radica, dandole una sua struttura organica, che si sviluppa in una logica sequenza di eventi, raggruppandoli per sezioni, sunteggiando i concetti fondamentali in sommari, che concludono o preannunciano nuove sezioni o nuovi contesti narrativi, dando al tutto un senso logico ben coordinato. Ma lo scritto di Marco non è un qualcosa di diverso dalla predicazione orale, ma da questa nasce e ne risente profondamente nel suo modo di esprimersi immediato, diretto, concreto e incisivo, caratteristiche queste proprie della predicazione orale.

Tra gli studiosi ci si chiede spesso a quale modello letterario dell'epoca Marco si sia ispirato, magari adattandolo, poi, alle proprie esigenze. In realtà Marco non si è ispirato a nessun modello letterario, ma si è semplicemente trovato nella necessità di dare una forma concreta e concretamente trasmissibile alla predicazione dei predicatori itineranti, i primissimi missionari della Parola, i quali non annunciavano a caso la Parola, ma seguivano, sia pur idealmente, uno schema di annuncio che ritroviamo in At 10,37-43: “Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme. Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti. E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio. Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome”.

Si parla di ciò che “è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea”. Si delimitano due aree geografiche entro cui si è mosso l'evento Gesù: dapprima la Galilea, da cui è partita l'azione missionaria di Gesù e che ha il suo prologo nel “battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth”. Si dice che Gesù è originario di Nazareth, attestandone, quindi, la storicità. Questo costituisce l'incipit dei Sinottici, ai quali si associa, a modo suo, anche Giovanni.

Si attesta poi che Gesù “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”. Un semplice e vago accenno all'attività di Gesù, che, proprio per questo, lascia ampio spazio alla predicazione di ogni singolo missionario itinerante, ma spingendolo nel contempo a contenere la sua predicazione entro dei confini precisi, definiti da due verbi fondamentali: “beneficando” e “risanando”, cioè facendo del bene e liberando gli uomini dal potere di satana, rigenerandoli a Dio. Un potere questo che gli viene direttamente da Dio: “perché Dio era con lui”. In altri termini, Gesù operava con lo stesso potere di Dio. E Marco sottolinea proprio questi due aspetti. Numerosi, infatti, sono i racconti e i sommari di guarigioni e di esorcismi, tutti accompagnati da attestazioni della divinità di Gesù da parte dei demoni e dallo stupore che la sua predicazione e la sua opera suscitava tra la gente.

Il movimento di Gesù parte, dunque, dalla Galilea per giungere alla Giudea. Due aree geografiche, come s'è detto, entro le quali Marco ambienterà il suo vangelo. L'attività galilaica di Gesù partirà da 1,14 e arriverà fino al cap 9,50; mentre a partire dal cap.10,1 questa è circoscritta alla Giudea, con direzione Gerusalemme, risolvendo l'intero movimento dalla Galilea alla Giudea con una semplice nota geografica, che occupa un solo versetto: “E alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano, e di nuovo le folle insieme vanno verso di lui, e come al solito li ammaestrava” (10,1). E già questa semplicità di passaggi, da un'area geografica ad un'altra, che segna il passaggio da un'ampia sezione (1,14-9,50) che vede l'evangelista impegnato nel suo continuo interrogarsi sull'identità di Gesù, ad un'altra (10,1-16-8), in cui si approfondisce il senso misterico di tale identità e il tutto finalizzato a comprendere il senso della passione-morte-risurrezione di Gesù, dice come Marco stia seguendo la semplicità discorsiva e priva di elucubrazioni teologiche propria della prima predicazione, quasi giustapponendo un'area geografica ad un'altra, una sezione di ricerca dell'identità ad un'altra finalizzata al suo approfondimento Per contro, Luca, su questo movimento geograficamente discendente, creerà un ipotetico viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che occuperà ben dieci capitoli del suo vangelo (Lc 9,51-19,28), creando in tal modo una forte tensione verso Gerusalemme, la città in cui si compiranno i misteri della salvezza e che costituisce la porta di accesso al ritorno di Gesù al Padre. Luca, dunque, contrariamente a Marco, svilupperà attorno a questo lunghissimo quanto fittizio viaggio tutta una sua cristologia e teologia.

Viene fatta poi un'ulteriore attestazione: “E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nella regione dei Giudei e in Gerusalemme”. Quel “noi siamo testimoni” allude al gruppo apostolico, di cui Marco narrerà lungo il corso dell'intero suo racconto evangelico, a partire dalla chiamata dei primi cinque discepoli (1,16-20; 2,14) e dalla sua costituzione (3,13-19). Il gruppo verrà denominato dall'autore con il termine “Dodici”, che compare per ben 11 volte da 3,14 fino a 14,43, creando una sorta di parallelismo tra la missione di Gesù e quella futura dei Dodici, di cui essi, ora, costituiscono soltanto una promessa, in cui riecheggia il progetto di Gesù fin dagli inizi: “E disse loro Gesù: <<Orsù, dietro di me, e farò che voi siate fatti pescatori di uomini>>” (1,17).

Viene precisato, poi, il contenuto della testimonianza, a cui sono chiamati i Dodici: “Essi lo uccisero appendendolo a una croce, ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti: E ci ha ordinato di annunziare al popolo e di attestare che egli è il giudice dei vivi e dei morti costituito da Dio”. Una parte questa che manca nel racconto marciano, che si ferma al v.16,8. Dovuto questo ad una deficienza dell'autore o alla perdita della parte conclusiva? Tenterò una risposta a suo tempo.

Lo schema evangelico, riportato da At 10,37-43, si conclude con il riferimento scritturistico ai profeti, che, secondo una ricomprensione cristiana delle Scritture, hanno dato la loro testimonianza sull'evento Gesù: “Tutti i profeti gli rendono questa testimonianza: chiunque crede in lui ottiene la remissione dei peccati per mezzo del suo nome”. E Marco, come meglio dettaglieremo in seguito, riporterà, tra dirette, indirette e immagini ben 46 citazioni o riferimenti scritturistici.

Marco, dunque, scrive il suo vangelo strutturandolo sullo schema dei predicatori itineranti e, quanto al contenuto e allo stile, rifacendosi alla loro predicazione.

Perché un vangelo?

Il motivo che ha spinto Marco a creare una simile laboriosa opera, che deve averlo impegnato notevolmente da un punto di vista letterario, intellettuale e, in materia dottrinale, cristologico e teologico, ci viene fornito dal prologo antimarcionita, databile tra il 165-180 d.C., probabilmente più vicino al 170 e sostanzialmente coevo al Frammento Muratoriano e ad Ireneo7: “Questi fu discepolo e interprete di Pietro, che riportò proprio come lo aveva ascoltato mentre riferiva. A Roma, dalle parti dell'Italia, richiesto dai fratelli, scrisse questo vangelo. Quando Pietro udì questo, approvò e con la sua autorità confermò che era da leggersi alla chiesa (di Roma)8.

Il motivo, dunque, per cui Marco scrive il suo vangelo è la richiesta da parte della comunità di Roma e quanto riporta nel suo vangelo è la stessa predicazione di Pietro. Un vangelo, quindi, che è legato alla predicazione, quella di Pietro, che egli ha seguito nella sua predicazione e grazie alla quale, a quanto sembra, si è convertito. Pietro, infatti, lo definisce come “Marco, figlio mio” (1Pt 5,13b), nel senso che Marco è stato generato a Cristo dalla predicazione di Pietro e, quindi, suo figlio spirituale9. Lo lascia intendere lo stesso prologo, definendo Marco un discepolo e interprete di Pietro.

Similmente e in termini più espliciti Papia, vescovo di Gerapoli tra il 110 e il 130, riporta quanto, a sua volta, gli aveva riferito il presbitero Giovanni: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non certo in ordine quanto si ricordava di ciò che il Signore aveva detto o fatto”. Quel “interprete” di Pietro, non va inteso in senso restrittivo e secondo i nostri parametri culturali, bensì con riferimento ai testi greco e latino. Quanto al primo, “˜rmhneut»j” (ermeneutés), benché tra i vari significati possieda anche quello di “interprete”, tuttavia vanno tenuti presenti anche altri e diversi significati che il termine offre, come quello di “colui che spiega, che dichiara, che espone, che cerca di far capire il pensiero”10. Similmente il termine latino “interpres” oltre che interprete, riporta anche altri significati, come “mediatore, messaggero, espositore, commentatore, illustratore”11. Quel interprete, pertanto, va inteso come sintetizzatore ed espositore della predicazione di Pietro. Lo stesso Girolamo, in riferimento al rapporto Pietro-Marco, dice, sinteticamente ma in modo incisivo e chiaro: “Petro narrante et illo scribente”, dando in tal modo una consequenzialità diretta tra la predicazione di Pietro e la composizione del vangelo marciano, evidenziando una volta di più come il racconto di Marco sia strettamente legato all'annuncio orale, che egli ha tradotto in uno scritto, che risente dell'oralità; ma nel contempo imprimendo il carattere della veridicità al racconto marciano, che in tal modo viene fatto dipendere dalla diretta predicazione di Pietro.

L'autore

La questione dell'autore si pone per il fatto che i vangeli, scritti tutti circa tra il 65 e il 110 d.C., sono nati anonimi all'interno delle diverse comunità credenti, utilizzando materiale letterario diversamente composto per esigenze proprie delle singole comunità e in risposta ai loro problemi sia intracomunitari che nelle relazioni con il mondo. L'anonimia venne tolta nel corso del II sec. d.C. per esigenze di canone, il quale si proponeva di stabilire l'autenticità di uno scritto utilizzando tre criteri: l'apostolicità, cioè lo scritto doveva essere fatto risalire direttamente o indirettamente ad uno degli apostoli, i diretti testimoni di Gesù, o alla loro predicazione; la fedeltà, cioè lo scritto non doveva contenere errori dottrinali; ed infine l'universalità dello scritto, cioè la sua diffusione presso le comunità credenti, ritenendo che le singole comunità, prima di introdurre lo scritto al proprio interno lo avessero prima attentamente vagliato, passando attraverso il filtro dei propri responsabili. Quindi, più occhi e più teste lo hanno valutato e attentamente soppesato prima di metterlo in uso12.

