IL VANGELO SECONDO MARCO

Il racconto della passione e morte di Gesù1

Capp. 14 - 15

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi



Parte seconda: Gesù ripudiato dal giudaismo (14,1-72)
è accolto dal paganesimo (15,1-47)
(Rm 11,11b-12.15a)





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Note generali

Il cap.14 si chiudeva con il processo giudaico (vv.55-64), l'ultimo atto del rifiuto ufficiale di Gesù da parte del giudaismo. Un processo, quello giudaico, che gira tutto attorno alla titolatura di Gesù, attestato ufficialmente quale Cristo e Figlio di Dio (14,61-62), prospettato nella sua glorificazione (14,63); una titolatura che verrà qui, al cap.15, completata e arricchita con un altri titoli ancora, come quello di “re dei giudei” (vv.2.9.12.18.26), che verrà perfezionato con “Cristo, il re d'Israele” (v.32), cioè una regalità messianica, legata alla promessa fatta da Dio a Davide, (2Sam 7,12-16; 1Cr 17,11-14; At 2,30; 13,23), per poi assurgere alla proclamazione solenne, con quel “veramente”, da parte del mondo pagano quale “Figlio di Dio” (v.39b).

Quanto al processo civile, questo si muove su di uno sfondo ancor più inconsistente di quello religioso, perché nessuna accusa viene esposta in chiaro, ma presentata per via sommariamente generica (v.3) o lasciata sottintesa, là dove Pilato chiede a Gesù se è il “re dei Giudei” (v.2), segno questo che Gesù è stato presentato a Pilato con tale accusa, che apparirà, invece, precisa in Lc 23,2. Un “processo” che raggiunge una forte tensione tra gli astanti così da rasentare il linciaggio di Gesù (vv.11.13.14b). In nessun caso, comunque, non solo non si può parlare di equi “processi”, ma neppure di processi nei confronti di Gesù, ma solo di un linciaggio, la cui responsabilità viene fatta ricadere esclusivamente sulle autorità giudaiche, mentre Pilato viene presentato quasi come una figura secondaria, soccombente, anche lui vittima, assieme a Gesù, degli intrighi e della furia omicida delle autorità giudaiche, la quale cosa verrà ricordata da Luca in At 3,13, che risente della forte polemica tra giudaismo e nascente cristianesimo: “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo”.

Anche per quanto riguarda il processo civile, non ci si trova qui di fronte ad uno scrupoloso resoconto documentato di quanto è avvenuto, né tanto meno alla sua cronaca. Si tratta, in realtà, di una costruzione tutta redazionale, la quale, pur servendosi di elementi storici, quali sono i personaggi che si muovono sulla scena (Pilato e autorità giudaiche) e gli eventi che si sono compiuti, quali il processo, le accuse, la condanna e la sua esecuzione, manipola abilmente tutto questo per raggiungere una pluralità di finalità: a) apologia del mondo pagano, che in nessun modo voleva condannare Gesù, anzi, alla fine è proprio questo mondo a riconoscerlo e ad accoglierlo come “Figlio di Dio” (vv.9-10.14.39); b) una ferma quanto polemica accusa contro le autorità giudaiche, quali vere mandanti della condanna a morte di Gesù; c) mettere in rilievo, a più riprese, l'identità di Gesù, colta nelle sue molteplici sfaccettature, quali messia e re (vv.2.9.12.18.26.32). Una sequenza di titoli, che sono quasi sempre abbinati o, comunque, inseriti in un contesto narrativo in cui ci si riferisce alla capacità salvifica di questo Messia e Re, di provenienza divina (v.32) e tale per sua natura (v.39).

Il racconto del processo civile, così come quello della passione e morte di Gesù, è stringato ed essenziale; unità narrative giustapposte l'una accanto all'altra, spesso circoscritte da inclusioni, ognuna con un messaggio da trasmettere al lettore. Racconti da cui emergono i fatti essenziali, schematici, molto simili ad annunci di eventi collocati in una breve trama narrativa, che si muovono quasi su di uno sfondo kerigmatico e che comunque risentono della predicazione primitiva. Per accorgersene è sufficiente confrontare questo cap.15 di Marco con il cap.23 di Luca, dove il racconto del processo civile e quello della passione e morte si traducono in una avvincente parenesi edificante per i lettori greco-ellenisti di Luca, presentando un Gesù che, pur travolto dal dramma della croce, non impreca, ma al culmine della sua sofferenza e nel momento della sua morte affida se stesso al Padre (Lc 23,46); tuttavia prima non manca di elargire il suo perdono universale e incondizionato al giudaismo (Lc 23,34); accoglie benevolmente chi si affida a lui, indipendentemente dal suo stato di vita (Lc 23,42-43), senza condannare chi lo bestemmia nella sofferenza e nell'oscurità della propria vita (Lc 23,39), ma cercando di aiutarlo con una riflessione che lo faccia rientrare in se stesso (Lc 23,40-41); mentre tutti, indistintamente, siano essi pagani (Lc 23,47) che giudei (Lc 23,48), sono chiamati, di fronte al Crocifisso, alla conversione; nel mentre che vi è una tacita comprensione, nell'attesa di una ripresa futura, per quei seguaci di Gesù, che di fronte alla tragedia della croce, come era già avvenuto per Pietro (Lc 22,54b), se ne “stavano da lontano” (Lc 23,49).

Strutturalmente il cap.15 si suddivide in due sezioni: la prima riguarda il processo civile contro Gesù (vv.1-20); la seconda, la sua passione, morte e sepoltura (vv.22-47). Le due sezioni sono tra loro intercalate dal v.21, che potremmo considerare, per la sua natura parenetica, un versetto di transizione che traghetta il lettore da una sezione all'altra.

Commento ai vv. 1-47

Prima sezione: il processo dei pagani contro Gesù (vv.1-20)

Gesù davanti a Pilato (vv.1-5)

Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione (v.1)

1- E subito, di mattina, fatto un consiglio, i capi dei sacerdoti con gli anziani e gli scribi e l'intero sinedrio, incatenato Gesù, (lo) portarono via e (lo) consegnarono a Pilato.

La regalità di Gesù (v.2)

2- E Pilato lo interrogò: <<Tu sei il re dei Giudei?>>. Egli rispondendo gli dice: <<Tu (lo) dici>>.

L'imbarazzo di Pilato: accuse e silenzio di Gesù (vv.3-5)

3- E i capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose.
4- Ora, di nuovo Pilato lo interrogava dicendo: <<Non rispondi niente? Vedi di quante cose ti accusano?>>.
5- Ma Gesù non rispose più niente, tanto da stupire Pilato.


Note generali

La pericope in esame funge da preambolo introduttivo all'intero cap.15 e ricalca sostanzialmente lo schema narrativo della cattura di Gesù, che dal Getsemani viene portato nella casa del sommo sacerdote dove avviene l'interrogatorio, formato da accuse inconsistenti, alle quali Gesù risponde con un persistente silenzio, che costringe il sommo sacerdote ad intervenire con una domanda che sblocchi la situazione: “Sei tu il cristo, il figlio del Benedetto?”, alla quale Gesù dà, questa volta, la sua risposta (14,61b-62). Tutto gira attorno a queste due battute, finalizzate a mettere in rilievo la vera identità di Gesù. Così qui, in 15,1-5, Gesù viene portato nel pretorio di Pilato, dove, anche qui, si muovono numerose quanto inconsistenti accuse a Gesù, a fronte delle quali Gesù si trincera nel suo silenzio. Anche qui Pilato pone la domanda circa la regalità di Gesù, alla quale Gesù dà la sua risposta confermativa. Anche qui tutto gira attorno a questa domanda di Pilato, finalizzata ad introdurre il tema della regalità di Gesù, che percorrerà l'intero cap.15.

Il racconto della consegna di Gesù a Pilato lascia sottintese molte cose, come il perché il Sinedrio consegni Gesù a Pilato affinché lo condanni a morte; non viene formulata a Pilato l'accusa dei sommi sacerdoti contro Gesù, ma la si intuisce dalla domanda che Pilato pone a Gesù; si accenna sommariamente alle numerose accuse dei sommi sacerdoti contro Gesù, ma non se ne conosce il contenuto; non viene detto chi è Pilato. Il motivo di tale stringatezza narrativa va quasi certamente attribuita al fatto che a Marco non interessa il quadro storico, che probabilmente presume conosciuto dai suoi lettori, quanto piuttosto accentrare la loro attenzione sulla dichiarazione della regalità di Gesù.

Sarà comunque Gv 18,31 a spiegare il motivo per cui il Sinedrio è costretto a chiedere a Pilato la condanna a morte di Gesù: “Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra legge!». Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno»”. Un'attestazione che va letta nel contesto storico della Palestina occupata dai Romani. Il diritto di vita e di morte sui propri cittadini esprime il potere sovrano di uno Stato. Togliere dunque allo Stato lo jus gladii significa togliergli la sovranità, attestando così la sua soggezione nei confronti dell'occupante. L'annotazione qui riportata dall'autore va considerata storica. Essa è confermata anche da Giuseppe Flavio in Guerra Giudaica, che ci racconta come “Essendo stato ridotto a provincia il territorio di Archelao, vi fu mandato come procuratore Coponio2, un membro dell'ordine equestre dei romani, investito da Cesare anche del potere di condannare a morte” (Bel. Jud. II, 117). A conferma di ciò è sempre Giuseppe Flavio, questa volta in Antichità Giudaiche, che racconta come il sommo sacerdote Anano II, approfittando del vuoto di potere venutosi a creare con la morte di Porcio Festo, governatore della Palestina nel 62 d.C. e in attesa della venuta del nuovo governatore Lucio Albino (62-64) ne approfittò per uccidere Giacomo, il fratello di Gesù, nonostante l'espresso divieto del nuovo governatore in viaggio verso la Palestina, avvertito nel frattempo delle intenzioni di Anano. Anano, sommo sacerdote da soli tre mesi, pagherà cara l'insubordinazione, che gli costò la carica. Al suo posto verrà nominato Gesù, figlio di Damneo (Ant. Jud. XX, 200-203). L'affermazione dei Giudei circa la loro incapacità giuridica di condannare a morte e di eseguire la sentenza è, dunque, storica. Tuttavia dai racconti evangelici e dagli Atti degli Apostoli3 nonché dall'attestazione dello stesso Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche, circa la pena di morte immediata per i non ebrei che varcavano la soglia del Tempio4 (Ant. Jud. XV, 417), si rileva come le autorità giudaiche avessero in taluni casi lo jus gladii. Tale potere, tuttavia, va circoscritto, come si è detto, solo a determinate tipologie di reati gravi di ordine religioso. Indubbiamente una concessione in deroga al principio dello jus gladii, che apparteneva, invece, all'occupante romano.

Quanto alla formulazione dell'accusa contro Gesù da parte del Sinedrio, qui taciuta, viene invece riportata da Lc 23,2-3: “e cominciarono ad accusarlo: <<Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re>>. Pilato lo interrogò: <<Sei tu il re dei Giudei?>>. Ed egli rispose: <<Tu lo dici>>”.
Quanto a Pilato, questi fu nominato prefetto5
della Giudea nel 26 d.C., in sostituzione di Valerio Grato, governatore dal 15 al 26 d.C., e vi rimase fino al 36. Assieme al suo predecessore, Pilato fu l’unico ad avere l'amministrazione della Giudea per un periodo così lungo. Normalmente infatti la durata della carica era di due o di quattro anni al massimo. Il suo governatorato si estendeva limitatamente alla Giudea, Samaria e Idumea, che coprivano complessivamente un territorio di circa 160 Km per 75 Km6.

La sua fama è legata esclusivamente all'occasionale incontro che egli ebbe con un certo Gesù di Nazareth, presentatogli come un pericoloso sovversivo (Lc 23,5.13-15), ma su cui non riscontrò, di fatto, nessuna colpa (Gv 19,6b), ma "pro bono pacis" non esitò a darlo in pasto ai suoi avversari (Mc 15,15), per evitare l'ennesima rivolta, che l'avrebbe costretto ad intervenire duramente, come era sua consuetudine7.

La sua amministrazione fu segnata da diversi episodi, che lo videro protagonista di imprudenze, provocazioni, crudeli e spesso cruenti repressioni, che Flavio Giuseppe ci ha testimoniato nelle sue opere "Antichità Giudaiche" e "Guerra Giudaica".

Egli ricorda l'episodio dei "ritratti raffiguranti l'imperatore", introdotti nottetempo in Gerusalemme. Il fatto provocò una forte contestazione da parte dei giudei, durata cinque giorni e che poco mancò si concludesse in un bagno di sangue, evitato per la fierezza degli stessi giudei, mostratisi pronti a morire pur di ottenere il proprio riscatto. Pilato, alla fine, cedette e ritirò le immagini profanatrici8.

L'episodio successivo9 narra di Pilato che per finanziare la costruzione di un acquedotto prelevò denaro dal tesoro del tempio, provocando una rivolta dei giudei. Pilato diede ordine ai suoi soldati di mimetizzarsi tra la folla tumultuante e, ad un segnale convenuto, cominciarono a bastonare i rivoltosi, provocando un parapiglia generale con molti morti al seguito. Ad onor del vero, però, va detto che quell'acquedotto serviva prevalentemente a portare l'acqua al Tempio, particolare, questo, che viene taciuto da Flavio Giuseppe.

Altro episodio, riportatoci da Filone, fu l'affissione di scudi nel palazzo di Erode, in Gerusalemme. Su questi Pilato aveva fatto incidere il suo nome e quello dell'imperatore, con riferimento alla sua divinità, provocando uno scandalo tra i giudei10.

Lo stesso Luca nel suo vangelo ci riporta, molto sinteticamente, un episodio sulla crudeltà di Pilato, sconosciuto alle fonti profane: "In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici"11. Un tale comportamento denota da parte di Pilato non solo crudeltà nei confronti di persone civili inermi, ma anche uno spregio nei confronti del culto ebraico e una profanazione del Tempio stesso.

Un ultimo episodio, avvenuto nel 35, riportatoci sempre da Giuseppe Flavio e che costò, questa volta, il posto a Pilato, fu il massacro dei Samaritani sul monte Garizim. I Samaritani denunciarono i fatti al legato di Siria Vitellio, da cui Pilato dipendeva. Vitellio, per non inimicarsi i Samaritani, ritenuti fedeli amici dei romani, destituì Pilato e lo inviò a Roma per rendere conto direttamente a Tiberio del suo operato. Al suo posto venne messo Marcello, amico fidato di Vitellio12.

Quanto alla struttura narrativa di questa breve pericope introduttiva, propongo la seguente, che riprende quella della sezione del “Testo a lettura facilitata”, da cui si può evincere la centralità della questione della regalità di Gesù (v.2):


Commento ai vv.1-5

Il v.1 va considerato di transizione, perché dal contesto del processo giudaico traghetta il lettore ad un diverso contesto, quello del processo pagano, dove subentrano altri personaggi e dove si prospettano altri e diversi scenari ancor più drammatici. Tuttavia il v.1, sia pur di transizione, non crea uno stacco netto tra il precedente contesto e quello nuovo, ma ne dà continuità, riprendendo le fila narrative, dopo l'intermezzo del rinnegamento di Pietro (14,66-72), da 14,64, dove il sommo sacerdote e l'intero sinedrio sentenziarono la condanna a morte di Gesù per blasfemia. Là si era in piena notte. Ora il v.1 si apre con una nuova nota temporale, che dà seguito a quella precedente di 14,64: “E subito, di mattina, fatto un consiglio, i capi dei sacerdoti con gli anziani e gli scribi e l'intero sinedrio, incatenato Gesù, (lo) portarono via e (lo) consegnarono a Pilato”. Ritroviamo qui gli stessi identici personaggi di 14,64, che se da un lato rafforzano la continuità narrativa tra i capp.14.15, dall'altro consentono a Marco di evidenziare come i veri fautori della morte di Gesù non furono i pagani, ma le autorità giudaiche. Pilato, infatti, figurerà qui come un uomo debole e vittima dei raggiri e dei linciaggi promossi dalle autorità giudaiche.

Con il v.2, senza alcun preambolo introduttivo, si entra nel vivo dell'interrogatorio di Gesù circa la sua regalità. Una domanda estemporanea, che lascia presupporre che in quel “lo consegnarono”, con cui termina il v.1, le autorità giudaiche abbiano anche formulato un'accusa precisa, che noi qui, sulla falsa riga di Lc 23,2.5 e Gv 11,47-48, possiamo solo ipotizzare: Gesù si aggirava per la Palestina avanzando pretese regali o di capopopolo, incitando le numerose folle che lo seguivano alla rivolta contro Roma. L'unica accusa che poteva fare breccia in Pilato, considerato anche il contesto storico che viveva la Palestina di quel tempo, dove non erano rari i tentativi di rivolta contro l'invasore romano da parte di sedicenti messia o re o di rivoltosi in genere, che ammagliando il popolo, si mettevano a capo di folti gruppi di persone innescando insurrezioni e sedizioni, che poi portarono, a lungo andare, alle due grandi guerre giudaiche (66-73 d.C. e 132-135 d.C.), che furono devastanti e sanguinosissime e causarono la fine di Gerusalemme, del Tempio e del suo culto e con questo del sacerdozio, che venne sostituito da una nuova classe dirigente, che si andò formando a partire dal 70 d.C., quella dei rabbini, e da un nuovo culto, quello della Torah. Due guerre, che, tuttavia, non vanno lette semplicemente come una lotta di liberazione contro l'invasore romano, anche se questo elemento politico e sociale non era assente. Esse furono prevalentemente guerre sante, finalizzate ad aprire la strada al Regno di Dio, che aveva in Israele il suo caposaldo13. Il clima in cui esse maturarono fu di forti tensioni politico-sociali, le cui motivazioni furono essenzialmente religiose, dominate tutte da attese messianiche, da visioni escatologiche ed apocalittiche14, che permeavano il vivere religioso e civile del giudaismo15. Entro tale contesto vanno lette e comprese le preoccupazioni delle autorità giudaiche: “I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>” (Gv 11,47-48). E sempre in tale contesto vanno comprese le accuse nei confronti di Gesù, che venne condannato alla crocifissione, pena, questa, riservata ai rivoltosi e ai sovversivi16.

Al di là degli aspetti storici, la domanda di Pilato, posta a Gesù, da un punto di vista cristologico, va a completare quella del sommo sacerdote in 14,61b, rilevando in tal modo la molteplice identità di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio, nonché re messianico, di discendenza davidica. La domanda di Pilato, pertanto, “Tu sei il re dei Giudei?” introduce il tema della regalità di Gesù, che, così come detta da Pilato, acquista una valenza meramente storica e non poteva essere diversamente, poiché Pilato legge le cose dal suo punto di vista, quale prefetto romano della Giudea, preposto all'ordine pubblico, certamente estraneo alle attese messianiche ed escatologiche, che invece animavano il popolo. Tuttavia il senso di tale domanda verrà meglio precisato al v.32, dove i capi dei sacerdoti si rivolgeranno a Gesù crocifisso come “il Cristo, il re d'Israele”, leggendo, quindi la sua regalità non più in senso storico (“re dei Giudei”), ma messianico.

