IL VANGELO SECONDO MARCO


Gesù, terminata la missione tra i pagani, rientra in Galilea
dove, riconosciuto come il Cristo,
prospetta ai Dodici i suoi destini di sofferenza


Cap. 8 [Dalla prima (vv.1-9) alla seconda area narrativa (vv.8,10-10,52)]1



Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi






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Note generali

Già lo si è intuito dai titoli di testata come questo cap.8 segna un passaggio da un'area narrativa (1,2-8,30) ad un'altra (8,31-10,52). Gesù, terminata la sua attività missionaria presso i pagani (6,53-8,9), rientra in Galilea (v.10), dove avverrà un cambio di passo: la grande azione missionaria per tutta la Galilea, preannunciata e introdotta da 1,14b-15.38-39, caratterizzata dalla predicazione, esorcismi, miracoli e diatribe è terminata. Parallelamente a questa grande attività missionaria Marco impianta e sviluppa la sua ecclesiologia essenziale a partire dalla chiamata de primi discepoli (1,16-20), alla loro costituzione nel gruppo istituzionale dei Dodici (3,13-15), che svolge funzioni vicariali e intermediarie tra Gesù e le folle (6,35-37a.39-40.41b); il loro invio in missione (6,7-13), che viene aperta anche al mondo dei pagani (7,24-8,9), previo l'aver liberato la chiesa, originariamente giudeocristiana e legata ancora alla legge mosaica, dai pregiudizi della purità rituale (7,1-23) e da un profondo senso elitario (7,27-28), che le impedivano di aprirsi al mondo pagano. Ma nel contempo impianta e sviluppa la sua cristologia, rivelando il Mistero di Gesù e la sua identità di Cristo e Figlio di Dio, venuto a liberare l'uomo dal potere di satana, ristabilendo il potere di Dio in mezzo agli uomini, il Regno di Dio. In Gesù, dunque, Dio è venuto a riprendersi ciò che gli apparteneva fin dai primordi dell'umanità, ricostituendola in se stesso, così com'era agli inizi della creazione (1Cor 15,27-28; Ef 1,4a.9-10).

Ora, in questa seconda area narrativa (8,31-10,52) l'attenzione si accentra soprattutto sui discepoli e le modalità della sequela di Gesù, mentre l'azione missionaria si fa più contenuta e la folla si muove prevalentemente sullo sfondo, quasi a scomparire, e comunque non è più la protagonista principale.

Cambiano le tematiche di fondo: dalla ricerca dell'identità di Gesù, il cui vertice si avrà in 8,29, si passa a comprendere il senso di tale identità e a cosa essa è strettamente legata, provocando la reazione negativa di Pietro (8,32); compaiono per la prima volta in modo esplicito gli annunci della passione, morte e risurrezione di Gesù (8,31; 9,31;10,33-34); spicca sempre più l'inintelligenza dei Dodici sul senso della missione di Gesù e come questa sia strettamente legata ai suoi destini di sofferenza e di morte (8,14-21.32; 9,32). Di conseguenza viene messa sempre più in evidenza la necessità della fede, indispensabile per capire il Mistero dell'identità di Gesù e del suo patire, morire e risorgere, altrimenti incomprensibile. Non è un caso se in questa seconda area (8,30-10,52) compaiono soltanto tre significative guarigioni, che hanno tutte una stretta attinenza con il tema della fede: due guarigioni di ciechi; la prima (8,22-26) posta a ridosso della rivelazione della vera identità di Gesù, scoperto come il Cristo sofferente destinato alla morte (8,29-31); la seconda posta a ridosso della salita di Gesù a Gerusalemme (10,46-52), dove si compiranno i suoi destini di passione-morte-risurrezione; ed infine una terza guarigione, un esorcismo, dove si parla della liberazione dell'uomo dal demone dell'incredulità (9,14-29). Un racconto questo in cui si insiste molto sulla fede e dove si invoca Gesù di soccorrere la propria incredulità.

Ma se la fede è indispensabile per capire il Mistero della passione-morte-risurrezione di Gesù, tuttavia questa non è sufficiente perché tale Mistero di sofferenza e morte possa essere pacificamente accettato e accolto nella propria vita. Serve sviluppare altri atteggiamenti interiori. Da qui la necessità di riflettere sulla propria sequela di Gesù, che è inscindibile dalla croce (8,34-38); sviluppare un atteggiamento di umiltà e di servizio nei confronti degli altri (9,33-35; 10,35-45) con la semplicità d'animo di un bambino (9,36-37; 10,13-16) per poter comprendere come la passione e morte di Gesù sia un servizio di redenzione, che egli ha reso all'intera umanità, divenendo pane che si spezza per tutti, togliendo dal proprio animo ogni senso di rivalità, che tende a dividere e ad escludere gli altri (9,38-40); serve sviluppare nuovi rapporti familiari non più distruttivi, ma ricompresi alla luce della Parola di Dio (10,1-12); serve avere un animo libero dal demone della ricchezza per poter seguire Gesù sulla via della croce, che è spogliazione di se stesso a favore degli altri (10,17-31);

Ben si comprende, per la tematica qui trattata, come l'intera seconda area narrativa (8,31-10-52) sia di transizione verso la terza area e ad essa propedeutica (11,1-16,9), quella dell'attività giudaica di Gesù, che si conclude con il racconto del Mistero della sua passione-morte-risurrezione.

Benché la struttura del cap.8 dia la sensazione di un collage di unità narrative giustapposte le une alle altre, in realtà, queste sono strettamente connesse tra di loro tematicamente. Il tutto ruota attorno all'identità di Gesù (v.29b), che una volta scoperta, si svilupperà sul filone del Messia sofferente con tutto ciò che questa scoperta comporterà.

Pertanto propongo il seguente sviluppo strutturale del cap.8:

  1. La seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci con cui si conclude la missione di Gesù presso il mondo pagano (vv.1-9), iniziatasi in 6,53;

  2. L'incredulità delle autorità giudaiche nei confronti di Gesù (vv.10-13);

  3. L'inintelligenza dei Dodici, che non comprendono come Gesù sia il vero Pane, significato nelle due moltiplicazioni dei pani e dei pesci (vv.14-21);

  4. La guarigione del cieco di Betsaida, posta a ridosso della scoperta dell'identità di Gesù, vede Gesù il vero guaritore della cecità dell'intelligenza spirituale dei Dodici (vv.22-26). Il tema di Gesù luce che illumina le menti e i cuori e che soccorre all'incredulità verrà ripreso in 9,15-29;

  5. Pietro scopre l'identità di Gesù: “Tu sei il Cristo” (vv.27-30);

  6. Gesù precisa la natura del suo messianismo, strettamente legato alla sofferenza, provocando la reazione negativa di Pietro (vv.31-33);

  7. Gesù puntualizza i termini della sua sequela, sulla quale si estende l'ombra della croce di Gesù (vv.34-38).

Un'ultima annotazione sul cap.8 va riservata ai vv.11-13.15, che nel contesto narrativo del capitolo suonano come una stonatura e tali da far pensare ad una interpolazione di qualche amanuense giudeocristiano che voleva stigmatizzare l'incredulità dei suoi connazionali o, più probabilmente, di qualche etnocristiano, che voleva puntare il dito contro la componente giudeocristiana delle comunità credenti, sostanzialmente sempre molto scettica e critica circa le novità portate da Gesù e ancora legata, invece, alla legge mosaica. Probabilmente l'inserimento immediatamente dopo la moltiplicazione dei pani doveva essere giustificato in qualche modo dal riferimento al lievito, che fa fermentare il pane, ma che nella mentalità giudaica assumeva un'accezione negativa di corruzione e, quindi, l'accusa mossa al giudeocristianesimo dovrebbe essere quella di essere dei corruttori della bontà del Pane che è nella barca, cioè dell'evento Gesù, il cui insegnamento era accolto pienamente nelle comunità credenti, specialmente da quelle etnocristiane anche se spesso con difficoltà di comprensione (vv.14-26) per la novità e la profondità del messaggio; mentre la componente giudeocristiana tendeva a subordinare la novità dell'evento Gesù alla legge mosaica. Da qui l'accusa di essere lievito, cioè corruttori del genuino insegnamento di questo Pane, che era nella barca, metafora quest'ultima della comunità credente.

L'inserimento della pericope vv.11-13.15, pertanto, è, a mio avviso, spuria e non di Marco. I vv.10.14.16-26, infatti, legano bene tra loro e con la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci e ne costituiscono uno sviluppo narrativo e tematico, che prepara al difficoltoso riconoscimento dell'identità di Gesù, quale Messia sofferente. Tutto qui, infatti, è scorrevole e ben strutturato, mentre i vv.11-13.15 costituiscono una forzatura sia tematica che narrativa, una sorta, per usare un'immagine calcistica, di entrata in gioco a gamba tesa. Il v.15, poi, interrompe la continuità narrativa dei vv.14.16, che formano tra loro un unico corpo narrativo, mentre l'inserimento del v.15 risulta del tutto incomprensibile e fa riferimento alla pericope vv.11-13, a cui apparitene ed è posto a suo commento e, quindi, non centra niente con il dibattito che sta avvenendo tra i discepoli. Il v.16, infatti, riprende la narrazione del v.14, ignorando totalmente il v.15.

Commento ai vv.1-38


La seconda moltiplicazione dei pani (vv.1-9)

Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo (v.1)

1- In quei giorni, essendoci di nuovo molta folla e non avendo che cosa mangiare, chiamati i discepoli, dice loro:

Gesù mosso da compassione (vv.2-3)

2- <<Ho compassione per la folla, poiché già da tre giorni stanno con me e non hanno che cosa mangiare;
3- e se li congederò digiuni a casa loro, illanguidiranno sulla strada; e alcuni di loro sono giunti da lontano.

Lo smarrimento dei discepoli (v.4)

4- gli risposero i suoi discepoli: <<In quale modo qualcuno potrà nutrire questi con pani in un luogo deserto?>>.

Gesù fonte di vita che sfama chi ha fame (vv.5-7)

5- E (Gesù) li interrogò: <<Quanti pani avete?>>. Quelli dissero: <<Sette>>.
6- E ordina alla folla di coricarsi sulla terra; e presi i sette pani, dopo aver reso grazie, (li) spezzò e (li) dava ai suoi discepoli affinché (li) dessero, e (li) dettero alla folla.
7- E avevano pochi pesciolini; e dopo averli benedetti, disse di dare anche questi.

Gesù il Pane che sazia in abbondanza la fame (vv.8-9)

8- E mangiarono e furono saziati e presero (gli) avanzi (dei) pezzi, sette cesti.
9- Ora, erano circa quattromila, e li congedò.
10- E subito, salito sulla barca con i suoi discepoli, andò verso le parti di Dalmanuta.


Note generali

Il cap.8 si apre con il racconto di una seconda moltiplicazione di pani e di pesci (8,1-9), che avviene nella terra pagana della Decapoli (7,31) e conclude la missione di Gesù presso i pagani e ne costituisce il vertice. Un'azione missionaria, questa di Gesù, che è scandita in tre movimenti, metaforizzati da altrettanti miracoli: dapprima il mondo dei pagani è liberato dal potere di satana attraverso la potenza della parola di Gesù (esorcismo sulla figlia della donna sirofenicia, 7,25-30); poi essi sono resi idonei a comprendere la Parola e a celebrare le lodi di Dio (guarigione del sordo-muto, 7,31-37); ed infine anche il mondo pagano è convocato alla mensa del Pane miracoloso, dove viene sfamato e nutrito con abbondanza (seconda moltiplicazione dei pani, 8,1-9).

Un racconto, questa seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci, che, seppur sostanzialmente identico nello schema narrativo al primo (6,34-44), tuttavia diverge notevolmente da quello nella sua dinamica narrativa, così da far pensare che qui ci si trovi di fronte, più che ad una ripetizione modificata del primo racconto, ad uno nuovo, completamente diverso, appartenente ad un diverso filone di tradizione premarciana. In buona sostanza due identici racconti di moltiplicazione di pani e pesci, ma di diversa fonte.

Nel primo racconto l'iniziativa è dei Dodici (6,35-36), che fungono da intermediari tra Gesù e le folle e svolgono funzioni vicariali di Gesù (6,37a.39.41c); mentre in questo secondo racconto i Dodici sono completamente disorientati e totalmente passivi nei confronti di Gesù, che invece funge da attore principale: è lui che fa tutto ed ha un diretto contatto con le folle, se non nella distribuzione di pani, aiutato qui dai discepoli.