Da qui la necessità di associare i singoli vangeli a dei nomi di fiducia, che dovevano essere noti in mezzo alle comunità credenti dell'epoca. Nomi di personaggi che dovevano essere testimoni diretti, come quello di Giovanni, il discepolo prediletto, rifugiatosi ad Efeso con la sua comunità, dove, a seguito della sua testimonianza e predicazione, nasce il suo vangelo13; o di prima o seconda generazione, come quello di Matteo, lo scriba convertito, fattosi seguace di Gesù e divenuto poi responsabile di una o più comunità credenti giudeo-cristiane14; o di seconda o terza generazione, come quello di Luca, stretto collaboratore di Paolo e compagno dei suoi viaggi missionari, e autore di un vangelo squisitamente ecclesiologico dalle forti tinte missionarie15; o come quello di Marco, della cui identità ci occuperemo ora.

Due sono le strade da percorrere per giungere alla identificazione dell'autore del secondo vangelo: quelle interne al vangelo e quelle esterne.

Contrariamente a quanto in genere fanno gli studiosi, ho preferito partire dalla ricerca delle fonti interne del vangelo per poi arrivare a quelle esterne, poiché quelle interne sono certe e, se ben gestite e attentamente valutate, possono fornire una discreta immagine dell'autore. Questa, così ricavata, può guidare criticamente alle fonti esterne al vangelo, fornendo in tal modo un parametro abbastanza sicuro di raffronto.

Fonti interne


Chi è, dunque, Marco?

Analisi narrativa

Da un'attenta lettura del vangelo non è difficile capire che ci si trova di fronte ad un abile narratore, che conosce bene le tecniche del raccontare e sa essere avvincente, senza mai stancare il suo lettore.

Innanzitutto l'intero suo vangelo è costruito all'interno di ben 44 movimenti di Gesù, che si attuano all'interno di due grandi aree geografiche: 32 sono quelli che animano l'attività missionaria di Gesù nella Galilea (1,16-9,50) e 12 quelli della Giudea con direzione Gerusalemme (10,1-16,8). Continui spostamenti che servono a Marco anche per delimitare le diverse unità narrative e aperture o chiusure di sezioni.

Sa creare intorno alla figura di Gesù un grande interesse e una certa suspense, che stimola l'attenzione, la curiosità e lo stupore del suo lettore, che si identifica con i commenti che la gente muove circa il suo insegnamento e la sua autorità di gran lunga superiori a quelle degli scribi; un insegnamento mai udito e fatto con autorità e autorevolezza, che crea scandalo perché egli perdona i peccati, ma nel contempo crea timore e paura, quando con autorità domina le forze scatenate della natura. Ben dieci sono le segnalazioni di questo genere, che l'autore dissemina nel corso del suo vangelo16.

Ama vivacizzare i suoi racconti con la tecnica narrativa a sandwich, inserendo un racconto dentro un altro, creando attesa, suspense e stimolando l'attenzione del lettore o dell'ascoltatore, che deve saper ricordare e riprendere il filo del racconto lasciato in sospeso per dare spazio ad un altro. Sono cinque le unità che usano questo schema narrativo17.

Sa mettere in rilievo e creare attenzione e interesse attorno ad alcuni detti di Gesù attraverso la tecnica della sentenza inquadrata, cioè inserendo quel detto all'interno di un piccolo racconto, evitando in tal modo lunghi e noiosi elenchi di detti e aiutando così a meglio memorizzarli. Ben 19 sono tali piccoli racconti che incorniciano questi detti di Gesù18.

Numerose sono le annotazioni che precedono o concludono le unità narrative o introducono a nuove sezioni19, il cui intento è quello di orientare il lettore all'interno del racconto; sette sono i sommari20 finalizzati a sintetizzare l'operato e la predicazione di Gesù. Sommari che danno l'idea di essere formule sintetiche che servono all'autore per facilitare il lettore nel memorizzare meglio la figura di Gesù, che si muove di continuo in mezzo agli uomini “beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38b).

Ha il gusto del raccontare, disseminando in tutto il suo vangelo ben 16 racconti di miracoli di guarigione e di esorcismo, moltiplicazione dei pani e dei pesci, domino delle forze della natura21, inframezzati da quattro sommari di guarigione ed esorcismi22, da cui lascia trasparire la potenza di Dio che opera in mezzo agli uomini, risanandoli e rigenerandoli ad una nuova vita, sottraendoli al potere del diavolo. Tutti i miracoli avvengono nella prima sezione del vangelo marciano, quella dell'attività galilaica (1,14-9,50). Significativo è l'ultimo miracolo, quello del cieco Bartimeo, posto appena fuori Gerico, sulla strada che porta direttamente a Gerusalemme, introdotta e qualificata dall'ultimo annuncio della passione-morte-risurrezione del Figlio dell'uomo (10,33-34). Un'esperienza dura, amara e drammatica quella che sta aspettando i discepoli. Da qui la necessità di vedere questo dramma con gli occhi della fede, che illumina il vero senso di tutto questo. Il tutto è simboleggiato dalla guarigione della cecità che avvolge quest'uomo fin dalla nascita e con lui i discepoli.

Il suo modo di raccontare è vivace e avvincente, ricco di particolari finalizzati a stupire, da un lato, mettendo in rilievo la potenza di Dio che opera in Gesù, dall'altro. Si pensi al racconto dell'indemoniato di Gerasa (5,1-20), di cui dà una paurosa e orrida immagine di un essere umano posseduto da una legione di demoni, che tolgono e distruggono ogni forma di umanità, originariamente pennellata ad immagine del suo creatore; o a quello dell'emorroissa, dove con semplici tratti dipinge tutto il dramma di quella povera donna, martoriata da dodici anni da un inarrestabile flusso di sangue, che le toglieva ogni speranza di vita (5,25-34); o alla risuscitazione della figlia di Giairo (5,22-24.35-43), là dove un padre disperato vede portarsi via la propria figlia e proprio là nel pieno dramma per la figlia ormai morta, l'autore sdrammatizza quella morte con una battuta sconcertante e ironica nel contempo, che lascia tralucere tutta l'impotenza dell'uomo e l'onnipotenza di Dio, fonte della vita: “Perché strepitate e piangete? La fanciulla non è morta, ma dorme”, lasciando esterrefatti e sconcertati i presenti, che lo ritengono un pazzo; ma il lettore, che assieme all'autore è onnisciente, sa che lì la morte sta per essere vinta al suono di quel “Talithà, kum”, in cui riecheggia il comando di una nuova vita e di una nuova creazione. O lo stupendo dialogo tra Gesù e la pagana Sirofenicia, che si svolge con una semplicità e con una logica sconvolgenti a cui neppure Gesù sa resistere e che va a toccare il cuore del lettore (7,25-30). O, ancora, la storia di quel lebbroso, un morto vivente, che si getta ai piedi di Gesù come sua unica speranza, violando ogni prescrizione, e invocandone la guarigione. Niente di eclatante: da un lato, la commozione di Gesù per la drammatica condizione di quel uomo e con lui di tutti gli uomini; dall'altro, il semplice gesto di Gesù, accompagnato dalla sua parola onnipotente: “Voglio, sii purificato. E subito la lebbra se ne andò via da lui, e fu purificato”. Il tutto si svolge all'interno di una sconvolgente semplicità, da cui trapela l'onnipotenza divina, la cui cadenza richiama la genesiaca creazione del mondo: “Sia la luce! E la luce fu” (Gen 1,3), ma che nel contempo richiama quel Gesù che passò per le strade del mondo “beneficando”.

Sono racconti semplici, ma che sanno solleticare l'interesse e l'attenzione dei lettori e il cui messaggio va diritto nel loro cuore, ravvivandolo.

Il linguaggio con cui si esprime il vangelo marciano, dando vita ad un nuovo stile, mutuato dalla predicazione orale, è sintetico, lapidario, essenziale, molto efficace nel suo esprimersi e molto incisivo nel descrivere situazioni, contesti e personaggi. Si pensi alla presentazione del Battista: “E Giovanni era vestito di peli di cammello e di una cintura di cuoio intorno al suo fianco e mangiando cavallette e miele selvatico” (1,6). Basta un semplice versetto per descrivere l'austerità monumentale di questo uomo. Ne bastano due per sintetizzare, da un lato, la figura di Gesù, la cui grandiosità sta tutta nel confronto tra il Battista e i venturo Gesù, di cui egli, il Battista, non è neppure degno di slacciargli i sandali (1,7); così come l'intera missione di Gesù è raffigurata in quel battesimo nello Spirito Santo, preannunciando i tempi nuovi ed escatologici sognati da Gl 3,1-3, il cui significato traspare ancora una volta dal confronto tra l'attività del Battista e quella di Gesù: “Io vi battezzai con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo” (1,8).

Poche parole, essenziali, semplici, scultoree, scritte senza dispersione di pensiero, adatte a colpire la mente e il cuore degli ascoltatori-lettori, altrettanto semplici e concreti nel loro modo di vivere e di pensare, come quelli della comunità di Roma, alla quale il vangelo marciano era rivolto, come vedremo.

Analisi delle citazioni e richiami scritturistici in Marco

Ma Marco non è soltanto un abile narratore, egli è anche un profondo conoscitore della Torah e dei libri profetici e di questi non solo sa usare in modo appropriato le citazioni applicandole al suo Gesù o ponendole a commento di determinate situazioni o contesti, ma sa anche mutuarne delle immagini, applicandole al suo Gesù, creando in tal modo uno stretto legame tra il mondo delle Scritture e quello nuovo di Gesù, rilevando come quelle in qualche modo preannunciassero questi.

Egli, inoltre, è un ottimo conoscitore delle usanze dei giudei e delle osservanze del sabato, ma è anche a conoscenza dell'abilità che questi usano per aggirare i dettami della Legge.

Citazioni e richiami scritturistici

Riporto qui tutte le citazioni scritturistiche che ho riscontrato nel vangelo marciano, senza accompagnarle da nessun commento. Sarà cura del mio paziente lettore verificarne la corrispondenza.


