IL VANGELO SECONDO MARCO


Le controversie galilaiche,
preludio alla morte di Gesù

Cap. 2 (Prima Area: 1,2-8,30)1



Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi



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Note generali


Questo secondo capitolo funge da completamento al cap.1 dove si narrano gli inizi dell'attività missionaria di Gesù, caratterizzata da tre elementi fondamentali: l'annuncio della parola (1,14b-15.21-22.38.39a ); le guarigioni (1,29-31.32-34.40-45), tra le quali spiccano gli esorcismi (1,23-28.32-34.39b), quale segno dell'avvicinarsi del Regno di Dio (1,15a); ed infine, la chiamata dei primi discepoli (1,16-20), che assieme a Gesù, formeranno il primo nucleo fondante della chiesa (v.17). Questa prima attività missionaria, sia come predicazione che come guarigioni ed esorcismi, fu un pieno successo (1,22.27-28.32-34.37b.45); una sorta di marcia trionfale. Ma tutte le rose hanno le loro spine e in questo non fa eccezione neppure di Gesù, che si scontra qui, in questo cap.2, per la prima volta, con le autorità giudaiche, da cui traspare la forte dissonanza tra il suo insegnamento e il loro insegnamento, vincolato alla Legge mosaica, gravata da una dottrina sviluppatasi nel corso dei secoli, che è divenuta un asfissiante e insopportabile appesantimento della Legge stessa, oscurandone in tal modo la vera natura e l'autentico senso (Mt 23,1-39; Mc 7,7), che doveva invece animare e vitalizzare l'Alleanza, cioè il rapporto tra il credente e il suo Dio, ridotto ad una mera osservanza legalistica, ad una semplice esecuzione del comandamento (Es 24,2.7). Una prima dissonanza, da cui traspare fin da subito la profonda diversità e contrapposizione tra la novità dell'evento Gesù e il giudaismo (1,22), che prelude al dramma di Gesù (3,6), che, man mano che il racconto procede, apparirà sempre più evidente e concreto a partire da 8,31, fino a subire una svolta decisiva con il cap.10, una sterzata verso Gerusalemme e il Golgota.

Il cap.2, che si estende tematicamente fino a 3,6, funge da contenitore di cinque diatribe, definite galilaiche in quanto avvenute nella prima fase di attività di Gesù, geograficamente circoscritta alla Galilea (1,14b.39), distinguendole dalle altre simili dispute giudaiche (11,27-12,37), avvenute a Gerusalemme, nella fase conclusiva dell'attività missionaria di Gesù. Di mezzo a questi due gruppi di diatribe/dispute, vi è anche un'altra diatriba, quella sulla purità (7,1-23), che funge da preambolo all'attività missionaria presso il mondo dei pagani, simboleggiati dalle città di Tiro e Sidone (7,24), considerati, in quanto tali, degli impuri. Quindi, per sgomberare il campo da ogni questione sulla purità nei rapporti con i pagani, il Gesù marciano dà la sua soluzione alla questione, dichiarando che la vera purità va ricercata non nei cibi, nel lavarsi o meno le mani o nei rapporti con le persone, ma nel cuore dell'uomo, perché da lì esce il puro e l'impuro e niente di tutto ciò che proviene dall'esterno dell'uomo può contaminarlo. Un'affermazione questa che riecheggerà in qualche modo anche in Tt 1,15: “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza”.

Benché la sezione 2,1-3,6 sia considerata come quella delle diatribe, tuttavia, queste vanno, a mio avviso, limitate ai vv.15-28, cioè alla sole questioni circa la natura e la finalità della missione di Gesù e dei suoi, rivolta verso i peccatori, ma rifuggiti come impuri e considerati come predestinati alla dannazione da parte del giudaismo (vv.15-17); il digiuno praticato dai giudei, ma non più da Gesù e dai suoi discepoli (vv.18-22); e, infine, la questione del lavoro in giorno di sabato, qual era considerato lo strappare delle spighe di grano, mangiandone il contenuto, dopo averlo ripulito dal suo involucro (vv.23-28). Soltanto questi tre brevi racconti possiedono le caratteristiche della vera diatriba, per cui un comportamento palese, ritenuto dissacrante o posto in violazione a qualche divieto, viene direttamente e prontamente censurato dalle autorità giudaiche, controbattute, a loro volta, da altre argomentazioni. Gli altri due racconti, quello della guarigione del paralitico (vv.1-12) e dell'uomo dalla mano inaridita (3,1-6) narrano soltanto l'accadere di due guarigioni, sulle quali non vi è di fatto nessun intervento recriminatorio da parte delle autorità giudaiche, che viene soltanto supposto, creando in tal modo un'ipotetica opposizione, alla quale si contrappongono delle giustificazioni, che fungono anche da motivazione a tali comportamenti. È probabile, quindi, che i due racconti di guarigione siano invenzioni di Marco, che rispecchiano in qualche modo delle questioni intracomunitarie, come la validità del perdono dei peccati, praticato all'interno della comunità credente, dove c'era probabilmente la presenza di giudeocristiani, che ancora non avevano abbandonato completamente le pratiche giudaiche; o come il porre una questione di liceità morale sul fare del bene o del salvare una vita in giorno di sabato, questioni dibattute nel giudaismo; mentre le tre altre diatribe, per il loro modo di essere formulate, dovevano far parte di altro materiale, rinvenuto dall'autore presso le comunità credenti e facenti parte del loro patrimonio apologetico, finalizzato a giustificare i loro comportamenti divergenti da quelli del giudaismo, come il frequentare i peccatori per annunciare loro la parola o il rifiuto del digiunare, caratteristico del mondo giudaico, o dell'inosservanza del sabato. Solo qui, infatti, troviamo le motivazioni che sostengono e giustificano il comportamento divergente. Il nuovo movimento credente, che si rifaceva a Gesù, è, infatti, un movimento che nasce dal giudaismo, che veniva interpretato e vissuto da questo nuovo movimento in modo più liberale e meno rigoroso, cercando di scrollarsi di dosso tutta una pesante e soffocante normativa creata dalla tradizione orale, cercando, invece, di cogliere il senso autentico della Legge, suscitando in tal modo reazioni e contestazioni da parte dei puristi, quali erano le autorità religiose, che invece concepivano la Legge mosaica come una serie di norme legali da eseguire, senza porsi il problema del loro senso e a che cosa in realtà queste puntassero.

Da un punto di vista narrativo le tre diatribe, poi, sono poste centralmente ai due racconti, che fungono da inizio e da fine della sezione 2,1-3,6 e sono circoscritti, il primo (vv.1-12) da una doppia inclusione: la prima per movimenti contrapposti, Gesù entra a Cafarnao al v.1 ed esce al v.13a; la seconda da due simili espressioni: Gesù “diceva loro la parola” al v.2 e similmente al v.13b “li ammaestrava”; mentre il secondo racconto (3,1-6) inizia con l'entrare di Gesù nella sinagoga (3,1), collocandolo in un nuovo contesto topografico, che crea uno stacco netto rispetto alla sezione vv.15-28. Le tre diatribe centrali, invece, sono racconti non contestualizzati, ma soltanto giustapposti l'uno accanto all'altro, a se stanti rispetto al resto della sezione, messe lì quasi a voler presentare fin da subito le diversità tra il nuovo movimento credente, che si rifaceva a Gesù, e il giudaismo, da cui tale movimento proveniva. Una sorta di carta d'identità che verrà poi completata in 7,1-23 con la questione sulla purità.

Vi è tuttavia tra le tre diatribe una sorta di filo rosso che le lega in qualche modo tra loro e che nel loro insieme rilevano l'avvento dei tempi nuovi, che realizzano il sogno dei profeti, quello dei cieli nuovi e della terra nuova (Is 65,17a; 66,22), la cui venuta verrà annunciata da Ap 21,1; una sorta di nuova creazione a cui Israele ed ogni credente è chiamato a contemplare (Is 43,19a; Ap 21,5a). Una novità che si contrappone ad un passato che non c'è più, poiché è già stato realizzato e superato con l'avvento di Gesù.

Nella prima diatriba (vv.15-17), infatti, si parla di un banchetto dai tratti messianici ed universali, metafora della vita stessa di Dio, aperto a tutti e a cui tutti, in particolar modo i peccatori, cioè quelli che sono lontani da Dio, sono chiamati a parteciparvi; un banchetto che si attua nella persona stessa di Gesù, che si fa Pane e Parola di vita per tutti e bevanda di salvezza con il suo sangue. Il contesto della seconda diatriba (vv.18-22) è molto simile alla prima: là si parla di un gioioso banchetto messianico, che si attua in Gesù, mentre qui si parla di Gesù che è lo sposo messianico di questo nuovo banchetto, che richiama l'alleanza tra Jhwh e il suo popolo, dove Jhwh è lo sposo di Israele. Anche in questo contesto il richiamo alla gioia messianica è sottolineato con il superamento degli antichi digiuni, poiché la presenza dello sposo, dapprima nella persona fisica di Gesù, poi sotto forma di Parola e di Pane, invita ad unirsi a questo nuovo sposalizio tra Dio e gli uomini, che ha il suo sacramento di unione in Gesù. Il clima di gioia si muove sullo sfondo anche della terza diatriba (vv.23-28), dove il sabato, inteso come il giorno riservato a Jhwh, era soffocato da una miriade di impedimenti che costringevano l'uomo ad una forzosa immobilità fisica, viene ora liberato da ogni vincolo, semplicemente rovesciando il senso del sabato, che è fatto per l'uomo e non per Dio. Il sabato, quindi, diventa uno spazio nuovo, liberato e liberante, dove l'uomo è chiamato a incontrarsi con il suo Dio, preludio della definitiva eternità.