In entrambi i racconti Gesù è mosso a compassione nei confronti della folla, ma cambiano radicalmente le motivazioni della compassione: là il motivo è che sono come pecore allo sbando, per cui si limita a somministrare loro il suo insegnamento (6,34); qui perché le vede affamate (v.1); cambia la motivazione per cui Gesù compie il miracolo: là soltanto perché l'ora è tarda e le folle hanno difficoltà a reperire il cibo, trovandosi in un luogo desertico (6,35-36); qui per la spossatezza della sequela di queste folle, che per tre giorni hanno ascoltato il suo insegnamento, per cui è giunto il momento di farli sedere e nutrirli con il pane miracoloso, affinché non vengano meno (vv. 2-3); là sono i Dodici, sospinti da Gesù, che fanno sedere le folle sull'erba verde in gruppi di cento e cinquanta (6,39-40); qui è Gesù che ordina direttamente alle folle di sedersi (v.6); là Gesù benedici cinque pani e due pesci in un'unica benedizione (6,41); qui i pani sono sette e i pesci un numero imprecisato e sono oggetto di due diverse benedizioni (vv.6b-7).

Va annotato, infine, che in questa seconda moltiplicazione dei pani i discepoli ignorano totalmente quanto era già avvenuto nella prima e parimenti a quella, come se fosse la prima volta che ciò accade, si interrogano smarriti “In quale modo qualcuno potrà nutrire questi con pani in un luogo deserto?”, mentre ai vv.19-20 danno a vedere che ben ricordano le due moltiplicazioni. Quindi è da pensare che entrambi i racconti provengano da fonti diverse e Marco li abbia riportati così come li ha avuti, commettendo, tuttavia, un'incongruenza sia al v.4, dove non ci si ricorda quanto era avvenuto precedentemente, sia ai vv.19-20. Ma del resto all'evangelista non si chiede la precisione storica e lo sviluppo logico degli eventi, quanto piuttosto il loro significato e il loro senso. È questo che aiuta a capire l'evento Gesù e la sua missione e su questo che viene fondata la fede.

Quanto alla struttura dl racconto, propongo la seguente, che ricalca quella della sezione “Testo a lettura facilitata”:


Commento ai vv. 1-9

Il v.1 si apre con una nota temporale generica “In quei giorni”, alludendo all'attività di Gesù nella regione della Decapoli (7,31). Non venendo, infatti, precisato il luogo è da intendersi che la missione di Gesù continua in tale regione, dove ha già operato la guarigione del sordomuto e dove da tre giorni la folla lo sta seguendo. L'insieme di questi elementi fanno pensare come l'attività missionaria di Gesù in terra pagana non sia stata fugace, come sembra apparire il suo passaggio a Tiro, da dove, dopo l'esorcismo della figlia della sirofenicia, è ripartito immediatamente verso Sidone per poi ripiegare nella Decapoli. Qui, in questa regione, sembra essersi soffermato più a lungo.

Dopo l'annotazione di tempo, l'attenzione viene accentrata “di nuovo” sulla folla. L'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo), infatti, colloca al centro dell'attenzione la folla. È lei, dunque, e non Gesù o i suoi discepoli, la vera protagonista di questo racconto. Gesù e i suoi, infatti, qui si muovono in funzione della folla. Rispetto alla prima moltiplicazione dei pani vi è un cambio di prospettiva, perché qui cambiano gli interessi dell'evangelista. Non a caso il termine folla in questi soli nove versetti ricorre quattro volte contro una sola volta negli undici versetti della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci, dove la folla si muove sullo sfondo, ma centrale è l'azione dei Dodici, mentre Gesù agisce nell'ombra. Qui le cose, invece, sono capovolte: l'azione dei discepoli, pressoché passivi, è sostanzialmente inesistente, mentre l'azione di Gesù è scarna e ridotta all'essenziale. Marco, invece, dà ampio spazio alla riflessione di Gesù sulla folla, ben due versetti (vv.2-3), rilevando in tal modo l'interesse di Gesù per essa; contrariamente a quanto avviene nel primo racconto, dove i discepoli spingono Gesù a sciogliere la folla e a rimandarla a casa e ad arrangiarsi in qualche modo per potersi sfamare (6,36).

Un altro elemento che qualifica questa folla è che “non ha da mangiare”. È, dunque, una folla che, dopo “essere stata con Gesù” per tre giorni, abbisogna di alimentarsi. Sono tutti elementi questi che vanno tenuti in considerazione per poi poter comprendere i “tre giorni di sequela”, “i sette pani”, numero questo che si ripete tre volte in pochi versetti, e la stessa quantità della folla, “quattro mila”. Numeri che in questo contesto assumono un loro significato, contrariamente a quelli del primo racconto.

I vv.2-3 costituiscono il cuore dell'intero racconto di questa seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci e sviluppano una riflessione che porta a giustificare l'accesso alla comune mensa anche del mondo pagano, fondandolo sulla misericordia e sulla compassione di Dio anche verso di loro. Un tema quello della misericordia di Dio a cui il mondo giudaico era particolarmente sensibile. Basti pensare che il termine misericordia (”Eleoj, Eleos) nella LXX ricorre per ben 293 e designava il rapporto di Dio con il suo popolo, fondato sulla misericordia e la compassione e l'amore: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli,ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto” (Dt 7,6-8).

Marco, dunque, sta lentamente costruendo un contesto favorevole all'accoglienza dei pagani all'interno delle comunità credenti, originariamente giudeocristiane, ancora fortemente legate alla legge mosaica: dapprima le libera dai vincoli della purità legale (7,1-23), poi toglie loro quel senso elitario escludente (7,27-29) ed ora richiama il tema della misericordia e della compassione di Dio, di cui Israele ha beneficiato e che ora vengono offerte anche ai pagani, e lo fa con il v.3b, dove viene messo in evidenza che “alcuni di loro sono giunti da lontano”. Quest'ultima espressione, apparentemente innocua, è in realtà fortemente evocativa e richiama da vicino sia Is 60,1-22 che Tb 13,13 dove Israele, illuminato dalla luce di Dio è chiamato ad illuminare le genti. Marco, dunque, qui fa leva sulla vera vocazione di Israele: essere luce per le nazioni2. Il loro atteggiamento nei confronti dei pagani, quindi, non deve essere escludente, ma includente. Solo così si realizzano appieno il senso della sua storia e la promessa che Dio aveva fatto ad Abramo: “Renderò la tua discendenza numerosa come le stelle del cielo e concederò alla tua discendenza tutti questi territori: tutte le nazioni della terra saranno benedette per la tua discendenza” (Gen 26,4). Una discendenza che Paolo vede realizzarsi per fede e non secondo la carne (Rm 4,13-18).

Il v.2 si apre con un verbo che ricorre in tutta la Bibbia soltanto dodici volte e solo nei tre Sinottici ed esprime una misericordia viscerale. Il verbo infatti ha la sua radice in “spl£gcna” (spláncna), che significa viscere, esprimendo in tal modo il profondo sentire del Padre in Gesù verso questo mondo. È in buona sostanza la misericordia che si fa solidarietà attraverso questo con-sentire, diventando compassione.

Ma ciò che rivela il senso di questa compassione è la motivazione che la sottende e che funge da chiave interpretativa dell'intero racconto di questa seconda moltiplicazione di pani: “poiché già da tre giorni stanno con me e non hanno che cosa mangiare”.

Questa seconda parte del v.2 è molto densa ed è scandita in tre parti. La prima è una nota temporale “poiché è già da tre giorni”. Il tre in questo contesto assume una molteplicità di valenze:

  1. in senso generico l'espressione “tre giorni” nel linguaggio biblico indica soltanto un determinato lasso di tempo. Essa ricorre nel solo A.T. ben 47 volte; mentre la simile formula “terzo giorno”, che esprime in se stessa una maggiore dinamicità poiché presuppone che siano già trascorsi il primo e il secondo giorno per giungere al terzo, ricorre 29 volte;

  2. il tre, poi, in quanto numero, indica un tempo compiuto, scandito da un inizio, un centro ed una fine; Pertanto se i “tre giorni” si riferiscono alla missione di Gesù presso i pagani, essi esprimono un tempo indeterminato entro cui tale missione si è compiuta e che, pertanto, ora la missione di Gesù torna nella Galilea (v.10) e continuerà fin al cap. 10,1, dove la missione prenderà un nuovo indirizzo: “verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano”. Il cap.10, pertanto, sarà un capitolo di transizione verso la missione giudaica, che trova il suo vertice a Gerusalemme (11,1);

  3. ma in questo contesto esso può significare tre momenti, tre passaggi che hanno caratterizzato la missione di Gesù in terra pagana, portandola al suo compimento e che in qualche modo scandiscono le modalità di attuazione e di lettura di questa missione: dapprima, vi è la liberazione di queste popolazioni pagane dal potere di satana attraverso la Parola (7,24-30); poi la loro catechizzazione, che le rende capaci di comprendere la Parola così da poterla poi celebrare nella lode a Dio (7,31-27); ed infine, per completare il ciclo della piena ammissione del mondo pagano alla vita della comunità credente, è necessario farlo sedere alla comune mensa dell'unico Pane (8,1-9).

  4. Se questi sono i tre passaggi della missione presso i pagani, che Marco sinteticamente ricostruisce in questa ampia sezione ecclesiologica riguardante la missione verso le genti (6,53-8,9), allora i “tre giorni” assumono qui un ulteriore significato e alludono al cammino catecumenale, che presso la comunità credente di Roma, a cui Marco apparteneva, era di tre anni3. Infatti, si precisa che queste folle “stanno con Gesù”. Non si parla ancora di vera e propria sequela, ma di “stare con”, nel senso di perseverare, persistere nella scelta originaria compiuta. Questo “stare con” allude in qualche modo all'insegnamento impartito durante questi tre anni, grazie al quale i candidati al battesimo hanno imparato a “stare con Gesù”, perseverando con lui. Un tempo questo che è incompiuto (“non hanno che cosa mangiare”) e che va portato al suo compimento facendo sedere queste folle, che alludono alla moltitudine delle genti, provenienti dal mondo pagano, alla comune mensa del Pane. Solo così essi non verranno meno e non illanguidiranno (v.3), poiché questo è il Pane della Vita, che fa di loro un tutt'uno con la comunità credente e in essa e con essa con Dio (1Cor 10,16-17; 1Gv 1,3). Una compiutezza del cammino intrapreso, che va portata a termine con il banchetto, viene simboleggiato dal numero sette ripetuto tre volte (vv.5.6.8), che compaiono all'interno del racconto di questa seconda moltiplicazione dei pani, dove il sette indica il perfezionamento raggiunto, il compimento; mentre il tre parla di un cammino compiuto e portato a perfezione. Un cammino questo che va riservato non soltanto ai credenti che provengono dal giudaismo, ma a tutti, indipendentemente dalla loro appartenenza, simboleggiato questo dal numero “quattromila”, dove il quattro potenziato dalle migliaia sta ad indicare la totalità e l'universalità4.

Il racconto prosegue ripetendo lo stesso schema di quello precedente, ma qui, a differenza del racconto precedente, l'accento viene fatto cadere sul pane. Questo è in quantità di “sette”, il numero che indica la perfezione portata a compimento. Solo sui “sette pani”, i pani della perfezione portata a compimento, si dice che “dopo aver reso grazie, (li) spezzò e (li) dava ai suoi discepoli affinché (li) dessero, e (li) dettero alla folla”; mentre la quantità dei pesci non viene precisata se non in modo indeterminato: “pochi pesciolini”; e su di loro non avviene nessun rendimento di grazie, nessuna significativa gestualità come lo “spezzare il pane”, che ricorda le mense eucaristiche delle prime comunità credenti (At 2,42b), ma soltanto una semplice benedizione. I pesci non risultano essere il pasto principale, ma soltanto un'aggiunta a questo: “disse di dare anche questi” (v.7c), così che questo pasto risulta essere un pasto completo, pieno e soddisfacente, la cui abbondanza, che sazia largamente, è significata dagli avanzi: “sette cesti”, una quantità piena, perfetta, capace di saziare tutti gli uomini, di qualsiasi estrazione sociale e di qualsiasi latitudine, che stanno con Gesù.