Citazioni e richiami scritturistici marciani

Testi scritturistici corrispondenti

1) 1,2-3

2) 1,10

3) 1,11

4) 4,12

4bis) 7,6-7

5) 10,6

6) 10, 7-8

7) 11,9

8) 11,17a

9) 11,17b

10) 12,32

11) 12,33

11) 12,10-11

12) 12,26

13) 12,29

14) 12,30

15) 12,31

16) 12,36

17) 13,12

18) 13,14

19) 13,24

19bis) 13,26

20) 14,7

21) 14,18.20a

22) 14,24a

23) 14,27b

24) 14,34a

25) 14,62

26) 14,64

27) 14,65a

28) 15,24

29) 15,29

1) Es 23,20 + Ml 3,1 + Is 40,3

2) Is 11,2

3) Is 42,1

4) Is 6,9-10

4bis) Is 29,13

5) Gen 1,27

6) Gen 2,24

7) Sal 118,26

8) Is 56,7

9) Ger 7,11

10) Dt 4,35 + Is 45,21

11) Os 6,6

12) Sal 118,22-23

12) Es 3,6

13) Dt 6,4

14) Dt 6,5

15) Lv 19,18

16) Sal 110,1

17) Mi 7,6

18) Dn 11,31; 12,11

19) Is 13,10

19bis) Dn 7,13

20) Dt 15,11

21) Sal 41,10

22) Es 24,8 + Zc 9,11

23) Zc 13,7b

24) Sal 42,6

25) Dn 7,13 + Sal 110,1

26) Lv 24,16

27) Is 50,6

28) Sal 22,19

29) Sal 22,8


Evocazioni di immagini scritturistiche


Evocazione di immagini scritturistiche in Mc

Immagini scritturistiche evocate

1) Nel racconto della guarigione del paralitico Gesù si arroga, alla pari di Dio, il diritto di perdonare i peccati e a prova di ciò guarisce il paralitico (2,5.10)

2) La parabola della semente racconta come quando il seme della parola cade in terra buona produce molto frutto (4,2-8)

3) Il racconto della tempesta sedata, dove i discepoli travolti dalla burrasca invocano Gesù che acquieta il vento e le acque (4,36-41)

4) Durante la traversata del lago di Tiberiade i discepoli vedono Gesù camminare sulle acque e lo credono uno spirito, un fantasma (6,47-51)

5) Per tre volte Marco racconta di Gesù sul monte degli Ulivi in 11,1a; 13,3a; in 14,26


6) La parabola dei vignaioli infedeli e assassini inizia significativamente con il presentare una vigna a cui il padrone aveva dedicato molta cura: “Gesù prese a parlare loro in parabole: "Un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se ne andò lontano” (12,1)

7) In 13,21-23 Gesù dà ai suoi delle avvertenze perché non seguano falsi messia o falsi profeti.

1) Il Sal 102,3 attesta come “Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie”; e similmente in Is 43,25: “Io, io cancello i tuoi misfatti, per riguardo a me non ricordo più i tuoi peccati”.

2) Similmente Is 55,10-11, dove la parola di Dio seminata non tornerà a Lui senza aver portato il frutto desiderato

3) Similmente il Sal 106,23-30 racconta il medesimo episodio, dove Gesù, per ovvie ragioni, è sostituito da Dio

4) Il racconto di Gesù che cammina sulle acque e che viene creduto uno spirito, richiama Gen 1,2b dove si dice che “lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”.

5) Questa presenza di Gesù sul monte degli Ulivi, posta a ridosso della sua passione e morte, richiama da vicino l'immagine di Zc 14,4 dove si parla degli sconvolgimenti che accadranno sul monte allorché “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente (Zc 14,4a)

6) La metafora della vigna, metafora di Israele, incapace di portare frutti, richiama da vicino l'identica immagine della vigna di Is 5,2, che ha per tema l'infedeltà di Israele.


7) Similmente in Dt 13,2-5 Dio avverte Israele a non lasciarsi traviare da falsi profeti o sognatori.


Conoscenza della Torah e delle sue interpretazioni


        1) In 2,18 conosce le regole sul digiuno e ne spiega lo scostamento da parte dei discepoli di Gesù;

    2) In 7,1-13 si parla dettagliatamente delle usanze giudaiche in tema della purità e del modo deviato di interpretare la Torah, aggirando in tal modo il senso autentico del comandamento;

        3) In 9,11-12a accenna alla questione escatologica della venuta di Elia prima della fine dei tempi;

    4) In 10,2-9 si parla del divorzio e delle regole che Mosè ha dato nel merito e se ne spiega il motivo di tali regole mosaiche, riconducendo il tutto al vero senso del matrimonio che ha la sua origine e la sua prima fondazione in Gen 1,27 e 2,24;

        5) In 12,19 viene citata la legge del levirato, sancita da Dt 25,5-6.

        6) In 12,35-36 è a conoscenza della questione posta dagli scribi sulla natura del Messia, figlio di Davide, alla quale dà, quale soluzione scritturistica, il Sal 110,1.

Conoscenza del sabato e della sua regolamentazione


In 2,23-28 è conoscenza delle regole mosaiche che normano il sabato, alle quali sa contrapporre il passo scritturistico di 1Sam 21,2-7.


La geografia di Marco

Un altro dato significativo che caratterizza la figura di Marco è la sua scadente conoscenza della geografia palestinese, la quale cosa lascia pensare che l'evangelista non sia originario della Palestina e che in Palestina ci sia stato, ma solo come turista, poiché ricorda bene alcuni nomi di città, villaggi e località palestinesi, ma non le sa collocare geograficamente con precisione, commettendo talvolta dei veri e propri errori geografici. In 10,32.33 si dice che si sta salendo a Gerusalemme, ma in 10,46 si dice che Gesù e i suoi giungono a Gerico. Ora Gerico è la porta per Gerusalemme e, quindi, Gesù non può prima salire a Gerusalemme e poi passare per Gerico. I movimenti, dunque, come le località sono stati invertiti. Così come invertite in 11,1 sono state le due località sulla strada per Gerusalemme: “E quando si avvicinano a Gerusalemme, a Betfage e a Betania, presso il monte degli Ulivi, manda due dei suoi discepoli”. In realtà, per chi viene da Gerico (10,46) prima arriva a Betania, poi Betfage ed infine Gerusalemme. Ricorda, quindi, bene i nomi, ma non li colloca correttamente, quasi come chi non ricorda bene dove si trovino esattamente.

Ma già fin dalle prime battute del suo vangelo Marco lascia alquanto perplessi per la sua disinvoltura geografica, come in 1,9 dove si dice “E accadde (che) in quei giorni venne Gesù da Nazareth della Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni”. Ora, detto così, sembra che il Giordano e così la località dove Gesù è stato battezzato siano a due passi da Nazareth, mentre sappiamo da Gv 1,28 che “Questo avvenne in Betania, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando”. Le due località, Nazareth e Betania, quella al di là del Giordano, distano tra loro in linea d'aria circa 110 Km. Ma Marco le abbina, come fossero una sola località o località adiacenti. L'incongruenza deve essere stata notata dall'ebreo Matteo, il quale ben conosce la Palestina e in 3,13, riprendendo Mc 1,9, precisa che “In quel tempo Gesù dalla Galilea andò al Giordano da Giovanni per farsi battezzare”. Sa bene che le due località sono molto lontane tra loro e, quindi, con quel “andò al Giordano” abbozza un viaggio, che manca totalmente in Marco.

L'intero vangelo marciano è intessuto su continui spostamenti di Gesù da una località all'altra, ma nel descriverli si mostra ripetitivo e talvolta molto vago. Tutta l'attività galilaica di Gesù, che abbraccia i capp. 1,16-9,50, si svolge tra Cafarnao, Gerasa, Betsaida e Gennesaret, con una incongruente puntata a Tiro e Sidone e nella Decapoli. Spesso i movimenti all'interno di questo quadrilatero sono vaghi e definiti con espressioni blande e generiche, come “luoghi deserti” (1,35.45; 8,4), “Lungo il mare o presso il mare” (2,13; 3,7; 4,1), “Partito di là” (6,1; 7,24; 9,30; 10,1), “si avviò all'altra sponda” (8,13), “vi precede in Galilea. Là lo vedrete” (16,7), quasi che la Galilea fosse una località precisa e non una regione.

In 7,24 stupisce l'agilità motoria del Gesù marciano che, da Gennesaret, ultima località citata (6,53) e dove dovrebbe trovarsi, all'improvviso parte per Tiro e Sidone: “Ora, levatosi, se ne andò di là vero i confini di Tiro e Sidone. Ed entrato in una casa voleva che nessuno (lo) sapesse, e non poté rimanere nascosto”. Detto così sembra che le due città fenice non distino molto da Gennesaret, ma in realtà la distanza in linea d'aria da Tiro è di 63 Km circa, mentre Sidone, posta più a nord, dista da Tiro in linea d'aria circa una quarantina di Km.

Ma le incongruenze geografiche o quanto meno la confusione maggiore circa i diversi territori appaiono più evidenti in 7,31 dove Marco sembra non azzeccarne una. Si dice infatti: “E di nuovo, uscito dai confini di Tiro, andò per Sidone, verso il mare di Galilea, in mezzo ai confini della Decapoli”. Ora per andare verso “il mare di Galilea” da Tiro non si passa certamente da Sidone, poiché così facendo si va dalla parte opposta, trovandosi Sidone circa una quarantina di Km più a nord di Tiro. E quindi ci si allontana dal “mare di Galilea”, posto a sud di Tiro. Quindi “non si va verso”, ma ci si allontana. Ma il secondo errore è peggiore del primo, poiché si dice di voler andare “verso il mare della Galilea, in mezzo ai confini della Decapoli”. Ora il “mare di Galilea” non si trova affatto in mezzo al territorio della Decapoli, ma lo stesso “mare” funge da confine a tre diverse regioni limitrofi: l'intera costa ovest del “mare” delimita i confini della Galilea; la costa nord-est quelli della Gaulanitide, mentre la costa sud-est quelli della Decapoli. In questo versetto Marco sembra aver decisamente toppato, probabilmente perché ha recitato a memoria una sfilza di ben quattro territori di cui non conosceva bene la dislocazione geografica. E questo non può succedere ad un uomo erudito e di rilevante cultura quale Marco è. Quindi si deve concludere che Marco non è un giudeo della Palestina, ma della diaspora, nato e cresciuto fuori dalla Palestina. Forse in Palestina, considerato che conosce le località, c'è stato per qualche tempo, forse qualche anno per effettuare le sue ricerche, ma non a sufficienza per conoscere la dislocazione geografica dei nomi delle città che ha imparato a memoria.

