IL
VANGELO SECONDO MARCO
L'esperienza salvifica di Gesù
Cap. 5 (Prima Area: 1,2-8,30)1
Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
Note generali
Nell'ambito di un contesto difficile e carico di tensioni che vede Gesù confrontarsi duramente con le autorità giudaiche nelle cinque diatribe galilaiche (2,1-3,6), che sfociano, da un lato, in sterili accuse nei suoi confronti, di scacciare i demoni con il potere di Belzebù (3,22-30); dall'altro nell'incredulità dei suoi più intimi familiari, come la madre e i suoi fratelli, che lo ritengono fuori di testa (3,20-21.31-35), nonché in quella dei suoi stessi concittadini, che vedono in lui soltanto un abile e sapiente predicatore, di cui conoscono le origini familiari, ma non vanno oltre (6,2-3), così da stupire lo stesso Gesù per la loro incredulità (6,6a), costringendolo, da un lato, a cambiare strategia nella sua missione di predicatore itinerante, annunciando la Parola attraverso il linguaggio criptato delle parabole (4,1-34), dall'altro a creare una discriminazione tra i suoi stessi ascoltatori, tra quelli che sono di fuori e quelli che sono dentro (3,33-35; 4,11-12.33-34), in questo difficile contesto carico di tensioni e diffidenze nei confronti di Gesù, Marco inserisce ora il cap.5, che sollecita, invece, ad avere fiducia in Gesù, quale fonte di salvezza per chi crede in lui.
Un contesto, quindi, difficile, in cui si rispecchia quello storico della chiesa del tempo in cui Marco sta scrivendo il suo vangelo (65-69 d.C.) e che l'autore metaforizza nel racconto della burrascosa traversata del mare di Galilea2 (4,35-40). Una situazione difficile che ci viene testimoniata dalle difficoltà che lo stesso Paolo ha incontrato nel corso della sua missione (2Cor 11,23-28) e alle quali allude in 1Cor 23-24: “noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”. Ed è proprio questo il senso di questo cap.5 posto nel bel mezzo di una situazione piena di tensioni e di difficoltà: Gesù è potenza e sapienza di Dio, che salva coloro che credono in lui.
Il cap.5 raccoglie tre racconti disomogenei tra loro, un esorcismo (vv.1-20), una guarigione (vv.25-34) e una risuscitazione (vv.22-24.35-43). Pur così diversi, hanno tuttavia tra loro un unico denominatore che li accomuna tutti: l'incontro con Gesù, l'esperienza di lui, significata dall'entrare in contatto con lui, che si lascia toccare dall'emorroissa e tocca la figlia di Giairo. Ma concomitante a questa esperienza salvifica di Gesù vi è la sua parola in tutti tre i casi: quanto all'esorcismo vi è il comando di Gesù (v.8); quanto all'emorroissa essa è stata condotta a Gesù “avendo udito di Gesù” (v.27a), mentre per la figlia di Giairo, come per l'esorcismo, vi è il comando di Gesù, che riconduce in vita la fanciulla (v.41b), preceduto dal suo tocco vigoroso, da cui traspare la sua potenza (v.41a).
La composizione del cap.5 è variegata: quanto ai racconti dell'emorroissa e della figlia di Giairo, questi si sovrappongono tra loro, dando vita ad uno strano modo di narrare caratteristico di Marco, che viene definito ad incastro o a sandwich e che ritroviamo in 3,20-21 (3,22-30) 3,31-35 // 5,22-24 (5,25-34) 5,35-43 // 6,7-13 (6,14-29) 6,30-33 // 11,12-14 (11,15-19) 11,20-26 // 14,1-2 (14,3-9) 14,10-11.
Quanto
al racconto dell'uomo posseduto da uno spirito impuro, questo
presenta al suo interno notevoli tensioni e si scosta dal modo di
raccontare gli esorcismi di Marco. Avremo modo di affrontare la
questione nelle note generali al commento della pericope, che lo
riguarda.
L'esorcismo nella
regione dei Geraseni (vv.1-20)
Testo a lettura
facilitata
Introduzione
(vv.1-2)
1-
E giunsero dall'altra parte del mare nella regione dei Geraseni.
2-
E uscito egli dalla barca, subito gli venne incontro dai sepolcri un
uomo in uno spirito impuro,
La presentazione dell'indemoniato (vv.3-6)
3-
il quale aveva la sua abitazione nei sepolcri e neppure con una
catena nessuno poteva legarlo.
4-
Poiché egli spesso con ceppi e catene fu legato e da lui furono
rotte le catene e i ceppi spezzati, e nessuno era capace di domarlo;
5-
e durante ogni notte e giorno nei sepolcri e sui monti stava a
gridare e a percuotere se stesso con pietre.
6-
E visto Gesù da lontano, corse e si prostrò davanti a lui
Il
dialogo tra l'indemoniato e Gesù (vv.7-13)
7-
e gridando a gran voce dice: <<Che c'è tra me e te, Gesù,
Figlio del Dio Altissimo? Ti scongiuro per Dio, non tormentarmi>>.
8-
Gli diceva, infatti: <<Esci dall'uomo, spirito impuro>>.
9-
E lo interrogava: <<Che nome (hai)?>>. E gli dice: <<Il
mio nome (è) Legione, poiché siamo molti>>.
10-
E lo scongiurava molto affinché non li mandasse fuori dalla regione.
11-
Ora vi era là presso il monte una grande mandria di porci che
pascolavano.
12-
E lo supplicarono dicendo: <<Mandaci nei porci, affinché
entriamo in loro>>.
13-
E permise loro; ed usciti gli spiriti impuri, entrarono nei porci, e
la mandria precipitò giù dal dirupo nel mare, circa due mila, e
affogavano nel mare.
I
testimoni dell'evento miracoloso e il rifiuto di Gesù (vv.14-17)
14-
E quelli che li pascolavano fuggirono e portarono la notizia nella
città e nelle campagne; e vennero a vedere che cosa è accaduto.
15-
E vengono da Gesù e vedono quello che era indemoniato seduto,
vestito e sano di mente, quello che aveva avuto la legione, e furonospaventati.
16-
E quelli che videro raccontarono a loro come avvenne all'indemoniato
e a riguardo dei porci.
17-
E cominciarono a supplicarlo di andarsene dai loro confini.
Da
indemoniato a discepolo e apostolo (vv.18-20)
18-
E salito quello nella barca, l'indemoniato lo supplicava affinché
fosse con lui.
19-
E non lo permise, ma gli dice: <<Vai a casa tua dai tuoi e
annuncia loro quanto il Signore ti ha fatto ed ha avuto compassione
di te>>.
20-
E se ne andò e incominciò a predicare nella Decapoli quanto fece
per lui Gesù e tutti stupivano.
Note generali
Tra
i racconti di esorcismo narrati da Marco, questo della liberazione
dell'indemoniato di Gerasa si discosta notevolmente dagli altri, sia
per la lunghezza del racconto, ben 20 versetti, che per la dinamica
narrativa. Troviamo qui un certo gusto nel soffermarsi nella
descrizione dell'uomo posseduto; non vi è il consueto drammatico
maltrattamento del posseduto da parte del demonio, che si riscontra
in altri esorcismi; Gesù, qui, instaura un dialogo del tutto
pacifico con il demonio, quasi fossero due vecchi amici che si
incontrano; questi gli avanza, addirittura in nome di Dio, una
supplica, che gli viene bonariamente concessa e poi se ne va
tranquillamente dall'indemoniato senza straziarlo, quasi ringraziando
Gesù. Per la prima ed unica volta viene svelato qui il nome del
demone, Legione. Al di là della descrizione impressionante
dell'indemoniato, non vi è qui nessun pathos, nessuna scena
drammatica, ma soltanto un povero diavolo, che viene disturbato dalla
presenza di Gesù, il quale, contrariamente alle sue abitudini,
neppure lo rimprovera, allorché questi svela la sua vera identità
di “Figlio del Dio Altissimo”. Viene, poi, a mancare il comando
diretto e perentorio della cacciata del diavolo dal posseduto, ma
questo viene soltanto riportato in modo indiretto da Marco e ciò
solo per giustificare la supplica del diavolo, quella di non essere
tormentato. Insomma, un esorcismo all'acqua di rose, del tipo
“Vogliamoci bene e non facciamoci del male”.
In realtà questa pacifica e tranquilla dinamica esorcistica non è proprio tale. Dall'insieme del racconto appare un Gesù che domina le forze del male, che gli sono totalmente sottomesse e che in qualche modo era stato preannunciato nel racconto della tempesta sedata, dove la bufera di vento e di onde viene dominata senza drammi da Gesù, con un semplice comando: “Taci” e tutto si acquietò, provocando lo stupore dei presenti: “Chi dunque è costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?”. Un interrogativo sull'identità di Gesù, che viene sciolto qui, allorché lo spirito impuro attesta che Gesù è il “Figlio del Dio Altissimo”. Vi è dunque una consequenzialità tra i due racconti, quello della tempesta sedata, che si muove sullo stesso schema di un esorcismo, e questo esorcismo.
Una dominazione sulle forze del male, che appare anche là dove Gesù ordina allo spirito impuro di rivelare il suo nome. Il nome nell'antichità non solo indicava l'identità della persona, ma ne esprimeva anche la sua essenza e la sua intima natura. Lo svelamento del nome, pertanto, al terzo che lo chiede, dice la propria sottomissione a questi, la cui conoscenza esprime in qualche modo il suo potere su quella persona. Jhwh, infatti, alla richiesta di Mosè, non rivela il proprio nome, ma lo parafrasa in “Io sono colui che sono” (Es 3,13-14), mentre il nome scritto di Dio viene espresso nell'impronunciabile tetragramma di Jhwh. In realtà, il nome di Dio nessuno lo conosce, perché Dio è irraggiungibile dall'uomo.
Tuttavia anche il rapporto tra Gesù e lo spirito impuro, che tormentava l'indemoniato geraseno, non era, poi, così pacifico e tranquillo. Questo Legione, infatti, supplica Gesù di non tormentarlo e il tormento che Gesù gli stava infliggendo era l'ordine continuo e persistente di andarsene, che quel “diceva”, posto all'imperfetto indicativo, lascia intuire e che si potrebbe tradurre con “continuava a dire”. Lo spirito impuro, pertanto, stava opponendosi duramente a Gesù, il quale stava conducendo una vera e propria lotta con questo spirito immondo. Quella lotta che apparirà più evidente nell'orto del Getsemani, durante la passione e sulla croce. La durezza della lotta è lasciata intuire dal dialogo tra Gesù e Legione, che altro non è se non una trattativa tra i due: Legione lascia la sua preda, ma pretende di averne un'altra in cambio; e Gesù acconsente e l'indemoniato è liberato.
Il racconto, poi, presenta delle tensioni al proprio interno, che lasciano intuire come questo racconto abbia subito delle manipolazioni e delle interpolazioni successive, passando da uno schema narrativo molto semplice ed essenziale, che ricalcava gli altri racconti di esorcismo, ad uno più complesso ed elaborato3.