Il racconto termina con un punto fermo: “li congedò”, che da un lato, lo chiude narrativamente; dall'altro, quel “congedare” ricorda quanto avveniva nelle mense eucaristiche al loro termine, il celebrante congedava i partecipanti, dando loro la possibilità di portare con loro il pane sacro, perché fosse di conforto anche agli ammalati e di sostegno spirituale lungo la settimana. Ma nel contempo, quel “li congedò” evoca una sorta di invio in missione, perché questi nuovi credenti, nutriti del Parola e del Pane di Vita, ne divengano testimoni, celebrandoli nella quotidianità della propria vita.

Il v.10 è un versetto di transizione, perché concludendo non solo il racconto della seconda moltiplicazione dei pani, ma anche l'ampia sezione dell'attività missionaria di Gesù in terra pagana (Tiro, Sidone, Decapoli), traghetta il lettore verso un altro contesto narrativo e verso un'altra ampia sezione narrativa (8,30-10,52) dove appariranno per la prima volta i temi della passione-morte-risurrezione e della necessità della fede per comprendere l'identità di Gesù, quale messia sofferente e il senso del suo patire e morire. Una sezione che costituisce nel contempo una transizione tra l'attività galilaica di Gesù e quella giudaica, dove si compiranno i suoi destini di morte e risurrezione.

Il v.10 forma nel contempo una doppia inclusione, data da un movimento uguale contrario: da un lato, in 6,53, Gesù scese dalla barca con i suoi a Genesaret e da lì dette inizio alla sua missione in terra pagana (7,24); ed ora, qui, risale in barca verso Dalmanuta. Si viene, pertanto, a circoscrivere un'ampia sezione (6,53-8,10), che ha per tema la complessa problematica della missionarietà della chiesa nascente verso il mondo pagano; dall'altro, il v.10 forma inclusione con il v.13, circoscrivendo la pericope vv.10-13, dove si stigmatizza l'incredulità del mondo giudaico.

Gesù, quindi, risalito in barca si dirige verso Dalmanuta. Si tratta di una nota geografica con cui si apre una nuova sezione, in cui la località “Dalmanuta” è totalmente oscura e per quanti siano stati i tentativi di individuarla si è sempre giunti a delle mere ipotesi. Lo stesso Mt 15,39, nello stesso passo parallelo, ha cercato di identificarla con un'altrettanta non ben definita Magadàn, forse una variante di Magdala. Certamente sono località totalmente sconosciute o forse chiare nella fantasia dei loro autori. Come dunque interpretare e comprendere questa “Dalmanuta”? Penso che qui Marco abbia voluto dire soltanto che Gesù dal territorio della Decapoli se ne tornò a casa sua, cioè, tradotto in aramaico “dalmā 'nūthā” (luogo del suo soggiorno)5. E quindi il v.10 va letto in questo modo: “E subito, salito sulla barca con i suoi discepoli, andò verso il luogo del suo soggiorno”. Come intendere questo “luogo del suo soggiorno”? Certamente la Galilea, da dove è iniziata la sua missione e, se si dà retta a Mt 4,13, questo luogo è Cafarnao: “e, lasciata Nazareth, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali”.

Il difficile cammino verso la comprensione dell'identità di Gesù (vv.11-26)

Testo a lettura facilitata

L'incredulità dei Giudei nei confronti di Gesù (vv.11-13)

11- E uscirono i Farisei e incominciarono a discutere con lui, cercando di ottenere da lui un segno dal cielo, mettendolo alla prova.
12- E deplorati(li) (nel) suo spirito, dice: <<Perché questa generazione cerca un segno? In verità vi dico che non sarà dato a questa generazione nessun segno>>.
13- E lasciateli, di nuovo salito (in barca) se ne andò nella parte opposta.

L'inintelligenza dei Dodici nei confronti di Gesù, vero Pane (vv.14-21)

14- Si dimenticarono di prendere dei pani e con loro, nella barca, non avevano se non un pane.
15- E comandava loro dicendo: <<Fate attenzione, guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode>>.
16- E discutevano gli uni e gli altri che non avevano pani.
17- E saputo(lo) dice loro: <<Di che cosa discutete, che non avete pani? Non comprendete ancora né capite? Avete il vostro cuore indurito?
18- Avendo occhi non vedete e avendo orecchi non udite? E non ricordate,
19- quando spezzai i cinque pani per i cinquemila, quante ceste piene di pezzi prendeste?>>. Gli dicono: <<Dodici>>.
20- Quando (spezzai) i sette (pani) per i quattromila, quanti cesti pieni di pezzi prendeste?>>. E [gli] dicono: <<Sette>>.
21- E diceva loro: <<Ancora non capite?>>.

La cecità spirituale guarita da Gesù (vv.22-26)

22- E giungono a Betsaida. E gli portano un cieco e lo supplicano affinché lo toccasse.
23- E presa la mano del cieco, lo portò fuori dal villaggio e sputato sui suoi occhi, poste le mani su di lui, lo interrogò: <<Vedi qualcosa?>>.
24- E alzati gli occhi, diceva: <<Vedo gli uomini, poiché vedo come alberi che camminano>>.
25- E allora, di nuovo, impose le mani sui suoi occhi e vide distintamente e fu ristabilito e vedeva chiaramente e anche da lontano tutte quante le cose.
26- E lo mandò a casa sua dicendo: <<Ma non entrare nel villaggio>>.



Note generali

Questa sezione funge da preambolo alla seconda grande area narrativa (8,27-10,52), quella di mezzo e di transizione tra l'attività galilaica di Gesù a quella giudaica (11,1-16,8), che si concluderà sul Golgota e che verrà illuminata dalla risurrezione. Essa, quindi, ha funzioni propedeutiche.

Ci si trova di fronte ad una sezione tutta in salita, perché da un lato viene denunciata la pervicace diffidenza e incredulità dei Giudei nei confronti di Gesù (vv.11-13); dall'altro, viene messa in rilievo l'inintelligenza dei Dodici nei suoi confronti (vv.14-21), metaforizzata dal cieco di Betsaida (vv.22-26), l'ultima tappa che li porterà sulla strada per Cesarea di Filippo, dove avviene il riconoscimento dell'identità di Gesù e del suo significato più profondo, posto in relazione alla sua missione (vv.27-33).

Marco prima di accedere all'episodio del riconoscimento dell'identità del Messia sofferente, lo ha fatto precedere da questa breve sezione per dire ai suoi lettori quanto sia difficile accettare l'uomo Gesù quale Messia sofferente; quanto sia impenetrabile e imperscrutabile con le sole logiche umane questo Mistero, che si agita in Gesù. Serve un intervento divino che apra la cecità dell'intelligenza spirituale, l'unica che possa accedere al progetto di Dio, che va contro ogni logica umana. In altri termini serve la fede per vedere e comprendere le cose dalla prospettiva di Dio. Ecco, quindi, la necessità di una sequela di totale abnegazione, che sappia abbracciare la croce come logica di vita (vv.34-38), ma che deve essere sostenuta dalla fede. Da qui l'invocazione “Credo; soccorri la mia incredulità” (9,24).

Commento ai vv.11-26

L'incredulità dei Giudei nei confronti di Gesù (vv.11-13)

Questa breve pericope, già lo si è sopra accennato (pag.3), è un'interpolazione forzata, che suona come una stonatura nell'ambito della dinamica narrativa. Non vi è logica narrativa in questa pericope; così come del tutto stonato è il v.15, agganciabile ai vv.11-13 e li va in qualche modo a completare. Ma tutto questo nulla ha a che vedere con il resto del racconto dei Dodici in barca (vv.14-21), che, invece, lega bene con la seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci, in quanto viene richiamata, assieme alla prima, nel racconto (vv.19-20). Questo originariamente doveva seguire la pericope vv.1-10.

La pericope vv.11-13, da un punto di vista letterario, si presenta come una sentenza inquadrata, cioè un detto di Gesù (v.12) collocato all'interno di un breve racconto, che l'autore gli ha costruito attorno per darne rilievo e qui posto centralmente per evidenziarne l'importanza.

Il v.11 introduce il contesto entro cui viene collocato il detto di Gesù. Quel uscire dei Farisei in realtà dice la loro entrata in scena e, quindi, la loro uscita da dietro le quinte di quel grande teatro che è il racconto di Marco; ma nel contempo dice come questi seguano silenziosamente Gesù, sbucando fuori all'improvviso per tendergli un agguato. Una scena questa che richiama da vicino quella di 3,6 dove, anche là, i Farisei escono a complottare con gli Erodiani per far perire Gesù.

Pur nella sua brevità il v.11 è carico di tensione. Già il modo improvviso dell'entrata in scena dei Farisei dà l'idea di un'imboscata; poi quel “incominciarono a discutere” dice come qui non si è trattato di un semplice scambio di battute, ma di un duro confronto, che richiama in qualche modo le lunghe diatribe del cap.2,1-3,6 e che si conclude con la richiesta di un segno dal cielo, la quale cosa prova come i Farisei dissentissero notevolmente dalla posizione di Gesù, così da chiedergli una prova tangibile che giustificasse la sua posizione cosi inquietante e dissenziente da quella ufficiale del giudaismo, un segno dal cielo, cioè una prova che provenisse da Dio. Non si tratta di un miracolo, ma di un qualcosa di eclatante, che non lasciasse più dubbi sul suo discutibile comportamento, una sorta di rassicurazione divina, quasi un voler chiamare a garante Dio stesso.

Un comportamento questo che viene storicamente attestato da Gv 6,30 e inequivocabile nel suo senso: “Allora gli dissero: <<Quale segno dunque tu fai perché vediamo e possiamo crederti? Quale opera compi?>>”. Un comportamento questo dei Farisei che anche 1Cor 1,22 rileva: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza”. Essi, dunque, non cercano di capire, ma di avere prove concrete. E quel “cercare di ottenere un segno” dice la loro chiusura mentale di fronte all'evento Gesù. Essi non riescono a leggere nel comportamento di Gesù quel segno divino che essi cercano, perché lo cercano al di fuori di Gesù. Difficilmente Dio parla agli uomini fuori dal contesto e dalle logiche umane, ma si mimetizza in essi e chiede una sufficiente intelligenza spirituale e una sufficiente fede per saperlo cogliere.

Il v.11 si conclude con una nota dell'autore: “mettendolo alla prova”, svelando in tal modo il loro subdolo comportamento. Quel loro cercare non era un cercare per capire, non una ricerca della verità, ma solo per metterlo alla prova. Noi diremmo nel nostro linguaggio corrente: “per incastrarlo”, svelando in tal modo i loro intenti persecutori.

La risposta di Gesù a questo loro atteggiamento interiore viene sviluppata in due momenti in un crescendo negativo e di condanna, scanditi dai vv.12.13.

Il v.12 si apre con un preambolo che prepara il contesto entro cui verrà posto il detto sentenziale. Quel deplorare le autorità giudaiche nel “suo spirito” attesta il profondo sdegno di Gesù nei loro confronti; ma in quel “suo spirito” Marco lascia trasparire come questo sia lo stesso sdegno di Dio, che si esprime nell'intimità di Gesù, poiché proprio su Gesù grava il comando di Dio nel racconto della trasfigurazione (9,1-8): “Questi è il mio figlio, l'amato, ascoltatelo” (9,7). Dio, dunque, ha riposto tutto se stesso nell'uomo Gesù, che egli definisce “mio figlio”; e in quel “ascoltatelo” imprime il sigillo della veridicità e dell'autorevolezza sul dire e sul fare di Gesù. Un'espressione questa che viene collocata nel contesto di una nube da cui esce una voce, richiamando da vicino l'evento del monte Sinai, dove, avvolto in una nube, Dio parlò a Mosè, imprimendo su di lui la sua stessa autorità e autorevolezza (Es 19,9), così che il rifiuto di Mosè significava parimenti il rifiuto di Dio. Ed è ciò che avviene qui al v.12a: lo sdegno di Gesù è parimenti quello di Dio, che altrove ebbe modo di lagnarsi di questo popolo dalla dura cervice (Es 32,9).