La lingua di Marco e del suo vangelo

Prima di giungere a tradurre il vangelo di Marco, avevo già tradotto dal greco quello di Matteo, di Giovanni e di Luca, compresa qualche lettera di Paolo e cattolica. Ma giunto a Marco rimasi stupito della pochezza del suo greco, povero nel suo linguaggio e grezzo nel suo esprimersi; ripetitivo nel suo fraseggiare. L'impressione mi è stata confermata dal Poppi: “Il lessico marciano è povero. Su 11.078 (per altri 11.229 o 11.242) parole si hanno appena 1.345 termini diversi, di cui un'ottantina (hapaxlegomena) non compaiono altrove nel NT”23. Già da questa prima evidenza traspare il fatto che ci troviamo di fronte ad una persona che il greco non lo conosce, ma lo traduce mentalmente dalla sua lingua, la quale, considerati i numerosi latinismi di cui è infarcito il suo vangelo e l'essenzialità e la concretezza del suo linguaggio, lascia intravvedere che l'autore del secondo vangelo abbia una solida formazione culturale e linguistica caratteristica proprie della romanità. In altri termini, Marco parla bene il latino, la sua lingua, e ha assorbito l'essenzialità e la concretezza dello spirito romano. Come ciò sia possibile, lo vedremo presto.

A diversità degli altri evangelisti, Marco riporta nel suo vangelo nove termini aramaici, di cui dà la traduzione: Boarneges (figli del tuono in 3,17), Talitha, Kum (fangiulla, alzati, in 5,41), Effetà (apriti, in 7,34), Korban (offerta, in 7,11), Bartimeo (figlio di Tineo, in 10,46), Abbà (Padre, in 14,36), Golgota (luogo del Cranio, in 15,22), “Eloì, Eloì, lemà sabactani” (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” in 15,34). Compare, da ultimo, anche il termine “Rabbì” in 14,45, ma questo senza traduzione. Questo termine si presenta nel NT complessivamente 13 volte: 8 volte in Matteo, 4 volte in Giovanni, che ne dà anche la traduzione in 1,38, ma, significativamente, una sola volta in Marco. Dico “significativamente” perché il termine “Rabbì” designa il maestro della Legge e a questo termine sono legati in particolar modo chi ha origini e cultura giudaiche, come Matteo, lo scriba e in quanto tale sensibile al termine; e Giovanni, quasi certamente della classe sacerdotale24, per cui il suo interesse è meno accentuato; mentre Marco lo cita come ha citato gli altri termini aramaici, non mostrando alcun particolare interesse per questo; Luca, infine, greco di origine e di cultura, rivolto al mondo greco, non lo cita neppure una volta. Quindi, più ci si allontana dal mondo giudaico e meno questo termine compare. Marco, quindi, non appartiene al mondo del giudaismo palestinese, l'unico culturalmente sensibile al termine “Rabbì”, ma al giudaismo della diaspora.

Il fatto che l'evangelista citi questa serie di termini aramaici, fornendoci la traduzione, non è la prova che l'autore sia un giudeo della Palestina e che conosca bene l'aramaico. L'inserimento di questi termini aramaici nei singoli racconti obbedisce allo stile narrativo di Marco che dà vivacità, immediatezza e concretezza ai suoi racconti. Si tratta, quindi, di un tocco di realismo che l'autore ha voluto infondere nei suoi racconti, per renderli più accattivanti. Significativi, per contro, sono tutti i latinismi che Marco inserisce nella sua opera, perché questi riflettono la sua struttura mentale e la sua origine culturale.

Cosa dire, dunque, di Marco?

Dalle analisi fin qui condotte sul vangelo di Marco si è giunti ad evidenziare alcuni tratti rilevanti del suo autore, quali:

  1. Letterariamente, Marco si presenta come un capace e brillante narratore e conosce le tecniche narrative proprie della retorica ebraica. Fa parte, del resto, della cultura ebraica e del modo di sentire ebraico, quello del raccontare. Pensiamo alle molte Haggadah, che per l'appunto significa “narrazione”, che popolano il Talmud o alcune parti della liturgia ebraica e lo stesso Midrash. Il raccontare fa parte della cultura e della storia di questo popolo.

  2. Benché non abbia la raffinatezza narrativa di Luca e l'eleganza di Matteo, tuttavia il suo modo di esporre è immediato, vivace, accattivante, concreto ed essenziale, che punta al risultato immediato: colpire il lettore e focalizzare la sua attenzione sulla figura di Gesù. La quale cosa riflette una mentalità concreta e utilitaristica, che caratterizza la struttura mentale propria del mondo romano. Il fatto che il greco di Marco, poi, sia povero e grezzo non dice che questa persona sia ignorante, ma soltanto che non conosce bene il greco.

  3. Nel suo vangelo si riscontrano numerosi latinismi, molti di più che non negli altri vangeli, la quale cosa lascia trasparire come dietro a questi latinismi ci sia una certa impostazione mentale e una certa cultura propria molto più vicine a quella romana che a quella giudaica.

  4. Conosce perfettamente le Scritture e le sa utilizzare adeguatamente e contestualizzarle nel suo racconto, per mettere in rilievo la figura di Gesù; non solo, ma da queste Scritture sa anche ricavare delle immagini sulle quali costruisce alcuni racconti del suo vangelo. Sa, quindi, creare una sorta di continuità tra le Scritture e il suo Gesù. Scritture che vede realizzarsi in Gesù; e il suo Gesù vi ricorre sovente con competenza. Il Gesù marciano, inoltre, conosce bene le questioni giuridiche che girano attorno alla Legge, come quella del digiuno, della purità, del divorzio; nonché tutti gli escamotage che i giudei adottano per aggirare la Legge a proprio tornaconto. Una simile competenza ed abilità scritturistiche possono essere attribuite soltanto ad uno scriba, al quale si può applicare, senza stonature o forzature, la considerazione di Mt 13,52: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. In altri termini, lo scriba, ottimo conoscitore delle Scritture, una volta convertito, sa coniugarle con la novità dell'evento Gesù, come Marco, parimenti a Matteo, ha saputo fare.

  1. Tuttavia Marco, pur essendo sicuramente un giudeo, non è mai vissuto in Palestina, non conoscendone la geografia se non in modo molto approssimativo, commettendo talvolta dei grossolani errori25. Ci troviamo di fronte, pertanto, ad un ebreo della diaspora, quasi certamente nato e vissuto sempre fuori dalla Palestina. I suoi latinismi e il suo stesso nome, Marco, caratteristico dei Romani, così come la sua espressione, unica in tutta la Bibbia, riportata in 1,13 dove si parla di Gesù sospinto nel deserto, precisa “ed era con le fiere”. Una parafrasi questa del “hic sunt leones” con cui i Romani solevano indicare luoghi deserti o sconosciuti. Il fatto che la inserisca qui, dove si parla di deserto, dice che gli viene naturale e spontaneo il farlo. E questo lo può fare solo chi è addentro alle logiche e alla cultura romane. È, dunque, probabile che questo Marco fosse un ebreo della diaspora, la cui famiglia si era stanziata a Roma agli inizi del I sec. d.C, dove, già fin dal I sec. a.C, vi era insediata una colonia ebraica26. Del resto, già il fatto che questo ebreo porti il nome Marco, significa che probabilmente la sua famiglia era già da molto tempo a Roma, respirandone la mentalità e la cultura. Pertanto, alla sua nascita, gli ha imposto il nome di Marco, caratteristico, come s'è detto, dei romani. Marco, dunque, per questo insieme di cose, deve essere nato e vissuto a Roma, nella florida e ben affermata comunità giudaica qui presente.

Al termine di questa sintetica carrellata, riguardante le fonti interne, possiamo ora affermare con una discreta tranquillità che questo Marco era un ebreo della diaspora, nato e vissuto a Roma, e, considerata la sua notevole conoscenza delle Scritture e la sua capacità di analisi delle stesse e della conoscenza delle interpretazioni date dai giudei a certi passi della Legge mosaica, sulle quali sa disquisire e argomentare, è da pensare che non fosse semplicemente un pio e devoto ebreo, ma che fosse anche uno scriba, così come lo era anche Matteo. E considerata la sua notevole capacità narrativa anche una persona molto erudita, benché, come molti romani, non conoscesse molto bene il greco, una lingua, comunque molto diffusa a Roma.

Fonti esterne


Quanto alle fonti esterne al vangelo marciano, guidato ora da quelle interne, che mi hanno consentito una loro attenta selezione, riporto qui di seguito due passi tratti dalla Storia ecclesiastica di Eusebio, che parlano del vangelo di Marco, della sua nascita e del suo autore. Vengono qui citati Papia (70-150 d.C.) e Clemente romano (150-215 d.C.), quali fonti attendibili, da cui Eusebio ha tratto le sue informazioni, che sono sostanzialmente compatibili con i tratti dell'autore del secondo vangelo emersi dalla mia analisi del testo marciano.

Fonte Eusebio da Cesarea, Storia ecclesiastica

Così, mentre si diffondeva tra i Romani la parola di Dio, subito la potenza di Simone si spense e si dissolse con lui. Rifulse invece a tal punto la luce della pietà nella mente di quanti ascoltavano Pietro, che non bastò loro d'averlo udito una sola volta né d'aver ricevuto oralmente l'insegnamento del messaggio divino, ma con ogni sorta di preghiere supplicarono Marco, di cui ci è giunto il Vangelo, e che era seguace di Pietro, di lasciare una relazione scritta dell'insegnamento loro trasmesso oralmente, ed insistettero finché non la compose. Furono così la causa della redazione del Vangelo detto “secondo Marco.

Pietro, si dice, venne a conoscenza del fatto per rivelazione dello Spirito, e rallegratosi del loro zelo convalidò il testo per la lettura nelle chiese. Clemente riporta la notizia nel sesto libro delle Ipotiposi e Papia, vescovo di Hierapolis, la conferma. Pietro nomina Marco nella sua prima lettera, che dicono compose proprio a Roma, città da lui stesso indicata, chiamandola metaforicamente Babilonia, nel seguente passo: “La Chiesa eletta di Babilonia vi saluta; e così fa Marco, il mio figliolo” (Eus, Storia Eccles, II, 15,1-2).

