IL VANGELO SECONDO MARCO

Il racconto della passione e morte di Gesù1


Capp. 14 - 15


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi



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Note generali

Il racconto della passione-morte-risurrezione di Gesù costituisce all'interno dei vangeli sia da un punto di vista narrativo che teologico e cristologico un unico blocco tematicamente compatto. Non si tratta di un fedele resoconto storico e tanto meno cronachistico di quanto è avvenuto in quel tempo, benché il contesto in cui è inserito tale racconto sia storico e gli elementi e i personaggi che lo compongono siano reali. Ma qui la preoccupazione degli evangelisti non è riportare esattamente gli avvenimenti accaduti, ma evidenziarne il significato e il senso e tali da mettere in rilievo il Mistero della persona di Gesù, che qui apparirà come “il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e che viene tra le nubi del cielo” (14,62) e come il vero Figlio di Dio (15,39) e, pertanto, Dio lui stesso. E il tutto in un contesto dove viene evidenziata con insistenza la regalità di Gesù (15,9.18.26.32). Un mistero che troverà il suo disvelamento e la sua piena manifestazione nella risurrezione, che Paolo trasformerà in una significativa quanto intensa testimonianza di fede: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-4). Ci si trova, dunque, di fronte ad una lettura teologica e cristologica della figura di Gesù, collocata all'interno di una cornice storica anche se non rigorosamente cronachistica. Diverse, infatti, sono le narrazioni degli evangelisti, che hanno nei Sinottici come punto di riferimento narrativo il racconto di Marco, da cui tuttavia si scostano modificandone il testo, togliendo o aggiungendo materiale proprio, ricostruendo i fatti secondo una propria visione teologica e cristologica, poiché la loro preoccupazione non è la storia, bensì il disvelare al proprio lettore e ai credenti il Mistero di quel uomo, il significato del suo patire e del suo morire, attestandone, anche qui a modo proprio, la risurrezione, aprendo in tal modo un nuovo orizzonte e inaugurando un nuovo tempo, quello della chiesa, i cui inizi Luca racconta nei suoi Atti degli Apostoli, e che Mt 28,18-20 lascia intravvedere in prospettiva, delineando sommariamente la missione della chiesa. Nella visione degli evangelisti, pertanto, la storia non finisce con la morte di Gesù, ma continua nella testimonianza della Chiesa e nella storia di ogni singolo credente, che ritrovano la propria identità nell'unica fede nel Risorto.

Se diverse sono le narrazioni degli evangelisti circa la passione-morte-risurrezione di Gesù, unico, tuttavia, è lo schema narrativo: il contesto pasquale entro cui si svolgono gli eventi, il complotto da parte delle autorità religiose, l'ultima cena, il tradimento di Giuda, gli eventi del Getsemani, il rinnegamento di Pietro, il processo davanti al Sinedrio, il processo davanti a Pilato che si conclude con la condanna a morte di Gesù, la sua esecuzione a mezzo crocifissione e la sua sepoltura in una tomba nuova, che secondo il racconto giovanneo doveva trovarsi nei pressi del Golgota (Gv 19,41).

Un simile comune schema fa supporre come già al tempo in cui il primo vangelo, quello marciano (65-69 d.C.), a cui gli altri due Sinottici in vario modo e liberamente attingono, vi fosse già ben consolidato un racconto nel merito. Una testimonianza in tal senso ci viene da 1Cor 11,23-26, che riporta una tradizione che Paolo aveva ricevuto: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: <<Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>>. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: <<Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me>>. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. E similmente in 1Cor 15,3-4 riporta, sotto forma di formula catechistica, l'evento della passione-morte-risurrezione, interpretato come evento soteriologico: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”.