Il v.12b riporta il detto sentenziale di Gesù, che è da ritenersi, a mio avviso, autentico se non nella sua forma letteraria, sicuramente nel suo contenuto. La sentenza è scandita in due parti: la prima, che funge da preambolo alla sentenza vera e propria, apostrofa i Giudei con l'espressione “questa generazione”, il cui senso negativo viene ben espresso dal Sal 95,10: “Per quarant'anni mi disgustai di quella generazione e dissi: Sono un popolo dal cuore traviato, non conoscono le mie vie”. La seconda parte, la sentenza vera e propria, è introdotta in modo solenne con una sorta di giuramento “In verità vi dico”, che, in questo contesto, imprime a quanto segue il sigillo della veridicità divina: “non sarà dato a questa generazione nessun segno”. L'espressione qui così dura e secca, che esclude una qualsiasi possibilità di apertura nei confronti delle autorità religiose, sia in Mt 16,4 che in Lc 11,29 viene, invece, ammorbidita e si prospetta un segno, quello di Giona, con cui si allude alla risurrezione. Tuttavia l'espressione matteana e lucana risentono di un adattamento tardivo, allorché il cristianesimo, ormai in via di affermazione, poteva indicare al giudaismo e probabilmente anche ai giudeocristiani la risurrezione come il vero segno dal cielo che essi attendevano. L'espressione marciana, invece, proprio per la sua durezza, risente probabilmente di un contesto storico di scontro più duro con il giudaismo e di un cristianesimo in via di affermazione, che stava ancora cercando dei propri spazi al di fuori del giudaismo. Ci si trova, pertanto di fronte ad una sentenza di condanna e un rifiuto, da parte di Gesù, delle autorità giudaiche e di quanto essere rappresentavano: un sistema cultuale e religioso farraginoso che inficiava la stessa Torah (7,7.13).

Il v.13 rappresenta il secondo momento del rifiuto, forse quello più pesante: “E lasciateli, di nuovo salito (in barca) se ne andò nella parte opposta”. Due gli elementi di rilievo: quel “lasciateli”, che dice l'abbandono del giudaismo da parte di Gesù a motivo della pervicace cecità spirituale delle autorità religiose giudaiche; e quel suo andare “nella parte opposta”, che più che un oscuro luogo geografico è una chiara presa di posizione teologica da parte di Gesù: Gesù va dalla parte opposta del giudaismo, dopo essere salito in barca, metafora della comunità credente. Gesù, dunque, e con lui la chiesa nascente vanno dalla parte opposta del giudaismo, segnando il definitivo rifiuto e il definitivo distacco del cristianesimo nascente dal giudaismo, due realtà tra loro incompatibili e irriducibili l'uno all'altro, benché nell'ambito dell'economia della salvezza l'una (il giudaismo) fosse preordinata all'altra (cristianesimo).

L'inintelligenza dei Dodici nei confronti di Gesù, vero Pane (vv.14-21)

Note generali

La pericope in esame va fatta seguire immediatamente dopo il racconto della seconda moltiplicazione dei pani e dei pesci (vv.1-9). Infatti il luogo in cui avviene questo episodio è all'interno della barca, su cui erano saliti per Dalmanuta al v.10; l'argomento di discussione è il pane dimenticato a riva e raccolto nelle sette ceste; ci si richiama, poi, alle due moltiplicazioni dei pani. Questa pericope, pertanto, va considerata come uno sviluppo del racconto della seconda moltiplicazione dei pani o quanto meno una sua ripresa o derivazione.

Marco si serve di questa pericope per integrare in qualche modo l'identità di Gesù, il quale non è solo il Messia sofferente (vv.29-31), ma, in una prospettiva cristologica, anche il Pane che si spezza per sfamare chiunque gli si avvicini. Questo inciso della seconda identità, il Pane in mezzo ai suoi che si spezza per tutti, anticipa in qualche modo il tema della passione e morte di Gesù e la difficoltà che i discepoli trovano nell'accedere a questo Mistero, che esce dai loro schemi umani. L'allusione avviene con il v.15, in cui si parla del lievito dei farisei e di Erode, cioè del loro animo corrotto dall'incredulità; si parla qui di personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel cammino di Gesù verso la sua passione e morte. Sono i farisei che complottano di ucciderlo (3,6); è Erode Antipa che uccide il Battista, che prefigura la morte di Gesù, ma nel contempo Erode è il regnante sotto il quale Gesù viene ucciso e al quale, secondo Lc 23,6-12, Gesù viene inviato da Pilato per essere giudicato. Marco, dunque con il v.15 crea in qualche modo il contesto della passione e morte di Gesù, che meglio si rileva con l'allusione dell'unico Pane in barca (v.14b), che rimanda al racconto precedente della moltiplicazione dei pani, dove al v.6b viene riprodotto sostanzialmente identico 14,22, il racconto dell'ultima cena e dove compaiono due termini significativi, che risentono della liturgizzazione della formula eucaristica: “eÙcarist»saj œklasen” (eucaristésas éklasen, dopo aver reso grazie, spezzò [il pane]). Termini che si ritrovano identici in 1Cor 11,23-24, dove Paolo riporta la formula eucaristica ormai in uso presso le comunità credenti e che lui, come attesta, ha ricevuto a sua volta, creando in tal modo una catena di trasmissione. Ma è soprattutto quel “œklasen” (éklasen, spezzò), che richiama lo spezzarsi del corpo di Gesù sulla croce.

L'intera pericope, quindi, ruota attorno al tema di questo unico Pane spezzato, verso il quale i discepoli sono completamente preclusi e la cui inintelligenza viene metaforizzata dal successivo racconto del cieco di Betsaida (vv.22-26).

Commento ai vv.14-21

I vv.14.16 costituiscono il preambolo al dialogo tra Gesù e i discepoli sul tema del pane, da cui emerge prepotente la loro inintelligenza. Il contesto è quello significativo della barca, metafora della chiesa primitiva dove c'è Gesù e i suoi. È lì, in questa barca, che i discepoli, dimentichi del pane miracoloso discutono sul fatto che ora non hanno più quel pane. Il riferimento, infatti, è ai pani della seconda moltiplicazione (vv.1-9). Ed è a questo punto che l'evangelista annota che “con loro, nella barca, non avevano se non un pane”. Si crucciavano tra loro per non avere il pane miracoloso, ma lì con loro c'era un pane, il cui significato e valore essi ancora non comprendevano appieno. Un'allusione, forse, alle difficoltà che i primi credenti potevano avere circa lo “spezzare il pane”6, come era chiamata la cena del Signore (1Cor 11,20), cioè la primitiva celebrazione eucaristica? Ed è probabilmente su quest'ultima difficoltà al credere nel vero Pane che si comprende il v.15 in cui Gesù mette in guardia i suoi dal lievito dei farisei e di Erode. Il lievito assume nel linguaggio biblico un'accezione negativa, poiché esso corrompe in qualche modo l'integrità della pasta. Esso diviene la figura del dinamismo interiore, spirituale, che informa e fa “lievitare” il proprio modo di vivere in senso negativo. Paolo, nello stigmatizzare il caso di un incesto all'interno della sua comunità di Corinto, la sollecita a togliere di mezzo a loro questo lievito del male che può corrompere la comunità stessa e che mal si addice ad essa, rigenerata nel Cristo risorto: “Non sapete che un po' di lievito fa fermentare tutta la pasta? Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! Celebriamo dunque la festa non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità” (1Cor 5,6b-8).

Il lievito, pertanto, esprime una negatività che può corrompere e distruggere un'intera comunità o la propria stessa vita spirituale o morale, compromettendo in tal modo il proprio rapporto con Dio, che ha indicato in Gesù il suo figlio prediletto, sollecitando ad ascoltarlo (1,11; 9,7). Ma cosa intende il Gesù marciano per “lievito dei farisei e di Erode”? Nei passi paralleli di Mt 16,12 e Lc 12,1 si parla di farisei e sadducei, quindi, il campo è ristretto al giudaismo, di cui Mt 15,6 e Mc 7,9.13 condannano i sofismi interpretativi della Torah, che la inficiano; mentre Lc 12,1 ne evidenzia la religiosità ipocrita, costruita sui formalismi. Ma qui Marco associa ai farisei Erode. Che cosa hanno dunque in comune queste due tipologie di persone? Entrambi sono tra loro accomunati da un atteggiamento di resistenza e di opposizione alla Verità, che emerge in Gesù e che chiede una disposizione interiore di apertura mentale, sospinta dal desiderio di conoscere e di accogliere in se stessi tale Verità. Richiede una onestà intellettuale, una sensibilità spirituale e un'intelligenza spirituale, capace di penetrare le cose dello spirito e, quindi, una grande libertà interiore, che si pone nel giusto atteggiamento interiore nella ricerca e nella comprensione del Mistero che avvolge e compenetra l'evento Gesù. Erode considerava Gesù una sorta di saltimbanco da cui aspettarsi un qualche strabiliante miracolo, tale da sollazzare lui e la sua corte (Lc 23,8); mentre i farisei cercavano in Gesù tangibili prove miracolistiche ed eclatanti, che ne attestassero l'autorità e la veridicità (v.11). Non è questo l'atteggiamento giusto per porsi di fronte al Pane che era con loro nella stessa barca e comprenderne il Mistero, che lo permea e lo anima. Da qui il sollecito dal guardarsi “dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode”. Serve un atteggiamento completamente diverso per capire l'evento Gesù.

I vv.17-21 costituiscono un forte pressing di Gesù sui suoi, i quali faticano a credere nel Pane miracoloso che è in mezzo a loro: “Non comprendete ancora né capite? Avete il vostro cuore indurito? […] Avendo occhi non vedete e avendo orecchi non udite?” Un rimprovero che si muove sullo stile dei profeti e a questi si richiama7.

Dopo questa sferzata che li taccia di inintelligenza anche di fronte alle cose più evidenti, Gesù richiama l'attenzione dei suoi sugli ultimi eventi, quelli delle due moltiplicazioni dei pani ed esordisce con un “E non ricordate”. Un richiamo che probabilmente Marco rivolge alle comunità credenti, richiamando loro le due moltiplicazioni dei pani che hanno avuto come unica fonte Gesù, il vero Pane, capace di sfamare intere moltitudini. Ed è proprio quel unico pane che i suoi discepoli avevano nella barca (v.14b), ma che la loro inintelligenza impediva loro di saper leggere gli eventi e di saperlo, quindi, cogliere. Da qui il nuovo sollecito e rimprovero: “Ancora non capite?”.

Termina così il pesante racconto sull'inintelligenza e sulla cecità spirituale dei discepoli nei confronti di Gesù, quale Pane spezzato per gli uomini e capace di saziarne la fame spirituale e di Verità. Tutto è lasciato in sospeso con un punto interrogativo, che verrà sciolto nei due successivi racconti, quelli della guarigione del cieco di Betsaida (vv.27-29) e del riconoscimento dell'identità di Gesù (v.29b). Ma, come si vedrà, serve ancora altra luce prima di accedere agli eventi del Golgota, così che Gesù opererà, per l'ultima volta, un'altra guarigione di un cieco, quello di Gerico (10,46-52), la porta che conduce a Gerusalemme.

La cecità spirituale guarita da Gesù (vv.22-26)


Note generali

L'inintelligenza dei Dodici, così duramente stigmatizzata da Gesù nella precedente pericope vv.14-21, necessita di un intervento. Il racconto terminava con un punto interrogativo a cui Gesù doveva dare una risposta: “Ancora non capite?”. I Dodici, quindi, sono ancora avvolti nella loro cecità spirituale. E questa volta non basta un colpo di bacchetta magica per risolvere il loro problema, serve invece un percorso formativo, una sorta di catechesi per aprire le loro menti e i loro cuori al Mistero che permea la persona di Gesù e che ora sta per manifestarsi nella sua reale dimensione di Messia sofferente (vv.29-31) e di Figlio di Dio, inviato dal Padre (9,7). Ed è quanto avviene in questo breve racconto di guarigione del cieco di Betsaida. Un racconto che si discosta notevolmente dagli altri racconti di guarigione, dove al tocco o alla parola di Gesù l'ammalato guariva immediatamente e dove la gente lì presente commentava l'accaduto con stupore, meraviglia e innalzando le lodi a Dio; o dove l'ammalato risanato proclamava la sua guarigione a tutti, diventando una sorta di nuovo apostolo tra le genti, che accorrevano a lui per sentire quanto gli era accaduto; oppure si è dato alla sequela di Gesù. Qui non vi è nulla di tutto questo. Gesù qui sembra avere delle difficoltà nel guarire questo cieco, il quale, nonostante il portentoso intervento di Gesù, ancora non riesce a vedere bene; e Gesù deve intervenire nuovamente finché, finalmente il cieco riacquista la vista. Questo ripetuto intervento di Gesù sul cieco di Betsaida dice la difficoltà che Gesù incontra su questo cieco, la resistenza che questi oppone a Gesù, così che Gesù è costretto ad intervenire più volte. Ecco il senso di quei ripetuti richiami: “Non comprendete ancora né capite? Avete il vostro cuore indurito? […] Ancora non capite?” (vv.17b.21). Gesù ha difficoltà a penetrare il cuore e la mente dei suoi. Servono, quindi, ulteriori interventi catechetici; un ulteriore cammino di illuminazione per poter giungere alla comprensione dell'evento Gesù. Questo è il senso della guarigione del cieco di Betsaida.