La risposta che Gesù dà a Pilato, “Tu (lo) dici”, si presenta equivoca, poiché può essere compresa in senso affermativo: “Si, è così come dici tu”; oppure in senso negativo: “Sei tu che lo dici, non certo io” e in questo caso Gesù prende le distanze da quanto afferma Pilato. Tuttavia, per meglio comprendere la sibillina risposta di Gesù alla domanda di Pilato è necessario rifarsi al modo con cui i romani, e Marco lo è, erano soliti rispondere affermativamente o negativamente alle domande: con un semplice “Si” o “No” oppure riprendendo e ripetendo il termine più importante della domanda o i suoi contenuti. In questo caso il Gesù marciano risponde affermativamente, poiché riprende la domanda di Pilato confermandola: “Tu (lo) dici”.

I vv.3-5 riprendono lo schema narrativo di 14,56.60-61a e decretano il fallimento di questo interrogatorio anche per Pilato, che non riesce a chiarire la presunta colpevolezza di Gesù a fronte delle innumerevoli accuse (v.3). Sarà proprio questa inconcludente e confusa situazione che farà nascere in Pilato il sospetto che dietro queste accuse ci sia l'invidia delle autorità giudaiche per la popolarità di Gesù, che metteva in discussione la loro autorità (v.10) e per questo egli cercherà in ogni modo di liberare Gesù. Sarà questo il tema prevalente della pericope successiva, quella del confronto tra Barabba e Gesù, dove emergerà sempre più evidente la colpevolezza delle autorità giudaiche nella morte di Gesù (vv.6-15).

Questa insistenza nel rilevare, da parte di Marco, il silenzio di Gesù (14,61a; 15,5), vessato da una moltitudine di accuse, riversate contro di lui dalle autorità giudaiche, sia di fronte a Caifa che a Pilato, richiama da vicino Is 53,7: “Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca”. Gesù, dunque, secondo la prospettiva cristologica di Marco, viene letto come il sofferente Servo di Jhwh, al quale l'evangelista lega i tristi e drammatici destini di Gesù, proclamati da Is 53,8-12: “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua sorte? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per l'iniquità del mio popolo fu percosso a morte. Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”.

La scelta tra Gesù e Barabba (vv.6-15)

Testo a lettura facilitata

Preambolo all'episodio di Barabba (vv.6-8)

6- Ora, per (la) festa liberava loro un prigioniero, che richiedevano.
7- Ora, c'era uno detto Barabba, imprigionato con i rivoltosi, i quali avevano compiuto un omicidio in una sommossa.
8- E avanzatasi, la folla incominciò a chiedere come (Pilato) faceva (di solito) a loro.

Primo intervento di Pilato a favore di Gesù (vv.9-10)

9- Ora, Pilato rispose loro dicendo: <<Volete che vi liberi il re dei Giudei?>>.
10- Sapeva, infatti, che i capi dei sacerdoti lo avevano consegnato per invidia.

La colpevolezza delle autorità giudaiche (v.11)

11- Ma i capi dei sacerdoti sollevarono la folla affinché, piuttosto, liberasse loro Barabba.

Secondo intervento di Pilato a favore di Gesù (vv.12)

12- Ma Pilato, di nuovo, rispondendo, diceva loro: <<Che cosa, dunque, [volete] che (ne) faccia, [quello che dite] il re dei Giudei?>>.

I veri autori della morte di Gesù (v.13)

13- Ma quelli di nuovo gridarono: <<Crocifiggilo>>.

Terzo e inutile tentativo di Pilato a favore di Gesù (v.14)

14- Ma Pilato diceva loro: <<Che cosa, dunque, ha fatto di male?>>. Ma quelli gridarono più forte: <<Crocifiggilo>>.

Pilato cede alle pressioni delle autorità giudaiche (v.15)

15- Ora, Pilato, volendo fare cosa gradita alla folla, liberò loro Barabba e consegnò Gesù affinché, flagellato(lo), fosse crocifisso.


Note generali

Il processo civile celebrato davanti a Pilato si conclude con un nulla di fatto: non vi sono testimoni, ma solo numerose quanto sommarie e imprecisate accuse, che si trasformeranno poi in un linciaggio (vv.13.14b) e alle quali Gesù risponde solo con il suo persistente quanto imbarazzante silenzio, così da stupire lo stesso Pilato; ma, soprattutto, non vi è nessuna presa di posizione da parte di questi né alcuna sentenza. Un processo, quindi, che si liquefa e sparisce nel nulla. Tuttavia, va tenuto presente che il racconto marciano non è finalizzato a riportare cronachisticamente come sono andate le cose, ma sfrutta l'evento del processo civile, così come era avvenuto per quello religioso (14,55-64), per definire l'identità di Gesù, là, in quello religioso, riconosciuto come il Cristo e Figlio di Dio, letto su di uno sfondo escatologico (14,61b-62); qui, come “il re dei Giudei” (v.2), il cui significato messianico verrà precisato al v.32a.

Un processo, dunque, inconsistente, che serve a Marco per sottolineare una volta di più la responsabilità colpevole delle autorità giudaiche, la cui presenza forma da comune denominatore anche per tutti gli eventi del cap.15, in cui si muovono prevalentemente personaggi del mondo pagano, come Pilato, la soldataglia, il centurione, dei quali l'autore, invece, mette in luce la loro positività nei confronti di Gesù, così da creare implicitamente un confronto vincente nei confronti delle autorità giudaiche,

Anche il racconto del confronto tra Gesù e Barabba serve a Marco per mettere in rilievo sempre più la colpevolezza dei capi dei sacerdoti, che istigano al linciaggio di Gesù e spingono la folla a liberare Barabba, lasciando tralucere in questa scelta, da un lato, la profonda iniquità e immoralità delle autorità giudaiche, che si contrappongono ai tentativi di Pilato di liberare Gesù (At 3,13); dall'altro, Gesù, il Giusto, che muore al posto del peccatore Barabba e la cui morte diviene per Barabba redentrice e salvatrice, e che richiama da vicino Is 53,5: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti”.

Quanto alla pericope in esame (vv.6-15), questa è circoscritta dall'inclusione data dalle espressioni “liberava loro un prigioniero” (v.6) e “liberò loro Barabba” (v.15), al cui interno si colloca una seconda inclusione data dal termine “folla” che si riscontra ai vv.8.15. Questa doppia inclusione serve a Marco per separare il preambolo (vv.6-8) al racconto del confronto tra Gesù e Barabba dal racconto stesso, delimitato dai vv.9-15. Tutte due le inclusioni trovano comunque la loro naturale confluenza al v.15, che chiude l'intera pericope su Gesù-Barabba.

Per altre due volte ricorre qui il titolo di “re dei Giudei” (vv.9.12), che riprende quello messo in apertura del cap.15 (v.2) e che si ripeterà identico per altre due volte ancora ai vv.18.26, ma che subirà una notevole sterzata con quello simile, ma completamente diverso nel suo significato di “il Cristo, il re d'Israele” (v.32), che si muove sullo sfondo della regalità messianica di Gesù, quella della promessa che Dio aveva fatto a Davide per mezzo del profeta Natan (2Sam 7,12-16; 1Cr 17,11-14). Una titolatura che troverà il suo vertice al v.39, dove il centurione, figura del mondo pagano, accoglierà il Crocifisso riconoscendolo come il vero Figlio di Dio. Un riconoscimento che va a completare quello di Pietro, che riconobbe in Gesù “il Cristo” (8,31); riconoscimenti questi, che nel loro insieme, riconducono il lettore all'apertura del vangelo di Marco: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]”.

Commento ai vv.6-15

I vv.6-8 fungono da cornice introduttiva all'episodio del linciaggio di Gesù a tutto favore di Barabba.

Il v.6 presenta quella che per Gv 18,39a era una consuetudine giudaica: quella di amnistiare un prigioniero nel giorno di pasqua; un atto questo che forse richiamava in qualche modo la liberazione di Israele dalla sua schiavitù egiziana. Una consuetudine che probabilmente fu inaugurata dagli Asmonei, che per accattivarsi le benevolenze del popolo, nel giorno della pasqua solevano amnistiare un prigioniero politico a scelta del popolo17. Che si trattasse di una consuetudine lo si può evincere anche dall'uso dei tempi verbali che Mc 15,6 fa: “Ora, durante la festa (Pilato) rilasciava loro una carcerato, quello che richiedevano”. Il tempo qui è l'imperfetto indicativo (¢pšluen, apélien, rilasciava), un tempo durativo, che lascia intendere come questa azione fosse ripetitiva nel tempo e che quindi va letta come “era solito rilasciare”. Mt 27,15, infatti, che da Marco dipende, è più esplicito e in qualche modo interpreta Mc 15,6: “Ora, durante la festa il governatore era solito rilasciare (e„èqei […] ¢polÚein) alla folla un carcerato, quello che volevano”. Sia in Mc che in Mt, quindi, si evince chiaramente che si trattava di una consuetudine. Ma ciò che non è chiaro è se tale consuetudine rientrasse nella tradizione giudaica e quindi conservata, grazie anche all'atteggiamento favorevole delle disposizioni di Cesare Augusto nei confronti dei Giudei18, o se invece facesse parte dell'ordinamento giuridico romano, che prevedeva gli istituti della “abolitio, cioè la messa in libertà di un prigioniero non ancora giudicato, e della “indulgentia, cioè la grazia verso un condannato. Luca non ci soccorre in tal senso, poiché il suo racconto si limita a presentare i Giudei che a gran voce pretendono la liberazione di Barabba (Lc 23,18), ma senza riferire le basi giuridiche della loro pretesa19. Giovanni precisa come questa pretesa da parte dei Giudei nei confronti di Pilato poggiasse giuridicamente su di una consuetudine, che Pilato riconosce loro, probabilmente conformandosi in tal senso alle disposizioni favorevoli verso i Giudei da parte di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) e di Tiberio (14-37 d.C.): “Ora voi avete una consuetudine, che vi liberi uno per la pasqua; volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?” (v.39). Si tratta dunque di una consuetudine giudaica, probabilmente, come si diceva sopra, mutuata dagli Asmonei.

Il v.7 presenta il concorrente di Gesù alla liberazione: Barabba. Una figura che ricorre, in questo contesto, in tutti quattro i vangeli, ma da prospettive diverse:

La diversa prospettiva con cui gli evangelisti definiscono Barabba nasce dalla loro posizione culturale, sociale e politica propria di ciascuno di loro.

Mt 27,16 qualifica Barabba con l'aggettivo “™p…shmon(epísemos), che significa insigne, notevole, ragguardevole, distinto e quindi famoso, molto noto. Matteo quindi guarda a Barabba con un occhio di riguardo e benevolo, ben diversamente dagli altri evangelisti. La cosa forse può essere comprensibile perché Matteo scrive ad una comunità ebraica, che vede in Barabba più che un brigante, termine con cui Giovanni definisce Barabba, lo stesso che usa il filoromano Flavio Giuseppe per definire gli zeloti, un patriota, che forse con le sue gesta ha tenuto vive le speranze del popolo, per cui egli era divenuto “epísemos, cioè famoso e ben conosciuto presso il popolo e questo giustifica la scelta del popolo a favore di Barabba, uno che si è battuto per loro contro Roma. Marco, che invece scrive alla comunità di Roma e lui stesso romano, lo definisce come un rivoltoso: “Ora, c'era uno detto Barabba, imprigionato con i rivoltosi, i quali avevano compiuto un omicidio in una sommossa” (Mc 15,7). Qui si dice soltanto che Barabba era un rivoltoso che aveva partecipato insieme ad altri ad una sommossa, in cui si era commesso un omicidio. Ma nessuna accusa di omicidio viene imputata a Barabba. Vi è soltanto Lc 23,19 che definisce Barabba un assassino: “Costui fu gettato in carcere per una sollevazione avvenuta nella città e omicidio”. Ma sappiamo che la precisione storica e geografica del greco Luca nelle cose giudaiche lascia alquanto a desiderare. Probabilmente Luca, che in parte dipende anche lui da Marco, ha parafrasato in qualche modo Mc 15,7. Giovanni si limita a definire Barabba con l'epiteto di “lVst»j(lestés), cioè ladro, ladrone, assassino, pirata, corsaro, predatore, brigante. Insomma, quello che noi definiremmo: un delinquente patentato e certamente un poco di buono.

Comunque la si metta Barabba non era certo uno stinco di santo e Luca riprenderà questa figura di brigante, rivoltoso e coinvolto in un assassino, ponendolo accanto a quella di Gesù, creando in tal modo un rilevante contrasto tra i due, da cui trarrà un pesante atto di accusa, che lancerà contro i Giudei in At 3,13-15 in forma kerigmatica21: “Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, avete chiesto che vi fosse graziato un assassino e avete ucciso l'autore della vita. Ma Dio l'ha risuscitato dai morti e di questo noi siamo testimoni”.

Il v.8 introduce il terzo personaggio coinvolto nel racconto di Barabba-Gesù: la folla, colta da Marco nell'atto di avanzare verso Pilato per far valere il proprio diritto, giuridicamente fondato, come s'è visto sopra, da una consuetudine popolare, riconosciuta da Roma, anche perché probabilmente rientrava nel diritto romano. Significativo il verbo che qui Marco usa per designare il movimento della folla che avanza: “¢nab¦j” (anabàs), che significa salire, montare, andare su, lievitare, crescere, avanzare, ingrossarsi. Un verbo questo che dipinge una folla in movimento che si sta sempre più ingrossando, divenendo minacciosa. L'idea che ne esce è che si è ormai al limite di una possibile rivolta. Una folla che verrà poi aizzata dai capi dei sacerdoti (v.11a), spingendola al linciaggio di Gesù in favore di Barabba (vv.13.14b). Una folla sempre più tumultuante che diviene l'arma determinante che spingerà Pilato a cedere (v.15).

Segue ora il racconto del confronto tra Gesù e Barabba. Il tutto si muove attorno al dialogo tra Pilato e la folla; un dialogo dove la figura di Barabba scompare per lasciare spazio al duro confronto tra Pilato e la folla aizzata dai capi dei sacerdoti, che la spingono per far cadere la sua scelta su Barabba. Una folla, dunque, sostanzialmente incolpevole, manovrata dai veri responsabili e mandanti: le autorità giudaiche. Un dialogo che si sviluppa su tre domande da parte di Pilato, che cerca di spingere in qualche modo i Giudei a liberare Gesù (“Volete che vi liberi il re dei Giudei?”); a rientrare in loro stessi e a rinsavire (“Che cosa, dunque, ha fatto di male?”), ma nel contempo, da buon politico, rimettendosi alla loro decisione e facendo così ricadere su di loro la colpa, sollevandosi da ogni responsabilità (“Che cosa, dunque, [volete] che (ne) faccia, [quello che dite] il re dei Giudei?”), la quale cosa apparirà più evidente in Mt 27,24. Ciò che spinge Pilato a favore di Gesù è la coscienza che Gesù era vittima dell'invidia, della malevolenza e dell'odio dei capi dei sacerdoti. Questo è il significato del termine “fqÒnoj” (ftzónos). Uno stato d'animo, dunque, avverso a Gesù, ammalato da un profondo risentimento, tale da calpestare ogni forma di giustizia.

Alle tre domande di Pilato fanno da eco, in un crescendo continuo, le risposte dei capi dei sacerdoti, che Marco, dapprima, accusa di essere mossi dall'odio verso Gesù (v.10), poi li presenta come dei sobillatori e manovratori della folle, per spingerla a compiere il loro malvagio quanto criminale disegno, coinvolgendola in questo a loro insaputa (v.11), per poi, infine, farla esplodere in un incontrollato linciaggio, che trova il suo vertice in quel ripetuto “Crocifiggilo” (vv.13-14).

Significativo quel “Sapeva”, riferito alla coscienza, che Pilato aveva, circa le vere motivazioni che animavano i capi dei sacerdoti (v.10). Il tempo verbale, posto qui all'imperfetto indicativo, dice che Pilato si era accorto fin da subito come stavano girando le cose. E sarà proprio questo suo “sapere” che lo spingerà con insistenza a salvare Gesù. Altrettanto significativo è, infatti, quel “di nuovo” del v.12a che attesta come Pilato non voglia arrendersi così facilmente alle inique pretese delle autorità giudaiche. Un “di nuovo” a cui si contrappone con altrettanta pervicacia quello dei capi dei sacerdoti, che neppure loro intendono demordere, poiché sanno che la loro partita si gioca tutta lì davanti a Pilato: “di nuovo gridarono: <<Crocifiggilo>>”. Benché il grido “Crocifiggilo” compaia qui per la prima volta, tuttavia, quel “di nuovo” lascia intendere come questo sia divenuto una sorta di ossessivo ritornello, che impediva ogni possibilità di dialogo e di ripensamento. Si è dunque giunti al linciaggio di Gesù, ad un odio puro e cieco, che si è inopinatamente scaraventato addosso a lui.

Il v.15 chiude tristemente con la capitolazione di Pilato di fronte alle pressioni della folla sobillata dai capi dei sacerdoti. L'uomo forte, duro, spietato e crudele, che la storia ci ha passato, tanto da venir rimosso nel 36 d.C. dal suo incarico per crudeltà ed esiliato successivamente a Vienne, viene qui presentato da Marco in tutta la sua fragilità e debolezza, che in qualche modo scusa Pilato, ma va ad accentuare la colpevolezza delle autorità giudaiche per la morte di Gesù.

Il motivo di questa sua capitolazione lo suggerisce Gv 19,12b: “Se liberi costui, non sei amico di Cesare; chiunque fa se stesso re si oppone a Cesare”. Una simile denuncia comportava l'accusa di lesa maestà, che prevedeva pene durissime, dall'esilio alla perdita della cittadinanza romana o alla pena capitale. Valeva la pena rischiare tutto questo per un insignificante e anonimo giudeo esaltato? Qui era messa in discussione la sua carriera politica e militare, nonché la sua posizione nei confronti dell'imperatore, quale “amico di Cesare”. Sarebbe bastata una denuncia da parte delle autorità giudaiche presso il governatore della Siria, Vitellio, da cui Pilato dipendeva, per procurare a Pilato delle serie se non gravi conseguenze alla sua carriera e alla sua stessa persona. Cosa che del resto avverrà nel 36 d.C. ad opera di notabili samaritani, allorché Pilato, massacrò inopinatamente dei samaritani saliti al tempio, sul monte Garizim, per rendere culto. Per questo Pilato si affretta a prendere una posizione ufficiale e definitiva nei confronti di Gesù (v.13a), prima che la cosa degeneri e gli sfugga di mano: “Ora, Pilato, volendo fare cosa gradita alla folla, liberò loro Barabba e consegnò Gesù affinché, flagellato(lo), fosse crocifisso”. Una scelta da buon politico e da opportunista, certamente non improntata all'equità, ma in voga presso i potenti dell'epoca, pronti a cavalcare l'onda del momento per rafforzare il loro prestigio e la benevolenza del popolo, come ricorda At 12,1-3, dove, similmente a Pilato e nel medesimo contesto temporale, Erode Agrippa I (10 a.C.-44 d.C.), nipote di Erode il Grande, “cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che questo era gradito ai Giudei, decise di arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Azzimi”.