Due sono, a mio avviso, le interpolazioni: i vv.3-6, che descrivono con un linguaggio popolare e pittoresco l'indemoniato; e i vv.9-13 che descrivono il dialogo tra Gesù e Legione e l'ecatombe dei maiali. Quanto ai vv.3-6, questi sospendono il racconto dell'incontro dell'indemoniato con Gesù, iniziatosi con il v.2, per dare spazio alla descrizione dell'indemoniato, che non aggiunge nulla al racconto dell'esorcismo se non delle note folcloristiche, finalizzate a solleticare la curiosità del lettore/ascoltatore. La pericope interpolata, poi, si conclude con il v.6 che ripete sostanzialmente il v.2b. Togliendo, quindi, i vv.3-6 il racconto dell'incontro di Gesù con l'indemoniato si snellisce e diventa più incisivo e scorrevole e rientra nello schema narrativo degli esorcismi proprio di Marco. Per cui il racconto originale doveva essere contenuto nei vv.2b.6-8.
Quanto alla pericope delimitata dai vv.9-13, questa interrompe l'effetto dell'esorcismo, poiché al comando di uscire dall'uomo (v.8) non viene fatta seguire la consueta scena a cui Marco ci aveva abituati, quella dell'abbandono del posseduto da parte del diavolo, ma l'effetto del comando viene sospeso per dare spazio ad un dialogo tra Gesù e Legione, una sorta di trattativa tra i due, che sminuisce di molto la potenza del comando e l'esito esorcismo. Tutto viene attenuato di molto.
Il testo originale doveva essere circoscritto ai vv.8.14-16, dove gli effetti del comando di Gesù (v.8) sono dati dalla presentazione dell'indemoniato rinsavito e calmato e dalla testimonianza dei presenti (vv.14-16).
Vi sono poi delle modifiche al testo originale per adattarlo alle due interpolazioni, che si ritrovano al v.14 nel pronome “li”, con riferimento ai maiali; al v.15 nella frase “quello che aveva avuto la Legione”, che nell'ambito dell'economia narrativa non aggiunge nulla al racconto e la sua presenza suona come una forzatura, così che togliendola, il racconto non subisce nessuna stortura, ma, al contrario, si snellisce e diventa più fluido e incisivo. Simile osservazione va mossa all'espressione del v.16 “e a riguardo dei porci”.
Un'altra aggiunta pleonastica di natura redazionale si riscontra al v.2a, dove si precisa che Gesù è sceso dalla barca. La narrazione sarebbe stata più incisiva e scorrevole se al v.1 fosse stato fatto seguire il v.2b. L'aggiunta è stata fatta probabilmente per formare inclusione con il v.18a, dove Gesù sale in barca, chiudendo in tal modo la sua esperienza nel territorio dei Geraseni. È, infatti, una caratteristica di Marco quella del voler dare sequenze logiche ai suoi racconti, legandoli tra loro. Così similmente dicasi per l'espressione “giunsero dall'altra parte” del v.1, che si lega a quello precedente di 4,35b, dove Gesù comanda ai suoi di “passare dall'altra parte”. Il v.1 diviene, pertanto, la realizzazione del comando di Gesù, legando in tal modo la pericope della traversata burrascosa (4,35-41) al racconto dell'esorcismo in territorio dei Geraseni, la quale in qualche modo lo preannuncia. Ma nel contempo il v.1 prepara il ritorno di Gesù in territorio galilaico del v.21, dando così continuità logica alla narrazione.
La
struttura del racconto è scandita in cinque parti:
L'introduzione (vv.1-2);
La presentazione dell'indemoniato (vv.3-6);
Il dialogo tra l'indemoniato e Gesù (vv.7-13);
I testimoni dell'evento miracoloso e il rifiuto di Gesù (vv.14-17);
Da indemoniato a discepolo e apostolo (vv.18-20).
Commento ai vv.1-20
Il v.1 apre il racconto dell'esorcismo in territorio dei Geraseni con una doppia nota di luogo: “E giunsero dall'altra parte del mare nella regione dei Geraseni”. La prima annotazione dice che “Giunsero”, lasciando intendere che prima erano partiti con l'intento di arrivare in un determinato luogo, vagamente descritto come “dall'altra parte del mare”. Un'espressione questa densa, perché, da un lato, lega questo racconto con 4,35b, dove Gesù aveva dato ordine ai suoi di “passare dall'altra parte”, dando, quindi, una continuità narrativa tra il racconto della traversata burrascosa, che in qualche modo prefigurava l'esorcismo di 5,1-20, e l'approdo nel “territorio dei Geraseni”, dove proseguirà la missione di Gesù; dall'altro, forma inclusione con il v.21, dove Gesù ritorna “nuovamente dall'altra parte”, creando una sorta di movimento pendolare.
La seconda nota indica il luogo di approdo: “nella regione dei Geraseni”, regione, quindi, che è di Gerasa, un'importante città della Decapoli, in pieno territorio pagano. Ma questa città dista circa 55-60 Km dalla punta sud del lago di Genezaret. È, quindi, difficile che il territorio di Gerasa si estendesse fino al lago di Genezaret. Più probabile, invece, che il territorio dei Geraseni sia quello dei “Gadareni”, la cui città, Gadara, dista soltanto 10 Km dalla punta sud lago. Mt 8,28a parla infatti di “territorio dei Gadareni”; mentre, San Girolamo (347-420 d.C.) nella sua Vulgata, traducendo Luca, riporta “ad regionem Gergesenorum”, cioè, “nella regione dei Gergeseni”, segno questo che Girolamo doveva avere sotto mano un altro testo greco che riportava “dei Gergeseni” o che seguisse, più probabilmente, la lezione di Origene (185-252 d.C.), che era giunto alla conclusione che si trattasse non di Gerasa né di Gadara, bensì di Gergesa, una località che egli ha individuato seguendo un'antica tradizione e presso la quale si trovava un dirupo prospiciente sul lago, da cui, secondo il racconto evangelico, precipitarono i maiali.
Su quale delle tre, dunque, va fatta cadere la sorte? La soluzione proposta da Origene, benché interessante, è tuttavia da considerarsi un tentativo di far accordare delle caratteristiche morfologiche del terreno con il racconto del vangelo, bocciando, in tal modo il testo offerto dai tre sinottici soltanto perché questi non si rendevano immediatamente comprensibili nella loro discordante citazione del luogo in cui è avvenuto l'esorcismo. Tale soluzione, pertanto, va, a mio avviso, esclusa, anche perché non sufficientemente provata da un punto di vista oggettivo.
Per risolvere la questione è necessario partire dagli autori stessi dei tre vangeli, quelli che, sia pur in modo discordante, hanno proposto il loro racconto e non prescindendo da questi, come, invece, ha fatto Origene.
Sappiamo che Matteo è un giudeocristiano, palestinese, che scrive il suo vangelo per le comunità giudeocristiane palestinesi. Egli è uno scriba e conosce molto bene, oltre che le Scritture, anche la geografia palestinese ed è preciso nelle sue citazioni o descrizioni geografiche. Marco, benché anche lui giudeocristiano e, parimenti a Matteo, uno scriba, dando a vedere, alla pari di Matteo, di conoscere molto bene le Scritture, tuttavia egli appartiene alla diaspora e più precisamente alla comunità giudaica di Roma e successivamente alla chiesa di Roma, per la quale scrive il suo vangelo. La sua conoscenza della geografia della Palestina è molto superficiale, spesso vaga se non talvolta completamente sbagliata. Certamente egli è stato in Palestina, ma non deve esserci rimasto molto, perché i nomi della geografia palestinese sono per lui solo vaghi ricordi, spesso male allocati. Quindi l'aver citato “territorio dei Geraseni” non è proprio certo che intendesse quello, magari confondendolo, per assonanza, con quello dei “Gadareni”. Il fatto, poi, che Lc 8,26.37 riporti la stessa espressione di Marco non fa testo nel merito della questione, poiché Luca è un greco, che in Palestina non c'è mai stato e la sua conoscenza geografica della Palestina è solo per sentito dire. Luca, quindi, che segue il racconto marciano per la composizione del suo vangelo, riporta acriticamente, pari pari, quello che Marco dice nel suo racconto dell'indemoniato di Gerasa.
L'unico al quale si può dare un certo affidamento è Matteo, che in 8,28 parla del “territorio o regione dei Gadareni” (“cèran tîn Gadarhnîn”, córan tôn Gadarenôn). Ora, come s'è sopra detto, Gadara dista dalla punta sud del lago di Galilea 10 Km. Tuttavia qui Matteo parla di Territorio o regione di Gadara, una città greca della Decapoli, molto importante4. Si è ipotizzato, pertanto, che il territorio di Gadara avesse uno sbocco sul lago. Ipotesi, questa, che sembrerebbe suggerita in qualche modo da Flavio Giuseppe in Guerra Giudaica, dove, parlando dei confini orientali della Galilea, afferma: “Verso oriente, è delimitata dai territori di Hippos, di Gadara e dalla Gaulanitide, ove sono anche i confini del regno di Agrippa” (BellJud 3,37b). La regione di Gadara doveva, quindi, confinare con la Galilea e quasi certamente, considerata la posizione di Gadara città a soli 10 Km, anche con il lago di Genezaret. Questa ipotesi sembrerebbe confermata anche da alcune monete di Gadara su cui è raffigurata una nave da combattimento5. Quale senso avrebbe avuto una simile moneta se non quello di celebrare in qualche modo la potenza navale di questa città? Del resto, Mt 8,28a, come s'è detto sopra, non parla di città dei Gadareni, ma di territorio o regione dei Gadareni, la quale cosa fa pensare che l'estensione territoriale di Gadara andasse oltre la semplice città. Pertanto sembrerebbe giusta la nota di Matteo nel raccontare che Gesù e i suoi sbarcarono nel territorio o nella regione dei Gadareni; e ciò la renderebbe compatibile anche con l'episodio della mandria dei maiali affogati. Ma resta ancora un problema insoluto: quanto si estendeva questo territorio di Gadara sul lago di Genezaret? La questione non è oziosa perché rimanda al percorso che Gesù e i Dodici hanno compiuto per raggiungere il territorio dei Gadareni, partendo presumibilmente da Cafarnao, dove Gesù era solito operare e dove, secondo Mt 4,13, abitava. Se il territorio dei Gadareni si limitava alla punta sud del lago di Genezaret6, estuario del fiume Giordano, allora la distanza percorsa da Gesù e suoi in barca era di circa 20 Km, durante i quali è scoppiata la bufera di onde e vento. Una traversata che è avvenuta di notte (4,35). Ora, considerate le distanze, è ben difficile che questo sia avvenuto. Nessuno, infatti, compie con una barca a remi una traversata di 20 Km su di un lago completamente buio e in piena burrasca e senza un punto di orientamento, considerato che il cielo doveva essere coperto di nubi per il maltempo. Se invece il territorio di Gadara si estendeva dalla punta sud del lago fino nei pressi della cittadina di Ippo, dove sorge, come in egual modo anche a Gadara, una basilica che ricorda l'episodio dell'indemoniato guarito da Gesù7, le cose comunque non vanno meglio, perché tra Cafarnao e dintorni di Ippo il tragitto lacustre è di circa 13 Km. La distanza è sempre ragguardevole e i problemi della traversata, qui sopra posti, rimangono.