L'intero racconto è incentrato sul rapporto tra Gesù e il cieco, mentre i personaggi di contorno, quali gli accompagnatori del cieco e gli stessi Dodici, che comunque dovevano essere presenti, scompaiono completamente. Esso prefigura in qualche modo il racconto successivo, quello del cammino di Gesù e dei suoi verso Cesarea di Filippo (vv.27-30), lungo il quale, attraverso stimoli di continue domande sulla propria identità, Gesù farà emergere lentamente nella coscienza dei suoi chi egli veramente sia. Quello del cieco guarito va considerato, pertanto, una metaforizzazione di quanto avverrà nella successiva pericope vv.27-30.

Il racconto è costruito sulla falsariga della guarigione del sordomuto (7,32-37), adattato agli intenti narrativi dell'evangelista. È quindi probabile che questo racconto di guarigione sia redazionale.

Esso costituisce un'unità narrativa a se stante definita da un'inclusione data sia dal nome “villaggio” che si ripete ai vv.23 e 26, che da due movimenti uguali contrari: Gesù porta il cieco fuori dal villaggio al v.23 e gli ordina di non rientrare più nel villaggio al v.26. L'inclusione in genere fornisce anche la chiave di lettura della pericope che include. In questo caso il villaggio è il luogo dove questo cieco conduce la sua vita, e il fatto che Gesù lo conduca fuori per non farlo più rientrare dice che il cieco ha subito una profonda trasformazione interiore nella sua esperienza con Gesù, così che non può più rientrare nel villaggio, cioè non può più condurre la vita di prima, poiché ora egli è stato trasformato interiormente: egli ora vede la Luce.

Commento ai vv.22-26

Il v.22 esordisce con una nota geografica: “E giungono a Betsaida”, il cui intento è duplice: da un lato, dare continuità narrativa con quanto precede; dall'altro, preparare il racconto successivo, quello dell'identificazione della vera natura di Gesù, quale Cristo sofferente. Sarà, infatti, sul cammino da Betsaida verso Cesarea di Filippo che avverrà il riconoscimento dell'identità di Gesù da parte di Pietro (vv.27-30).

Betsaida è una cittadina posta a nord-est del lago di Genesaret, alle foci del Giordano, e secondo Gv 1,44 e 12,21 fu patria di Pietro, Andrea e Filippo. Di Betsaida ebbe modo di lamentarsi Gesù per la sua incredulità e la resistenza al suo messaggio (Mt 11,21; Lc10,13). Se è vero quanto riportano gli altri due sinottici, allora la guarigione del cieco, ambientata da Marco in questa cittadina lacustre, acquista un suo particolare significato. Qui Gesù guarisce l'incredulità e l'inintelligenza della gente. È qui, infatti, che i cittadini di Betsaida portano a Gesù un cieco (v.22b), forse espressione anche della loro incredulità oltre che dell'inintelligenza dei Dodici. Lo portano a Gesù perché “lo toccasse”. Numerosi miracoli avvengono attraverso il toccare Gesù8, che simboleggia l'esperienza dell'ammalato con Gesù; un'esperienza che non solo lo guarisce, ma lo rigenera a vita nuova. Mentre quel “supplicare Gesù perché lo toccasse” esprime il desiderio di tale esperienza con Gesù. Un'esperienza destinata a togliere loro la cecità dalla loro intelligenza spirituale.

E Gesù, al v.23, compie un gesto strano, che ha la sua contropartita al v.26 dove comanda al cieco guarito di non rientrare più nel villaggio: “E presa la mano del cieco, lo portò fuori dal villaggio”. Gesù, dunque, prima di compiere i suoi rituali di guarigione, porta fuori dal villaggio il cieco; lo isola dal resto dei suoi concittadini; lo prende a parte, quasi operando una scelta discriminante rispetto agli altri. Un gesto che richiama da vicino 4,11-12.34 dove Gesù, rivolto ai suoi, dice: “A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in parabole, perché: guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e venga loro perdonato”. Sono queste ultime parole, tratte da Is 6,9-10, che Gesù aveva rivolto anche ai suoi al v.18 a motivo della loro inintelligenza e della loro cecità spirituale. Ora, qui come là, Gesù prende in disparte questo cieco per aprirgli gli occhi, per aprirlo al mistero del regno di Dio. In 4,34, infatti, l'evangelista rimarca come “Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa”. “In privato”, dunque, Gesù si rivela ai suoi. Questo è il senso di questa guarigione, che avviene in un luogo separato dagli altri, poiché ora questo cieco sta per vedere la Luce, che non è data a tutti, ma solo a coloro che “supplicano Gesù di poterlo toccare”, di farne esperienza.

I vv.23-25 riportano un rituale di guarigione comune presso i guaritori: il toccare con le mani dice il trasmettere la propria energia curativa all'ammalato, creando una sorta di flusso vitale tra il guaritore e l'ammalato; mentre lo sputare era un gesto esorcistico, apotropaico; così come la saliva era considerata una sostanza con grande potere vitale e curativo. Gestualità che poi venne conservata anche nel rituale del battesimo presso il cristianesimo antico9.

Ma ciò che più stupisce in questi interventi di Gesù è la loro ripetizione sul cieco, che sembra resistergli, anche se poi, al termine di tali interventi egli finalmente vedrà la Luce. Questa ripetizione dice la difficoltà che Gesù ha incontrato nell'illuminare la cecità di questo cieco, preso in disparte, a cui egli vuol far vedere la Luce. È la lotta che Gesù deve condurre contro l'incredulità della gente e l'inintelligenza dei suoi. Accedere ai misteri del Regno non è da tutti, ma serve un cammino di perfezionamento, di convivenza con Gesù, per potersi mettere dalla sua prospettiva, che è quella stessa del Padre, quella di Dio stesso. Tutto ciò richiede una trasformazione interiore, che soltanto lo stare con Gesù può procurare. Questi ripetuti interventi di Gesù sulla cecità degli uomini e dei suoi richiama il cammino di una paziente catechesi, che porta poi all'illuminazione, cioè al battesimo, come era chiamato nella chiesa antica10. Quel cammino di formazione e di scoperta che verrà poi raccontato ai vv.27-29.

Rilevante è il v.25b: “fu ristabilito e vedeva chiaramente e anche da lontano tutte quante le cose”. Si dice che il cieco fu ristabilito, cioè messo in condizione di vedere, così che egli “vedeva”. Il verbo posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, dice il persistere di questo suo vedere e, quindi, una guarigione ottenuta, definitiva. Ma sono le modalità di questo suo vedere che sono significative: egli vedeva “chiaramente”, la quale cosa dice l'accesso pieno al Mistero; egli vede ma non solo le cose presenti, quelle che gli stanno attorno e che prima non vedeva, ma vedeva “anche da lontano tutte quante le cose”. Quindi non solo il presente, ma anche quelle più lontane, quelle poste nel futuro, che viene lasciato intuire. Sono le due modalità del vedere che rispecchiano in qualche modo i vv.29.31 dove Pietro finalmente vede Gesù per quello che egli è e sempre è stato: “il Cristo” (v.29); ma anche quello che egli sarà: un Cristo sofferente e assoggettato alla morte, benché posto in una prospettiva ancora sconosciuta di risurrezione (9,10b). Da qui il rifiuto di Pietro di una simile prospettiva. Serve ancora un ulteriore cammino, altro insegnamento, altra esperienza con Gesù prima di accedere alla pienezza della luce, che verrà con la seconda ed ultima guarigione di un altro cieco, quello di Gerico (10,46-52), posta alle soglie di Gerusalemme, la strada per il Golgota.

Il racconto si chiude con Gesù che lo rimanda a casa sua, ma senza entrare nel villaggio. Ma dove poteva essere la casa di questo cieco di Betsaida se non nel suo villaggio? È come se Gesù gli dicesse va a casa tua che si trova a Betsaida, ma senza entrare a Betsaida. Una contraddizione in terminis. Cosa, dunque, intendeva dire Gesù? Questo cieco che ha fatto l'esperienza di Gesù, grazie alla quale ha finalmente visto la Luce, aveva ora una sua nuova casa, la comunità credente, dove egli continuerà a vedere la Luce. Per questo, ora, non deve più ritornare al suo villaggio, alla sua vecchia vita di prima, perché egli è stato portato fuori da questo villaggio da Gesù (v.23a) ed è stato inviato nella sua nuova casa; è stato dunque un prescelto e ora è un uomo nuovo, un uomo che ha visto la Luce.

La vera e difficile identità di Gesù: il Messia sofferente (vv.27-33)

Testo a lettura facilitata

Il cammino della conoscenza: interrogarsi su chi è Gesù (vv.27-30)

27- E usci Gesù e i suoi discepoli verso i villaggi di Cesarea di Filippo; e sulla strada interrogava i suoi discepoli dicendo: <<Gli uomini che dicono chi io sia?>>.
28- Quelli gli risposero dicendo: <<Giovanni Battista e altri Elia, altri ancora uno dei profeti>>.
29- Ed egli li interrogava: <<Voi, invece, chi dite che io sia>>. Rispondendo Pietro gli dice: <<Tu sei il Cristo>>.
30- E li rimproverò affinché non dicessero a nessuno su di lui.

L'identità di Gesù: il Messia sofferente (vv.31-33)

31- E incominciò ad insegnare a loro che bisogna che il Figlio dell'uomo soffra molto e ed essere rifiutato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi ed essere ucciso e dopo tre giorni risorgere>>.
32- E apertamente diceva la parola. E Pietro, presolo, incominciò a rimproverarlo.
33- Ma quello, giratosi e vedendo i suoi discepoli, rimproverò Pietro e (gli) dice: <<Vai dietro di me, satana, poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini>>.


Note generali

Con questa pericope (vv.27-33) si chiude la prima area narrativa, che costituisce un cammino alla scoperta di Gesù e della sua identità, che trova il suo vertice in 8,29, ma nel contempo ha inizio la seconda area narrativa (8,27-10,52), che ho definita di transizione tra l'attività galilaica a quella giudaica (11,1-16,8) di Gesù. Qui, infatti, la tematica si fa molto più densa e impegnativa. Compare per la prima volta ufficialmente la vera identità di Gesù, riconosciuta (v.29b) e rivelata (9,3.7); essa viene collocata all'interno di un contesto di sofferenza e di morte e, per la prima volta, di risurrezione (8,31; 9,31;10,33-34), il cui significato era ignoto ai discepoli (9,10b). Il Mistero, in cui è avvolto Gesù, si sta lentamente aprendo, preparando così i discepoli agli eventi del Golgota. Eventi la cui lettura non è semplice e immediata, ma serve riflessione, interrogarsi sulla propria sequela e soprattutto questi vanno letti e compresi all'interno di un imprescindibile contesto di fede (9,23-24).

Una pericope questa che è già stata in qualche modo preannunciata nel suo schema di fondo dalla guarigione del cieco di Betsaida, con i ripetuti interventi di Gesù su di lui finché il cieco finalmente vede distintamente, anche in lontananza; similmente qui Gesù interviene sui discepoli con ripetute domande circa la sua identità (vv.27-29a), finché questi finalmente la scoprono (v.29b) e cominciano ad intravvedere, anche se con riluttanza, i destini di questo Messia (vv31-33).

Ci si trova qui su di un cammino di catechesi. La rivelazione, infatti, non avviene a Cesarea di Filippo come per Mt 16,13a o in un luogo sconosciuto come per Lc 9,18, ma sul cammino che conduce verso Cesarea di Filippo. Perché questa scelta di Cesarea di Filippo da parte di Marco o della tradizione premarciana, quale luogo legato alla rivelazione dell'identità di Gesù? Comunque siano le motivazioni, storiche o simboliche, resta sempre il fatto che questa località, posta in relazione alla rivelazione di Gesù quale Cristo, è particolarmente significativa.

Cesarea di Filippo è una cittadina posta ai piedi della sorgente Nahr Banyas, una delle tre sorgenti del fiume Giordano, la cui grotta di nascita era dedicata in epoca ellenistica al dio Pan. Nel 20 a.C. Erode il Grande vi eresse un tempio in marmo in onore ad Augusto, dedicato al dio Pan. Nel 3-2 a.C. il tetrarca Filippo la ricostruì e l'abbellì costituendola sua capitale ellenistica, chiamandola Cesarea, che Giuseppe Flavio e il N.T. per distinguerla da Cesarea Marittima, sede imperiale della Palestina, la chiamarono Cesarea di Filippo. Proprio qui, nella zona sud-ovest del monte Ermon vi erano gruppi di giudei che attendevano la fine dei tempi11.

