IL VANGELO SECONDO MARCO


La centralità della Parola
posta a fondamento del Regno di Dio


Cap. 4 (Prima Area: 1,2-8,30)1


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




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Note generali

I capp. 2 e 3 hanno visto una crescente ostilità e una sostanziale inintelligenza nei confronti di Gesù sia da parte delle autorità giudaiche (2,1-3,6.22-30) che da parte dei suoi più intimi familiari (3,20-21.31-35), costringendo Gesù a modificare la sua linea di approccio nell'annuncio del Regno (1,14b.38-39). Il cap.4 segna questa svolta decisiva nella predicazione di Gesù: non più un linguaggio aperto e franco, ma un annuncio attraverso il linguaggio criptato della parabola, il cui accesso era consentito soltanto a chi era ben disposto ad accogliere la parola di Gesù, mentre gli altri ne erano esclusi (vv.11.34). Si viene in tal modo a creare una sorta di selezione tra gli ascoltatori o forse è meglio dire una discriminazione, che pesa come una sorta di giudizio di condanna su chi, ascoltando non coglie il senso dell'annuncio, perché ad esso vi contrappone una resistenza interiore, precludendosi alla Verità. Un atteggiamento quest'ultimo che già era stato duramente stigmatizzato in 3,28-30, dove si parlava dell'imperdonabilità della bestemmia contro lo Spirito Santo, che è Spirito di Verità e che in qualche modo si allude anche qui, al v.29, dove si parla di una escatologica resa dei conti dopo l'avvenuta la semina della Parola.

La particolare attenzione all'annuncio e ad un suo diverso approccio nei confronti degli ascoltatori, a cui viene dedicato l'intero cap.4, lascia intendere la centralità che riveste per Marco la predicazione. E non poteva essere diversamente considerando la natura dell'opera marciana che egli stesso, in apertura, definisce come “Vangelo” (1,1), cioè, “annuncio” di Gesù, nel senso che riguarda sia la sua doppia natura di Cristo e di Figlio di Dio, sia l'origine stessa di tale annuncio, proveniente da Gesù stesso e gli appartiene.

La particolare attenzione al tema della predicazione da parte di Marco, del resto, si comprende e si giustifica dal fatto che la sua stessa opera è una predicazione, che segue lo schema proprio dei predicatori itineranti (At 10,37-43), i primissimi missionari della Parola, così che potremmo definire il vangelo marciano come una predicazione scritta, che funge in qualche modo da punto di ritrovo e di guida per questi predicatori, evitando loro in tal modo derive fantasiose o dottrinalmente poco corrette. La predicazione, infatti, per Marco riveste un'importanza essenziale, in quanto è posta a fondamento dell'istituzione del Regno di Dio in mezzo agli uomini (vv.26-32; 1,14-15.38-39).

E ben lo si comprende da come si apre il cap.4 dove, per ben tre volte in soli due versetti (vv.1-2), si parala di insegnamento e di insegnare, che hanno come loro contropartita quello dell'ascoltare da parte delle genti (vv.3.9.23.33). Un incessante insegnamento, che viene testimoniato in quel “incominciò ad insegnare” e in quel “insegnava” posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, che dice la persistenza e la continuità di questo insegnamento, che riecheggia anche nel ripetuto verbo “diceva”, fatto seguire dall'annuncio (vv.2b.21.24.26.30).

Centrale, dunque, in questo cap.4 è il tema della Parola, che viene somministrata con il linguaggio criptato della parabola. Questa altro non è che una metafora attraverso la quale Gesù rivela le realtà del Regno di Dio, che altrimenti diverrebbero difficilmente raggiungibili per la loro natura spirituale, di cui l'uomo non ha esperienza, ma che, proprio con riferimento a quest'ultima, può intuire e in qualche modo comprendere queste realtà che lo trascendono. Significativo, infatti, è il modo con cui Gesù introduce le parabole sul Regno: “Il Regno dei cieli è simile a...”. Si parla, dunque, di similitudine o di somiglianza. Ci si richiama all'esperienza dell'uomo per far intuire realtà che lo superano. Ma se da un lato la parabola favorisce in qualche modo la comprensione di realtà spirituali, dall'altro, il linguaggio della parabola, proprio per la sua natura aneddotica, è un racconto accattivante e avvincente, che coinvolge direttamente gli ascoltatori e li interpella, costringendoli a prendere esistenzialmente posizione.

La composizione del cap.4 presenta delle criticità e delle tensioni, che lasciano trasparire la manipolazione che questo capitolo ha subito nel tempo.

Il v.10 racconta: “E quando fu solo, quelli che erano attorno a lui con i Dodici, lo interrogavano sulle parabole”. Due li elementi critici: “quando fu solo”. Al v.1 si dice che Gesù insegnava seduto in barca in mezzo al mare, attorniato da “moltissima folla”. Poi a termine della parabola la consistente moltitudine sembra svanire nel nulla e Gesù si ritrova da solo con i suoi. Ma al v.36 si dice che i discepoli, “lasciata la folla” salirono in barca con Gesù. Quindi, qui, la folla sembra essere nuovamente presente.

Il secondo elemento critico del v.10 sta nel fatto che i discepoli interrogano Gesù “sulle parabole”. Ma in realtà Gesù ha raccontato soltanto una parabola, quella del seminatore (vv.3-9).

Questi due elementi del v.10, che è introduttivo alla pericope circoscritta dai vv.10-25, lasciano intendere come l'intera pericope sia stata inserita successivamente. Il testo originale doveva comprendere le sole tre parabole, che hanno in comune il tema della semente, che produce frutto: quella del Seminatore, che funge da testo principale sia per la sua consistenza che per il suo contenuto, la Parola, che fruttifica in modo crescente in chi l'accoglie (vv.3-9); quella del Regno di Dio, che ha per sua origine e per suo fondamento il seme della parola (vv.26-29); e, infine, quella del granello di senape, anche questo seminato e, quindi, riagganciato alla parabola del seminatore, da cui si origina in modo rigoglioso un albero, che per la sua ampiezza può ospitare gli uccelli del cielo (vv.30-32). Tutto, dunque, si origina dal gesto del seminatore, che sparpaglia ovunque il seme della Parola, da cui si originano sia il credente che il Regno di Dio.

Dopo la parabola del seminatore, quindi, dovevano, seguire a completamento di questa, quelle del Regno (vv.26-32), e solo successivamente la pericope contenente l'esegesi della parabola del seminatore, rafforzata dai due detti sulla “lucerna” (vv.21-23) e sulla “misura” (vv.24-25), che suonano come un monito ai discepoli sul loro impegno ad annunciare e a svelare i misteri della Parola, nella stessa misura con cui ad essi sono stati svelati a parte, per non essere privati loro stessi della ricchezza della Parola, che per primi hanno ricevuto, sminuzzata, da Gesù.

In tal modo verrebbe giustificata l'interrogazione dei discepoli “sulle parabole”, benché rimanga sempre inspiegabile quel “quando fu solo” che non si concilia con le “folle lasciate” del v.36a. Probabilmente quel “quando fu solo” ha voluto evidenziare non tanto una realtà fisica o storica, ma rafforzare il concetto di esclusività della rivelazione dei misteri contenuti nelle parabole, aperta non a tutti, ma soltanto ai suoi, che al v.11 vengono contrapposti alle folle: “A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori tutte le cose sono in parabole”.

Quindi, benché quel “quando fu solo” nell'ambito dell'economia narrativa costituisca un'evidente incongruenza, tuttavia, considerata la cosa da un punto di vista del contenuto del messaggio che l'autore intendeva trasmettere, la sottolineatura evidenzia ancora di più l'esclusività dei discepoli, stretti attorno a Gesù con i Dodici, e ai quali Gesù rivela i Misteri del Regno, contenuti nella Parola. La quale cosa avviene nella riservatezza, cioè soltanto quando si tolgono dallo scenario tutte le folle. Da qui il “quando fu solo”. Un atteggiamento prudenziale, dunque, che in qualche modo risuona anche nel monito del Gesù matteano, quello di non gettare le cose sante ai cani e le perle ai porci (Mt 7,6).

Un altro elemento di tensione si trova all'interno della pericope delimitata dai vv.10-13 e che funge da preambolo alla spiegazione della parabola del seminatore. Vi è in questi quattro versetti una sorta di sovrapposizione. Infatti, a fronte della richiesta di spiegazione da parte dei discepoli (v.10) i vv.11-12 forniscono la motivazione che giustifica la spiegazione data a loro e sono introdotti dall'espressione “E diceva loro” (v.11a). Ma poi, anziché iniziare subito la spiegazione della parabola, questa viene preceduta dal v.13, che sembra essere un rimprovero per l'inintelligenza dei discepoli circa il senso delle parabole e che mal si combina con i vv.11-12, che invece esprimono una sorta di loro privilegiata elezione. Anche questo v.13 è introdotto a sua volta dall'espressione “E dice loro”, dando l'idea di una sua indipendenza dai vv.11-12. Vi è, dunque, una certa frizione, se non una contraddizione, tra i vv.11-12 e il v.13. Cosa può essere successo?

Probabilmente Marco aveva inizialmente introdotto la spiegazione della parabola del seminatore con i soli vv.10.13, che ben si accordano tra loro; ma, poi, in un tempo successivo, ha forse voluto, da un lato, stemperare la durezza del v.13; dall'altro giustificare il motivo della spiegazione, sottolineando la particolare attenzione che Gesù aveva nei loro confronti, considerati gli eletti e gli iniziati ai Misteri del Regno, per cui aggiunse i vv.11-12, che riprendono e meglio dettagliano vv.33-34, con cui si concludeva originariamente la sezione delle parabole. Questi, infatti, dovevano essere già presenti nel testo originale, poiché il v.33 forma inclusione con il v.2, delimitando in tal modo l'intera sezione delle parabole, formandone un'unità narrativa a se stante.