Questi due passi paolini sono significativi poiché vi si dice che Paolo trasmette alla comunità di Corinto ciò che egli stesso ha ricevuto da altre comunità, quella di Gerusalemme, di Damasco e di Antiochia2, presso la quale, quest'ultima, ha soggiornato lungamente, circa una decina di anni (36-45 d.C.) dopo l'esperienza di Damasco e prima di iniziare la sua attività missionaria (45-60 d.C.). Ora, considerando che la prima lettera ai Corinti fu scritta da Efeso tra il 53 e il 54 e che qui Paolo riporta una tradizione già consolidata sotto forma liturgica (1Cor 11,23-25) e catechistica (1Cor 15,3-4), è da ritenersi che in entrambi i casi l'insegnamento trasmesso e così sinteticamente elaborato, abbia avuto come fondamento ed origine un racconto diffuso e conosciuto all'interno delle varie comunità credenti, se non come testo dettagliato e ben definito, certamente come una sorta di abbozzo narrativo, usato probabilmente anche dagli stessi predicatori itineranti, e comunque da collocarsi certamente tra il 36 e il 45 d.C., epoca in cui Paolo fu erudito nella tradizione che andava formandosi all'interno delle comunità credenti, ma probabilmente ancor prima del 36 d.C., considerato che Paolo quando vi giunge trova già elaborate queste formule, che presuppongono un racconto. Racconti e testi primitivi narranti la passione e morte di Gesù, pertanto, vanno fatti risalire immediatamente dopo la dipartita di Gesù (circa 33 d.C.), intorno all'anno 34 o 35 d.C., il tempo cioè minimo necessario perché questi racconti si formino e si affermino presso le comunità credenti.

Del resto è ragionevole pensare che un evento così traumatizzante e tragico come la morte di Gesù abbia scosso profondamente le coscienze e gli animi dei suoi seguaci e, pertanto, questi ultimi eventi devono essere stati anche i primi ad essere fermati nella memoria e per iscritto. S'imponeva, infatti, ai suoi discepoli, di fronte ad un simile drammatico evento, come la morte del loro maestro, di cercarne il senso al di là dell'apparente umano fallimento di questo giovane rabbi (Lc 24,21). Una ricerca che doveva avvenire attraverso le Scritture3, che dovevano illuminare il senso degli eventi, al di là di ciò che questi potevano lasciare trasparire, e la cui comprensione deve essere avvenuta quasi immediatamente dopo la morte di Gesù, considerato che Paolo nelle sue lettere, tutte scritte tra il 50 e il 58 circa d.C.4 riporta numerosi inni cristologici e formule catechistiche e di fede, che lui ha trovato presso le comunità credenti, presso le quali ha dimorato a lungo (36-45 a.C.) subito dopo l'evento di Damasco (36 d.C.). Testi che lasciano intravvedere una elaborazione di racconti formatisi subito dopo la morte di Gesù e che andavano costituendo il primo nucleo fondamentale della Tradizione e della Dottrina. Inni cristologici e formule di fede che lasciano intravvedere una potente elaborazione del pensiero teologico e cristologico sviluppatosi a seguito di una ricerca scritturistica e una riflessione sull'evento Gesù. Da qui e alla luce di questi accadimenti è seguito tutto il resto dei racconti evangelici, come in una sorta di flashback.

Benché i racconti della passione-morte-risurrezione di Gesù siano posti necessariamente per motivi di logica narrativa alla fine dei vangeli, tuttavia questi acquistano un'importanza fondamentale e centrale in tutti i vangeli, la cui parte narrativa è disseminata di riferimenti a tali eventi ed è orientata ad essi, così da creare una forte tensione verso il Golgota, quale conclusione e coronazione della vicenda terrena di Gesù e della sua missione. La passione-morte di Gesù, quindi, non va considerata come la sfortunata e tragica conclusione della sua vita, ma ne è il vertice atteso, verso il quale i racconti evangelici convergono, poiché proprio da tali tragici eventi i racconti evangelici acquistano senso e significato e soltanto alla luce del Golgota essi possono essere compresi.

Rilevante in tal senso è il vangelo lucano, che è prevalentemente strutturato su di un fittizio viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28), il luogo dove si compiranno i misteri della salvezza e nel contempo la porta che riconduce Gesù al Padre; un viaggio lungo il quale vi è un continuo richiamo sia a Gerusalemme (Lc 9,31.51.53; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11.28), quale luogo del compimento della missione terrena di Gesù; sia al suo soffrire, al suo morire e al suo risorgere (Lc 2,34-35; 4,13b; 9,22.31.44; 13,33; 18,31-33; 24,6-7.20). Un'importanza quella di Gerusalemme che Luca sottolinea fin dall'inizio del suo racconto, dove l'autore costruisce i primi due capitoli sull'infanzia di Gesù attorno a Gerusalemme e al Tempio, prospettando fin da subito un destino di dolore e di morte per la salvezza, ma nel contempo per la condanna di Israele (Lc 2,34-35). Gesù, dunque, posto come elemento di discriminazione e di giudizio in Israele, ma con esso anche in mezzo agli uomini.