Se a queste discrepanze testuali e contraddizioni storico-archeologiche aggiungiamo come il racconto di Mc 5,1-20 e di conseguenza quello di Lc 8,26-39, che da Marco ha mutuato il suo racconto, sia molto caricato e appesantito da particolari più o meno raccapriccianti, quasi da sembrare un racconto popolare finalizzato a creare stupore, paura e comunque forti emozioni nell'ascoltatore, sorge il sospetto che l'intero racconto dell'indemoniato liberato e della strage dei maiali, più che radici storiche abbia radici nella fantasia del suo autore o quanto meno Marco l'abbia modificato notevolmente, appesantendolo con elementi popolari. Del resto i vangeli non sono testi di storia, né tanto meno di cronaca dell'epoca, né la biografia di Gesù, ma testimonianze di fede. La corretta posizione di fronte al racconto evangelico è chiedersi non se sia storicamente vero e realmente accaduto, bensì che cosa l'autore abbia voluto trasmettere al suo lettore con quel racconto, vero o inventato che sia. Nello specifico sia Mc 5,1-20 che Lc 8,26-39 e Mt 8,28-34 hanno voluto testimoniare al credente come la venuta di Gesù abbia determinato la fine dell'egemonia di satana sull'uomo e sulla creazione e ricacciato nell'abisso infernale satana e i suoi accoliti, dei quali, maiali e acque del lago sono la metafora.
Il v.2 si apre con la descrizione di un movimento di Gesù che apparentemente è pleonastico, poiché se al v.1si dice che “giunsero” è implicito che Gesù e i suoi scesero dalla barca. Quindi Marco poteva iniziare il v.2 con la venuta dell'indemoniato e il racconto non ne avrebbe sofferto, ma sarebbe stato più scorrevole. Tuttavia l'autore ha segnalato che Gesù è “uscito dalla barca”. La finalità della segnalazione è duplice: da un lato, l'uscire dalla barca funge da inclusione con il v.18a, dove si dice che Gesù salì sulla barca, delimitando in tal modo l'inizio e la fine dell'esperienza missionaria di Gesù in terra pagana, tradendo nel contempo la puntigliosità narrativa di Marco, che cerca di dare sempre uno sviluppo logico al suo racconto; dall'altro, quel “uscire dalla barca”, nella quale, nel racconto della tempesta sedata (4,35-41), si è ravvisata la metafora della chiesa post-pasquale, dice il senso della missione della chiesa stessa: l'uscire da se stessa per aprirsi e incontrarsi con il mondo pagano, raffigurato in quel “uomo in uno spirito impuro”. La sottolineatura dell'impurità è rafforzata dalla provenienza di quell'uomo “dai sepolcri”, che per loro natura sono la dimora definitiva dei morti e il luogo dell'impurità per antonomasia, a cui il mondo pagano è associato. Si noti come l'uomo che viene incontro a Gesù non è impuro, ma è avvolto da uno spirito impuro, quasi a dire che questa umanità è vittima di satana, ma non gli appartiene. È sufficiente, infatti, scacciare Legione perché quell'uomo sia nuovamente ricostituito nella sua dignità originaria, anzi, di più, diventa discepolo (v.18b) e apostolo (vv.19-20).
La pericope delimitata dai vv.3-5 si sofferma, quasi con compiacenza, a descrivere in modo strabiliante la paurosa figura dell'indemoniato, da cui emergono tre elementi fondamentali, che in qualche modo preparano il v.6, l'incontro dell'uomo posseduto con Gesù:
il v.3a diviene una precisazione del v.2b e descrive la disperata situazione di quest'uomo, che, non solo proveniva dai sepolcri, ma abitava in essi. Questi erano la sua dimora abituale, che gli precludevano ogni speranza di redenzione e di riscatto. Una condizione esistenziale di miseria, disperazione e di abbandono, che anche il salmista richiama nel suo animo: “E' tra i morti il mio giaciglio, sono come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali tu non conservi il ricordo e che la tua mano ha abbandonato” (Sal 87,6); mentre altrove egli descrive una situazione di vita molto vicina a quella di questo povero disgraziato: “L'anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando...? Volgiti, Signore, a liberarmi,salvami per la tua misericordia. Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli inferi canta le tue lodi? Sono stremato dai lunghi lamenti, ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio, irroro di lacrime il mio letto” (Sal 6,4-7). Il primo elemento che balza agli occhi è, dunque, la condizione esistenziale di quest'uomo posseduto e gettato nella disperazione, che lo priva di ogni orizzonte di riscatto.
L'irresistibile forza di questo indemoniato, che nessuna forza umana riusciva piegare (v.4);
ed infine, il profondo tormento e il grande dolore che quest'uomo esprimeva nelle sue grida sia di notte che di giorno, espressione questa per dire sempre, in ogni istante. Urla e grida, che se da un lato dicevano tutta la sua insanabile disperazione, dall'altro si può ravvisare in queste una sorta di preghiera, che richiama da vicino quella stessa del Salmista: “Le lacrime sono mio pane giorno e notte, mentre mi dicono sempre: <<Dov'è il tuo Dio?>>” (Sal 41,4); mentre un grido inconsolabile sgorga dalle Lamentazione, che sollecita a non rassegnarsi alla tragica situazione: “Grida dal tuo cuore al Signore, vergine figlia di Sion; fa scorrere come torrente le tue lacrime, giorno e notte! Non darti pace, non abbia tregua la pupilla del tuo occhio” (Lam 2,18).
Questi tre elementi tratteggiano il drammatico contesto entro cui Marco colloca l'incontro di questo uomo con Gesù, la disperazione con la salvezza insperata e impossibile per l'uomo. Chi sta davanti a Gesù, dunque, è un uomo disperato, che urla tutto il dolore della sua tragica condizione umana e che nessuna forza umana può risanare.
Il v.6, benché ridondante rispetto al v.2b, che già aveva segnalato al lettore quest'uomo, che andava incontro a Gesù, tuttavia esso aggiunge alcune nuove note, che aprono ad un nuovo scenario: “E visto Gesù da lontano, corse e si prostrò davanti a lui”. Quel vedere Gesù da lontano dice in qualche modo, da un lato, l'attesa speranzosa di quell'incontro; dall'altro esprime tutta la distanza che separa i due, poiché lo vede da lontano. Vi è in questa espressione una forte tensione, sottolineata da quel “corse”, che spinge irresistibilmente verso Gesù quest'uomo, metafora del mondo pagano che accoglie Gesù, respinto invece dai Giudei (2-4). E il primo atto di apertura accogliente di Gesù è il riconoscerne la divinità nel suo prostrarsi adorante davanti a lui, che proclamerà apertamente al successivo v.7. Il verbo qui usato da Marco è “prosekÚnhsen” (prosekínesen, si prostrò), un verbo tecnico per esprimere l'atto di adorazione e che ricorre nello stesso senso un'altra volta soltanto in 15,19, dove la soldataglia, sia pur per scherno, “poste le ginocchia (a terra), si prostravano davanti a lui”. Ben diverso, infatti, sarà l'incontro con il capo sinagoga Giairo, che, parimenti all'indemoniato, avendo visto Gesù, anche lui “si getta” ai piedi di Gesù. Ma qui il verbo usato è “p…ptei” (píptei, cade), che dice il suo cadere davanti a Gesù e che esprime non adorazione, ma soltanto un atto di supplica. Del resto un capo sinagoga non poteva riconoscere Gesù come Dio.
I vv.7-13 riportano il dialogo tra Gesù e lo spirito impuro, dialogo che si scandisce in tre parti: la prima riguarda la confessione rivelatrice dell'identità di Gesù da parte dello spirito impuro (v.7), che in qualche modo risponde anche all'interrogativo con cui terminava il cap.4: “Chi dunque è costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?” (4,42b). Una rivelazione che stranamente non viene repressa da Gesù, come è avvenuto in 1,24-25 o in 3,12, forse perché qui il senso di questo racconto è ben diverso da come può apparire da una prima lettura superficiale, come vedremo subito; la seconda, che fa da pendant con la prima, la rivelazione dell'identità dello spirito impuro (v.9); di mezzo alla presentazione delle due identità ci sta il comando di uscire dall'uomo (v.8). Ed infine, la supplica esaudita dei demoni di potersi impossessarsi di un branco di maiali, che pascolavano nei pressi.
Ci si trova di fronte ad un dialogo che struttura l'incontro tra l'indemoniato e Gesù come una formazione di due eserciti schierati a battaglia, il cui esito viene prospettato fin da subito come vincente per Gesù. Da un lato c'è Gesù, il Figlio del Dio Altissimo8; dall'altro c'è una Legione di demoni. Le forze, dunque, sono chiaramente sproporzionate: uno contro seimila, tanti erano i componenti di una legione. Ma è proprio in questa sproporzione che Marco mette in evidenza la potenza del Mistero che opera in Gesù e tutta la debolezza del mondo degli Inferi. Mentre in quel “Che c'è tra me e te” dice tutta la distanza che intercorre tra i due mondi. Un'espressione questa che ricorre cinque volte nell'A.T.9 e altre tre nel N.T.10 sostanzialmente tutte nello stesso senso, quello di prendere le distanze tra due posizione contrapposte e inconciliabili o, quantomeno, poste su due diversi livelli relazionali.
Una lotta, quella tra Gesù è Legione, che si manifesta sia nel reciproco esorcismo, quello di Gesù contro Legione e quello di Legione stesso contro Gesù, che lo scongiura in nome di Dio si smetterla di tormentarlo; sia in quel “Gli diceva, infatti: <<Esci dall'uomo, spirito impuro>>”. Il verbo all'imperfetto indicativo “Gli diceva” lascia intuire una reiterazione del comando di Gesù, ma nel contempo la resistenza del mondo degli Inferi nei confronti di Gesù. Significativo è il comando di Gesù: “Esci dall'uomo”. Non viene detto, come sarebbe stato più consono alla situazione, “Esci da quest'uomo”, ma “Esci dall'uomo”, dando in tal modo al comando esorcistico una valenza universale, svelando il senso della missione di Gesù: distruggere il potere di satana sull'uomo e instaurare quello di Dio, così com'era agli inizi dell'umanità. Dio, dunque, in Gesù, è venuto a riprendersi ciò che gli apparteneva da sempre. Forse anche per questo la lotta qui sembra essere dura; una durezza che appare sia nella spiegazione del nome “Legione”, “siamo in molti”, quasi una forma di intimidazione contro un Gesù, che invece era solo; sia anche nella resistenza che Legione oppone al comando di Gesù, scongiurandolo di non mandarlo fuori dalla regione e, quindi, di lasciargli in qualche modo il suo regno e il suo potere sull'uomo, ripiegando, alla fine su di una mandria di porci, il luogo dell'impurità per eccellenza. In altri termini, satana è stato ricacciato nel suo regno, quello dell'impurità, che già era stato lasciato intuire fin dall'inizio del racconto, allorché Marco presenta “un uomo in uno spirito impuro”, cioè posseduto dal potere dell'impurità. Caratteristica quest'ultima propria del mondo pagano, considerato impuro dal mondo giudaico.
La finale di questa diatriba tra Gesù e Legione è il precipitare dell'intera mandria di maiali nel lago, affogando, che richiama da vicino Lc 10,18 e 2Pt 2,4. Un'immagine impressionante, che dice sia il respingimento di satana nel suo regno degli inferi, raffigurato dalle profondità delle acque del lago; sia la liberazione del territorio della Decapoli dal potere di satana, rendendolo puro, cioè libero e disponibile, ora, ad accogliere la parola, che verrà diffusa in tutta la Decapoli proprio dall'indemoniato, riscattato da satana e divenuto strumento di Dio (vv.19-20).
