IL VANGELO SECONDO MARCO



L'incredulità causa incomprensioni
e ostilità

Cap. 3 (Prima Area: 1,2-8,30)1


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




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Note generali

È difficile imbrigliare Marco all'interno dei capitoli, cercando di dare una struttura e uno sviluppo narrativo al suo racconto, benché ci sia una logica tematica sulla quale il racconto si muove2. Si è lasciato, infatti, il cap.2, quello delle diatribe, dove è emersa la sostanziale incompatibilità tra il giudaismo e il nuovo movimento nascente al suo interno (2,21-22) e che ha visto in Gesù il suo fondatore. Non si è trattata di una rivolta contro il giudaismo, ma una diversa visione e comprensione della Torah, che doveva radicarsi nel cuore dell'uomo, orientandolo esistenzialmente verso Dio; mentre il giudaismo, arroccato nelle sue convinzioni, ne ha fatto soltanto un testo di diritto divino da eseguire fisicamente, trasformandolo in un opprimente strumento di potere (Mt 23,2-7).

Ora il cap.3 prosegue in qualche modo lo scontro tra Gesù e le autorità giudaiche, e si apre con la quinta diatriba (vv.1-6), che viene posta in parallelo alla prima (2,1-12). Là, come qua, la diatriba si muove all'interno di un racconto dove, diversamente dalle altre tre diatribe (2,15-28), poste centralmente rispetto ai due racconti (2,1-12; 3,1-6), non vi è un aperto e diretto confronto-scontro tra Gesù e le autorità giudaiche, ma soltanto tacitamente formulato.

L'eco delle diatribe, tuttavia, non termina con 3,1-6, ma dopo un ampio intermezzo (vv.7-19), dove Marco intreccia il tema delle diatribe con la formazione della chiesa nascente, quasi a voler rilevare il clima di ostilità in cui questa chiesa primitiva si è costituita, riprende il tema della conflittualità tra Gesù e le autorità giudaiche, che lo ritengono in combutta con Beelzebul (vv.22-30) e, sorpresa, con quelli che più gli erano vicini ed intimi, sua madre e i suoi fratelli, che lo ritenevano fuori di testa (vv.21.31-32). Con questi brevi episodi Marco scava la psicologia degli avversari di Gesù e ne fa emergere il loro atteggiamento interiore, che si fonda sostanzialmente sulla loro inintelligenza dell'evento Gesù, sia questo da parte dei suoi familiari che delle autorità giudaiche e, come si vedrà in seguito in 6,1-6, anche ai suoi compaesani.

Marco, quindi, pone a fondamento del rifiuto da parte del giudaismo, dei parenti e dei compaesani di Gesù non solo la diversa visione e comprensione della Torah, come è emerso dalle diatribe, ma anche l'inintelligenza dell'evento Gesù da parte delle persone in genere, che crea in loro diffidenza.

Ed è proprio questo atteggiamento ostile e di sostanziale rifiuto, che porterà Gesù a fare una scelta radicale nella sua missione: quella di annunciare il “Vangelo” non più in modo diretto e aperto, la quale cosa provocava scandalo e rigetto (2,1-3,6), ma soltanto attraverso le parabole (4,33-34), cioè attraverso una sorta di linguaggio in codice, facilmente raggiungibile soltanto da parte di chi è interiormente ben disposto ad accogliere i Misteri del Regno di Dio, ma escludendo tutti gli altri (4,11-12).

La struttura narrativa del cap.3 è scandita in tre parti:

  1. I vv.1-6 danno continuità al capitolo precedente, quello delle diatribe, e nel contempo concludono la sezione delle diatribe, iniziatasi con 2,1, la cui eco, tuttavia, risuonerà nella terza parte di questo capitolo (vv.20-35);

  2. i vv.7-19 costituiscono una sorta di intermezzo narrativo, che riguarda la costituzione del nucleo fondante della chiesa: viene costituito e presentato il gruppo dei Dodici, definiti istituzionalmente come “apostoli”, la cui autorità e autorevolezza fonda direttamente sulla stessa volontà di Gesù;

  3. i vv.20-35 formano da cassa di risonanza alle diatribe e costituiscono un approfondimento delle cause di ostilità e rifiuto da parte delle autorità giudaiche e degli stessi familiari di Gesù. Alla base di tutto ci sta l'inintelligenza dell'evento Gesù; l'incapacità di comprenderne il Mistero, che si agitava in lui.

Commento ai vv.1-35


Quinta diatriba: la questione morale del sabato (vv.1-6)


Testo a lettura facilitata

Il contesto (v.1)

1- Ed entro di nuovo nella sinagoga, e c'era là un uomo che aveva la mano inaridita.

L'atteggiamento ostile (v.2)

2- E lo spiavano (per vedere) se l'avrebbe curato di sabato per accusarlo.

La questione morale del sabato (vv.3-4)

3- E dice all'uomo, che ha la mano arida: <<Alzati nel mezzo>>.
4- E dice loro: << È lecito di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o uccider(la)?>>. Ma quelli tacevano.

Il giudizio di Dio sulla durezza di cuore (v.5)

5- E guardandoli tutt'intorno con ira, addolorandosi nel contempo per la durezza del loro cuore, dice all'uomo: <<Stendi la mano>>. E (la) stese e la sua mano fu ristabilita.

Il preludio alla passione e morte di Gesù (v.6)

6- E usciti, i Farisei tenevano subito consiglio con gli Erodiani contro di lui, in quale modo farlo perire.

Note generali

Il cap.2 si era chiuso con l'episodio dei discepoli che strappavano delle spighe di grano da un campo in giorno di sabato, commettendo, secondo le prescrizioni giudaiche, una sua violazione. Il racconto si concludeva con una doppia sentenza che, da un lato, rovesciava completamente la concezione teocentrica del sabato, affermando che il sabato è fatto per l'uomo e non viceversa (2,27); dall'altro, affermava la supremazia del Figlio dell'uomo sul sabato (2,28) e, quindi, anche la sua capacità giuridica e il suo potere di reinterpretarlo a favore dell'uomo, dandone, in tal modo, una corretta comprensione. Un breve racconto che costituisce il preambolo a quello immediatamente successivo di 3,1-6, qui in esame, ponendovi in tal modo le basi giuridiche (2,27) e teologiche (2,28).

Questo nuovo racconto (vv.1-6), quindi, riprende quello precedente e, dandone continuità, lo completa. Una continuità che è data dalla presenza in entrambi i racconti del verbo “œxestin” (éxestin, è lecito) e dal termine “sabato”, che funge da comune cornice temporale. La questione sottoposta è sostanzialmente identica: la liceità del compiere determinate azioni in giorno di sabato. Ma se nel primo racconto (2,23-28) la questione della liceità riguardava la violazione di un comandamento e, quindi, centrale era la salvaguardia della Legge, che viene confutata dai due detti, riportando la centralità dell'uomo rispetto alla Legge e quindi ponendo le basi morali per un ulteriore passo in avanti, qui, in questo nuovo episodio (vv.1-6) si pone una questione squisitamente morale circa l'uso del sabato, che è sempre visto come in funzione dell'uomo: “È lecito di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o uccider(la)?”.

Se nel racconto precedente il parametro della liceità era la Legge, qui il parametro è il “fare del bene o del male” e quindi il vivere e l'esprimersi dell'uomo in giorno di sabato; in discussione è la vita stessa dell'uomo: “salvare una vita o sopprimerla”. In tal modo viene posta la questione morale del modo di vivere il sabato che ha come parametro di raffronto non più la Legge, cioè la volontà di Dio che si impone sull'uomo, bensì le esigenze di vita dell'uomo colto nel suo vivere quotidiano.

Un racconto che se da un lato vede affermata la centralità dell'uomo sul sabato, dall'altro, vede le due parti i causa, Gesù e le autorità giudaiche, diametralmente contrapposte. Un messaggio questo che Marco esprime narrativamente nella stessa struttura di questo racconto, posto a parallelismi concentrici in C), per cui in A) Gesù entra nella sinagoga (v.1) e in A1) i farisei se ne escono, quasi a sottolineare l'impossibilità della convivenza sotto lo stesso tetto della sinagoga tra giudaismo e il nuovo movimento, che fa capo a Gesù. In B) i farisei lo spiano per coglierlo in fallo (v.2) e in B1) Gesù li guarda tutt'intorno con ira per la durezza del loro cuore (v.5). Centralmente, in C), è posto l'uomo sulla cui condizione viene formulata la questione di liceità del fare in giorno di sabato (vv.3-4).

Commento ai vv.1-6

Il v.1 si apre con l'espressione “Ed entrò di nuovo nella sinagoga”, dando una sorta di continuità logica al racconto e al muoversi di Gesù, che in 1,21 era entrato, per la prima volta, in giorno di sabato, nella sinagoga dove vi trovava un indemoniato, che veniva liberato dal potere di satana. Il messaggio che Marco là voleva trasmettere era che Gesù era venuto anche per riqualificare il giudaismo, riorientandolo a Dio, liberandolo dal potere opprimente di una legislazione, che gli impediva di dare un vero culto a Dio, quello del cuore e della vita, limitandosi ad una mera esecuzione della norma. Ora qui, sempre in giorno di sabato, vi entra “di nuovo” e vi trova un uomo dalla mano paralizzata; una mano paralizzata che ha a che fare, come vedremo subito, con il sabato giudaico. Il richiamo che 3,1 fa a 1,21 non è solo narrativo, ma ricreando lo stesso contesto temporale e topico, l'autore cerca di dare, rimarcandola con quel “di nuovo”, anche una continuità tematica, quella della liberazione del giudaismo da una gravosa legislazione che lo immobilizza nei suoi rapporti con Dio, impedendogli un autentico rapporto, che si origina dal cuore.

Se qui il v.1 si richiama a 1,21-27, tuttavia crea nel contempo un parallelismo anche con 2,1b-4, il cui scenario era quello della casa dove si trovava Gesù con i suoi e dalla quale Gesù annunciava la parola. All'interno di quel contesto, di impronta ecclesiologica, veniva presentato a Gesù un paralitico. Similmente anche qui Gesù entra non più in una casa, metafora della chiesa, ma nella sinagoga, il luogo simbolo del giudaismo, e qui, come là, Gesù ha davanti a sé un uomo dalla mano inaridita, cioè paralizzata. Là era il paralitico che voleva entrare nella casa-chiesa, dove trova la sua salvezza e quella casa diviene anche la sua casa (2,11b); qui, invece, è Gesù che entra nella sinagoga, metafora del giudaismo, dove trova in giorno di sabato un uomo dalla mano inaridita, metafora di un giudaismo che in giorno di sabato è in qualche modo paralizzato da un'opprimente legislazione, come quest'uomo dalla mano inaridita, che non è in grado, proprio per la sua condizione, di rendere culto a Dio. Gesù, quindi, entra nel cuore del giudaismo, espresso nella sinagoga in giorno di sabato, cercando di darne una nuova visione e una nuova comprensione.

Il tentativo di Gesù di liberare il giudaismo da un modo opprimente di vivere il sabato e il rapporto con Dio è visto con sospetto dalle autorità giudaiche (v.2), poiché in tal modo verrebbe meno uno strumento di potere, che nasce proprio dalle innumerevoli interpretazioni della Torah scritta, che assoggettano l'uomo a continue prescrizioni, che di fatto lo paralizzano nella sua vita e lo condizionano pesantemente nella sua quotidianità. È significativo, infatti, come Gesù si trovi davanti ad un uomo che non è completamente paralizzato, come in 2,1-12, ma qui ha soltanto una mano paralizzata. La mano è lo strumento indispensabile con cui l'uomo svolge la sua normale attività quotidiana ed è anche espressione di relazione sociale: con la mano si dona, si prende, si saluta, si minaccia, si accarezza, si cura, si offende e ci si difende, si costruisce e si demolisce. La mano, dunque, è espressione del vivere e del fare quotidiano dell'uomo. Ma questa mano, in giorno di sabato, Gesù la trova paralizzata, incapace, quindi, di qualsiasi relazione non solo nei confronti degli uomini, ma considerato il contesto di sacralità in cui ci si trova, sinagoga in giorno di sabato, anche nei confronti di Dio. La causa di questa paralisi relazionale umano-divina è proprio la ridda di norme che ingessano la vita del pio giudeo e lo rendono incapace di relazionarsi con il cuore e con la vita al suo Dio, riducendo tutto il suo rapporto con Lui ad una mera e scrupolosa esecuzione giuridica di norme e di prescrizioni, a cui è assoggettato ed esistenzialmente condizionato.

Gesù è venuto a liberare l'uomo da questa sorta di sacra schiavitù giuridica, prospettando un nuovo modo di rendere culto a Dio, partendo proprio dall'uomo e dalle sue esigenze vitali. Lo si vedrà meglio questo nella cacciata dei venditori dal tempio (11,15-17), dove in quel rovesciamento dei banchi dei venditori e dei cambia valute va letto il tentativo di rovesciare il culto a Dio, liberandolo da quel giogo di prescrizioni a cui era asservito.

I vv.3-4, posti centralmente, costituiscono il cuore della questione, che è scandita in due momenti; da un lato, Gesù colloca nel mezzo l'uomo dalla mano arida, mettendo in evidenza in tal modo l'oggetto della questione. Ma in quel “nel mezzo” dice anche che quell'uomo è posto al centro di due contrapposte visioni del sabato e con questo di due contrapposte visioni della Torah e del diverso modo di comprenderla: da una parte, i farisei, gli scrupolosi e rigorosi osservanti delle norme e delle prescrizioni; dall'altra, Gesù, che più che alla stressante e opprimente osservanza delle norme, punta diritto al cuore dell'uomo, che si esprime nel suo vivere quotidiano. Al centro, nel mezzo, c'è tutto questo. Ed è su questo che Gesù pone la questione morale, che in quanto tale ha una stretta attinenza con il vivere dell'uomo posto relazione a Dio: “È lecito di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o uccider(la)?” (v.4). L'accento qui cade sul “fare” il bene o il male, come il salvare o il sopprimere una vita. Vi è una stretta attinenza tra il fare il bene, qui associato al salvare una vita; e il fare il male, associato al sopprimere una vita, e il tutto posto in un contesto temporale sacro, quello del sabato; il tempo che è, secondo Gen 2,2-3, lo spazio che Dio si è riservato e in cui l'uomo è chiamato ad entrarvi, lasciando, come Dio, le fatiche dei suoi sei giorni creativi. Ma proprio perché questo è lo spazio di Dio, l'uomo è chiamato non a rimanere paraliticamente immobile, ma a “fare il bene” a “salvare una vita”. Il fare il bene, dunque, è relazionato con il salvare la vita e, quindi, con l'affermarla e non con il negarla, come rileva il non fare nulla in giorno di sabato, poiché questo è lo spazio del Dio creatore, che nel suo creare chiama alla vita tutte le cose e le afferma nella loro esistenza e non le nega. Ed è proprio questa la questione che viene posta centralmente, “nel mezzo”.