Tuttavia, in un tempo successivo, probabilmente per le insistenti richieste da parte delle comunità credenti o degli stessi predicatori itineranti, che chiedevano delucidazioni sul senso della parabola del seminatore, Marco deve aver aggiunto i vv.10-25, cioè l'esegesi della parabola stessa.

Quanto alla pericope circoscritta dai vv.35-41, che conclude il cap.4, questa va considerata come di transizione e posta a preambolo del cap.5, che inizia con Gesù che sbarca sul territorio dei Geraseni, dove compirà un laborioso esorcismo (5,1-17), le cui conseguenze non furono gradite dagli abitanti di Gerasa, che invitarono Gesù ad andarsene dal loro territorio (5,17).

Quindi, non essendoci ancora inserita la pericope esegetica (vv.10-25), acquista nuovamente senso quanto dice il v.36a: “Ed (essi) lasciata la folla”, poiché la folla, nel corso del racconto, risulta sempre presente. Il problema, invece, nascerà successivamente, quando Marco inserirà la pericope dell'esegesi (vv.10-25), che si apre asserendo “E quando fu solo”.

Pertanto, riepilogando l'analisi diacronica del cap.4, mi sembra di poter dire che il cap.4 inizialmente era composto dai vv.1-9.26-41, così come di seguito:

Successivamente viene inserita la pericope esegetica (vv.10-25), creando uno stacco con le altre due parabole del Regno, che prima facevano corpo unico con quella del seminatore. Ma la priorità per Marco, considerate le pressanti richieste avute circa il senso della parabola, era quella di far seguire alla parabola del seminatore la sua esegesi.

La dinamica narrativa del cap.4 si sviluppa su sei punti:

  1. Parte introduttiva al cap.4 e alla parabola del seminatore (vv.1-2);

  2. la parabola del seminatore (vv.3-9);

  3. il corpo esegetico della parabola (vv.10-25);

  4. le due parabole del Regno, generato e fondato sulla Parola (vv.26-32);

  5. la conclusione della sezione delle parabole (vv.33-34);

  6. pericope di transizione al cap.5: la burrascosa traversata del lago con la barca (vv.35-41)

Commento ai vv.1-41

Parte introduttiva al cap.4 e alla parabola del seminatore (vv.1-2)

Testo

1- E di nuovo incominciò ad insegnare nei pressi del mare; e si raduna presso di lui moltissima folla, cosi che, salito in barca, sedeva nel mare, e tutta la folla presso il mare erano sulla terra.
2- E insegnava loro molte cose in parabole, e nel suo insegnamento diceva loro:
Il cap.4 viene introdotto da due versetti che, da un lato, danno in qualche modo continuità al cap.3 (v.1) e, dall'altro, anticipano il tema di questo capitolo: l'insegnamento in parabole (v.2).


Il v.1 si apre con un'espressione avverbiale caratteristica di Marco, che sovente usa per introdurre nuove pericopi, “E di nuovo”, che se da un lato facilita lo svolgersi dei racconti, anche se non in modo molto elegante, dall'altro evidenzia la ripresa o la persistenza di un comportamento di Gesù, in questo caso la sua predicazione e in particolare le modalità di questa predicazione. Significativo, infatti, è quel “incominciò ad insegnare”. Ci si trova di fronte ad una predicazione che è un insegnamento o ammaestramento. Lo sfondo, pertanto, sul quale si muove questa nuova modalità di predicazione è di tipo sapienziale e sentenziale. Il verbo “insegnare” con il suo corrispondente sostantivo “insegnamento”, ricorre tre volte in soli due versetti, ma riecheggia anche nel verbo parallelo “diceva”, che percorre l'intera sezione delle parabole e al quale viene fatto seguire un insegnamento di tipo sentenziale o parabolico. La stessa postura di Gesù durante il suo insegnamento dice che egli non è più un semplice predicatore itinerante, ma un “Rabbì”, un “Maestro”: “salito in barca, sedeva nel mare”. La posizione dell'insegnare stando seduti, infatti, è caratteristica del maestro che somministra la sua sapienza ai suoi discepoli, che gli stanno attorno. Si tratta di un nuovo modo di predicare, che viene evidenziato da quel “incominciò” a insegnare. Il verbo greco corrispondente è “½rxato” (érxato, incominciò), aoristo di “¥rcw” (árco), che ha la sua radice in “¢rc»” (arché), che significa principio, inizio, origine. Ci si trova, quindi, di fronte ad un nuovo inizio di predicazione, che non è più un semplice annuncio del Regno, come avvenne in 1,14b-15.38-39, ma diventa anche un insegnamento sul Regno, cioè una riflessione e un approfondimento sul tema del Regno, che avviene con nuove modalità di predicazione, attraverso parabole, che oltre ad essere accattivanti nella loro esposizione, interpellano nel contempo l'ascoltatore, che viene coinvolto in prima persona nel racconto parabolico e spinto a prendere esistenzialmente posizione. Ma nel contempo la parabola usa una sorta di linguaggio criptato, non facilmente o immediatamente raggiungibile, tant'è che si è resa necessaria un'esegesi di quella del “Seminatore”, a cui Mt 13,36-44, unico tra gli evangelisti, aggiunge anche quella della zizzania.

Un appunto particolare va riservato al v.1 che, pur nella sua brevità, riprende 3,7-9 e ne costituisce una risposta ed è in qualche modo un suo completamento. In 3,7-9, là come qua in 4,1, si parlava di Gesù in riva al mare con i suoi discepoli, dove una grande moltitudine di persone, provenienti da ogni parte della Palestina, si accalcava intorno a Gesù, così che Gesù sollecitò i suoi “affinché gli tenessero pronta una barca a motivo della folla, affinché non lo opprimessero”. Ora, qui, in 4,1, Marco riprende lo stesso contesto topografico, con gli stessi personaggi e la stessa moltitudine di folle che opprimono Gesù. Ma vi è un nuovo elemento che in 3,7-9 non c'era: la barca, là sollecitata, qui, ora, presente. Cosa è successo nel frattempo? Si era detto nel commento alla richiesta della barca da parte di Gesù ai suoi, che questa barca era metafora della comunità credente o, meglio, era metafora del nucleo fondante la comunità credente: il gruppo dei Dodici e Gesù assieme a loro. La quale cosa si era attuata in 3,13-19. Dopo tale passaggio, ora, il v.1 annuncia che Gesù ha finalmente la sua barca, dove sedeva in mezzo al mare, dalla quale somministra il suo insegnamento alle genti. In Marco il termine mare ricorre 14 volte ed assume un significato particolare perché è il luogo preferito di Gesù dove egli costituisce il suo primo gruppo di discepoli; s'incontra con la gente e proclama la sua parola; il luogo che egli percorre più volte sulla barca per svolgere la sua attività missionaria, così che il “mare” diviene per Marco la metafora dell'attività missionaria di Gesù e, in prospettiva, dei suoi.

Quel “sedeva in mezzo al mare” (v.1c) dice come l'attività missionaria di Gesù (il mare) era costituita prevalentemente dall'insegnamento, simboleggiato da quel “sedeva”, la posizione dei rabbi in mezzo ai loro discepoli; mentre il verbo all'imperfetto indicativo dice come questa attività d'insegnamento fosse fondamentale nello svolgimento della sua missione. Un ammaestramento che si svolge dopo essere “salito in barca”, cioè all'interno del nucleo costituente la prima chiesa (3,13-19).

La parabola del seminatore (vv.3-9)


Testo a lettura facilitata

Il contesto (v.3)

3- <<Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare.

Le quattro tipologie di terreni (vv.4-8)

4- Ed avvenne che nel seminare una parte cadde sulla strada, e vennero i uccelli la mangiarono.
5- E un'altra cadde sul terreno sassoso, dove non aveva molta terra, e subito spuntò perché non aveva profondità di terra;
6- e quando sorse il sole fu bruciato e per non avere radice fu seccata.
7- E un'altra cadde nelle spine e le spine crebbero e la soffocarono, e non diede frutto.
8- Ed altri (semi) caddero nella terra buona e davano frutto, salendo e crescendo e portavano uno trenta e uno sessanta e uno cento>>.

Il sollecito a capire bene le cose e a rifletterci sopra (v.9)

9- E diceva: <<Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti>>.

Note generali

Il v.2 terminava con l'espressione: “e nel suo insegnamento diceva”. Ci si trova dunque all'interno di un insegnamento, cioè di una trasmissione di sapere e di una conoscenza divina, considerata la fonte di questo sapere e delle dinamiche dei suoi contenuti, e, quindi, si è nell'ambito di una rivelazione, che riguarda qui esclusivamente non il seminatore, che qui potrebbe essere Gesù, ma anche un qualsiasi predicatore itinerante e lo stesso Marco, autore di questa predicazione scritta, che è annuncio finalizzato a rivelare la natura messianica e divina di Gesù e che ha come fonte Gesù stesso (1,1). L'identità di questo seminatore, infatti, non viene mai svelata, ma è solo qualificato come “seminatore” (vv.3.14), quindi riguarda tutti. Oggetto di queste tre parabole (vv.3-9.26-29.30-32) è la Parola, colta nei suoi rapporti dinamici con gli ascoltatori, posti all'interno di molteplici realtà quotidiane (vv.3-9), ma anche come potente origine originante del Regno di Dio (vv.26-32) e della quale sono direttamente responsabili i suoi somministratori ossia i seminatori della Parola (vv.21-29).

La parabola è qui scandita in tre parti, che già sono state anticipate nella sezione del Testo a lettura facilitata:


Commento ai vv.3-9

Il v.3 si apre con un poderoso sollecito che richiama da vicino l' “Ascolta, Israele” di Dt 4,1 e 5,1 dove Mosè sollecita il popolo ad accogliere e a praticare la Parola che Jhwh aveva consegnato loro per suo tramite. Un “Ascoltate” che sollecita l'ascoltatore a predisporsi interiormente ad accogliere la Parola, perché questa non vada dispersa, ma fruttifichi nel buon terreno dell'accoglienza. Un “Ascoltate” che forma inclusione con il v.9, dove si ammonisce l'ascoltatore a comprendere ciò che ha ascoltato, rendendolo anche responsabile della parola che egli ha accolto in se stesso.