Diversamente da Luca, ma solo in apparenza come vedremo subito, il Gesù giovanneo opera prevalentemente a Gerusalemme e il Tempio diventa il centro della sua attività e le festività ebraiche la cornice all'interno della quale egli opera. Anche per Giovanni, dunque, Gerusalemme riveste un'importanza fondamentale perché da lì deve passare Gesù per ricongiungersi al Padre e proprio lì, sulla croce metterà il punto definitivo alla sua missione terrena, sintetizzato in quel lapidario “Tetšlestai(Tetélestai, È compiuto) (Gv 19,30b). Una croce che costituisce quindi il vertice dell'intera missione di Gesù. Come per Luca anche per Giovanni Gerusalemme è la porta di passaggio per il ritorno di Gesù al Padre. Similmente a Luca, anche Giovanni imbastisce l'intero suo vangelo su di un viaggio teologico compiuto da Gesù, la cui chiave di lettura viene posta significativamente da Giovanni a ridosso della passione e morte di Gesù: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre(Gv 16,28). E se la meta qui è il Padre, Gerusalemme diventa il luogo di accesso obbligato verso il Padre e verso il quale tutto il vangelo giovanneo tende. Solo qui il Gesù giovanneo potrà esclamare il suo “Tetšlestai. L'intera missione di Gesù, uscito dal Padre e in cammino di ritorno al Padre, trova dunque il suo vertice e il suo compimento in quel “Tetšlestai. Una missione quella di Gesù improntata al sacrificio di espiazione per i peccati del mondo, che l'evangelista evidenzia fin dall'inizio del suo racconto, presentando Gesù attraverso le parole del Battista come l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29.36), indicandone il senso della missione e alludendo all'agnello sacrificale, sul quale, nel giorno dell'Espiazione (Yom Kippur), il sommo sacerdote riversava i peccati di tutto il popolo (Lv 16,20-22).

La centralità della passione e morte di Gesù si rileva parimenti nel vangelo di Matteo dove fin dall'inizio, nel suo racconto dell'infanzia, appare il tema della persecuzione e della morte di Gesù, là dove Erode cerca di uccidere Gesù costringendolo alla fuga in Egitto, allungando l'ombra della sua morte su bambini innocenti, preannunciando fin da subito ciò che sarebbe avvenuto per gli innocenti seguaci di Gesù5. E così parallelamente dicasi per Marco, che a partire dal cap.8,31 in poi orienta decisamente il suo vangelo verso Golgota6.

Benché lo schema narrativo tra Marco e Luca sia sostanzialmente identico, tuttavia i due racconti della passione e morte di Gesù divergono notevolmente sia per le omissioni, sia per il nuovo materiale introdotto da Luca e sia nell'ordine dell'esposizione dei fatti7.

Quanto alle omissioni, Luca tralascia l'unzione di Betania, riportata invece da Mc 14,3-9; parte dell'agonia nel Getsemani (Mc 14,33-34.38b-42); la fuga dei discepoli (Mc 14,49b-52); l'accusa dei falsi testimoni (Mc 14,55-61a); il silenzio di Gesù di fronte alle accuse dei testimoni (Mc 14,61a; 15,4-5); gli scherni da parte dei soldati romani (Mc 15,16-20a); il grido di abbandono (Mc 15,37) e gli scherni dei passanti sotto la croce (Mc 15,29-32); il riferimento al profeta Elia (Mc 15,44-45); la reazione di Pilato alla notizia della rapida morte di Gesù (Mc 15,44-45).

Quanto all'introduzione di nuovo materiale lucano, va segnalato: le parole di Gesù nell'ultima cena (Lc 22,15-17.24-30.31-33.35-38); l'angelo consolatore nel Getsemani (Lc 22,43-44); il soggiorno notturno in casa del sommo sacerdote (Lc 22,54) e il radunarsi del Sinedrio solo al mattino (Lv 22,66); la comparizione davanti ad Erode (Lc 23,6-12); la dichiarazione di innocenza di Gesù da parte di Pilato (Lc 23,4.13-16); il lamento delle pie donne (Lc 23,27-31); il dialogo con i due ladroni (Lc 23,39b-43) e le altre parole del Crocifisso (Lc 23,34.36);