Tutti i racconti, che formano la sezione 2,1-3,6, sono caratterizzati dalla presenza di almeno sette detti di Gesù, attorno ai quali sono costruiti i singoli racconti, finalizzati a metterli in evidenza. È quella che letterariamente viene definita sentenza inquadrata.

L'elencazione qui di seguito di tali detti dà subito l'idea dei problemi e delle questioni che animavano e nel contempo agitavano le prime comunità credenti, che vivevano all'interno del giudaismo, da cui provenivano, con il quale si erano scontrate e dal quale, infine, si sono staccate, per l'insostenibilità del diverso modo di porsi nei confronti delle questioni, che questi detti lasciano trasparire:

  1. il Figlio dell'uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra” (v.10);

  2. non venni a chiamare (i) giusti ma (i) peccatori” (v.17c);

  3. Nessuno cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo tira su di esso, sul vecchio, e lo strappo diventa peggiore. E nessuno getta vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino romperà gli otri e il vino si perde ed (anche) gli otri; ma vino nuovo in otri nuovi” (vv.21-22);

  4. Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato” (v.27);

  5. È lecito di sabato fare del bene o fare del male, salvare una vita o uccider(la)?” (v.3,4)

I cinque detti sono tra loro accoppiati tematicamente: I-II hanno come tema di fondo il perdono dei peccati, per il quale Gesù è venuto (vv.10.17); in IV-V dominante è la questione del sabato, che qui viene colto come uno spazio sacro riservato all'uomo, in cui è chiamato a compiere il bene, affermandovi la propria vita (vv.27.3,4). Il III detto è posto centralmente ed è, secondo i parametri letterari della retorica ebraica, anche il più importante, quello che mette a nudo la vera questione di fondo, che sottende la radicale diversità tra il giudaismo e il nuovo movimento credente, che fa capo a Gesù. Esso dichiara la sostanziale incompatibilità tra il pensiero di Gesù e quello del giudaismo.

Commento ai vv.1-28

Testo a lettura facilitata

Il potere del perdonare i peccati (vv. 1-12)

Preambolo introduttivo (vv.1-2)

1- Ed entrato di nuovo a Cafarnao dopo giorni, si venne a sapere che è in casa.
2- E molti si riunirono cosi da non non far posto neppure presso la porta, e diceva loro la parola.

La presentazione del paralitico a Gesù da parte di credenti (vv.3-4)

3- E vengono portando da lui un paralitico, sostenuto da quattro (uomini).
4- E non potendo portar(lo) davanti a lui a motivo della folla, scoprirono il tetto dov'era, e scavato, calano il lettuccio dove giaceva il paralitico.

La fede genera il perdono dei peccati (v.5)

5- E vedendo Gesù la loro fede dice al paralitico: <<Figlio, i tuoi peccati sono perdonati>>.

l giudaismo non comprende la novità portata da Gesù (vv.6-9)

6- Vi erano là seduti alcuni degli scribi che pensavano nei loro cuori:
7- <<Perché costui che parla così? Bestemmia; chi può perdonare (i) peccati, se non uno, Dio?
8- E subito accortosi nel suo spirito che così pensavano in loro, dice loro: <<Perché pensate queste cose nei vostri cuori?
9- Che cos'è più facile, dire al paralitico: “i tuoi peccati sono perdonati”, o dire: “alzati e prendi il tuo lettuccio e cammina”?

Il perdono dei peccati si rende visibile in una vita rigenerata (vv.10-12)

10- Ora, affinché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra – dice al paralitico:
11- <<Ti dico: alzati, prendi il tuo lettuccio e vai nella tua casa>>.
12- E si alzò e subito preso il lettuccio, uscì davanti a tutti cosi che tutti erano sbigottiti e glorificavano Dio dicendo che mai abbiamo visto così.


Note generali

Questo racconto di guarigione si ricollega in qualche modo al precedente, quello del risanamento del lebbroso, e ne completa il senso. In entrambi i casi ci sono due persone socialmente e religiosamente isolate e ghettizzate nella loro malattia, che impedisce loro di relazionarsi sia agli altri che a Dio. Essi sono sostanzialmente dei morti viventi. Ma l'incontro con Gesù cambia radicalmente la loro vita: il primo si trasforma non solo in testimone dell'evento salvifico Gesù, di cui ha fatto esperienza in prima persona, ma diviene anche missionario di tale evento, diffondendolo con successo presso la gente (1,45b): “cominciò a predicare molte cose e a divulgare la parola” (1,45a). Una guarigione che avviene in un contesto particolare, quello della missione itinerante di Gesù (1,38-39), così che anche questi si inserisce in tale contesto e diviene un naturale prosecutore della missione di Gesù (1,45).

La seconda guarigione, quella del paralitico, si colloca, invece, in un contesto completamente diverso e, quindi, va letta e compresa entro tale contesto. Qui Gesù non è più in attività missionaria, ma è rientrato a Cafarnao, e si trova ora in casa, dove si accalca molta gente e da questa casa annuncia la sua parola (v.2b). Una scena che prefigura il contesto ecclesiale. Ed è qui, in questa casa, dove Gesù si trova con i suoi discepoli, che avviene la guarigione del paralitico. Una guarigione che è anzitutto spirituale e che si attua nel perdono dei peccati. È, dunque, qui, in questa casa, figura della chiesa nascente, che avviene la salvezza autentica di questo paralitico, che si riflette anche in una vita completamente rigenerata, che diviene a sua volta testimonianza per tutti.

Questa seconda guarigione termina in modo completamente diverso da quello precedente: il primo diviene annunciatore della parola in mezzo alle genti e, in qualche modo, prosegue la missione di Gesù; questo, invece, riceve il comando di Gesù di andare nella sua casa. Non dice di ritornare a casa sua, ma di andare a casa sua, cioè in quella casa dove c'è Gesù con i suoi, che è divenuta ora anche la sua casa. Il paralitico spiritualmente guarito è chiamato a manifestare nella sua nuova condizione di vita tale salvezza, divenendo in un certo qual modo una nuova creatura. Ma il suo posto non è la missione, bensì il restare in quella sua nuova casa, da dove egli potrà splendere davanti a tutti per la sua nuova vita rigenerata e tutti, grazie a lui, renderanno gloria a Dio (v.12).

Due figure, dunque, tra loro poste a confronto, che dicono due diverse posizioni all'interno della chiesa nascente: c'è chi è chiamato ad essere missionario, proseguendo la missione di Gesù; e c'è chi, invece, è chiamato a vivere nella quotidianità la sua salvezza in novità di vita, che diviene testimonianza per tutti gli altri.

Se da un lato questo racconto testimonia l'esperienza salvifica dell'incontro dell'uomo con Gesù, che lo coinvolge esistenzialmente, trasformando e rigenerando la sua vita, dall'altro, affronta anche una questione tutta interna alla chiesa nascente; una questione che si dibatte allorché Gesù è in casa, dove ci sono non solo etnocristiani, ma anche giudeocristiani, i quali sono ancora legati culturalmente, religiosamente e mentalmente al giudaismo, che ancora non hanno lasciato. La questione è la capacità e, quindi, il potere di Gesù, di rimettere i peccati. Per il giudaismo solo Dio poteva rimettere i peccati, la quale cosa avveniva nello Yom kippur per la mediazione del sommo sacerdote e attraverso un apposito rituale. Il giudaismo, quindi, non conosceva la formula della remissione diretta dei peccati e nessuno poteva arrogarsi tale potere, poiché esso apparteneva soltanto a Dio.

La questione del perdono diretto dei peccati da parte di un uomo in nome e per conto di Dio è in questo racconto centrale ed occupa i vv.5-10 e si snoda secondo la logica di un dibattimento:

  1. tesi: “Figlio, i tuoi peccati sono perdonati” (v.5);

  2. antitesi: “Perché costui che parla così? Bestemmia; chi può perdonare (i) peccati, se non uno, Dio?” (v.7);

  3. conclusione: solenne affermazione convalidata dal miracolo, concepito dagli ebrei come il segno divino confirmatorio della validità della tesi sostenuta2: “Ora, affinché sappiate che il Figlio dell'uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra – dice al paralitico: <<Ti dico: alzati, prendi il tuo lettuccio e vai nella tua casa”>> (vv.10-11).

Il racconto, pertanto, potremmo considerarlo come di transizione, perché nel completare quello precedente della purificazione del lebbroso, introduce nel contempo una questione vitale circa il perdono dei peccati, affidato non più direttamente a Dio, ma mediato dagli uomini. Questione che costituisce la prima diatriba.

Benché sia difficile individuare la struttura narrativa di questo racconto, tuttavia è possibile seguirne gli sviluppi, scanditi in cinque momenti significativi:

  1. Preambolo introduttivo, che crea il contesto entro cui si colloca l'intero racconto e che prefigura quello ecclesiale (vv.1-2);

  2. il paralitico, introdotto nella casa dove c'è Gesù, gli viene presentato da quattro uomini credenti; un movimento questo che richiama da vicino la presentazione all'interno della chiesa del catecumeno da parte di alcuni credenti che testimoniavano a suo favore perché fosse ammesso al cammino di fede, al termine del quale veniva battezzato ed entrava a far parte della comunità dei salvati o degli illuminati (vv. 3-4);

  3. La fede in Gesù è posta a fondamento della salvezza (v.5);

  4. L'incredulità, invece, che si nasconde dietro alla richiesta di prove, esclude, invece, dalla salvezza (vv.6-9);

  5. la salvezza donata attraverso il perdono dei peccati si riflette in una vita nuova, rigenerata dalla parola accolta (vv.10-12)


Commento ai vv. 1-12

Preambolo introduttivo (vv.1-2)

Il v.1 si apre con una nota geografica e temporale nel contempo, che aggancia il racconto della guarigione del paralitico, al precedente cap.1 e ne fa in qualche modo la sua estensione. Gesù, infatti, era già entrato una prima volta a Cafarnao in 1,22 per poi uscirne ai vv. 1,38-39 per compiere la sua missione per tutta la Galilea. Una missione, quindi, impegnativa che non poteva risolversi in qualche giorno. Da qui la precisazione che è rientrato a Cafarnao “dopo giorni”, espressione temporale alquanto vaga, per indicare un certo lasso di tempo. Tutto quindi concorda con quanto precedentemente detto, dando in tal modo una continuità narrativa spazio temporale al racconto iniziatosi con il cap.1.