Il v.15 termina con l'annotazione che Pilato “consegnò Gesù affinché, flagellato(lo), fosse crocifisso”. Torna il verbo “paraddwmi” (paradídomi, consegnare), un verbo che ricorre ben 83 volte nei vangeli e 19 volte in Marco. Un verbo che significa “consegnare” e riferito a Gesù acquista sempre una valenza teologica e cristologica nel contempo, poiché questo “consegnare” richiama il dono che il Padre ha fatto del suo Figlio agli uomini, perché credendo in lui abbiano fin da subito la vita eterna, cioè fin da subito siano ricollocati nella vita stessa di Dio, mediante l'adesione esistenziale al suo Figlio (Gv 3,16). Quindi Gesù, dono di amore del Padre a favore degli uomini, ai quali egli fu consegnato. Ma nel contempo, questo “consegnare” Gesù agli uomini, se riferito a Gesù stesso, diviene il consegnarsi di Gesù agli uomini, un offrirsi a loro per la loro salvezza e il loro riscatto. Non ha importanza che siano questi a consegnarlo agli altri, è sempre Gesù che si consegna liberamente a loro e lascia che tutto ciò avvenga, poiché tutto ciò era scritto e tutto ciò rientrava nel disegno del Padre22.

Questo consegnare Gesù, che è di fatto un suo consegnarsi, è sempre strettamente legato alla sua passione e morte e le evoca in qualche modo: “consegnò Gesù affinché, flagellato(lo), fosse crocifisso”. Una consegna, quindi, finalizzata alla sua passione e morte, che qui vengono espresse in quel “affinché fosse flagellato” e “fosse crocifisso”. Tuttavia, da un punto di vista storico, questa flagellazione, finalizzata alla crocifissione, era di fatto un preliminare a questa e la sua finalità era quella di indebolire il condannato per accelerarne la morte in croce23.

L'investitura regale del sofferente Servo di Jhwh (Is 50,6)

Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione (v.16)

16- Ora, i soldati lo portarono dentro il cortile, cioè il pretorio, e convocano l'intera coorte.

L'investitura regale e il riconoscimento del re (vv.17-19)

17- E lo vestono di porpora e, intrecciata(la), gli pongono attorno (alla testa) una corona fatta di spine;
18- e incominciarono a salutarlo: <<Salve, re dei Giudei>>.
19- E percuotevano la sua testa con una canna e gli sputavano (addosso) e, poste le ginocchia (a terra), si prostravano davanti a lui.

Il re verso la sua intronizzazione (v.20)

20- E quando l'ebbero schernito, lo spogliarono della porpora e lo vestirono con le sue vesti. E lo conducono fuori per crocifiggerlo.


Note generali

Con il v.2, dove si poneva la questione della regalità di Gesù, si dava il tono all'intero cap.15 dove questa regalità, via via sempre più, va emergendo e sempre più viene precisata non come regalità in senso storico (Gesù re dei Giudei, vv.2.9.12.18.26), bensì in senso messianico (“il Cristo, il re d'Israele” v.32), fino a raggiungere la sua apoteosi nel riconoscimento divino di questo re e della sua regalità (“Veramente quest'uomo era Figlio di Dio”, v.39). In questo contesto va letta e compresa questa pericope in esame (vv.16-20), che presenta l'investitura regale di Gesù e il riconoscimento di tale regalità.

Ci troviamo di fronte ad una pericope che è stata rimaneggiata da Marco, in una delle sue periodiche revisioni del suo vangelo, al v.16b con l'aggiunta “cioè il pretorio” (Ó ™stin praitèrion, ó éstin praitôrion), che va a specificare al lettorato romano il senso di quel “aÙlÁj” (aulês, cortile), per lui incomprensibile. La seconda modifica, più ampia e che interrompe l'azione dell'incoronazione regale iniziata al v.17, la quale proseguirà, poi, al v.19b, viene riportata al v.19a dove vengono presentati i maltrattamenti subiti da Gesù: “E percuotevano la sua testa con una canna e gli sputavano (addosso)”. Il senso di questa interruzione all'interno dell'investitura regale di Gesù va compresa sullo sfondo di Is 50,6: “Ho presentato il dorso ai flagellatori, la guancia a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi”. Da qui il titolo che ho assegnato a questa pericope: “L'investitura regale del sofferente Servo di Jhwh (Is 50,6)”. Quindi Marco, all'interno di questa parodia dell'investitura regale di Gesù da parte della soldataglia, cerca di fornire per il suo lettorato una chiave di lettura: lì, in quella parodia, si sta realizzando la profezia di Isaia

La presente pericope forma un'unità narrativa a se stante, circoscritta dall'inclusione data da due movimenti uguali contrari: al v.16a Gesù è portato nel pretorio, mentre al v.20b è portato fuori dal pretorio.

All'interno di questi limiti, l'unità narrativa si sviluppa su di una struttura a parallelismi concentrici, la quale cosa lascia intravvedere come Marco assegni a questa pericope un'importanza particolare, poiché qui avviene l'investitura regale di Gesù e il suo riconoscimento da parte del mondo pagano, che avrà, poi, il suo vertice al v.39, dove questo “re dei Giudei” sarà riconosciuto anche quale “Figlio di Dio”.

Per cui si avrà il seguente svolgimento:

A) Gesù è portato nel pretorio (v.16);

B) Gesù è ricoperto con un mantello di porpora, segno della sua dignità regale (v.17a);

    C) Gesù riceve la corona, segno del suo potere regale (v.17b)

    D) Gesù riconosciuto e proclamato re (v.18);

C1) l'omaggio al re e l'assoggettamento al re (v.19b)

B1) Gesù spogliato del manto regale, ma non della sua corona (v.20a)

A1) Gesù esce dal pretorio verso la crocifissione (v,20b)

In A) Gesù entra nel pretorio e in A1) esce dal pretorio per la crocifissione; in B) Gesù è ricoperto dal mantello porpora segno della sua dignità regale; in B1) il mantello porpora gli viene tolto, poiché la vera dignità regale di Gesù apparirà nella sua risurrezione. Tuttavia non viene privato della corona, segno del suo potere regale, che Gesù possiede in quanto Re messianico, Figlio di Dio (v.32); in C) Gesù riceve la corona regale, segno del suo potere; in C1) questo potere regale di Gesù gli viene riconosciuto con la cerimonia dell'assoggettamento. La lettera D), che occupa la posizione centrale, la più importante secondo le logiche della retorica ebraica, contiene il riconoscimento e la proclamazione di Gesù quale “re dei Giudei”.

L'intera pericope, sia pur tratteggiata per sommi capi, presenta la cerimonia dell'investitura regale che richiama quella dell'intronizzazione dei re d'Israele. Il rituale dell'incoronazione regale, che avveniva nel tempio, prevedeva l'imposizione delle insegne, l'unzione, l'acclamazione da parte del popolo, l'intronizzazione e l'omaggio da parte dei grandi ufficiali ed infine la titolatura, cioè l'assegnazione di nomi, che venivano assunti dal re al momento della sua intronizzazione24.


Commento ai vv.16-20


Il v.16 opera un radicale cambio di scena e porta il lettore in un nuovo contesto, dato con l'introduzione di un luogo diverso da quello precedente e dall'introduzione di nuovi personaggi. Il tutto gira attorno all'attore principale, che come una sorta di filo rosso, attraversa l'intero cap.15 ed amalgama attorno a sé personaggi, luoghi ed eventi, che Marco sciorina in questo capitolo molto intenso.

I soldati portano dentro il cortile Gesù. Sono quei soldati che, sebbene in modo sottinteso, hanno preso in consegna il prigioniero Gesù dalle autorità giudaiche (v.1) e portato alla presenza di Pilato perché venisse da lui interrogato. Pilato doveva trovarsi in un luogo pubblico dove forse si tenevano le udienze e, quindi, accessibile anche ai Giudei (Gv 19,13). Non è pensabile, infatti, che i capi dei sacerdoti, scribi ed anziani si siano introdotti in massa, assieme alle folle, nella casa di Pilato, un pagano, che li avrebbe resi impuri. Gv 18,28 ne spiegherà anche il motivo: “Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”. Qui, invece, secondo il computo dei giorni di Marco siamo, benché non verosimilmente25, nel giorno di pasqua o, tuttalpiù, il 15 di nisan, festa degli Azzimi e, quindi, a maggior ragione si doveva evitare una contaminazione con l'ambiente pagano. Quindi Gesù, dopo la concessione che Pilato aveva fatto ai Giudei, di crocifiggere Gesù (v.15), questi, dal tribunale viene portato nel cortile interno del palazzo di Pilato per predisporlo alla crocifissione.

Questo cortile interno al palazzo di Pilato viene precisato da Marco che si tratta del “pretorio”. Un inciso questo che dice come Marco si stia rivolgendo con il suo vangelo alla comunità di Roma, alla quale il termine “cortile” non dice nulla, mentre più eloquente è il termine “pretorio”26. Ma dove si trovava di preciso il pretorio di Pilato a Gerusalemme27?

Per quanto riguarda il pretorio sito in Gerusalemme, gli studiosi non sono ancora giunti ad una sua definitiva e concorde collocazione. Due sostanzialmente gli schieramenti: chi lo colloca nella fortezza Antonia28, prospiciente sul Tempio, lato nord-ovest; chi nel palazzo regale di Erode. Ritengo, a mio avviso, che il pretorio di Pilato fosse ubicato nella fortezza Antonia per motivi di logica strategica. La fortezza Antonia fungeva anche da caserma, difesa da circa un migliaio di uomini armati (Bel. Jud. V,244) ed era in una posizione dominante non solo sul Tempio, ma anche sull'intera città di Gerusalemme (Bel. Jud. V,245). Pilato da Cesarea si trasferiva a Gerusalemme certamente non per turismo, ma soltanto per prevenire disordini pubblici e soffocare sull'istante possibili rivolte popolari, non infrequenti all'epoca. La sua presenza durante le festività, pertanto, aveva scopi eminentemente di tutela dell'ordine pubblico e militari. La cosa più logica è che egli si insediasse nel luogo militarmente più sicuro, da dove poteva impartire direttamente ordini ai suoi ufficiali e dove, in caso di sommossa, poteva rinchiudersi sia per difendersi sia per, poi, contrattaccare, cose queste che sarebbero state molto difficili se fosse stato nel palazzo regale di Erode, che si trovava sul lato opposto della fortezza Antonia, diviso da essa dall'intera città di Gerusalemme. Questa, durante le festività, era sommersa dalla gente, che proveniva da ogni parte dell'impero. Le strade e le vie di comunicazione erano affollate e scarsamente praticabili. Per una semplice ragione tattica e strategica, quindi, Pilato doveva risiedere nella fortezza Antonia. Una fortezza, inoltre, che, in occasioni di queste grandi festività, era rafforzata da distaccamenti della X Legio Fretensis di stanza in Siria. Del resto se fosse stato nel palazzo di Erode i suoi movimenti non sarebbero potuti essere probabilmente così diretti e immediati come nella fortezza Antonia, dove tutti erano ai suoi ordini. Presso Erode, infatti, non sarebbe stato circondato soltanto dai suoi uomini, ma doveva fare il conto anche con tutto il personale di Erode, che non gli era favorevole né fedele. I suoi movimenti e le sue decisioni probabilmente sarebbero state maggiormente rallentate se non boicottate dalla stessa servitù. Dal racconto lucano della passione di Gesù, infatti, sappiamo che tra Erode e Pilato non correva buon sangue (Lc 23,12). La fortezza Antonia, infine, non va considerata come una casermaccia di infimo ordine, ma era un palazzo regale a tutti gli effetti (Bel Jud. V,241), che Erode il Grande abbellì e vi abitò prima di trasferirsi nel palazzo che aveva fatto costruire per sé nella parte alta della città. Flavio Giuseppe nella sua opera Guerra Giudaica, a proposito della fortezza Antonia abbellita e rinforzata da Erode il Grande, attesta che “la fortezza la costruì con sontuosa magnificenza in nulla inferiore a una reggia, e la chiamò Antonia in onore di Antonio” (Bel. Jud. 1,401). Qui, dunque, a nostro avviso, avvennero i fatti che Giovanni e i Sinottici raccontano sulla passione di Gesù.

Il v.16 termina annotando come i soldati, che avevano in consegna Gesù e lo dovevano preparare per la crocifissione, “convocano l'intera coorte”. Il verbo greco qui usato, “sugkaloàsin” (sinkalûsin, convocare, chiamare a raccolta) è un po' particolare e in tutta la Bibbia viene usato soltanto cinque volte, di cui una da Marco e altre quattro da Luca29, che ne fa un uso particolare. In Lc 9,1 riguarda una convocazione dei Dodici da parte di Gesù, ai quali “diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di curare le malattie”. Una convocazione, quindi, solenne, in cui Gesù conferisce i suoi poteri ai Dodici e che richiama in qualche modo le solenni convocazioni liturgiche. Mentre in Lc 15,6.9 l'evangelista parla della condivisione della grande gioia per la dracma smarrita e la pecora perduta e poi ritrovate e in Lc 23,13 della convocazione delle autorità giudaiche da parte di Pilato per respingere le loro accuse contro Gesù e deliberare la sua sentenza di assoluzione (Lc 23,13-16) e quindi un momento importante. Il verbo, quindi, possiede in sé un doppio significato, quello di convocazione di una certa rilevanza e solennità; e di condivisione di una certa importanza spirituale, come è il sentimento di “grande gioia” in Luca.

Questa convocazione, pertanto, prepara alla solennità di quanto sta per accadere. Essa è rivolta alla “intera coorte”30, cioè a tutto il mondo pagano, lì convocato per assistere all'investitura regale del “re dei Giudei”, così come lo si ritroverà sotto la croce nella figura del centurione a riconoscere la divinità di Gesù, quale vero Figlio di Dio (v.39). Questo, del cap.15, è il momento del riscatto del mondo pagano nei confronti di Gesù, rifiutato, invece, dal mondo giudaico.

I vv.17-19 formano il cuore di una pericope (vv.16-20) molto accurata, che per la sua accuratezza ne rileva l'importanza, e presentano la scena dell'incoronazione regale di Gesù. Tre sono gli elementi che la costituiscono: la corona di spine, che in qualche modo richiama quella irradiante dei re o egli imperatori; una corona cioè formata da un cerchio d'oro da cui si dipartivano dei raggi d'oro per significare la figura illuminata e illuminante del sovrano. Le spine, contrariamente a quanto si vede in certe raffigurazioni, non dovevano essere né grosse né lunghe. Il termine che qui Marco usa “¢k£nqinon” (akántzinon), che significa spinosa, riferito ala corona. Ma lo stesso termine è anche un sostantivo “¢k£nqinon”, che significa “piccola spina”. E non poteva che essere così, poiché se fossero state di diversa consistenza, i colpi di canna dati intesta a Gesù avrebbero potuto perforargli il cranio e Gesù morire all'istante o venire paralizzato. L'intento dei suoi aguzzini, infatti, qui non è quello di uccidere Gesù, ma di prepararlo per la crocifissione. Per cui la flagellazione, che poteva anche essere mortale, e non di rado lo era, venne somministrata in modo tale da fiaccare il condannato, ma non ucciderlo; così le torture seguenti dovevano farlo soffrire, ma non ucciderlo. In altri termini il condannato non doveva essere sottratto alla sua pena.

Il secondo elemento, che evidenzia la regalità, è il mantello di porpora, portato dai re e dagli imperatori, simbolo della loro regalità e del loro potere di cui erano rivestiti; e, infine, il saluto con cui si rendeva omaggio al nuovo re da parte dei maggiorenti della corte, riconoscendone la regalità, offrendo la loro sottomissione al nuovo re.

Poco importa se qui la corona fosse di spine o se gli intenti fossero ingiuriosi, l'importante per l'evangelista è che qui il suo Gesù venga insignito dei fregi regali (corona e mantello) e riconosciuto re (il saluto).

Un'attenzione va riportata al particolare della canna, riportato dai soli Mc 15,19a e Mt 27,29.30. Un inciso questo che in Marco interrompe l'azione dell'investitura (vv.17-18) con il seguente omaggio (v.19b) e che di per sé risulta pleonastico rispetto alla scena, così che se venisse tolto, questa non ne risentirebbe in alcun modo, anzi, la narrazione risulterebbe più scorrevole e più logica nella sequenza degli eventi. L'inciso della canna, inserito così malamente da Marco, probabilmente fu messo in redazioni successive e il motivo di tale inserimento va visto probabilmente come il tentativo dell'evangelista di inserire all'interno della investitura regale di Gesù, un richiamo a Is 50,6, quello del Giusto sofferente Servo di Jhwh. Matteo, che da Marco dipende, cercherà di dare una logica al particolare della canna, che prima viene messa nelle mani di Gesù, quale scettro regale, particolare questo che ben si associa al manto e alla corona di spine, completando così l'investitura regale, particolare questo assente in Marco; poi viene tolta dalle mani di Gesù e battuta sulla sua testa. Tutto in Matteo avviene in modo più armonico e più logico, mentre in Marco l'inserimento del v.19a risulta estemporaneo.

La parodia del riconoscimento regale di Gesù da parte della soldataglia dà nell'insieme l'idea di un fatto occasionale, imbastito, lì per lì, dopo aver sentito le pretese di regalità da parte dell'imputato. Un particolare tuttavia lascia pensare il contrario: la presenza di spine con cui si è fatta la corona. L'episodio, infatti, è avvenuto all'interno della fortezza Antonia, un luogo presidiato, in particolar modo in quel periodo di feste; non era facile pertanto uscire o entrare. Considerato poi il luogo che certamente non doveva avere giardini o terreni incolti al suo interno e tali da favorire la crescita di rovi o spine, è da pensare che l'episodio dell'incoronazione sia stato pensato e preparato per tempo dagli aguzzini. Altrimenti come potevano avere delle spine lì sottomano, in un luogo così asettico come il palazzo-caserma della Torre Antonia?

Il v.20 chiude la sceneggiata dell'investitura regale di Gesù: le luci dell'attenzione della soldataglia e della “intera coorte” (v.16) si spengono. Gesù viene spogliato del manto, segno della sua dignità regale, e rivestito delle sue vesti. Particolare questo che serve a Marco da aggancio a quanto avverrà subito dopo al v.24, dove la soldataglia si spartirà le vesti di Gesù, “gettandovi sopra la sorte”, particolare quest'ultimo che Gv 19,24 legherà alla previsione scritturistica del Sal 22,19.

Si noti come Gesù viene spogliato della porpora regale, ma non della sua corona, poiché questa è il segno del suo potere regale, una realtà questa, che è intrinseca a Gesù in quanto “re dei Giudei”, inteso nel senso del v.32, quale “Cristo, re d'Israele”; mentre la spogliazione del mantello, che esprime soltanto la dignità regale, verrà sostituita dall'investitura della risurrezione, dove apparirà la vera natura e la vera dignità di questo Re divino, Figlio di Dio. Mt 28,18 renderà bene questo aspetto, presentando il Risorto nello splendore della sua onnipotenza regale, di una regalità cosmica: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”.

Il v.20b chiude la scena dell'investitura regale di Gesù, avviandolo alla crocifissione, dove, avverrà la sua intronizzazione regale e qui, e soltanto qui, verrà riconosciuto sia dal Giudaismo che dal mondo pagano, quale “il Cristo, il re d'Israele” (v.32) e la sua “Figliolanza divina” (v.39), che rifulgeranno nella risurrezione.

In cammino verso il Golgota: una piccola parenesi (v.21)

Testo

21- E costringono uno che passava, tale Simone Cireneo, che veniva dalla campagna, il padre di Alessandro e Rufo, perché prendesse la sua croce.