Se con i vv.1-13 l'attenzione del lettore era tutta incentrata sull'indemoniato e su Gesù, ora, con questa nuova pericope, delimitata dai vv.14-17, cambia completamente la scena e l'attenzione del lettore è spostata sulla reazione delle persone lì presenti, testimoni degli eventi prodigiosi, e ne viene registrata la reazione di stupore, spavento e, infine, di rifiuto di Gesù di fronte al manifestarsi del suo Mistero.
La scena riportata dai vv.14-17 richiama da vicino quella di Lc 2,15-20, dove i pastori furono testimoni di eventi prodigiosi e ne divennero apostoli e annunciatori, ma gli esiti furono ben diversi. Quelli se ne andarono glorificando Dio, mentre Maria meditava in cuor suo le parole dei pastori, in un clima di gioia e di serenità. Questi, invece, mandriani di porci, fuggono impauriti e divengono annunciatori di eventi per loro incomprensibili e per questo spaventosi. Una fuga, dunque, dal Mistero, che prelude in qualche modo al suo rifiuto (v.17), ma che nel contempo richiama un'altra fuga dal medesimo Mistero, quella delle donne che scoprirono la tomba vuota ed ebbero l'esperienza dell'angelofania: “Ed uscite, fuggirono dalla tomba, poiché un tremore e un'agitazione le possedevano; e non dissero niente a nessuno, perché erano spaventate” (16,8). Paura, stupore, sbigottimento, fuga, silenzio sono le caratteristiche reazioni umane alle teofanie, all'irrompere del divino nella storia dell'uomo. Ciò che, quindi, i Geraseni videro furono degli eventi che hanno lasciato tralucere da loro la potenza di un Dio a loro ancora sconosciuto e che quel “furono spaventati” lascia intuire. Un verbo posto al passivo divino o teologico che rimanda l'azione a Dio stesso. Eventi che vengono fatti risalire a Gesù. Il v.15, infatti, si apre dicendo che i Geraseni “vengono da Gesù” ed è lì, presso Gesù che vedono l'uomo liberato e rigenerato ad una nuova vita. Gesù, quindi, fonte di vita nuova, che porta con sé una Parola capace di trasformare e rigenerare; quella Parola che i Geraseni ancora non conoscono e che sola sa illuminare il Mistero di Gesù, dal quale fuggono e lo respingono, perché vedono in lui muoversi una potenza a loro sconosciuta e distruttiva di quel male, raffigurato dai maiali, di cui essi sono ancora inconsciamente affetti, quello dell'impurità, che crea una cesura tra loro e il nuovo mondo di Dio che Gesù porta con sé.
È indubbio che l'azione dei mandriani, descritta al v.14, sia quella caratteristica di testimoni di eventi prodigiosi, di cui divengono annunciatori e che caratterizza l'azione propria dei missionari, dei primi apostoli e predicatori. Lo dice quel loro andare nella città e nelle campagne a diffondere la notizia; e soprattutto la presenza del verbo “¢p»ggeilan” (apéngheilan, annunciarono, portarono la notizia), un verbo tecnico che descrive l'azione della diffusione del vangelo per testimonianza e che ricorre in tutto il N.T. 45 volte, di cui significativamente 40 volte nei vangeli e negli Atti degli Apostoli; ma solo 5 volte in Marco che, invece, predilige il verbo “khrÚssein” (keríssein, annunciare, predicare), 14 volte, che descrive la prima predicazione apostolica degli eventi storici della salvezza e che comparirà significativamente al v.20, dove l'indemoniato guarito da Gesù “se ne andò e incominciò a predicare nella Decapoli quanto fece per lui Gesù e tutti stupivano”.
Un annuncio, quello dei mandriani, che ha prodotto in qualche modo una loro sequela, la quale di fronte agli eventi constati in prima persona (v.15) e commentati dai primi testimoni (v.16), che in tal modo li fanno rivivere, provocano nei nuovi venuti spavento: “furono spaventati” (v.15c). Che cosa li ha spaventati? L'aver veduto l'indemoniato, che qui viene presentato nella sua nuova identità: vestito, seduto e sano di mente. Marco, a differenza di Lc 8,27b, non dice che l'indemoniato fosse privo di vestiti, ma la sottolineatura che fosse “vestito” se da un lato lo lascia intendere, dall'altro dice come in quest'uomo fosse avvenuta una radicale trasformazione. L'abito nel linguaggio biblico, infatti, ha a che vedere con la condizione propria della persona11, che viene evidenziata dal suo “essere seduto”, che dice il ritrovato stato di quiete esistenziale, che viene contrapposto ai vv.3-5; mentre la sanità mentale gli consente di riprendere le normali relazioni sociali nonché la sua capacità di gestire la propria vita. Un uomo, quindi, non solo restituito alla sua vita precedente, ma rigenerato ad una nuova vita, che lo apre alla sequela e lo trasforma in un apostolo, inviato ad annunciare “quanto fece Gesù per lui”, lasciando stupefatti i suoi ascoltatori.
Il v.17 conclude amaramente la prima missione di Gesù in terra pagana: “E cominciarono a supplicarlo di andarsene dai loro confini”. Non fu, dunque, una cacciata violenta o fatta in malomodo, ma, come lascia intendere quel “incominciarono”, molto insistente e, come si addice ad un uomo potente, da cui fuoriesce una forza sconosciuta, lo supplicarono. E già lo si era capito da quel fuggire dei mandriani (v.14a) e da quel spaventarsi dei Geraseni (v.15c). Ma perché queste fughe dal Mistero? Perché questa sua incomprensione? Perché questo suo rifiuto? Gv 20,9a ne darà la risposta: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura”. È, dunque, la Scrittura, la Parola che illumina il Mistero e aiuta il credente a penetrarlo, la quale cosa non è avvenuta per gli abitanti della regione di Gerasa, avendo visto in Gesù solo un temibile perturbatore del loro quieto vivere, da cui fuoriusciva una inquietante potenza sconosciuta. Diversa, invece, sarà la reazione dell'indemoniato risanato proprio dall'incontro con Gesù, Parola manifestatrice e rivelatrice del Padre (Gv 5,19; 14,10-11), divenendo egli stesso il primo discepolo e il primo apostolo della Decapoli (vv.19-20).
I vv.18-20 sono riservati alla partenza di Gesù dalla Decapoli, con cui si conclude la sua prima missione in terra pagana, che tuttavia non fu infruttuosa, ma lasciò dietro di sé un seme che darà il suo frutto.
Il v.18 si apre raccontando come Gesù “salì sulla barca”, riprendendo per contrapposizione il v.2a dove Gesù, dopo la burrascosa traversata del lago, giunto nel territorio dei Geraseni, “uscì dalla barca”. Viene in tal modo a crearsi una inclusione per contrapposta complementarietà di azione, che racchiude l'intero racconto e nel contempo segna i confini narrativi della missione di Gesù nella Decapoli.
Dopo
la breve sospensione circoscritta ai vv.14-17, l'attenzione dl
lettore è ora riportata nuovamente su Gesù e l'indemoniato
guarito, dove si vedono gli effetti di questa guarigione, che non
sono limitati al suo risanamento psico-fisico (v.15b), ma soprattutto
spirituale. L'indemoniato non fu solo guarito, ma il suo incontro con
Gesù, Parola Vivente del Padre, lo ha anche rigenerato
spiritualmente, dando alla sua nuova vita un nuovo e radicale
orientamento. L'uomo nuovo e rigenerato a vita nuova chiede a Gesù
di diventare suo discepolo, di concedergli la sequela, alla quale
Gesù oppone un rifiuto, che non va colto come un respingimento, ma
come un superamento della sequela stessa, poiché Gesù gli affida
subito una missione, anzi lo invia in missione, alla stregua dei
Dodici e in qualche modo associato a loro. Del resto quest'uomo non
ha bisogno di sequela, poiché egli ha già sperimentato l'incontro
salvifico con Gesù, che lo ha radicalmente trasformato e lo ha
inviato in una missione che è espansiva: dalla sua casa (v.19)
all'intera Decapoli (v.20). Significativi i due verbi che qualificano
la nuova vita apostolica di quest'uomo: “¢p£ggeilon”
(apángheilon,
annunciare) e “khrÚssein”
(keríssein,
predicare), due verbi tecnici che nella chiesa primitiva designavano
l'invio in missione dei predicatori itineranti. Il v.20, infatti,
rileva come l'uomo rigenerato ad una vita nuova “se ne andò e
incominciò a predicare nella Decapoli”. Quel “se ne andò”
dice il suo partire da Gesù, presso il quale era seduto, nella
caratteristica posizione del discepolo nei confronti del suo maestro,
che viene così indicato come il punto di partenza e di origine del
suo nuovo stato di vita, nel senso che egli proviene da Gesù,
validando così la sua predicazione e il suo annuncio. E che la sua
sia un'autentica missione, che ha come mandante Gesù stesso, lo
lascia intuire quel “incominciò a predicare”. Non si tratta,
dunque, di una fiammata per dare sfogo ad un pettegolezzo, ma di un
inizio di una missione che gli è stata affidata e che lascia intuire
come dietro di questa ci sia un progetto di vita, che lo muove per
tutta la Decapoli annunciando le grandi opere di Dio (At 2,11).
La
rinascita di due donne, rigenerate ad una vita nuova (vv.21-43)
Note Generali
In questa seconda parte (vv.21-43) del cap.5 Marco presenta altri due racconti, uno di risuscitazione, quello della figlia di Giairo (vv.22-24a.35-43); l'altro di guarigione, quello dell'emorroissa (vv.24b-34). Non due racconti l'uno di seguito all'altro, ma, come si può rilevare dalla citazione dei versetti, l'uno inserito nell'altro e, in qualche modo, accomunati tra loro.
L'intreccio di due racconti o della loro sovrapposizione è una caratteristica narrativa tutta marciana, presente anche in Matteo e Luca, che tuttavia l'hanno mutuata da Marco; tecnica che viene denominata ad incastro o a sandwich12.
I
due racconti, benché apparentemente molto diversi, hanno in realtà
dei comuni denominatori:
entrambi avvengono lungo il cammino che Gesù sta percorrendo, che è un cammino di salvezza per tutti coloro che egli incontra e si avvicinano a lui. Un cammino che richiama da vicino At 10,38b, dove Luca dice che Gesù “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”.