Tre, dunque, gli elementi che emergono da questi brevi accenni su Cesarea di Filippo: essa era legata al dio Pan, al culto imperiale e alle attese escatologiche giudaiche. Ed è proprio qui, nell'ambito di questo contesto che Gesù appare come il Messia, compimento delle attese e delle speranze giudaiche: egli è il Cristo, venuto ad affermare, in contrapposizione alle pretese delle divinità pagane e delle divinizzazioni degli imperatori, il Regno di Dio in mezzo agli uomini.

Il racconto della scoperta dell'identità di Gesù è scandito in due parti: a) il cammino di scoperta di Gesù quale Cristo (vv.27-30); b) e la rivelazione dei destini di morte e risurrezione che attendono a questo Messia, la quale cosa provocherà il rifiuto di Pietro (vv.31-33).

Commento ai vv.27-33


Il cammino della conoscenza: interrogarsi su chi è Gesù (vv.27-30)

Il v.27a si apre dando continuità narrativa al racconto del cieco di Betsaida, allungando, pertanto, l'ombra della guarigione del cieco su quella dei discepoli, anch'essi guariti, dopo ripetuti interventi di Gesù, dalla loro inintelligenza. Quel “Uscì Gesù e i suoi discepoli” dice l'uscita di Gesù da Betsaida verso Cesarea di Filippo, che da Betsaida dista circa 45-50 Km in linea d'aria. Il v.27a, pertanto crea il contesto geografico entro cui viene collocato il racconto della scoperta dell'identità di Gesù. È sulla strada che porta a Cesarea che Gesù stimola i suoi spingendoli ad interrogarsi su chi egli sia. La strada, dunque, metafora di un percorso di conoscenza di Gesù, che richiama il periodo di catecumenato durante il quale il candidato all'illuminazione, cioè al battesimo, veniva istruito sui Misteri a cui stava per accedere e sulla conoscenza di Gesù e le esigenze della sua sequela. La comprensione di Gesù, pertanto, è qui raffigurata dalla strada dove si sta compiendo un cammino di approfondimento e di conoscenza di Gesù. Un cammino che Marco aveva già prospettato in apertura del suo Vangelo, intitolandolo come “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo e Figlio di Dio” (1,1). Cioè inizio di un percorso di conoscenza della vera identità e natura di Gesù. Ora si è giunti al termine della prima tappa, quella della scoperta di Gesù quale Cristo sofferente (vv.29b.31); la seconda tappa, quella di Figlio di Dio, si compirà, anche questa, in un contesto di sofferenza e di morte in 15,39, dove il centurione, che stava nei pressi della croce, vedendo il modo con cui Gesù stava morendo, esclamerà “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!”. Si compie così il cammino del riconoscimento universale di Gesù: presso i giudei, quale Cristo; e presso i pagani quale Figlio di Dio.

Il metodo che Gesù adotta per stimolare i suoi alla risposta, richiama da vicino quello della maieutica, in cui il maestro in dialogo con i suoi discepoli, attraverso opportune domande li stimola ad interrogarsi e a trovare dentro loro stessi la risposta. Un metodo, quindi, di ricerca della verità. Gesù qui dapprima spinge i suoi a fare mente locale, sintetizzando quanto avevano sentito su di lui da parte della gente. La risposta, che già Marco aveva anticipato in 6,14b-15 e che qui ora riprende, rielaborandola in modo più accurato, è che Gesù sia Giovanni Battista e altri Elia, altri ancora uno dei profeti. Marco sintetizza qui tre linee di pensiero riguardanti Gesù. La prima è che egli sia Giovanni Battista redivivo. La diceria diffusa tra la gente affondava le sue radici nelle attese della venuta di un profeta escatologico, che ucciso, sarebbe poi risuscitato ed avrebbe operato con potenza in mezzo ai suoi nemici e alla gente. Traccia di questo si trova in Ap 11,3-12. Dicerie che qui vengono riferite alla persona di Gesù: egli è Giovanni redivivo.

Quanto ad Elia, questi fu rapito su di un carro di fuoco e non ritornò più (2Re 2,11), lasciando in eredità ad Eliseo di continuare la sua missione di profeta (1Re 19,16.19-20). Elia, quindi, non morì, ma fu soltanto rapito. Da qui l'idea che egli sarebbe ritornato alla fine dei tempi. Una posizione questa che Ml 3,23 ha fatto propria: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore”; e che verrà ripresa da Lc 1,17, parlando del Battista. Alle soglie del N.T. la figura di Elia, quale precursore della venuta del Signore, acquisterà sempre più importanza (Gv 1,21.25; Mt 17,10; 9,11; Lc 1,17) e Gesù, riferendosi a Giovanni Battista, attesterà che Elia è già venuto, ma non l'hanno riconosciuto (Mt 17,12; Mc 9,13). Per contro, Gv 1,21.25 attesterà che il Battista non era l'atteso Elia, lasciando intendere che questo Elia escatologico va ricercato altrove, alludendo forse alla stessa persona di Gesù.

Accanto alla figura di Elia compare, con le stesse prerogative e nell'ambito del medesimo contesto escatologico, un'altra figura, quella di un profeta. Altra figura enigmatica mutuata da Dt 18,15.18-19: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto. […] io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto”. Lc 9,8 lascerà intendere che tra la gente Gesù fosse non tanto il profeta atteso, quanto uno dei profeti ritornati in vita. Qui, invece, Marco pensa a Gesù come un profeta che si muove sulla scia degli antichi profeti, che inaugurava, pertanto, un nuovo profetismo. Un profetismo, quello antico, che ormai si era spento tra il VI e il V sec. a.C. Quindi tempi nuovi si stavano stagliando all'orizzonte per un rinnovamento spirituale di Israele.

Ma ora la domanda di Gesù si fa più stringente e interpella direttamente i suoi, aiutandoli ad una sorta di ricerca introspettiva: che cosa essi pensavano di lui? La risposta è semplice, quasi lapidaria: “Tu sei il Cristo”. La risposta, che univocamente in tutti quattro i vangeli viene messa sulla bocca di Pietro, viene elaborata tuttavia in modo diverso da ogni evangelista. Mt 16,16: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, fatta seguire dall'esaltazione di Pietro da parte di Gesù, al quale viene assegnato il primato tra i Dodici e ogni potere. Una risposta certamente sublime, ma scarsamente credibile, poiché tutti aspettavano il Cristo, cioè il Messia, l'Unto di Dio da lui inviato per rinnovare il culto e riscattare Israele, liberandolo dagli oppressori. Ma è difficile che i discepoli siano giunti a capire che quel Gesù lì fosse il “Figlio di Dio” e, quindi, che fosse Dio lui stesso o comunque di discendenza divina, considerato che era impensabile per un ebreo somatizzare Dio e tanto meno pensarlo come un uomo. Questa attestazione petrina suona meglio come una successiva elaborazione delle prime comunità credenti. Lc 9,20b dice: “Tu sei il Cristo di Dio”. Un'attestazione molto simile a quella di Marco, che Luca segue molto da vicino nel suo vangelo, con la sola aggiunta “di Dio”. Una precisazione che l'evangelista fa per i suoi ascoltatori greci, per cui il solo termine “Cristo”, che in greco significa “Unto”, poteva assumere significati diversi. La precisazione “di Dio” dice che questa unzione proveniva da Dio e quindi Gesù gli era consacrato e operava a nome e per conto suo, creando attorno a Gesù un'alea divina. Gv 6,69 attesta su Gesù che egli è “il Santo di Dio”: “noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”. Benché l'attestazione di fede venga fatta da Pietro, tuttavia la voce e la figura di quest'ultimo scompaiono dietro a quel “noi” così solenne e perentorio. Si tratta di un “noi” enfatico ed enfatizzato, dietro il quale si sente la voce della comunità giovannea, che solennemente fa la sua pubblica proclamazione di fede in Gesù, riconoscendolo come “il Santo di Dio”; un'espressione che va ben al di là di un titolo messianico, anche se tuttavia non raggiunge la pienezza di “Figlio di Dio”.

Il v.30 si conclude in modo inatteso con un rimprovero di Gesù, affinché non rivelassero a nessuno la sua vera identità. Dopo la denuncia di inintelligenza dei Dodici da parte di Gesù (vv.14-21) e la guarigione del cieco di Betsaida, che preludeva ad una ritrovata luce interiore dei discepoli (vv.22-26), ci si sarebbe aspettati un sospiro di sollievo da parte di Gesù, che finalmente vede i suoi illuminati sulla sua identità. Invece, la conclusione è un rimprovero, che smorza ogni possibile entusiasmo per la nuova comprensione del Maestro. Il motivo risiede nelle attese messianiche da parte del giudaismo, che sognava un messia politico-militare, che liberasse il popolo dall'oppressione dei Romani; un messia che rinnovasse l'ormai asfittico culto del Tempio e che desse nuovo lustro ad Israele. Ma i sogni e i progetti degli uomini, per quanto belli e santi, non sono quelli di Dio: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). Per questo Gesù si affretta a precisare la reale dimensione e la vera valenza del suo messianismo attraverso un ulteriore cammino catechetico, che riecheggerà in vari modi per tutta questa seconda area narrativa (vv.8,31-10,52): per tre volte viene fatto l'annuncio della passione-morte-risurrezione (8,31; 9,31; 10,33); si approfondisce la natura e l'identità di Gesù con il racconto della trasfigurazione, posta in relazione alla sua risurrezione (9,1-10); si attesta la necessità della fede per poter accedere al senso degli eventi del Golgota; Gesù compirà un ultimo esorcismo, quello del demone dell'incredulità (9,14-27) e sospingerà i credenti ad invocare Gesù che aumenti la loro fede (9,23-24). Il tutto si concluderà con una nuova guarigione, l'ultima, quella del cieco di Gerico (vv. 46-52), la cittadina posta alle porte di Gerusalemme, la strada per il Golgota.

L'autentica identità di Gesù: Messia sofferente (vv.31-33)

Con il v.31 si apre una nuova fase nel rapporto tra Gesù e i suoi discepoli, quella di un serrato insegnamento circa i suoi destini di morte e risurrezione. Due realtà che destano sconcerto e incomprensione (v.32b; 9,10.32). Da qui quel “incominciò ad insegnare”, che lascia intendere che da qui è intrapreso un nuovo cammino di catechesi, che avrà come fulcro centrale il tema della passione-morte-risurrezione; un approfondimento sull'identità di Gesù e la necessità della fede. Si è qui sempre sulla strada verso Cesarea di Filippo, metafora di un cammino d'insegnamento e di scoperta.

Il nuovo ciclo d'insegnamenti si apre con il tema centrale della passione-morte-risurrezione di Gesù, posto sotto l'egida di un verbo particolare e significativo: “de‹” (deî, bisogna), che nel linguaggio dei vangeli allude ad un preciso piano di Dio, così che quanto dipende da questo verbo va fatto risalire ad esso. Il primo avvertimento, dunque, circa gli eventi del Golgota è che questi non sono il segno di un fallimento, ma rientrano in un progetto salvifico di Dio, pensato fin dall'eternità (Ef 1,4-7).

Nei tre annunci che seguono, pur vertendo tutti sul dramma del Golgota, tuttavia si avverte un crescendo continuo d'insegnamento, che lascia trasparire, di volta in volta, nuovi aspetti attorno a tale dramma. In tutti tre gli annunci ricorre l'espressione, che nel corso del tempo ha assunto una valenza escatologica, apocalittica e messianica: “Figlio dell'uomo”, un ebraismo per dire “uomo”, colto nella sua fragilità umana; ma nel contempo sottolinea l'incommensurabile distanza che intercorre tra lui e Dio12, così che Dio non è come un figlio dell'uomo (Nm 23,19). Il successo di tale espressione, divenuta poi un titolo cristologico, è dovuto a Dn 7,13-14, dove appare una enigmatica figura di figlio d'uomo, avvolta in un alone escatologico e messianico nel contempo: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.

Nel primo annuncio (v.31) si presentano gli elementi essenziali che riguardano i destini di Gesù e il contesto in cui si compiranno: egli dovrà soffrire, morire per poi risorgere; vengono presentati i personaggi che concorreranno a causare il dramma della croce e che formano il sinedrio, l'organo religioso-politico-giudiziale che governa e amministra il popolo; ed infine si lascia intravvedere come tali destini appartengono ad un preciso piano salvifico di Dio, che in essi si compie.