Il v.4 si conclude con il silenzio da parte del giudaismo, che dice la sua chiusura su di una questione così vitale: “Ma quelli tacevano”. L'uso dell'imperfetto indicativo dice come questo silenzio non è momentaneo, ma persistente, evidenziando il radicale rifiuto del ripensare un diverso modo di vivere la Torah. Vivere, non semplicemente eseguire. Del resto, l'autore aveva già preavvertito il suo lettore delle intenzioni dei farisei, che al v.2 cercavano di cogliere in qualche modo in fallo Gesù, per poterlo poi accusare di una violazione del sabato.

Il v.5 formula la risposta di Gesù alla mancata adesione da parte del giudaismo al rinnovamento religioso e cultuale, che egli era venuto a portare, ed è scandita in tre parti:

  1. E guardandoli tutt'intorno con ira”. Il guardare di Gesù esprime sempre un'attenzione che è selettiva e nel caso della chiamata alla sequela esso costituisce una sorta di elezione; ma questo guardare con “ira” cambia radicalmente il senso di quel “guardare” di Gesù, che esprime un giudizio di condanna. Il suo guardare non si fissa su qualcuno, ma gira tutt'intorno, coinvolgendo in tale giudizio l'intero popolo, nessuno escluso. Lo si noterà ai vv.20-21.31, dove la madre e i fratelli di Gesù sono esclusi dalla cerchia di quegli eletti, che invece hanno accolto la parola di Gesù (vv.33-35). E ancor più lo sono esclusi gli scribi, che che considerano Gesù come un discepolo di Beelzebul (v.22). Ci si trova, dunque, di fronte ad un popolo dalla dura cervice, che già in passato aveva scatenato l'ira di Jhwh, più volte menzionata nella Torah: “Il Signore disse inoltre a Mosè: <<Ho osservato questo popolo e ho visto che è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li distrugga. Di te invece farò una grande nazione>> (Es 32,9-10).

  2. addolorandosi nel contempo per la durezza del loro cuore”. Se la durezza della cervice, di cui Israele è accusato da Dio, dice la sua incapacità di comprendere la sua posizione nei confronti di Jhwh, la ben più grave durezza di cuore, di cui Gesù qui si lamenta, fornisce la vera causa della durezza della cervice, dell'incapacità di Israele di saper ascoltare, comprendere e accogliere il vero senso della Parola di Dio nella propria vita. Vi è dunque una sostanziale impossibilità da parte di Dio di penetrare il cuore di Israele per ricondurlo a sé, per la sua pervicace chiusura nei suoi confronti. Ed è proprio questo atteggiamento di chiusura-rifiuto che addolora profondamente Gesù, il cui Padre è stato anche Padre di quel Israele3 che ora lo disconosce nel Figlio. Ma questo dolore di Gesù per la durezza di cuore di Israele esprime anche la rottura dell'originaria Alleanza, che verrà sostituita da un'altra nuova Alleanza, e nel contempo è una chiamata in giudizio di Israele, di cui il popolo dovrà rispondere e che richiama da vicino Mi 6,2-3: “Ascoltate, o monti, il processo del Signore e porgete l'orecchio, o perenni fondamenta della terra, perché il Signore è in lite con il suo popolo, intenta causa con Israele. Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho rattristato? Rispondimi”.

  3. dice all'uomo: <<Stendi la mano>>. E (la) stese e la sua mano fu ristabilita”. Nonostante la durezza di cuore di Israele e la sua chiusura-rifiuto nei confronti di Gesù, Dio porta avanti il suo progetto di salvezza. L'antico Israele viene lasciato al suo destino, mentre chi è disponibile a farsi guarire la mano paralizzata, aprendosi ad una nuova comprensione di Dio, proposta dalla Parola di Gesù, questi viene guarito, cioè riabilitato nei confronti di Dio. Gesù dà un comando all'uomo: “Stendi la mano”, in altri termini, vieni verso di me. L'uomo ascolta il comando, lo accetta, lo accoglie, si rende disponibile alla parola di Gesù e per questo viene guarito. Gesù non compie gesti particolari su quell'uomo, ma lo invita soltanto ad accoglierlo nella sua parola, che lo guarisce. Si noti come Marco, in realtà, non dice che l'uomo fu guarito, ma che la sua mano fu ristabilita. In altri termini, l'aver accolto la parola di Gesù ha reso quell'uomo riabilitato nei confronti di Dio e il suo rapporto con Lui, di cui la mano è in qualche modo metafora. Paolo parlerà di giustificazione, che avviene per la fede indipendentemente dalle opere della Legge (Rm 3,28).

Il v.6 chiude il racconto con un movimento esatto contrario con cui il racconto si era aperto. Al v.1 Gesù entra nella sinagoga e in giorno di sabato vi trova un uomo paralizzato nel suo rapporto con Dio e incapace di rendergli un autentico culto, quello che parte dal cuore, vivendo il sabato soltanto come una norma impostagli dall'esterno e che va soltanto rispettata ed eseguita, ma che non lo coinvolge nella vita, rimanendo esistenzialmente inerte nei confronti di Dio e del prossimo. Così che lo spazio temporale più sacro, il sabato, il luogo della liberazione dell'uomo dalle sue occupazioni quotidiani dove egli è chiamato ad incontrarsi con il suo Dio liberatore, viene trasformato, in realtà, in un luogo di oppressione4. Ma il giudaismo, quello che accoglie la nuova prospettiva di culto, che Gesù è venuto a portare, viene liberato dalla schiavitù della Legge e ristabilito nel giusto rapporto con Dio. In una sinagoga e in un sabato così rinnovati non vi è più spazio per l'antico culto mosaico. Da qui l'uscita dalla sinagoga dei cultori della Legge mosaica, da quella sinagoga rinnovata dalla parola di Gesù. E il rifiuto di Gesù si concretizza in un piano di morte contro di lui, che fin d'ora prelude al drammatico destino di Gesù: “E usciti, i Farisei tenevano subito consiglio con gli Erodiani contro di lui, in quale modo farlo perire”. I Farisei, i radicali cultori e perfezionisti dell'osservanza della Legge mosaica “tenevano consiglio”. Il verbo all'imperfetto indicativo dice il perdurare nel tempo di questo consiglio di morte, di questa persistente trama avversa a Gesù e al suo movimento di rinnovamento cultuale del giudaismo, che doveva ripartire dal cuore dell'uomo. Un'avversione che viene posta qui, fin dall'inizio dell'attività missionaria di Gesù e che fin da subito lascia intendere le contrapposte forze in campo e la posta in gioco.

Marco sta qui anticipando una scena che si ritroverà sostanzialmente identica alla soglia della passione e morte di Gesù, in 12,13, dove farisei ed erodiani si ritroveranno insieme in combutta per sopprimere Gesù: “E gli mandano alcuni dei farisei e degli Erodiani5 per prenderlo con (la) parola”. I vv.3,6 e 12,13 formano pertanto una sorta di grande inclusione sia letteraria, per la presenza dei termini Farisei ed Erodiani, che tematica: una sorta di sodalizio finalizzato a sopprimere, qui come là, Gesù. In tal modo è l'intera attività di Gesù che viene posta sotto persecuzione e sotto processo e che lo spingerà fatalmente sul Golgota.

Un intermezzo ecclesiologico (vv.7-19)

Testo a lettura facilitata

Un sommario che funge da preambolo alla costituzione dei Dodici (vv.7-12)


L'accorrere da ogni parte delle genti da Gesù (vv.7-8)

7- E Gesù con i suoi discepoli si ritirò presso il mare, e molta folla (lo) [seguì] dalla Galilea, e dalla Giudea
8- e da Gerusalemme e dall'Idumea e da al di là del Giordano e dai d'intorni di Tiro e Sidone, una grande folla, avendo udito quello che faceva, vennero da lui.

I discepoli devono tenere pronta la barca (v.9)

9- E disse ai suoi discepoli affinché gli tenessero pronta una barca a motivo della folla, affinché non lo opprimessero.

Gesù accoglie e guarisce chiunque corre a lui (vv.10-12)

10- Curò, infatti, molti, così da gettarglisi addosso per toccarlo quanti avevano infermità.
11- E gli spiriti impuri, quando lo vedevano, cadevano davanti a lui e gridavano dicendo che tu sei il Figlio di Dio.
12- E rimproverava a loro molte cose, affinché non lo facessero manifesto.


La costituzione del gruppo dei Dodici (13-19)

Il contesto (v.13)

13- E sale sul monte e chiama presso (di sé) quelli che egli voleva e andarono da lui.

La costituzione dei Dodici e il conferimento dei poteri (vv.14-15)

14- E (ne) fece dodici [che denominò anche apostoli] affinché fossero con lui e affinché li inviasse a predicare
15- e ad avere autorità di scacciare i demoni;

La presentazione dei Dodici (vv.16-19)

16- [E fece i Dodici] e impose (il) nome di Pietro a Simone,
17- e Giacomo, (figlio) di Zebedeo, e Giovanni, fratello di Giacomo, e impose loro (il) nome di Boarneges, che è “figli del tuono”;
18- e Andrea e Filippo e Bartolomeo e Matteo e Tommaso e Giacomo, (figlio) di Alfeo, e Taddeo e Simone il Cananeo

19 – e Giuda Iscariota, che anche lo tradì.

Note generali

È una caratteristica di Marco quella di creare degli stacchi narrativi inserendo dei sommari6 dell'attività di Gesù, che aprono o chiudono sezioni narrative, come avviene qui, ai vv.7-12, che nel chiudere la sezione delle diatribe galilaiche (2,1-3,6) introduce ad un nuovo tema, quello della costituzione del gruppo dei Dodici (vv.13-19). Ma nel contempo l'autore coniuga questa sua caratteristica con un'altra, tutta sua e tutta particolare: la costruzione a sandwich, una tecnica narrativa che inserisce un racconto dentro ad un altro, creando attesa, suspense e stimolando l'attenzione del lettore o dell'ascoltatore, che deve saper ricordare e riprendere il filo del racconto lasciato in sospeso, per dare spazio ad un altro7.

Il filo logico narrativo delle diatribe galilaiche (2,-3,6) avrebbe dovuto, infatti, continuare senza interruzioni con i vv.20-35, che fungono da cassa di risonanza delle diatribe stesse e dove la diffidenza sorta nei confronti di Gesù investe non solo le autorità giudaiche, che lo accusano di essere un posseduto da Beelzebul (vv.22-30), ma anche i suoi più intimi familiari, quali sua madre e i suoi fratelli (vv.31-32), che lo ritengono “fuori di testa” (v.21), per poi proseguire con il cap.4 dove Gesù, visto il fallimento della sua predicazione innovativa e rivoluzionaria, opta per una predicazione più prudente attraverso il linguaggio criptato delle parabole, per evitare ulteriori incomprensioni e contrasti; ma decriptandolo, a parte, per i suoi (4,2a.34), che invece dovevano essere introdotti nel Mistero del Regno di Dio.

Questo sostanzialmente avrebbe dovuto essere lo schema narrativo per soddisfare una continuità tematica, quella che dallo scontro (le cinque diatribe), passa alla diffidenza e al rifiuto. Invece, Marco, interrompe questa logica e, inaspettatamente, vi inserisce un sommario (vv.7-12), il quale, oltre che staccare le diatribe dal resto del racconto, funge anche da preambolo alla pericope successiva, quella della costituzione del gruppo dei Dodici (vv.13-19). Questa tecnica a sandwich, che inserisce un nuovo racconto nel bel mezzo di un altro, sembra dare un'idea di disordine e di sciatteria narrativa. In realtà, questi inserimenti a sorpresa, hanno come finalità anche quella di shoccare il lettore, risvegliandone l'attenzione su di una tematica che sta particolarmente a cuore all'autore, quella ecclesiologica. Marco, infatti, sta portando avanti nel suo vangelo, in parallelo tra loro, una doppia tematica, quella dell'identità di Gesù, che costruisce, passo dopo passo, e che ha i suoi due vertici in 8,29 e 15,39, dove Gesù viene scoperto e attestato come il Cristo e come il Figlio di Dio; e quella ecclesiologica, scandendo in modo progressivo le varie tappe della formazione del gruppo dei Dodici: la prima azione dell'attività pubblica di Gesù è la chiamata dei primi quattro discepoli (1,16-20), ai quali si aggiunge, poi un quinto discepolo, Levi in 2,14. E questi, quindi, fin da subito partecipano alla missione di Gesù, muovendosi in parallelo a Gesù; poi vi è la loro costituzione nel gruppo dei Dodici (3,13-19); il loro successivo invio in missione (6,7-13) fino a prospettare la loro missione del dopo Gesù sia nel racconto della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci, dove Gesù invita i suoi discepoli a sfamare loro la moltitudine di persone (6,37), che li stava seguendo, affidando loro la distribuzione dei pani (6,41b), sia nell'ordinare, poi, a loro di entrare da soli nella barca, figura della chiesa, per attraversare il lago, dando loro, quindi, la conduzione di questa barca (6,45-51).

Si viene a creare in tal modo un parallelismo tra l'azione di Gesù e quella dei suoi discepoli, la cui finalità, secondo l'ecclesiologia marciana, è quella di saldare e identificare il gruppo dei Dodici con Gesù stesso. I Dodici, quindi, si radicano in Gesù e ne proseguono la missione con la sua stessa autorità e autorevolezza, anzi, vi si identificano.

La sezione ecclesiologica, definita dai vv.7-19, è scandita in due parti strettamente collegate tra loro. La prima parte è costituita da un sommario (vv.7-12), il più ampio e consistente tra i sette del vangelo marciano, ed è costruito su parallelismi concentrici in B). Per cui si avrà che in A) una grande folla, proveniente da ogni parte, si reca da Gesù che si trova assieme ai suoi discepoli (vv.7-8); mentre in A1) Gesù li accoglie tutti, li guarisce tutti e tutti vengono liberati dalla schiavitù del demonio (vv.10-12). In B), la parte centrale dei parallelismi e, quindi, secondo le logiche della retorica ebraica anche la più importante, Gesù, a motivo della grande folla che si sta accalcando attorno a loro, sollecita i suoi discepoli a tenergli pronta una barca su cui salirci sopra.

La seconda parte (vv.13-19) è formata dal racconto della costituzione del gruppo dei Dodici, a cui Gesù conferisce autorità e poteri, così che i Dodici divengono una sorta di alter ego di Gesù. È la barca che Gesù invocava al v.9.