C'è poi un medesimo contesto, la folla che seguiva Gesù (vv.21b.24b), da cui Giairo esce allo scoperto e confessa apertamente davanti a tutti la sua fede in Gesù (vv.22-24a), intraprendendo un cammino assieme a lui (v.24a), che lo porterà lentamente a sperimentare nel segreto della sua casa-chiesa e nell'intimità di se stesso il Mistero salvifico di Gesù e ne rimane illuminato. Un cammino completamente inverso di quello dell'emorroissa, che, invece, striscia nascostamente nella folla, servendosi del suo anonimato e confessando nell'intimità di se stessa la sua fede in Gesù (v.28). Sarà proprio questo incontro segreto con Gesù (v.27), che la salverà (v.29). Ma nel contempo sarà Gesù stesso a farla lentamente emergere dal tranquillo e rassicurante anonimato della folla (v.30-32) e costringerla ad una pubblica confessione davanti alla folla in cui si era nascosta (v.33). Marco mette così in evidenza il duplice aspetto della fede: essa ha bisogno sia di essere vissuta nell'intimità del proprio cuore che di essere professata apertamente e pubblicamente, richiamando da vicino l'antica formula di fede riportata da Rm 10,9: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo”
C'è, poi, un 12 che accomuna le due donne. Dopo questo lasso di tempo ad entrambe viene restituita la loro vita; l'elemento della fede gioca un ruolo decisivo per tutte due (vv.34.36);
in entrambi i casi la salvezza avviene attraverso il “toccare” (vv.27.41a), che dice l'esperienza salvifica di Gesù da parte delle due donne;
in ambedue i racconti l'esperienza salvifica di Gesù diventa
rivelatrice del suo Mistero: per entrambi i protagonisti, infatti,
la reazione di paura, tremore, timore, turbamento (vv.33.42b),
accompagnate dal comando del tacere (v.43a) è quella caratteristica
delle teofanie, cioè dell'irrompere di Dio nella storia dell'uomo
e, per queste due persone, dell'irrompere di Dio nella loro vita,
che viene radicalmente sconvolta e rigenerata. Uno schema,
quest'ultimo, che richiama da vicino l'esperienza del Mistero di
Gesù nel racconto della trasfigurazione (9,9), dove Gesù, dopo
essersi manifestato, là come qua, a Pietro, Giovanni e Giacomo
(9,2-8), ordina loro di tacere (9,9).
Per
meglio cogliere il senso dei due racconti tra loro interpolati,
preferisco scinderli e analizzarli separatamente, benché, come s'è
visto, siano accomunati da diversi elementi che li legano
strettamente tra loro.
La risuscitazione
della figlia di Giairo (vv.21-24b.35-43)
Testo a
lettura facilitata
Dal
territorio dei Geraseni Gesù ritorna in Galilea (v.21)
21- Ed essendo Gesù nuovamente passato dall'altra parte [nella barca], si raccolse molta folla presso di lui, ed era presso il mare.
Introduzione al racconto della risuscitazione della figlia di Giairo (vv.22-24a)
22-
E viene uno dei capi sinagoga di nome Giairo, ed avendolo visto si
getta ai suoi piedi
23
e lo supplica molto dicendo che la mia figlioletta è alla fine,
affinché, venuto, le imponga le mani, affinché sia salvata e viva.
24a-
E se ne andò con lui.
La
drammatica notizia controbattuta da una fede pervicace (vv.35-37)
35-
Mentre egli ancora parlava, vengono dal capo della sinagoga dicendo
che tua figlia è morta; perché disturbi ancora il maestro?
36-
Ma Gesù, udito il discorso detto, dice al capo sinagoga: <<Non
temere, credi soltanto>>.
37-
E non lasciò (che) nessuno andasse insieme con lui se non Pietro,
Giacomo e Giovanni, il fratello di Giacomo.
Una
discriminazione: con Gesù solo chi crede in lui (vv.38-40)
38-
E vengono alla casa del capo sinagoga; e vede un tumulto e quelle che
piangono e quelle che molto gridavano di dolore,
39-
ed entrato, dice loro: <<Perché strepitate e piangete? La
fanciulla non è morta, ma dorme>>.
40-
E lo deridevano. Ma egli, gettati tutti fuori, prende il padre della
fanciulla e la madre e quelli con lui ed entra dove c'era la
fanciulla.
Lo
svelamento del Mistero: Gesù fonte della vita (vv.41-43)
41-
E presa con forza la mano della fanciulla, le dice: <<Talithà,
kum>>, che tradotto è: “Fanciulla, ti dico, svegliati”.
42-
E subito la fanciulla si alzò e camminava; era infatti di dodici
anni. E furono [subito] sconvolti da grande turbamento.
43-
E ordinò loro con veemenza affinché nessuno sapesse questo; e disse
che le fosse dato da mangiare.
Commento ai vv.21-24b.35-43
Dal
territorio dei Geraseni Gesù ritorna in Galilea (v.21)
La seconda parte del cap.5 si apre con il v.21 che va considerato di transizione perché, concludendo il racconto dell'indemoniato di Gerasa (vv.1-20), traghetta il lettore verso una nuova sezione narrativa dove vengono presentati altri due miracoli, uno di risuscitazione (vv.22-24b.35-43) e l'altro di guarigione (vv.24b-34).
Marco, tuttavia, non crea uno stacco netto con i precedenti racconti, ma dà una continuità logica all'intera sua narrazione, scandita da un movimento pendolare, iniziatosi con 4,35, dove Gesù aveva comandato ai suoi di “passare dall'altra parte”, proseguito poi con 5,1, dove Gesù giunge “dall'altra parte” ed infine, qui al v.21, dove, concludendo la sua missione nella regione dei Geraseni (v.1), in terra pagana, ritorna nuovamente “dall'altra parte”, cioè in Galilea, presso il mare. Espressione quest'ultima, che si ripete sovente in Marco e descrive genericamente gli spostamenti di Gesù durante la sua missione galilaica, che si muove prevalentemente attorno al lago di Genezaret e che ha come punto di riferimento logistico, secondo Mt 4,13, Cafarnao, dove Gesù inizia la sua attività (1,21) e dove la concluderà in 9,33 dirigendosi, poi, verso Gerusalemme (10,1).
Attorno a Gesù, annota l'evangelista, “si raccolse molta folla presso di lui”. Il termine folla compare nel racconto marciano ben 38 volte e indica la presenza anonima di moltitudini di persone che si muovono attorno a Gesù e con Gesù, così da costituirne una costante. Dove c'è Gesù, là ci sono le folle, che preludono ai grandi movimenti delle masse di convertiti, che si raduneranno nella chiesa attorno ai Dodici (At 2,41; 4,32; 11,24b). Non va mai dimenticato che i vangeli non narrano la biografia di Gesù, ma riflettono in loro stessi la situazione storica della chiesa, che ha la coscienza di operare in nome e per conto di Gesù, a cui fa costantemente riferimento e di cui si sente la naturale erede.
Introduzione al racconto della risuscitazione della figlia di Giairo (vv.22-24a)
I vv.22-24a introducono il racconto della risuscitazione della figlia di Giairo, contestualizzandolo. Essa è figlia di un capo sinagoga, il cui compito si espletava in particolar modo durante il servizio liturgico nella sinagoga, mantenendone l'ordine, scegliendo coloro che guidavano la preghiera, accertandosi del minjan, il numero legale di dieci persone perché la preghiera pubblica fosse condotta validamente; sceglieva quelli che leggevano le Scritture e quelli che predicavano. Alle sue dipendenze vi era un hazzan, un inserviente, che accudiva alle faccende materiali come il togliere i rotoli della Legge dall'armadio, insegnava ai bambini e infliggeva le pene corporali ai condannati dal sinedrio locale.
Il suo nome, Giairo, è la forma grecizzata di quello ebraico Yair13, letteralmente “Dio fa splendere, brillare”, quasi a preludere la luce della risurrezione, che investirà quest'uomo alla ricerca di Gesù e di una fede in lui. Questi cade ai piedi di Gesù. Il verbo qui riportato è “p…ptei” (pípto), che ricorre in Marco otto volte con l'unico senso di cadere giù, cadere per terra, come il seme nella parabola del Seminatore, dove ricorre 4 volte, e ancor più significativamente compare in 14,34-35 in riferimento a Gesù nel Getsemani: “e dice loro: <<L'anima mia è triste fino alla morte; rimanete qui e vegliate>>. E andato avanti un po', cadeva sulla terra e pregava affinché se fosse possibile l'ora passasse oltre da lui”. Qui l'espressione “cadeva sulla terra e pregava” dice lo stato di prostrazione psico-fisica e spirituale in cui Gesù si trovava; un cadere che è accompagnato dalla preghiera e ricalca in qualche modo lo stato d'animo di Giairo, la cui figlioletta era gravemente ammalata e ormai giunta alle sue ultime ore di vita. Anche lui “si getta ai suoi piedi e lo supplica molto”. Non si tratta, pertanto, di un atto di adorazione davanti a Gesù, ma descrive lo stato di prostrazione di quest'uomo, svuotato della sua vita, che ormai se ne sta andando insieme a quella della propria figlia; ma dice nel contempo anche tutta la sua fiducia in Gesù, rimettendosi completamente nelle sue mani. Gesù, infatti, ha riscontrato la profondità della fede di quest'uomo e la sosterrà nel momento in cui essa sarà messa a dura prova dalla notizia della morte della figlia (vv.35-36). Matteo, contrariamente agli altri due sinottici, qui usa il verbo “proskunšw” (proskunéo), che sottolinea, invece, l'atto di adorazione di questo capo, di cui Matteo non riporta il nome, vedendo forse in questo anonimato tutti quei notabili giudei che hanno riconosciuto e accolto Gesù divenendone discepoli, come Nicodemo o Giuseppe d'Arimatea (Gv 19,38-40). L'uso dell'imperfetto indicativo che Matteo fa di questo verbo dice come questa “adorazione” di Gesù non fosse stata soltanto occasionale o di interesse, ma che questa continuava ne tempo, evidenziando una scelta esistenziale di questo uomo.
Il v.23, pur nella sua stringatezza, è molto denso e ricco di significati. Si tratta di una supplica che, presentato il quadro drammatico della situazione, “la mia figlioletta è alla fine”, punta ad ottenere quattro obiettivi: viene richiesto a Gesù di entrare in casa di Giairo; di imporre le mani sulla figlia, che sia salvata e, infine, continui a vivere. Ciò che di fatto qui si prospetta è una forte esperienza salvifica di Gesù, realizzata per mezzo della fede. Tra le richieste formulate da Giairo, vi è anche quella di “imporre le mani”. Un gesto in uso nell'antichità presso i guaritori e che anche Gesù probabilmente era solito fare (6,2). Il termine “mano” nelle lingue semitiche ha anche il senso di “potenza, potere”. Quindi lo stendere le mani significa trasmettere un potere, far defluire da se stessi una potenza e una forza vitale su chi le mani vengono stese14. Un Gesù, quindi, che qui è colto come potenza di Dio capace di generare ad una nuova vita coloro che credono fermamente in lui, come meglio si vedrà alla fine del racconto (vv.42b-43), che va ben oltre ad un semplice miracolo di risuscitazione, ottenuto per mezzo della fede. Infatti, Gesù qui, a differenza dell'emorroissa (v.34), non dirà a Giairo “la tua fede ti ha salvato”, ma imporrà soltanto il silenzio su di un'esperienza personale di Dio ottenuta nella fede, così come imporrà il silenzio a Pietro, Giacomo e Giovanni dopo l'esperienza della trasfigurazione. Presenti questi tre anche qui in questo racconto e testimoni della risuscitazione della fanciulla, gli unici ammessi, assieme ai genitori della fanciulla, nel segreto della stanza dove Gesù manifesterà la sua potenza e con questa la sua vera identità.