La seconda parte del v.1 attesta che “si venne a sapere che è in casa”. Cafarnao, infatti secondo Mt 4,13 è il luogo della dimora di Gesù. Ma la casa in cui Gesù qui si trova assume nel contesto del v.2 un significato nuovo: è una casa in cui molti si riuniscono. Il verbo qui usato da Marco è “sun»cqhsan” (sinéctzesan). Un verbo che significa “radunare, raccogliere insieme, convocare”. Un verbo quindi, che richiama il radunarsi delle prime comunità credenti nelle loro assemblee liturgiche, che avvenivano nei primissimi tempi nelle case-chiesa, dove si ascoltava la Parola e si spezzava il pane (At 2,42). Il verbo, poi, qui è posto al passivo, che nel linguaggio dei vangeli rimanda l'azione del radunare a Dio stesso, per cui quel “sun»cqhsan” assume anche un particolare aspetto di sacralità. Marco racconta che “molti” si riunirono. Cosa significhi quel “molti” viene subito precisato: “cosi da non non far posto neppure presso la porta”. Si tratta di un'espressione che l'autore ha sostanzialmente mutuata da 1,33, dove si dice che “tutta l'intera città si era radunata presso la porta”. La porta in quel caso era quella della “casa di Simone”, dove si trovava Gesù con i suoi ed assumeva, allora, come adesso qui, un significato ecclesiologico, in cui si prefigura l'accorrere di tutte le genti presso, là, la casa di Simone, e qui, presso la casa di Gesù. In entrambe le case viene prefigurata la comunità credente. Ed è, infatti, in questo contesto che Gesù “diceva loro la parola”, dove il verbo all'imperfetto indicativo dice il protrarsi di questo dire, che esce da questa casa e continua a diffondersi su tutte le genti che vi accorrono.

Marco, quindi, sta qui creando, in questi primi due versetti, un contesto ecclesiologico entro cui colloca il suo racconto della guarigione del paralitico, che va quindi compreso in tale contesto.

La presentazione del paralitico a Gesù da parte di credenti (vv.3-4)

All'interno di questo contesto ecclesiale Marco racconta come un paralitico, figura dell'uomo incapace di relazionarsi a Dio a causa del peccato, viene portato da “quattro”. Il testo greco non precisa chi siano questi quattro. Chi sono, dunque? Certamente erano degli uomini, considerato il notevole faticoso lavoro che questi dovevano compiere per portare il paralitico davanti a Gesù (v.4b). Questo da un punto di vista narrativo. Ma la precisione con cui Marco detta il numero, “quattro”, senza definirne l'identità, lascia intendere come come questo piccolo gruppo di persone abbia un suo particolare significato, che va ricavato dal contesto. Il diritto romano antico negli atti pubblici, là dove vi era un solo notaio, prevedeva la presenza di quattro testimoni. Similmente la presentazione del candidato al battesimo ai responsabili della comunità doveva essere garantito da persone credenti e di provata moralità e fede, che qui vengono indicate da due elementi: il numero quattro, che indica l'universalità, qual'era considerata la chiesa nascente, in quanto aperta a tutte le genti (At 10,34-35); e l'attestazione stessa di Gesù, che coglie la “loro” fede (v.5), quella fede che caratterizza i quattro e, certamente, anche il paralitico, in quanto candidato al battesimo. Si tratta, dunque, di credenti che presentano ai responsabili della comunità un aspirante alla fede e candidato al battesimo, che fungevano da padrini e di cui si assumevano la responsabilità davanti alla comunità credente.

Si noti come il paralitico non fa parte della folla, ma la supera assieme ai quattro, grazie ai quali egli solo è ammesso alla presenza di Gesù, mentre la folla si ammassava alla porta senza poter entrare, ma doveva ascoltare Gesù stando all'esterno della casa, figura della chiesa, ma non vi poteva ancora entrare. Se, dunque, molti sono i chiamati alla conversione attraverso l'ascolto accogliente della Parola, soltanto chi si rende disponibile nella fede può entrare nella casa e accedere alla presenza salvifica di Gesù.

L'artificio paradossale che vede questo gruppetto di cinque persone compiere operazioni acrobatiche per poter entrare nella casa ed essere accolto alla presenza di Gesù, dice la difficoltà di accedere a questa nuova comunità credente, che richiede fermezza e determinazione per intraprendere un cammino di fede, sorretto da questi quattro padrini, che nel contempo si assumevano la responsabilità del candidato nel suo cammino di fede, che da questi era sostenuto.

Da un punto di vista narrativo, l'acrobazia di salire sul tetto della casa, praticandovi un ampio squarcio per calare il paralitico nella casa, va detto che l'operazione descritta è compatibile con la descrizione che ne fa Marco, considerata la povera architettura degli edifici popolari, costituiti da una stanza e da un tetto formato da travi in legno intrecciate con rami, paglia, canne, fieno e il tutto spalmato da uno strato di argilla, che serviva a dare una certa consistenza al tetto, che fungeva anche da terrazzo3.

La fede genera il perdono dei peccati (v.5)

Il v.5 si apre con la scena di Gesù che “vede” la loro fede. Ancor prima, dunque, di vedere il paralitico e i quattro che l'accompagnano; ancor prima di ascoltare le richieste del paralitico e dei quattro, Gesù vede la loro fede, accentra la sua attenzione su di essa, cioè esamina la loro fede, l'unico atteggiamento spirituale ed esistenziale capace di rendere recettivo l'uomo alla salvezza che proviene da Dio. Valutata, dunque, la loro fede Gesù, senza alcuna gestualità, ma soltanto attraverso la potenza della sua parola libera l'uomo dalle catene di satana, il peccato: “Figlio, i tuoi peccati sono perdonati”. Si noti come il fraseggiare sia quello caratteristico del responsabile di una comunità credente, che considera il candidato al battesimo, come un figlio generato alla fede dalla Parola accolta, che la sostanzia ed alimenta. Un perdono dei peccati che avviene soltanto all'interno della casa, dove c'è Gesù con i suoi.

L'attestazione “i tuoi peccati sono perdonati” non costituisce solo un annuncio di salvezza raggiunta per chi accede a questa casa, ma, da un punto di vista dottrinale, anche un'enunciato che doveva essere, all'interno della chiesa nascente, oggetto di dibattito, in particolar modo da parte dei giudeocristiani. Un dibattito che si svilupperà nei seguenti vv.6-9 ed avrà la sua conclusione dottrinale al v.10, la cui veridicità verrà attestata dalla guarigione del paralitico, così come vuole la prassi giudaica.

Il giudaismo non comprende la novità portata da Gesù (vv.6-9)

La breve pericope delimitata dai vv.6-9 costituisce il cuore del dibattimento, dove alla tesi formulata al v.5b, viene ora contrapposta la tesi del giudaismo: solo Dio può perdonare i peccati e, quindi, Gesù, arrogandosi tale potere, bestemmia, poiché usurpa un potere riservato soltanto a Dio e in qualche modo si fa egli stesso Dio. In buona sostanza riecheggia in questa accusa quella mossa dai Giudei al Gesù giovanneo: “Gli risposero i Giudei: <<Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio>>” (Gv 10,33). L'accusa di blasfemia era, infatti, passibile di morte a mezzo lapidazione (Lv 24,16).

In realtà in questa diatriba non vi è una diretta e aperta contrapposizione tra persone come in un pubblico dibattito e come avverrà nelle successive tre diatribe (vv.15-28), ma viene soltanto letta da Gesù nel cuore delle autorità religiose. Questo escamotage letterario consente a Marco di raggiungere una doppia finalità: da un lato, rilevare la superiorità di Gesù, che sa leggere nei cuori dei suoi avversari e, quindi, nell'intimo delle persone, prerogativa questa riservata a Dio4; dall'altro, consente all'autore di dare una definitiva soluzione ad una questione che doveva agitarsi all'interno delle prime comunità credenti, soprattutto quelle miste, dove vi era la presenza di giudeocristiani, per i quali il perdono dei peccati aveva tutta una propria ritualità5, che vedeva in Dio la primaria ed unica fonte del perdono. Non era, dunque, per loro comprensibile che un uomo si arrogasse il potere di Dio.

Con il v.9 Marco imposta la soluzione del problema, conoscendo le pretese del giudaismo, che esigeva che ogni rivendicazione fosse supportata da un segno dal cielo6. Per cui ecco lo schema preliminare su cui si fonda la soluzione della controversia, che troverà la sua risposta al successivo v.10: “Che cos'è più facile, dire al paralitico: “i tuoi peccati sono perdonati”, o dire: “alzati e prendi il tuo lettuccio e cammina”?”. Questa è la sintesi della questione, quella che il giudaismo si aspettava: la tesi sostenuta da Gesù viene ora supportata dalla prospettiva di un segno.