I punti salienti di questi due passi:

  1. Il contesto: Pietro predica a Roma per contrastare le pretese di Simone, il mago, che con i suoi prodigi sta ammagliando i cittadini di Roma. Questo Simone è quello di cui si parla anche in At 8,9-24. Egli inizialmente operava in Samaria, poi a seguito della predicazione di Filippo si fece battezzare, ma le sue intenzioni erano tutt'altro che rette. Egli puntava al potere spirituale e sulle genti. L'intervento di Pietro lo smascherò e Simone si trasferì a Roma dove continuò ad ammaliare la gente, cercando di fondare una sua chiesa parallela a quella di Gerusalemme (Eus, Storia Eccl II, 14,4-5). Fu in questa occasione che Pietro andò a Roma, nel 42 d.C., agli inizi del principato di Claudio (41-54 d.C.) per contrastarlo anche qui, come già aveva fatto con successo in Samaria (Eus, Storia Eccl. II, 14,6)

  2. La causa da cui scaturisce il vangelo: particolarmente colpita dalla predicazione di Pietro, la comunità di Roma chiede insistentemente a Marco di “di lasciare una relazione scritta dell'insegnamento loro trasmesso oralmente” da Pietro. Questa espressione combacia perfettamente con la natura del vangelo marciano, che ho definito “una predicazione scritta”; dal passo citato si capisce anche perché Marco definisca la sua opera come “Vangelo” (Mc 1,1), cioè un annuncio.

  3. L'approvazione petrina: Pietro, venuto a sapere dello scritto prodotto da Marco per la comunità di Roma, al fine di perpetuare in mezzo ad essa la sua predicazione, ne dà approvazione. In tal modo il vangelo di Marco acquista autorità e certezza dottrinale. Quest'ultimo dato, tuttavia, sembra un'aggiunta di Eusebio per dare credibilità al racconto marciano, poiché quando Marco scrive il suo vangelo, tra il 67 e il 69 d.C., Pietro, come vedremo, era già morto.

  4. Marco figlio di Pietro: Infine, Eusebio riporta 1Pt 5,13, da cui risultano due cose: Pietro e Marco si trovano entrambi a Roma, quando viene scritta la prima lettera; e Marco è definito da Pietro “figlio mio”, cioè generato alla fede dalla sua predicazione: “Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, figlio mio”. La notizia che Marco è a Roma con Pietro, considerando la sua presenza a Roma nel contesto degli altri elementi sopra riportati, essa diventa un ulteriore elemento probante della romanità di Marco. Comunque, quando Pietro giunge a Roma, Marco doveva già essere essere convertito, perché viene presentato come discepolo di Pietro, suo seguace e, in particolar modo, perché la comunità di Roma si rivolge a lui con insistenza perché scriva per loro una sintesi della predicazione di Pietro, così che tale voce rimanesse per sempre in mezzo a loro. Il fatto che si rivolgano a lui con insistenza significa che Marco era ben conosciuto nella comunità di Roma, in mezzo alla quale doveva godere di un certo prestigio. Se poi il suo vangelo ha avuto molto successo, così da essere incluso nel canone, questo lascia supporre che Marco avesse alle sue spalle una comunità ricca e importante, come quella di Roma. Vedremo dopo come questa notizia, così come riportata da Eusebio, soffra di una certa disfasia temporale. In realtà quando Pietro giunge a Roma per contrastare Simone il Mago la comunità credente di Roma ancora non c'era e Marco ancora non era convertito. Il tutto, come vedremo, nascerà casualmente dalla predicazione di Pietro, giunto a Roma intorno all'anno 42 d.C.

I punti 2) e 3) coincidono esattamente con quanto dice il prologo antimarcionita al vangelo di Marco, scritto intorno al 170 d.C.27: “Marco, che venne chiamato anche colobodactylus (dalle dita corte ndr), poiché aveva le dita più piccole rispetto alla restante altezza del corpo, fece (questo vangelo). Questi fu discepolo e interprete di Pietro, che riportò28 proprio come lo aveva ascoltato mentre riferiva. A Roma, dalle parti dell'Italia, richiesto dai fratelli, scrisse questo vangelo. Quando Pietro udì questo, approvò e con la sua autorità confermò che era da leggersi alla chiesa (di Roma). Ma dopo la partenza di Pietro, preso con sé il vangelo, che egli stesso aveva fatto, si diresse in Egitto e, ordinato primo vescovo di Alessandria, annunciando Cristo, fondò colà la chiesa. Fu di così grande dottrina e continenza di vita che costrinse tutti i seguaci di Cristo a imitare il suo esempio.29.

È, dunque, da pensare che Marco, giudeo per nascita e cultura, scriba erudito, abbia incontrato Pietro a Roma e l'abbia seguito nella sua predicazione, convertendosi, divenendo, poi, egli un punto di riferimento ragguardevole non solo per Pietro, ma anche per la stessa comunità credente di Roma, che a lui si rivolge per porre per iscritto la predicazione di Pietro. Cosa che Marco fa con approvazione dello stesso Pietro.

Luogo e data di composizione e comunità

Quanto al luogo di composizione, per quanto fin qui elaborato, sembra essere chiaramente Roma e i lettori di Marco nonché i destinatari del suo scritto la stessa comunità credente di Roma. Marco, infatti, si sente nella necessità di spiegare con accuratezza gli usi e i costumi dei giudei ai suoi lettori (7,1-4) e così, similmente, anche i nove termini o espressioni aramaici sopra citati (pag.13). Segno questo che chi gli sta davanti non li conosce. E benché questo, in senso generico, non prova che i suoi lettori siano necessariamente romani, tuttavia, la precisazione che egli fa nel racconto della vedova in 12,41-44, lascia intendere che il suo scritto è rivolto alla comunità di Roma, per la quale “due spiccioli” non avevano alcun significato; mentre “un quadrante”, moneta romana, aveva un suo significato preciso: “E venuta una vedova povera gettò due monetine, cioè un quadrante”. Similmente in 15,16 si sente nella necessità di tradurre il termine greco “aÙlÁj” (aulês, cortile) con quello più specifico di pretorio, sconosciuto il primo da parte dei romani, ben noto il secondo: “Ora, i soldati lo portarono dentro il cortile, cioè il pretorio, e convocano l'intera coorte”. Quindi, questi ultimi due elementi vanno ad avvalorare anche quelli precedenti di 7,1-4 e con questo anche i diversi termini aramaici tradotti, circoscrivendoli in tal modo al lettorato romano. Se, poi, questi dati oggettivi vengono rapportati a quanto Eusebio di Cesarea e il prologo antimarcionita attestano circa la nascita del vangelo marciano, richiesto dalla stessa comunità credente in Roma per fissare la predicazione di Pietro, allora il loro valore probante acquista notevole forza.

Quanto alla data di composizione del vangelo, questa va soppesata più attentamente, perché più elementi devono essere fatti concordare tra loro. Elementi che non sempre sono facilmente decifrabili e definibili, come la presenza di Pietro a Roma, la sua predicazione, la sua approvazione del vangelo marciano, che, a quanto pare, è stato fatto Pietro vivente. Tutto questo deve poi concordarsi con la guerra giudaica, svoltasi tra il 66 e il 73 d.C. di cui si ha traccia al cap.13.

Come già si è sopra detto (pag.15, ultimo capoverso), la presenza di Pietro a Roma viene attestata da Eusebio nell'anno 41/42 d.C., “all'inizio dello stesso principato di Claudio (41-54 d.C.)” (Eus, Storia eccl., II, 14,6) per contrastare la predicazione e le pretese di Simone, il mago, che da Samaria si era trasferito a Roma per continuare la sua attività di proselitismo, cercando di creare una sua chiesa parallela a quella di Gerusalemme (Eus, Storia eccl.. II, 14,4-5). Qui Pietro svolge la sua attività missionaria e la sua predicazione che, a detta di Eusebio, portò i suoi frutti così che “subito la potenza di Simone si spense e si dissolse con lui” (Eus, Storia Eccl. II, 15,6).

Ed è probabilmente proprio in questa occasione che la predicazione di Pietro porterà i suoi frutti non soltanto contro Simone, ma anche beneficamente tra i cittadini di Roma, dove, come si è detto, vi era una folta comunità di ebrei. Ed è proprio in questa occasione che, quasi certamente, convertirà anche lo scriba Marco, che egli chiamerà in 1Pt 5,13 “mio figlio” (cfr. anche Eus, Storia Eccl. II, 15,2b).

La fondazione della comunità credente di Roma è probabilmente attribuibile a Pietro. Due sono gli elementi che inducono a pensare a questo:

  1. Eusebio attesta che Pietro iniziò la sua attività missionaria a Roma all'inizio del principato di Claudio. Lo stesso Claudio, circa otto anni dopo emanerà un decreto di espulsione da Roma sia degli ebrei che dei cristiani per le loro continue liti, che turbavano l'ordine pubblico, causate dall'aggressivo proselitismo dei cristiani nei confronti della comunità ebraica. Il problema non si era posto prima, ma soltanto dopo l'avvento di Pietro. Quindi è pensabile che chi ha fondato la prima comunità credente in Roma, sia pur casualmente, sia stata proprio la predicazione di Pietro;

  2. il secondo elemento è un po' più complesso, ma comunque abbastanza intuibile dalla lettera ai Romani. In 15,20 Paolo attesta che “mi sono fatto un punto di onore di non annunziare il vangelo se non dove ancora non era giunto il nome di Cristo, per non costruire su un fondamento altrui”. Un “fondamento altrui” che Paolo sente come una sorta di invasione di campo. Infatti in 1,5 afferma: “Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato per ottenere l'obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo”. La chiesa di Roma è stata, quindi, fondata da altri, ma aspettava a lui ad annunciare il vangelo ai gentili, tra cui c'erano anche loro, i romani. Lo vorrebbe fare e più volte ci ha provato, ma per due volte dice che questo gli “fu impedito” (1,13; 15,22). Chi glielo ha impedito? Chi non amava molto l'operato di Paolo e la sua predicazione e il suo messaggio al punto tale che deve averne consenso da Cefa (Gal 1,18; 2,1-12)? Certamente la chiesa di Gerusalemme con la quale non correva buon sangue. In 15,30-31 Paolo stesso attesta la difficoltà dei rapporti con la chiesa di Gerusalemme al punto tale da temere anche per la propria vita: “Vi esorto perciò, fratelli, per il Signore nostro Gesù Cristo e l'amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio, perché io sia liberato dagli infedeli della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme torni gradito a quella comunità”. Quindi Paolo non sa come andranno le cose. Il servizio di cui parla Paolo qui è la colletta che sta effettuando presso tutte le comunità pagane da lui convertite. Se Gerusalemme accetterà la colletta, questo significa che accetterà anche i convertiti pagani e di conseguenza l'operato della sua missione presso i gentili.