Quanto al diverso ordine nell'esposizione dei fatti, questo si riscontra prevalentemente nella scena davanti al Sinedrio e nella Crocifissione8:

Sinedrio

Rinnegamento di Pietro (Lc 22,54-62; Mc 14,53-54.66-72);
Gesù maltrattato (Lc 22,63-65; Mc 14,65);
Gesù davanti al Sinedrio (Lc 22,66.67-71; Mc 15,1; 14,55-64);

Crocifissione

La crocifissione (Lc 23,33-38; Mc 15,22-27.24-25.29-32.26);
Il ladrone perdonato (Lc 23,39-43; Mc 15,32);
La morte di Gesù (Lc 23,44-49; Mc 15,33-38.34-37.39-41)

La struttura del racconto marciano della passione e morte di Gesù, che occupa i capp. 14 e 15, si presenta alquanto complessa ed articolata ed è distribuita nell'ambito di due ampi contesti, che formano sezioni a se stanti: il contesto giudaico, caratterizzato dal rifiuto omicida di Gesù (14,64-65); e quello pagano, che invece tende a scagionare Gesù (15,9-14)9, accogliendolo come il giusto Figlio di Dio e convertendosi a lui (15,39).

L'intero racconto è composto da tre preamboli iniziali, che creano il contesto, fatti seguire da 6 quadri, ognuno dei quali funge da cornice agli eventi che accadono al loro interno.

Propongo, pertanto, il seguente schema strutturale:


Il contesto giudaico (14,1-72)

I tre preamboli (vv.1-16)

Preambolo del tradimento, causa prossima dell'accadere degli eventi descritti nei quadri (vv.1-2.10-11), intercalato dal racconto dell'unzione di Gesù in casa di Simone il lebbroso (vv.3-9), che preannuncia quell'inumazione (v.8), che non avverrà mai (16,1.6). Il terzo preambolo è quello del contesto pasquale in cui accadono gli eventi (vv.12-16).

Quadri

  1. l'ultima cena: si apre con l'annuncio del tradimento (vv.17-21); dalla cena ebraica alla nuova cena (vv.22-26)

  2. gli eventi del monte degli Ulivi: preambolo agli eventi della passione: il preannuncio del rinnegamento di Pietro (vv.27-31); l'agonia di Gesù (vv.32-42); l'arresto di Gesù (vv.43-52);

  3. nella casa del sommo sacerdote: preambolo introduttivo alle due scene che concludono la prima sezione della passione e morte di Gesù, quella giudaica (vv.53-54): il processo giudaico (vv.55-65); il rinnegamento di Pietro (vv.66-72)

Il contesto pagano (15,1-47)

Quadri

  1. Il processo di Gesù da parte dei pagani: Gesù davanti a Pilato (vv.1-5); la scelta de giudaismo tra Gesù e Barabba (vv.6-15); scherni e insulti da parte della soldataglia (vv.16-19)

  2. il cammino verso il Golgota: dal pretorio verso il Golgota (vv.20-22), intercalato dall'episodio del Cireneo (v.21).

  3. Gli eventi del Golgota: Gesù crocifisso (vv.22-28); scherni e insulti da parte dei capi del popolo, dei soldati e del malfattore (vv.29-32); Gesù muore in croce (vv.33-38); la reazione del mondo pagano alla morte di Gesù (v.39); la sepoltura di Gesù (vv.40-47).



Parte prima: Gesù ripudiato dal giudaismo

(14,1-72)



Note generali

Le numerose controversie e polemiche con Gesù, le insidie innescate dalle autorità giudaiche e i loro propositi omicidi, in ultima analisi il loro rifiuto di questo inatteso rabbi fuori dagli schemi del giudaismo, trovano qui nel cap.14 il loro vertice e la loro conclusione. Il cap.14 chiude, quindi, la partita di Gesù con il giudaismo, la cui valutazione giovannea è decisamente pessimista: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui” (Gv 12,37); mentre non meglio era andata con i suoi discepoli: “Da questo (momento) molti tra i suoi discepoli se ne tornarono indietro, e non camminavano più con lui” (Gv 6,66).