Il perdono dei peccati si rende visibile in una vita rigenerata (vv.10-12)

La pericope conclusiva di questa prima diatriba è molto densa perché, da un lato, viene formulato il principio secondo il quale anche nella nuova comunità credente si trova il perdono dei peccati, non più legato a suppliche e a sacrifici di animali, ma affidato all'uomo, che nella sua fede si apre a Dio, accogliendolo nella propria vita. Un perdono che scaturisce dal “Figlio dell'uomo”, un ebraismo che significa soltanto “uomo”e, quindi, un essere che, da un lato, è legato a questa dimensione spazio- temporale, e questo spiega come questo potere viene esercitato qui “sulla terra” ed è già qui in mezzo agli uomini ed è strettamente legato alla fede, cioè dalla disposizione interiore di accogliere Dio nella propria vita (v.5); dall'altro, l'espressione “Figlio dell'uomo”, mutuata da Dn 7,13-14, acquista una valenza escatologica, per cui questo perdono dei peccati viene ad essere l''ultima offerta di Dio all'uomo, un'ultima offerta che porta con e in sé il giudizio divino.

Il perdono dei peccati, pertanto, non va più ricercato fuori dalla dimensione spazio-temporale e non va più atteso in un futuro che verrà, ma qui e ora, poiché il tempo della salvezza è già venuto ed è tutto racchiuso nel primo annuncio con cui si apre la missione di Gesù: “Il tempo è compiuto” (1,15a). Quindi non c'è più da attendere altri tempi. Ma questo significa anche che questo è l'ultimo tempo che porta con sé l'ultima chance, l'ultima offerta di salvezza prima del giudizio, che, anche questo, non “verrà”, ma è già qui presente ed è insito nella scelta esistenziale che l'uomo è chiamato ad operare di fronte all'evento Gesù. Da qui l'ultimo appello del “pentitevi e credete al vangelo” (1,15b). Un pentitevi che comporta un cambiamento del proprio modo di pensare e di vivere; un andare oltre a ciò che si è per collocarsi dalla parte e dalla prospettiva di Dio, racchiuse in quel “credete al vangelo”. Si tratta, dunque, di un vero e proprio cambiamento di vita, che comporta un riorientarla dalle cose verso Dio, da noi stessi a Dio. Si tratta di fare l'esperienza della salvezza, che si manifesta concretamente nel perdono dei peccati (Lc 1,77) e che si riflette in una vita completamente rigenerata dalla Parola accolta (1Pt 1,23).

Ed è ciò che avviene ora al v.11: “Ti dico: alzati, prendi il tuo lettuccio e vai nella tua casa”. Questa è la conseguenza del perdono dei peccati (vv.5.10): la vita è ristabilita e tutto ciò avviene non più attraverso sacrifici cruenti o laboriosi rituali di purificazione, ma soltanto attraverso la Parola: “Ti dico” … e tutto cambia. Ci si trova di fronte ad un nuovo atto creativo, che rigenera l'uomo a Dio e lo ricolloca in Lui, così com'era nei primordi dell'umanità: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5a).

Un rinnovamento esistenziale che si riflette anche nel comando di Gesù “vai nella tua casa”. Non viene detto: “ritorna a casa tua”, ma “vai nella tua casa”. Si tratta di una casa particolare, precisata dall'articolo determinativo “nella”, che nel linguaggio marciano indica la comunità credente, la prima chiesa nascente. Ora questa è diventata anche la casa del paralitico, la sua casa, quella degli uomini rigenerati dalla Parola. Significativo, infatti, è il verbo greco che ho tradotto con “vai”: “Ûpage” (ípaghe), che significa anche “sottomettersi, condurre sotto, mettersi sotto il potere di”, lasciando così trasparire che il cambiamento della vita ritrovata comporta anche un nuovo luogo, una nuova dimensione in cui questa vita viene vissuta secondo delle nuove regole, a cui è necessario conformarsi perché questa vita sia mantenuta e conservata, quelle dettate dal Vangelo: “credete al Vangelo”.

Al comando della Parola (v.11) risponde “subito” il suo compimento, così come lo fu nel primo atto creativo di Dio, per cui al “Dio disse” risponde il “così fu” della creazione. L'effetto della Parola è significativamente espresso da Marco con quel “si alzò”, reso in greco con “ºgšrqh” (eghértze), un verbo tecnico, con cui nei primi tempi della chiesa si indicava la risurrezione di Gesù. Quell'alzarsi del paralitico, pertanto, viene da Marco associato in qualche modo alla risurrezione di Gesù, per indicare la novità di vita che questa Parola del Risorto ha prodotto e generato in lui. Il verbo, poi, è qui posto al passivo, “fu rialzato”, che nel linguaggio degli evangelisti rimanda l'azione del verbo a Dio stesso. Ci si trova, pertanto, di fronte ad una nuova creazione, che trova la sua fonte primaria nel Risorto, che, grazie alla potenza dello Spirito che opera in e per mezzo di lui, viene ristabilito nuovamente in Dio, così come era nei primordi dell'umanità (1Cor 15,28).

Il secondo movimento del paralitico rigenerato è “l'uscire davanti a tutti”. Si tratta di un uscire dalla morte alla vita, come sembra suggerire quel “ºgšrqh” (eghértze); un uscire da uno stato di vita incapace di relazionarsi a Dio, ad un nuovo stato di vita che ricolloca l'uomo in Lui, rendendolo nuovamente capace di partecipare e condividere la sua vita, significati in quel genesiaco passeggiare di Dio insieme all'uomo (Gen 3,8-10), ai tempi del Paradiso Terrestre, figura e metafora della via stessa di Dio.

Ma questo “uscire davanti a tutti” dice anche il manifestare e, quindi, il testimoniare davanti a tutti il nuovo stato di vita, di cui il paralitico è stato rivestito, a fronte del quale “tutti erano sbigottiti e glorificavano Dio dicendo che mai abbiamo visto così”. La reazione della gente descrive la reazione caratteristica dell'uomo di fronte ad una teofania, cioè all'irrompere del divino nel mondo dell'uomo. Uno sbigottimento che si traduce in una glorificazione a Dio. Ci si trova qui di fronte ad un evento salvifico, che sfocia in una vera e propria azione liturgica, che lo celebra nella propria vita.

Un intermezzo che funge da preambolo ad altre tre diatribe (vv.13-14)

Testo a lettura facilitata

Un nuovo scenario di transizione ... (v.13)

13- E uscì di nuovo presso il mare; e tutta la folla veniva verso di lui, e li ammaestrava.

. e un preambolo introduttivo ad altre tre diatribe riguardanti discepoli (v.14)

14- E passando, vide Levi, figlio di Alfio, che stava seduto al banco delle imposte, e gli dice: <<Seguimi>>. E levatosi, lo seguì.

Commento vv.13-14

Il v.13 è un versetto di transizione, perché nel chiudere con il racconto precedente introduce il lettore in un nuovo contesto narrativo. Viene qui ripresa la scena di 1,16a dove Gesù, uscito presso il mare di Galilea, vede e chiama i primi quattro discepoli, che abbandonato subito il loro lavoro seguono prontamente Gesù (1,16-20). Anche qui Gesù esce sul mare, vede Levi, lo chiama e quello, abbandonato subito il suo lavoro, segue prontamente Gesù. Qua, come là, non vi è alcun dialogo, ma soltanto l'imporsi autorevole di Gesù, che domina la scena. Ma se identico è lo schema narrativo, completamente diversi sono i destinatari della chiamata: là, in 1,16-20, Gesù chiama al suo seguito quattro persone considerate degli onesti lavoratori, che si procacciavano da vivere con il proprio lavoro; qui ci si trova di fronte ad un riscossore delle tasse per conto dei Romani, che veniva definito con disprezzo “pubblicano”. Costui altro non era che un piccolo esattore delle tasse, dipendente dai grandi appaltatori o da subappaltatori locali, e, visto che era seduto ad un tavolo, era probabilmente un doganiere o un daziale, posto su posizioni strategiche come potevano essere le porte di entrata in città, su attraversamenti di ponti, su strade di grande percorrenza o a bivi e incroci. Di ben altra taglia era invece Zaccheo, che Luca definisce come capo dei pubblicani e ricco (Lc 19,2), la cui entità delle ricchezze è lasciata intuire in Lc 19,87. Rapportato a Zaccheo, dunque, Levi doveva essere soltanto un semplice peone, uno di bassa manovalanza, che faceva il lavoro sporco per altri, quello di costringere la gente a pagare. Per questo egli era considerato un pubblicano8, un pubblico peccatore, odiato dai giudei non solo perché riscuoteva soldi per conto degli invasori ed oppressori Romani, ma anche perché intratteneva rapporti con il mondo dei pagani e, quindi, viveva in uno stato di costante impurità rituale e in quanto tale escluso dalla vita religiosa e sociale. Non a caso il titolo di “pubblicano” nei sinottici compare quasi sempre associato a quello di “peccatori” e in alcuni casi anche a quello di “prostitute” (Mt 21,31.32) ed equiparato sostanzialmente ad un pagano (Mt 18,17)9. Un personaggio quello di Levi, quindi, tutt'altro che esemplare e raccomandabile. Ma la scelta che Gesù compie qui su Levi dice come il suo raggio di azione missionario non è rivolto soltanto a persone perbene, ma anche ai peccatori. Anzi, sono proprio questi che hanno bisogno delle sue attenzioni. E sarà proprio questa la tesi sostenuta dalla prima diatriba (vv.15-17), di cui il v.14 costituisce il preambolo introduttivo, ma che nel contempo introduce anche le altre due diatribe che hanno come oggetto di contestazione non tanto Gesù, ma il comportamento molto discutibile e in qualche modo dissacratorio dei suoi discepoli. Le tre diatribe, pertanto, mettono in rilievo le notevoli differenze tra il giudaismo e il movimento creato da Gesù e che a Gesù si riferisce, tali da creare tra i due delle insanabili incompatibilità, che saranno sancite ai vv.21-22, dove il nuovo non è più conciliabile con il vecchio. Da qui lo strappo con il giudaismo.