    Ma è il contenuto della sua predicazione che lascia perplessi i responsabili della chiesa di Gerusalemme e che gli impediscono di andare nella comunità di Roma. In 2Pt 3,15-16 si afferma che Paolo insegna una dottrina secondo una sapienza che è tutta sua e che è di difficile comprensione: “La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza, come anche il nostro carissimo fratello Paolo vi ha scritto, secondo la sapienza che gli è stata data; così egli fa in tutte le lettere, in cui tratta di queste cose. In esse ci sono alcune cose difficili da comprendere e gli ignoranti e gli instabili le travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina”. Ma dall'altra parte, Paolo non ha molta stima nella predicazione venuta da Gerusalemme, così che pensa di dover rievangelizzare la comunità di Roma: “sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il vangelo anche a voi di Roma” (Rm 1,15). Che bisogno c'era, dunque, di predicare il Vangelo se questa comunità è già credente? Ed era suo grande desiderio il farlo, ma questo gli fu sempre impedito: “Non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi - ma finora ne sono stato impedito - per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili” (Rm 1,13). L'impedimento gli veniva dunque da Gerusalemme, che non vedeva di buon occhio l'attività missionaria di Paolo. Se così è, allora significa che chi ha predicato a Roma dando inizio a quella comunità credente deve essere stato un giudeo-cristiano, Pietro, come attesta Eusebio. Paolo, comunque, cerca di dribblare il divieto con questa lettera, che dottrinalmente (Rm 1-8) e da un punto di vista parenetico (Rm 12-16) racchiude sinteticamente l'intero pensiero di Paolo.

Quanto al vangelo di Marco, Eusebio attesta che questo fu scritto da Marco su richiesta della comunità di Roma (Eus, Storia Eccl. II, 15,1), la quale cosa viene confermata anche dal prologo antimarcionita al vangelo di Marco. Tuttavia, da quanto Eusebio attesta, sembrerebbe che Pietro, giunto a Roma per contrastare il proselitismo di Simone il Mago, siamo qui intorno all'anno 42 d.C., abbia in quel contesto convertito Marco, abbia aggregato inoltre attorno a sé con la sua predicazione il primo nucleo della comunità credente di Roma, la quale fa richiesta a Marco di mettere per iscritto la predicazione di Pietro. Nacque così il vangelo marciano, che in tal caso dovrebbe ragionevolmente datare intorno intorno agli anni 45-50 d.C.

Tuttavia, vanno considerati almeno quattro aspetti che non possono essere trascurati:

  1. Per giungere a comporre un vangelo serve aver raggiunto una ragguardevole maturità cristiana, una notevole e approfondita teologia e cristologia30, nonché un notevole livello di spiritualità e di virtù cristiane. Il vangelo marciano, infatti, non è, come sosteneva la Formgeschichte, un semplice e primitivo assemblaggio di tante piccole unità narrative, quasi una sorta di loro mera giustapposizione, senza capo né coda. In realtà il vangelo di Marco ha una sua intelligente regia, che sviluppa una sua cristologia, crea un graduale cammino di scoperta della persona di Gesù, lo sa presentare in modo intelligente e avvincente e ha delle sue precise finalità, come invece sostiene la Redaktionsgeschichte.

  2. Ma serve altresì che Marco sia molto conosciuto e apprezzato all'interno della comunità credente di Roma e qui vi abbi acquisito un notevole prestigio e una notevole fiducia anche da parte delle autorità di Gerusalemme. Deve ricoprire una posizione di prestigio al suo interno. Tutto questo non lo si acquisisce in qualche anno di permanenza all'interno della comunità, che si sta consolidando, ma serve qualche decennio. Ed è così che si arriva facilmente intorno agli anni 65-70 d.C. Periodo questo entro cui collocare il vangelo di Marco.

  3. Ma al di là di questi percorsi ipotetici, ma ragionevoli e verosimili, vi sono anche degli elementi oggettivi all'interno del vangelo di Marco che richiedono una datazione più alta. In 13,11-13 si parla di persecuzioni che imperversano sulla comunità di Roma, poiché a questa Marco sta scrivendo il suo vangelo. E queste persecuzioni, che storicamente ci sono note, sono quelle di Nerone31 (54-68 d.C.), che andarono dal luglio 64 d.C. fino al luglio dell'anno successivo, benché poi fossero continuate anche se in modo meno violento e aggressivo fino alla sua morte.

  4. Un altro elemento storico ci vine fornito da Mc 13,14-20, dove si parla dell'assedio di Gerusalemme, durante l'ultima fase della guerra giudaica. Gerusalemme cade tra giugno e agosto del 70 d.C. Ma qui Marco sta parlando dell'assedio e non della capitolazione e della distruzione della città e del tempio. Un particolare che ci indirizza verso questa soluzione è Mc 13,18: “Ma pregate affinché (ciò) non avvenga d'inverno”. Quindi qui Marco invita a pregare affinché la caduta della città non avvenga “d'inverno”. Non è ancora avvenuta, quindi, anche se è prevedibile che sta per avvenire; si spera non d'inverno. Quindi Marco quando dice queste cose deve trovarsi intorno all'estate del 69 d.C.

Pertanto, per le considerazioni fin qui apportate, è ragionevole pensare che il vangelo di Marco sia stato scritto tra il 65 e il 69 d.C. Esso è rivolto alla comunità di Roma e risente sia delle persecuzioni di Nerone, limitate queste alla sola città di Roma, e della guerra giudaica (66-73 d.C.), che pur svolgendosi in Palestina doveva avere delle forti risonanze anche a Roma.

Struttura del Vangelo di Marco

Pur nella sua apparente semplicità il vangelo di Marco si presenta, in realtà, difficilmente definibile nella sua struttura. Per comprenderne il motivo va tenuto presente che questo è stato il primo vangelo e davanti a sé l'autore non aveva altri modelli se non degli schemi di predicazione, utilizzati dai predicatori itineranti per il loro annuncio, come quello di At 10,37-43, che ho sopra brevemente commentato (v. pagg.3-5), sui quali modellare in qualche modo il proprio racconto.

L'oggetto primario della predicazione non poteva che essere Gesù, il suo messaggio, la sua opera e la spiegazione del significato e del senso della sua persona, che aveva come obiettivo quello di convincere e convertire gli ascoltatori. Ebbene, il vangelo di Marco è nato da questa esperienza predicatoria e ne ha risentito notevolmente, tanto che l'autore stesso definisce il suo scritto come “vangelo”, cioè come un annuncio, una predicazione scritta, fissando, una volta per tutte, uno schema narrativo su cui i predicatori potevano trarre ispirazione nel loro predicare, dando ordine e voce unica alla predicazione.

Tenendo presente questo aspetto, cioè che qui ci si trova di fronte ad un racconto che nasce dalla predicazione orale, fissata per iscritto, ma rispettandone le logiche, si può comprendere di conseguenza le logiche con cui il vangelo marciano è stato ideato e costruito e, quindi, il suo schema o struttura narrativa.

Innanzitutto va tenuto presente che l'oggetto principale di questo annuncio è Gesù e, in quanto tale, l'intero vangelo gira attorno alla sua figura e su di essa converge. L'intento dell'autore è approfondirla, facendola emergere lentamente, cercando di illustrarla, di spiegarla ai lettori.

Fin dal primo versetto l'autore presenta la sua opera, affermando che essa è un annuncio scritto della figura di Gesù, che egli comprende come il Cristo e come il Figlio di Dio (1,1). Attorno a questi due titoli Marco costruisce e sviluppa l'intero suo vangelo. Tutti i racconti di miracoli, le note di stupore e gli interrogativi che sorgono attorno alla persona di Gesù, la titolatura che gli viene attribuita, la numerosa platea di personaggi che gli si muovono attorno sono in funzione di Gesù e finalizzati a scavare la sua persona, facendo emergere lentamente e progressivamente la sua identità, che dapprima viene colta come “Cristo” (8.29), poi, soltanto alla fine del racconto e soltanto sulla croce , viene scoperto come “Figlio di Dio” (15,39).

Si vengono a creare in tal modo due macro inclusioni, date, la prima, da 1,1.8,29, al cui interno l'autore punterà a far emergere l'identità di Gesù, quale Messia; la seconda, da 1,1.15,43, che abbraccia l'intero vangelo marciano, farà emergere la divinità di Gesù e di conseguenza la divinità di questo Messia, che non ha dimensioni umane, politiche o militari, ma divine e porta con sé un progetto divino da realizzare, anzi egli stesso è il frutto di questo progetto.

Ma vi è anche una terza macro inclusione, data da 1,14.16,7 dove compare il termine Galilea in stretto riferimento, come vedremo subito, all'attività di Gesù, ripresa e continuata dai Dodici.

All'interno di questa terza macro inclusione Marco apre una nuova linea, parallela a quella di Gesù, Messia e Figlio di Dio, quella della continuazione della sua stessa opera dopo la sua dipartita da questo mondo. In altri termini, Marco apre, a modo suo, la linea ecclesiologica, che gira attorno al gruppo dei Dodici, a cui l'autore dedica una particolare attenzione, e il cui titolo, “i Dodici”, attraversa longitudinalmente l'intero vangelo per ben dodici volte. Una linea ecclesiologica che Luca deve avere in qualche modo mutuata da Marco e che poi ha brillantemente sviluppata nel corso del suo vangelo.