Dopo il sollecito, Marco prosegue con un “„doÝ” (idù, ecco), molto scenico, finalizzato ad accentrare l'attenzione dell'ascoltatore-lettore su quanto sta per accadere sul palcoscenico della narrazione. È una sorta di apertura del sipario. E ciò che appare sulla scena è un seminatore che “uscì a seminare”. Se da un lato quel “uscì” dice il comparire del seminatore sulla scena del campo, per compiere la sua missione del seminare, dall'altro richiama da vicino 1,38, dove Gesù rivela il senso della sua venuta ai discepoli, quello di essere uscito dal Padre per predicare la parola: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, affinché anche là predichi; per questo, infatti, uscii”. È lo stesso verbo “xšrcomai” (exércomai, uscire) che compare qui come là, creando una sorta di ponte, che collega i due eventi narrativi.

La pericope vv.4-8, che presenta quattro diverse tipologie di terreni, le cui immagini sono tratte dalla reale situazione della semina nelle terre della Palestina, (ma non era molto diversa in altri paesi), descrive metaforicamente quattro diverse reazioni comportamentali nei confronti della Parola, inizialmente accolta da parte dell'ascoltatore. In realtà si tratta soltanto di due diversi comportamenti, che si diversificano a seconda delle condizioni esistenziali esemplificate e che probabilmente rispecchiavano i prevalenti comportamenti degli ascoltatori ai tempi di Marco: chi accoglie, ma non persevera al verificarsi di determinate situazioni; e chi, invece, persevera al di là delle situazioni che possono verificarsi. La fedeltà dell'ascoltatore, dunque, alla Parola, che nel primo caso, venendo meno, disperderà rovinosamente la Parola affidatagli; mentre nel secondo caso fruttificherà in un crescendo continuo, in una visione ottimistica della storia della salvezza e nel contempo della chiesa nel suo affacciarsi a quella degli uomini, a seconda della risposta e della bontà del terreno stesso e che riflette in qualche modo il rapido diffondersi della Parola nel contesto sociale dell'epoca, testimoniatoci in qualche modo da At 2,41; 6,7; 12,24; 13,49; 19,20. Una proficuità che già era stata preannunciata da Is 55,10-11: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”.

Trapela, tuttavia, dalla parabola anche una nota di pessimismo (vv.4-7) che viene stemperata soltanto dal buon esito dell'ultimo terreno (v.8). Forse una messa in guardia di Marco a non lasciarsi andare a facili entusiasmi da parte dei predicatori itineranti o dal numeroso affluire dei nuovi credenti nella casa, dove c'è Gesù con i Dodici. Prima di giungere al terreno buono, l'autore presenta altri tre terreni accidentati, che seppur accoglienti la semente della Parola, tuttavia successivamente la disperdono, sottolineando in tal modo la difficoltà che la Parola incontra in mezzo agli uomini, anche in chi l'accoglie.

La variegata situazione in cui viene a trovarsi il seme della Parola viene sottolineata anche dal v.9, posto a conclusione di questa prima parabola, probabilmente un'aggiunta successiva a Marco, ma che ritorna più volte nei sinottici, e che suona come monito nei confronti degli ascoltatori: “Chi ha orecchi per ascoltare, ascolti”. In altri termini, chi ha la capacità di ascoltare la metta a frutto. Si tratta di una pesante ammonizione, un sollecito a porre attenzione a ciò che si accoglie e di averne poi cura, poiché in quel “ascolti” finale, posto all'imperativo esortativo, c'è implicita una sorta di minaccia contenuta nel rendere responsabile della Parola accolta l'ascoltatore che l'ha accolta, poiché dal momento che l'ha accolta dipende da lui il non disperderla, perché gli sarà chiesto conto.

L'esegesi della parabola del Seminatore (vv.10-25)


Testo a lettura facilitata

Un nuovo contesto narrativo (v.10)

10- E quando fu solo, quelli che erano attorno a lui con i Dodici, lo interrogavano sulle parabole.

I destinatari discriminati (vv.11-12)

11- E diceva loro: <<A voi è stato dato il mistero del regno di Dio; ma a quelli che sono di fuori tutte le cose sono in parabole.
12- Affinché guardando guardino e non vedano. E ascoltando ascoltino e non capiscano, perché non si pentano e sia loro perdonato>>.

La parabola del Seminatore, chiave per la comprensione (v.13)

13- E dice loro: <<Non conoscete questa parabola, e come conoscerete tutte le parabole?

L'esegesi della parabola del Seminatore (vv.14-20)

14- Il seminatore semina la parola.
15- Questi sono quelli presso la strada, dove la parola è seminata e qualora ascoltino, subito viene satana e porta via la parola seminata in loro.
16- E questo sono quelli seminati sul terreno sassoso, i quali, qualora ascoltino la parola, subito la prendono con le mani,
17- e non hanno radice in loro stessi, ma sono incostanti; venuta poi una tribolazione o una persecuzione per la parola, subito si scandalizzano.
18- E altri sono quelli seminati nelle spine; questo sono coloro che hanno ascoltato la parola,
19- e le preoccupazioni del secolo e l'inganno della ricchezza e i desideri circa le restanti cose, introdottisi (in loro), soffocano la parola e diviene sterile.
20- E quelli sono coloro che sono stati seminati sulla terra buona, i quali ascoltano la parola e (la) accolgono e portano frutto, uno trenta e uno sessanta e uno cento>>.

La missione di Gesù e della chiesa: illuminare, rivelando i misteri del Regno (vv.21-23)

21- E diceva loro: <<Forse che viene la lucerna affinché sia posta sotto il moggio o sotto il letto? Non (forse) perché sia messa sul candelabro?
22- Non vi è infatti un nascosto se non perché venga manifestato, né avvenne una cosa segreta, ma affinché venga manifesta.
23- Se qualcuno ha orecchi per ascoltare, ascolti>>.

La Parola va accolta integralmente, senza misure, o sarà tolta (vv.24-25)

24- E diceva loro:<<Guardate ciò che ascoltate. Nella misura con cui misurate sarà misurato a voi e sarà posto davanti a voi.
25- Chi infatti ha, gli sarà dato; e chi non ha anche ciò che ha sarà tolto da lui>>.


Note generali

Già lo si è detto nelle note generali sul cap.4, alla parabola del Seminatore seguivano subito le altre due parabole sul Regno di Dio (vv.26-32), originato dalla semente della Parola. Poi, in un tempo successivo, probabilmente pressato dalle richieste delle comunità credenti, che gli chiedevano il senso di questa parabola, Marco inserì, immediatamente dopo la parabola, la sezione qui in esame (vv.10-25). Lo ha fatto, da un punto di vista narrativo, malamente, creando un nuovo contesto narrativo completamente diverso da quello in premessa (vv.1-2). Là Gesù era oppresso da “moltissima folla” e costretto a salire sulla barca per evitare di rimanere oppresso e da lì somministrava il suo insegnamento. Qui, come d'improvviso e senza preavviso alcuno, Gesù si ritrova da solo con i Dodici e attorno a loro il resto dei discepoli, che gli chiedono spiegazioni “sulle parabole”, allorché, invece, Gesù ne aveva pronunciate una soltanto, quella sul Seminatore2. Viene in tal modo a crearsi un'inattesa frattura narrativa, che lascia ancor più perplessi se si pensa che al v.36 i Dodici “lasciano la folla”, che, però, qui, al v.10a già non c'era più. Ma a Marco, probabilmente, non interessava tanto la continuità narrativa, bensì la sua logica, che richiedeva che alla parabola del Seminatore facesse subito seguito la sua esegesi, evidenziando in quel “quando fu solo” l'esclusività di questa esegesi riservata solamente ai suoi discepoli. E il motivo di tanta riservatezza verrà subito spiegato ai successivi vv.11-12.

Commento ai vv.10-25

Il v.10 si apre creando una sorta di esclusività, restringendo la spiegazione della parabola soltanto a “quelli che erano attorno a lui con i Dodici”. Sono questi, infatti, che s'interessano all'esegesi della parabola. E che siano solo questi e non altri, l'autore lo sottolinea collocando la loro richiesta in un nuovo contesto narrativo: “quando fu solo” e, quindi, escludendo la folla, che qui, come d'incanto, è scomparsa, creando un improvviso vuoto e un improvviso silenzio attorno a loro, che fungono da recinto restrittivo e isolante, quasi misterico.

Va posta attenzione al modo con cui Marco definisce i destinatari dell'esegesi della parabola, poiché in tal modo viene anche delineato il contesto storico da cui è nata questa sezione esegetica, lo sitz im leben, per così dire: “quelli che erano attorno a lui con i Dodici”. L'espressione “lui con i Dodici” (3,14) definisce il nucleo fondante e istituzionale della chiesa primitiva (3,13-19) e, quindi, “quelli che erano attorno” storicamente definiscono il nucleo dei primi credenti, che assieme a “Gesù con i Dodici” formano la chiesa, intesa come istituzione. Sono dunque questi, le prime comunità credenti, strette attorno ai loro responsabili, che interpellano il Gesù marciano, cioè, in questo frangente, l'autore stesso, Marco, in quanto autore primo di questo vangelo o, per meglio dire, di questa prima predicazione scritta. Il verbo all'imperfetto indicativo, “lo interrogavano” dice la persistente richiesta di spiegazioni su di una parabola che effettivamente può lasciare sconcertati e, considerate le varie esemplificazione dei terreni, certamente irraggiungibile nel suo autentico significato.

Il contesto storico, pertanto, da cui è nata questa sezione, successivamente interpolata, è la richiesta che Marco deve aver ricevuto dalle diverse comunità credenti per avere un'unica e autorevole spiegazione di questa parabola, da cui, poi, dipendono le altre due parabole del Regno (vv.26-29.30-32).