Commento ai vv.7-12

I vv.7-8 aprono il sommario con una consistente nota geografica, una sventagliata di nomi di regioni che costituivano l'intera Palestina del I sec. d.C. La Galilea, la terra promiscua, dove convivevano ebrei e gentili, come richiama il suo nome, “gelil ha goym”, il territorio dei pagani, ricordato anche da Is 8,23; poi successivamente chiamata soltanto “Galil”, cioè Territorio. La Giudea anticamente costituiva il Regno del Sud, dopo la divisione di Israele nel 933 a.C. alla morte di Salomone. Fu la regione che rimase fedele alla tradizione e fu l'erede della Promessa (Gv 4,22), che Dio, per mezzo del profeta Natan, aveva fatto a Davide: “io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno” (2Sam 7,12b). La vera discendenza davidica, quindi, era in Giudea, che riuscirà a sopravvivere all'esilio babilonese (597-582 a.C.), mentre il Regno del Nord soccomberà definitivamente nel 721 a.C. alla deportazione ad opera di Sargon II (722-705 a.C.). Gerusalemme, la città stato cananea, che Davide conquistò e pose quale capitale del suo regno, divenendo in seguito la capitale del Regno del Sud (933 a.C.), costruita sul monte Sion a circa 750 mt s/m, considerata, a motivo della presenza del Tempio, la dimora di Dio8. La sua rilevanza è significata anche dal numero di volte che ricorre nel solo A.T., ben 821. L'Idumea9, la regione posta a sud della Giudea, terra di origine della dinastia degli Erodi. Gli idumei non erano molto ben visti dai giudei, che li consideravano alla stregua dei pagani. Viene fatta seguire, poi, una nota geografica generica: “al di là del Giordano”. La Palestina era verticalmente divisa in due dal fiume Giordano: sulla parte sinistra, ad ovest, si trovavano le regioni della Giudea, Samaria e Galilea; sul lato destro e, quindi, “al di là del Giordano”, la Perea, la Decapoli, la Batanea, la Gaulanitide, la Traconitide e la Iturea. Vengono poi aggiunte le due città fenice di Tiro e Sidone in terra pagana. Non viene citata la Samaria, posta tra la Galilea e la Giudea, probabilmente per la profonda idiosincrasia che divideva i Samaritani e i Giudei, attestata dallo stesso Gv 4,9b nel dialogo tra Gesù e la Samaritana10.

Da questo insieme di note geografiche Marco ha voluto sunteggiare l'intera Palestina, dando un tono di universalità all'accorrere delle folle verso Gesù e i suoi discepoli, ai quali vi giungono “avendo udito quello che faceva”. Il muoversi delle folle, provenienti da ovunque, avviene, quindi, dopo “aver udito”, cioè dopo l'ascolto della parola. È questa, qualora accolta, che orienta a Gesù. Marco non si lascia sfuggire l'occasione per tratteggiare i grandi movimenti delle genti, che avvenivano ovunque, provocati dalla predicazione della parola da parte dei predicatori itineranti11.

Il v.9, posto centralmente, è, secondo le logiche della retorica ebraica, il più importante, quello verso il quale gli altri versetti convergono e acquistano il loro senso. Al grande e universale accorre delle genti è necessario dare una risposta accogliente e capace di sostenerle e alimentarle spiritualmente con la Parola. Da qui l'invito di Gesù ai suoi di provvedere perché venga portata una barca da dove poter somministrare la Parola, che guarisce e ristabilisce chi l'accoglie nel giusto rapporto con Dio (vv.10-12). Nel linguaggio metaforico degli evangelisti in genere e in quello marciano in particolare la barca, così come la casa, è figura della chiesa12. Gesù, dunque, sembra preannunciare la necessità di costituire una comunità capace di accogliere queste enormi folle che accorrono verso Gesù e i suoi. E la risposta a questa necessità verrà data nella pericope immediatamente successiva, dove Gesù costituirà il nucleo fondante della chiesa (vv.13-19).

I vv.10-12 costituiscono la risposta all'accorrere delle genti, che si raccolgono attorno a Gesù e ai suoi, dopo aver ascoltato la Parola: la guarigione dalle infermità e dal potere satanico. Sono le due attività principali che costituiscono, assieme alla predicazione, la missione di Gesù, e che Gesù assegnerà ai suoi nel costituire il gruppo dei Dodici ai vv.14-15 e che in 6,12-13 si replicherà parallelamente nella missione dei Dodici, inviati da Gesù (6,7): “Ed usciti predicarono affinché si pentissero. E scacciarono molti demoni, e ungevano con olio molti infermi e (li) curavano”. Sono formule caratteristiche di Marco che ritroviamo similmente anche in 1,33-34, dove all'accorrere delle genti Gesù opera guarigioni ed esorcismi. Le guarigioni operate da Gesù hanno per Marco il senso della rigenerazione spirituale dell'uomo, che accoglie la Parola, e come conseguenza la sua liberazione dal potere di satana, che si esprime nel degrado esistenziale in cui versa l'uomo.

Anche qui, come in 1,24 e in 5,7 Gesù redarguisce i demoni perché svelano la sua vera identità di Figlio di Dio. Si tratta di un escamotage letterario usato da Marco per testimoniare la vera natura di Gesù. Non va mai dimenticato il senso e l'obiettivo del vangelo marciano, preannunciato in 1,1: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]”. Ci si trova, quindi, di fronte ad un annuncio (vangelo) la cui finalità è svelare l'identità di Gesù, quale Cristo e quale Figlio di Dio.

La costituzione del gruppo dei Dodici (13-19)

Note generali

Preannunciata dal sommario vv.7-12, dove all'espansiva missione di Gesù, verso il quale accorrono da ovunque numerose moltitudini, si attestava la necessità di avere una barca (v.9), da dove annunciare la Parola e attorno alla quale confluiscono le moltitudini, la pericope in esame (vv.13-9) racconta la costituzione di questa “barca”, che funge da fondamento della chiesa nascente. Questa presenta alcuni tratti fondamentali che ne garantiscono la liceità e la legittimità costituzionali:

  1. essa nasce da volontà divina, che si attua nella libera scelta diretta, personale e insindacabile di Gesù. Si tratta, quindi, di una realtà che ha radici divine e rientra nel progetto salvifico del Padre, che si manifesta e si attua in Gesù (v.13);

  2. Si definisce il numero degli stretti collaboratori di Gesù, quasi a dire che non si tratta di un realtà aperta a tutti, ma solo ai chiamati, ai quali viene affidata una specifica missione, che ricalca sostanzialmente quella di Gesù, dal quale ereditano i suoi stessi poteri (vv.14-15);

  3. ed infine vengono presentati nominalmente i singoli componenti del collegio apostolico, dando in tal modo concretezza storica al gruppo dei Dodici (vv.16-19), la cui costituzione è finalizzata a continuare la missione storica di Gesù (vv.14b-15), da cui ereditano i poteri (v.15a), costituzionalmente fondati sulla volontà divina (v.13).

Il racconto della costituzione del gruppo dei Dodici è piuttosto elaborato e manca di spontaneità e fluidità narrative. Le parole e le espressioni sono soppesate e misurate, finalizzate a giustificare una realtà che s'è venuta a creare dopo la dipartita di Gesù, cercando di mettere un po' d'ordine alle pretese degli arrivisti. Lo lascia intendere l'espressione “quelli che egli voleva”, quasi a voler chiudere le porte a qualsiasi altra rivendicazione, limitando il numero di accesso. Lo lascia intravvedere anche l'espressione, che la critica testuale giudica di incerta autenticità e che, effettivamente, dà la sensazione di una forzatura: “che denominò anche apostoli”. Una precisazione escludente, che sembra voler attribuire il termine “apostolo” solo agli stretti responsabili della comunità, diretti discendenti del ceppo originario, che risale direttamente a Gesù. Si sente, in ultima analisi, una forte tensione all'interno di questa breve pericope che riflette la preoccupazione della chiesa nascente. L'intero racconto sembra finalizzato a far chiarezza attorno al significato e al senso del termine, a cui era legato un potere, delle responsabilità e una precisa posizione all'interno della comunità credente. Il gruppo dei Dodici, pertanto, diventa una figura istituzionale esclusiva e nel contempo storica, tant'è che si è sentita la necessità di ricostituirla dopo la defezione di Giuda (At 1,21-25). Un gruppo che, con l'ampliarsi della chiesa, sparirà molto presto, ma rimarrà la figura istituzionale di “Pietro”, destinata a dare unità costituzionale, ecclesiale ed ecclesiologica alla nuova realtà nata dal giudaismo.

Il racconto, tuttavia, al di là delle contingenze storiche e giuridiche, va inserito nella ecclesiologia marciana, che da 1,20 in poi sta lentamente costruendo la storia, il senso e la natura del gruppo dei Dodici13.

La pericope è suddivisa in due parti: la costituzione del gruppo dei Dodici (vv.13-16a) e la loro presentazione nominativa (vv.16b-19).

Commento ai vv.13-19

La prima parte è scandita in quattro momenti fondamentali: la chiamata, la risposta dei convocati, la loro costituzione in gruppo di Dodici e, infine, l'assegnazione della missione, formata da due elementi essenziali: la predicazione e il conferimento del potere sui demoni.

Il v.13 si apre con una nota topografica, “E sale sul monte”, che si contrappone a quella del v.7 dove Gesù si trova con i suoi in riva al mare, attorniati da “molta folla”, che proviene da ogni parte. Quel salire sul monte dice, da un lato, lo staccarsi dalla folla, il ritirarsi a parte, perché ciò che sta per avvenire riguarda esclusivamente Gesù e i suoi. Qui si sta preparando quella barca invocata da Gesù al v.9; dall'altro, la menzione del monte è significativa, poiché i monti nell'antichità erano considerati come il luogo della dimora divina. Marco, pertanto, apre il racconto della costituzione dei Dodici, creando un contesto di esclusività escludente e di sacralità. I discepoli di Gesù, a motivo della loro sequela, non fanno più parte della folla, poiché ne sono usciti per seguire Gesù. E questi vengono, ora, in qualche modo presentati a Dio, sul monte, dove avverrà la scelta, che è scandita in due momenti: la chiamata presso di sé, che in qualche modo anticipa quel “affinché fossero con lui” (v.14b). Si tratta, dunque, di una chiamata per rimanere con Gesù, dando in tal modo l'idea di una costituzione non provvisoria, ma stabile. La chiamata, poi, è definita da un unico criterio “quelli che egli voleva”. Essa dunque è fondata sull'esclusiva volontà di Gesù, le cui motivazioni non vengono precisate da Marco, rimanendo queste avvolte nell'arcano segreto dello stesso Mistero che si muove in Gesù e in cui Gesù si muove. Esso fa parte del progetto di salvezza in cui Gesù è coinvolto e con lui anche coloro che sono chiamati. Il verbo “voleva” è posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, per indicare come questa volontà, su cui fonda la chiamata, è una volontà stabile, così che chi è chiamato continua ad esserlo, rafforzando ulteriormente il senso di stabilità di questa elezione divina, che diviene un vero e proprio atto di consacrazione, con la quale Dio si riserva quegli uomini per compiere una missione di salvezza, che quel “stare presso Gesù e con lui” dice la continuità della missione di Gesù in loro. Una elezione che, tuttavia, non è un'imposizione costrittiva, ma una libera scelta del chiamato, così che Marco precisa che i chiamati “andarono da lui”. Un movimento che se, da un lato, costituisce la libera risposta dei convocati, dall'altro, dice come questi siano staccati dal gruppo degli altri discepoli, da cui provengono. Viene in tal modo a costituirsi una sorta di privilegio su di loro, dato dall'insindacabile volontà di Gesù, che li rende prossimi a Gesù in particolar modo rispetto agli altri. Grava, quindi, su di loro una elezione-consacrazione che, come si vedrà subito, non è fine a se stessa.

Il v.14 si apre con una certa solennità: “E (ne) fece dodici”. Il verbo che qui Marco usa, “™po…hsen” (epoíesen, fece), è alquanto significativo, poiché esso ricorre ben undici volte in Gen 1,1-2,2, i capitoli che riguardano la creazione ed ha una stretta attinenza con l'atto creativo di Dio. Con quel “™po…hsen”, pertanto, l'autore assimila in qualche modo la costituzione del gruppo dei Dodici ad un atto creativo divino, quasi a fondare una nuova istituzione, chiamata a originare una nuova creazione, che ha il suo fondamento nella chiamata, radicata nella volontà di Gesù, la Parola creatrice e, in quanto tale, generatrice per antonomasia. Una nuova entità che in qualche modo è significata in quel numero “Dodici”, che si richiama ai dodici figli di Giacobbe, da cui si generarono le dodici tribù di Israele. Un nuovo Israele si sta, dunque, costituendo in quei Dodici. Un “Dodici” che è stato “fatto” e in qualche modo generato dalla Parola creatrice e che richiama da vicino Dt 32,6 dove il popolo di Israele è chiamato a riconoscere in Dio il padre che lo ha generato, fatto e costituito.

Il testo prosegue con un'espressione, che la critica letteraria ritiene di dubbia autenticità: “che denominò anche apostoli”. È significativo come il semplice seguace, che fin qui si qualificava come discepolo, venga ora denominato “apostolo”. Il cambio di nome, che nell'antichità esprimeva l'essenza della persona, dice che è avvenuto un cambiamento sostanziale nella persona denominata, la quale viene riqualificata nella sua nuova posizione sia nei confronti di Gesù, a cui si è avvicinata a seguito di una sua chiamata; che rispetto anche al restante gruppo dei discepoli, i quali, invece, nei confronti di Gesù si qualificano per la loro sequela, ma non per una sua personale e diretta chiamata. La nuova denominazione, “apostoli”, lascia intravvedere in se stessa la missione a cui questi eletti sono destinati e che viene subito precisata di seguito. Il termine apostolo, infatti, significa letteralmente “inviato, mandato” e preannuncia la finalità di questa nuova denominazione: “affinché li inviasse”.

Tuttavia, è ben difficile credere che Gesù li avesse chiamati apostoli, un termine che nei vangeli ricorre complessivamente soltanto dieci volte e in Marco soltanto un'altra volta, contro le quasi 240 volte del termine discepolo/i. Questo sta a significare che il titolo di “apostolo” non apparteneva al linguaggio degli evangelisti e tantomeno rientrava nella mentalità di Gesù, ma il termine è sorto tardivamente e fa parte della prima organizzazione ecclesiastica (1Cor 12,28-29; Ef 4,11). E in tal senso è significativo rilevare come negli Atti degli Apostoli, che narra le vicende della chiesa primitiva, il termine ricorre ben 29 volte, mentre il sostantivo “discepolo/i” ricorre soltanto 30 volte. L'uso dei termini, infatti, è indicativo, perché rispecchia la realtà storica in cui essi sono nati e usati.

Pertanto, l'espressione “che denominò apostoli” va considerata spuria, quasi certamente aggiunta successivamente da qualche amanuense, che si è trovato probabilmente in un contesto storico in cui era bene sottolineare come il titolo di “apostolo”, assegnato ad una specifica posizione all'interno della chiesa, avesse una sua origine in Gesù stesso e, quindi, nessuno si poteva arrogare né titolo né posizione e tantomeno la funzione.