Il secondo annuncio (9,31) si presenta come una continuità dell'insegnamento incentrato sempre sullo stesso tema. Esso si apre con un verbo posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, che dice come questo insegnamento continuava ed era persistente; mentre il verbo “diceva” rileva la modalità con cui tale insegnamento si svolgeva. Se il primo annuncio della passione-morte-risurrezione aveva creato il contesto giudaico entro cui si sarebbero compiuti i destini di Gesù, il secondo annuncio allarga i ristretti confini del giudaismo e assume una valenza universale con quel “è consegnato nelle mani degli uomini”. Tutto qui gira attorno al verbo medio-passivo “parad…dotai” (paradídotai), che significa “è consegnato”, ma anche “si consegna”, lasciando intravvedere una duplice azione: passiva e attiva nel contempo. In quanto “passiva”, nel linguaggio dei vangeli, l'azione del verbo è rimandata a Dio stesso e questo già lo si è detto sopra, come i destini di Gesù facciano parte di un disegno salvifico di Dio; in quanto “attiva” o meglio “riflessiva” sottolinea come questo consegnarsi dipende da una libera decisione di Gesù, che non si contrappone al disegno del Padre, in quanto egli ne è attuazione e rivelazione. Due quindi i nuovi elementi che emergono da questo secondo annuncio: la valenza universale del consegnarsi di Gesù agli uomini, così che tutti sono coinvolti; un consegnarsi che dice non solo la libertà di scelta da parte di Gesù, ma come questo suo consegnarsi agli uomini sia anche un dono di amore di se stesso per loro, la quale cosa richiama da vicino Gv 3,16 dove si attesta che “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”.

Il terzo annuncio (10,33-34), posto sulla strada per Gerusalemme e quindi a ridosso degli eventi del Golgota, il più lungo e il più elaborato, costituisce un sintetico schema del racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù. Compare qui nuovamente il verbo, questa volta al passivo, “paradoq»setai” (paradotzésetai, sarà consegnato), che, in quanto passivo, rimanda l'azione a Dio stesso. Gli uomini, quindi, divengono, a loro insaputa, collaboratori del piano salvifico di Dio, che si attua e si rivela in Gesù, senza tuttavia togliere nulla alle loro singole responsabilità per quanto è successo. Non è Dio che li ha costretti a fare ciò che liberamente hanno compiuto, ma Dio si è servito del male che essi hanno fatto per attuare il suo piano salvifico a loro favore.

Se, dunque, Pietro scopre l'identità di Gesù quale Cristo, cioè l'Unto di Dio, consacrato e inviato dal Padre per compiere una missione salvifica, Gesù con i tre annunci della sua passione, morte-risurrezione rivela la natura di questo suo messianismo, fondato sulla sofferenza e sulla morte, riscattate dalla sua risurrezione. Una cosa shoccante per il giudaismo che sognava un messia rivoluzionario e vincente, così che Pietro compie un contro-insegnamento nei confronti di Gesù: “E Pietro, presolo, incominciò a rimproverarlo”. Sono le esatte parole, che descrivono il comportamento magisteriale di Gesù nei confronti dei suoi discepoli. Qui Pietro assume il ruolo di maestro e guida nei confronti di Gesù, che, secondo le sue logiche sembra essere completamente smarrito o, quanto meno, non a conoscenza del suo ruolo di Messia. Il verbo che qui è stato tradotto morbidamente con “presolo”, in realtà significa conquistare, impadronirsi, attirare verso di sé, condurre con sé. Quindi il piglio di Pietro è alquanto determinato, non senza una punta di violenza o quanto meno di aggressione nei confronti di Gesù per questa sua uscita, che distrugge i suoi sogni e quegli degli altri. Sconcerto, dunque, disorientamento e delusione. Una determinazione che viene accentuata da quel “incominciò a rimproverarlo” che si contrappone all' “incominciò ad insegnare” di Gesù. Non si tratta, dunque, di un momentaneo scatto d'ira, ma di un persistente dissentire suo e degli atri discepoli nei confronti di Gesù. Il verbo “™pitim©n” (epitimân), infatti, non significa solo rimproverare, ma anche biasimare. Vi è, quindi, tra Gesù e i suoi una netta e insanabile contrapposizione di vedute; un netto rifiuto da parte di Pietro e con lui dei Dodici della prospettiva che Gesù ha prospettato circa il suo messianismo., fuori da ogni logica e da ogni attesa.

La risposta di Gesù è alquanto dura e al limite della rottura con il suo gruppo dei Dodici. Il v.33 si apre in modo insolito: “Ma quello, giratosi”. Il “quello” è Gesù, che qui viene richiamato solo con il pronome, per indicare l'estraneità di Gesù nei confronti dei Dodici. Se il nome esprimeva per gli antichi l'essenza stessa della persona, l'oscurare il suo nome significa in qualche modo cancellare dalla propria vita quella persona, divenuta estranea. Il girarsi, poi, di Gesù non va letto soltanto come un semplice rivolgersi verso qualcuno, in questo caso gli altri discepoli. Il verbo “™pistrafeˆj” (epistrafeìs, giratosi), se indubbiamente significa voltarsi, girarsi verso qualcuno, esso ha assunto proprio nel linguaggio neotestamentario anche il senso di tornare sui propri passi, di pentirsi. Gesù, dunque, sulla strada verso Cesarea di Filippo (v.27a), arresta il suo cammino e si gira indietro “vedendo” i suoi discepoli, quasi a tornare sui suoi passi, rifiutando di andare avanti ancora con loro, coinvolgendo in tal modo i Dodici nel duro rimprovero rivolto a Pietro: “Vai dietro di me, satana, poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini”. Il rimprovero a Pietro e agli altri discepoli si apre con uno sferzante ““Upage Ñp…sw mou” (Ipaghe opíso mu, vai dietro di me), che nel linguaggio degli evangelisti indica la sequela. Ma quel ““Upage” (Ipaghe) dice molto di più di un semplice “vai”, significa anche “sottoporsi a qualcuno; mettersi in potere di qualcuno”. Gesù, dunque, ordina a Pietro e con lui ai suoi, di rientrare nei ranghi e di sottostare al suo insegnamento. Ma se si pensa che Pietro è qui apostrofato da Gesù come “satana”, questo richiama da vicino in qualche modo gli ordini che Gesù impartiva ai demoni durante gli esorcismi. Una sorta di esorcismo, dunque, che Gesù compie contro Pietro, il suo satana, la cui radice ebraica “śtn” significa avversare, accusare. Che cosa significhi tutto questo viene spiegato nella seconda parte del richiamo a Pietro: “poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini”. Il motivo, dunque, si fonda sulla contrapposizione Dio e uomini, sui progetti di Dio che non combaciano con quelli degli uomini. Quindi, seguire Gesù significa passare dall'altra parte, cioè dalla prospettiva degli uomini a quella di Dio. Un cammino che non è facile, pacifico e scontato, poiché esso deve passare attraverso la croce.

Le condizioni della sequela di Gesù: una riflessione di approfondimento (vv.8,34-9,1)

Testo

34- E convocata la folla con i suoi discepoli, disse loro: <<Se qualcuno vuol seguire dietro di me, rifiuti se stesso e prenda la sua croce e mi segua.
35- Chi, infatti, volesse salvare la sua vita, la perderà; chi, invece, perderà la sua vita per casa mia e del vangelo, la salverà.
36- Infatti, quale utilità c'è per un uomo guadagnare il mondo intero e danneggiare la sua vita?
37- Che cosa darebbe, infatti, un uomo in cambio della sua vita?
38- Chi, infatti, si sarà vergognato di me e delle mie parole in questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell'uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con i santi angeli>>.
9,1- E diceva loro: <<In verità vi dico che ci sono alcuni di quelli che stanno qui, i quali non gusteranno la morte finché (non) abbiano visto il regno di Dio venire in potenza>>.


Note generali

I vv.31-33 segano una svolta radicale e di rottura tra Gesù e i suoi discepoli, per cui si è resa necessaria una pausa di riflessione per ripensare sia all'identità di Gesù come il Messia sofferente, facendosene una ragione; sia alle motivazioni e alle modalità della propria sequela di questo Messia deludentemente sofferente e perdente. Così che Marco crea immediatamente, in risposta al terremoto che rischiava di disfare il gruppo dei Dodici o di incrinare i loro rapporti con Gesù, un'area di riflessione, costituita dalla pericope 8,34-9,1, il cui tema sulla sequela fondata sulla croce, che assume il significato di sofferenza, rinnegamento, spogliazione e servizio a favore degli altri, non si limiterà a questi pochi versetti, ma riecheggerà ripetutamente nell'ampia sezione 8,31-10,52. Questo succederà in 9,33-37, dove i Dodici discuteranno chi sia il più grande tra loro, così che Gesù farà loro capire come la grandezza sta nel servire gli altri, contrapponendo alle pretese di superiorità sugli altri l'umile e indifesa semplicità dei bambini, verso i quali dà apertamente la sua preferenza, additandoli ad esempio (10,13-16). Un tema quest'ultimo che verrà ripreso in termini più espliciti in 10,35-45, dove i figli di Zebedeo manovrano per accaparrarsi, tra lo sdegno degli altri, i principali posti di potere all'interno del gruppo dei Dodici. A questa sete di potere e di dominio sugli altri, Gesù contrappone l'atteggiamento di servizio per gli altri. Così similmente in 10,17-31, viene sottolineata la necessità del distacco dai beni terreni per poter attuare con sincerità e libertà di cuore la propria sequela. E il tutto è intrecciato con gli annunci della passione-morte-risurrezione, che si presentano con cadenza martellante (8,31; 9,31; 10,33-34).

Ma tutto questo non è possibile né pensarlo né tanto meno attuarlo nella propria vita, se non si è sostenuti da una fede invincibile, che verrà messa a dura prova non solo dai continui annunci di passione, morte e risurrezione, ma dai ben peggiori e drammatici eventi del Golgota. Una fede che non è il frutto di un bel ragionamento, ma un dono offerto a chi, dopo essersi spogliato di se stesso e dalle proprie pretese di autoaffermazione e progetti di potere, si è reso disponibile a riceverlo. Da qui la centralità e la potenza dell'invocazione, posta all'interno dei capp.9,2-10,52: “Credo; soccorri la mia incredulità” (9,24b).

Dopo i vv.31-33 più niente è come prima. Tutto cambia e ognuno deve riflettere su se stesso e sulle motivazione vere che lo muovono nella sua sequela di Gesù, poiché il fallimento del Golgota non fa sconti a nessuno, mentre la luce della risurrezione, che certamente c'è stata e ne siamo personalmente convinti, diverrà, come vedremo a suo tempo, solo un atto di fede.

Da un punto di vista letterario la pericope in analisi (vv.8,34-9,1) costituisce una raccolta di sei detti sentenziali, ben coordinati e mossi da una logica stringente ed incalzante i primi cinque (vv.34-38); mentre 9,1 costituisce un'aggiunta tardiva dello stesso Marco, che potremmo considerare come di rinforzo al v. 8,38, quasi ad accelerare la venuta finale di Gesù. 9,1 infatti si muove sullo sfondo di un'escatologia presenziale o quanto meno imminente, rispetto ad 8,38 che invece prospetta la venuta finale in tempi molto lontani. 9,1, pertanto, dà un'accelerazione ai tempi escatologici, attestandone la presenza già attua o in fase di attuazione, spingendo in tal modo il discepolo ad un immediato cambiamento di vita senza attendere oltre.

L'aggiunta è evidenziata dall'espressione “E diceva” con cui viene introdotto il v.9,1, creando in tal modo uno stacco del versetto dall'unità narrativa circoscritta dai vv.34-38, ai quali viene aggregato. Un caratteristica questa di Marco, allorché questi, nelle sue periodiche revisioni del suo vangelo, aggiunge qualche altra annotazione.

Lo Sitz im Leben, cioè il contesto storico e sociale in cui si colloca questa pericope e a cui fa riferimento, è quello delle persecuzioni e delle difficoltà della propria nuova posizione di discepoli e credenti, che esige, là dove richiesto, un'aperta e ferma testimonianza e un nuovo atteggiamento nei confronti dei beni di questo mondo. Si parla infatti di “salvare o perdere la propria vita”; “di vergognarsi di Gesù di fronte a questa generazione adultera e peccatrice”; “di spendere la propria vita per il potere e i beni di questo mondo”.