Commento al v.21

L'episodio del Cireneo si colloca, a mo' di sandwich, tra le due ampie sezioni, quella del processo civile a Gesù (vv.1-20) e quella degli eventi del Golgota (vv.22-47). Un piccolo episodio che serve a Marco, da un lato, per creare uno stacco e nel contempo una continuità narrativa tra le due sezioni, perché quello che Marco qui racconta è un episodio che accade lungo la strada che porta dalla torre Antonia al Golgota; dall'altro, per offrire una piccola parenesi ai suoi lettori, alludendo in Simone il vero discepolo che segue Gesù sulla via della sofferenza, condividendo con lui la sua croce.

Quello del Cireneo è un racconto riportato tutti da tutti tre i Sinottici, ma dei tre quello che ci dà maggiori informazioni su questo personaggio, reso famoso per aver aiutato, suo malgrado, a portare la croce di Gesù, è Marco, il quale ci fornisce non solo il nome, Simone, ma anche la sua origine, Cirene, nonché i nomi dei due suoi figli, Alessandro e Rufo. Nomi questi, che rispecchiano l'incrocio di tre diverse culture, quella greca (Alessandro), quella romana (Rufo) e quella giudaica (Simone), forse una allusione all'universalità di cui è pregno il senso di questo episodio. Una presentazione così dettagliata fa pensare che il personaggio sia storico e probabilmente lo è. Nel 1941, infatti, nella valle del Cedron, a Gerusalemme, fu trovato un ossario risalente al I sec. d.C. e contenente le spoglie di una famiglia originaria di Cirene e, in particolare, veniva citato il nome di “Alessandro di Cirene, figlio di Simone”. Gli archeologi ritengono che questi resti appartengano credibilmente alla famiglia di Simone di Cirene31, citato dai vangeli.

Simone s'imbatte casualmente nel corteo che accompagna Gesù sul luogo della crocifissione. Un corteo che in genere era formato dal condannato (cruciarius), da quattro soldati, che lo accompagnavano, comandati da un centurione, che aveva il compito di far eseguire la condanna e constatare la morte del crocifisso (exactor mortis), la quale cosa verrà rilevata al v.44, dove Pilato convocherà il centurione per accertarsi che Gesù sia veramente morto, prima di concederne il corpo a Giuseppe d'Arimatea. Un servo di giustizia portava davanti a lui una tavoletta su cui era scritto il motivo della condanna (titulus), che poi veniva appeso alla croce. Talvolta il titulus veniva appeso al collo dello stesso condannato. Il corteo, così formato, s'incamminava verso il luogo dell'esecuzione, passando per le vie più frequentate, per dare risonanza alla condanna, così che servisse da monito a tutti32.

Ed è in questo frangente che Simone di Cirene viene fermato ed obbligato a portare il patibulum di Gesù. Una prassi questa che accadeva allorché il condannato, a motivo della flagellazione subita, veniva meno lungo la via. Ciò, dunque, lascia pensare che la flagellazione per Gesù fosse stata molto dura e l'avesse fiaccato più del dovuto, così che il centurione deve intervenire per evitare che Gesù muoia lungo la via, dandogli così un po' di sollievo.

L'inserimento di questo episodio trascurabile in sé, tuttavia così ricco di particolari, collocato proprio qui sulla via che porta Gesù al Calvario, mentre egli porta la sua croce, che Simone è chiamato a condividere con Gesù, lascia intravvedere come Marco voglia trasformare questo fatto in una parenesi, che richiama da vicino 8,34b: “Se qualcuno vuol seguire dietro di me, rifiuti se stesso e prenda la sua croce e mi segua”. Ma di quale croce Marco qui sta parlando ai suoi lettori? Probabilmente è la croce delle persecuzioni. E tale è non solo perché qui si parla della passione di Gesù, ma anche perché qui, questa, è una croce che Simone è costretto a subire e quindi allude in qualche modo ad un particolare contesto di costrizione per chi ha deciso di seguire Gesù, quello, appunto, delle persecuzioni. Simone diviene, pertanto, il parametro di raffronto del discepolo fedele, che segue Gesù sulla strada della croce e la condivide con lui. Significativo è lo stesso nome “Simone”, che in ebraico significa “colui che ascolta”33, che in qualche modo richiama le comunità credenti, formate da persone “che ascoltano” la Parola e sotto di essa e nel suo nome si sono costituite.


Seconda sezione: gli eventi del Golgota (vv.22-47)


Note generali

Questa seconda sezione va a completare la prima (vv.1-20) e ne rileva le conseguenze. La narrazione è sobria, essenziale, quasi telegrafica: ogni versetto descrive in modo conciso un evento, così che ogni evento, così riassunto, vada ad incidersi nell'animo del proprio lettore e gli risuoni dentro, così che l'attenzione del suo lettore si accentri su ciò che è essenziale e diventi oggetto della sua riflessione. Nulla vi è di eccessivo, ma soltanto una elencazione di eventi, scheletricamente esposti (vv.22-32), quasi a voler creare attorno ad essi il silenzio, lasciando che siano essi a parlare e a dare la loro prima testimonianza, che si fa kerigma, un annuncio della salvezza attraverso la testimonianza degli eventi che l'hanno prodotta. E i primi testimoni dell'accadere di questi eventi sono gli eventi stessi, che si offrono, così come essi sono, alla riflessione contemplativa del credente.

Vi è in questa sezione un crescendo continuo di drammaticità: si va dalla crocifissione di Gesù, descritta nella sua essenzialità, priva di un qualsiasi commento o dialogo (vv.22-28), per passare al dileggio da parte delle autorità giudaiche finalizzato a mettere in rilievo due elementi importanti: l'annuncio della risurrezione in quel tempio distrutto e ricostruito in tre giorni (vv.29-30) e l'attestazione della regalità messianica di Gesù (vv.31-32), per poi giungere ad una sempre più crescente drammaticità con la pericope vv.33-39, quella della morte di Gesù, dove si respira concitazione, agitazione, dramma fino allo spasmo finale della morte di Gesù, che crea nel centurione un'esplosione di luce, che prelude quello della risurrezione: “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio” (v.39), nel mentre che viene decretata la fine dell'antico culto giudaico in quel velo squarciato del Tempio (v.40), per il sopraggiungere di un nuovo culto incentrato su di un'unica Vittima e di cui l'antico culto era figura (Eb 9,11-15). Poi il sipario cala sul dramma del Golgota e tutto tace, tutto viene avvolto nel silenzio di un dramma ormai consumato e destinato a perdersi in una storia senza più attese. Sarà questo il clima che si respira nelle ultime due pericopi del cap.15 (vv.40-42.43-47).

Già da questo breve commento si comprende come questa seconda sezione del cap.15 (vv.22-47) sia composta da quattro quadri, il cui compito non è quello di raccontare la cronaca di questi tragici eventi, ma aiutare il lettore a comprendere il senso di tali eventi e questi in relazione alla salvezza e dai quali ogni credente viene interpellato.

Per cui si avrà:

Commento ai vv.22-47

Primo quadro: la crocifissione di Gesù (vv.22-28)


Testo

22- E lo portano nel luogo Golgota, che tradotto è Luogo del Cranio.
23- E gli danno vino mescolato con mirra; ma egli non (lo) rese.
24- E lo crocifiggono e spartiscono le sue vesti, gettando (la) sorte su quelle, (per vedere) che cosa prendesse ciascuno.
25- Era l'ora terza e lo crocifissero.
26- E c'era l'iscrizione del suo motivo (di condanna), (così) scritta: “Il re dei Giudei”.
27- E con lui crocifiggono due briganti, uno a destra e uno a(lla) sua sinistra.
28- [...]34


Note generali

La pericope è circoscritta da un'inclusione data per complementarietà d'azione: al v.22 si dice che Gesù è giunto sul Golgota, il luogo della crocifissione, mentre al v.27 si dice che Gesù è crocifisso assieme a due briganti. All'interno di queste due parentesi letterarie viene descritta, attraverso sei scene, la crocifissione di Gesù. Ogni scena si muove sullo sfondo di una citazione scritturistica o quanto meno la richiama in qualche modo, lasciando intendere che quanto qui sta avvenendo ha la sua origine in un preannunciato disegno divino finalizzato alla salvezza e che proprio qui, in questo accadere di cose, che hanno come protagonista unico il Gesù crocifisso, trova la sua realizzazione.

Vengono introdotti elementi escatologici ed apocalittici in quello scandire i tempi della morte di Gesù: l'ora terza, quella della crocifissione (v.25); l'ora sesta, quella del grande buio su tutta la terra, per lo spegnersi della Luce de mondo (Gv 9,5), che si estende fino all'ora nona (v.33); ed infine, l'ora nona, quella della morte di Gesù (vv.33.37). La scansione dei tempi è caratteristica dell'apocalittica. Si pensi ai sette sigilli, con cui è sigillato il Libro, simbolo della storia interamente scritta da Dio per gli uomini (Ap 5,1). Essi indicano i tempi in cui si compiono determinati eventi; alla mezzora di silenzio nel cielo, che segue l'apertura del settimo sigillo (Ap 8,1); ai tre giorni e mezzo in cui i corpi dei due Testimoni vennero esposti, ma che preludono alla loro risurrezione (Ap 11,9.11); ai mille anni con i quali si indica il tempo di Dio (Ap 20,2-7). La scansione dei tempi dice il ritmare la storia da parte di Dio, il luogo del compiersi della sua salvezza.

La morte di Gesù è racchiusa all'interno di questa scansione dei tempi e questo dice che in essa si sta compiendo un prestabilito disegno di salvezza, attraverso il quale ogni uomo viene interpellato e chiamato dare la sua risposta. Essa, pertanto, diviene anche il segno del giudizio divino posto sugli uomini., che di fronte a questo evento sono chiamati a prendere esistenzialmente posizione. Un evento, dunque, quello della morte di Gesù che assume tratti escatologici, quale ultimo evento di salvezza, ma che ha innescato nel contemporaneamente il tempo del giudizio.

L'esposizione degli eventi qui contenuti, pertanto, non va compresa come una cronaca della morte di Gesù, benché l'aspetto storico non manchi, ma come lettura teologica e cristologica di tali eventi.

La pericope è scandita in due parti: con la prima, vv.22-24, l'autore rivolge l'attenzione dei lettori esclusivamente su Gesù; la seconda parte, vv.25-27, riprende il tema della crocifissione di Gesù, che Marco presenta come la sua intronizzazione regale (v.26), che condivide con due malfattori (v.27), dando in tal modo una lettura del senso di quella croce, sia in rapporto a Gesù che in rapporto a coloro che sono associati alla sua sorte e la condividono, la quale cosa apparirà più evidente in Lc 23,39-43, dove i due ladroni rappresentano il contrapposto atteggiamento degli uomini di fronte al Mistero drammatico e inquietante del Crocifisso: chi lo bestemmia, cercando in lui soltanto un proprio tornaconto; e chi invece in Gesù intuisce il senso del suo morire e invoca da lui la salvezza eterna, ottenendola. Sarà, così, proprio la croce con il suo Crocifisso l'elemento discriminante dell'umanità. 1Cor 1,18 ricorderà proprio questo momento: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio”.

Commento ai vv.22-28

Dopo l'intermezzo del v.21, quello del Cireneo, paradigma del discepolo chiamato a seguire Gesù sulla via della sofferenza, condividendone la croce, il v.22 riprende le fila del racconto dal v.20b, dove Gesù è condotto fuori dal pretorio per essere condotto sul luogo della crocifissione: “E lo conducono fuori per crocifiggerlo […] E lo portano nel luogo Golgota, che tradotto è Luogo del Cranio” (vv.20b.22).

Il nome Golgota deriva dalla parola aramaica “gūlgūltā”, che tutti gli evangelisti si affrettano a tradurre con il termine “Cranio” con l'eccezione di Luca che si limita a chiamare il luogo della crocifissione “Cranio”, tralasciando quello ebraico (Lc 23,33); cosa comprensibile, scrivendo Luca alla sua comunità formata prevalentemente da greci ed ellenisti. E poiché il cranio è privo di capelli e, quindi, calvo, in latino veniva definito “Calvarius”, cioè luogo calvo, spoglio. Si trattava, infatti, di una piccola sporgenza rocciosa, che si elevava dal terreno circostante di pochi metri, posta a nord di Gerusalemme, appena fuori le mura. Un luogo quanto mai opportuno sia perché il condannato veniva esposto in bella vista a tutti; sia perché il luogo era a brevissima distanza da una porta della città, probabilmente quella significativamente detta “Giudiziaria”, posta a breve distanza dalla Torre Antonia e che immetteva direttamente sul Golgota. La porta da dove probabilmente è passato Gesù per accedere al luogo della crocifissione e proprio grazie a questa porta vi era grande affluenza di gente nei pressi del Golgota (Mt 27,39; Mc 15,29)35. Un luogo, dunque, strategico, bene in vista, così da servire da monito alla gente, posto fuori dalla città, forse in ottemperanza a Lv 24,14.23 e Nm 15,35.36, che prevedevano le esecuzioni capitali fuori dall'accampamento.

Il nome “Luogo del Cranio” fece nascere la leggenda, che proprio lì vi fosse sepolto Adamo, il capostipite dell'umanità. Sarebbe stato in questo caso un luogo sacro per il giudaismo e difficilmente Pilato lo avrebbe violato e profanato in quel modo, facendone un luogo di esecuzioni, senza scontare una qualche rivolta. Tuttavia, la ricchezza di dati con cui è descritto questo luogo, in particolare da Giovanni, fa pensare che la comunità giudeocristiana di Gerusalemme ne avesse conservato il ricordo, mentre degli apocrifi giudeocristiani indicarono, accanto al fatto che questa comunità avesse avuto il possesso della tomba vuota di Gesù, avesse anche scoperto, dopo il 70 d.C., lì nei dintorni del sepolcro vuoto di Gesù, anche quello di Adamo. Ma ciò non ci è dato di sapere. Tutto, dunque, rimane avvolto nel “si dice”36.

Il v.23 presenta la seconda scena: “E gli danno vino mescolato con mirra; ma egli non (lo) rese”. Il fatto è storicamente testimoniato e riportato dal Talmud Babilonese, Shanedrin 43a, che si rifà a Prv 31,6-7. Questo afferma che “Quando uno è condotto fuori per l'esecuzione, gli sia dato un calice di vino che contiene un grano di incenso puro, per rattrappire i suoi sensi. Per lui è scritto: “Si dia una bevanda inebriante a colui che sta per morire, e vino a chi ha l'amaro nell'anima” (Prv 31,6). Ed è stato insegnato anche: “Le donne nobili a Gerusalemme la donavano e la portavano”. Si trattava, dunque, di un'ottemperanza ad una disposizione del Talmud, che imponeva un gesto di pietà verso il condannato. Diversamente da Marco che qui parla di “vino mescolato con mirra”, Mt 27,34 parla di una bevanda di vino misto a fiele. La discordanza è probabilmente dovuta ad un adattamento letterario da parte di Matteo, che gli consentisse un'applicazione scritturistica all'assunzione di questa bevanda narcotizzante e analgesica: “Hanno messo nel mio cibo fiele e quando avevo sete mi hanno dato aceto” (Sal 69,22). Gesù tuttavia la rifiuta, poiché egli vuole bere fino in fondo l'amaro calice della sofferenza e della morte, nella coscienza della loro forza redentiva e, quindi, per attuare pienamente la volontà del Padre. Assumere una bevanda con effetti inebrianti, narcotizzanti e analgesici significava di fatto fuggire, anche se solo parzialmente, alla volontà del Padre; significava giocare d'astuzia all'interno di una missione redentiva e salvifica; significava che il dono di sé non sarebbe stato pieno e totale, ma qualcosa Gesù se l'era riservato per se stesso. Ecco, perché egli rifiutò anche questa piccola via di fuga.

Il v.24 presenta la terza scena: “E lo crocifiggono e spartiscono le sue vesti, gettando (la) sorte su quelle, (per vedere) che cosa prendesse ciascuno”.

Gli abiti del condannato costituivano, per consuetudine, una sorta di bottino per i soldati, che se li spartivano tra loro. Il comune vestiario dei giudei era formato da una tunica che copriva l'intero corpo e da un mantello37. Questi venivano sorteggiati dai soldati.

Il tema della crocifissione viene soltanto sfiorato da Marco, così come per Matteo, che da Marco dipende, liquidato con un semplice “lo crocifiggono”, reso quasi impercettibile al lettore disattento, accentrando invece la sua attenzione sul fatto che la soldataglia si era spartita le vesti di Gesù gettando la sorte su di esse. Episodio questo a cui dedica un maggiore spazio, mentre Giovanni vi dedica ben due versetti: “I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti e ne fecero quattro parti, una per ciascun soldato, e la tunica. Ora quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca. Così si adempiva la Scrittura: Si son divise tra loro le mie vesti e sulla mia tunica han gettato la sorte” (Gv 19,23-24).

Il motivo di tanto interesse da parte degli evangelisti viene testimoniato da Gv 19,24b, che vede nell'episodio la realizzazione scritturistica del Sal 22,19, posto in un contesto che richiama la crocifissione: “Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte” (Sal 22,17-19).

Il v.25 riprende il tema della crocifissione, annotando questa volta, come in una sorta di diario di bordo, l'ora: “Era l'ora terza e lo crocifissero”, cioè le nove del mattino. L'annotazione temporale, che proseguirà al v.33 con l'ora sesta e poi l'ora nona al v.34, scandisce il tempo del realizzarsi della morte redentrice di Gesù e, quindi, del realizzarsi del progetto di salvezza, che trova nella morte di Gesù il suo vertice, il momento in cui egli attirerà tutti a sé (Gv 12,32), associandoli a questa morte del vecchio Adamo (Rm 6,6-8), di cui Gesù ha assunto le vesti carnali (Fil 2,6-8), quelle profondamente segnate dal peccato, e in lui e con lui è morto definitivamente il vecchio Adamo. Significativa, in tal senso, è la leggenda che Gesù sia morto proprio sulla tomba del vecchio Adamo o, quanto dicono gli apocrifi giudeocristiani, nei paraggi della sua tomba. Si creerebbe in tal modo una sorta di inclusione tra i due Adamo, che abbraccia l'intera storia della salvezza, includendola tutta nel nuovo Adamo (Ef 1,9-10), che nella risurrezione rigenererà l'antica umanità adamitica per mezzo della fede e la Parola (1Pt 1,23), che ricolloca l'uomo in seno a quel Dio, da cui era drammaticamente uscito nei primordi dell'umanità.