Il motivo per cui Gesù costituì i Dodici è specificato da un doppio “†na” (ína, affinché), che definisce le due finalità del gruppo: “affinché fossero con lui” e “affinché li inviasse”. Quanto alla prima finalità, questa va a completare quel “andarono da lui” (v.13c). Il recarsi presso Gesù, conseguente alla sua chiamata, aveva il senso del “rimanere con lui”, creando in tal modo una sorta di stabile convivenza con Gesù, che doveva lentamente trasformarsi in simbiosi. In altri termini, il gruppo dei Dodici doveva costituire l'alter ego di Gesù e formare il bacino accogliente la sua eredità spirituale, la barca, appunto, da cui Gesù continuerà a predicare alle genti, che numerose accorrono da ovunque. Quanto alla seconda finalità, quella dell'essere inviati, dice il senso e la natura del loro esserci come “gruppo dei Dodici”: essi sono degli inviati. Si muovono, quindi, sotto la spinta stessa di Gesù, ne possiedono il mandato e di conseguenza agiscono in nome e per conto di Gesù, ne possiedono l'autorità e l'autorevolezza. In altri termini, i Dodici proseguono nella loro missione, la stessa e identica missione di Gesù, i cui contenuti sono specificati nei due elementi che la caratterizzano: la predicazione e l'esorcismo (vv.13c-14). L'attività missionaria di Gesù è infatti iniziata con la predicazione (1,14.21-22), che si accompagnava con gli esorcismi (1,23-26.32-34), quasi dire che là dove arrivava la Parola il potere di satana veniva meno. In tal modo si andava costituendo lentamente il Regno di Dio.

Se la pericope vv.13-15 costituisce la base giuridica e teologica che giustifica la fondazione del gruppo dei Dodici, dandole rilievo all'interno dell'organizzazione ecclesiastica ed ecclesiale, la successiva, vv.16-19, presenta nominativamente i componenti di questa nuova istituzione ecclesiastica, dandole così consistenza storica, divenendo nel contempo un solido punto di riferimento per l'intera chiesa nascente.

L'elencazione dei Dodici si apre riprendendo il v.14: “[E fece i Dodici] e impose (il) nome di Pietro a Simone”. Un'espressione doppiamente significativa, poiché, da un lato, sia quel “fece i Dodici” che quel “impose il nome” richiamano da vicino il contesto creativo; dall'altro, quel imporre il cambio di nome a Simone, sostituendolo con quello di Pietro dice come in Simone sia avvenuto una sostanziale innovazione, che nel nuovo nome gli preannuncia la sua missione: la roccia su cui fonda solida l'istituzione dei Dodici e con loro la nuova assemblea dei convocati nello Spirito e che richiama da vicino il gioco di parole di Mt 16,18a: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa”.

Della persona di Pietro14 e del suo passato si conosce il nome e la paternità, Simone (in ebr. Shime’on, “Dio ha esaudito”), nome molto in uso nel mondo semitico come in quello greco15, ed è figlio di Giovanni (Gv 1,42). La sua provenienza era Betsàida (Gv 1,44), una cittadina posta sul lato nord orientale del lago di Genezaret, ma abitava assieme alla moglie, alla suocera e a suo fratello Andrea, anch’egli originario di Betsàida (Gv 1,44; 6,8), a Cafarnao (Mc 1,21.29-30), in riva al lago. La sua professione era quella di pescatore (Mt 4,18) ed era proprietario di una barca (Lc 5,3) e di reti (Mc 1,16). Era certamente sposato, in quanto che aveva una suocera (Mt 8,14; Mc 1,30; Lc 4,38). Il suo livello culturale non doveva essere particolarmente brillante se in At 4,13, assieme a Giovanni, viene definito “¥nqrwpoi ¢gr£mmato… e„sin kaˆ „diîtai”, cioè “uomini che sono analfabeti e ignoranti”, anche se l’espressione indica, da un lato, come erano considerati dal Sinedrio, che li stava interrogando (At 4,5-7); e, dall’altro, per mettere in rilievo come, nonostante i loro limiti culturali, sapessero far fronte con destrezza alle insidie dei sinedriti, evidenziando la superiorità morale di questi primi testimoni apostolici. Si attuava in tal modo la raccomandazione e la predizione di Gesù: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20)

Da alcuni racconti evangelici Pietro risulta avere un carattere irruento e passionale (Mt 26,31-35.51; Mc 14,47, Gv 18,10). La data del suo martirio a Roma è incerta (64/67) e, secondo lo scritto apocrifo Atti di Pietro, ritenendosi egli indegno di essere assimilato nella morte al suo Maestro, che aveva tradito, volle essere crocifisso a testa in giù.

In tutto il N.T. il suo nome si riscontra 155 volte come Pietro; 56 volte come Simone; 9 volte come Cefa, quantità queste significative, poiché lasciano trasparire la primarietà del suo ruolo all’interno della chiesa primitiva. Significative sono anche le immagini con cui egli è raffigurato nella letteratura neotestamentaria canonica: il pescatore missionario (Mc 4,18-19; Lc 5,10b), beneficiario di una rivelazione particolare (Mt 16,16-17) e di particolari visioni (At 10,10-16), colui che parla con autorità (At 1,15; 2,14; 5,1-11) e compie miracoli con potenza (At 3,2-10; 5,14-15), l’attestatore della messianicità e della divinità di Gesù (Mt 16,16; Mc 8,30; Lc 9,20), il difensore della fede e della corretta interpretazione delle Scritture (2Pt 1,20-21), nonché annunciatore kerigmatico del Regno e testimone della risurrezione (At 2,22-36), il pastore (Gv 21,15-17; 1Pt 5,1-14), il martire (Gv 21,18-19; 1Pt 5,1), il peccatore pentito (Mt 26,75; Mc 14,72; Lc 22,62), l’uomo fragile (Gal 2,11-14). A lui, infine, sono attribuite due lettere (1Pt e 2Pt), benché la critica ponga dei fondati dubbi sulla loro autenticità petrina, dubbi che condividiamo.

A Pietro, Marco fa seguire i nomi di Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. La coppia dei fratelli viene sempre citata assieme nell’ordine menzionato, con eccezione di Luca, che in alcuni casi inverte l’ordine tradizionale (Giovanni, Giacomo: Lc 8,51; 9,28; At 1,13). Essi erano pescatori e svolgevano la loro attività assieme al padre Zebedeo ed erano soci di Pietro e Andrea (Lc 5,10). Dovevano essere anche benestanti se si potevano permettere dei garzoni, che li aiutavano nella pesca (Mc 1,20) e, inoltre, dovevano godere di un certo rilievo sociale se la madre tenta di forzare la mano a Gesù perché i suoi due figli primeggiassero nell’ambito del gruppo dei discepoli (Mt 20,20), tra l’indignazione degli altri (Mc 10,41). Essi, insieme a Pietro e ad Andrea furono i primi ad essere chiamati da Gesù nella sequela e Gesù mostrerà sempre nei loro confronti una particolare attenzione di privilegio. Infatti, sia nel caso della trasfigurazione (Mt 17,1; Mc 9,2; Lc 9,28) che in quello della guarigione della figlia del capo sinagoga (Mc 5,37; Lc 8,51), Gesù li prenderà con sé quali testimoni privilegiati del suo potere e della sua vera natura divina. E, ancora, saranno sempre e soltanto loro che Gesù sceglierà, tra tutti i discepoli, perché lo accompagnino nel Getsemani e veglino con lui in preghiera (Mt 26,37; Mc 14,33). Così pure in occasione della guarigione della suocera di Pietro, essi saranno presenti (Mc 1,29). Saranno loro, infine, assieme a Pietro e Andrea che provocheranno il discorso escatologico di Gesù (Mc 13,3). In tutti questi frangenti i due sono sempre associati a Pietro, segno che essi godevano, forse, di una certa preminenza in mezzo al gruppo, sia perché furono i primi seguaci, sia perché forse godevano di un certo rilievo sociale e, forse anche, per il loro carattere focoso e impetuoso, che certo non prediligeva gli ultimi posti (Mc 10,35) o indulgeva molto alla comprensione e alla misericordia. Saranno, infatti proprio loro che inviteranno Gesù a fulminare un villaggio di Samaritani, che lo avevano rifiutato, ottenendone un rimprovero da parte di Gesù (Lc 9,52b-55). Non a caso Marco rileva che Gesù li soprannominò Boanèrghes, cioè figli del tuono (Mc 3,17), benché forse sarebbe stato meglio tradurre con “brontoloni” o “agitatori”16.

Giacomo morì di spada per mano di Erode Agrippa tra il 39 e il 44 d.C.17 (At 12,2). Sua madre, menzionata sempre come madre dei figli di Zebedeo (Mt ), fu una seguace di Gesù e si pose al suo servizio. Essa, assieme ad altre donne, presenziò alla morte di Gesù sulla croce (Mt 27,55-56).

Dopo la morte di Giacomo, Giovanni farà coppia fissa con Pietro nella predicazione e nella vita della comunità di Gerusalemme (At 1,3; 3,3-4.11; 4,13.19; 8,14) e divenne, assieme a lui e a Giacomo, il fratello di Gesù, una figura di grande rilievo all’interno della stessa comunità (Gal 2,9)

Dopo la particolare attenzione dedicata a Pietro (v.16) e i due fratelli Giacomo e Giovanni (v.17), Marco, ora, raccoglie nell'unico v.18 l'elenco di altri otto apostoli. Il primo degli otto è Andrea, presentato, fin dal suo primo apparire, come fratello di Pietro (Mt 4,18; Mc 1,16; Lc 6,14), anch’egli originario di Betsàida (Gv 1,44) e pescatore assieme a suo fratello (Mt 4,18). Egli era anche un discepolo di Giovanni e lo seguiva nella sua predicazione (Gv 1,40). Sull’indicazione del suo maestro (Gv 1,35-36) si presentò a Gesù e con lui si recò nella sua abitazione (Gv 1,39). Fu lui ad annunciare a suo fratello Simone di aver incontrato Gesù, presentandoglielo come il messia, e a farglielo conoscere (Gv 1,40-42). Secondo la narrazione sinottica, invece, Andrea e suo fratello vennero incontrati da Gesù durante la loro attività di pesca e, qui, vennero scelti da Gesù per la sua futura attività missionaria (Mt 4,18-20; Mc 1,16-18). In Luca viene nominato una sola volta, nell’elenco degli apostoli (Lc 6,14; At 1,13) e non viene narrata la sua chiamata al discepolato. Il suo nome, Andrea, significa l’uomo valoroso, il virtuoso, l’uomo per eccellenza ed è di derivazione greca, lasciando trasparire in tal modo l’ellenizzazione della Palestina di quel tempo. Egli abitava a Cafarnao insieme a suo fratello sposato e con la suocera di lui (Mc 1,21.29-30), mentre egli non sembra che avesse moglie. Fu colui che, in una situazione di particolare criticità, indicò a Gesù il ragazzo con cinque pani e due pesci (Gv 6,8-9), da cui poi scaturì il miracolo che sfamò cinquemila persone e dette a Gesù l’occasione di fare il discorso sul pane di vita eterna (Gv 6,26-35). Fu lui, assieme a Filippo, che fece da tramite tra alcuni Greci, che volevano vedere Gesù, e Gesù stesso (Gv 12,20-22). Significativo è che siano proprio due discepoli con nomi greci a fare da tramite a dei Greci, forse perché ne parlavano la lingua o ne comprendevano la cultura o, forse, perché ne erano culturalmente vicini. Proprio questo discepolo, infatti, viene presentato da Giovanni dapprima come missionario e testimone presso gli ebrei (Gv 1,40.42) e poi, qui, come missionario tra i gentili. Forse non a caso la tradizione su questo apostolo lo vede morire martire (crocifisso) in Acaia, una regione della Grecia, sulla costa meridionale del golfo di Corinto.

In quinta e sesta posizione degli elenchi sinottici compaiono i nomi di Filippo e Bartolomeo18. Di Bartolomeo, il cui nome significa “figlio di Tolomeo”19, conosciamo soltanto il nome, riportatoci nei quattro elenchi neotestamentari. Simile sorte sarebbe toccata a Filippo se non fosse stato per Giovanni, il quale ci fornisce un qualche ragguaglio storico. Filippo, il cui nome greco, parimenti a quello di Andrea, significa “l’amico dei cavalli”, era originario, come Pietro e Andrea, di Betsàida (Gv 1,44). Egli incontra Gesù il giorno dopo che questi aveva già incontrato Andrea e Pietro (Gv 1,43a). Dall’incontro con Gesù scaturisce la sua chiamata, a cui Giovanni dedica soltanto mezzo versetto (Gv 1,43b), utilizzando, però, un verbo molto denso nel suo significato “ 'AkoloÚqei moi” (akolùtzei moi, seguimi). Tale verbo, infatti, significa, oltre che seguire, anche “accompagnare, andare insieme, tener dietro”, mentre nella sua forma transitiva dice “lasciarsi guidare, aderire”. È in buona sostanza un verbo che indica una chiamata, destinata a plasmare la persona nella profondità del suo cuore per farne una nuova creatura.

Egli si farà immediatamente, presso Natanaele, entusiasta portatore e testimone di Gesù, che definisce come la realizzazione delle attese e delle Scritture (Gv 1,45-46).

In occasione della seconda pasqua20, egli è messo alla prova da Gesù sul come sfamare le migliaia di persone che lo stavano seguendo. Filippo, smarrito per l’enormità della folla, circa cinquemila persone (Gv 6,10b), tenterà di dare una improbabile soluzione economica al problema: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (Gv 6,5-7). Sarà Andrea a dare la risposta giusta, rivolgendosi soltanto a Gesù, indicandogli un ragazzino, che aveva per sé cinque pani e due pesci (Gv 6,8-9).

Sarà sempre lui, assieme ad Andrea, che si farà intermediario e interprete presso Gesù della richiesta di alcuni Greci (Gv 12,21-22). I loro nomi greci e questo episodio di intermediazione tra il mondo greco e Gesù forse stanno ad indicare il destino missionario presso il mondo pagano di questi due discepoli21.

È sempre Filippo, infine, che interpellerà Gesù sulla questione del Padre, dando a vedere di non aver ancora colto bene la figura di Gesù e il senso della sua missione. Nell’insieme, dai brevi racconti a nostra disposizione (Gv 6,5-7; Gv 14,8-9), sembra di poter arguire come Filippo, al di là dell’entusiastica e iniziale testimonianza su Gesù, data a Natanaele (Gv 1,45-46), abbia poi avuto non poca difficoltà a coglierne la vera natura.