I Dodici compaiono sempre affiancati a Gesù, che dedica loro, costantemente, una particolare attenzione, così che tra i due, Gesù e il gruppo dei Dodici, viene a crearsi una sorta di simbiosi e di identificazione. Marco mostra, infatti, un particolare interesse alla costituzione del gruppo dei Dodici, che avviene in tre momenti: in 1,16-20; 2,14 e in 3,13-19, dove si precisa che Gesù “sale sul monte e chiama presso (di sé) quelli che egli voleva e andarono da lui. E (ne) fece dodici [che denominò anche apostoli] affinché fossero con lui e affinché li inviasse a predicare e ad avere autorità di scacciare i demoni”. In tal modo la missione dei Dodici viene espressamente colta come la ripresa e il prolungamento di quella di Gesù e questi ne possiedono l'autorità. Ripresa dell'attività di Gesù, allorché l'angelo invita Pietro e i discepoli a ritornare in Galilea, da dove era partita la missione di Gesù (1,14.39): “vi precede nella Galilea; là lo vedrete, come vi disse” (16,7b). E prolungamento della missione di Gesù, che già traspare evidente sia in 3,13-19 che in 6,7.12-13.41b.

All'interno di queste tre macro inclusioni e del parallelismo tra Gesù e i Dodici, Marco costruisce e struttura il suo vangelo, distribuendo il suo materiale in tre grandi aree:

  1. Prima Area: comprende la macro sezione 1,2-8,30, in cui in vario modo si esplora l'identità di Gesù come messia, da cui traspare la sua divinità, annunciata dagli spiriti immondi. I miracoli, infatti, così come le note di stupore e gli interrogativi su Gesù nonché la densa titolatura a lui riferita compaiono quasi esclusivamente in questa prima area, dedicata interamente alla scoperta della persona di Gesù, cercando lentamente di delinearne l'identità in un lento crescendo che troverà il suo vertice nella confessione di Pietro in 8,29. Da un punto di vista geografico i racconti di questa prima area si svolgono interamente all'interno della Galilea, con una breve e narrativamente un po' forzosa puntata nei territori di Tiro, Sidone e Decapoli.

  2. Seconda Area: comprende la macro sezione 8,31-10,52. È questa un'area che potremmo definire di transizione tra la fine dell'attività galilaica di Gesù e l'inizio di quella giudaica, in cui spicca il nome di Gerusalemme, che da qui in poi ricorre significativamente sette volte, e che viene legato ai tragici destini di Gesù. Qui, in questa seconda area, compaiono le prime avvisaglie della passione-morte-risurrezione di Gesù: i tre annunci della passione-morte-risurrezione di Gesù (8,31; 9,31; 10,33-34), la sua trasfigurazione (9,1-8), legata in qualche modo ai suoi destini (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34). Un passaggio, questo della seconda area, che è cruciale, perché segna una decisa svolta verso Gerusalemme e da qui verso il Golgota. Un passaggio che è rimarcato anche geograficamente in 10,1: “E alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano, e di nuovo le folle insieme vanno verso di lui, e come al solito li ammaestrava”. Questa seconda area si chiude significativamente con la guarigione del cieco Bartimeo, appena fuori di Gerico, la porta che apre la salita verso Gerusalemme e la croce. È questo l'ultimo miracolo di Gesù, forse il più significativo, poiché diviene la metafora di un discepolato guarito dalla sua cecità e dalla sua inintelligenza nei confronti di Gesù e incapace di leggere in lui l'azione di Dio che sta per compiersi in Gerusalemme. Un passaggio questo che sta preparando il lettore alla Terza Area, quella della passione-morte-risurrezione di Gesù, dove serve la luce e la comprensione della fede. In altri termini, è necessario che i discepoli e con loro tutti i credenti imparino a leggere questi drammatici eventi dalla prospettiva di Dio e del suo progetto e non più da quella degli uomini, come Gesù rimproverò in 8,33b Pietro: “Vai dietro di me, satana, poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini”. Serve, dunque, un cambio di passo, perché ciò che aspetta a Gesù e ai suoi richiede una diverso approccio e una diversa comprensione, non più umana, ma divina. Un'area, la seconda, che diviene, quindi, propedeutica alla Terza.

  3. Terza Area: comprende la macro sezione 11,1-15,47, dove l'intera attività di Gesù si svolge a Gerusalemme e come punto di riferimento il Tempio. Anche questa area si apre significativamente con una nota geografica, che avverte il lettore come ormai si è giunti alla meta: “E quando si avvicinano a Gerusalemme, a Betfage e a Betania, presso il monte degli Ulivi, manda due dei suoi discepoli” (11,1).

All'interno di queste tre grandi aree Marco ha raccolto il suo materiale finalizzato ad illustrare al suo lettore l'identità di Gesù, il senso della sua missione e come questa non finisce con lui, ma prosegue nei suoi discepoli, che identifica nei Dodici. Come Marco organizzi questo materiale all'interno di queste tre aree diventa un problema a capirlo. Certamente la disposizione del materiale segue una sua logica, così che certi passaggi e certi discorsi sono legati o consequenziali gli uni agli altri, ma in tutto questo è difficile trova una struttura nel senso tecnico del temine, attorno alla quale Marco distribuisce il suo materiale. Per capire questo è necessario capire come l'autore non sta componendo un vangelo in senso tecnico, nel senso che non si è proposto di compiere un'opera letteraria, anche se poi di fatto lo è diventata, ma si è proposto di scrivere su Gesù, seguendo, come si è sopra detto, le logiche della predicazione, la quale si sviluppa sempre per grandi schemi e persegue i propri obiettivi, che sono quelli di colpire l'attenzione e il cuore dei lettori e convertirli, ma non viene mai scrupolosamente strutturata. Quindi, benché si possa talvolta notare qualche ordine nella composizione marciana, tuttavia, questo non va confuso con la struttura del suo vangelo, che, come più volte si è detto, segue schemi e logiche proprie della predicazione orale.

Forse proprio per questo è difficile trovare e definire una struttura nel vangelo di Marco, semplicemente perché non c'è, ma ci sono soltanto dei raggruppamenti di materiali in macro aree, ordinati secondo logiche narrative circoscritte al contesto narrativo. Ma questo non va preso per uno schema strutturale. Del resto è lo stesso Papia stesso che attesta: “E diceva il presbitero: Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non certo in ordine, tutto ciò che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non era Lui, infatti, che Marco aveva visto o seguito, ma, come ho già detto, fu più tardi Pietro. E quest'ultimo impartiva i suoi insegnamenti secondo le necessità del momento, senza fare una raccolta ordinata dei detti del Signore, di modo che non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa, infatti, egli si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso” (Eus., Storia Eccl. , III, 39,15 ).



Note

1Traduzione personale dal testo greco.

2Cfr. Gen 1,1; Gv 1,1

3Gv 10,30; 14,9; 17,11b.21.22;

4Cfr. Mt 23,15

5Cfr. Pirqé Avot, 1,1

6Cfr. At 2,41; 6,7; 8,4.14.25; 11,1; 12,24; 13,49

7Vi sono oggi non pochi esegeti che tendono a collocare il prologo antimarcionita di Marco nel IV sec. Non è comprensibile un simile orientamento, considerando due elementi fondamentali: a) Marcione è morto intorno al 160, dopo aver fondato una sua prolifica chiesa, strutturata sulla falsariga di quella di Roma e dopo aver adottato delle Scritture, ampiamente manipolate e adattate al suo pensiero. Una chiesa che faceva molti adepti e proprio per questo pericolosa; b) un imminente pericolo, dunque, e in un periodo in cui la Chiesa stava istituendo il canone per selezionare l'attendibilità dottrinale e di fede dei numerosi scritti neotestamentari. Ora i prologhi definiti antimarcioniti, non perché fossero apologie contro Marcione, ma perché accompagnavano i testi dei vangeli, fornivano loro una sorta di carta d'identità e quindi di attendibilità, riagganciando quei testi alla Tradizione della Chiesa, che si stava formando e consolidando, creando in tal modo un muro invalicabile nei confronti delle scritture e delle pretese marcionite. I prologhi, pertanto, costituiscono delle risposte immediate ad un pericolo che era in atto. Non ha senso, quindi, produrli dopo due secoli, cioè nel IV sec., quando i danni potevano essere ormai irreparabili. Si tenga presente che le chiese marcionite prosperarono in Siria e in tutto l'Oriente fino al V sec. compreso.

8La traduzione è mia. Per una più completa traduzione cfr. pag.16 e nota n.25 della presente Introduzione.

9Similmente Paolo, rivolgendosi alle comunità della Galazia, che egli aveva fondato, ma che, dopo la sua dipartita, avevano lasciato Cristo per seguire la predicazione dei giudeocristiani, le definisce come figli che aveva già partorito e che ora partorisce nuovamente dopo la defezione: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi” (Gal 4,19).

10 Cfr. il verbo “˜rmhneÚw” (ermeneúo), da cui deriva il sostantivo “˜rmhneut»j” in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ed. Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1993

11Cfr. i significati in L. Catiglioni- S. Mariotti, Vocabolario della Lingua Latina, ed. Loescher Editore, Roma 1990 – Nuova edizione

12La questione del canone (dal gr. canon = regola) si è posta nel corso del II sec. d.C. quando ormai numerosi si presentavano gli scritti neotestamentari il cui contenuto teologico e dottrinale non sempre era affidabile. Si trattava quindi di dare base comune certa e indubitabile alla fede delle comunità credenti. I criteri su cui si basarono le valutazioni della canonicità degli scritti neotestamentari furono sostanzialmente tre: 1) L’Apostolicità, cioè lo scritto doveva essere fatto risalire direttamente o indirettamente agli Apostoli o alla loro predicazione; 2) L’Universalità, cioè la diffusione e l’uso dello scritto presso le comunità credenti; 3) La Fedeltà, ossia la conformità del contenuto degli scritti ai principi dottrinali e teologici della fede.