Se la cristologia della morte di Gesù, alla quale è prevalentemente interessato Marco e con lui gli altri evangelisti, si sposa bene con lo scansione temporale, che segna il progredire del disegno di salvezza, da un punto di vista storico la cosa non quadra più. Se Gesù è stato crocifisso all'ora terza, cioè alle nove del mattino e consideriamo la tempistica con cui si svolgono tutti gli eventi narrati da Marco dall'inizio del cap.15, allorché “subito, di mattina, fatto un consiglio, i capi dei sacerdoti con gli anziani e gli scribi e l'intero sinedrio, incatenato Gesù, (lo) portarono via e (lo) consegnarono a Pilato” (v.1), con tutti gli eventi, poi, che si sono susseguiti fino a questo momento, risulta difficile credere che Gesù sia stato crocifisso alle nove del mattino. Più credibile, invece, quanto attesta Gv 19,14: Gesù, di venerdì verso l'ora sesta, cioè verso mezzogiorno, era ancora in mano a Pilato: “Ora, era la preparazione della pasqua38, era circa l'ora sesta. E dice ai Giudei: <<Ecco il vostro re>>”. Per Giovanni, dunque, Gesù, verso mezzogiorno di quel fatidico venerdì, viene presentato da Pilato ai Giudei come il loro re; mentre per Marco Gesù era già crocifisso da tre ore. Benché sia, da un punto di vista storico, più attendibile Giovanni che Marco, tuttavia va considerata qui l'esigenza di Giovanni, che nasce dalla sua prospettiva cristologica e che lo spinge a mettere in evidenza la regalità di Gesù, e lo fa in due modi: attraverso l'annotazione temporale che si era verso mezzogiorno, cioè il momento della giornata di maggiore luce, la quale cosa ha a che vedere in Giovanni con la rivelazione (4,6.52), entro la quale colloca la dichiarazione della regalità di Gesù, che avviene davanti alle folle dei Giudei. Quindi per Giovanni ci si trova qui in un momento solenne, che ha a che vedere con la rivelazione della natura di Gesù: egli è veramente il messianico “Re d'Israele”, che viene presentato da Pilato davanti al popolo: “Ecco il vostro re”.

La quale cosa non si scosta di molto da quanto Marco dice subito dopo al v.26: “E c'era l'iscrizione del suo motivo (di condanna), (così) scritta: “Il re dei Giudei” ”. Il titolo di “re dei Giudei” non è nuovo ed era già risuonato altre quattro volte prima di quest'ultima volta ai vv.2.9.12.18, ma qui acquista un suo significato particolare, poiché questo titolo fin qui annunciato verbalmente, trova ora la sua concretezza in quel cartiglio che viene posto sulla croce dove si trova Gesù. Il cartiglio scritto se, da un lato, dice il motivo della condanna, dall'altro, il fatto che sia scritto, assume il senso di una decretazione, che in Gv 19,22 diviene irrevocabile: “Rispose Pilato: <<Ciò che ho scritto, ho scritto>> ”. Gesù, dunque, è il “re dei Giudei”, un re che ora viene presentato assiso sul suo trono: la croce. Se, infatti, ai vv.16-19 si è avuta l'investitura regale di Gesù e il riconoscimento della sua regalità, ora Gesù, su quella croce, ha ricevuto la sua intronizzazione. Ed è in questa sua condizione di intronizzato, che gli verrà, infine, riconosciuto il messianismo regale: “il Cristo, il re d'Israele” (v.32).

La pericope dedicata alla crocifissione di Gesù (vv.22-27) termina con l'annotazione, presente in tutti quattro gli evangelisti, che Gesù viene crocifisso assieme a due briganti. È interessante annotare come nel racconto marciano della passione di Gesù vengano coinvolti lungo il cammino della sua sofferenza personaggi estranei alla suo entourage, ma che nonostante ciò sono chiamati, indipendentemente dalla loro condizione esistenziale, a condividere le sofferenze e la morte di Gesù; nessuno ne è escluso, come il Cireneo, che s'imbatte casualmente sul cammino verso il Golgota, con Gesù ed è chiamato a portarne la sua croce, forse, considerate le condizioni fisiche di Gesù, proveniente da una dura flagellazione (v.15b), fino sul luogo della crocifissione; e così questi due briganti di professione, loro malgrado sono chiamati a condividere gli stessi destini di croce e di morte di Gesù e con Gesù. Essi sono posti significativamente uno alla destra e uno alla sinistra di Gesù, che invece rimane al centro, cioè nel punto di convergenza verso cui l'intera umanità, segnata profondamente dal peccato, di cui i due briganti sono figura, è chiamata a confluire in lui (Gv 12,32). Lo farà uno dei due briganti del racconto lucano, mentre se ne discosterà l'altro (Lc 23,39-43). Un segno evidente come la croce sia un elemento di contrasto e di discriminazione, che si colloca in mezzo all'umanità deturpata dal peccato, quale elemento di riconciliazione e di giudizio per molti. Lo ricorderà proprio Lc 2,34, allorché il vecchio Simeone si rivolgerà a Maria profetizzando sul bambino: “Ecco questi è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e a segno contraddicente”.

Ma la nota dei due briganti crocifissi con Gesù, in tutti quattro gli evangelisti, ha un intento squisitamente scritturistico ed è finalizzata a dimostrare come anche in questo particolare si sta realizzando la Scrittura, ossia il piano salvifico del Padre, che si sta attuando in Gesù. Una nota che si richiama in qualche modo a Is 53,12: “E fu annoverato tra i malfattori”. Ma la citazione completa del versetto dà un senso più ampio e più completo a questo particolare qui richiamato, rendendo più evidente il senso del patire e del morire di Gesù, il senso della sua Croce: Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Una citazione, questa, che è tratta dal quarto canto del Servo di Jhwh (Is 52,13-53,12), che consente, su questo sfondo, di cogliere Gesù come il preannunciato Servo di Jhwh, che con la sua passione e morte non solo attua il disegno salvifico del Padre, ma rende nel contempo un servizio di redenzione e di salvezza a favore dell'intera umanità, traendola a sé (Gv 12,32) e riconsegnandola, trasformata e rigenerata nella fede e nella Parola, al Padre.

Secondo quadro: l'ultimo insulto del giudaismo al suo Messia regale (vv.29-32)

Testo

29- E quelli che passavano nei pressi lo bestemmiavano, agitando le loro teste e dicendo: <<Ehi, (tu) che distruggi il tempio e (lo) riedifichi in tre giorni,
30- Salva te stesso, scendendo dalla croce>>.
31- Similmente anche i capi dei sacerdoti, prendendosi gioco (di lui), l'un l'altro con gli scribi dicevano: <<Ha salvato altri, non può salvare se stesso;

32- il Cristo, il re d'Israele, scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo>>. Anche quelli crocifissi con lui lo ingiuriavano.


Note generali

I quattro versetti girano attorno a due attestazioni, riprese dal processo giudaico di Gesù: quella del tempio distrutto e ricostruito in tre giorni (14,58) e quella del messianismo divino di Gesù, colto su di uno sfondo escatologico ed apocalittico, nel dialogo tra Caifa e Gesù (14,61-62), ma che qui verrà elaborato come messianismo regale (v.32), correggendo così il cartiglio di condanna “Il re dei Giudei” in “il Cristo, il re d'Israele”. Entrambe vengono qui riproposte ed entrambe sottese dall'incredulità. Entrambe le citazioni, infatti, terminano con l'invito a “scendere dalla croce” (vv.30.32). Questa insistenza dello “scendere dalla croce” dice tutta l'inintelligenza del giudaismo nei confronti di Gesù, che già si era riscontrata in Pietro, il quale, a fronte dell'annuncio della passione e morte di Gesù (8,31), appena scoperto e proclamato messia (8,29), rifiuta un simile messianismo sofferente (8,32b), sempre pensato dal giudaismo in termini terreni di un messia politico e religioso vincente, capace di scacciare l'invasore romano e ripristinare il regno di Israele nella sua gloria insieme ad un culto rinnovato. Il sollecito, quindi, a “scendere dalla croce” dice questo voler dissociare il messianismo di Gesù dalla sofferenza e dalla morte, inconcepibile per il giudaismo. Un modo di pensare il messianismo questo in totale dissonanza con quello di Gesù, che stigmatizza un simile modo di pensare, definendolo umano e in contrasto con il disegno di Dio: “Vai dietro di me, satana, poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini” (8,33b), indicando il nuovo cammino della della sequela e del discepolato, tracciato sulla via della croce e non in dissociazione da questa (8,34).

Ci troviamo di fronte, qui, ad una incredulità che nel processo giudaico si era fatta rifiuto, mentre qui si trasforma in insulti, nei quali è coinvolto l'intero giudaismo. Vengono, infatti, qui presentate due tipologie di personaggi, che richiamano le due categorie sociali che componevano la città di Gerusalemme: “quelli che passavano di là” (v.29a) e, quindi, in questa genericità sono ricompresi tutti gli abitanti di Gerusalemme; e i capi dei sacerdoti e gli scribi (v.31), cioè i rappresentanti civili e religiosi del popolo. L'intero Israele, è qui, dunque, rappresentato davanti al Golgota e coinvolto nel suo rifiuto di Gesù, quale Messia regale. È significativo, infatti, come le due scene, qui riprese da Marco, siano poste ai piedi del Golgota fuori dalla città, ma di fronte ad essa, che in qualche modo è chiamata ad essere testimone della colpevolezza di questi suoi figli, così che su di lei cadrà giudizio della doppia distruzione, quella del 70 e del 135 d.C., ponendo fine sia a Gerusalemme, che al Tempio, al suo culto e al suo sacerdozio. Un giudizio che in qualche modo il Gesù matteano aveva preannunciato nel suo lamento su Gerusalemme: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta!” (Mt 23,37-38).

Entrambe le coppie di versetti, vv.29-30 e 31-32 si muovono ancora una volta su di uno sfondo scritturistico39, quasi a voler dire che anche il rifiuto di Israele in qualche modo era stato previsto da Dio e rientrava nel suo disegno. E sarà proprio questo, infatti, che terrà impegnato Paolo nei capp. 9-11 della sua lettera ai Romani, in una tormentosa e sofferta ricerca del senso e del motivo che hanno spinto il suo popolo a rifiutare il Messia inviatogli ed atteso; un Paolo che non sa capacitarsi di questo rifiuto da parte del suo popolo e va alla ricerca di una giustificazione teologica, facendola rientrare in un più ampio disegno divino di salvezza, poiché grazie al rifiuto di Israele, il messaggio di salvezza è stato esteso a tutto i mondo pagano (Rm 11,11-12.15a.17).

Commenti ai vv. 29-32

Il v.29 si apre presentando dei nuovi ed anonimi personaggi, definiti come “quelli che passavano nei pressi”. Sono giudei in genere, che uscendo dalla porta Giudiziaria o dalla porta di Gennath (dei Giardini) si immettevano direttamente sulla grande arteria che portava a Giaffa e che passava nei pressi del Golgota. Una strada di grande afflusso e che quel “passavano”, posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, che potremmo tradurre con “continuavano a passare”, sembra confermare. L'anonimato di questi giudei dice come lì, sotto la croce, c'era, di fatto, l'intero giudaismo, che si rapportava in modo irriverente ed offensivo nei confronti di Gesù, scuotendo la testa, quale gesto di scherno. Il verbo “™blasf»moun” (eblasfémun), in questo caso, non va inteso come vera e propria bestemmia, il suo senso, che verrà poi precisato al v.31, è quello di proferire parole irriverenti contro qualcuno, diffamare, screditare qualcuno. Tuttavia, non va totalmente o necessariamente escluso anche l'altro senso proprio di bestemmia, che Marco ha probabilmente lasciato libero il suo lettore di comprendere, cioè quello di proferire parole o tenere atteggiamenti ingiuriosi contro Dio, lasciando così intendere come quel uomo lì crocifisso fosse Dio o quanto meno appartenesse all'alea divina, come attesterà, poi, solennemente il centurione (v.39) e come già si era ben compreso durante il processo giudaico dalle stesse parole di Caifa e dalla risposta di Gesù (14,61b-62), a cui fanno riferimento il motteggio di questi giudei: “Ehi, (tu) che distruggi il tempio e (lo) riedifichi in tre giorni”. Già lo si è detto come questa espressione fosse sottesa da pretese messianiche, ma riportata qui, ormai a ridosso della risurrezione, essa assume una diversa accentuazione, che prelude alla risurrezione di Gesù. In tal senso, infatti, viene interpretata da Gv 2,21, proprio nel contesto dell'affermazione di Gesù, ritorta poi contro di lui (2,19-20): “Ma egli parlava del tempio del suo corpo”.

Il primo scherno si chiude con una sfida, che in realtà è una sorta di richiesta di un segno che attestasse la veridicità della sua affermazione, la quale cosa apparirà più esplicita al v.32: “Salva te stesso, scendendo dalla croce”. Questa è la prova richiesta: salvarsi rifuggendo dalla croce. Una richiesta inaccettabile, poiché questo avrebbe contrapposto Gesù al Padre e al suo disegno di salvezza, che metteva in conto la croce come via di salvezza. Un'idea che Gesù aveva già esorcizzato in Pietro: “Vai dietro di me, satana, poiché tu non pensi le cose di Dio ma quelle degli uomini” (8,33b). Non vi è, dunque, salvezza senza la croce. È necessario, pertanto, mettersi nelle logiche di Dio e non in quelle degli uomini. 1Cor 1,18 evidenzierà proprio questo aspetto: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio”. Poiché è proprio attraverso lo scandalo della croce, che cozza contro le logiche umane, che Dio opera la sua salvezza, costringendo il credente a smettere di pensare come un uomo per aprirsi alla potente debolezza di Dio.

I vv.31-32 presentano l'altra classe sociale, quella dei capi dei sacerdoti e quella dei dottori della legge, gli scribi. Le autorità, dunque, civili e religiose di Israele, che si uniscono al resto del popolo, “quelli che passavano nei pressi” del Golgota. È, dunque, l'intero popolo giudaico, che si ritrova qui riunito ai piedi del suo Messia e lo rifiuta, così che Gv 1,11 attesterà, non senza una certa amarezza e stupore che “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto”.

Anche qui, in termini più espliciti e secondo le logiche caratteristiche del giudaismo, sempre alla ricerca di segni e portenti per credere (1Cor 1,22-23), viene richiesta una prova per attestare il messianismo regale di Gesù: “scenda ora dalla croce, affinché vediamo e crediamo”. Anche qui la prova che viene richiesta a Gesù è “lo scendere dalla croce”, cioè, ancora una volta, come già avvenne per Pietro (8,32b), lo slegare il suo messianismo regale dalla croce, per sposare le attese messianiche non del Padre, ma del giudaismo, sul quale Gesù, richiamandosi a Is 29,13, aveva già espresso la sua condanna: “Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (7,7).

Il tema centrale in questa seconda parte del quadro non è più la nascita di un nuovo Tempio, costruito non più da mano d'uomo, con cui Gesù alludeva alla sua risurrezione e ad un nuovo culto spirituale (Gv 4,20-24), ma il suo messianismo regale: “il Cristo, il re d'Israele”. Fino a questo momento si era sempre parlato, per ben cinque volte, di Gesù quale “re dei Giudei”, relegando la sua regalità ad un pericoloso parametro storico e tale era stato decretato definitivamente sul cartiglio posto sulla croce, divenuto il trono di questo nuovo re. Ora, Marco, rettifica il tiro e lo fa dire ai capi dei sacerdoti e ai dottori della legge, quelli che della promessa dovevano essere i depositari e la memoria del popolo: “il Cristo, il re d'Israele”, richiamandosi in tal modo alla promessa del messianismo davidico: “Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio. [...] La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (1Sam 7,13-14a.16; 1Cr 17,11-14). Gesù, dunque, intronizzato sul suo trono viene riconosciuto e proclamato dalle autorità giudaiche, loro malgrado, l'atteso Messia regale di discendenza davidica. In lui si è attuata la promessa fatta a Davide. Una regalità non insignita da segni regali umani, ma posta sotto l'insegna della croce e della sconfitta, perché apparisse più chiaro il disegno di Dio, che non persegue i ragionamenti umani, ma si muove secondo le logiche proprie della potenza divina, il cui senso era stato svelato dai Profeti e richiamato da 1Cor 1,22-25: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. La croce, quindi, diviene l'elemento discriminante tra chi crede e non ha bisogno di ragionamenti e di prove; e chi non crede per il quale ogni ragionamento e ogni prova è inutile, poiché la fede non è mai la conclusione di un bel ragionamento o di una prova provata, ma una luce che ti illumina dentro, se sei disponibile lasciarti illuminare.


Terzo quadro: la morte di Gesù pone fine all'antico culto e apre al mondo pagano (vv.33-39)


Testo a lettura facilitata

Preludio alla Luce che sta per spegnersi (v.33)

33- E venuta (l')ora sesta si fece buio su tutta la terra fino (all')ora nona.

L'Elia escatologico preannuncia la morte del Giusto sofferente (vv.34-36)

34- E all'ora nona Gesù gridò a gran voce: <<Eloì, Eloì, lammà sabachtàni?>>, che tradotto è: “Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
35- E alcuni dei presenti, udito (ciò), dicevano: <<Vedi, chiama Elia>>.
36- Ma uno, corso e riempita una spugna di aceto, messa attorno ad una canna, gli dava da bere dicendo: <<Lasciate, vediamo se viene Elia a farlo scendere>>.

Gesù muore (v.37)

37- Ma Gesù, emettendo un grande grido, spirò.

Le conseguenze della morte di Gesù: fine del culto antico e disvelamento della sua divinità (vv.38-39)

38- E il velo del tempio fu squarciato in due, dall'alto fino in basso.
39- Vedendo il centurione che stava (lì) accanto di fronte a lui, che così spirò, disse: <<Veramente quest'uomo era Figlio di Dio>>.


Note generali

La morte di Gesù in croce è un evento storicamente ormai assodato. Ma come leggere questo evento così drammatico e come collocarlo nella storia e, quindi, quale senso attribuire storicamente alla morte di Gesù? Marco, il primo a scrivere un vangelo, qui ci prova e la inquadra in un contesto escatologico (vv.33.38) ed apocalittico (v.39) nel contempo. Un evento che innesca nella storia un processo di giudizio universale (v.33), nel senso che ogni singola persona è chiamata a prendere posizione di fronte a questa morte di croce e in base alla sua scelta essa subirà una discriminazione in senso positivo o negativo. Di fronte a questa morte non può esserci l'indifferenza o il menefreghismo, poiché è una morte che interpella ogni essere vivente, che in essa è coinvolto, suo malgrado, e non può eluderla, poiché c'è, è lì e ognuno deve fare i conti con essa e dare esistenzialmente una risposta, deve prendere una posizione. E, tuttavia, non la si può ignorare o semplicemente dire “non m'interessa”, poiché questo non evita un giudizio di condanna: “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,6). Proprio per questo la morte di Gesù e la sua risurrezione, così come l'evento Gesù, divengono eventi discriminanti, che s'impongono ad ogni uomo e ad ogni uomo impongono una scelta esistenziale: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23).

Ed è entro tale conteso che Marco colloca e interpreta il morire di Gesù. L'intera pericope si muove su di uno sfondo scritturistico (vv.34.36a) in un forte contesto escatologico ed apocalittico, dato dal buio che avvolge la terra e che in qualche modo preannuncia lo spegnersi della Luce del mondo (Gv 9,5; 12,35-36.46); la presenza di Elia, qui colto in veste escatologica (vv.35-36); il grido di morte di Gesù (v.37), lo squarciarsi del velo del Tempio (v.38) e, infine, il disvelarsi di Gesù quale Figlio di Dio al mondo pagano (v.39), preannunciando in questo la sua risurrezione, dove, ricorda Rm 1,4, Gesù fu “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”.