Prosegue l’elenco con i nomi di Matteo e Tommaso il pubblicano. Per entrambi le notizie, provenienti da fonti neotestamentarie, sono molto scarne. Tommaso compare nelle liste sinottiche sempre associato al nome di Matteo, benché talvolta con ordine invertito; mentre in quella di At 1,13 i loro nomi sono intercalati da quello di Bartolomeo. Il suo nome è chiaramente ebraico e deriva dall’aramaico Te ‘ōmā, che significa “gemello”, di chi lo fosse non ci è dato di sapere. Nel vangelo di Giovanni il suo nome, Tommaso, viene grecizzato con Didimo (Gv 11,16; 20,24; 21,2), di pari significato. È probabile, quindi, che il suo nome, sia aramaico che greco, sia in realtà soltanto un soprannome. Infatti, secondo diverse tradizioni provenienti dalla Siria e dall’Egitto, il suo vero nome era Giuda. Egli è colui che è pronto ad associarsi al destino di Gesù, quando questi decide di recarsi in Giudea (Gv 11,7) alla notizia della grave malattia di Lazzaro (Gv 11,3), che lo porterà alla tomba (Gv 11,16). È sempre lui che obietta a Gesù di non conoscere la via dove egli vuole andare (Gv 14,5), ottenendo da Gesù la risposta che lui stesso è “ […] la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 11,6). Assente al momento della prima apparizione di Gesù ai suoi discepoli, esprimerà tutti i suoi dubbi sull’annuncio della risurrezione, ma avrà modo di constatarne la veridicità in un secondo momento (Gv 20,24-29). Per questo sua difficoltà a credere all’annuncio egli divenne il simbolo di tutte le generazioni future di credenti, chiamate a fondare la loro fede soltanto sulla parola a loro annunciata. L’ultima volta che il suo nome viene ricordato è nel cap. 21 del vangelo di Giovanni, un capitolo dal sapore tutto ecclesiologico, aggiunto al vangelo giovanneo in tempi successivi. Qui compare assieme ad altri sei discepoli, che associati a Pietro, lo seguono nella pesca (Gv 21,2-3).

Molto poco sappiamo su Matteo. Conosciamo la sua professione di piccolo esattore delle imposte e stigmatizzato con l’appellativo di pubblicano (Mt 9,9; 10,3), che lo qualificava come un pubblico peccatore, disprezzato da tutti e, per questo suo stato di vita, tagliato fuori dal ciclo della salvezza. Egli sarà chiamato alla sequela di Gesù (Mt 9,9) e farà parte del gruppo dei Dodici, nel quale compare sempre citato. Il suo nome, il cui significato è “Dono di Dio” (aramaico Mattaj), non va confuso con l’autore del primo vangelo, benché Papia (70-150 circa), vescovo di Gerapoli, citato da Eusebio di Cesare nella sua opera Historia Ecclesiastica, lo presenti come l’autore di una raccolta di detti di Gesù.

In Mc 2,14 e in Lc 5,27, sempre nell’identico racconto della chiamata, ci viene presentato con il nome di Levi, figlio di Alfeo. Non v’è dubbio, quindi, che Matteo e Levi siano la stessa persona. Marco e Luca, unici a riportarci l’episodio, ricordano che Matteo-Levi, proprio in occasione della sua chiamata alla sequela, festeggiò l’avvenimento con un grande banchetto in onore di Gesù, al quale presero parte anche  “una folla di pubblicani e d'altra gente seduta con loro a tavola” (Mc 2,15; Lc 5,29). Probabilmente, letta da una certa prospettiva, una sorta di addio alla sua vita di gabelliere e di pubblicano. Un banchetto, comunque, che richiama il festeggiamento per l’inizio di una vita nuova, dedicata, ora, non più a vessare la gente, ma al loro servizio nel nome di Dio, che egli incontrò in Gesù.

Penultima coppia del Gruppo apostolico, secondo la citazione marciana, sono Giacomo, figlio di Alfeo, e Taddeo. Dei due non sappiamo nulla al di là della semplice citazione. Giacomo, per essere distinto dal Giacomo figlio di Zebedeo, è chiamato figlio di Alfeo. Tuttavia non va imparentato, a nostro avviso, a Levi-Matteo, anch’egli figlio di Alfeo, per una probabile logica interna che muove l’elenco proprio di Matteo, che accoppia gli apostoli per affinità parentali, là dove queste si presentano. Così Pietro viene associato ad Andrea; Giacomo a Giovanni; mentre Giacomo di Alfeo non viene associato a Levi, figlio di Alfeo. Probabilmente Alfeo sono due persone diverse. Per i dati che abbiamo in mano, tentare delle identificazioni con i vari Giacomo che percorrono gli Scritti neotestamentari o gli imparentamenti con una qualche Maria ci sembra piuttosto azzardato e, comunque, non si riesce ad andare al di là di una qualche improbabile ipotesi, tutta da verificare. Meglio ragionare con i dati certi che abbiamo, ben sapendo che certi nomi nell’antichità neotestamentaria erano molto diffusi. Basti pensare al nome Simone, che nei soli Scritti neotestamentari compare 52 volte; e quello stesso di Giacomo, che viene riportato 38 volte. Con questi numeri, quasi mai supportati da ulteriori precisazioni storiche, ogni ragionamento può concludersi soltanto con delle discutibili ipotesi, riportandoci sempre, a giochi finiti, al punto di partenza.

Taddeo è un nome che compare soltanto nelle liste di Matteo (10,3) e di Marco (3,18). Al suo posto, nelle due liste lucane (Lc 6,16; At 1,13) viene nominato Giuda di Giacomo. Di Taddeo non conosciamo nulla. Alcuni manoscritti22, in Mt 10,3, leggono Taddeo come “Lebbeo” o “Lebbeo, soprannominato Taddeo”. Il nome Lebbeo contiene la parola ebraica “lēb”, che significa cuore, amore; mentre il nome Taddeo sembra avere la sua radice nel termine aramaico “tad” che indica il seno della donna, alludendo quindi ad un carattere mite, dolce, generoso e disponibile. Due nomi questi, con particolare riferimento al soprannome di Taddeo, che sembrano definire il carattere buono e generoso di questo discepolo. Di lui altro non si può dire. Una certa agiografia, posteriore ai vangeli, tende a identificarlo con Giuda di Giacomo, che comunemente viene ritenuto lo stesso Giuda citato da Giovanni nel suo vangelo al v. 14,22. Secondo Raymond E. Brown si tratta di una semplice congettura, priva di un reale supporto scientifico e/o storico23. Posizione questa che ci trova pienamente consenzienti.

L’elenco apostolico si chiude con Simone il Cananeo24 e Giuda l’Iscariota. Il nome Simone è una forma contratta e tardiva di Simeone25 ed è soprannominato il Cananeo. Tale soprannome non indica la sua origine geografica, bensì la sua posizione politica e sociale. L’appellativo “Ð Kanana‹oj” (o Kananaîos), attribuito a Simone, è, infatti, la trascrizione greca del termine aramaico “qannaya”, che significa “zelota”. Con tale soprannome verrà identificato nelle due liste lucane (Lc 6,15; At 1,13). L’appellativo “zelota”26 definiva gli estremisti nazionalisti della guerra giudaica (66-70 d.C.), che, come tali, ancora non esistevano ai tempi di Gesù. Esso, pertanto, può indicare, nel nostro caso, un simpatizzante del movimento nazionalista anti-romano, che poi sfocerà nel partito armato degli Zeloti. Questi innescheranno la prima grande guerra giudaica, di cui parla anche Giuseppe Flavio nella sua omonima opera27.

Quanto a Giuda, il suo nome compare negli Scritti neotestamentari 23 volte ed è comunemente conosciuto con l’appellativo di “traditore”28. Egli era figlio di un certo Simone Iscariota (Gv 6,71; 13,2.26). Con tale soprannome Giuda verrà citato 10 volte nei vangeli. Iscariota è la forma grecizzata dell’ebraico “is Qeriyyot”, cioè “uomo di Kerioth29”. Questa precisazione geografica è da preferirsi a quella che nel soprannome vede una grecizzazizone del termine latino sicarius, cioè “uomo della sica30”, che spinge a vedere in Giuda un seguace del movimento zelota. Altre interpretazioni recenti31 vedono nel nome una grecizzazizone dell’aramaico sheqar (mentitore, falso, traditore). In ogni caso, rimane, a nostro avviso, sempre più appetibile la soluzione geografica, considerato che Giovanni nel suo vangelo applica, per la prima volta nella sua opera, il soprannome Iscariota non a Giuda, ma a suo padre, Simone (Gv 6,71a), probabilmente per indicarne la provenienza, più che per definirne qualità morali o tendenze politiche. Dal padre, quindi, Giuda erediterà tale soprannome, che indicherà anche per lui la sua origine.

La figura di Giuda, per ovvi motivi, non è ben vista dai vangeli, in particolar modo in quello di Giovanni. Infatti, mentre i Sinottici si limitano a citare il nome di Giuda soltanto negli elenchi apostolici e nei racconti della passione, riportando di lui soltanto la sua appartenenza al Gruppo e il suo misfatto, Giovanni, lungo lo svolgersi del suo racconto, ne traccia gradualmente l’identità. Dapprima lo cita in modo anonimo, precisandone soltanto la natura demoniaca: “Rispose Gesù: […] Eppure uno di voi è un diavolo!" (Gv 6,70). Nel versetto immediatamente seguente ne cita il nome, ne definisce la paternità, l’origine geografica e la sua appartenenza al gruppo dei Dodici, imprimendogli fin da subito il triste marchio di traditore: “Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici” (Gv 6,71); successivamente ne traccia l’identità morale e il ruolo che ricopriva all’interno del Gruppo: “Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12,6); precisa poi come il diavolo fosse il suo vero consigliere: “Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo” (Gv 13,2); e, infine, presenta Giuda come un vero e proprio posseduto dal demonio, uno strumento operativo nelle sue mani: “E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. […]” (Gv 13,27). Da questo momento Giuda uscirà dal Gruppo dei Dodici ed entrerà nella notte del tradimento e delle potenze del male, a cui egli appartiene per sua natura (Gv 6,70): Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). L’ultimo accenno Giovanni glielo riserva nel momento in cui Giuda compare davanti a Gesù, schierato con i suoi nemici: “Vi era là con loro anche Giuda, il traditore” (Gv 18,5b). Da questo momento in poi l’evangelista calerà una cortina di silenzio, lasciando Giuda al suo triste e drammatico destino, avvolto nelle tenebre della notte.

Giuda, presente in tutte le liste sinottiche, è sempre posto alla fine dell’elenco, contrariamente a Pietro, che invece è posto in cima a tutte le liste. Su di lui Matteo e Marco fanno pesare una sorta di maledizione divina, mettendo sulle labbra di Gesù la comune espressione: “Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo è tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!” (Mc 14,21; Mt 26,24). Quanto questa espressione sia vera o una mera inserzione redazionale non ci è dato di sapere. Va tuttavia ricordato che Gesù ebbe parole di perdono per tutti quelli che avevano contribuito alla sua morte (Lc 23,34). Lo stesso Giuda, che lo aveva tradito, di certo non si aspettava una simile conclusione del suo tradimento. In tal senso è significativo quanto riporta Matteo in proposito: “Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: <<Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente>>. Ma quelli dissero: <<Che ci riguarda? Veditela tu!>>. Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi” (Mt 27,3-5). Ci fu, dunque, da parte di Giuda un pentimento e un atroce e insopportabile rimorso per il suo gesto, che lo porterà al suicidio. Benché l’episodio si trovi soltanto in Matteo, tuttavia esso deve essere verosimile, se anche Luca nei suo Atti ne fa accenno: “Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere. La cosa è divenuta così nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua Akeldamà, cioè “Campo di sangue” (At 1,18-19).

Se c’è stata una salvezza per gli uomini, di certo ci fu anche per Giuda, poiché in lui ci furono tutti i segni del pentimento e della conversione. Non fu da meno, su di un piano morale, Pietro che rinnegò ripetutamente il suo Maestro (Mt 26,34.75), a cui aveva giurato, poco prima, fedeltà fino alla morte assieme a quelli del Gruppo (Mt 26,33.35); non furono da meno gli altri discepoli, che non hanno saputo vegliare con il loro Maestro (Mt 26,40) e di fronte al pericolo lo hanno abbandonato a se stesso (Mt 26,56; Mc14,50); non lo furono da meno, ancora una volta, sempre loro, i discepoli, che di fronte al Risorto, persistevano nella loro incredulità (Mt 28,17; Lc 24,25; Gv 20,25.27). Eppure Gesù era stato molto chiaro su questo punto, in tema di testimonianza: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,33-34; Lc 12,8-9; 2Tm 2,12). Giuda, in ultima analisi, si riscatta nel dare la sua testimonianza a favore di Gesù davanti ai sacerdoti: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Con ciò dichiara l’innocenza di Gesù e la pienezza della sua colpa. E la sincerità della sua testimonianza è confermata dallo spargimento del proprio sangue. Così, similmente, tutti i discepoli di Gesù avranno modo di riscattare la loro fragilità umana, di quella notte disgraziata e drammatica, con una testimonianza tale che li porterà a versare il loro sangue per Gesù. Tuttavia, ciò che inquieta molto e pone un grave punto interrogativo sul riscatto morale e spirituale di questo apostolo non è tanto il tradimento di Gesù, dettato dalla sua fragilità umana, ma l'aver scelto il suicidio quale fuga dalle sue responsabilità e quale forma di autopunizione, e soprattutto nel non aver creduto ad una possibilità di perdono e di riscatto per lui e, in ultima analisi, l'averlo di fatto rifiutato.

Le diatribe intimoriscono (vv.20-21.31-35) e producono polemiche (vv.22-30)


Note generali

Il cap.3 si era aperto con l'ultima (vv.1-6) delle cinque diatribe galilaiche (2,1-28), quattro delle quali hanno occupato l'intero cap.2. L'intensità dello scontro è stata poi stemperata da Marco con l'inserimento di un sommario (vv.7-12), che preludeva alla costituzione del gruppo dei Dodici (vv.13-19). Ed ora l'evangelista riprende la questione delle cinque diatribe galilaiche, riportandone gli effetti in questa sezione conclusiva (vv.20-35) del cap.3. È, infatti, una caratteristica di Marco quello di inserire un racconto all'interno di un altro, tecnica narrativa definita a “sandwich”, che ritroviamo anche ora nei due racconti che seguono (vv.20-35). Questa sezione, infatti, si apre con il racconto dei familiari di Gesù che decidono di andarselo a prendere perché lo ritengono fuori di testa (vv.20-21.31-35); racconto che è interpolato da un altro, che riguarda lo scontro tra Gesù e gli scribi, che lo accusano di essere un discepolo di Beelzebul e di operare gli esorcismi in suo nome (vv.22-30). Entrambi i racconti sono sottesi da un unico tema, che descrivono il contesto di tensioni e di incomprensioni venuto a crearsi a seguito delle diatribe, che si traducono, per i familiari di Gesù, in timore, nel vedere il loro Gesù opporsi apertamente e pubblicamente alle autorità giudaiche, con le gravi conseguenze che questo poteva comportare anche per loro. Il v.6, infatti, che concludeva l'ultima delle cinque diatribe, annotava il complotto dei Farisei con gli Erodiani per sopprimere Gesù. Mentre per gli scribi l'eco delle diatribe si traduce in una polemica con Gesù circa i suoi esorcismi.

Questo clima di tensioni, poi, porteranno ad un ulteriore sviluppo, che vede Gesù cambiare tattica nella sua predicazione: l'uso delle parabole, anziché il parlare aperto e diretto (4,1-34).