Il contesto in cui si svolgono i fatti è quello della pasqua ebraica, in cui si celebra il memoriale della liberazione di Israele dalla schiavitù dell'Egitto, ritualizzato con l'immolazione e la consumazione dell'agnello, con l'aspersione degli stipiti delle porte con il suo sangue, salvaguardando gli ebrei dal passaggio dell'angelo sterminatore, che uccise tutti i primogeniti che si trovavano in terra d'Egitto; con le erbe amare per ricordare le sofferenze della schiavitù egiziana (Es 12,1-14). Un contesto particolarmente significativo poiché al suo interno vengono collocati, e quindi in qualche modo associati a questi eventi di liberazione, di riscatto e di salvezza quelli della passione e morte di Gesù, che la comunità credente ricomprende sullo sfondo della pasqua ebraica, assegnando ad essi un nuovo significato così che Gesù è il vero agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Gv 1,36), in qualche modo preannunciato e prefigurato dal rituale stesso della pasqua, che proprio in questo contesto verrà sostituito dal nuovo rito (vv.22-25).

L'importanza di tale contesto viene rilevato da Marco attraverso tre passaggi (vv. 1.12.17) che aprono altrettante pericopi, al cui interno sono collocati gli eventi, che aprono il racconto della passione e morte di Gesù e in qualche modo ne sono il preambolo e nel contempo ne formano la chiave di lettura. Tre passaggi che, partendo da un annuncio generico, “Ora, dopo due giorni, era la pasqua e gli azzimi.” (v.1a), vanno sempre più restringendo il campo con il v.12: “E nel primo giorno degli azzimi, allorché si sacrificava la pasqua, gli dicono i suoi discepoli: <<Dove vuoi che, andati, prepariamo affinché mangi la pasqua?>>”, fino a giungere all'ora della cena pasquale: “E venuta la sera, (Gesù) viene con i Dodici. Ed essi sdraiatisi (a mensa) e mentre mangiavano, Gesù disse” (vv.17-18a). Con questa continua restrizione dei campi vengono lentamente focalizzati gli eventi che in essa accadranno. In tal modo l'attenzione del lettore viene gradualmente accompagnata verso ciò che costituisce il cuore del cap.14, il racconto dell'ultima cena, in cui l'antico rito, qui vagamente accennato (vv.12b.20.26), viene sostituito da quello nuovo (vv.22-25), dove l'agnello pasquale, mangiato con pani azzimi, viene sostituito da Gesù, l'agnello di Dio che si fa pane che si spezza per tutti; mentre il sangue dell'agnello sparso sugli stipiti delle case degli ebrei, salvaguardandoli dall'ira divina, viene sostituito dal sangue di Gesù sparso sulla croce dove l'intera umanità viene abbracciata e associata (Gv 12,32).

Il cap.14, che si muove tutto all'interno del mondo giudaico, è strutturalmente diviso in due parti: la prima (vv.1-26) funge in un certo qual modo da preambolo all'intero racconto della passione e morte di Gesù e ne contiene in qualche modo la chiave di lettura: Gesù è il vero agnello pasquale immolato, il cui sangue è capace di redenzione e di salvezza; la seconda parte (vv.27-72), in un continuo crescendo drammatico racconta il definitivo ripudio omicida di Gesù da parte del giudaismo: Gesù, dopo essersi consegnato ai suoi (vv.22-24), esce da questa ristretta cerchia per consegnarsi all'intera dell'umanità. Lo farà passando attraverso un suo personale travaglio interiore (vv.33-36), abbandonato dai suoi, incapaci di sostenerlo per la loro inintelligenza di un Mistero che si stava compiendo sotto i loro occhi (vv.37-38.40-41); da qui, passando attraverso le mani di Giuda, viene consegnato alle autorità giudaiche (vv.43-52); da queste al giudizio del Sinedrio (vv.53.65), la soglia ultima del giudaismo, che segna il limite tra il mondo ebraico e quello pagano, al quale verrà consegnato in via definitiva (15,1) e da qui sulla croce, da dove il suo sangue cadrà sia sui pagani, che lo riconoscono come il Giusto (15,9-11.14a; At 3,14) e lo accolgono (15,39), sia su quei giudei, che, fattisi suoi discepoli, ne accolgono sotto la croce l'eredità spirituale, divenendone testimoni (15,40-47). Una croce dove c'è spazio per tutti. Quella croce, quel sangue sparso, quel corpo spezzato non è più appannaggio di pochi, ma assume una dimensione di redenzione e di salvezza universale, che nella risurrezione diventerà cosmica (Mt 28,18). Non a caso Marco, parimenti a Giovanni (Gv 18,28-19,22), vedrà il salire di Gesù sulla croce come la sua intronizzazione regale, a cui si riferirà per ben sei volte nel cap.15, fino all'apoteosi del riconoscimento della sua divinità (15,39). Una croce dai tratti regali e divini dalla quale attirerà tutti a sé in una sorta di abbraccio universale (Gv 12,32).