Il senso della missione di Gesù: la ricerca e la cura dei peccatori (vv.15-17)

Testo a lettura facilitata

Il contesto della diatriba (v.15)

15- E accade che egli si mettesse a tavola nella casa di quello e molti esattori e peccatori si mettevano a tavola con Gesù e i suoi discepoli; erano, infatti, molti e lo seguivano.

La critica (v.16)

16- E gli scribi dei farisei vedendo che (egli) mangia con i peccatori e gli esattori, dicevano ai suoi discepoli: <<Perché mangia con gli esattori e i peccatori?

La risposta rivelatrice (v.17)

17- E avendo udito, Gesù dice loro [che] quelli che sono robusti non hanno bisogno del medico, ma quelli che stanno male; non venni a chiamare (i) giusti ma (i) peccatori.

Note generali

Questa è la prima diatriba che potremmo definire tale in senso tecnico, poiché a fronte di una critica pubblica e diretta ad un comportamento sanzionabile, secondo i parametri di valutazione del giudaismo, Gesù controbatte motivandolo. Da questo scontro-confronto tra due contrapposte visioni delle cose emerge la nuova prospettiva che dà forma al nuovo movimento creato da Gesù.

La diatriba si muove su di uno schema molto semplice, ma efficace: contesto, critica, risposta-motivazione e qui, letterariamente, si può classificare come una sentenza inquadrata, cioè come un breve racconto costruito attorno ad un detto di Gesù per darne rilievo, che si riscontra nella parte conclusiva di questa prima diatriba (v.17).

La struttura si muove su parallelismi concentrici in B), per cui si avrà che in A) Gesù e i suoi vengono presentati a tavola con pubblicani e peccatori, una promiscuità inaccettabile e impensabile per il giudaismo10; e in A1) viene presentata la motivazione di tale comportamento; mentre in B) la parte centrale del breve racconto e, quindi anche la più importante secondo gli schemi della retorica ebraica, viene messo in rilievo il punto di vista del giudaismo sulla questione, rilevando la totale dissonanza tra due diverse visioni religiose.

Commento ai vv.15-17

Il v.15, con l'espressione “nella casa di quello”, dà seguito alla chiamata di Levi (v.14), molto più evidente in Lc 5,29a: “Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa”, da cui meglio traspare il senso della festa, a cui partecipano assieme a Gesù e ai suoi anche molti pubblicani, amici e colleghi di Levi. Questo clima di festa gioiosa, dove tutti si ritrovano attorno ad un banchetto, richiama la visione messianica di Is 25,6 dove il profeta annuncia ad Israele che “Il Signore degli eserciti preparerà per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati”. Viene, dunque, annunciato, in qualche modo con questo banchetto, aperto anche ai peccatori, l'avvento gioioso di quel avvicinarsi del Regno di Dio con cui si è aperta la missione di Gesù (1,15a). Tutti, indistintamente e indipendentemente dalla posizione che occupano nella loro vita, sono chiamati a sedersi attorno alla mensa della Parola e del Pane, anticipazione di quello che sarà il nuovo banchetto celeste, figura della partecipazione dei credenti alla vita stessa di Dio; di un Dio che “non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34-35). E la risposta conclusiva di questo v.15 non lascia dubbi: “erano, infatti, molti e lo seguivano”. Due gli elementi di rilievo: quel “molti” che dà il senso dell'universalità della chiamata e della risposta, che comunque resta sempre personale; e l'espressione verbale “e lo seguivano”, resa in greco con il verbo “ºkoloÚqoun” (ekolútzun) che dice non soltanto un semplice seguire, ma una sequela che si pone a servizio di qualcuno, lasciando trasparire un nuovo orientamento di vita, che diviene dedizione Dio. Il verbo, poi, conosciuto dagli evangelisti come il verbo della sequela, è qui posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, che dice come questa sequela non era il frutto di un istante, ma una scelta di vita.

Una simile apertura dai toni universali e inclusivi urtava fortemente la visione esclusivista e riduttiva del giudaismo, che divideva il mondo in due parti: gli ebrei e gli altri che non erano ebrei, già destinati, quindi, alla perdizione. Da qui un atteggiamento di rifiuto nei loro confronti, in quanto considerati impuri e definiti “cani”, un animale che gli ebrei consideravano impuro, poiché si cibava anche di carogne. Significativo in tal senso il dialogo tra Gesù e la sirofenicia, dove Gesù, richiesto di un esorcismo da parte di questa per la propria figlia, risponde che lui è venuto per il popolo ebreo e non per i pagani, definiti con un diminutivo, per attutirne l'impatto, come “cagnolini”11 Ciò che ha creato questo esclusivismo negli ebrei è la profonda coscienza storica di essere un popolo di privilegiati da Dio, sua proprietà, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19,4-6). Una predilezione che ha il suo fondamento in Es 7,6: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra”. Questo profondo senso di elezione, di santità (Lv 19,2) e di appartenenza a Dio, sancita dall'Alleanza, che trova la sua espressione storica nella Torah, hanno creato in Israele il senso di essere unico per Dio e di non concepire un qualcuno o un qualcosa di diverso da sé.

In questo contesto è comprensibile lo scandalo provocato da Gesù, che sedeva a mensa con dei pubblicani e dei peccatori

Benché la critica da parte degli scribi dei farisei sia stata rivolta ai discepoli di Gesù, la risposta viene data da Gesù stesso, venendo in tal modo caricata d'importanza, diventando così una regola di vita per i nuovi credenti, che, superate le barriere limitative del giudaismo, si aprivano a tutti. Questo nuovo atteggiamento di apertura inclusiva, che poggiava su di un detto di Gesù, verrà ripreso da Ef 2,13-17.19, fornendo ad esso una giustificazione cristologica: Cristo sulla croce ha abolito in se stesso ogni divisione e ogni distinzione tra ebrei e non ebrei, fatta di leggi e di divieti per fare delle due categorie di persone un solo popolo. Pertanto anche i pagani alla pari degli ebrei, possono essere considerati concittadini dei santi e familiari di Dio. Paolo dirà ben di più, inserendo questa riunificazione tra ebrei e non ebrei in un misterioso progetto di Dio e del quale Paolo è divenuto ministro (Ef 3,5-7).

Il v.17 riporta due detti, che Marco ha raccolto in questo contesto, per giustificare questa promiscuità, che violava il principio della purità rituale (Gv 18,28b). Il primo detto funge da supporto al secondo, che ne è in qualche modo l'applicazione ed è quello più importante perché attiene esplicitamente alla missione stessa di Gesù e ne rivela il senso.


L'incompatibilità del giudaismo con l'insegnamento di Gesù (vv.18-22)

Testo a lettura facilitata

La contestualizzazione della seconda diatriba (v.18)

18- E c'erano i discepoli di Giovanni e i farisei che digiunavano. E vengono e gli dicono: <<Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?>>.

I tempi di Gesù ... (v.19)

19- E Gesù disse loro: <<Forse che gli invitati a nozze possono digiunare nel tempo in cui lo sposo è con loro? Per tutto quanto il tempo che hanno lo sposo con loro non possono digiunare.

e quelli della chiesa (v.20)

20- Ma verranno giorni allorché lo sposo verrà tolto da loro, e allora in quel giorno digiuneranno.

L'incompatibilità tra il nuovo e il vecchio (vv.21-22)

21- Nessuno cuce una pezza di panno grezzo su un vestito vecchio; altrimenti il rattoppo nuovo tira su di esso, sul vecchio, e lo strappo diventa peggiore.
22- E nessuno getta vino nuovo in otri vecchi, altrimenti il vino romperà gli otri e il vino si perde ed (anche) gli otri; ma vino nuovo in otri nuovi>>.


Note generali

Questa seconda diatriba si pone centralmente rispetto alle altre due, occupando una posizione di rilevanza secondo i parametri della retorica ebraica. Si tratta di una diatriba che pone allo scoperto la radice profonda del dissenso e dell'incompatibilità tra Gesù e i Giudei e tra le prime comunità credenti e il giudaismo. Un dissenso che qui trova la sua occasione di manifestarsi all'interno della pratica del digiuno, molto diffusa nel giudaismo.

Anche questa diatriba è classificabile tra le sentenze inquadrate, piccoli racconti costruiti attorno ad un detto di Gesù per metterlo in rilievo, ma nel contempo per aiutare il lettore a comprendere il contesto entro cui tale detto va riferito.