Ci si trova, dunque, qui di fronte ad un cammino di fede, iniziatosi con l'incontro con Gesù, che non abbandona Giairo, ma va con lui (v.24a), lo accompagna lungo questo cammino e lo sostiene nella dura prova della notizia della morte della figlioletta (v.35b), sollecitandolo a continuare a credere (v.36) e, quindi, di andare oltre, fino ad entrare nell'intimità della sua casa, dopo essersi liberato dal rumore della folla, che lo derideva. E lì dentro la sua casa, all'interno dell'intimità della sua coscienza e del suo spirito viene dischiuso al Mistero di Gesù, realizzando la promessa racchiusa nel suo stesso nome “Giairo”, “Dio ti illumina”.
Il v.35 si apre riallacciandosi al racconto dell'emorroissa, interpolato con questo, e riprendendo in tal modo le fila da questo interrotte e continuando il racconto della figlia di Giairo: “Mentre egli ancora parlava”. Il riferimento qui è a ciò che Gesù stava dicendo all'emorroissa: “Figlia, la tua fede ti ha salvata; vai in pace e sta sana dalla tua malattia” (v.34). Il v.35a, pertanto, va considerato di transizione tra i due racconti sovrapposti tra loro.
Ora con il v.35b continua il cammino di fede di Giairo, che sembra interrompersi bruscamente sia per la drammatica notizia della morte della figlioletta che per il pressante sollecito a smettere di credere e di sperare, perché nessuno può vincere la morte: “perché disturbi ancora il maestro?”. Come dire lascia perdere e rassegnati; è tutto finito.
A fronte di un simile atteggiamento disfattista, dettato dall'incredulità, i vv.36-37 riportano la doppia reazione di Gesù: da un lato Gesù, contrariamente all'invito dei presenti, a smettere di sperare e di credere, controbatte sollecitando con tono imperativo a non temere, ma di credere soltanto; in altri termini di continuare il cammino di fede intrapreso con il suo incontro; dall'altro Gesù opera una discriminazione: tra tutta la folla e tra gli stessi Dodici egli prende con sé soltanto Pietro, Giacomo e Giovanni, che Gal 2,9 riconosce come le colonne della chiesa di Gerusalemme e che si ritroveranno anche nel racconto della trasfigurazione (9,1-10), sempre e soltanto loro tre (9,2). Il motivo di questa radicale discriminazione, tale da “non lasciare (che) nessuno andasse insieme con lui”, e che ha come unico criterio di selezione la fede, è che ora si sta per entrare nella casa di Giairo dove Gesù, in questa intimità che richiama la casa-chiesa, manifesterà se stesso quale potenza di Dio che rigenera alla vita chi crede in lui. Solo, dunque, chi crede può accedere al Mistero.
I vv.38-40 costituiscono lo sviluppo del v.35b: la notizia della morte della figlioletta accompagnata dal pressante invito a lasciare ogni speranza, viene ora confermata nel nuovo scenario: Gesù entra e trova già la casa piena dei professionisti del pianto e del dolore, che strepitavano per la morte della fanciulla15. Tutto lascia intravvedere la prospettiva di una fine irreversibile. Ci si trova in una casa dove non si crede alla risurrezione dei morti, non si crede in una possibilità di una nuova vita, perché la morte, per chi non crede in Gesù, pone un punto fermo alla vita. E come là Gesù sollecitava Giairo a continuare a credere nonostante tutto, liberandosi della folla e operando una selezione tra i suoi stessi discepoli, così ora, parimenti, Gesù opera un'ulteriore selezione in modo più drastico e deciso, buttando tutti fuori tutti quelli che lo deridevano16. Erano persone che già si trovavano nella casa di Giairo e già avevano constatato l'irreversibile stato di morte della fanciulla e che nel deridere la parola di Gesù esprimevano la loro ferma e invincibile incredulità. Per questo non c'è posto per loro nella casa, che è metafora della comunità credente in un Gesù che è risurrezione e vita per chi crede in lui. Per questo vengono espulsi dalla chiesa, perché non c'è spazio per l'incredulità. Il non credere al Gesù risorto e alla sua capacità di trasfondere la vita nel credente esclude dalla casa-chiesa-comunità credente. Si opera, dunque, qui una sorta di scomunica.
L'importanza del credere in un Gesù risorto e nella risurrezione dei morti era vitale per la chiesa primitiva. Ce ne dà testimonianza 1Cor 15,12-18: “Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti”. Qui Paolo lega strettamente la risurrezione dei morti a quella di Cristo, con la stringente logica della causa-effetto. Per cui negare l'effetto “risurrezione dei morti”, ipso facto, significa negare la causa, Cristo risorto, che è centrale e imprescindibile dogma di fede dell'intera comunità credente. Sostenendo il contrario si viene scomunicati. Da qui il duro monito dell'essere buttati fuori.
Il
v.40b costituisce un ulteriore cammino di fede, quello definitivo
dove il credente illuminato dalla fede può qui contemplare il
Mistero di Dio, che si rivela nel Risorto. Gesù, dopo essersi
liberato dagli increduli, che vanificano ogni tentativo di salvezza
da parte di Dio, “prende
il padre della fanciulla e la madre e quelli con lui ed entra dove
c'era la fanciulla”.
Quindi qui si è entrati nell'ultimo stadio della fede, dove si fa
l'esperienza viva del Risorto e della vita che viene da lui per ogni
credente: “Io
sono la risurrezione e la vita; chi crede in me anche se morisse
vivrà,
e ognuno che vive e crede in me non morirà per sempre.
Credi questo? ”
(Gv 11,25-26). È il pressante interrogativo-appello del Gesù
giovanneo a Marta, quale ultimo stadio della fede prima della
risuscitazione di Lazzaro, che in qualche modo, posta a ridosso della
passione e morte di Gesù, ne preannunciava l'imminente risurrezione.
E che di risurrezione Marco qui intenda parlare lo si arguisce non tanto dalla risuscitazione della fanciulla, quanto dalla presenza dei due verbi tecnici, che presso la chiesa primitiva la indicavano: “œgeire” (égheire, svegliati) e “¢nšsth” (anéste, si alzò) e che ritroviamo parimenti in un frammento di un antichissimo inno che ci viene riportato da Ef 5,14b, probabilmente recitato o cantato in occasione del battesimo dei catecumeni: “Svegliati, tu che dormi, e alzati dai morti, e Cristo ti illuminerà”. È esattamente, in sintesi, ciò che avviene in questa stanza dove giace la fanciulla, che non è morta, ma dorme. E Gesù la risveglia dal sonno dell'incredulità, prendendole vigorosamente la mano, metafora di una forte esperienza del Risorto, che ha lasciato i segni nei presenti, quelli caratteristici della teofania: “E furono [subito] sconvolti da grande turbamento” (v.42b). E Giairo, il capo sinagoga, ne fu illuminato, così come attesta il suo stesso nome: “Dio ti illuminerà”. Il tutto viene accompagnato dal comando del silenzio, perché l'esperienza del Mistero non venga derisa e vanificata. Un comando che ritroviamo anche nel racconto della Trasfigurazione, dove, dopo l'esperienza del Mistero di Gesù, fu comandato a Pietro, Giacomo e Giovanni, di non parlarne con nessuno (9,9). Mentre Mt 7,6 solleciterà la sua comunità a non parlare del culto, della fede e della vita intracomunitaria ai non credenti, perché queste cose sante non vengano da loro derise: “Non date le cose sante ai cani e non gettate le vostre perle davanti ai porci, perché non le calpestino con le loro zampe e poi si voltino per sbranarvi”. Il Mistero, proprio perché ha a che vedere con l'ineffabilità del Divino va protetto e avvolto dal velo del silenzio, perché non venga banalizzato e profanato, così come, Maria di fronte al disvelarsi del Mistero, meditava tutte queste cose nel suo cuore (Lc 2,19.51).
Accanto
a comando del silenzio segue quello che “fosse dato da mangiare”
alla fanciulla. Dopo l'esperienza della fede e del Mistero di Gesù,
che ha pervaso e illuminato la vita dei presenti, trasformandoli in
testimoni di tale Mistero, questo secondo comando ricorda come questa
salvifica esperienza di fede vada costantemente alimentata, perché
l'originale illuminazione non si spenga.
La guarigione
dell'emorroissa (vv.24b-34)
Testo a lettura
facilitata
Preambolo al racconto della guarigione dell'emorroissa (v.24b)
24b-
E lo seguiva molta folla e lo opprimevano.
La
presentazione del grave stato di vita dell'emorroissa (vv.25-26)
25-
E una donna, che era in un flusso di sangue da dodici anni
26-
e che aveva sofferto molto da parte di molti medici e aveva speso
tutte le sue sostanze e non aveva avuto nessun vantaggio ma era
andata assai peggio,
Il
segreto incontro con Gesù la porta alla salvezza (vv.27-29)
27-
avendo udito di Gesù, andata nella folla da dietro, toccò il suo
mantello;
28-
e diceva infatti che qualora anche toccassi le sue vesti, sarò
salvata.
29-
E subito fu inaridita la fonte del suo sangue e prese conoscenza che
era stata risanata nel corpo dalla malattia.
La
fede portata allo scoperto a testimonianza di tutti (vv.30-34)
30-
E subito Gesù, conosciuto in se stesso la forza che era uscita da
lui, rivoltosi alla folla, diceva: <<Chi ha toccato i miei
vestiti?>>.
31-
E gli dicevano i suoi discepoli: <<Guarda la folla che ti
opprime e dici: “Chi mi ha toccato?”.
32-
E si guardava attorno per vedere quella che aveva fatto questo.
33-
Ma la donna, presa paura e tremando, sapendo ciò che le era
accaduto, venne e si gettò davanti a lui e gli disse tutta la
verità.
34-
Quello le disse: <<Figlia, la tua fede ti ha salvata; vai in
pace e sta sana dalla tua malattia>>.
Commento
ai vv.24b-34
Lungo il cammino di fede che porta Giairo, l'illuminato da Dio, a superare gli ostacoli frapposti (vv.35b.38.40a) tra lui e la sua esperienza salvifica di Gesù (v.42), così che Gesù lo solleciterà a rimanere saldo nella sua fede (v.36) e a continuare a credere nonostante gli eventi avversi, compare un altro personaggio, compagno di Giairo in questo cammino di fede e di salvezza: una donna, che è chiamata a dare aperta testimonianza alla sua fede in Gesù, quella stessa fede che consentirà a Giairo, superate le varie prove, a sperimentare nell'intimità della sua casa e di se stesso il Mistero di Gesù e con questo la luce della salvezza. Per entrambi la fede in Gesù è comune fonte di salvezza e di illuminazione.
Il v.24 è scandito in due parti: la prima chiude la pericope introduttiva al racconto della figlia di Giairo, con Gesù che s'incammina assieme al capo sinagoga verso la sua casa (v.24a); la seconda, richiamandosi alla folla che seguiva Gesù, opprimendolo (v.24b), riprende lo stesso contesto creato dal v.21b, da dove è emerso anche Giairo (v.22a), dando così ai due racconti il medesimo contesto, ma nel contempo introduce l'anonimo personaggio che sarà il protagonista inconsapevole di questo racconto dell'emorroissa, in cui essa si muoverà furtiva, nascosta nel suo anonimato e da cui verrà fatta lentamente emergere: la folla. Questa benché presentata con lo stesso verbo caratteristico della sequela del discepolato, “ºkoloÚqei aÙtù” (ekolútzei autô, lo seguiva), tuttavia, viene definita come “opprimente”. Una folla, quindi, che pur seguendo Gesù, tuttavia non dà spazio a chi lo segue di testimoniare apertamente la propria fede, livellando e nascondendo tutti nel grigiore del medesimo anonimato. Soltanto l'esperienza di Gesù, metaforizzata qui da quel tocco delle sue vesti da parte dell'emorroissa e dal suo sentirsi guarita, consentirà alla donna di emergere dalla folla, divenendo in tal modo una vera discepola di Gesù. Da questo momento essa non non farà più parte dell'anonima folla, che non ricomparirà più se non in 6,34, in un diverso contesto completamente nuovo, quello della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci (6,34-44).