La pericope, vv.33-39, sviluppa il suo racconto in quattro parti:

All'interno di questa dinamica narrativa si annodano tra loro due inclusioni, che danno il tono all'intera pericope vv.33-39. La prima inclusione è data dai vv.33.38.39, che hanno in comune tra loro i tratti propri del linguaggio escatologico e apocalittico. Essi formano la cornice di un altro quadro, che includono in loro, quello determinato, a sua volta, dall'inclusione data dai vv.34-37 in cui si colloca la stessa espressione “fwnÍ meg£lV” (fonê magále, con grande voce), che si trova ai vv.34.37. Ciò che avviene, pertanto, all'interno di questa seconda pericope, incorniciata dai vv.33.38.39 dai toni escatologico-apocalittici, si muove all'interno di questi peculiari tratti e al loro interno va compresa.


Commento ai vv. 33-39

Il v.33 si apre con una nota temporale che si aggancia a quella del v.25 (ora terza) e preannuncia quella del v.34 (ora nona). Ci si trova di fronte ad una eguale scansione del tempo, ogni tre ore viene rilevato un evento; un tre che dice il lento e dinamico progredire di un disegno di salvezza: l'ora terza Gesù è crocifisso (v.25); l'ora sesta si oscura il sole e il buio scende su tutta la terra, preannunciando lo spegnersi della Luce del mondo (v.33); l'ora nona Gesù muore; l'ora dodicesima, che viene implicitamente menzionata al v.42: “Ed essendosi fatta sera”, è l'ora della sepoltura (v.46), l'ora in cui la Luce, spentasi completamente, lascia avvolta la terra nel buio più completo nell'attesa di una inattesa nuova Luce, di un nuovo Giorno, quello di una nuova Creazione.

È dunque giunta l'ora sesta, il tempo che preannuncia un compimento e che richiama in qualche modo il sesto e ultimo giorno della creazione, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno. Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere” (Gen 1,31-2,1). Con il sesto giorno, quindi, fu portata a termine la creazione, la prima creazione, quella vecchia, quella profondamente segnata dalla corruzione del peccato, quella creazione di cui Rm 8,19-21 attesta “che attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”. Il buio della sesta ora dice che il tempo della vecchia creazione è giunto al termine e si sta preparando una nuova creazione, in gestazione nel silenzio di quel settimo giorno, in cui “Dio portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro”. Un lavoro, un progetto che Dio portò a termine con la morte e la sepoltura di suo Figlio (Col 1,16b). Il settimo giorno, dunque, quello del compimento definitivo, quello di cui il Gesù giovanneo attestò: “Tetšlestai” (Tetélestai), “È compiuto”, con cui Gesù ha posto fine alla vecchia creazione, compiendo lì con la sua morte di croce il disegno del Padre: il vecchio Adamo, che Gesù ha assunto su di sé con l'incarnazione (Fil 2,7-8) e che ha vissuto nella fedeltà al Padre, viene definitivamente distrutto sulla croce. Con la morte di Gesù muore definitivamente il vecchio Adamo (Rm 6,6).

E giunta, dunque, l'ora sesta si fece buio su tutta la terra, che non solo prelude allo spegnersi della Luce del mondo, non solo dice che su questa vecchia creazione sta calando il buio della sua fine, ma dice anche che in quel buio sta per accendersi un nuovo Fuoco, quello di una Nuova Alleanza: “Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un forno fumante e una fiaccola ardente passarono in mezzo agli animali divisi. In quel giorno il Signore concluse questa alleanza con Abramo: << Alla tua discendenza io do questo paese dal fiume d'Egitto al grande fiume, il fiume Eufrate>>” (Gen 15,17-18). Ecco, dunque, che nel buio di quella sesta ora si sta preannunciando anche un'alleanza, prefigurata in qualche modo da quella antica tra Dio e Abramo; un'alleanza che Dio non stipulerà con il vecchio Abramo, capostipite del vecchio Israele, ma con il nuovo Abramo, capostipite del nuovo Israele; un'alleanza che verrà stabilita attraverso il fuoco della morte-risurrezione di Gesù, che ha bruciato il Vecchio, spentosi nel buio di quella sesta ora, per inaugurare nel nuovo Fuoco dello Spirito una Nuova Alleanza, un nuovo rapporto tra Dio e l'uomo; un'Alleanza che dice, in Cristo, per Cristo e con Cristo, “Pace fatta tra Dio e l'uomo” (Gv 14,27; 20,19), realizzando in tal modo l'antico disegno del Padre (Ef 1,4), quello di “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10).

Un buio, quello della sesta ora, in cui riecheggia in qualche modo Am 8,9-10: “In quel giorno - oracolo del Signore Dio - farò tramontare il sole a mezzodì e oscurerò la terra in pieno giorno! Cambierò le vostre feste in lutto e tutti i vostri canti in lamento: farò vestire ad ogni fianco il sacco, renderò calva ogni testa: ne farò come un lutto per un figlio unico e la sua fine sarà come un giorno d'amarezza”. Un'ora, quindi, in cui si sta per manifestare il giudizio divino posto su tutta la terra. È questo il giorno del Signore, il tempo in cui ognuno è chiamato a prendere posizione, suo malgrado, di fronte a questo evento, che ha una portata cosmica (Gv 12,32) e che in dipendenza dalla risposta esistenziale, che verrà data da ogni singola persona, da ogni singola società e nazione, si produrrà, in base a quella risposta, una discriminazione in senso positivo o negativo. Pertanto, si è inaugurato, con la morte di Gesù, il tempo escatologico, l'ultimo tempo, non più quello delle attese o della misericordia, poiché tutto quello che Dio doveva fare per l'uomo, lo ha fatto per mezzo di suo Figlio incarnato-morto-risorto. Ora spetta all'uomo prendere la sua decisione esistenziale di fronte all'evento Gesù, alla sua morte e risurrezione. Questo escatologico, dunque, è il tempo riservato alle decisioni dell'uomo, e la sua risposta, qualsiasi essa sia, sarà per lui sempre discriminante e determinante. Di conseguenza, questo tempo escatologico diviene anche il tempo del giudizio di Dio sull'uomo.

Il v.34 si apre con un'altra nota temporale che scandisce il tempo dell'attuarsi del piano di salvezza nella morte di Gesù. Una morte, dunque, che va letta e compresa non come una sconfitta, ma come una vittoria di Dio sul potere di satana, l'antico serpente, poiché in quella morte lì è stata distrutta la prima creazione, corrotta dalla colpa originale. E in quest'ora nona, il punto culminante di questo disegno di salvezza, che “Gesù gridò a gran voce”. Un grido che ne prelude un altro, quello della sua morte (v.37), fine dell'antica creazione, che ne preannuncia una nuova, rigenerata e ricollocata nella luce della risurrezione, così come la prima creazione fu collocata nella luce della vita divina in quel comando primordiale, posto al suo inizio : “Sia la luce!” (Gen 1.3a).

Questo primo grido di Gesù non è inarticolato come il secondo (v.37), ma è configurato dall'apertura del Salmo 22, che funge in qualche modo da titolo al salmo stesso e in un certo qual senso lo richiama totalmente. Un salmo su cui gli evangelisti, Marco per primo, hanno redatto le linee fondamentali del loro racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù. Un salmo dove si parla di un uomo schiacciato e distrutto dal dolore e dagli insulti dei suoi avversari, ma che si conclude non nella disperazione di una morte senza fine, ma in un grido di speranza, di gioia e di esultanza per la salvezza che gli viene dal suo Dio, che “al suo grido d'aiuto, lo ha esaudito” (Sal 22,2b), così che “io vivrò per lui, lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: <<Ecco l'opera del Signore!>>” (Sal 22,30b-32). Viene in tal modo introdotta qui da Marco una chiave di lettura della sofferenza e della morte di Gesù, destinata a generarsi in vita, da cui nascerà la Vita per tutti, dove in quel “tutti” si ravvisa la “mia discendenza”, la “generazione che viene”, il “popolo che nascerà”, aprendo così ad una nuova prospettiva, quella della Chiesa stessa, “discendenza” del Gesù morto-risorto, la nuova “generazione che viene” dopo di lui, il “popolo che nascerà” dalla sua Parola rigeneratrice (1Pt 1,23) e chiamato a testimoniare e celebrare “l'opera del Signore”, che si celebra e si attesta nel Risorto.

Il Gesù marciano, a differenza di quello lucano e giovanneo, si richiama all'intonazione del Sal 22: “Eloì, Eloì, lammà sabachtàni?”. Il richiamo non ha soltanto la finalità di fornire una chiave di lettura del Crocefisso Risorto (16,6) e degli effetti della sua morte-risurrezione, come s'è visto qui sopra, ma l'autore ricorre al v.1 di questo salmo per introdurre, attraverso un'assonanza, che genera un travisamento, il personaggio di Elia in questo contesto escatologico-apocalittico in riferimento a Gesù, ma nel contempo associandolo a lui.

L'espressione viene riportata da Marco in aramaico, anche se quel “Eloì” non lo è, perché dovrebbe essere Elahî. Ma ciò che qui importa all'autore non è la correttezza del nome, ma che il suono di quel “Eloì” o “Elahî”, che sia, richiami in qualche modo il nome di Elia (in ebr. 'Ēliyyāhū o, in forma abbreviata, 'Ēliyyā, che significa “Jhwh è il mio Dio”). E il richiamo ad Elia viene evidenziato al v.35, così che, ora, l'attenzione del lettore è incentrato su questo nuovo personaggio, introdotto a sorpresa nel contesto del Gesù morente sulla croce. Un personaggio che più volte era già comparso nel racconto marciano in vari e diversi contesti, come in 8,28 dove la gente (si tenga presente questo particolare) vede in Gesù l'Elia escatologico; o in 9,4.5 nel contesto del racconto della Trasfigurazione, in stretto dialogo con Gesù; o in 9,11-13 dove la figura di Elia viene colta come il precursore del messia, in riferimento a Ml 3,23, e che Gesù vede realizzato nel Battista, benché il Battista giovanneo neghi di essere lui l'Elia atteso (Gv 1,21.25), lasciando intendere che un altro è il vero Elia, cioè Gesù.

L'introduzione di Elia in questo contesto ha un duplice scopo: da un lato, preannunciare la morte di Gesù, perché Elia, secondo la tradizione giudaica era invocato come il protettore delle persone in grave pericolo di vita o dei morenti. Ma non è pensabile, tuttavia, che qui Marco abbia elaborato questo passaggio, in un momento così altamente drammatico e solenne della morte d Gesù, spendendo ben quattro versetti, 33-36, facendo travisare il nome Eloì con quello di Elia, solo per consentire l'ennesimo dileggio nei confronti di Gesù: “Lasciate, vediamo se viene Elia a farlo scendere” o per preannunciarne la morte, che comunque viene annunciata al v.37; dall'altro, la particolare cura e attenzione con cui Marco introduce questo personaggio, mettendolo in stretta relazione con Gesù e in qualche modo associandolo a lui, evidenziando la sua peculiarità di salvatore (v.36) e di precursore escatologico del Messia, in questo caso del Gesù morente, sembra voler invitare il lettore a comprendere la morte del Messia morente quale morte di una salvezza escatologica, cioè ultima e definitiva, e, quindi, una sorta di ultimo appello alla conversione. Un aspetto questo che verrà messo in evidenza in At 2,36-38, dove Pietro, dopo aver messo in rilievo la potenza salvatrice del Gesù morto e risorto, fa un appello alla conversione: “<<Sappia dunque con certezza tutta la casa di Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!>>. All'udir tutto questo si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: <<Che cosa dobbiamo fare, fratelli?>>. E Pietro disse: <<Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo riceverete il dono dello Spirito Santo>>”.

Alla sottolineatura da parte di alcuni presenti, che interpretano quel Eloì come una invocazione ad Elia (v.35), il v.36 presenta la scena di “uno” che corre ad inzuppare una spugna in una bevanda acidula, per porla sulle labbra di Gesù, richiamando implicitamente il compimento scritturistico del Sal 69,22: “Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto”. Chi compie questo gesto, tuttavia, è sicuramente un soldato romano, sia perché la bevanda acida era probabilmente la posca, cioè una bevanda diffusa presso i soldati romani, a base di acqua e aceto con proprietà sia dissetanti che disinfettanti; e sia perché vicino alla croce del condannato non potevano avvicinarsi i civili, che dovevano rimanere a debita distanza (v.40a). Ciò premesso sembra che qui Marco sia incorso in una incongruenza perché nessun soldato romano avrebbe esordito con il sollecito: “Lasciate, vediamo se viene Elia a farlo scendere”, non essendo a conoscenza di chi fosse questo Elia né della sua funzione all'interno della tradizione giudaica. Mt 27,49, che da Marco dipende, probabilmente accortosi di questa incongruenza, attribuisce la frase a chi aveva interpretato l'espressione aramaica di Gesù, che certamente doveva essere un giudeo. È da chiedersi, tuttavia, se si tratta di una svista da parte di Marco o se, invece, l'evangelista abbia voluto in qualche modo presentare qui sotto la croce quel particolare mondo dei pagani che gli ebrei definivano i “timorati di Dio”, cioè persone non circoncise, ma favorevoli al mondo ebraico e che in qualche modo apprezzavano e praticavano il loro culto di Dio. Personaggi questi che preludevano ai nuovi credenti, come il centurione che, anche lui sotto la croce, ha fatto la sua professione di fede in Gesù, riconosciuto quale Figlio di Dio (v.39).

Preparato dai vv.33-36 e in questi incorniciato, il v.37 attesta la morte di Gesù: “Ma Gesù, emettendo un grande grido, spirò”. Se da un punto di vista storico questo grido inarticolato esprime l'acme del dolore e l'ultimo spasmo di una vita straziata, da un punto di vista cristologico, esso va compreso all'interno del contesto escatologico ed apocalittico, che Marco ha creato attorno alla morte di Gesù. È un grido che esplode nel buio cosmico che avvolge “tutta la terra” (v.33), quel buio caotico che precedeva la prima creazione, allorché “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1,2); un grido che annuncia come l'intera vecchia creazione adamitica, corrotta dal peccato sia morta in e con Gesù (Rm 6,6), rivestito di una carne di peccato, il quale aveva annunciato che, elevato sulla croce in vista della risurrezione40, avrebbe incluso tutto e tutti a se stesso (Gv 12,32-33). Un grido che risuona come una sorta di big-bang primordiale, il punto zero da cui si è dipartita, sulle ceneri della vecchia creazione, una nuova creazione, che nascerà all'interno della luce della risurrezione, così come la prima creazione è nata all'interno della Luce di Dio e avvolta in essa (Gen 1,3), così che l'agiografo attesterà: “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a), così che Dio si rispecchiava in essa (Rm 1,20). Tutto, dunque, era incandescente di Dio. E tutto ora lo sarà nuovamente, perché proprio nella sua morte-risurrezione Gesù, il Crocifisso-Risorto, riconsegnerà al Padre tutte le cose, nuovamente e definitivamente rigenerate in lui (1Cor 15,26-28), secondo il disegno prestabilito ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4) “per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,10).

Le conseguenze di questa morte, avvenuta su di uno sfondo escatologico ed apocalittico, si ritrovano ora descritti ai vv.38.39: da un lato il velo del tempio viene squarciato da cima a fondo; dall'altro il centurione, figura del mondo pagano, riconosce e proclama in Gesù morente la sua figliolanza divina. Due eventi interconnessi tra di loro, il primo in funzione del secondo.

Il velo del tempio era un drappo che separava il Santo, luogo riservato ai sacerdoti dove si compivano i sacrifici, e il Santo dei Santi, il cuore del Tempio di Gerusalemme, il luogo più sacro in assoluto, dove si trovava l'arca dell'alleanza, su cui dimorava la presenza di Dio e dove il sommo sacerdote vi entrava una sola volta all'anno, nello Yom Kippur, il giorno dell'espiazione, per impetrare il perdono dei propri peccati e per quello del popolo (Eb 9,6-7).

Di questo velo ne parla Es 26,31-33, che lo istituisce: “Farai il velo di porpora viola, di porpora rossa, di scarlatto e di bisso ritorto. Lo si farà con figure di cherubini, lavoro di disegnatore. Lo appenderai a quattro colonne di acacia, rivestite d'oro, con uncini d'oro e poggiate su quattro basi d'argento. Collocherai il velo sotto le fibbie e là, nell'interno oltre il velo, introdurrai l'arca della Testimonianza. Il velo sarà per voi la separazione tra il Santo e il Santo dei santi

Es 35,12 ne parla come un velo che nasconde: “l'arca e le sue stanghe, il coperchio e il velo che lo nasconde”, mentre Nm 4,5 definisce il velo come ciò che copre l'arca dell'alleanza, allorché il campo degli Israeliti si doveva muovere.

Il velo, dunque, aveva la funzione di separare, di nascondere e di coprire. Ma la morte di Gesù pone fine a tutto questo in modo definitivo e irreversibile: uno squarcio, infatti, si produce “dall'alto fino in basso”. Con la morte di Gesù, pertanto, si apre una nuova era e un nuovo modo di porsi davanti a Dio, un nuovo modo di relazionarsi con Lui e Lui con noi, e un nuovo modo di rendergli culto. Il Dio di Israele, ora, non solo non è più separato dagli uomini, ma non è più nascosto davanti a loro, poiché Egli si è manifestato nella persona di suo Figlio, rivelazione del Padre (Gv 14,9-11). Quel velo fatto di leggi e prescrizioni, che separavano i giudei dai non giudei ora è stato distrutto nel corpo di Gesù, così che dei due egli ha fatto un solo popolo nuovo (Ef 2,14-16), costituito in sé, per rendere un nuovo culto a Dio, non più fatto di sacrifici o incensi, ma celebrato nel tempio del proprio cuore e della propria vita (Gv 4,21-24), trasformata in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento, in cui ognuno diviene sacerdote di se stesso e per gli altri, per offrire a Dio un culto spirituale a Lui gradito (Rm 12,1).

La distruzione di questo velo apre, pertanto, il culto a Dio non solo ai giudei, ma a tutti gli uomini, a qualunque popolo essi appartengano, come in qualche modo preannunciava Gesù nella sua azione profetica della purificazione del tempio in 11,17, richiamandosi ad Is 56,7: “E insegnava e diceva loro: <<Non è scritto che la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli? Voi, invece, l'avete fatta una spelonca di ladri>>”.

Il v.38, pertanto, costituisce la premessa al v.39, dove “Vedendo il centurione che stava (lì) accanto di fronte a lui, che così spirò, disse: <<Veramente quest'uomo era Figlio di Dio”. Il v.39 è, pertanto, la conseguenza di quello squarcio avvenuto nel velo del Tempio, che separava e copriva l'arca dell'alleanza, lasciando così trasparire a tutti la presenza di Dio in mezzo agli uomini. Similmente a quel velo squarciato, anche il velo del corpo di Gesù, che copriva la sua divinità (Fil 2,6-8), ora squarciato sulla croce dalla morte, lascia trasparire la sua divinità, alla quale ora tutti possono accedere, giudei come pagani, accomunati assieme, quale nuovo popolo d'Israele, in un unico culto all'unico Dio (Gal 3,26-29; Col 3,9-11). Non è un caso che proprio nel momento della morte di Gesù, nel momento in cui il velo del suo corpo si è squarciato, egli contempli la sua divinità: “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio”.

Quarto quadro: la sepoltura di Gesù e gli eventi concomitanti (vv.40-47)

Testo a lettura facilitata

Le testimoni degli eventi del Golgota e discepole fedeli di Gesù, figura della chiesa nascente (vv.40-41)

40- Ora, vi erano anche delle donne che osservavano da lontano, tra le quali anche Maria Maddalena e Maria madre di Giacomo il minore e di Giuseppe e Salome,
41- le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.