Commento ai vv.8,34-9,1

Il v.34a si apre con un verbo che dà l'intonazione all'intera pericope: “proskales£menoj” (proskalesámenos), che significa chiamare, convocare, ma posto, come in questo caso, nella forma media, assume il senso di una convocazione a giudizio13, dove si decidono le sorti dei contendenti. Il clima, dunque, non è tra i più distesi e tranquilli, ma suona da resa dei conti. Così anche anche l'identità dei convocati lascia stupefatti: “la folla con i suoi discepoli”. I discepoli vengono qui dunque dissociati da Gesù e associati alla folla. Nelle logiche didattiche e pedagogiche di Gesù i Dodici dovevano sempre stare con Gesù (3,14); a loro erano riservati i misteri del Regno, mentre agli altri venivano somministrati in parabole (4,11.33-34). Ma ora, qui, le cose sembrano cambiare radicalmente. I discepoli non sono più con Gesù, ma associati e in qualche modo ributtati nell'anonimato della folla, alla quale Gesù ora detta le regole per la sua sequela. Ognuno, poi, dovrà fare la sua scelta: se continuare, cambiando radicalmente e senza tentennamenti atteggiamento interiore, o lasciare. Gesù, pertanto, qui sta rimescolando le carte per incominciare una nuova partita, distruggendo sogni di gloria, di affermazioni personali, di poteri o rivalità. Tutto azzerato, poiché qui si parla di scelte di vita fondate sulla sofferenza fino alla morte; si sta parlando di rinuncia, di sacrificio, di testimonianza fino alla morte, di servizio agli altri; si sta parlando di croce. Un capovolgimento radicale e inatteso che rimette in discussione tutto e chiede nuove scelte.

Il v.34b funge da enunciato, a cui seguiranno gli addentellati che lo andranno a precisare: “Se qualcuno vuol seguire dietro di me, rifiuti se stesso e prenda la sua croce e mi segua”. Il detto, dai toni sapienziali, si apre con un significativo “Se qualcuno vuole”. Gesù qui sta rivolgendosi alla folla a cui sono associati anche i suoi discepoli e quel “Se qualcuno vuole” significa che la scelta originaria che egli ha fatto dei Dodici, il loro invio in missione, la loro ministerialità e vicarialità emerse nella prima moltiplicazione dei pani e dei pesci vengono qui azzerate. Essi, pertanto, devono operare una nuova scelta, richiamata in quel “vuole”, che tenga conto dei nuovi criteri della sequela, posta sotto l'egida della croce. L'oggetto della scelta è il “seguire dietro di me”. Due elementi importanti che definiscono le modalità del seguire Gesù. Il verbo qui usato è quello caratteristico della sequela “¢kolouqe‹n” (akolutzeîn); è il verbo del servo che segue il suo padrone, tant'è che il sostantivo derivato, “akÒlouqoj” (akólutzos), significa servo. Quindi non si tratta soltanto di un seguire passivo, ma di una sequela che si pone al servizio di Gesù, dedicandogli per intero la propria vita. Una sequela che si esprime in quel “Ñp…sw mou” (opíso mu, dietro di me), cioè il ricalcare il cammino che Gesù percorre, mettendo i propri passi e la propria vita sui suoi stessi passi e sullo stesso modello di vita, che funge da parametro di confronto per tutti i suoi discepoli. Una sequela che per essere attuata abbisogna di due elementi fondamentali: il rifiutare se stessi, nel senso di accantonare i propri progetti, le proprie pretese, i propri interessi, il proprio modo di ragionare secondo parametri umani, rinnovando completamente la propria mente e il proprio cuore rimodellandoli sul parametro indicato in quel “dietro di me”. Il secondo elemento è quello di prendere la propria croce. Il seguire Gesù sulla via della sofferenza e della morte, qualora questa venisse richiesta, non deve essere uno scimmiottare quello che fa Gesù, ma un fare propria, accettandola, la croce che viene assegnata di volta in volta al discepolo, chiamato a testimoniare con la sua vita Gesù, completando con la propria croce quella di Gesù. Un atteggiamento che l'autore della Lettera ai Colossesi attesta per se stesso ne confronti della Chiesa: “Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Una sofferenza, quindi, che si fa testimonianza e si prospetta come servizio di riscatto e di redenzione per se stessi, per la comunità credente e per l'intera umanità, poiché la croce del discepolo, che si pone “dietro” il proprio Maestro, acquista una valenza redentiva per tutti, in quanto associata a quella di Gesù. E quando tutti i criteri della sequela sono soddisfatti; quando il discepolo ha deciso la propria vita per Gesù, il Messia sofferente, solo allora può accedere alla sequela: “e mi segua”. Anche qui compare nuovamente il verbo “¢kolouqe‹n” (akolutzeîn), che sottolinea una volta di più come questa sequela è un servire esistenzialmente Gesù, un mettersi a sua disposizione, abbracciando per intero il suo modo di pensare e di vedere, che è un pensare e un vedere le cose dalla prospettiva di Dio. Un'esortazione che Paolo rivolge alla sua amatissima comunità di Filippi e che in qualche modo riflette il senso di quel “seguire dietro di me”: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5-8).

Dopo l'enunciato che stabilisce in modo categorico i criteri della sequela, ora Marco passa a dare forma concreta al senso della sequela adombrata dalla croce. Il riferimento qui sono le persecuzioni a cui il discepolo è chiamato a rispondere con la propria vita. È questo il tema sviluppato dai vv.35-37. Il termine qui tradotto con vita è “yuc»” (psiché), letteralmente “anima”, che nell'antropologia degli antichi era considerata il centro vitale che coniugava in se stessa lo spirito con il corpo, due realtà tra loro inconciliabili e irriducibili l'uno all'altro, ma grazie a questo elemento intermedio semispirituale, l'anima appunto, consentiva ai due di convivere, dando in tal modo unità all'essere umano, quale persona. Un significativo esempio di questa antropologia ce lo dà Paolo nella sua 1Ts 5,23: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”. Qui “spirito, anima e corpo” esprimono la totalità dell'uomo, dove il centro unificatore e vitale è la “yuc»” (psiché), qui significativamente posta al centro. Il termine “yuc»” (psiché) quindi può essere tradotta con vita, in quanto in essa convergono e vivono inter-relazionandosi dinamicamente lo spirito e il corpo.

Il senso del salvare la propria vita, nel contesto delle persecuzioni, ha come contropartita quello del rinnegare Gesù; per contro, la fedeltà a lui avrà come contropartita la perdita di questa vita. Una perdita che in realtà paradossalmente è una salvezza. La prospettiva qui è escatologica e va compresa alla luce dei vv.38 e 9,1. Ciò che crea salvezza nella perdita è il motivo per cui si gioca la propria vita: “per causa mia e del vangelo”. Marco qui è l'unico tra i sinottici che aggiunge alla causa di Gesù anche quella del Vangelo, inteso non solo come annuncio, ma anche quale luogo in cui Gesù è in qualche modo testimoniato e sacramentato e si prolunga nel tempo attraverso la predicazione, offrendosi nuovamente a tutti. Quindi, per Marco, il Vangelo esprime la continuità di Gesù nella storia. Il racconto di Marco, infatti, esordisce proprio con il termine “Vangelo di Gesù” (1,1a), cioè un annuncio che proviene da Gesù e gli appartiene, come parte integrante ed espressione di se stesso.

Con i vv.36-37 Marco sviluppa una riflessione sull'importanza e la centralità della vita, per la quale ogni uomo è pronto a giocarsi tutto, soprattutto se questa vita è la sua. Ora se la vita è così importante, anzi, è un bene assoluto da cui ogni altro bene dipende, ha senso spenderla per realtà effimere, come il mondo intero, per esprimere una totalità e una grandezza incommensurabili? Realtà che per quanto grandi nulla valgono se poste a confronto della propria vita e se questa vita ne subirà un danno, tale da impedire di goderne. Marco qui gioca sull'equivoco, parlando di vita in senso di vita umana e/o personale, ma il riferimento è alla vita eterna, quella che si gioca qui, ma che ha delle conseguenze nell'aldilà. E che Marco intenda proprio questo lo lasciano intravvedere i vv.38 e 9,1 dove si prospettano gli effetti escatologici ed apocalittici di quanto avviene qui sulla terra, cioè di come si è spesa la propria vita, se pro o contro Gesù.

Il v.38 riprende, rovesciandolo, il v.35b, dove si dice “chi, invece, perderà la sua vita per causa mia e del vangelo, la salverà”. Il perdere la vita per causa mia e del vangelo diventa qui il vergognarsi di me e delle mie parole; mentre il “salvare la propri vita” del v.35b viene sviluppato nel “Figlio dell'uomo si vergognerà di lui”. È interessante rilevare come Marco associ sempre Gesù al suo vangelo (v.35b) e alle sue parole (v.38a). L'importanza nasce dal fatto che tutto ciò che resta di Gesù è la sua Parola, in cui egli vive e continua a vivere e a donarsi agli uomini. Pertanto il credente che ha rinnegato Gesù e/o la sua Parola davanti agli uomini, avrà un pari trattamento da parte di Gesù alla venuta del Padre suo con gli angeli. Una scena che descrive la potenza del re con la sua corte e che richiama da vicino la scena del giudizio universale di Mt 25,31: “Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria”. Per cui in questo contesto la definizione di “questa generazione adultera e peccatrice” dice il giudizio di condanna emesso già fin d'ora su di un'umanità che ha rifiutato Gesù, alla quale anche il discepolo infedele o tiepido (Ap 3,16) verrà associato ad essa. Con questa doppia definizione della generazione presente come “adultera” e “peccatrice” probabilmente Marco si riferiva con l'aggettivo “adultera” al rapporto conflittuale tra Dio, lo sposo, e Israele la sua sposa, adultera per il suo accondiscendere ai culti pagani e alla trasgressione della Torah. Da qui anche l'accusa di essere peccatrice. Non va, tuttavia escluso che con l'aggettivo “peccatrice” Marco intendesse riferirsi anche al mondo pagano, che ha rifiutato e poi condannato Gesù (Gv 1,10-11).

Con il v.9,1, aggiunto successivamente nell'ambito delle periodiche revisioni del suo vangelo, che seguiva il ritmo della predicazione orale, Marco ha inteso accelerare i tempi del giudizio escatologico, che il v.38 non lasciava trasparire nella sua imminenza. Il v. 9,1 ha pertanto i compito di contestualizzare questo giudizio hinc et nunc, prospettando una sorta di escatologia presenziale o compiuta, caratteristica questa del vangelo giovanneo. Da qui il richiamo al compiersi del Regno di Dio nel tempo presente, richiamato con il riferimento a “quelli che stanno qui”.

Il v.9,1, tuttavia, funge nel contempo anche da transizione al racconto della Trasfigurazione, dove “alcuni di quelli che stanno qui”, in questo caso l'allusione è a Pietro, Giacomo e Giovanni (9,2), vedranno il manifestarsi della gloria di Dio in Gesù prima della loro morte. Una trasfigurazione con cui viene preannunciata in qualche modo anche la gloria della risurrezione, quale compimento definitivo della salvezza e manifestazione dell'affermarsi della potenza di Dio in Gesù (Rm 1,4).


NOTE

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Cfr. anche Is 2,2-3; 25,6

3Cfr. La Tradizione apostolica di Ippolito, sotto la voce “I catecumeni”.

4Per il significato dei numeri cfr. M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

5Sulla questione cfr il termine “Dalmanuta” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

6Cfr. At 2,46; 20,7; 27,35

7Cfr. Ger 5,21; Ez 12,2; Is 6,9-10

8Cfr. Mc 1,41; 3,10; 5,27-28; 6,56; 7,33

9Cfr. i termini “Mano” e “Saliva” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo,1990.

10Cfr. K. Bihlmeyer-H Tuechle, Storia della Chiesa, vol. 1, l'antichità cristiana, ed. Editrice Morcelliana, 13^ edizione 2000, pag.145

11Cfr. La voce “Betsaida” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

12L'espressione “Figlio dell'uomo” ricorre in tutto l'A.T. 100 volte di cui ben 94 nel solo Libro di Ezechiele, dove Dio si rivolge al profeta esclusivamente con tale espressione.

13In tal senso cfr. il verbo “proskalšw” (proskaléo, chiamo, convoco) in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ed. Società Editrice Dante Alighieri, trentasettesima edizione, 1993.