Con i vv.25-26 si apre il racconto dell'emorroissa, che
è sostanzialmente identico a quello di Giairo. Anche là, come qua,
vi era una folla che accompagnava Gesù (vv.21b.24b) e sul suo
cammino compare come d'improvviso Giairo con il suo dramma
esistenziale (vv.22-24); similmente qui, compare sul cammino di Gesù
una donna, di cui Marco, con pochi tocchi descrittivi, presenta il
suo grave stato di salute e la sua drammatica condizione
esistenziale:
“era in un flusso di sangue da dodici anni ”
“aveva sofferto molto da parte di molti medici ”
“aveva speso tutto quello che aveva”
“non aveva avuto alcun giovamento, ma piuttosto era andata peggio”
Di questa donna Marco dice che si trovava in un flusso di sangue da dodici anni. Il verbo all'imperfetto indicativo dice la persistenza di questo flusso, che aveva segnato profondamente la sua vita e che in modo persistente continuava ad esserci. È una donna, dunque, che non ”aveva” un flusso di sangue, ma era immersa in un flusso di sangue, che come un'onda di piena aveva travolto la sua vita. Un’onda di sangue che l’ha resa cultualmente impura e ha decretato la sua morte sociale: nessuno poteva avvicinarsi a lei altrimenti ne sarebbe rimasto contaminato e avrebbe dovuto sottoporsi, poi, al rituale della purificazione (Lv 15,25-30). Inoltre quest’onda la rendeva sterile e ciò era visto come un castigo e una maledizione di Dio (Dt 7,14; Sal 127,3-4). Non a caso il testo greco definisce questa sua sventura con il termine m£stix (mástix), che letteralmente significa frusta, flagello, calamità.
Marco sottolinea che “aveva sofferto molto da parte di molti medici “. Quindi la sofferenza più che dal male le proveniva dai medici, dal suo affidarsi agli uomini, che non sono stati in grado di dare una soluzione alla sua sofferenza, anzi ne avevano aggiunte altre17.
Marco pone qui la premessa di un passaggio fondamentale compiuto dalla donna: dai medici a Gesù. L’incapacità degli uomini, quindi, spinge la donna a cercare altrove la sua salvezza. L’uomo non può dare salvezza, ma solo sofferenza. Non è lui che ha la chiave della vita.
La sua ricerca di salvezza nell’ambito dell’orizzonte umano l’ha portata a dilapidare tutte le sue sostanze. Quindi, alla vita che se ne sta andando lentamente in quel flusso di sangue si aggiunge anche il suo depauperamento di beni essenziali per la vita stessa. E tutto ciò senza trarne alcun beneficio, anzi le cose peggioravano lentamente, ma inesorabilmente.
La donna, dunque, era caduta in un baratro senza ritorno. Ogni speranza le era stata tolta da quel flusso impuro, che la stava spingendo inevitabilmente verso la morte.
A questa donna disperata, ormai priva di ogni speranza, ma non rassegnata alla sua triste sorte, i vv.27-29 prospettano ora una soluzione inattesa, che non le proviene dalla scienza umana, che ha clamorosamente fallito, ma dall'aver udito di Gesù. È, dunque, dall'ascolto della Parola che le proviene la salvezza e che la muove, sia pur nascostamente, verso Gesù. Un muoversi verso Gesù che dice il cammino interiore e segreto di fede di questa donna, nascosta in mezzo alla folla. Una fede, dunque, ancora immatura e non ancora pronta alla testimonianza, ad uso e consumo proprio, ma che comunque nasce dall’ascolto e che è mossa dalla speranza di una vita diversa, migliore, nuova. Soltanto l'incontro con Gesù e l'esperienza della salvezza sapranno farla emergere dalla folla per una piena testimonianza. Un incontro ed una esperienza di salvezza significati in quel toccare il suo mantello e le sue vesti, che nel linguaggio biblico indicano la condizione e lo stato di vita della persona che li indossa18. Questo toccare il mantello, pertanto, dice il toccare, cioè l'incontrare, il fare esperienza di Gesù.
Il gesto del “toccare” corrisponde alla diffusa credenza che nel guaritore fosse presente una potenza divina, per cui con il toccarlo si creava una sorta di flusso vitale di travaso energetico. Questo toccare Gesù esprime nella donna il desiderio di incontro con Lui. Nonostante, quindi, le credenze il gesto della donna non è magico, ma espressione di fede in Gesù. Saranno proprio le parole della donna che accompagnano da vicino il gesto a darne spiegazione: “Se toccherò anche solo le sue vesti sarò salvata”. Il toccare della donna, dunque, è carico di speranza ed è mosso dalla piena e totale fiducia in Gesù, da cui scaturirà la sua salvezza. È significativo, infatti, il verbo “swq»somai” (sotzésomai, sarò salvata), posto al passivo teologico o divino, che nel linguaggio dei vangeli rimanda l'azione del salvare a Dio stesso.
Rilevante è, infine, la posizione intermedia che occupa il v.28, tra il gesto del toccare (v.27b) e l'immediata guarigione che ne consegue (v.29). Esso acquista un particolare significato non solo perché motiva il gesto del toccare della donna, ma anche perché svela la fede che sta nascendo nell'intimo di questa donna, dopo “aver udito di Gesù”. Dalla Parola accolta, dunque, sgorga la fede e dalla fede la salvezza, secondo un processo attestato da Rm 10,17: “La fede dipende dunque dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo”.
Il v.29 è scandito in due parti: la prima riporta gli effetti del toccare da parte di questa donna, sospinta verso Gesù dalla Parola accolta in lei, da cui è sgorgata la sua fede: “E subito fu inaridita la fonte del suo sangue”. Non è dunque il flusso di sangue che viene fermato, bensì la sua fonte e quindi la causa di questo flusso. Una guarigione, quindi, che va all'origine del male e lo sradicata completamente, restituendo a questa donna, considerata impura e ghettizzata sia socialmente che religiosamente, la sua vita e con questa la sua dignità. In questa guarigione Marco segue un processo di rigenerazione spirituale ed esistenziale che nasce dall'ascolto della Parola (1Pt 1,23), che porta all'incontro e all'esperienza di Gesù e, infine, al pieno ristabilimento della persona, ricostituita nella sua dignità originaria di immagine e somiglianza di Dio.
La seconda parte del v.29 viene rilevato il processo di interiorizzazione della salvezza, preceduto dalla presa di coscienza della rigenerazione che la donna ha subito nell'incontro con Gesù: “prese conoscenza che era stata risanata nel corpo dalla malattia”. Il verbo qui usato per esprimere questa coscientizzazione della donna è “œgnw” (éghno), cioè “conobbe”. Un verbo questo che nel linguaggio biblico significa “fare esperienza”. Una salvezza, quindi, che questa donna ha esperimentato concretamente nel suo corpo. L'aver incontrato Gesù nell'ascolto della Parola non l'ha coinvolta soltanto spiritualmente e misticamente, ma l'ha trasformata e rigenerata anche nella quotidianità della sua vita. È tutto il suo essere che è stato reso nuovo: “risanata nel corpo dalla sua malattia”. La guarigione del corpo, pertanto, diventa, come nel racconto del paralitico (2,1-12), segno di quella avvenuta ancor prima nello spirito. Una guarigione-rigenerazione, che il verbo al passivo teologico “™xhr£nqh” (exerántze, fu inaridita) rimanda a Dio stesso e che la donna ha trovato nella Parola accolta.
In tutta questa vicenda Gesù è rimasto completamente passivo e si è lasciato manipolare da questa donna disperata. Egli, infatti, non ha dato alcun consenso, non ha fatto nessun gesto, né ha detto alcuna parola. Eppure egli ne è fattivamente coinvolto e a sua insaputa, senza avvedersene, guarisce questa donna di cui non conosce neppure il volto né la sua sventurata storia. Si è, pertanto, fuori dagli schemi narrativi delle guarigioni, dove Gesù prende l'iniziativa. Qui il processo è inverso: non è Dio che va verso l'uomo, ma l'uomo che va verso Dio, dopo averlo incontrato sul cammino della propria vita nella Parola accolta.
Che cosa, dunque, ha provocato la guarigione della donna? La risposta è data da Gesù stesso “Figlia, la tua fede ti ha salvata”. Dunque, non la volontà di Gesù, non quella di Dio, ma la fede di questa donna è stata la causa della sua salvezza. La fede è la chiave che scatena la potenza salvifica di Dio, che rimane sempre e comunque un suo dono, come ricorda Gv 3,16: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”. Gesù, dunque, dono di amore del Padre, da cui defluisce la salvezza per mezzo della fede.
Con la raggiunta guarigione da parte della donna termina la prima parte del racconto, dove questa è la protagonista principale, mentre Gesù subisce, del tutto ignaro, la sua azione, che di fatto è un personale cammino di fede, che la porta dall'ascolto della Parola all'incontro con Gesù e all'esperienza della della salvezza. Il tutto si svolge all'interno del dramma della donna; nessun segno appare all'esterno, se non la sua interiore presa di coscienza di essere stata guarita. Tuttavia, la fede, quale apertura trasformante della propria vita a Dio, che in essa viene accolto, non è un bene personale da consumarsi nel silenzio della propria interiorità e coscienza, ma va anche testimoniata apertamente. Sarà questa seconda parte del racconto (vv.30-34) che attiverà questo processo di pubblicizzazione della fede in questa donna, che la farà emergere dall'anonimato della folla e la farà diventare una testimone di Gesù, colto quale fonte di salvezza per chi crede in lui.
Al “subito” con cui si apre il v.29, dove al toccare della donna viene fatto seguire la sua immediata guarigione, corrisponde il “subito” con cui si apre il v.30, dove Gesù, parimenti alla donna, prende coscienza in se stesso di una forza che era uscita da se stesso. “Un subito” che lega i due eventi strettamente correlati tra loro. E parimenti alla donna che prende coscienza del flusso di sangue arrestatosi in lei, così Gesù si arresta nel suo cammino verso la casa di Giairo e interroga la folla: “Chi ha toccato i miei vestiti?”. Di quale tocco Gesù sta parlando? Sarà il v.31, con una certa ironia, a mettere in evidenza la vera natura di questo tocco. Ciò di cui Gesù parla non è un tocco fisico, proveniente da una folla che lo segue, si, ma la sua è soltanto una sequela opprimente (v.24b), che non va al di là del semplice e involontario quanto inconsapevole tocco fisico, proprio di una fede superficiale, che di Gesù coglie solo il suo aspetto esteriore, quello del guaritore sensazionale da cui si può trarre un qualche vantaggio personale o quanto meno soddisfare la propria curiosità. Una fede che il Gesù giovanneo, in una simile situazione, condanna: “Ora, mentre era in Gerusalemme nella pasqua, per la festa, molti credettero nel suo nome, osservando i suoi segni che faceva. Ma egli, Gesù, non si fidava di loro poiché egli conosceva tutti” (Gv 2,23-24). Una fede che ha bisogno del sensibile e del sensazionale per credere, è una fede fragile, di cui Gesù non si fida.