I vv.11-12 sono riferiti ai destinatari di questa esegesi e mettono in evidenza una discriminazione, che ha come unico criterio discriminante quello dell'essere dentro o dell'essere fuori. La diversa posizione di luogo, dentro-fuori, è posto in relazione alla comunità credente. In altri termini, quelli che credono e quelli che non credono3. Una simile situazione discriminante era già stata evidenziata in modo inatteso e sorprendente in 3,20-21.31-35, dove la madre di Gesù con i suoi fratelli, non credendo in lui, vanno a riprenderselo perché lo ritenevano fuori di testa (3,21). Questi per due volte vengono definiti da Marco come quelli che “stanno/sono fuori” (3,31.32) e vengono contrapposti a quelli che, invece, stanno attorno a Gesù e lo ascoltano accoglienti e che Gesù riconosce come i suoi veri intimi parenti (3,34-35). Il v.11, pertanto, si muove sullo sfondo di 3,31-35, rilevando, anche qui, una contrapposizione tra quelli che sono di “dentro”, cioè i credenti, che hanno fatto la loro scelta esistenziale, quella di seguire Gesù; e quelli che, invece, sono di fuori e, quindi, in senso generico, le folle, che seguono anonimamente Gesù, senza aver fatto una loro personale scelta di vita per Gesù, uscendo in tal modo dal loro anonimato protettivo. I primi sono, a motivo della loro scelta che li ha posti “dentro”, i più ben disposti ad accogliere la parola di Gesù, a cui hanno legato la loro vita. A questi va riservato lo svelamento del “mistero del Regno di Dio”, dove per mistero deve intendersi il disegno nascosto del Padre, che si attua e si rivela in Gesù, quello di ristabilire in mezzo agli uomini il suo potere iniziale, allorché creò l'uomo a sua immagine e somiglianza, rendendo l'uomo una volta ancora incandescente di Dio, così com'era nei primordi dell'umanità. In tal senso vanno gli esorcismi e la predicazione. Dio, dunque, in Gesù è venuto a riprendersi ciò che era suo fin dagli inizi della creazione. Va tenuto presente questo particolare aspetto dello svelamento del mistero del Regno, poiché il tema verrà ripreso dalle due metafore della lucerna (vv.21.23) e della misura (vv.24-25).

Diversa sorte è riservata a “quelli che sono di fuori”, poiché manca in loro la disposizione interiore per accedere al mistero di Dio.

Marco sta creando qui una sorta di cerchio sacro e discriminante, perché la spiegazione di questa importante e fondamentale parabola, posta alla base della predicazione e chiave di lettura del “Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio” (1,1), non venga ridotta ad una semplice esegesi letteraria e svilita al rango di curiosità. Questa, invece, fa parte del mistero a cui essi, e solo loro, stanno per accedere.

Marco rafforza il v.11 con un'attestazione scritturistica tratta da Is 6,9-10, che qui viene riportato secondo il testo aramaico del Targum, e che la chiesa primitiva riferiva all'insuccesso della propria missione presso il popolo ebraico e in cui risuona in quel “perché non si pentano e sia loro perdonato” un'esplicita condanna per la sua durezza di cuore. Un tema questo ripreso anche da Gv 12,37-41, At 28,23-28 e Rm 9-11.

Se i vv.11-12 ben si accordano con il v.10, tuttavia suonano come una stonatura con il v.13, poiché si passa da una elezione privilegiata ad un rimprovero per l'inintelligenza di quelli che sono “di dentro” e che preclude il loro accesso alla comprensione delle altre parabole. Come, dunque, spiegare questa tensione interna? È probabile che la versione originale della sezione esegetica (vv.10-25) prevedesse inizialmente i soli vv.10.13, che comunque bene si accordano tra loro, ma poi, anche qui in un tempo successivo, forse per stemperare la durezza del v.13, da un lato, e per meglio sviluppare i vv.33-34, dall'altro, da cui i vv.11-12 sono stati mutuati, l'autore abbia inserito questa rielaborazione di 33-34. Questi ultimi, infatti, dovevano essere preesistenti, perché il v.33 forma inclusione con il v.2.

Il v.13 rileva da un lato l'inintelligenza dei discepoli nei confronti della parabola del seminatore, dall'altro, carica d'importanza questa parabola, ponendola a chiave interpretativa di “tutte le parabole”. A quali parabole Marco qui si riferisce con quel “tutte”? Tutte quelle che ha detto Gesù? Ma se è così, quante ne ha dette Gesù? Marco in tutto il suo vangelo ne riporta soltanto quattro, di cui tre in questo cap.4 e un'altra, quella dei vignaioli omicidi, in 12,1-12; contro le 17 di Matteo e le 21 di Luca, tratte, queste di Matteo e di Luca, dalla fonte Q, che però, quasi certamente, era inesistente ai tempi in cui Marco componeva il suo vangelo tra il 65 e il 69 d.C. Soltanto dopo il vangelo di Marco, il primo in assoluto di questo genere, doveva essersi risvegliato l'interesse per i detti e le parabole di Gesù e quindi si era andata formando una sorta di raccolta di suoi detti e di sue parabole. Si pensi a Matteo, la cui prima edizione del suo vangelo risale intorno agli anni 80 ed era composta soltanto dai cinque grandi discorsi4, che costituivano un grandissimo bacino di raccolta di detti, sentenze e parabole di Gesù. Non è da escludere che sia proprio lui, Matteo, la vera fonte Q e non soltanto un ipotetico luogo di raccolta di detti, sentenze e parabole di Gesù5. Marco, il pioniere di questo genere letterario vangelo, ha dovuto, invece, racimolare qua e là qualche detto e qualche parabola presso le comunità credenti, facendone una cernita secondo i propri interessi e progetti letterari. Quindi a quali parabole faceva riferimento Marco con quel “tutte”? Certamente Marco era conoscenza che esistevano molte altre parabole di Gesù, ma qui l'evangelista non intendeva fornire una chiave di lettura di tutte le parabole conosciute o conoscibili, ma soltanto di quelle che lui ha riportato nel suo vangelo. Quindi quel “tutte” va compreso come un semitismo che sta per “le altre” parabole, cioè le altre due parabole che facevano blocco unico con quella del “Seminatore”, dalla quale dipendevano e costituivano una sorta di sua propaggine. Per cui il non capire quella del “Seminatore” significava precludersi la strada alla comprensione anche delle altre due parabole del Regno che con quella del Seminatore avevano a che fare (vv.26-29.30-32).

La pericope delimitata dai vv.14-20 contiene l'esegesi della parabola del Seminatore, che certamente non è opera di Gesù, poiché la sua contestualizzazione, definita dal v.10, presuppone un ambiente ecclesiale già consolidato. Ci si trova, infatti, non solo tra “quelli che erano attorno a lui con i Dodici”, dove il “Gesù con i Dodici” definisce il nucleo fondante della chiesa; mentre coloro che stanno attorno a loro sono i nuovi credenti, ma la spiegazione della parabola descrive un contesto storico che è ormai da decenni consolidato. Si parla, infatti, di predicatori itineranti, che si trovano di fronte ad un pubblico occasionale (v.15); di difficoltà all'interno dell'ambiente sociale e familiare a motivo della nuova fede e, più apertamente ancora, di persecuzioni (vv.16-17); delle inquietudini terrene, come le preoccupazioni, la passione smodata per le ricchezze e per le cose mondane in genere (vv.18-19); ma anche di chi è buon discepolo fedele alla Parola accolta, a cui, con proficuità, ha conformato la propria vita (v.20).

È, dunque, a questa variegata tipologia di persone che l'esegesi della parabola del Seminatore è rivolta.

Il v.3 presentava un seminatore nell'atto di seminare, ma non che cosa stesse seminando e mai nel corso della parabola verrà accennato alla tipologia della semente gettata. Al v.14, con cui si apre l'esegesi della parabola, il processo è inverso. Fin da subito si viene a sapere che la semente è la parola, che svela, quindi, anche la natura del seminatore, che è colui che la diffonde. Protagonista, quindi, qui è la parola, che ricorre nel corso della spiegazione per ben sette volte e per quattro, tante sono le tipologie degli ascoltatori, essa viene accompagnata dal verbo ascoltare. Parola e Ascolto sono i due elementi essenziali perché la parola attecchisca, ma non sufficienti per farla crescere e porti frutto. Ciò che determinerà questo sarà la fedeltà alla parola nelle singole circostanze in cui verrà a trovarsi l'ascoltatore, che inizialmente fu accogliente. Esattamente il contrario della parabola dove protagonisti, invece, sono le quattro diverse tipologie di terreni, che favoriscono o meno l'attecchire della parola, riconducibili, in ultima analisi, a due: chi disperde e chi fa fruttificare. Il resto è contorno.

È interessante rilevare come tutto viene spiegato e chiarito nel corso dell'esegesi della parabola, ma non viene rivelata l'identità del seminatore, che rimane avvolta nell'anonimato. Grazie allo svelamento della “semente-parola” possiamo sapere che il seminatore è colui che diffonde la parola, ma chi sia non ci è dato di sapere. Ma è proprio per questo suo anonimato che diviene particolarmente significativo, poiché esso può essere in realtà chiunque. Non si tratta necessariamente di Gesù, che certamente non va escluso, anzi lui fu il fondatore del primo annuncio (1,14b-15.38-39); ma l'anonimato dice come questo seminatore assume il volto non solo di ogni predicatore itinerante, impegnato nella sua missione di annuncio, ma anche di qualsiasi persona che con il suo impegno esistenziale a favore di Gesù dà testimonianza alla Parola, che porta in sé e alla quale a conformato la propria vita. Ogni credente, pertanto, per la parte che gli compete, si può ravvisare in questo seminatore.

I vv.15-20 illustrano i diversi contesti in cui la parola viene a trovarsi e gli esiti negativi (vv.15-19) e positivi (v.20), che si producono sulla parola.