Per meglio cogliere i senso dei due racconti tra loro interpolati, preferisco scinderli e analizzarli separatamente, benché tematicamente costituiscano un unico blocco, sotteso da un minimo comune denominatore: l'inintelligenza dell'evento Gesù sia da parte dei suoi familiari che delle autorità giudaiche e, come vedremo, dai suoi stessi compaesani in 6,6, che produce diffidenza e rifiuto.

La diffidenza degli intimi parenti di Gesù nei suoi confronti (vv.20-21.31-35)


Testo a lettura facilitata

Preambolo (v.20)

20- E va in casa; e di nuovo si riunisce la folla così da non poter essi mangiare pane.

I familiari di Gesù diffidano di lui (v.21)

21- Ed avendo(lo) udito quelli presso di lui, uscirono per prenderlo; dicevano infatti che è fuori di testa.

La spedizione dei familiari per riprendersi Gesù e portarselo a casa (v.31)

31- E viene sua madre e i suoi fratelli e stando di fuori mandarono verso di lui a chiamarlo.

La reazione di Gesù nei confronti di sua madre e dei suoi fratelli (vv.32-35)

32- E sedeva una folla attorno a lui e gli dicono: <<Ecco, tua madre e i tuoi fratelli [e le tue sorelle] (qui fuori) ti cercano>>.
33- E rispondendo loro disse: <<Chi è mia madre e i miei fratelli?>>.
34- E guardando attorno (a sé) quelli che stavano seduti in cerchio attorno a lui, dice: <<Ecco mia madre e i miei fratelli.
35- Chi [infatti] facesse la volontà di Dio, costui è mio fratello e sorella e madre>>.


Note generali

Per poter comprendere quanto Marco qui racconta circa la famiglia di Gesù è necessario considerare il clima di terrorismo che le autorità giudaiche avevano creato attorno a Gesù e a quanti intendevano seguirlo o quanto meno accogliere la sua predicazione. Sulla questione ce ne dà testimonianza lo stesso Giovanni nel suo vangelo in 9,22 e 12,42, dove attesta la minaccia di espulsione dalla sinagoga per i seguaci di Gesù e per chi lo avesse riconosciuto come il Cristo.

La sinagoga all'interno della comunità giudaica fungeva non solo come luogo di preghiera comunitaria, ma anche come centro di attività sociali, giudiziarie, si eseguivano sentenze e punizioni; fungeva da scuola per i bambini e luogo di studio della Torah per gli adulti, punto di ritrovo della stessa comunità. La più grave pena che si potesse infliggere ad un giudeo era quello dell'espulsione dalla sinagoga32, che equivaleva alla morte civile e religiosa e perdita della propria identità di appartenenza. È sempre Giovanni che ci attesta il clima di timore e di paura in cui si muovevano non solo i seguaci di Gesù, ma anche i suoi ammiratori (Gv 7,13; 9,22a; 19,38; 20,19).

In tale contesto va compresa la decisione dei familiari di Gesù di andare a riprenderselo prima che la mannaia delle autorità giudaiche cadesse su di lui e su loro stessi, come già si stava prospettando al v.6. Nessuno poteva sfidarle o contestarle pubblicamente e rimanere immune. I genitori del cieco nato, nel racconto giovanneo, prendono nettamente le distanze dal loro stesso figlio, per non essere coinvolti nella diatriba con gli scribi e i farisei, la quale cosa sarebbe potuto costare loro molto cara (9,18-21). Solamente uno fuori di testa, così come pensavano di lui la madre di Gesù e i suoi fratelli (v.21b), poteva credere di porsi impunemente in contrasto con scribi, farisei, sacerdoti o anziani del popolo.

Non deve stupire che Maria, la madre di Gesù, diffidasse di suo figlio. In quanto donna, Maria non doveva avere avuto una profonda cultura teologica e religiosa in genere. All'interno della comunità ebraica le donne non erano tenute allo studio della Torah ed erano esonerate dal culto, ma dovevano seguire soltanto le disposizioni del padre o del marito. Quando partorì Gesù Maria non doveva avere avuto più di 15/16 anni e il figlio che le era nato era per lei soltanto un figlio; non aveva idea di chi realmente fosse. Tutta la fastosa cristologia e teologia costruita da Luca e da Matteo attorno al concepimento e alla nascita di Gesù, in cui Maria era coinvolta in prima persona, non vanno intese come la cronaca dell'epoca, di come sono andate le cose. Gli evangelisti non stavano scrivendo una biografia di Gesù, rigorosamente documentata, ma testimoniavano la loro fede e volevano asserire soltanto che quel bambino, di cui fin da subito attestano la sua identità divina, era il frutto non di una decisione umana, ma di Dio e rientrava, quindi, nel suo progetto di salvezza. Di conseguenza, Maria non poteva sapere chi realmente fosse suo figlio Gesù e, pertanto, la posizione che il suo Gesù aveva pubblicamente preso nei confronti delle autorità religiose doveva turbarla non poco e probabilmente, consultatasi con i suoi figli, avevano concluso che la cosa migliore era quella di andarsi riprendere Gesù e portarselo a casa, prima che gli capitasse qualche disgrazia.

Dubbi che, comunque, non erano solo di Maria, ma anche del resto dei fratelli di Gesù, se lo stesso Gv 7,5 annota che “Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui”. E similmente va detto del Battista, il quale, pur annunciando l'imminente avvento di un messia, non doveva sapere esattamente chi fosse se, mentre era in carcere, manda dei suoi discepoli ad accertarsi se fosse veramente lui il messia che doveva venire o se ne doveva aspettare un altro (Mt 11,2-3; Lc 7,18-29). Dubbi comprensibili quelli di Giovanni, poiché Gesù non corrispondeva all'idea che di lui si era fatta. Infatti, dalla predicazione di Giovanni (Mt 3,7-12) appare la figura di un inviato di Dio terribile, terrificante e giustiziere: la sua scure è posta alle radici, chi non porta frutto verrà tagliato e gettato nel fuoco, egli avrà in mano il ventilabro e colpirà ogni impurità bruciandola nel fuoco, si compirà così il giudizio di Dio sugli uomini. Dubbi tormentavano, poi, le stesse autorità religiose, se più volte chiesero a Gesù un segno dal cielo, per confermare la sua identità e le sue pretese messianiche. Ma nessuna risposta decisiva ebbero in tal senso33. Dubbi ne ebbero molti anche i suoi discepoli che in gran numero lo lasciarono (Gv 6,60.66). Ed infine, molti dubbi ancora assalirono i suoi discepoli dopo la sua risurrezione (Mt 28,17; Lc 24,38).

Non devono, quindi, stupire le titubanze e i timori di Maria, che ancor prima di essere la madre di Gesù era soltanto una fragile donna. Sarà soltanto il culto a Maria, sviluppatosi intorno al II sec. d.C. e sempre più rafforzatosi ed affermatosi nel corso dei secoli, che ha trasformato una semplice creatura in una sorta di divinità, al punto tale d'aver subissato il suo stesso figlio. Ma questa è una stortura. Maria non va adorata, ma semplicemente venerata, altrimenti si corre il rischio di trasformare Maria in un idolo, che, paradossalmente, ci allontana dalla vera fonte della nostra salvezza, Gesù, di cui spesso i credenti non sanno nulla o quasi, ma sanno tutto della Madonna.

Accanto alla madre di Gesù compaiono anche i fratelli di Gesù (v.31a), i cui nomi vengono elencati da Mc 6,3b, mutuati poi da Mt 13,55. Tra questi, in prima posizione nell'elencazione, compare Giacomo che Gal 1,19 definisce come “il fratello del Signore”. Come vanno intesi questi fratelli di Gesù? Come fratelli carnali o, in senso lato, come cugini o parenti di Gesù? Da una semplice analisi letteraria, si rileva come il termine fratello/i e sorella/e compaiono nel N.T complessivamente 369 volte. Se per il momento escludiamo dalla nostra ricerca i fratelli o le sorelle di Gesù, accentrando la nostra attenzione sui rimanenti casi, si rileva come ai termini fratelli/sorelle viene assegnato un duplice significato: in senso carnale, in quanto persone provenienti dallo stesso utero materno; e in senso traslato per indicare i credenti, gli appartenenti alla stessa comunità di fede o allo stesso popolo e, quindi, con senso di connazionale o correligionario. In nessun caso e in nessun modo si attribuisce ai due termini il senso lato di parenti. Ora è da chiedersi: perché quando si parla di fratelli o sorelle di Gesù questi devono essere obbligatoriamente intesi soltanto come parenti, quando questo senso era completamente avulso dal linguaggio e dalla cultura neotestamentari?

È probabile che coloro che prendono quest'ultima posizione intendano difendere la verginità di Maria. Una questione tutta interna alla chiesa cattolica, ma estranea agli stessi evangelisti. Anzi Mt 1,25 lascia intendere come dopo il primogenito Gesù, Maria non ha escluso altri figli: “e (Giuseppe) non la conobbe finché non partorì il figlio; e chiamò il suo nome Gesù”. Questo significa che dopo aver partorito Gesù, successivamente, Giuseppe la conobbe. Matteo, quindi, apre la possibilità ad una successiva figliolanza di Maria, che richiamerà in Mt 12,46 e 13,55. Ben diversa è la traduzione della CEI: “la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio, che egli chiamò Gesù”. Una traduzione che non ha riscontro nel corrispondente testo greco di Mt 1,2534. Non va dimenticato, poi, che presso il mondo ebraico la verginità non era un pregio, ma una violazione del comando divino: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen 1,28a) e la sterilità era considerata una maledizione divina, così come la fecondità e la prolificazione una benedizione.

L'essere umano per sua natura è un essere sessuato e profondamente condizionato nel suo essere dalla sua sessualità, che non va confusa con la genitalità. Negare o reprimere la sessualità nell'essere umano significa negare l'essere stesso dell'uomo. La sessualità nella sua interezza non è peccaminosa o cattiva, ma è l'uso che se ne fa, che è buono o cattivo. E talvolta nell'esaltazione eccessiva della verginità si nasconde il disprezzo della sessualità e della genitalità, cioè il disprezzo dell'essere umano e della sua stessa natura. E il rinnegarla produce delle gravi conseguenze e una sua degenerazione. “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza”(Tt 1,15). Se c'è dunque una verginità in Maria, questa non va ricercata nella sua integrità fisica, ma nell'integrità del suo stesso essere, in quanto concepita senza colpa originale, da cui ogni stortura e ogni male discende.

Commento ai vv. 20-22.31-35

Il v.20 funge da contesto all'intera pericope e si apre con una nota topologica, che riproduce sostanzialmente 2,1b-2: Gesù entra in casa e subito una moltitudine di persone si accalca attorno a lui, così che non può neppure ristorarsi con un po' di cibo. Un'espressione quest'ultima che mette in evidenza l'impossibilità di attendere alle proprie esigenze personali allorché vi sia una missione da compiere, quella dell'annuncio, per cui Gesù “è uscito” (1,38). Questa va posta al di sopra di tutto e avviene attraverso la predicazione e l'insegnamento (1,14b; 2,.382b.13b). Il Gesù giovanneo annoterà tale priorità: “Mio cibo è che faccia la volontà di colui che mi ha mandato e compia la sua opera” (4,34).

L'entrare “in casa” di Gesù è il suo entrare nella comunità credente, dove avviene l'annuncio della Parola e dove questa viene accolta e praticata (vv.34-35). La “casa” nel linguaggio marciano è la metafora del discepolato che accoglie la parola di Gesù e vive conformemente ad essa. È importante comprendere questo passaggio per poter capire ciò che qui accade e che spesso non viene sottolineato a sufficienza nelle esegesi, forse per un certo timore reverenziale verso Maria, che, come si è sopra accennato, ancor prima di essere la madre di Gesù era una donna fragile e non la donna divinizzata e idolatrata che conosciamo oggi.

Il v.20, pertanto, colloca Gesù “in casa”, cioè all'interno della cerchia dei suoi seguaci, quelli che hanno un atteggiamento accogliente nei confronti della sua Parola e la praticano (vv.34-35). E il contrasto appare subito evidente con il v.21 dove “avendolo udito quelli presso di lui”. I “quelli presso di lui” sono i familiari di Gesù o, in senso lato, i suoi parenti, la cui identità verrà svelata ai vv.31-32 e con sorpresa si scoprirà che essi sono sua madre e i suoi fratelli, quelli che secondo Gv 7,5 non credevano in lui. Questi sono presentati come coloro che “avendo(lo) udito”. Persone che come altre lo hanno sentito predicare, ma la loro reazione è ben diversa: ritengono il loro Gesù “fuori di testa” (v.21b) per il suo insegnamento completamente nuovo e diverso, che lo ha visto contrapporsi a quello degli scribi e dei farisei nelle cinque diatribe (2,1-3,6). Un insegnamento che frastornava e sbigottiva per la sua novità e che veniva somministrato con autorità e autorevolezza e non come quello degli scribi, i dottori della legge (1,22). Era proprio questo che spaventava la madre e i fratelli di Gesù e che li spinsero ad andarselo prendere prima che gli accadesse qualcosa di spiacevole, allorché vennero a conoscenza che egli era attorniato da molta gente venuta per ascoltarlo.

Il v.31 rileva la posizione di estraneità che Maria e i fratelli di Gesù hanno nei suoi confronti: “stando di fuori”. Un'espressione di luogo che dice come gli intimi familiari di Gesù, proprio loro, si pongano al di fuori della cerchia di chi, invece, sta attorno a Gesù, lo ascolta e mette in pratica la sua parola (vv.34-35). Il loro relazionarsi a Gesù è basato ancora sui vincoli di sangue. Ed è proprio questo che li rende estranei a Gesù e li pone al di fuori della cerchia degli eletti; esclusi, pertanto, dal ciclo della salvezza. L'aver concepito Gesù, l'averlo generato, allevato ed educato non costituisce un titolo di privilegio nei confronti di Dio, né, tantomeno, garantisce la salvezza. Essi, infatti, cercano Gesù, ma lo cercano “stando di fuori”, cioè al di fuori di quelli che invece sono attorno a Gesù e ascoltano in modo accogliente la sua parola conformando ad essa la loro vita. Gv 1,11-13 preciserà bene la nuova posizione in cui gli israeliti e con loro gli stessi familiari di Gesù vengono a trovarsi nei suoi confronti: “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero. Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati”. Si prospetta, dunque, una nuova generazione dei figli di Dio che non si radica più nella Torah o nella dottrina degli scribi e dei farisei, né tanto meno nell'essere figli di Abramo, ma nella Parola di Gesù. Si rende, pertanto, necessaria una nuova rinascita secondo le leggi dello Spirito, poiché “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito” (Gv 3,6). Serve una rinascita dall'alto, che si radica nello Spirito, di cui è pregna la Parola rigeneratrice di Gesù (1Pt 1,23). E tutto ciò non può avvenire “stando di fuori”. È necessario, si, cercare Gesù, ma ponendosi all'interno di coloro che ascoltano in modo esistenzialmente accogliente la sua parola.