La pericope è scandita in quattro momenti:

  1. La contestualizzazione della diatriba (v.18);

  2. I tempi di Gesù, lo sposo del nuovo Israele (v.19);

  3. I tempi della chiesa (v.20)

  4. L'incompatibilità tra il nuovo e l'antico (vv.21-22).

Commento ai vv.18-22

Il v.18 crea il nuovo contesto per questa seconda diatriba. Sono qui presentati i personaggi: da un lato, i discepoli di Giovanni e i farisei; dall'altro, i discepoli di Gesù. Questi sono colti nel loro antitetico e dissonante comportamento: i primi “digiunavano”; i secondi, invece, “non digiunano”. Si noti la differenza dei tempi verbali: nel primo caso vi è un imperfetto indicativo, che dice il perdurare di un'antica usanza presso i Giudei e, quindi, i discepoli di Giovanni e i farisei appartengono al mondo veterotestamentario; nel secondo caso vi è un presente indicativo “non digiunano”, che dice il discostarsi del presente dal passato. Una contrapposizione che viene evidenziata nella seconda parte del v.18, dove vengono accostati tra loro i due contrastanti comportamenti: “digiunavano” e “non digiunano”. Un tempo nuovo, quindi si sta prospettando all'orizzonte in quel “non digiunano”; un tempo a cui appartengo Gesù e i suo discepoli.

Quando si parla di digiuno nell'A.T. si intende l'astensione dal cibo e dalle bevande e, talvolta, anche dai rapporti coniugali, in genere per la durata di un solo giorno. I motivi per cui si digiunava erano molteplici: il digiuno era espressione di lutto o di dolore per una sventura occorsa; era strumento con cui ci si preparava a ricevere una rivelazione o implorare una particolare attenzione da parte di Dio (At 13,2); un atto penitenziale e di umiliazione davanti a Dio in occasione di sventure nazionali o per impetrare da Dio il soccorso e la salvezza. Il digiuno, pertanto, pone l'uomo davanti a Dio in una condizione di povertà e di totale dipendenza da Lui. Per questo motivo spesso il digiuno era unito anche alla preghiera12. Quanto alla Legge, questa prescriveva obbligatoriamente il digiuno una sola volta all'anno, nel giorno dell'Espiazione13. Col tempo si aggiunsero altri digiuni nazionali in occasione di anniversari di grandi sventure. Individualmente, le persone pie praticavano il digiuno due volte la settimana, il lunedì e il giovedì (Lc 18,12), venendo questo considerato un'opera pia meritevole, di cui ci si vantava (Mt 6,16-18;). A questa categoria appartenevano i discepoli di Giovanni e i farisei e attorno a questo verte la questione qui posta. Lo stesso Paolo si sottoponeva a questa pratica (2Cor 6,5; 11,27). Una pratica che prese piede anche nella chiesa primitiva, in cui si digiunava due volte la settimana il mercoledì e il venerdì. Un digiuno che non di rado si poneva in netto contrasto con il proprio modo di vivere disordinato e in opposizione a Dio, diventando così soltanto una pratica priva di ogni significato morale e di ogni valore spirituale. Contro questo modo di digiunare si scaglierà il terzo Isaia, rilevando l'ipocrisia di questo digiuno (Is 58,1-7)14.

Questo, dunque, era il contesto entro cui si poneva la controversia sul digiuno e sulla cui questione sono chiamati a rispondere Gesù e i suoi discepoli. Un confronto tra un modo di pensare ed un altro; due scuole contrapposte di pensiero.

La risposta di Gesù è scandita in due momenti, che a loro volta segnano una demarcazione tra due diversi tempi: quello in cui è presente Gesù (v.19) e quello in cui Gesù verrà sottratto ai suoi (v.20); un tempo questo che sarà segnato dalla tristezza, dalla sofferenza e dal dolore, simboleggiati nel digiuno, espressione fisica della privazione della gioia che è, invece, simboleggiata nel banchetto. Una chiara allusione qui alla passione e morte espressa con un linguaggio profetico in quel “Ma verranno giorni […] in quei giorni” (v.35). Saranno, questi ultimi, i tempi della chiesa, che l'accompagneranno sempre lungo il cammino della storia. Due momenti, tuttavia, solo apparentemente disgiunti tra loro e successivi l'uno all'altro, ma, in realtà, essi coesistono all'interno della chiesa, dove la presenza di Gesù, lo sposo, è garantita dalla sua Parola e dal Sacramento, che è Acqua battesimale, che è Pane di Vita, che è Spirito vivificatore.

Il v.19 presenta la prima parte della risposta di Gesù, che è una metafora, dove Gesù tra i suoi si presenta come lo sposo. Il richiamo allo sposo e, quindi, implicitamente alle nozze con la festosità che queste comportavano, dice il clima di gioia, che non è compatibile con il digiuno, segno di penitenza e di tristezza. Il contesto temporale, pertanto, è radicalmente mutato: il clima di gioia e di festa che si contrappone alla tristezza e alla penitenza.

Ma il richiamo di Gesù, che si designa come lo sposo in mezzo ai suoi, dà una svolta decisiva alla stessa storia di Israele, dove l'immagine dello sposo era solitamente riferita a Jhwh e indicava il tipo di rapporto che intercorreva tra questi e il suo popolo15: Jhwh era lo sposo; Israele la sposa. Un rapporto sancito dall'Alleanza, che si concludeva, anche questa, con un banchetto comune o forse è meglio dire di comunione16, dove entrambi i contraenti sedevano assieme, condividendo la stessa mensa, lo stesso cibo, la stessa gioia, gli stessi impegni. In ultima analisi la loro stessa vita era impegnata in quel banchetto, creando in tal modo un inscindibile vincolo di comunione. Ora questa immagine e questo rapporto viene trasposto da Jhwh-Israele a Gesù e i suoi, dove Gesù prende il posto di Jhwh, mentre i “suoi” costituiscono il nuovo Israele, la nuova assemblea o ecclesia o chiesa. E se presso l'antico Israele segno dell'Alleanza era la Torah, in cui si esprimeva storicamente la volontà di Jhwh, ora questa Torah e questa Alleanza si ritrovano in Gesù, la Parola rivelatrice del Padre e, in quanto nuova e definitiva Alleanza, sacramento d'incontro tra Dio e gli uomini17. E il banchetto che aveva sancito l'antica Alleanza, viene ora rinnovato in un nuovo banchetto, dove Gesù si fa pane che si spezza e vino sparso per tutti, così che tutti quelli che vi accedono, accedono alla vita stessa di Dio, creando una comunione di vita.

Benché l'immagine della relazione sponsale tra Dio e Israele fosse propria dell'A.T., tuttavia la chiesa fin dalle sue origini adottò tale immagine riferendola al suo rapporto tra Gesù e se stessa18. Marco, quindi, qui sta parlando dei tempi della Chiesa, segnati dalla sofferenza per il silenzio del suo Maestro e Signore, che sembra averla lasciata sola alla sua mercé; ma ravvivati nel contempo dalla gioia per la sua nuova presenza nella Parola e nel Pane (Lc 24,13-33) e dalla promessa che egli sarà sempre con lei fino alla fine dei tempi (Mt 28,20b).

L'incompatibilità tra il nuovo e il vecchio (vv.21-22)

La diversa e contrapposta posizione tra Gesù e i suoi e i discepoli di Giovanni e i farisei viene qui stigmatizzata da due detti, che ritroviamo sostanzialmente identici anche in Mt 9,16-17 e Lc 5,36-38. Benché il senso dei due detti leghi bene con il breve racconto in cui sono contestualizzati (vv.18-20), tuttavia, da un punto di vista letterario, lasciano alquanto a desiderare, perché appaiono semplicemente appiccicati lì, lasciando alla perspicacia del lettore il comprenderne il senso. Luca cercherà di ovviare a questa acerbità narrativa mettendoli immediatamente di seguito alla diatriba sul digiuno e, quindi, legandoli in qualche modo ad essa, ma facendoli precedere da una breve introduzione: “Ora diceva una similitudine verso di loro”, in cui quel “loro” si riferiva ai “farisei e i loro scribi” (Lc 5,30a) e in cui quel “verso di loro”, reso in greco con “prÕj aÙtoÝj” (pròs autùs), assume anche il significato di “contro di loro”, dando in tal modo un senso negativo ai due detti, esprimendo in tal modo un giudizio di condanna nei confronti di un giudaismo pervicacemente chiuso al nuovo messaggio.

Con la pericope vv.21-22 si è giunti al cuore della sezione riguardante le diatribe. Essa fornisce la chiave di lettura non solo delle diatribe contenute in questa sezione, ma dell'intera contrapposizione che caratterizza i rapporti tra Gesù e le autorità giudaiche e che si concluderà tragicamente sulla croce.

I due detti stabiliscono un rapporto tra vestito nuovo e vestito vecchio; tra vino nuovo ed otri vecchi. L'intento qui è di mettere in rilievo come nuovo e vecchio siano tra loro incompatibili e irriducibili l'uno all'altro. Tuttavia le prospettive che questi due detti aprono sono ben diverse e rispecchiano in qualche modo due tentativi di accordare la nuova fede con il giudaismo. Il primo detto (v.21) esclude che ci possa essere un qualche adattamento del nuovo con il vecchio; una sorta di compromesso, tale da non rendere le due fedi così incompatibili tra loro. Ma se ciò avvenisse, entrambe verrebbero snaturate nella loro essenza. Insomma, ne verrebbe fuori una patacca. Il secondo detto, invece, nega la possibilità che il nuovo venga recepito totalmente nel vecchio, poiché entrambi si muovono su logiche diametralmente opposte: rigida e rigorosa osservanza della Torah, creando un complicato rapporto legalistico tra il credente e Dio, per il giudaismo; il superamento di tale soffocante legalità religiosa, che svilisce il rapporto del credente con Dio, da parte della nuova fede, che, invece, fonda il suo rapporto con Dio sulla sincerità del cuore e della vita, al di là delle prescrizioni mosaiche, che di fatto intrappolano l'uomo in una ridda di “devi” o “non devi fare”, che lo rendono incapace di muoversi in piena libertà verso il suo Dio. Due prospettive che partono da due logiche completamente diverse, anzi opposte: un rapporto fondato sulla lettera per il giudaismo; uno fondato, invece, sullo Spirito per il nuovo credente (Rm 7-8). Questo secondo detto, in particolare, sembra rispondere, stigmatizzandolo, al giudeocristianesimo giudaizzante, che in buona sostanza riteneva che la salvezza portata da Gesù si potesse ottenere soltanto dopo essere passati attraverso le prescrizioni mosaiche, a partire dalla circoncisione e da tutto ciò che questa comportava: sottomissione piena alla Torah, togliendo in tal modo ogni capacità salvifica a Cristo. La novità portata da Gesù, che in tal modo veniva negata, non poteva in nessun modo né accettare un qualche compromesso, né, tantomeno, accettare di divenire soltanto una branca del giudaismo. Così che questo vino nuovo del cristianesimo non poteva essere contenuto nei vecchi otri del giudaismo; così come la pezza nuova del cristianesimo non poteva essere cucita sopra l'abito vecchio del giudaismo. Da qui la denuncia della radicale incompatibilità tra i due diversi e contrapposti modi di rapportarsi a Dio e agli uomini.