Una prima testimonianza del canone neotestamentario ci viene offerta dal frammento muratoriano, datato intorno al 170 d.C. che ci testimonia come già alla fine del II sec. il canone scritturistico fosse sostanzialmente fissato. La denominazione di “Frammento Muratoriano” dipende dal fatto che il testo fu scoperto nel 1740 da Ludovico Antonio Muratori presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano. Tuttavia l’elaborazione del canone durò fino al IV sec. Si considera, per motivi di semplicità, come data di chiusura del canone cristiano il 367 d.C. , anno in cui il patriarca Atanasio di Alessandria nella sua XXXIX lettera pasquale diretta alle comunità, si atteneva ai 27 libri neotestamentari (4 vangeli, gli Atti degli Apostoli, le 7 lettere canoniche, le 14 lettere di Paolo, di cui faceva parte anche quella agli Ebrei, e l’Apocalisse) che egli considerava come “fonti della salvezza” in cui veniva “annunciata la dottrina della beatitudine”. Successivamente il Concilio di Trento (1545-1563) l’ 8 aprile del 1546, IV sessione, con suo apposito documento definiva nuovamente, confermandolo, il canone cristiano-cattolico in opposizione alle pretese della Riforma luterana.

13Cfr. il mio commento al Vangelo di Giovanni, Parte Introduttiva, pag.19ss: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

14Nel vangelo di Matteo il termine scriba ricorre 22 volte di cui venti poste al plurale (“scribi”) e in contesti negativi e di opposizione a Gesù; due volte in Mt 8,19 e in 13,52 al singolare in contesti positivi e favorevoli a Gesù. In 8,19 compare uno scriba entusiasta di Gesù e si dichiara pronto a seguirlo ovunque egli vada: “Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: "Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai”; in 13,52 vi è un altro scriba che viene presentato come uno che ha saputo coniugare le Scritture con la persona e il messaggio di Gesù: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. Uno scriba, quindi, che compare agli inizi della sua sequela e, poi, divenuto discepolo affermato, probabilmente responsabile di comunità. Ci troviamo dunque di fronte ad una sorta di cammeo, con cui in qualche modo Matteo firma il suo vangelo.

15Cfr. il mio commento al Vangelo di Luca, Parte Introduttiva, pag 10: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20LUCA%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

16Cfr. Mc 1,22.28; 2,7.12b; 4,41; 5,20; 6,2; 7,37; 11,9-10; 11,28

17Cfr. 3,20-21 (3,22-30) 3,31-35;// 5,22-24 (5,25-34) 5,35-43; // 6,7-13 (6,14-29) 6,30-33; // 11,12-14 (11,15-19) 11,20-26; // 14,1-2 (14,3-9) 14,10-11.

18Cfr. 2,3-12 con sentenza ai vv. 5 e 10; 2,15-17 con sentenza al v.17; 2,18-22 con sentenza ai vv.21.22; 2,23-28 con sentenza ai vv.27.28; 3,20-21.31-36 con sentenza al v.35; 6,1-6 con sentenza al v.4; 6,45-52 con sentenza al v.50b; 7,1-16 con sentenza al v.15; 8,10-12 con sentenza al v.12a; 9,33-37 con sentenza ai vv.35b.37; 9,38-40 con sentenza al v.40; 10,1-12 con sentenza ai vv.8-9 e 11-12; 10,13-16 con sentenza al v.14; 10,17-25 con sentenza ai vv.21.23.25; 10,26-31 con sentenza ai vv.27.29.30.31; 10,35-45 con sentenza al v.45; 10,46-52 con sentenza al v.52a; 12,13-17 con sentenza al v.17; 12,18-27 con sentenza al v.27:

19Cfr. 1,21-22; 2,1-2; 2,13; 4,1-2; 4,33-34; 5,1.21; 6,1; 7,24.31; 8,10.27; 10,1 -

20Cfr. 1,14b-15; 1,32-34; 1,39; 3,7-12; 6 ,12-13.30; 6,53-56;

211) Esorcismo in sinagoga (1,23-28); 2) Guarigione suocera di Pietro (1,29-31); 3) Guarigione di un lebbroso (1,40-45); 4) Guarigione di un paralitico (2,3-12); 5) Guarigione di un uomo con la mano rattrappita (3,1-6); 6) Dominio delle forze della natura, vento e mare (4,35-41); 7) Esorcismo sull'indemoniato di Gerasa (5,1-20); 8) Risuscitazione della figlia di Giairo (5,22-24.35-43); 9) Guarigione dell'emorroissa (5,25-34); 10) Prima moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,34-44); 11) Esorcismo sulla figlia della donna sirofenicia (7,25-30); 12) Guarigione di un sordo-muto nella Decapoli (7,31-37); 13) Seconda moltiplicazione dei pani (8,1-9); 14) Guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26); 15) Esorcismo di un figlio di un tale (9,14-29); 16) Guarigione del cieco Bartimeo (10,46-52).

22Cfr. 1,32-34; 1,39; 3,11-12; 6,54-56

23Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S.Antonio- Editrice, Padova VI edizione 1998 – pag.248

24Cfr. la Parte Introduttiva al vangelo di Giovanni, pagg.19ss: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

25Cfr. J. Gnilka, Marco, ed. Cittadella Editrice, Assisi, II edizione 2007 – pag.29

26Cfr. A. Milano, Storia degli Ebrei in Italia, ed. Giulio Einaudi editore, Torino 1963 – pagg. 5-18

27Il testo del prologo di Marco ci è giunto in latino: “Marcus adseruit, qui et colobodactylus est nominatus, ideo quod ad ceteram corporis proceritatem digitos minores habuisset. hic discipulus et1 interpres fuit Petri, 2aquem secutus est sicut ipsum audierat referentem. Rogatus Romae a fratribus hoc breve evangelium in Italiae partibus scripsit. Quod cum Petrus audisset, probavit ecclesiaeque legendum sua auctoritate firmavit. verum post discessum Petri assumpto hoc evangelio quod ipse confecerat, perrexit Aegyptum et primus Alexandriae episcopus ordinatus, Christum annuntians, constituit illic ecclessiam. tantae doctrinae et vitae continentiae fuit ut omnes sectatores Christi ad suum cogeret imitari exemplum.” Quanto alla datazione del prologo antimarcionita cfr. la nota n.7 di questa presente Introduzione.

28Il testo latino qui dice “secutus est”, letteralmente “seguì”. Ho preferito esplicitarne il senso con quel “riportò” sottintendendo “la predicazione di Pietro”.

29La traduzione in italiano è mia. Le parole poste tra parentesi sono state da me aggiunte perché non compaiono nel testo latino, ma sono chiaramente sottintese.

30Si pensi soltanto alla profondità di pensiero cristologico che scaturisce dalla titolatura di Gesù in Marco, nonché alla sua identità, che ne esce dai vari racconti. Fin da subito si definisce Gesù quale Cristo e Figlio di Dio (1,1; 8,29; 14,61-62; 15,39). Il Battista lo definisce come “il più forte di lui” e di una dignità di molto superiore alla sua, così che egli non è degno neppure di slegare i lacci dei suoi sandali. Egli è colui che battezza con Spirito Santo, definendo in questa breve espressione la nuova attività missionaria ed escatologica di Gesù (1,7-8). Gesù è definito come il “Figlio amato” in cui il Padre si è compiaciuto (1,11; 9,7) ed è definito come il “Santo di Dio” e “Figlio del Dio Altissimo” venuto a distruggere il potere di satana (1,24; 5,6-7). Gesù è presentato come colui che opera con la potenza di Dio, venuto per perdonare i peccati, rigenerando l'uomo a Dio e lo mostra con potenza (2,7.10). Egli, richiamandosi al rapporto sponsale tra Jhwh e il suo popolo, si autodefinisce come “lo sposo” in mezzo ai suoi, mentre il tempo della sua presenza in mezzo a loro come il tempo delle nozze (2,19). Più volte ricorre il titolo di “Figlio dell'uomo” che, a seconda dei contesti, assume talvolta il significato di “uomo”, altre volte traspare il senso escatologico. Egli è indicato anche come “Figlio di Davide”, vedendo in lui la realizzazione della profezia di Natan in 2Sam 7,5-16 (10,46): Entrando in Gerusalemme è definito come “colui che viene”, cioè il messia, in cui si vede il realizzarsi del regno davidico promesso da Natan (11,10-11). Ma la comprensione della natura davidica che si attua in Gesù è spiegata da Gesù stesso in 12,35-37, dove Davide lo riconosce suo Signore e, quindi, Dio stesso. L'attuarsi, quindi, del regno davidico in Gesù è sinonimo dell'attuarsi del Regno di Dio in Gesù. Come dire che Dio, in Gesù, è ritornato in mezzo agli uomini e in Gesù tende loro la sua mano. Una regalità che trasparirà sempre più durante il racconto della passione e morte (15,2.9.12.18.26.32). Ma tutta questa ricca cristologia e teologia della titolatura ha il suo contrapposto, per chi non crede o rifiuta Gesù, in un'altra titolatura: quella di essere un semplice uomo (6,3) o di essere un posseduto da Beelzebul o, più semplicemente, di essere fuori di testa (3,21).

31La persecuzione scatenata da Nerone nel luglio del 64 d.C. fu del tutto occasionale a seguito di un incendio che devastò Roma e di cui egli fu il colpevole. Quindi, per scagionarsi dalle accuse di aver provocato l’incendio e stornare da lui il furore popolare, accusò i cristiani, che perseguitò e condannò a morte in modi atroci: furono crocifissi, dati alle belve come spettacolo, usati come torce umane o rivestiti di pelli di animali selvatici e dilaniati dai cani. La persecuzione durò un anno, ma si spense veramente soltanto alla morte di Nerone. Nerone, comunque, al di là del fatto contingente, non elaborò mai una politica contro il Cristianesimo, né mostrò una ostilità persistente contro i cristiani. Tale persecuzione ci viene riportata da Tacito negli “Annales” al cap. 15,44 e accennata da Svetonio nella “Vita dei Cesari”, senza però alcun accenno all’incendio. Il fondamento giuridico di tale persecuzione si ritrova nel senatus consultum del 35 d.C. sotto Tiberio (14-37 d.C.) che dichiara il cristianesimo “religio illicita”. Essa fu limitata alla città di Roma e l’accusa non fu di aver appiccato l’incendio, bensì di odio verso il genere umano, che trovava il suo fondamento nella vita riservata dei cristiani e nel loro rifiuto di partecipare alla vita pubblica, al fine di evitare l’obbligatorio culto pubblico.