Il v.33 è cruciale nel cambio di prospettiva, poiché fornisce un nuovo parametro di raffronto, che non si radica più nella carnalità ma nello Spirito. Viene posto, dunque, un interrogativo sulla natura delle nuove relazioni che devono legare i credenti a Gesù: “Chi è mia madre e i miei fratelli?”. Chi sono, in altri termini, i veri familiari di Gesù, quelli più intimi? Sono coloro che possono far valere il vero legame di consanguineità spirituale con Gesù, in quanto non sono stati generati da sangue e carne, ma da Dio stesso, per mezzo della sua Parola rigeneratrice. Si tratta, dunque, di una selezione che ha come parametro elettivo la stessa Parola: “E guardando attorno (a sé) quelli che stavano seduti in cerchio attorno a lui, dice: <<Ecco mia madre e i miei fratelli” (v.34). Il posare lo sguardo di Gesù dice l'azione elettiva che si pone su coloro che “stavano seduti in cerchio attorno a lui”. Quel “stavano seduti”, posto all'imperfetto indicativo, dice che questi continuavano ad avere come centro dei propri interessi e delle proprie attenzioni Gesù, evidenziando in tal modo la stabilità della relazione tra lui e i credenti, che sono in tal modo costituiti, ipso facto, i suoi veri familiari. Viene così ad inaugurarsi una nuova relazione tra Dio e l'uomo, che si attua attraverso l'accoglienza della Parola di Gesù, che non solo rigenera, ma sopratutto genera i nuovi figli e i nuovi familiari di Dio: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19).

La pericope si chiude con una sentenza che decreta la vera natura del familiare di Gesù: “Chi [infatti] facesse la volontà di Dio, costui è mio fratello e sorella e madre”. Il soggetto “Chi” è anonimo e in quanto non definito apre all'universalità. Ognuno, quindi, può ritrovarsi in quel “Chi”. Un soggetto che non viene definito per nome, ma soltanto per comportamento, che lo pone nella giusta relazione con Dio: “fare la volontà di Dio”. Nel suo dialogo con il centurione Cornelio, Pietro attesta: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). Lo spettro di parentela che qui Gesù prospetta non è più limitato alla madre e ai fratelli, ma esteso anche alle sorelle, divenendo in tal modo onnicomprensivo di una nuova famiglia, dove scorre lo stesso sangue, quello dello Spirito e dove è presente lo stesso DNA divino, l'impronta di Dio posto nei credenti, generati dalla Parola e dallo Spirito e non più dalla carne e dal sangue.

Accuse polemiche contro Gesù da parte degli scribi (vv.22-30)

Testo a lettura facilitata

Il preambolo (v.22)

22- E gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano che ha Belzebul e nel (nome del) capo del demoni scaccia i demoni.

La confutazione (vv.23-26)

23- E chiamatili a sé , diceva loro in parabole: <<Come può satana scacciare satana?
24- E se un regno è diviso in se stesso, non può stare quel regno;
25- e se una casa è divisa in se stessa, non può stare quella casa.
26- E se satana è sorto contro se stesso e si è diviso, non può stare, ma ha fine.

Gesù più forte di satana (v.27)

27- Ma nessuno, entrato nella casa del forte, può depredare le sue suppellettili, se prima non lega il forte, ed allora saccheggerà la sua casa.

La bestemmia contro lo Spirito o il pervicace rifiuto della Verità (vv.28-30)

28- In verità vi dico che tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, peccati e bestemmie, qualora avessero bestemmiato;
29- ma chi avesse bestemmiato contro lo Spirito Santo, non avrà perdono in eterno, ma è reo di peccato eterno>>.
30- Poiché dicevano che ha uno spirito impuro.


Note generali

Posta all'interno del racconto dell'incredulità dei familiari di Gesù (vv.20-21.31-35), che lo ritenevano fuori di testa (v.21b), questa pericope (vv.22-30) si muove in parallelo ad essa, rilevando la medesima incredulità da parte delle autorità religiose, che, similmente a Maria e ai fratelli di Gesù, ritengono Gesù un posseduto dal demonio, accusa che costituisce l'altra faccia della medaglia dell'essere fuori di sé. I familiari di Gesù, dunque, quanto a incredulità, sono accostati alle autorità religiose. Tutti personaggi, comunque, che si pongono fuori dalla cerchia dei discepoli e, quindi, esclusi dalla salvezza. Il problema di fondo per entrambi i gruppi è l'incredulità. Non ha importanza da dove questa provenga, poiché Dio, come affermava Pietro a Cornelio, non fa distinzione di persone, di popoli o di razze, ma guarda la disponibilità del cuore (At 10,34-35).

Il racconto si apre con la formulazione dell'accusa da parte delle autorità religiose: “ha Beelzebul e nel (nome del) capo del demoni scaccia i demoni” (v.22b). La risposta di Gesù è progressiva e si articola su tre passaggi, passando dalla difesa all'attacco, che grava quest'ultimo sui giudei e, implicitamente, anche sui suoi familiari, come un giudizio di condanna:

  1. dapprima viene dimostrata l'assurdità dell'accusa, poiché possiede in se stessa una contraddizione in terminis: satana non può andare contro se stesso poiché si autodistruggerebbe (vv.23-26).

  2. Se quindi Gesù non opera esorcismi con il favore di satana, significa che egli è più forte di lui, visto che li compie con successo (v.27).

  3. Il non credere a questo significa chiudersi alla Verità che vive ed opera in Gesù e ciò preclude alla salvezza (vv.28-30).


Commento ai vv.22-30

Il v.22 crea il breve, appena accennato contesto entro cui viene posto il ben più ampio e denso discorso difensivo e accusatorio di Gesù, finalizzato a dimostrare la vacuità e la pretestuosità dell'accusa, ed è scandito in due parti: la presentazione degli accusatori, i dotti scribi, esperti delle Scritture (v.22a); e la formulazione della loro accusa (v.22b). Sono, questi, personaggi influenti nell'ambito della società civile e religiosa; provengono direttamente da Gerusalemme, il cuore della vita religiosa di Israele e del potere religioso, che ha la sua massima espressione nel Sinedrio, il consiglio direttivo politico-giudiziario-religioso di Israele, una sorta di parlamento, formato dagli scribi, assieme ai farisei, i sacerdoti e gli anziani del popolo. Il fatto che questi personaggi provenissero da Gerusalemme per muovere simili accuse a Gesù, il quale si trovava in Galilea, quindi a circa 150 Km in linea d'aria da Cafarnao, significa che non erano lì casualmente di passaggio, ma costituivano una sorta di commissione d'inchiesta, proveniente dal cuore del potere religioso e civile e, quindi, l'accusa mossa a Gesù, se non debitamente controbattuta, poteva avere conseguenze gravi. Non va, infatti, dimenticato come si era conclusa la quinta diatriba, con un consiglio tra farisei ed erodiani per sopprimere Gesù (v.6). La presenza di questi personaggi, pertanto, è inquietante.

Questi “dicevano che ha Beelzebul35 e nel (nome del) capo del demoni scaccia i demoni”. Il verbo all'imperfetto indicativo dice la persistenza di questa accusa, niente affatto passeggera e da non prendersi come semplice battuta polemica. Gli scribi non erano estranei agli esorcismi (Mt 12,27; Lc 11,19) e presso il mondo giudaico gli esorcismi erano diffusi. Traccie in tal senso ci vengono testimoniate da Mc 9,38, Lc 9,49 e da At 19,13-16, nonché dallo stesso Giuseppe Flavio36.

L'accusa, quindi, era di essere posseduto da Beelzebul e di operare nel suo nome.

La confutazione si articola su quattro versetti (vv.23-26), di cui il primo è introduttivo e pone la questione di fondo attraverso una domanda retorica, che contiene già in se stessa la risposta, dimostrando in tal modo l'incongruità e la pretestuosità dell'accusa: “Come può satana scacciare satana?”. È evidente che satana, altro nome di Beelzebul, non potrà mai operare contro se stesso. Sarebbe un suicidio. È interessante rilevare come Gesù si riferisce a Beelzebul definendolo “satana”, termine che proviene dalla radice ebraica “śtn”, che significa “avversare, accusare”. Quindi satana è l'avversario di Dio e l'accusatore degli uomini. Ed è proprio ciò che stanno facendo questi scribi venuti da Gerusalemme: si oppongono a Dio (vv.28-29) e accusano Gesù di essere un posseduto da uno spirito impuro (v.30). Il cambio di nome, da Beelzebul a Satana, operato da Gesù non sembra, quindi, casuale, ma anticipa in se stesso, in qualche modo, i vv.28-30.

I vv.24-26 sono tre esemplificazioni, tre metafore, che riprendendo il v.23b, lo esplicitano e lo rafforzano nella sua inconfutabile verità. Si tratta di tre brevissime esemplificazioni, che si equivalgono e che probabilmente Marco ha trovato nel corso della sua ricerca presso le diverse comunità e ha voluto raggrupparle, senza perderne una, esponendole in forma concentrica: regno, casa e persona. Forse il versetto originale era il v.25, l'unico che si concorda e in qualche modo anticipa il v.27.

Confutata l'accusa di operare esorcismi con l'aiuto e il potere di Beelzebul, per incongruità e inconsistenza dell'accusa, fondata sul nulla, considerato che essi stessi, gli scribi e i farisei praticavano gli esorcismi (Mt 12,27; Lc 11,19), ora Gesù, con il v.27 passa al contrattacco, affermando la sua potenza, ben superiore a quella di Beelzebul, poiché essa proviene da Dio stesso.

Il forte padrone di casa è satana stesso, che non si lascia facilmente saccheggiare la casa, se prima, uno più forte di lui, non lo lega, cioè non lo sottopone al suo potere. È quel “più forte” che già Giovanni aveva preannunciato in 1,7, poiché la sua forza proviene dallo Spirito ed egli opera per mezzo dello Spirito. La potenza e il potere di Gesù, pertanto, provengono da Dio stesso e non certo da Beelzebul. È ciò che in termini più espliciti e diretti affermerà nella stessa diatriba circa gli esorcismi Mt 12,28: “Ma se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio”. E cosi similmente Lc 11,20. Gesù, del resto, fin dall'inizio della sua attività missionaria, viene investito dallo Spirito (Mc 1,10) e si muove soltanto sotto la sua azione (Mc 1,12)

I vv.28-30 concludono la diatriba tra Gesù e gli scribi circa il suo potere di operare esorcismi. Un potere, come si è dimostrato (vv.22-27), che proviene da Dio stesso e non da Beelzebul, il quale, suo malgrado, subisce la potenza di Gesù (1,24; 5,7). Dunque non c'è più nessuna scusante per gli scribi: se in Gesù opera lo Spirito e la potenza di Dio stesso, che i demoni stessi gli riconoscono e ne subiscono i devastanti effetti, perché essi, gli scribi, non gli credono? Ed è proprio questo che li condanna. Una condanna che verrà formulata ai vv.28-30.

Con il v.28 viene attestata la perdonabilità di qualsiasi peccato, compresa la bestemmia, la violazione più grave, perché va a colpire direttamente l'Essere stesso di Dio, e per la quale Lv 24,16 prevede la condanna a morte del bestemmiatore a mezzo lapidazione.

Tutto, dunque, è perdonabile e perdonato, ma non la bestemmia contro lo Spirito Santo. Questo peccato non troverà mai perdono e il bestemmiatore rimarrà per sempre imperdonato. Marco esprimerà più efficacemente quel “mai” e quel “per sempre”, riferendolo all'inestinguibile eternità: “in eterno”, ripetuto per ben due volte. Una condanna pesantissima a fronte di una colpa, ma forse è meglio dire ad un atteggiamento esistenziale sbagliato nei confronti di Dio.

In che cosa consiste, dunque, questa bestemmia contro lo Spirito Santo? Quando si parla di bestemmia, questa non va intesa soltanto come una grave offesa al Nome Santissimo di Dio, che va a colpirlo direttamente, poiché i Nome di Dio è Dio stesso. Questa è ancora una colpa perdonabile. Ciò che qui, invece, Marco intende per bestemmia imperdonabile fa riferimento ad un atteggiamento esistenziale, intellettuale e spirituale di pervicace e invincibile chiusura alla Verità di Dio, di cui lo Spirito è espressione e che dimora in Gesù stesso e che fa di lui la manifestazione e la rivelazione del Padre. È quello Spirito che Gv 15,26 e 16,13, definirà come “Spirito di Verità”, che procede dal Padre, investe Gesù, rendendogli testimonianza e che guiderà i credenti alla Verità tutta intera. Lo Spirito Santo, pertanto, diviene la Verità stessa di Dio, quello stesso che scruta le profondità del suo Essere e le rivela in Gesù (1Cor 2,10).

Questa bestemmia contro lo Spirito Santo diviene imperdonabile perché si radica in un ostinato rifiuto di Gesù, che condannerà le autorità giudaiche e taglierà fuori dalla storia della salvezza lo stesso Israele. E Paolo dedicherà ben tre capitoli della sua lettera ai Romani (9-11) sulla questione, che gli causa un profondo dolore: “ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua” (Rm 9,2). Egli non riesce a capire cosa sia successo agli israeliti. Hanno avuto tutto: la Torah, l'Alleanza, i Profeti, che preannunciavano la venuta del Messia e allorché questi è giunto lo hanno rifiutato e ucciso (Gv 1,11). In questi tre capitoli egli cercherà di darsene una ragione, facendo rientrare il rifiuto di Israele in un misterioso progetto di Dio, così che l'annuncio riservato inizialmente agli Israeliti e da questi rifiutato, si è riversato ed esteso a tutti i pagani, così che la salvezza fu estesa a tutti grazie al rifiuto di Israele, il quale, Paolo cerca di convincersene, verrà alla fine salvato anche lui. Tre capitoli che trasudano dolore e sofferenza e che rivelano il grande sforzo di ricerca teologica all'interno del Mistero di Dio per giustificare o quanto meno renderlo comprensivo, da un lato, il rifiuto di Israele; dall'altro, aprendo alla speranza anche il suo popolo, primo depositario della Parola e dell'Alleanza con Dio e investito di una missione unica ed esclusiva (Es 19,5-6).

Il v.30 presenta il contenuto di questa bestemmia, che rivela l'incapacità delle autorità giudaiche di cogliere il Mistero e la Luce che Gesù portava con sé: “Poiché dicevano che ha uno spirito impuro”. Espressione che fa da inclusione con il v.22b, dove si attestava che Gesù è posseduto da Beelzebul, racchiudendo in tal modo l'intera pericope sotto l'egida del rifiuto di Gesù, che da una parte era considerato “fuori di testa” dai suoi stessi familiari; dall'altra, da parte dei giudei, “un posseduto da satana”, che funge da variante sul tema “fuori di testa”.


Note

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Marco si muove per schemi narrativi propri della predicazione, alla quale l'evangelista si ispira, definendo il suo racconto un Vangelo, cioè un annuncio orale posto per iscritto (1,1.14-15.22.39a.45a; 2,2b.13b), dove viene dato fin dall'inizio un ampio spazio al tema della predicazione (1,2-3.7.14-15). È probabile che Marco, mutuando il suo racconto dalla predicazione e muovendosi secondo i suoi schemi logici, abbia voluto fornire un punto di riferimento solido ai predicatori itineranti, non solo per facilitarli nella loro missione, ma anche per evitare loro derive fantasiose se non erronee.