La ricomprensione del sabato (vv.23-28)

Testo a lettura facilitata (vv.23-28)

Contestualizzazione della diatriba (v.23)

23- Ed avvenne che egli in giorno di sabato passava attraverso i (campi) seminati, e i suoi discepoli incominciarono a fare strada, strappando le spighe.

La critica ad un comportamento illecito in giorno di sabato (v.24)

24- E i farisei gli dicevano: <<Vedi, perché fanno in giorno di sabato ciò che non è lecito?>>

Un altro caso di illiceità lecito (vv.25-26)

25- E dice loro: <<Non avete mai letto che cosa fece Davide quando ebbe bisogno ed ebbe fame lui e quelli con lui,
26- come entrò nella casa di Dio sotto il sommo sacerdote Abiatar e mangiò i pani della presentazione, che non è lecito mangiare se non ai sacerdoti, e (ne) diede anche a quelli che erano con lui?>>.

Due sentenze aprono ad una nuova visione del sabato (vv.27-28)

27- E diceva loro: <<Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato;
28- così che il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato.


Note generali

Con questa terza diatriba Marco pone la questione del sabato e su ciò che è lecito fare o non fare in tale giorno. Una questione che l'evangelista riprenderà e perfezionerà in 3,1-6. Entrambi i racconti infatti sono tra loro strettamente collegati da termini ed espressioni comuni: “sabato” e “non è lecito” e “è lecito?”. Vi è tuttavia una diversa accentazione sulla questione della liceità. Nel racconto in esame (vv.23-28) il “non è lecito” riguarda soltanto la censura che la legge pone su di un determinato comportamento, discriminando semplicemente ciò che si può fare da ciò che non si può fare. La questione, quindi, qui è meramente legale e non investe l'uomo nella sua interezza. Nel secondo racconto (3,1-6) la liceità non è più formale, ma riguarda una questione morale e quindi attiene al rapporto dell'uomo con Dio: “È lecito di sabato fare del bene o fare del male […]?” (3,4). Ma nel contempo cambia il senso del sabato, inteso non più come uno spazio riservato a Dio, in cui l'uomo vi entra da estraneo e vi rimane intrappolato e inerte, perché c'è un incomprensibile comandamento da eseguire, avulso dalla sua vita, bensì come uno spazio sacro dove l'uomo e Dio si incontrano e dove l'uomo è chiamato non a rimanere inerte, ma a fare e compiere il bene, poiché questo spazio dove l'uomo incontra il suo Dio gli è stato dato non per eseguire un comandamento, ma per entrare in comunione con Dio, facendo del bene. Uno spazio sacro, quindi, che vede l'uomo impegnato esistenzialmente nei confronti di Dio e del prossimo e che prelude al tempo dell'eternità e in qualche modo la anticipa; quell'eternità dove l'uomo entra nella definitiva comunione con quel Dio che ha già incominciato a pregustare proprio in quel giorno di sabato, figura dell'eternità divina.

Il sabato ha la sua origine nella necessità di dare una tregua all'uomo dalle sue fatiche quotidiane, dopo sei giorni dedicati ad un duro lavoro. Lo dice lo stesso termine “sabato”, che ha la sua radice nel verbo ebraico “šâbat”, usato spesso nel senso di “cessare di lavorare, riposarsi”, ma che nella sua forma originale, “šabbât” significa “cessare, arrestare, porre un limite”19. Il sabato, quindi, è il giorno che pone un limite alle attività per consentire un giusto riposo, una tregua dalle fatiche quotidiane. Un momento di quiete in cui l'uomo, libero dai gravosi impegni quotidiani, è chiamato a ritrovare se stesso, evitando di disperdersi nelle cose, banalizzando la propria vita. L'origine del sabato o della sospensione delle fatiche quotidiane ha, pertanto, la sua radice negli stessi ritmi biologici e psicologici dell'uomo, che ha bisogno di uno stacco dalla sua quotidianità per ritemprarsi sia fisicamente che psichicamente. Tale necessità connaturata all'uomo, riportata all'interno dell'Alleanza, viene reinterpretata e caricata di una valenza sacra, che trova la sua motivazione teologica in Es 20,8-11: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro”. La sospensione delle attività umane dopo sei giorni di incessante lavoro non è più motivata qui dalla necessità del naturale bisogno di riposo, ma dal fatto che Dio ha sospeso la sua attività creatrice dopo sei giorni, riposando il settimo, giorno in cui ha portato a compimento la creazione, rendendolo per ciò stesso sacro (Gen 2,1-3). Dio, pertanto, diviene modello e parametro su cui l'uomo è chiamato a confrontarsi e a rimodellarsi, sollecitato in questo anche da Lv 19,2 che esorta Israele ad essere santo perché Lui, Dio, è Santo. Similmente l'uomo in questo settimo giorno trova il compimento e il senso del suo faticare, dando un valore sacrale ai sei giorni di lavoro. Si viene in tal modo a creare un parallelismo tra l'attività creatrice di Dio e quella dell'uomo, chiamato a continuarne l'opera creatrice (Gen 1,26-27; 2,15). Il sabato, pertanto, ricorda all'uomo che la vita è un gravoso impegno e troverà il suo pieno compimento e il suo autentico senso soltanto allorché confluirà in quel ultimo Sabato, che appartiene a Dio, e del quale i sabati intermedi, che scandiscono il suo tempo, divengono tappe intermedie. Si è venuto, pertanto, a creare uno spostamento dall'uomo verso Dio, che poi si riflette nuovamente sull'uomo, ma caricato di una nuova comprensione e di un nuovo significato. Tuttavia la comprensione della Torah scritta come volontà di Dio, che va soltanto eseguita20, ha compreso il sabato come il luogo non più riservato all'uomo, ma a Dio, espropriandolo di fatto di questa sua peculiare dimensione. Questo spostamento ha svilito la sacralità del sabato, riducendolo ad una serie di pratiche pedanti21 e di costrizioni normative22, che hanno di fatto imprigionato l'uomo, alienandolo e schiavizzandolo a Dio. Il senso originario, pertanto, del sabato è andato perduto, così che Gesù dovrà ricordare alle stesse autorità religiose che “Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!” (Mc 2,27). Al centro del sabato viene pertanto ricollocato l'uomo, mentre Dio riserva per se stesso il settimo giorno non per appropriarsene, ma per consacrarlo e santificarlo come luogo della sua presenza, consacrando e santificando in tal modo l'uomo e la sua attività che lo abitano. Dio, pertanto, si pone in funzione dell'uomo e non l'uomo in funzione di Dio. È Lui, infatti, che va verso l'uomo e gli tende la mano e non viceversa (Rm 5,6-8), poiché l'uomo nella sua fragilità ne è sostanzialmente incapace. Il Padre, infatti, ha inviato suo Figlio “per noi uomini e per la nostra salvezza” (Gv 3,16).

Le spighe strappate e sgranate in giorno di sabato (vv.23-28)

L'episodio, che trova i suoi passi paralleli in Mt 12,1-4 e Lc 6,1-5, è costruito attorno a due detti di Gesù (vv.27-28), con cui si chiude la pericope, per mettere in evidenza, da un lato, il senso del sabato posto in funzione dell'uomo; dall'altro, la signoria di Gesù anche sul sabato, decretando in tal modo la sua autorità sul sabato, trasformandolo da teocentrico in antropocentrico e, di fatto, si contrappone alla stessa autorità mosaica.

Ci si trova di fronte ad un racconto artificioso. È difficile, infatti, che in mezzo a campi di grano vi siano, lì pronti, dei farisei a contestare a Gesù e ai suoi la violazione del sabato. Una contestazione di violazione, che, peraltro, è solo parziale, poiché il camminare in giorno di sabato era permesso, ma soltanto per non più di mille passi, circa 750 metri. Ed è difficile pensare che chi passa in mezzo ai campi ne percorra meno. Una restrizione questa che viene menzionata anche da At 1,12 e che trova la sua giustificazione in Es 16,29: “Vedete che il Signore vi ha dato il sabato! Per questo egli vi dà al sesto giorno il pane per due giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno nessuno esca dal luogo dove si trova23. Dt 23,26, invece, concedeva di raccogliere delle spighe dal campo presso cui si passava: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne spighe con la mano, ma non mettere la falce nella messe del tuo prossimo”. Ma ciò che qui viene esplicitamente contestato sono due movimenti proibiti in giorno di sabato: “lo strappare le spighe” e “lo sgranarle con le mani”. Due attività queste che rientrano nelle 39 melachot, categorie di attività proibite in giorno di sabato. Tra queste sono previsti i divieti di mietere, trebbiare e vagliare (cfr. nota 22).