La dodicesima ora (v.42)

42- Ed essendosi già fatta sera, poiché era parasceve, cioè (la) vigilia del sabato,

L'atto di pietà e l'assordante silenzio della tomba (vv.43-46)

43- venuto Giuseppe, [quello] da Arimatea, ragguardevole membro del Consiglio, il quale anche lui aspettava il Regno di Dio, fattosi coraggio, entrò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
44- Ma Pilato si meravigliò che fosse già morto e, mandato a chiamare il centurione, lo interrogò se fosse morto da tempo.
45- E saputo(lo) dal centurione, donò il corpo a Giuseppe.
46- E comperato un lenzuolo, tirato(lo) giù (dalla croce), lo avvolse con il lenzuolo e lo depose in una tomba, che era stata intagliata nella pietra e rotolò una pietra sulla porta della tomba.

La memoria della chiesa nascente (v.47)

47- Ora, Maria Maddalena e Maria la (madre) di Giuseppe osservavano dove era stato deposto.

Note generali

Gli eventi del Golgota si sono chiusi con la morte di Gesù (v.37), le cui conseguenze vengono abbozzate ai vv.38.39: fine dell'antico culto giudaico, che si apre ora ad un nuovo culto, non più fatto di sacrifici e incensi, e gravato da leggi e decreti, che limitano e separano il Dio d'Israele dal resto del mondo, facendo di quel Dio una esclusiva proprietà dei Giudei, ma un nuovo culto che abbraccia l'intera umanità, giudaica e non giudaica, e che fa dei due un unico e nuovo popolo raccolto sotto l'egida del Crocifisso Risorto (Ef 2,13-18.22); un culto spirituale celebrato nell'intimità del proprio cuore e tale da trasformare la propria vita in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento (Gv 4,21-25; Rm 12,1). Dunque i vv.38.39 divengono i presupposti di questo nuovo culto e preludono in qualche modo al costituirsi di un nuovo Israele, non più caratterizzato dalla circoncisione, ma dalla fede nel Risorto; non più sotto il giogo della Legge, ma rigenerato e animato dalla sua Parola, che è Vita nello Spirito Santo.

Ora i vv.40-47 presentano il nucleo fondante e fondativo della nuova comunità credente, che segue alla morte di Gesù e alla sua sepoltura.

La sepoltura di Gesù, al di là dell'aspetto del gesto di pietà, acquista anche il senso di una definitiva chiusura di un'epoca storica, quella della presenza fisica di Gesù in mezzo ai suoi, e nel contempo l'inizio di una nuova realtà, che darà seguito al suo insegnamento e ad una sua nuova presenza, che si compirà proprio in essa e per suo mezzo. È significativo, infatti, come Marco presenti queste donne non solo come testimoni degli eventi del Golgota (v.40), ma anche come quelle che hanno seguito e servito Gesù dalla Galilea fin qui sul Golgota (v.41) e che dal Golgota, ora, si dipartono per dare inizio ad un nuovo culto, non più di un cadavere, ma del Crocifisso-morto-Risorto. Quel contemplare il Crocifisso da lontano (v.40a), quel osservare attentamente il luogo della sepoltura (v.47), quel recarsi sulla tomba per compiere il rito dell'inumazione del corpo di Gesù (16,1), dice il culto che la chiesa nascente ha riservato per il suo Maestro e Guida e che celebrerà, facendone memoria, lungo il cammino della sua storia. Non, tuttavia, un semplice ricordo, che porta con sé il rimpianto di un caro estinto o dei bei tempi andati, ma una memoria che che si fa e si attua, qui e ora, questa morte, in cui ogni credente è coinvolto nel suo presente di ogni tempo e alla quale è reso partecipe per mezzo della fede e del battesimo, ed è chiamato a viverla e attualizzarla nella propria vita in vista della risurrezione (Rm 6,3-5), che è vita nuova nello Spirito, il cui pegno è lo Spirito Santo stesso (Ef 1,13-14), di cui ogni credente è insignito in virtù della sua fede e del suo battesimo.

La vita del credente, pertanto, profondamente e intimamente unita e connessa al Gesù morto-risorto, diviene una vita celebrata nel Mistero pasquale, nella misura in cui essa si qualifichi come un continuo passaggio dalla morte del peccato, di cui per la sua naturale condizione si trova e vive, alla Vita nello Spirito, inaugurata nella risurrezione, in cui è coinvolto nello Spirito Santo, nell'attesa della venuta del Signore. Una vita, dunque, che diviene annuncio della morte del Signore, proclamazione della sua risurrezione, nell'attesa della sua venuta. Il tutto, dunque, posto sotto una forte tensione escatologica, che parla di un “già ma non ancora”, di un lento e graduale compiersi verso l'eternità di Dio.

E il tutto si è dipartito da qui, da quei due vv.38.39, che trovano la loro attuazione nella pericope seguente, vv.40-47, delimitata da un'inclusione, che la pone sotto l'egida del formarsi della prima comunità credente, nata ai piedi della croce e in cammino verso la risurrezione. Inclusione che è data dal ripetersi della presenza delle donne, dalla citazione dei loro nomi e dal verbo “qewršw” (tzeoréo, osservare) che si ripetono ai vv.40 e 47.

Commento ai vv.40-47


Le testimoni degli eventi del Golgota e discepole fedeli di Gesù, figura della chiesa nascente (vv.40-41)

I vv.40-41 presentano un gruppo di donne anonime, tra le quali spiccano tre nomi: Maria Maddalena, Maria, madre di Giacomo il minore e di Giuseppe e, infine, Salome, probabilmente la madre dei figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni (Mt 27,56). È difficile individuare con esattezza chi siano queste donne. È da chiedersi, invece, perché Marco le estrapola dall'anonimato. Probabilmente esse occupavano un posto rilevante all'interno della comunità credente. Maria di Magdala viene citata da tutti quattro gli evangelisti per essere quella che non solo seguì Gesù dalla Galilea fin qui sul Golgota, ma fu la prima beneficiaria della risurrezione di Gesù, quindi una testimone importante, forse la più attendibile. Marco cita, poi, un'altra Maria, rilevandone la maternità: madre di Giacomo il minore e di Giuseppe. Quale posizione occupasse questo Giuseppe all'interno della chiesa di Gerusalemme o nel gruppo dei discepoli di Gesù non ci è dato di sapere, ma suo fratello, Giacomo il minore, che Gal 1,19 definisce “il fratello del Signore”, da intendersi in questo caso come il cugino di Gesù, era considerato, assieme a Pietro e a Giovanni, come una delle colonne della chiesa madre di Gerusalemme (Gal. 2,9) e, quindi, data la sua rilevanza all'interno della comunità credente di Gerusalemme, è probabile che Marco abbia voluto ricordarne la madre. Per lo stesso motivo ricorda Salome, anche questa madre dei due figli di Zebedeo, Giacomo, detto il Maggiore, e Giovanni, l'altra colonna della chiesa di Gerusalemme, ricordato in Gal 2,9.

In questo contesto Luca è l'unico tra gli evangelisti che non nomina nessuna donna, limitandosi a citarle anonimamente: “Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento” (Lc 23,55-56). Tuttavia, egli le ricorderà nominalmente in 8,2-3: “C'erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Magdala, dalla quale erano usciti sette demoni, Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni”. In questo caso l'unico nome che concorda con gli altri evangelisti è Maria di Magdala, della quale ci dà una piccola nota biografica, presente solo in Luca: “dalla quale erano usciti sette demoni”.

Ma al di là della difficile individuazione delle donne, ciò che qui interessa è la definizione che Marco fa di questo gruppo consistente di donne (“molte altre”). Di loro l'evangelista dice che “osservavano da lontano”, “lo seguivano” e “lo servivano” a partire dalla Galilea, cioè dagli inizi della missione di Gesù. Marco, a differenza di Lc 8,2-3, non ne fa cenno in tale senso, ma lo rileva significativamente qui sotto la croce di Gesù, da dove si dipartiranno per celebrare il rito dell'inumazione, che non potranno portare a termine, perché non trovarono più il corpo di Gesù (16,1), rimanendo sconcertate e smarrite di fronte all'inatteso vuoto della tomba.

Il primo elemento identificativo di questo gruppo anonimo di donne è che queste “osservavano da lontano”. Il verbo greco che qui Marco usa per definire il loro “osservare” è “qewroàsai” (tzeorûsai), il cui significato è molto più profondo ed ampio del nostro semplice “osservare”. Esso significa anche “contemplare, essere spettatore, osservare, meditare, esaminare, valutare, soppesare”. Quindi questo gruppo di donne è colto da Marco come spettatrici del dramma che si sta consumando sul Golgota e, quindi, testimoni di questi eventi. Ma il loro porsi di fronte al Crocifisso, le ha portate a riflettere e a meditare su una simile morte, cercando di valutarne il senso e scrutandone le implicazioni. Di fronte al dramma della Croce, pertanto, questa prima comunità credente, significata in questo folto gruppo di donne, non solo lo contempla, ma ci riflette sopra alla ricerca di un senso, che vada oltre all'apparente fallimento. Esse lo contemplavano “da lontano”, che non dice soltanto la distanza fisica tra loro e il Crocifisso, ma dice anche quanto esse fossero lontane dal comprendere il senso di quella morte, in cui vedevano solo la fine di un'esperienza, chiusasi con un fallimento. Gv 20,1 attesterà che Maria Maddalena, figura della comunità giovannea, si recherà al sepolcro “quando era ancora buio”. Un buio che dice l'oscurità e lo smarrimento delle prime comunità credenti di fronte alla morte del loro Mastro e Guida.

Ma queste donne, infatti, non erano semplici spettatrici di un spettacolo drammatico, ma erano anche quelle che “seguivano” Gesù. Il verbo è qui posto all'imperfetto indicativo ed esprime un tempo durativo, che dice la persistenza di questa sequela e, quindi, “continuavano a seguirlo” non solo, quindi, fin qui sul Golgota, ma il verbo lascia presagire, anche oltre questo scandalo della croce. Il verbo “seguivano” è reso in greco con “ºkoloÚqoun” (ekolútzun), che non significa soltanto seguire, ma un seguire che si mette a disposizione del proprio padrone. Il verbo dice, infatti, “tener dietro, accompagnare, andare insieme, lasciarsi guidare, aderire”, mentre il verbo sostantivato corrispondente, “akolouqoàntej” (akolutzûntes), indica “i servi”. Il gruppo di queste donne, pertanto, viene indicato come un folto gruppo di discepole nel senso pieno del termine; donne che hanno dedicato se stesse e i loro beni al servizio di Gesù e del suo gruppo dei Dodici. Il verbo “¢kolouqšw” (akolutzéo), infatti, nel linguaggio degli evangelisti è il verbo tecnico per indicare la sequela di Gesù.

Il terzo elemento, che qualifica questo consistente gruppo di donne, è il verbo greco “dihkÒnoun” (diekónun, servivano), anche questo posto all'imperfetto indicativo per indicare la continuità e la persistenza di questa loro posizione e della loro funzione all'interno della chiesa nascente: esse avevano il compito di servire Gesù e con lui il gruppo dei Dodici (Lc 8,2-3). E Gesù non disdegnava tale seguito, ma per la loro posizione attiva di servizio nei suoi confronti e nei confronti dei suoi le aveva bene accolte e integrate nel gruppo dei suoi fedeli seguaci. Queste sono una sorta di presenza costante ed attiva nell'itinerare di Gesù41. Una posizione che di fatto riflette quella della chiesa nascente, dove vi sono donne che assumono responsabilità all'interno delle comunità (Rm 16,1) o sono dirette collaboratrici di Paolo (Rm 16,3-4) o ammaestrano uomini di rilievo come Apollo, un Giudeo colto e versato nelle Scritture (At 18,24-26). Certo, non sono che piccole tracce che si possono cogliere qua e là nelle Scritture neotestamentarie, ma sufficienti per intuire come la donna all'interno della chiesa nascente avesse dei suoi spazi d'impegno e di responsabilità.

Una testimonianza autorevole e significativa in tal senso ci viene dallo stesso concilio di Calcedonia42 (451 d.C.), che al canone XV circa le diaconesse, recita testualmente: “Non si ordini diacono una donna prima dei quarant'anni, e non senza diligente esame. Se per caso dopo avere ricevuto l'imposizione delle mani ed avere vissuto per un certo tempo nel ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia anatema insieme a colui che si è unito a lei”. Qui si parla di ordinazione, di imposizione delle mani e quindi di consacrazione di queste donne, che, dopo aver superato un apposito esame, dovevano avere un ruolo ufficiale e rappresentativo all'interno della Chiesa. Un ruolo che trova la sua giustificazione negli stessi vangeli e nella prassi della chiesa primitiva.

La dodicesima ora (v.42)

Il v.44 incornicia la sepoltura di Gesù all'interno della dodicesima ora. Un computo che Marco aveva iniziato con la crocifissione di Gesù, all'ora terza (v.25), proseguito poi con l'ora sesta, in cui si fece buio su tutta la terra (v.33), per giungere all'ora nona, quella della sua morte (v.34.37). Uno scandirsi del tempo, di tre ore in tre ore, dove il tre43 indica il compiersi di un evento. Ogni evento, quindi, viene enumerato e computato, poiché ogni singolo evento dice il compiersi lento e graduale del disegno di salvezza. Si è giunti, quindi, alla dodicesima ora, quella che chiude il giorno, quello che, secondo il computo greco-romano, a cui Marco si riferisce, era iniziato alle sei del mattino con il v.1. Tuttavia, qui, Marco non cita la dodicesima ora, ma dice “Giunta la sera”. Un'espressione questa che ci riporta a 14,17, dove la ritroviamo identica e con la quale forma una significativa inclusione: “Kaˆ Ñy…aj genomšnhj” (Kaì opsías ghenoménes, Giunta la sera). Era quella (14,17) la sera della cena pasquale; qui la sera della sepoltura di Gesù, quella del tutto compiuto. Tutto, dunque, è racchiuso tra le due sere, che uniscono e fondono insieme la cena pasquale con la passione e morte di Gesù, facendo della cena la celebrazione e in qualche modo l'anticipazione rituale della morte di Gesù, in quel Pane spezzato e in quel Vino sparso, mettendola sotto l'insegna della pasqua. Gesù, infatti, seguendo qui il computo ebraico del giorno, che va da sera a sera, soffrì e mori il giorno di pasqua. Certamente un'incongruenza imperdonabile da un punto di vista storico, ma a Marco e agli altri due Sinottici, era indispensabile che la passione e morte di Gesù avvenissero di pasqua, per sottolineare come Gesù è la vera Pasqua, colui che traghetta in lui, con lui e per lui l'intera umanità dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio, dalla morte alla Vita (Gv 12,32). E Paolo ricorderà questo aspetto in 1Cor 5,7: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!”.

Per Giovanni, invece, la pasqua di quell'anno cadeva di sabato (Gv 19,31) e non di venerdì come per i Sinottici, poiché per il quarto evangelista era importante sottolineare come Gesù, l'Agnello di Dio, che toglie il peccato dal mondo (Gv 1,29.36), morisse proprio nel momento in cui presso il Tempio venivano sacrificati gli agnelli pasquali, verso sera, alla vigilia della pasqua, per indicare come fosse lui, Gesù, il vero Agnello pasquale, di cui gli altri erano solo una figura, che in qualche modo lo preannunciavano.

Marco precisa che si era nella “parasceve”, cioè il giorno che anticipa il sabato, giorno di assoluto riposo. Era dunque la sera del venerdì e si doveva dare pronta sepoltura a Gesù prima di entrare nel sabato, anche perché Dt 21,22-23 stabiliva che “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l'appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità”.

L'appunto con cui si conclude il v.42, pertanto, prepara e giustifica la scena che segue (vv.43-46), quella della sepoltura di Gesù, dove si troverà un Giuseppe d'Arimatea che si dà alquanto da fare per dare una sepoltura dignitosa a Gesù.


L'atto di pietà e l'assordante silenzio della tomba (vv.43-46)

Come venuto dal nulla, compare qui e negli altri tre evangelisti la figura di Giuseppe d'Arimatea, strettamente legata alla morte e sepoltura di Gesù. Di lui sappiamo che si chiamava Giuseppe ed era originario da Arimatea, l'antica Ramathaim, a circa 35/40 Km a nord-ovest di Gerusalemme44. Era un membro distinto del Sinedrio, un uomo buono e giusto, che attendeva la venuta del Regno di Dio, come altri pii israeliti (Lc 2,25.38); egli non si era associato al voto sinedrita contro Gesù, perché, pur di nascosto, per timore dei giudei, si era fatto suo discepolo (Gv 19,38). Probabilmente, sia perché discepolo e sia per la sua posizione di rilievo all'interno del Sinedrio, si recò da Pilato e gli chiese il corpo di Gesù45, che altrimenti avrebbe subito l'umiliazione e la profanazione ultima della fossa comune o più semplicemente gettato in pasto ai cani46.

L'appunto, tutto marciano, “fattosi coraggio” denota una conoscenza dei pericoli che poteva correre Giuseppe. Nessuno, infatti, arrischiava di presentarsi ad una autorità romana, in specie a Pilato, noto per la sua crudeltà e determinazione, che non presentava dubbi o incertezze nell'amministrare il proprio potere, per chiedere il corpo di un condannato per sovversione. Il rischio concreto era quello di essere coinvolto nella condanna e di subirne la stessa sorte. Pilato, tuttavia, qui si limita soltanto ad accertarsi che Gesù fosse morto e, quindi, la sentenza eseguita e compiuta. Lo stupore che Pilato prova alla richiesta di Giuseppe è la rapidità della morte di Gesù. Un condannato crocifisso poteva durare anche qualche giorno appeso alla croce. Il corpo del condannato, infatti, era sostenuto da un supporto, evitando così che morisse per asfissia, cosa che succedeva qualora si volesse accelerarne la morte, spezzandogli le gambe e togliendogli in tal modo un qualsiasi punto d'appoggio.

L'accertamento dell'avvenuta morte di Gesù avviene per il tramite del centurione, responsabile dell'esecuzione della condanna, sentito il quale, Pilato non esita a rilasciare il corpo di Gesù per la sepoltura. Una simile facile concessione probabilmente era dovuta al fatto che Pilato aveva capito chi era Gesù, tutt'altro che un sovversivo, e che la sua morte, richiesta a gran voce dalle autorità giudaiche, era dettata soltanto dall'invidia (v.10). Proprio per questo egli tentò in tutti i modi di liberarlo. Non ci era riuscito, ma almeno l'estremo atto di pietà verso Gesù e i suoi discepoli, lo doveva loro.

Il v.46 chiude il racconto della sepoltura di Gesù con una stringatezza quasi stenografica e notarile: a) Giuseppe compera un lenzuolo, particolare incongruente, considerato che si era in giorno di pasqua, dove ogni attività lavorativa, ivi compresa quella commerciale, era proibita; b) tira giù Gesù dalla croce; c) lo avvolge nel lenzuolo; d) lo depone in una tomba intagliata nella pietra; e) rotolò una pietra sulla porta della tomba. Un particolare quest'ultimo che forma da aggancio al successivo racconto, quello della scoperta della tomba vuota da parte delle donne, che si erano recate per l'inumazione del corpo di Gesù e che “dicevano tra loro: <<Chi ci farà rotolare via la pietra dalla porta della tomba?>>”.