Gesù, dunque, chiede “chi” lo ha toccato. Non è una domanda che punta a soddisfare una curiosità, bensì tende a stabilire un rapporto diretto e personale con “chi” lo ha intenzionalmente toccato. Gesù, pertanto, “si guardava attorno per vedere colei che aveva fatto questo”. Quel “si guardava attorno”, all'imperfetto indicativo, dice la persistenza di questo suo guardare che, a tal punto, non è più una semplice indagine, ma una sorta di selezione che sta operando sulle persone lì presenti, alla ricerca della fede che si nasconde tra loro per farla emergere.
A tale tentativo di Gesù la donna risponde con la paura e il tremore. È la reazione dell’uomo al mondo del divino nel suo irrompere nella storia. Il turbamento, quindi, che ha pervaso la donna nasce dalla coscienza che la sfera del divino ha totalmente invaso e pervaso la sua esistenza, sconvolgendola radicalmente e tale da non poter più essere nascosta, così che essa “venne e si gettò davanti a lui”. Il cammino di fede della donna, iniziato nell’anonimato della folla e percorso nel segreto della propria coscienza, si è ormai concluso e l’incontro con Gesù la fa emergere a testimonianza di tutti.
Ora la donna è prostrata ai piedi di Gesù, un gesto in cui essa riconosce la sua creaturalità e la divinità di Gesù, e “così gli disse tutta la verità”. Con questo suo “dire tutta la verità” la donna si apre totalmente a Gesù e inizia un dialogo profondo con lui, che esprime pienezza di comunione e il raggiungimento di una fede piena e matura, ma nel contempo diviene testimone dell'evento di salvezza che la trasformata.
A questa donna, giunta alla fine di un cammino di interiore maturazione di fede, chiamata ad emergere in una pubblica testimonianza, Gesù risponde che proprio questa sua fede l’ha salvata. Entrambi, dunque, riconoscono la potenza che, in vario modo ha operato in loro: la fede. Ed è proprio questa fede che li ha fatti incontrare e ha fatto scaturire tra loro un dialogo salvifico. Un incontro e un dialogo che hanno rigenerato non solo il corpo della donna, ma anche tutto il suo essere, aprendola a Dio e dando un nuovo senso alla sua vita.
Gesù si rivolge a lei in termini familiari e confidenziali, chiamando la donna con l’appellativo di “figlia”, evidenziando non solo tutta la tenerezza di Dio nei confronti di chi, perduto è stato poi ritrovato, ma altresì, a pieno titolo “figlia”, perché generata nella fede a Dio dalla Parola accolta in lei, che la colloca tra la vera parentela di Gesù (3,34-35), la cui genesi è descritta da Gv 1,12-13: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati”.
L’incontro con la donna, ormai illuminata e giunta alla pienezza della fede, termina con le parole di congedo di Gesù: “vai in pace e sta sana dalla tua malattia”. L’espressione “va in pace” è una forma di benedizione che esprime l’augurio di una pienezza di vita che proviene da Dio, ma che nel contempo dice la nuova condizione di vita di questa donna nei suoi ritrovati rapporti con Dio; rapporti di riconciliazione che si fa comunione di vita con Lui: “Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo” (Rm 5,1). La seconda espressione, invece, è un augurio di persistere lungo il cammino della sua vita ritrovata.
Note
1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La “Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
2Sulla questione cfr. il mio commento al cap. 4,37, pag. 21
3È probabile che queste variazioni all'interno del vangelo marciano siano state apportate da Marco stesso in successive e molteplici ritrascrizioni e aggiornamenti della sua opera originale. Il suo vangelo, infatti, non ha avuto molta diffusione nella chiesa primitiva, in quanto opera completamente nuova e originale e, quindi, nessuno aveva molto interesse a modificare il suo vangelo, che doveva rappresentare una sorta di punto di riferimento per la prima predicazione orale. Altri autori, come Matteo, Luca e Giovanni si sono susseguiti a sua imitazione, ma, seppur prendendo a modello del proprio vangelo quello marciano, tuttavia, hanno composto un'opera tutta loro personale. Matteo, poi, che in linea temporale ha seguito Marco, ha composto, inizialmente, più che un vangelo vero e proprio sul modello marciano, soltanto una raccolta di detti e parabole di Gesù, organizzati in cinque grandi discorsi, che probabilmente costituiscono la vera fonte Q. In tal senso sembra testimoniarci lo stesso Papia (70-150 d.C.), vescovo di Gerapoli, con testimonianza riportataci da Eusebio in Historia Ecclesiastica, III, 39,16: “Quanto a Matteo dice (Papia) queste cose: Matteo pertanto mise in ordine le cose dette in lingua ebraica, ma ognuno le interpretò come era capace”. Quindi si trattava di “lÒgia” (logia), cioè di detti, sentenze e parabole, che Matteo deve aver raccolto presso le comunità giudeocristiane, riordinandole in cinque grandi discorsi. Solo successivamente Matteo ha intercalato ai cinque grandi discorsi la narrazione delle opere di Gesù, probabilmente verso la fine del I sec. o primi anni del II sec.
4Gli scavi archeologici hanno portato alla luce tra i resti degli edifici del periodo romano due teatri, un ippodromo, una basilica, delle terme e una suggestiva via colonnata e una chiesa bizantina. In epoca neotestamentaria Gadara è stata uno dei luoghi più importanti della cultura greca e ha dato i natali a poeti e retori famosi quli Menippo, Meleagro e Apsne, ma anche a filosofi come il cinico Enomao e l'epicureo Filodemo. L'unico accenno all'ebraismo da parte di un poeta di Gadara, Meleagro (II-I sec. a.C.) contiene dell'ironia antiebraica. Gadara fu per molto tempo teatro di aspre controversie tra Ebrei e pagani, così che all'inizio del I sec. d.C. Fu completamente distrutta dal re giudaico Alessandro Ianneo e con lo scoppio della guerra giudaica (66-73 d.C.) Gadara fu rasa al suolo dagli insorti. Cfr. la voce “Gadara” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005
5Cfr. la voce “Gadara” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005
6Il lago di Galilea, è chiamato da Mt 4,18; 15,29 e Mc 1,16; 7,31 “mare di Galilea” o più semplicemente “mare”, “yam” in ebraico. Con questo termine, infatti, viene definita talvolta la pluralità dei fiumi che bagnano i territori di una regione (Ger 51,36); oppure viene indicato un fiume importante come il Nilo (Na 3,8); non solo, ma anche i grandi bacini in bronzo, ricolmi d'acqua, che si trovano nel Tempio, erano definiti con il termine “yam”, cioè “mare” (1Re 7,23; Ger 27,19; 52,17). Di conseguenza, qualsiasi notevole estensione di acque, come il lago, era definita come “yam”, cioè mare. La lingua ebraica antica, infatti, è una lingua povera di vocaboli e concreta nel suo esprimersi, per cui una parola poteva avere anche una pluralità di significati. Questo “mare di Galilea” o di “Genezaret”, dall'omonima località, Kinneret, posta sul lato occidentale del lago, e che Luca chiama in modo più appropriato per i suoi lettori greci con il termine di “lago”, ha una superficie di circa 170 Km2,, misura in lunghezza 21Km e in larghezza 12Km e il punto più profondo si trova tra i 42 e i 48 mt. - Cfr. la voce “Genezaret, Lago di G.” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 2005 nuova edizione rivista e integrata.
7Cfr. F. Mayer – G.Ravasi, Il Giordano, un fiume tra i due Testamenti, Edizioni Paoline-Editrice SAIE, Cinisello Balsamo, 1989; pag. 221.
8Il titolo che Marco qui attribuisce a Gesù per bocca dell'indemoniato è quello di “Figlio dell'Altissimo” che ricorre in tutto il N.T. soltanto altre due volte solo in Lc 1,32, dove l'angelo annuncia a Maria che colui che nascerà da lei “Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo”; e in Lc 8,28, che riporta il testo di Mc 5,7. Mentre l'attribuzione del titolo di Altissimo a Dio ricorre ben 104 volte nell'A.T. e soltanto 9 volte nel N.T. Un titolo che in genere viene attribuito dal mondo pagano a Dio.
9Cfr. Gdc 11,12; 1Re 17,18; 2Re 3,13; 2 Sam 16,10; 2Cr 35,21
10Cfr. Mc 5,7; Lc 8,28; Gv 2,4
11Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990
12Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.8.
13Il nome Giairo, nella sua forma ebraica di Yair o Iair, ricorre 14 volte nell'A.T. Ed è attribuito a diversi personaggi: a un figlio di Manasse (Nm 32,41; Dt 3,14); a un Giudice di Israele (Gdc 10,3-5); al padre di Mardocheo (Est 1,1a; 2,5); al padre di Elcanann, che uccise Gat, fratello di Golia (2Sam 21,19).
14Sul tema dell'imposizione delle mani e del senso del nome mano nelle lingue semitiche, cfr. le voci “Mano” e “Imposizioni delle mani” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990. Cfr. anche la voce “Mani, Imposizione delle mani” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata, 2005.
15Nella Palestina del N.T. il defunto veniva seppellito il giorno stesso della sua morte (At 5,6-10). Nell’occasione della morte, i familiari ingaggiavano musicisti e lamentatrici di professione, che si percuotevano il petto, per offrire una pubblica dimostrazione di dolore. Dalla casa del defunto, poi, il lamento funebre si estendeva a tutto il corteo. Si preparava, quindi, il corpo per la cerimonia di inumazione, lavandolo, cospargendolo di aromi e avvolgendolo, poi, in un sudario di lino. La sepoltura era organizzata dai parenti stretti, mentre tutti coloro che incontravano il corteo funebre erano tenuti a seguirlo. Un oratore a pagamento, poi, teneva un discorso commemorativo del defunto sulla tomba o nella sinagoga. Dopo la sepoltura, vi era l’usanza di far visita al defunto alcuni giorni dopo per accertarsi della sua morte e per dare gli ultimi ritocchi all’inumazione (Gv 11,17.39). Al termine della sepoltura la casa del defunto veniva purificata e il lutto, accompagnato da preghiere e digiuni (Mt 9,15), durava solitamente sette giorni. Dopo che il cadavere si era decomposto, le ossa venivano raccolte e poste in un’urna.
Sulla tumulazione del cadavere cfr. pagg 56-57 in James S. Jeffers, Il mondo greco-romano all’epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2004; e la voce “Sepoltura e usi funebri” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, op. cit.
16La durezza del linguaggio è attestato dal testo greco: “™kbalën p£ntaj” (ekbalòn pántas).
17Nel passo parallelo di Lc 8,43 l'evangelista, probabilmente medico egli stesso, si mostra molto più benevolo nei confronti della categoria dei medici, raccontando che la donna “aveva speso tutte le sostanze in medici, non era capace di essere guarita da nessuno”.
18Cfr. nota 11 del presente studio.