La prima categoria di persone a cui la parola è rivolta sono “quelli presso la strada, dove la parola è seminata”. Il riferimento qui è agli ascoltatori occasionali, che si trovano nelle piazze o sulle strade e per un momento si associano nell'ascolto alla predicazione dei predicatori itineranti. Ma l'occasionalità dell'annuncio, forse lo scarso interesse nell'ascoltare cose che non avevano mai udito o i preminenti interessi o l'urgenza dei propri affari, per i quali si trovavano occasionalmente in quella piazza o su quella strada dove qualcuno stava predicando, facevano si che l'interesse iniziale per quel ascolto, probabilmente mosso prevalentemente da una semplice curiosità passeggera, venisse subito meno. E quella parola gettata dai predicatori itineranti veniva subito dispersa.

Quel “dove la parola è seminata” dice la modalità della predicazione, che avveniva pubblicamente nei luoghi di maggior afflusso delle persone (At 17,17). Gesù ne fu un esempio.

Un secondo motivo della dispersione della parole è l'incostanza (v.17) messa in luce da una situazione sociale difficile, che nasceva dalle persecuzioni. Marco, che sta scrivendo il suo vangelo a Roma, qui sta pensando probabilmente a quella di Nerone (54-68), che scatenò nel luglio del 64 contro i cristiani, per stornare su di loro le sue responsabilità circa l'incendio che devastò Roma. La difficile situazione dell'essere cristiani in un mondo completamente pagano comportava anche non poche tribolazioni. Si pensi a quelle familiari dove un qualche membro della famiglia aveva aderito alla nuova fede, lasciando e in un certo qual senso tradendo le divinità e l'antica fede dei padri. Gli evangelisti ne danno testimonianza allorché parlano di fratelli contro fratelli, di padri contro i figli, di madri contro le figlie e di queste contro le madri, di suocera contro nuora e di nuora contro suocera (Mt 10,21; Mc 13,13,12; Lc 12,53). Si pensi alle più ampie relazioni sociali con amici e conoscenti o semplicemente vicini di casa che rompevano i rapporti o lanciavano false accuse o additavano o mormoravano o calunniavano il nuovo credente, che veniva a trovarsi in mezzo ad una bufera sociale e relazionale e affettiva in genere. In tal senso ne danno testimonianza Mt 10,22a; 24,9; Mc 13,13a; Lc 21,12.17.

Assoggettato a queste notevoli pressioni affettive, sociali e relazionali in genere il nuovo credente, a causa di queste, lasciava la parola, che inizialmente aveva accolto con entusiasmo.

Ma al di là di queste difficoltà vi erano anche le condizioni personali di vita come le preoccupazioni quotidiane, le ricchezze o l'amore per le cose e i beni terreni tali da far dimenticare o comunque tali da far perdere il proprio interesse per la parola, che invece annuncia realtà spirituali.

Tuttavia la parola aveva anche la fortuna di essere accolta da persone spiritualmente sensibili, particolarmente colpite da questo nuovo messaggio di vita, per cui lo trattenevano presso di sé, cercando di approfondirlo e custodendolo come un tesoro, che tenevano intimamente dentro di loro e che soprattutto cercavano di vivere, testimoniandolo in tal modo anche agli altri e divenendo così, a loro volta, inconsapevoli seminatori di questa nuova Parola. Questo crescendo continuo del trenta, sessanta e del cento non dice soltanto il rapido e crescente diffondersi del Vangelo, ma anche i grandi frutti spirituali che produceva in ciascun credente, rimasto fedele alla Parola, a seconda delle sue disposizioni interiori.

L'esegesi della parabola del seminatore si conclude con due ammonimenti, il primo riguarda la necessità-dovere di portare alla luce i misteri del Regno di Dio, che vengono rivelati e depositati presso le comunità credenti, perché tutti, sia all'interno delle stesse comunità sia al di fuori, possano essere illuminati e interpellati da questi misteri, a cui devono dare una risposta esistenziale e ad essi conformarsi esistenzialmente (vv.21-23). Il secondo monito riguarda la disponibilità di ogni credente, e con lui di ogni uomo, ad accogliere senza remore e limitazioni la parola, poiché se così non fosse essa verrà tolta, mentre agli altri verrà somministrata ancora di più e pienamente rivelata e in questi fruttificherà in modo sempre più crescente (vv.24- 25).

Il v.21 si apre con un'espressione tutta redazionale, che, da un lato, crea una continuità narrativa con la pericope vv.10-20, dall'altro, introduce, staccandola da quella, una nuova pericope posta a suo commento, assieme ai vv.24-25, che si muovono sulla stessa linea di 21-23: “E diceva loro”, espressione che si ripete al v.24a e che può tradursi con “continuava a dire”, legando, quindi, le due pericopi vv.21-23.24-25 a quella dell'esegesi della parabola del Seminatore. Quindi queste due brevi metafore della lucerna e della misura hanno a che vedere e sono poste in stretta relazione alla spiegazione della parabola del Seminatore.

I due moniti si sono resi necessari per evitare un possibile equivoco generato dai vv.11-12, in cui si dice che i misteri del Regno sono riservati esclusivamente ai discepoli, escludendo tutti gli altri, creando in tal modo una sorta di alone misterico attorno al Regno di Dio e al suo messaggio contenuto nella Parola. Se questo è vero nel suo inizio, per evitare dispersioni e malintesi, questo non lo è più quando l'inizio diventa una continuità sempre più espansiva, che punta ad abbracciare tutti gli uomini (1,14b-15.38-39). Da qui la prima precisazione-monito: “Forse che viene la lucerna affinché sia posta sotto il moggio o sotto il letto? Non (forse) perché sia messa sul candelabro?”. In altri termini, la venuta di Gesù, rivelazione del Padre, è una luce che per sua natura è finalizzata a illuminare tutti gli uomini e non può, quindi, essere sotto il moggio o sotto il letto misterico di un ristretto club privato, ma va posta sul candelabro della pubblica predicazione, perché questa faccia luce a chiunque entri nel suo raggio di azione.

Il v.22 è rafforzativo ed esplicativo del v.21 attestando che il messaggio del Regno che ora viene affidato in modo riservato ai Dodici e con loro ai discepoli va, poi, predicato e reso palese a tutti gli uomini, per evitare che la luce che Gesù è venuto a portare rimanga soffocata dalla misteriosità e dalla riservatezza con cui necessariamente è iniziata. Nessuno, quindi, deve essere escluso da questa luce, ma tutti gli uomini ne devono beneficiare.

Sia pur brevemente, con questa pericope sulla lucerna e con il nascosto che è destinato ad essere manifestato, Marco prospetta la missione stessa della chiesa, erede della Parola illuminante e salvifica di Gesù, che da lui passa alla chiesa, cioè ai discepoli attorno ai Dodici, e da questa a tutti gli uomini.

Il v.23 potremmo definirlo di transizione, perché nel chiudere la pericope vv.21-22, sollecitando l'ascoltatore a comprendere bene ciò che si è detto circa la lucerna da porre sul candelabro, in cui si affida alla chiesa la diffusione della luce ricevuta da Gesù, introduce nel contempo quella successiva, vv.24-25, sulla misura, che riguarda la capacità di ascolto e di comprensione della Parola: “Se qualcuno ha orecchi per ascoltare, ascolti”.

Il secondo monito (vv.24-25) viene legato al primo (vv.21-22) e con questo alla spiegazione della parabola del Seminatore (vv.14-20). Anche questo viene introdotto dall'espressione “E diceva loro”, che lo stacca dal precedente, ma nel contempo lo completa, poiché se, da un lato, la missione illuminatrice della chiesa è un suo preciso dovere, dall'altro, si rende necessario che questa luce sia stata accolta integralmente e pienamente, senza remore e senza incertezze, con sua piena intelligenza, poiché è una luce che non le appartiene, ma che ha ricevuto perché la diffondesse. Da qui il sollecito “Guardate ciò che ascoltate”. L'attenzione, pertanto, qui si sposta dalla luce, che deve essere diffusa, al contenuto stesso di questa luce. Il riferimento qui è alla spiegazione della parabola del Seminatore, cioè il messaggio che in questa parabola è contenuto.

Il v.24 prosegue con un monito che contiene in se stesso un giudizio di condanna. La misura è la capacità di sapersi porre di fronte alla Parola, di saperla accoglierla pienamente e senza preclusioni, conservandola così com'è e approfondendola senza snaturarla, poiché diversamente, la sua manipolazione sarebbe una sorta di sua appropriazione indebita; mentre quel “sarà misurato a voi” lascia intendere che tutto ciò non sarà senza conseguenze, ma avrà una conseguenza proporzionata al danno causato; mentre quel “sarà posto davanti a voi” dice che il manipolatore sarà chiamato a rispondere di quanto ha fatto.

Quale sia la condanna per questa adulterazione della Parola viene precisata dal v.25: “Chi infatti ha, gli sarà dato; e chi non ha anche ciò che ha sarà tolto da lui”. In altri termini, la Parola va lasciata a chi la serve con fedeltà e ne avrà sempre più una maggiore e migliore comprensione; mentre all'infedele la Parola viene tolta e con lei tutto il bagaglio di salvezza che essa porta con sé. In altri termini, l'infedele viene scomunicato.

Le due parabole del Regno (vv.26-32)

Testo a lettura facilitata

Prima parabola (vv.26-29)

Il Regno di Dio è fondato sulla Parola (v.26)

26- E diceva: <<Così è il regno di Dio, come un uomo che ha gettato la semente sulla terra di

La crescita del Regno non dipende dall'uomo (v.27)

27- e che doma e che si levi, notte e giorno, e che la semente germogli e che si moltiplichi, in quale modo, egli non (lo) sa.

L'esempio della terra (v.28)

28- La terra fruttifica da sé, prima (l')erba, poi (la) spiga, quindi (il) grano pieno nella spiga.

La fruttificazione escatologica del Regno (v.29)

29- Ma quando il frutto si consegna, subito manda la falce poiché il tempo della mietitura s'è presentato>>.

Seconda parabola (vv.30-32)

L'introduzione (v.30)

30- E diceva: <<Come faremo simile il regno di Dio? O in quale parabola lo metteremo?