L'avvolgimento di Gesù nel lenzuolo non era la consuetudine con cui si seppellivano i cadaveri. Questi infatti venivano inumati, cioè cosparsi di profumi per attenuare il fetore della decomposizione e poi avvolte in lunghe bende47. La soluzione rapida dell'avvolgimento in un solo lenzuolo era dovuta al fatto che si era ormai al termine della parasceve e si sarebbe entrati da lì a poco nel sabato. La vera e propria inumazione si sarebbe svolta, secondo la tradizione, soltanto dopo, trascorso il sabato (16,1). Sarà proprio con questa annotazione temporale che si aprirà il cap.16.

La memoria della chiesa nascente (v.47)

Così come si era aperto il racconto della sepoltura di Gesù con la presenza di alcune donne che “osservavano da lontano” gli eventi del Golgota, testimoni a futura memoria di una chiesa nascente, raccolta attorno al Crocifisso, così ora il racconto si chiude con la presenza delle stesse donne, ancora lì presenti, intente, ora, ad “osservare dove” Gesù era stato deposto. Esse sono soltanto due, il numero richiesto da Dt 19,15 per una valida testimonianza.


NOTE

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10, dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Dopo la destituzione di Archelao nel 6 d.C., succeduto nel 4 a.C. al padre Erode il Grande, nel governo della Giudea, di Gerusalemme, della Samaria e dell'Idumea, la Giudea venne ridotta a provincia romana e Augusto inviò il procuratore Coponio, che la governò dal 6 al 9 d.C.

3Cfr. Mt 23,37; Lc 13,34; Gv 8,5; 10,31-33; 11,8; At 7,58-59; 14,4-6; 2Cor 11,25;

4Il paragrafo 417 del Libro XV di Antichità Giudaiche recita testualmente: “Tale, dunque, era il primo recinto. All'interno non molto lungi da questo, ce n'era un secondo, al quale si accedeva per mezzo di pochi gradini, circondato da una balaustra di pietra ove c'era un'iscrizione che proibiva l'ingresso agli estranei sotto la pena di morte”. Questa attestazione di Flavio Giuseppe è stata confermata anche dal ritrovamento archeologico di una epigrafe scritta in greco, dalle dimensioni di 60x90 cm, scoperta dall'archeologo francese Charles Simon Clermont-Ganneau nel 1871. L'epigrafe riporta il seguente avvertimento rivolto ai non ebrei: “Nessuno straniero penetri al di là della balaustra e della cinta che circonda l'aria sacra. Chi venisse sorpreso sarà causa a se stesso della morte che ne seguirà.

5Le testimonianze letterarie sono state recentemente confortate dal ritrovamento di un'epigrafe nel 1961 a Cesarea Marittima, il più importante porto della Giudea dell'epoca. La scoperta fu fatta grazie ad una missione archeologica ad opera dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di Milano. L'iscrizione è su pietra calcarea, 82x65, e fu trovata nel teatro romano di Cesarea, databile tra il III-IV d.C., ed era stata utilizzata come gradino. Il testo  dell'iscrizione, tratto dall'AE 1963,0104, è così leggibile: "[Munu]s Tiberieum [-c.3 Po]ntius Pilatus [Praef]ectus Iuda[ea]e [f]e[cit]"

6La Giudea con la Samaria e l'Idumea divennero nel 6 d.C. una provincia procuratoria, dipendente direttamente dall'imperatore, governata da un procuratore di dignità equestre e subordinato al legato di Augusto, che governava la provincia imperiale della Siria. Da un'epigrafe ritrovata a Cesare Marittima nel 1961, sappiamo che questi procuratori avevano il titolo di praefectus. Di seguito diamo i nomi dei procuratori della Giudea: 6-9 d.C.: Coponio; 12-15: Marco Ambivio e Annio Rufo; 15-26: Valerio Grato; 26-36: Ponzio Pilato; 36-41: Mrcello. - Fonte: Atlante storico della Bibbia e dell'Antico Oriente - E.R. Galbiati e A. Aletti. Editrice Massimo - Milano 1983 - pag.186

7Tra le fonti extra bibliche, l'episodio della condanna a morte di Gesù ad opera di Pilato viene citato dallo stesso Tacito: "Il loro nome (quello di cristiani) veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio, era stato condannato al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato" - Libro XV - Anni 62-65 - cap. XLIV, 3

8Cfr. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Libro II, § 169-174

9Cfr. Flavio Giuseppe, Guerra Giudaica, Libro II, § 175-177

10Cfr. Filone d'Alessandria, Legatio ad Gaium 299-305

11Cfr. Lc 13,1. La semplice citazione dell'episodio, senza altre spiegazioni, fa pensare che il fatto fosse ben noto ai suoi ascoltatori.

12Cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, Libro XVIII, § 85-89.

13Gli Zeloti, un gruppo politico-religioso integralista, sorto nel I sec. d.C., che potremmo considerare come il braccio armato dei Farisei, alla cui dottrina erano particolarmente legati, erano convinti che non si dovesse aspettare passivamente l'avvento del Regno di Dio, ma che si dovesse intervenire attivamente nella storia per provocare il cambiamento messianico. Alla base delle loro convinzioni stava un ideale teocratico: solo Dio doveva regnare su Israele. L'avvento del Regno di Dio, secondo la loro concezione teologica, era ritardato, se non impedito, per la presenza dei pagani sulla terra di Israele. Scacciare l'invasore romano, quindi, più che un atto politico e di liberazione, aveva finalità prevalentemente teologiche. - Sulla questione cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 2005

14Qumran fu proprio il frutto maturo di questo modo escatologico ed apocalittico di sentire e di vivere le cose e la storia di quel tempo.

15Per uno studio più esaustivo cfr. la voce “Il periodo storico”, pagg 3-7 al sito https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

16Cfr. la voce “Croce, Crocifissione” (archeologia) in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 2005.

17Sulla questione cfr. R.E. Brown, Giovanni, Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi, 1979; pag.1055; e Carmela Ventrella Mancini, Tempo divino e identità religiosa. Culto rappresentanza simboli dalle origini all' VIII secolo, ed. G. Giappichelli Editore, Torino 2012; pagg.127ss

18Cfr. Flavio Giuseppe Ant. Jud. 16,162-166

19Lc 23,17 riporta che “(Pilato) aveva l'obbligo di rilasciare loro ad ogni festa un carcerato”. Il versetto citato tuttavia è ritenuto dalla critica letteraria un'inserzione tradiva di qualche amanuense, tendente a motivare la richiesta dei Giudei, assente in Luca, riproducendo a modo proprio, a mo' di glossa, Mt 27,15 e Mc 15,6. - Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992; III edizione 2001.

20Cfr. la Parte Introduttiva del mio commento al vangelo di Giovanni, alla voce “L'Autore”, pag.19, e in particolare pag.24:https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

21Il Kerigma, dal greco “khrugma” (kérigma, bando, notificazione, proclamazione, intimazione di un messaggio tramite un araldo), è un termine tecnico con cui nella chiesa primitiva si designava la primitiva predicazione legata ad eventi storici, su cui si sviluppava un breve concetto teologico o cristologico.

22Cfr. Mt 26,42.53-54; Mc 14,36.49; Lc 22,42; Gv 18,11

23Il condannato veniva legato ad una colonna, alta circa un metro, un metro e mezzo, in modo tale che egli mostrasse il dorso al suo aguzzino. Lo strumento di fustigazione era formato da un bastoncino, da cui si dipartivano delle cordicelle o delle listoline di pelle o di cuoio, in fondo alle quali era fissato un ossicino aguzzo o dei piombini. I colpi cosi inferti andavano ad incidere sulla carne del condannato, che veniva lacerata e strappata, con copiosa perdita di sangue. La flagellazione, poi, veniva fatta seguire subito da un bagno in acqua fredda, che serviva sia a ripulire il condannato dal sangue, che farlo rinvenire. Così trattato, talvolta il condannato non era neppure in grado di reggersi o di portare la trave trasversale, il patibulum, al quale veniva crocifisso e poi innalzato sul palo verticale, già conficcato a terra sul luogo della crocifissione. Sorte questa che capitò a Gesù, così che si rese necessario l'aiuto del Cireneo, ricordato nei vangeli. - Sul tema cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, I edizione Oscar Mondadori, 2009.- § 591

24Sulla questione cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa editrice Marietti,Genova, ristampa della III edizione 2002.

25Cfr. il mio commento al cap.14 – pag.22: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Cap.%2014.pdf

26Originariamente il pretorio indicava, all'interno dell'accampamento, la tenda del comandante militare. Successivamente il termine venne ad indicare la residenza dei governatori romani, che essi si facevano costruire all'interno dei palazzi reali dei paesi sottomessi.- Sulla questione cfr. la voce “Pretorio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 2005, nuova edizione rivista e integrata.

27La residenza dei governatori romani in Palestina si trovava a Cesarea Marittima, ma in occasione delle feste pasquali, momento di grande afflusso di persone da tutta la Palestina e dall'impero, Pilato si spostava a Gerusalemme per tenere sotto controllo l'ordine pubblico ed essere pronto ad intervenire militarmente in casso di rivolte.

28La fortezza Antonia era già presente ai tempi di Neemia (Ne 2,8; 7,2), che fu governatore di Giuda dal 445 al 433 a.C. e sotto Antioco IV Epifane (175-169 a.C.) ospitò una guarnigione siriana (2Mac 4,12.28; 5,5). La fortezza venne restaurata dagli Asmonei (Ant. Jud. XV, 403), ricevendo il suo assetto definitivo da Erode il Grande, che la dedicò, chiamandola Antonia, al generale e triumviro romano Antonio. La fortezza, che conservava le vesti sacre dei sommi sacerdoti, era usata proprio per questo particolare anche come pressione politica sul popolo e sulla classe sacerdotale, poiché senza quelle vesti il sommo sacerdote non poteva officiare (Ant. Jud. XV,403-405; XVIII,92). La fortezza venne poi distrutta da Tito nel 70 d.C. durante la guerra giudaica (66-73 d.C.) - Cfr. la voce “Antonia (Fortezza)” in Nuovo Dizionario Enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferato, 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005

29Lc 9,1; 15,6.9; 23,13

30La coorte romana era formata da circa seicento soldati. Da Giuseppe Flavio sappiamo che “Delle coorti, dieci avevano circa mille uomini ciascuna mentre le altre tredici contavano ciascuna circa seicento fanti e centoventi cavalieri” (Bel. Jud. 3,67)

31Cirene era una cittadina fondata verso la fine del VII sec. a.C. dai Dori, sulle coste dell'Africa settentrionale. La sua ricchezza si fondava principalmente sul commercio di grano, lana, datteri e silfio, un'erba aromatica medicinale. Nel III sec. a.C. divenne parte del regno dei Tolomei e nl 96 a.C. Cadde sotto il dominio romano e nel 74 a.C. Divenne provincia romana. Secondo le informazioni passateci da Giuseppe Flavio, che a sua volta le ha recuperate da Strabone, la città era composta da quattro classi sociali: i cittadini, gli agricoltori, i forestieri residenti e i Giudei. - Sulla questione cfr. la voce “Cirene” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005; e G. Flavio, Antichità Giudaiche, XIV,115.

32Sulla questione cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, I edizione Oscar Mondadori, 1974, § 599

33Il nome Simone è una forma contratta di Simeone e derivare dall'ebraico “Šim'ōn” legato al verbo šāma, che significa “ascoltare”

34Il v.28 è tralasciato dalla critica testuale perché non attestato da tutti i manoscritti. Il testo, che alcuni scritti riportano, è il seguente: “E fu adempiuta la Scrittura, che dice: E fu annoverato tra i malfattori”. La citazione, tratta da Is 53,12, fa riferimento al quarto canto del Servo di Jhwh ed è, tra gli evangelisti, riportata unicamente da Lc 22,37.

35Sulla questione cfr. G. Riciotti, Vita di Gesù Cristo, ed. Oscar Mondadori, Cles 2009 - § 602

36Sulla questione cfr. la voce “Golgota” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

37Cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, ed. Oscar Mondadori, Cles, 1974, ristampa 2009 - § 606.

38Giovanni attesta qui che “era la preparazione della pasqua”, che l'evangelista fa cadere di sabato: “I Giudei dunque, poiché era la parasceve, affinché i corpi non rimanessero sulla croce di sabato, infatti era grande il giorno di quel sabato, chiesero a Pilato che fossero spezzate le loro gambe e fossero portati via” (Gv 19,31). Giovanni, quindi attesta che il giorno in cui Gesù è morto era la “parasceve”, cioè il giorno di preparazione al sabato e, quindi, il venerdì. Precisa poi, che “era grande il giorno di quel sabato”, cioè era il giorno di pasqua. Non vi è, dunque concordanza tra Giovanni e i Sinottici sul giorno di pasqua, ma tutti concordano sul fatto che Gesù sia morto di venerdì. La discrepanza tra Giovanni e i Sinottici sul giorno di pasqua va spiegata, più che con calcoli astronomici o temporali, con la prospettiva cristologica degli evangelisti. Per Giovanni Gesù è l'Agnello di Dio (Gv 1,29.36) per eccellenza e quindi Giovanni fa morire Gesù il giorno prima della pasqua, quello in cui presso il Tempio si sgozzavano gli agnelli in preparazione della cena pasquale; per i Sinottici, invece, Gesù è la vera pasqua, quella che fa passare l'uomo dalla morte alla vita, liberandolo dalla schiavitù del peccato. Per questo loro hanno la necessita di far morire Gesù nel giorno di pasqua, per dire che lui è la vera Pasqua, andando incontro, storicamente, a innumerevoli incongruenze. Personalmente, da un punto di vista storico, ritengo corretto il racconto di Giovanni.

39 Cfr. Sal 22,8; 109,25, Is 37,22 Ger 18,16; Lam 2,15

40Nel linguaggio giovanneo sovente le parole, i verbi, le espressioni in genere acquistano un doppio significato come in questo caso di 12,32, dove il verbo “Øywqî” (ipsotzô, sarò elevato), assume un doppio senso: “sarò elevato” sulla croce, come poi attesta 12,33, ma anche “sarò elevato” verso il cielo, alludendo alla risurrezione. Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva al vangelo di Giovanni, pag54: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.html

41Cfr. Lc 8,2; 23,27.49.55; 24,5,22.24

42Il concilio di Calcedonia fu il quarto grande concilio della storia della Chiesa, che si tenne tra l' 8 di ottobre e il primo di novembre del 451 e fu convocato dall'imperatore Marciano (450-457 d.C.), sotto papa Leone Magno (440-461 d.C.). Ebbe diciassette sessioni, in cui si affermò la doppia natura, umana e divina, dell'unica persona di Gesù, condannando il monofisismo, sostenuto, invece, da Eutiche (378-451 d.C.), archimandrita di un convento a Costantinopoli. Questi affermava che in Cristo ci fosse la sola natura divina, in cui venne assorbita quella umana.

43Cfr. la voce “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

44Cfr. Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù, Ed. Oscar Mondadori, Cles (TN) 2009; cfr. anche la Voce “Arimatea” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

45Sulla figura di Giuseppe d'Arimatea cfr. Mt 27,57-58; Mc 15,43; Lc 23,50-52; Gv 19,38.

46La cura dei cadaveri era particolarmente sentita presso gli ebrei. La morte, infatti, per l'ebreo, non era l'annientamento dell'uomo. Finché sussiste qualcosa del corpo, finché ci sono almeno le ossa, l'anima, che nel frattempo continuava a vivere in uno stato larvale di estrema debolezza, come un'ombra anonima stipata nello Sheol assieme alle altre anime, continua a sentire ciò che viene fatto al corpo. Per questo l'essere abbandonati senza sepoltura, in preda agli animali, era la peggiore maledizione ed un gravissimo oltraggio. Presso gli ebrei il corpo non veniva mai bruciato, né imbalsamato, ma deposto, per i ricchi, in una grotta naturale o scavata nella roccia o, per i più poveri, affidati alla terra, in genere in fosse comuni, assieme ai cadaveri dei condannati a morte o degli stranieri senza patria. La cremazione, considerata un oltraggio, era riservata ai grandi delinquenti o ai nemici, di cui si voleva distruggere il ricordo o li si voleva annientare. Il cadavere in genere non era posto in una bara chiusa, ma su di una barella e così trasportato al luogo della sepoltura, di modo che tutti lo potessero vedere. Subito dopo il decesso, seguiva un rituale particolare: al cadavere venivano chiusi gli occhi, veniva abbracciato o baciato per l'ultima volta e poi lavato, strofinando sul corpo profumi e aromi e bruciando incensi o resine profumate. I profumi più usati erano il nardo, la mirra o l'aloe. Il corpo, in tempi antichi, veniva rivestito con i suoi abiti e le insegne di quella che era la funzione propria del morto. Tuttavia, il morto per violenza non veniva né lavato né trattato come gli altri defunti, ma lo si seppelliva con i suoi abiti insanguinati, avvolto in un lenzuolo, ciò che avvenne per Gesù. Ai tempi di Gesù, tuttavia, si procedeva in modo molto simile. Il cadavere veniva avvolto in un grande lenzuolo, che lo ricopriva completamente e poi avvolto in bende, per tenere ben compattato il corpo, affinché non si smembrasse durante la decomposizione. Il cadavere, poi, veniva portato nella camera alta della casa per consentire ai parenti, agli amici e ai vicini un ultimo saluto. Nello stesso giorno della morte veniva, dopo poche ore, sette/otto ore circa, seppellito senza alcuna cerimonia religiosa. Il corteo funebre si snodava dalla casa verso il luogo della sepoltura. Il cadavere era portato in genere i barella, preceduto da delle donne, perché, si diceva, una donna, Eva, aveva introdotto la morte nel mondo e, quindi, era doveroso che delle donne accompagnassero le loro vittime alla sepoltura. Le dimostrazioni di dolore erano ritualmente chiassose. Si elevavano grandi grida di dolore, ci si cospargeva il capo di polvere, si assumevano delle lamentatrici di professione, che lanciavano alte grida, mentre suonatori di flauto emettevano lugubri suoni. Ci si strappava i vestiti e il Talmud stabiliva quale fosse lo strappo minimo conveniente per l'occasione. Non vi erano luoghi di sepoltura assimilabili ai nostri cimiteri, soltanto l'uso e la consuetudine comune portava a raccogliere le tombe in determinati luoghi, alla distanza legale di almeno cinquanta cubiti dalle abitazioni. Così nei pressi di Gerusalemme, vi era la valle del Cedron che per buona parte era un cimitero, il cimitero di Giosafat, dove i pii ebrei desideravano di essere sepolti, perché il profeta Gioele aveva detto: “Si affrettino e salgano le genti alla valle di Giòsafat, poiché lì siederò per giudicare tutte le genti all'intorno(Gl 4,12 – Cfr. anche Gl 4,2). - Cfr. Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002; H. Daniel-Rops, la vita quotidiana in Palestina ai tempi di Gesù, ed.Oscar Mondadori, Cles, 11^ ristampa 1999; la voce “Sepoltura” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005; J. S. Jeffers, Il Mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004

47Sulla questione dell'inumazione confronta la nota qui sopra, n.46