3Cfr. 1Cr 29,10; Tb 13,4; Is 63,16; 64,7

4In Gal 5,1 Paolo parlerà di Cristo come il liberatore dal giogo di schiavitù della Legge: Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù”. Mentre n Gal 3,24-25 considera la Legge come un severo pedagogo, che doveva condurci a Cristo: “Così la legge è per noi come un pedagogo che ci ha condotto a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Ma appena è giunta la fede, noi non siamo più sotto un pedagogo”. In tal senso cfr. anche At 15,10; 2Cor 6,14.

5È difficile definire chi siano questi Erodiani. Forse cortigiani o funzionari di Erode Antipa, anche se una simile alleanza con il movimento dei Farisei stride notevolmente. Potrebbe trattarsi di una sorta di fazione religiosa filogovernativa, forse i Boetusiani, membri di una famiglia sacerdotale insediatasi sotto Erode il Grande, discendenti assieme ai Sadducei dal sommo sacerdote Zadok e spesso confusi tra loro anche nella letteratura rabbinica. G. Flavio ne fa un accenno in Antichità Giudaiche, XIV,450; e in Guerra Giudaica, I,319. - Sulla questione cfr. la voce “Erodiani” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista ed integrata 2005.

6I sommari sono finalizzati a sintetizzare l'operato e la predicazione di Gesù e danno l'idea di essere una sorta di formule letterarie sintetiche che servono all'autore per riepilogare l'attività di Gesù, facilitando in tal modo il lettore nel memorizzare meglio la figura e l'operato di Gesù. In tutto il vangelo marciano se ne contano sette: 1,14b-15; 1,32-34; 1,39; 3,7-12; 6 ,12-13.30; 6,53-56.

7Sono cinque le unità che usano questo schema narrativo 3,20-21 (3,22-30) 3,31-35;// 5,22-24 (5,25-34) 5,35-43; // 6,7-13 (6,14-29) 6,30-33; // 11,12-14 (11,15-19) 11,20-26; // 14,1-2 (14,3-9) 14,10-11.

8Cfr. Sal 47,3; 67,17;75,3; 131,13

9Il nome Idumea viene dato dai Greci e dai Romani e traduce il termine Edom, secondo nome di Esaù, e significa “rosso”, con riferimento alla minestra rossa di lenticchie per la quale Esaù vendette a Giacobbe, suo fratello minore, il diritto di primogenitura (Gen 25,30-34). Nel 128 a.C. Giovanni Ircano assoggettò gli Iduemi e li costrinse a convertirsi al giudaismo, facendoli circoncidere. Gli Iduemi ebbero un ruolo rilevante nella prima guerra giudaica (66-73 d.C.).

10I cattivi rapporti che intercorrevano tra i Giudei e i Samaritani hanno la sua origine sul finire del sec. VIII a.C. allorché, dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista, ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche (2Re 17,24-29). Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, a seguito della sua distruzione nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione sia del Tempio che di Gerusalemme (Esd 4,1-5). La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah scritta, disconoscendo i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra le due popolazioni si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim. I Samaritani, quindi, erano originari di due diversi ceppi etnici: quello ebraico, che non fu deportato alla caduta del Regno del nord, e quello formato dai coloni provenienti da Babilonia e dalla Media. Erano, dunque, una razza imbastardita non solo etnicamente, ma soprattutto religiosamente. Erano per questo considerati eretici e impuri. Passare per il territorio dei Samaritani ed entrare in contatto con loro significava rimanere contaminati. È significativo e rivelativo della mentalità giudaica nei confronti dei Samaritani quanto dice la Mishnah in loro proposito: “Le figlie dei samaritani sono in stato di mestruazione fin dalla loro culla […] Inoltre le figlie dei samaritani restano nell'impurità per sette giorni a causa di ogni genere di flusso di sangue”. Un'espressione questa per sottolineare il profondo stato di impurità in cui vivevano costantemente gli abitanti della Samaria; un'impurità congenita. Ma non è tutto, poiché si riteneva non valida la testimonianza di un samaritano, eccetto che per il documento di divorzio. Il samaritano, infatti, era assimilato ad un pagano e considerato alla pari di un 'am ha-haretz, cioè un ignorante, un peccatore e trasgressore

11Cfr. At 2,41; 6,7; 8,4; 11,1; 12,24; 13,49; 15,35; 19,20

12Cfr. J.Mateos-F.Comacho, Vangelo: figure e simboli, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1997 – pagg. 32-38; cfr in M. Lurker, anche le voci Casa e Barca in Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

13Cfr. pag. 9, secondo capoverso del presente studio.

14Tutte le informazioni sui singoli nomi apostolici sono state tratte da mie ricerche bibliche e dai seguenti testi: Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, 1992; O. Spinetoli, Matteo, op. cit.; R. Fabris, Matteo, op. cit.

15Matteo cita quattro diverse persone che portano tale nome: Simone, detto Pietro (10,2), Simone il Cananeo (10,4), Simone il lebbroso (26,6) e Simone, il Cireneo (27,32); personaggi questi che sono riportati anche dagli altri due Sinottici. Mentre in Giovanni 6,71e 13,2.26 si conosce con tale nome anche il padre di Giuda: Simone Iscariota. In Atti 8,9 compare un altro Simone, dedito alla magia; in At 9,43 e 10,6 vi è Simone il conciatore.

16Il termine greco “Boanhrgšj” è un composto di due parole “BÒama” (grido) + “erg£thj” (autore, operatore). Quindi, letteralmente sarebbe “operatori o autori di grida”, che potremmo tradurre, pertanto, con il nostro “brontoloni” o anche “agitatori”. La traduzione “figli del tuono” è molto liberale e, a mio avviso, non rispetta l’etimologia. Tuono in greco è bront» (bronté), mentre figlio è Ù…oj tšknon (uìos - téknos) Siamo, quindi, lontani, comunque la si voglia vedere, dall’etimologia del termine. Va rilevato, tuttavia, che Lorenzo Rocci nel suo “Vocabolario Greco - Italiano”, riportando il termine Boanhrgšj traduce, tout-court, con “figli del tuono”, conformandosi alla tradizionale traduzione e cita il N.T.

17Erode Agrippa fu figlio di Aristobulo e nipote di Erode il Grande. Da Caligola ricevette il titolo di re assieme ai territori nord occidentali della Palestina. Nel 41 d.C., divenuto imperatore Claudio, ricevette da questi anche i territori della Giudea e della Samaria, dopo diversi intrighi a Roma. La sua politica fu favorevole al giudaismo farisaico e fu ben visto dai giudei. Morì improvvisamente all’età di 54 anni (44 d.C.). La sua morte è menzionata dallo stesso Luca in At 12,20 e da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, 19,343 ss. Egli lasciò un figlio, Agrippa II, e due figlie: Berenice, nata nel 28 d.C. e menzionata da Luca in At 25,13; e Drusilla, nata nel 38 d.C. e divenuta la terza moglie del procuratore romano Felice. Anche questo particolare è citato da Luca in At 24,24. – Cfr. la voce Erode in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

18Nell’elenco degli Atti i nomi di Filippo e Bartolomeo sono inframmezzati da quello di Tommaso (At 1,13).

19Il nome Bartolomeo, per il suo significato, sembra essere soltanto un patronimico. Quale, dunque, il suo nome reale? Non ci è dato di conoscerlo, benché si sia avanzata l’ipotesi, a mio avviso alquanto disperata, che esso sia il Natanaele giovanneo (Gv 1,45-49; 21,2). Secondo Eusebio di Cesarea il vangelo di Matteo in India.

20A differenza dei Sinottici, che nei loro racconti citano una sola pasqua, quella fatale in cui Gesù morì, Giovanni narra di tre pasque vissute da Gesù durante la sua vita pubblica: la prima in 2,13, caratterizzata dall’episodio della purificazione del Tempio; la seconda in 6,4 predomina la moltiplicazione dei pani, che in Giovanni è fondativa dell’eucaristia; la terza in 11,55, nella quale viene narrata la risurrezione di Lazzaro, che nel racconto giovanneo prelude a quella di Gesù. È proprio questo particolare della triplice pasqua che spinge gli esegeti a ritenere che la missione pubblica di Gesù sia durata tre anni circa.

21Sulla questione, vedasi  il nome di Andrea

22Si tratta del codice D o Codice di Beza, detto anche Cantabrigense, proveniente dalla Francia meridionale e venuto in possesso di Teodoro di Beza, discepolo e amico di Calvino. Contiene i Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Databile intorno al V sec. In merito cfr. Nestle-Aland, Nuovo Testamento, Greco - Italiano, XXVII edizione, Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma 1996

23Cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1999 – pagg. 771-772

24Gli Scritti neotestamentari ricordano nove Simone, nell’ordine: Simone detto Pietro (Mt 10,2); Simone il Cananeo (Mt 10,4) o lo Zelota (Lc 6,15; At 1,13); Simone, uno dei fratelli di Gesù (Mt 13,55); Simone il lebbroso (Mt 26,6); Simone di Cirene, che aiutò Gesù a portare la croce (Mt 27,32); Simone, il fariseo che ospitò Gesù nella sua casa (Lc 7,44); Simone l’Iscariota, il padre di Giuda il traditore (Gv 6,41); Simone il mago (At 8,9); Simone il conciatore, di Giaffa. Questi aveva una casa in riva al mare (mar Mediterraneo) ed  ospitò Pietro (At 10,6).

25Il nome Simeone significa “colui che ascolta”. In ebraico è Shim’ ōn ed ha probabilmente la sua radice in shāma’, che significa “ascoltare”.

26Dai dati storici a nostra disposizione e con la dovuta precauzione, possiamo dire che gli Zeloti furono fondati dal fariseo Zadok nell’anno 6 d.C. e da un certo Giuda il galileo, originario di Gamala, figlio di Ezechia. Questi scatenò una ribellione contro il censimento, a fine fiscali, voluto dal governatore romano Quirino (At 5,37). In tale occasione gli Zeloti vennero reclutati, in gran parte, dal gruppo dei Farisei, a cui rimasero sempre profondamente legati dottrinalmente. Essi svilupparono un atteggiamento ostile verso Roma, poiché ritenevano che non si dovesse aspettare passivamente il cambiamento messianico. Mossi da un ideale teocratico, ritenevano che solo Dio dovesse essere il vero re d’Israele e che la presenza di Roma impedisse la realizzazione di tale disegno divino. A tele ideale religioso essi associarono anche un impegno civile, denunciando apertamente lo sfruttamento della Palestina da parte dei romani. Un po’ alla volta riscossero sempre maggiori consensi, provocando numerosi disordini in un crescendo continuo fino alla rivolta che sfociò nel 66 d.C. nella prima guerra giudaica, che portò alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio. È probabile che Gesù con la sua predicazione del Regno di Dio e la sua attenzione verso i poveri e i sofferenti avesse esercitato una certa attrattiva sul movimento. La presenza di Simone e dello stesso Giuda, probabilmente anch’egli zelota, lo stanno a testimoniare.  La convinzione, infatti, da parte dei discepoli di Gesù che lui fosse il messia politico e militare che tutti attendevano ci è testimoniata anche dal racconto dei due figli di Zebedeo, che chiedono a Gesù posti di privilegio nella costituzione del suo Regno (Mt 20,20-21; Mc 10,35-36) e dall’interrogativo che i suoi discepoli gli posero sul quando egli lo avrebbe inaugurato ufficialmente (At 1,6). Gesù tuttavia ha sempre rifuggito una simile interpretazione del suo messianismo, presentandosi invece come il sofferente servo di Jhwh  (Mc 8,31-32; 9,31-32; 10,32-34; Gv 6,15). Sul tema degli Zeloti cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit..

27La seconda grande guerra giudaica si svolse tra il 132 e il 135 d.C. e portò alla definitiva distruzione di Gerusalemme, in parte ricostruita dai Romani con il nome di Aelia Capitolina, in onore a Giove Capitolino. Gli ebrei vennero espulsi dalla città e fu fatto divieto di entrarvi a tutti i circoncisi. La rivolta fu capeggiata da Shimo’ on ben Kossiba, che rabbi Aqiba, il più importante maestro del suo tempo, salutò come il messia liberatore e lo soprannominò Shim’on bar Kokhba, il figlio delle stelle. Altri, invece, denigrandolo lo definirono come “bar Koziba”, il figlio della menzogna. Fu una guerra sanguinosa che provocò circa 850.000 morti. Fonti: Luca Mazzinghi, Storia d’Israele, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (AL),  1991; Hans Küng, Ebraismo, passato, presente, futuro, Editrice BUR – Roma 1999.

28Cfr. Mt 10,4; 26,5; 27,3; Mc 3,19; Lc 6,16; Gv 6,71; 12,4; 18,2.5.

29Keriot è una cittadina citata in tutto l’A.T. solo tre volte: in Gs 15,25 chiamata Keriot-Chezron o Cazor, posta verso il confine di Edom nel Negheb;  in Ger 48,24 e in Am 2,2, che la pongono nella regione di Moab

30Il termine sicario deriva dal latino "sica", che indica un pugnale dalla lama ricurva, usato in genere dai Traci, considerati dai romani dei briganti. Era, quindi, un’arma privilegiata da assassini e rivoltosi, che usavano l’omicidio come azione di terrorismo.

31Cfr. O. Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1998; G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova Editrice, Roma – 2001.

32Sul tema della sinagoga e della sua funzione all'interno della comunità ebraica cfr. la voce “Sinagoga” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2008.

33Cfr. Mt 12,38-39; 16,1-14; Mc 8,11-12; Lc 11,16; Gv 2,18; 6,30

34Il testo greco di Mt 1,25 è il seguente: “kaˆ oÙk ™g…nwsken aÙt¾n ›wj oá œteken uƒÒn: kaˆ ™k£lesen tÕ Ônoma aÙtoà 'Ihsoàn”. Il testo greco è stato tratto da Nestle-Aland, Nuovo Testamento, Greco-Italiano, ed. Società Britannica e Forestiera, Roma 1993, XXVII edizione.

35Il nome Beelzebul, qui chiamato il capo dei demoni, significa “signore” (ba'al) “principe” (zebùl) e nella forma di Beelzebub, che significa “signore delle mosche” era il dio della città filistea di Ekron (2Re 1,2-16). Il nome deve essere rimasto, storpiato in Beelzebul presso gli ebrei. Un'altra soluzione etimologica proposta potrebbe essere “signore dell'abitazione”, dall'aramaico “be'el” (signore) e dall'ebraico “zebul” (abitazione), la quale cosa coinciderebbe con la parabola del v.27 dove si parla del forte padrone di casa vinto da Gesù. Cfr. R. Fabris, Matteo, ed. Borla, Roma1996 - pag 289, nota 3

36Cfr. Ant. Jud. VIII, 45-48