Il più piccolo granello seminato …. (v.31)

31- Come ad un granello di senape, che allorché fu seminato sulla terra, (è) il più piccolo di tutti semi sulla terra,

. che contiene in se stesso una potente dinamica espansiva e accogliente (v.32)

32- e allorché fu seminato, cresce e diviene il più grande di tutti gli ortaggi e fa grandi rami, così che gli uccelli del cielo possono riposare>>.


Note generali

Le due parabole in esame (vv.26-29.30-32) originariamente formavano un blocco unico con quella del Seminatore (vv.3-9), ma successivamente vennero scisse per dare spazio all'esegesi della parabola del Seminatore (vv.10-25). In tal modo si è sbiadito di molto il senso delle due parabole riguardanti il Regno di Dio, posto qui in stretta relazione con la Parola seminata.

Lo stretto legame di entrambe le parabole con quella del Seminatore è dato dal comune tema della semente gettata nella terra, mentre la prima di queste due parabole sul Regno rileva ancor più il suo legame con quella del Seminatore, richiamando qui espressamente la gestualità di quel seminatore (vv.3.14), che getta, là come qui, la sua semente nella terra (v.26b).

Queste due parabole, pertanto, sono complementari a quella del Seminatore e mettono in evidenza un elemento molto importante: la Parola è generatrice del Regno di Dio, il quale su questa si fonda e su questa trae la sua forza di crescita e di espansione. La Parola, infatti, possiede in se stessa una potenza creatrice (Gen 1,1-31; Gv 1,3), capace di rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio (1Pt 1,23). Eb 4,12a attesta che “La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio”. La Parola di Dio, quindi, ben lungi dall'essere un semplice evento letterario è ancora prima un Essere Vivente; ed è efficace, cioè produce quello che dice, poiché per questa Parola non vi è distinzione tra il dire e il fare, ma il suo dire è nel contempo anche il suo fare.

Da qui l'importanza che la chiesa primitiva attribuiva alla predicazione, quale strumento di diffusione non di un'ideologia o di una filosofia, ma di un Essere Vivente, che si trasmette ed opera efficacemente attraverso la Parola e con la Parola si identifica6.

Commento ai vv.26-32

La prima parabola (vv.26-29), complementare a quella del Seminatore, si apre richiamandosi espressamente a questa (v.26b), presentando un uomo che getta la semente sulla terra. La semina pertanto dipende dall'uomo. In tal senso Dio ha bisogno degli uomini. Una Parola non seminata attraverso la predicazione rimane un seme infruttifero, di cui il seminatore negligente è responsabile. Ma allorché questi la semina e la fa cadere sul terreno buono e su questo attecchisce, la sua crescita e la sua affermazione non dipende più dal seminatore, ma rientra nel mistero di Dio e del suo progetto, poiché tale Parola possiede in se stessa una dinamica preordinata e ordinata a raggiungere lo scopo per cui è stata seminata.

Un'immagine sostanzialmente identica viene fornita da 1Cor 3,5-9 dove Paolo e Apollo hanno piantato e irrigato nel campo delle persone la semente della Parola, che solo Dio fa crescere secondo le capacità di ciascuno: “Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma Dio che fa crescere. Non c'è differenza tra chi pianta e chi irriga, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l'edificio di Dio

Il v.28 costituisce una esemplificazione del v.27, una sorta di sua esegesi: “La terra fruttifica da sé, prima (l')erba, poi (la) spiga, quindi (il) grano pieno nella spiga”. In questo esempio viene illustrata la dinamica della crescita di un chicco di grano, che possiede in se stesso una potenzialità e un dinamismo tali per cui, una volta che esso sia stato seminato, questo dinamismo entra in azione e comincia a manifestarsi, in modo ordinato, secondo uno schema preordinato per cui dapprima compare una pianticella, poi la spiga, che funge da contenitore del grano; ed infine il grano, che viene alloggiato nella spiga. Tutto questo non avviene per volontà del seminatore, ma per un meccanismo oscuro che è racchiuso nel DNA del seme stesso, che accolto dalla terra, germoglia. Il tutto avviene “in quale modo, egli non (lo) sa”. In atri termini, l'attecchire, il crescere, fino alla piena maturazione stabilita dallo stesso DNA del grano, questo rientra nel mistero di Dio stesso e del suo progetto salvifico. Non sta quindi all'uomo stabilire i tempi della crescita, ma a Dio. Compito dell'uomo è, invece, di essere un seminatore diligente della Parola, poiché tutto nasce da questo gesto del seminare, senza il quale il seme della Parola rimane infruttifero.

Tutto questo dinamismo, semina della semente, suo attecchimento, il suo sviluppo preordinato fino al raggiungimento dello scopo ultimo, quello del generare un frutto maturo, non è fine a se stesso, ma allorché il frutto è giunto a maturazione è giunto anche il suo compimento e quindi il suo tempo è compiuto e non gli resta che consegnarsi al tempo successivo, quello della mietitura. Il v.29 infatti apre la semina del Regno di Dio per mezzo della Parola ai tempi escatologici, che dicono il compimento del progetto di Dio: riaffermare il potere di Dio in mezzo agli uomini, metaforizzato nel Regno di Dio, così com'era ai primordi dell'umanità, per ricondurre l'uomo in seno a Dio stesso (1Cor 15,25-28), così com'era stato fin dagli inizi, allorché tutto era ancora incandescente di Dio e dal quale l'uomo era drammaticamente uscito, perdendosi nel nulla della sua storia vissuta in opposizione a Dio. Un progetto grandioso, che ha la sua origine nella fragilità di una Parola seminata in un terreno difficile: “Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1Cor 1,21).

Se la prima parabola (vv.26-29) parla della semina della Parola ad opera dell'uomo e della sua crescita fino alla fruttificazione, avvolte queste ultime nel mistero di Dio, la seconda parabola (vv.30-32), che stacca dal contenuto della prima per la diversa tematica (v.26), racconta di un Regno di Dio che qui, invece, ha già attecchito e già si è sviluppato e delle sue grandi potenzialità di accoglienza. In altri termini Marco sta descrivendo la realtà della chiesa nascente, che seminata dal piccolo e fragile seme della Parola, si è affermata e si sta diffondendo ovunque rapidamente e nella quale confluiscono da ogni dove le genti, che in essa vengono accolte. Una chiesa, dunque, che viene vista non solo nella sua realtà presente, ma anche in quella futura (v.32). Una visione, quindi, sostanzialmente ottimistica, come il crescere di questa Parola del 30, 60 e 100 per cento.

La nuova linea missionaria della predicazione (vv.33-34)

Testo

33- E con molte simili parabole diceva loro la parola, come potevano ascoltare;
34- senza parabola non parlava loro, privatamente ai suoi discepoli esponeva tutte le cose.


Analisi e commento ai vv.33-34

I due versetti in esame chiudono la sezione delle parabole, creando il v.33a inclusione con il v.2, delimitando in tal modo l'area tematica. Proprio per questo il v.33a doveva essere nato assieme alla prima stesura del cap.4, che prevedeva l'intero cap.4 ad esclusione dei vv.10-25.

Similmente i vv.33b-34 dovevano essere presenti nella prima stesura, perché il v.33b viene posto in qualche modo a precisazione del v.2c dove si dice che Gesù, salito in barca, da lì predicava, mentre la folla si accalcava in riva al lago, ma non riusciva a raggiungere Gesù. Tra Gesù e la folla c'era il limite invalicabile dell'acqua che li teneva separati. Una sorta di metafora per dire come la predicazione di Gesù in parabole lo rendesse sostanzialmente irraggiungibile nel suo mistero dalla gente, lasciando alla sola comprensione della folla il loro senso: “come potevano ascoltare”. Il limite invalicabile della predicazione in parabole viene confermato dal v.34a, il cui senso, per contrapposizione di spiegazione, viene rilevato dalla seconda parte del v.34, dove si dice che invece ai discepoli, privatamente, le parabole venivano spiegate.

A ben guardare i vv.33-34 sono disposti a chiasmo, per cui il v.33a si completa con il 34b; mentre il v.33b si completa con il v.34a. Per cui si avrà:

A)E con molte simili parabole diceva loro la parola” (v.33a)

mentre

A1) “privatamente ai suoi discepoli esponeva tutte le cose” (v.34b)


B) “come potevano ascoltare” (v.33b)

perché

B1)senza parabola non parlava loro” (v.34a)

Il senso di questo gioco chiasmico ha poi portato alla costruzione dei vv.11-12, successivamente inseriti assieme alla sezione dell'esegesi della parabola del Seminatore, così che apparisse in termini più chiari il loro senso, supportato anche dalla citazione scritturistica del v.12, che giustifica la discriminazione tra quelli che sono di fuori da quelli che sono dentro. Tema questo che già era stato affrontato con la pericope circoscritta dai vv. 3,20-21.31-35.

Un racconto di transizione: la barca in difficoltà (vv.35-41)

Testo a lettura facilitata

Preambolo (v.v35-36)

35- E dice loro in quel giorno, giunta la sera: <<Passiamo dall'altra parte>>.
36- Ed (essi) lasciata la folla, lo presero con (loro) com'era nella barca; ed altre barche erano con lui.

Le difficoltà della navigazione (v.37)

37- E ci fu una grande bufera di vento e le onde si gettavano nella barca, così che già la barca si riempiva.

Lo strano sonno di Gesù (v.38a)

38a- Ed egli era a poppa, mentre dormiva sul guanciale.

La preghiera esaudita e il rimprovero (vv.38b-40)

38b- E lo svegliano e gli dicono: <<Maestro, non t'importa che siamo perduti?>>.
39- E svegliatosi sgridò il vento e disse al mare: <<Taci. Sta zitto>>. E il vento cessò e ci fu una grande calma.
40- E disse loro: <<Perché siete timorosi? Non avete ancora fede?>>.