La contestazione mossa dai farisei (v.24) mette a fuoco la questione e prepara la risposta di Gesù, che lascia perplesso il lettore. Qui, infatti, si fa riferimento a 1Sam 21,1-9, in cui Davide con dei suoi compagni sono in fuga da Saul, ed affamati si fermano presso il sacerdote Achimelech, chiedendogli del cibo per sfamare se stesso e i suoi. Non avendo nient'altro, il sacerdote diede il pane posto sull'altare in offerta a Jhwh; pane, quindi, consacrato, di cui potevano cibarsi, per disposizione divina, esclusivamente i sacerdoti (Lv 24,5-9). Benché la risposta sembri non avere alcuna attinenza con il raccogliere qualche spiga di grano, in realtà i due episodi mostrano dei punti in comune: a) in entrambi i racconti ci sono delle persone in uno stato di bisogno: hanno fame. In questo Mt 12,1 è più esplicito: “e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere spighe e le mangiavano”; b) per soddisfare i propri bisogni primari sia Davide, con il beneplacito del sacerdote Achimelech, sia i discepoli, con il tacito consenso di Gesù, violano delle disposizioni divine. Di conseguenza se ne deduce che a fronte di propri bisogni di primaria importanza, che hanno a che vedere con le esigenze della propria vita, anche i comandi divini possono essere superati24 e, comunque, non possono mai contraddirla, poiché la vita dell'uomo, fatto ad immagine e somiglianza divine, ha le sue radici profonde in quella di Dio. E il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio di Gesù non è Moloch25, che pretende sacrifici umani, ma ama la vita ed è fonte primaria della vita (Sap 11,24-26) e nessuno dei suoi comandi la può in qualche modo contraddire o violare, poiché Dio andrebbe a negare se stesso.

La pericope termina con due detti di Gesù, che sanciscono, il primo, il primato dell'uomo sulla legge, che va pertanto ricompresa in funzione dell'uomo e non l'uomo asservito alla legge (v.27); il secondo attesta l'autorità di Gesù nel determinare tale primato. Un'autorità che viene sottolineata dalla titolatura di “Figlio dell'uomo”, a cui è legato un potere plenipotenziario e universale, che gli proviene da Dio stesso: “giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13b-14; Mt 28,18b). per questo Marco può attestare che Gesù, in quanto Figlio dell'uomo, è anche signore, cioè padrone del sabato, su cui può disporre.

Il secondo detto (v.28), pertanto, va letto come giustificativo e rafforzativo del primo e posto a sua tutela, imprimendogli l'autorità stessa di Dio; mentre il primo detto (v.27) assume valenza normativa e cambia radicalmente il senso del sabato, che da teocentrico diviene antropocentrico.

Ogni norma, qualsiasi sia la sua natura, deve, pertanto, essere sempre finalizzata al bene dell'uomo, alla sua affermazione e alla sua tutela. Diversamente perde ogni valore e diviene soltanto uno strumento di repressione e di persecuzione.


Note

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù (1,2-8,30); la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Cfr. Mt 12,38-39; 16,1.4; Mc 8,11-12; Lc 11,16; Gv 2,18; 6,30; 1Cor 1,22; 2Cor 12,12; At 2,22

3Ritroviamo la stessa scena in Antichità Giudaiche, XIV,459, dove i soldati di Erode, salgono sul tetti delle case in cui si erano rifugiati i nemici, e le espugnano demolendone i tetti: “Le case erano piene di uomini armati, e molti si erano rifugiati fino sotto i tetti, ma egli li prese e mentre demoliva i tetti delle case vedeva lo spazio sottostante pieno di soldati stipati, stretti l'uno all'altro”.

4Cfr. Sal 138,1-4; Ger 11,20; 20,12

5Cfr. Es 30,10; Lv 4,1-35; 16,18-22; 23,27-31; 25,9; Nm 29,7-11

6Cfr. Mt 12,38; 16,1; Mc 8,11; Lc 2,12; 11,16; Gv 2,18; 6,30; 1Cor 1,22

7Due sono i tratti che definiscono la figura di Zaccheo: “Egli era un capo dei pubblicani”, una categoria di persone disprezzate dal popolo sia perché collaboravano con i Romani, opprimendo fiscalmente la gente; sia perché, a motivo del loro continuo contatto con il mondo pagano, erano ritenute ritualmente impure e fonti d'impurità e quindi pubbliche peccatrici. Il secondo elemento che qualifica quest'uomo è che “egli era ricco”. Una ricchezza, considerato il tipo di lavoro che faceva, non sempre limpida, ma che per certi aspetti va capita e in qualche modo giustificata. Il sistema fiscale romano, infatti, prevedeva per la riscossione delle tasse locali l'appalto. Gli appaltatori, organizzati in società, anticipavano di tasca propria i pesanti tributi richiesti da Roma, esponendosi quindi finanziariamente ed economicamente, e la cui riscossione non era sempre certa, talvolta anche per motivi contingenti causati da carestie, guerre, pestilenze, siccità o scarsi raccolti. Ai Romani tutto questo non importava e dai loro appaltatori pretendevano il tributo stabilito per quel anno Da qui la necessità di recuperare dei tributi maggiorati per autotutelarsi da eventi imponderabili. Tuttavia, al di là di un'equa autotutela, spesso i tributi recuperati erano gravati da interessi e non di rado da frodi a danno dei cittadini. Questi esattori erano seduti ai loro banchi (Mt 9,9) nei posti strategici della città così che nessuno poteva sfuggire alle loro dure e pesanti richieste. Zaccheo era un elemento di spicco all'interno di questo opprimente sistema tributario e gestiva probabilmente una società di riscossione, da cui traeva, anche in modo illecito (19,8), il suo arricchimento.

8Il termine “pubblicano” tecnicamente era colui che riscuoteva le tasse per l'erario pubblico romano.

9Sul sistema di tassazione romano cfr. J.S, Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004. - pagg.192-202. Cfr. anche la voce “Tassazione” e “Pubblicano” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

10Cfr. Gal 2,,11-14

11Cfr. Mt 15,26-26; Mc 7,27-28

12Cfr. Mt 17,21; Lc 2,37; At 13,3; 14,23

13Cfr. Lv 16,29; 23,27; Nm 29,7. In questo contesto sia Levitico che Numeri definiscono il digiuno come un umiliarsi e un mortificarsi davanti a Dio.

14Sulla questine del digiuno cfr. la voce “Digiuno” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

15Cfr. Is 62,3-5; Ger 3,1; Os 1,1-9; 2,4-6

16Cfr. Gen 18,8-12; 26,26-30; 31,51-54; Es 24,8-11; 2Sam 3,17-20

17Cfr Eb 7,22; 8,6-10

18Cfr. Mt 22,2-4; 25,1-12; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,21-33; Ap 18,23; 19,7; 21,2.9; 22,17

19Sulle questioni riguardanti l'origine del sabato e la sua evoluzione nel tempo cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; pagg.458-465. Cfr. anche la voce “Sabato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005

20Cfr. Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27

21In tal senso cfr. Mc 7,1-5

22Mentre la Torah afferma che nel giorno di sabato non deve essere prodotta alcuna attività lavorativa, il cui intento era quello di aiutare l'uomo, libero dalle sue fatiche quotidiane, a ritrovarsi con il suo Dio e a pensare al suo destino eterno, di cui il sabato era figura, i Dottori della Legge hanno sviluppato un intero trattato talmudico, lo Shabbath, incentrato su ciò che costituisce violazione o meno del sabato. Insomma, un abbaglio: si sono dedicati a curare meticolosamente la forma dell'osservanza sabbatica, trascurandone completamente la sostanza, cioè il senso per cui Dio aveva dato questa prescrizione sabbatica del riposo. Essi, pertanto, hanno individuato trentanove melachot, le quali, più che attività, sono categorie di attività vietate in giorno di sabato, dando così seguito a innumerevoli discussioni se un determinato atto rientrava o meno in uno di questi divieti. Questi sono: “Seminare, arare, mietere, legare i covoni, trebbiare, vagliare, sceglie, ventilare, macinare, impastare, cuocere; tosare la lana, imbiancarla, cardarla, tingerla, tessere, ordire, fare due fili, intrecciare due fili, separare due fili (di una corda), annodare; sciogliere, cucire due punti; cacciare il cervo, ucciderlo, scuoiarlo, salare (la carne), conciare la pelle, raschiare (il pelo), tagliarlo a pezzi; scrivere due lettere dell'alfabeto; cancellare per scrivere due lettere dell'alfabeto; costruire, demolire;accendere un fuoco, spegnerlo; battere con il martello; portare un oggetto da un dominio ad un altro” (Shab., VII, 2). Sullo Sabbath e le sue prescrizioni cfr. A. Cohen, Il Talmud, edizione Editori Laterza, Bari, 1999.

23In At 1,12 viene richiamata questa limitazione di movimento in giorno di sabato: “Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato”.

24San Tommaso d'Aquino affermava che “allorché un precetto nella sua applicazione, cessa di essere ragionevole e di servire al bene dell'uomo, sia individualmente che socialmente, cessa pure di essere un precetto morale” (S.Th. I-II, q.90, a.1).

25Moloch era una divinità cananea a cui si attribuivano sacrifici umani. Le vittime venivano sgozzate e poi bruciate in suo onore. Esso compare più volte citato in Lv 18,21; 20,2.3.4.5; 2Re 23,10; Ger 32,35