Un atto di riconoscimento e di adorazione (v.41)

41- E furono spaventati da grande paura e dicevano gli uni agli altri: <<Chi dunque è costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?>>.


Note generali

La pericope in esame va considera come un racconto di transizione dal cap.4, ma idealmente dai capp.2-4, al cap.5, a cui si salda con la sua introduzione (5,1), formando in tal modo inclusione con 4,35b.

A partire dal cap.2 si è innescata tra Gesù e le autorità religiose una sempre più crescente tensione, che ha generato, dapprima, le cinque dispute galilaiche (2,1-3,6), accompagnate, poi, dall'incredulità degli stretti familiari di Gesù (3,20-21.31-35) e dalle infondate accuse da parte delle stesse autorità religiose (3,22-30), così che Gesù deve correre ai ripari e cambiare strategia missionaria: non più una predicazione diretta e aperta fin lì operata, che genera incomprensioni, ma attraverso il metodo delle parabole (4,1-34), piccoli aneddoti avvincenti, che interpellano l'ascoltatore e lo costringono a identificarsi in qualche modo con i personaggi e le vicende narrate, a prendere esistenzialmente posizione. Parabole che, tuttavia, usano una sorta di linguaggio criptato, che abbisogna di una sua corretta interpretazione per la comprensione del contenuto, che si vuole trasmettere.

Vi è, quindi, a partire dal cap.2,1 e fino a tutto il cap.4,34 un crescendo di tensioni che rendono difficile la missione di Gesù e, di conseguenza, la sequela dei suoi stessi discepoli. Ci si trova, pertanto, metaforicamente parlando, in una barca sconquassata dai venti della polemica e dalle onde minacciose dei propositi omicidi delle autorità religiose (3,6). Una barca che rischia di affondare tra le acque pericolose dell'insuccesso.

Non va escluso, tuttavia, che il racconto, da un punto di vista storico, voglia in qualche modo illustrare le reali difficoltà in cui si sta dibattendo la chiesa di Roma per la persecuzione di Nerone, scatenata a partire dal luglio del 64 d.C.7. Marco, infatti, scrive il suo vangelo (65-69 d.C.) proprio in questo contesto, sollecitando, così i credenti di Roma a confidare in Gesù, che, pur avvolto nel suo silenzio, è tuttavia lì presente con loro e non li abbandonerà, né lascerà che la barca affondi.

Ed è ciò che questo racconto di sintesi e di transizione vuole trasmettere ai lettori. Di “sintesi” perché il racconto in quel vento e in quelle acque minacciose metaforizza le tensione dei capp.2,1-4,34; e, nel contempo, di transizione, perché chiudendo questa ampia sezione, a cui si aggancia con i vv.35-36, traghetta il lettore al racconto del successivo cap.5, che si apre riprendendo il v.4,35, formando in tal modo inclusione con questo.

Lo sfondo biblico su cui si muove il racconto è quello del Sal 106,23-30, che ne riproduce lo schema, e che richiama da vicino il racconto di Giona 1,4; mentre l'invocazione dei discepoli travolti dalle acque, richiama da vicino i Sal 31,6; 68,2 e 143,7; mentre l'acquietamento del vento e delle acque hanno il lor stretto riferimento ai Sal 28,3; 106,29 e 148,8.

Commento ai vv.35-41

I vv.35-36 contestualizzano significativamente il racconto della traversata burrascosa del lago di Gennezaret (da Cafarnao a Gerasa) al termine della giornata della predicazione in parabole di Gesù, alla quale si aggancia anche per la menzione al v.36 della folla e della barca, dalla quale Gesù somministrava il suo insegnamento alle folle in riva al lago. Viene, quindi, richiamato il contesto di 4,1-2, quasi a mo' di inclusione. Ho detto “significativamente”, perché il cap.4 è posto a completamento e conclusione dei cap.2-3, che rilevano le forti tensioni che si sono create attorno a Gesù a causa della sua predicazione, così da spingerlo a cambiare strategia: dalla predicazione diretta e aperta a quella criptata e non immediatamente raggiungibile delle parabole. Il racconto della difficile traversata, pertanto, con linguaggio della metafora, allude a queste difficoltà.

L'espressione temporale “giunta la sera” (“Ñy…aj genomšnhj”, opsías ghenoménes), con cui si apre il racconto, ricorre in Marco cinque volte8, e narrativamente viene usata dall'autore per chiudere una sezione o un determinato contesto narrativo, traghettando il lettore verso un altro. Similmente avviene per Matteo, che usa l'espressione per sette volte con gli stessi intenti. Diversamente da Luca e da Giovanni, dove questa non ricorre mai. E questo dice come tra Matteo e Marco vi sia una sorta di affinità culturale, entrambi sono giudei ed entrambi scribi, diversamente dal greco Luca, che pur seguendo quasi pedissequamente il racconto marciano, tuttavia non ricorre mai a simili espressioni. Mentre Giovanni usa un linguaggio completamente diverso, più che narrativo, contemplativo e riflessivo, che si muove su di uno sfondo sapienziale e sentenziale.

Il v.35 si conclude con il comando di Gesù, che pone fine alle dispute galilaiche, accompagnate dalle polemiche e dalla stessa incredulità dei suoi familiari: “Passiamo dall'altra parte”. Un perentorio invito a voler chiudere con questa esperienza negativa, nata a seguito della sua prima predicazione; a girare pagina e a proseguire nella missione, che non poteva arenarsi per queste prime difficoltà. Quel “passare dall'altra parte” dice implicitamente un abbandono del giudaismo e dei suoi stessi familiari, affetti da inintelligenza e incredulità. La missione, dunque prosegue, va oltre, anzi “dall'altra parte”, che il v.5,1 indicherà come Gerasa, la terra del nuovo approdo della missione di Gesù, una delle dieci città della Decapoli, la terra pagana, di cultura greco-ellenista. Il rifiuto dei Giudei aprirà la strada verso il mondo pagano (Rm 11,15a.25), dove la prima azione di Gesù, prima ancora dell'annuncio della sua parola, sarà un esorcismo, cioè la liberazione dell'uomo dal potere di satana, per renderlo disponibile ad accogliere la Parola della salvezza (5,19-20). Cosa che non è riuscita in terra giudaica, perché Gesù è stato inopinatamente accusato dalle autorità giudaiche di operare in nome e per conto di Belzebù (3,22-30). Un esorcismo che occuperà quasi metà del cap.5 e che, vedremo subito, verrà in qualche modo anticipato nel linguaggio caratteristico dell'esorcismo nel racconto della burrascosa traversata del lago.

Il v.36 descrive l'attuazione del comando di Gesù, quello di passare dall'altra parte, cioè di continuare la missione, questa volta, in terra pagana (5,1), riprendendo la scena con cui si apriva il cap.4,1b, dove Gesù “salito in barca, sedeva nel mare, e tutta la folla presso il mare erano sulla terra”. Ora c'è il processo inverso: i discepoli lasciano la folla e prendono con loro Gesù, che già era nella barca, dalla quale annunciava. Si noti come qui non è più Gesù che prende con sé i Dodici, ma sono questi a prendere con loro Gesù, a rimanere, quindi, in comunione con lui, insieme nella stessa barca, che forma il nucleo storico fondante della chiesa. Un'attestazione di fedeltà e di comunione con Gesù, che colloca i “Dodici” in un tempo post pasquale e che dice come loro sono quelli che hanno preso Gesù con loro e loro sono nella stessa barca dove c'era e ancor oggi c'è, benché “dormiente”, Gesù.

Significativa è la conclusione del v.36, che si pone in qualche modo in parallelo a 36a: come i Dodici prendono “con loro” Gesù sulla stessa barca, su cui Gesù già c'era e da cui Gesù già annunciava, quindi ci si trova di fronte ad una barca storica in quanto nucleo originario, così anche altre barche si muovono consone al seguito della barca di Gesù con i Dodici. Barche che Marco sottolinea sono “con lui”. Vi è quindi una perfetta comunione tra la barca storica in cui si trovano Gesù e i Dodici e le altre barche. L'allusione probabilmente qui è alla chiesa madre di Gerusalemme, a cui anche le altre comunità ecclesiali facevano riferimento e alla quale sono legate. Non va dimenticato che Marco è un giudeo della diaspora che fa parte della comunità credente di Roma, fondata da Pietro, membro autorevole della chiesa madre di Gerusalemme, e, quindi, vi è qui una sorta di attestazione di fedeltà di Roma a Gerusalemme9. Quanto qui viene narrato, infatti, in questo episodio della tempesta sedata riguarda la chiesa dei tempi successivi a Gesù. A governare questa barca sballottata e minacciata dalle onde, infatti, non vi è Gesù, ma soltanto i Dodici. Gesù è presente, ma nel contempo assente, poiché egli dorme.

I vv.37-40 descrivono l'intero dramma della barca, che è scandito in due parti:

  1. la barca sta per essere travolta dalle onde e il panico si scatena a bordo (vv.37-38);

  2. il calmo e sovrano intervento di Gesù sulla furia del vento e delle acque placa il loro tumulto e la barca torna a navigare nella quiete (vv39-40).

L'immagine descritta dai vv.37-40 richiama da vicino quella della creazione, allorché lo Spirito di Dio aleggiava sopra il caos primordiale delle acque e di una terra deserta e informe (Gen 1,2) e con la potenza della sua Parola poneva fine al caos primordiale e dava inizio alla creazione, a un nuovo ordine di cose, avvolte dalla luce divina (Gen 1,3), rendendo tutto incandescente di Dio, così che alla fine “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a).

Il v.37 si apre fosco e minaccioso, offrendo lo scenario di una bufera di vento che solleva grandi onde così che la barca stava per esserne inghiottita. I verbi posti tutti all'imperfetto indicativo dicono che il pericolo non era momentaneo, ma persistente e s'imbatteva con la totale incapacità dei discepoli a governarla. La scena è drammatica e preannuncia l'imminente fine della barca e di tutti i suoi occupanti. Così come queste prime tensioni con le autorità giudaiche e con gli intimi stessi di Gesù sembrano far fallire la sua missione e la piccola barca di Gesù con i suoi, da poco costituita (3,13-19), dispersa definitivamente. In questa tempesta di vento, che solleva grandi onde che sembrano travolgerla e affondarla vanno lette anche le grandi traversie che la chiesa nascente stava affrontando proprio mentre Marco stava scrivendo il suo vangelo: gli scontri e le persecuzioni da parte del mondo giudaico10, le persecuzioni come quella di Nerone (64-65 d.C.), la prima grande guerra giudaica (66-73 d.C.). Era questo il contesto di forti tensioni in cui la chiesa nascente si stava dibattendo impotente. Sovente nella Bibbia le immagini del vento e delle acque sono prese a metafora di persecuzioni o di eventi disastrosi o disgrazie che si abbattono sull'innocente11.

Il v.38 si apre con una scena incredibile, diametralmente contrapposta a quanto sta accadendo tutt'intorno: “Ed egli era a poppa, mentre dormiva sul guanciale”. La posizione di Gesù qui non è centrale, ma si trova completamente dall'altra parte della barca, in quella posteriore, quindi fuori da ogni zona di operazione. Egli è lì presente in mezzo ai suoi ed è lì con loro, ma è come se non ci fosse, perché sta dormendo. Il governo della barca, la responsabilità della sua conduzione, infatti, non è di Gesù, ma dei Dodici, che in mezzo a queste onde si stanno dibattendo senza successo. Viene descritta una situazione apparentemente paradossale, ma in realtà, qui, Marco sta descrivendo la condizione della chiesa post-pasquale, che deve da sola affrontare le difficoltà che incontra lungo la sua traversata della storia. Spetta, ora, ai Dodici la conduzione di questa barca sballottata dalle onde e dal vento. Il sonno di Gesù dice la sua assenza fisica dalla sua barca dopo la sua risurrezione, benché egli sia ancora di fatto ancora presente in mezzo ai suoi. Non è Gesù che guida il timone, che rema e lotta contro il vento e le onde, che stanno per travolgere e affondare la barca, ma i Dodici. Ma lui è lì presente, anche se apparentemente assente. Egli “dorme su di un cuscino”, un sonno morbido che avviene su di un cuscino e non su quella dura pietra dove posare il capo, di quando era un predicatore itinerante o come era proprio del viandante, che sostava occasionalmente sulla via per riposare. Non c'è più quella condizione storica. Un allusione, dunque, alla sua nuova condizione di risorto? A questo Gesù i Dodici si rivolgono con un gesto e un verbo, “lo svegliano”, che richiama in qualche modo Ef 5,14b: “Svegliati, tu che dormi, e alzati dai morti, e Cristo ti illuminerà”. Certo, il contesto là è diverso e il sollecito di Ef 5,14b è rivolto al credente, che immerso nella luce del Risorto con il battesimo, deve ora lasciarsi illuminare dalla sua luce nel cammino della sua vita, poiché egli è passato dalla morte alla vita. Ma se diverso è il contesto e l'uso che viene fatto di questo frammento di un antichissimo inno, probabilmente proclamato in un contesto battesimale, tuttavia il senso qui non cambia. Marco sollecita con il racconto le comunità credenti a rivolgersi al Risorto, certo non più fisicamente e storicamente presente, ma comunque sempre in mezzo a loro e la sua potenza non è da meno ora rispetto a prima. L'invocare il Risorto significa evocarlo, risvegliarlo da quel sonno, da quel silenzio in cui è avvolto, per renderlo presente con la sua potenza in mezzo alla sua chiesa.

E, ora, i discepoli si rivolgono al “Gesù dormiente sul cuscino”, cioè al Risorto e lo evocano, lo rendono ancora presente in mezzo a loro, rimproverandolo per quella sua “assenza”, che è ora il suo nuovo modo di essere presente. Non l'hanno ancora capito, per questo si rivolgono a lui rimproverandolo: “Maestro, non t'importa che siamo perduti?” Un brutto modo di “risvegliare” Gesù, al quale viene rinfacciato in qualche modo di fregarsene di loro, della sua barca, dettato dalla loro poca fede in lui; quella poca fede, che verrà rimproverata loro da Gesù e con cui, a mo' di morale della storia, si chiude il racconto della drammatica traversata (v.40) e che funge, proprio per questo, da monito: serve fede in lui, per superare le burrasche della storia.

Il v.39 è totalmente dedicato all'intervento del Gesù risvegliato dall'invocazione dei suoi. Quel “svegliatosi” dice la potenza divina che opera nella preghiera, capace di svegliare, cioè di rendere presente ed operante Gesù con la sua potenza in mezzo alla sua chiesa. Il verbo è qui posto al passivo teologico o divino (diegerqeˆj, dieghertzeís, risvegliato), che rimanda l'azione del “risvegliare” a Dio stesso, quasi a dire che in quella preghiera, sia pur dettata dalla disperazione e dall'incredulità, opera sempre la potenza di Dio capace anche di operare una nuova risurrezione. La preghiera non è mai un'azione umana, ma un canale spirituale, che mette in comunione l'uomo con Dio, dal quale Dio fa transitare la sua potenza spirituale nell'uomo, infondendogli forza, coraggio, luce, capacità di sostenere e superare le prove a cui ogni credente e la sua chiesa stessa sono chiamati, poiché egli ci ha lasciato in eredità la sua promessa: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20b). Una presenza che si attua attraverso il dono dello Spirito, che crea comunione tra il credente e il Risorto e in lui con il Padre.

L'azione che il Risorto opera ora nella sua chiesa in mezzo alle difficoltà è la stessa con cui egli ha operato gli esorcismi qui nella storia, cioè la stessa potenza di Dio che opera per mezzo del suo Spirito: “sgridò il vento e disse al mare: <<Taci. Sta zitto>>”. Se, da un lato, l'espressione richiama da vicino l'esorcismo che Gesù ha operato nella sinagoga (1,25), come ora lo sta operando qui nella sua barca, dall'altro, preannuncia in qualche modo al lettore il nuovo esorcismo che sta per compiersi al cap.5 (vv.1-20). Ci si trova, dunque, di fronte ad un racconto di transizione, che concludendo il cap.4, traghetta il lettore ad un nuovo racconto, che qui, attraverso un linguaggio esorcistico, viene in qualche modo preannunciato. L'esorcismo dice sempre lo spodestamento del potere di satana sull'uomo e l'affermarsi di quello di Dio, che in Gesù è venuto a riprendersi ciò che gli apparteneva fin dai primordi di quell'umanità, creata a sua immagine e somiglianza.

Il v.39b dice tutta l'efficacia della parola di Gesù, creatrice e ricreatrice, nonché, attraverso la sua chiesa, rigeneratrice dell'umanità: “E il vento cessò e ci fu una grande calma”. La congiunzione “E” con cui si apre la seconda parte del v.39, lega il v.39b all'azione esorcistica di Gesù e ne fa la sua conseguenza. Tutto è ristabilito e il caos primordiale riordinato dalla potenza creatrice della Parola (Gen 1,2): “ci fu una grande calma”. Tutto, quindi, viene ricondotto nel nuovo ordine delle cose, secondo il prestabilito piano salvifico del Padre12, che si manifesta e si attua in Gesù e prosegue nei secoli nella sua Chiesa, la nuova forma e il nuovo modo di essere del Risorto qui nella storia. Egli continua a camminare in mezzo ai suoi e con i suoi in mezzo agli uomini, continuando ad annunciare che Dio è ritornato in mezzo a loro e tende a tutti nuovamente la sua mano.

Con il v.41 ancora una volta Marco non si lascia sfuggire l'occasione di attirare l'attenzione del suo lettore sul Mistero dell'identità di Gesù e lo fa inserendo l'interrogativo in un contesto teofanico con cui si apre il v.41, dove lo spavento e la grande paura, che dicono la reazione dell'uomo all'irrompere del divino nella storia, anticipano in qualche modo la risposta che i “Dodici con lui” si pongono: “Chi dunque è costui che anche il vento e il mare gli obbediscono?”. L'intervento di Gesù, cioè questo esorcismo posto sulla natura decaduta ed ostile, dunque, è rivelativo del suo Mistero, poiché rimanda a quel aleggiare dello Spirito di Dio sulle acque primordiali, dove la sua Parola dominatrice e creatrice mette ordine nelle cose e stabilisce l'intera creazione nella luce divina: “Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu” (Gen 1,3). Tutto, dunque, era incandescente di Dio, così che “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31).

È questo il senso dell'esorcismo: sottrarre l'uomo e con lui l'intera creazione al potere di satana per ricondurre tutti e tutto nuovamente in Dio (Rm 8,19-23; 1Cor 15,28).





NOTE

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2A meno che per “parabole” Marco non intendesse le singole e diverse esemplificazioni metaforiche delle quattro tipologie di terreni. Oppure non facesse riferimento al blocco delle tre parabole che formavano originariamente la sezione, quella del Seminatore, quella della lucerna e quella della misura.

3Cfr. 1Ts 4,12; 1Cor 5,12; Fil 2,15

4I cinque grandi discorsi sono contenuti nelle seguenti sezioni: 5,1-8,1; 10,5-11,1; 13,3-13,53; 18,1-19,1; 24,4-26,1

5Cfr. la Parte Introduttiva al Vangelo di Matteo, pagg 13-17: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf -

6Cfr. At 6,4; 1Cor 1,17; 9,16; Rm 10,17; Tt 1,3

7Cfr. pag.12 del present studio

8Cfr. Mc 1,32; 4,35; 6,47; 14,17; 15,42

9Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

10Cfr. At 6,7-15.7,55-60; 8,1.3; 9,1-2; 12,1-5

11Cfr. 2Sam 22,17-18; Sal 17,17-18; 31,6; 92,4; 143,7; Sap 5,23; Ger 4,11-12; 22,22; Os 4,19; 13,15; Ap 12,15

12Cfr. At 2,23; Rm 3,25; Ef 1,9