La prima sezione del cap. 14 (vv.1-26) si snoda strutturalmente in tre parti, al cui interno Marco intreccia gli eventi tra di loro, per meglio evidenziarne il significato:

  1. Primo preambolo: I progetti omicidi delle autorità giudaiche e il tradimento di Giuda (vv.1-2.10-11) al cui interno viene collocata la simbolica inumazione di Gesù, preannuncio della sua morte (vv.3-11);

  2. Secondo preambolo: il contesto pasquale (vv.12-16);

  3. L'ultima cena: l'annuncio del tradimento di Giuda coniugato con l'istituzione dell'eucaristia (vv.17-26)


Commento ai vv.1-26

Preambolo introduttivo agli eventi della passione (vv.1-11)

Testo a lettura facilitata

Progetti di morte in un contesto pasquale (vv.1-2)

1- Ora, dopo due giorni, era la pasqua e gli azzimi. E i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano, presolo con inganno, come ucciderlo;
2- dicevano, infatti: <<Non nella festa, affinché non vi sia tumulto del popolo>>.

L'unzione di Gesù, preannuncio della sua morte (vv.3-9)

3- Ed mentre egli era a Betania nella casa di Simone il lebbroso, sdraiato a tavola, venne una donna, che aveva un costoso vasetto di alabastro di unguento di puro nardo, rotto l'alabastro, (lo) versò sul suo capo.
4- Ora vi erano alcuni che si sdegnarono tra loro: <<Per che cosa è stato fatto questo spreco di unguento?
5- Poteva questo essere venduto per oltre trecento denari ed essere dati ai poveri>>. E si adiravano contro di lei.
6- Gesù disse: <<Lasciatela; perché le procurate delle pene? Ha compiuto su di me una buona cosa.
7- Infatti avete sempre i poveri con voi e allorché vogliate potete fare del bene a loro; invece non avete sempre me.
8- (Essa) fece ciò che ha potuto: ha preso prima ad ungere il mio corpo per la sepoltura.
9- In verità vi dico, ovunque fu predicato il vangelo per il mondo intero, anche ciò che essa fece sarà detto a suo ricordo.

Il tradimento di Giuda (vv.10-11)

10- E Giuda Iscariota, uno dei Dodici, andò dai capi dei sacerdoti per consegnarlo loro.
11- E quelli, ascoltato(lo), gioirono e promisero di dargli del denaro. E cercava come consegnarlo nel tempo più opportuno.


Note generali

La pericope costituisce il prologo introduttivo al racconto della passione e morte di Gesù. Essa comprende tutti gli elementi essenziali che tracciano l'intero racconto della passione, che verrà arricchito di vari quadri e scene man mano che questo si sviluppa. Il contesto temporale è quello che si colloca a ridosso della pasqua e la preannuncia, legando già fin d'ora la morte di Gesù alla festa (v.1a); i capi dei sacerdoti stanno progettando concretamente il piano per prendere Gesù per poi ucciderlo (vv.1b-2); l'opportunità per l'attuazione del piano omicida viene loro offerta inaspettatamente da Giuda, così che questo evento inatteso provoca in loro una grande gioia (vv.10-11). Non si tratta più, quindi, di un semplice desiderio inattuabile, come in 3,6, dove “i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire”. Qui siamo giunti al “dunque”, che verrà confermato dal v.8.

Un episodio, quello del complotto, che occupa solo poco più di tre versetti (vv.1b-2.10-11), che Marco distanzia tra loro inserendovi dentro un secondo racconto, quello dell'unzione di Gesù, che lascia trasparire come ormai quelli delle autorità giudaiche non siano più dei semplici propositi, ma piani ben congegnati, che stanno per attuarsi. Significativo in tal senso è l'interpretazione che Gesù stesso dà al gesto della donna: “(Essa) fece ciò che ha potuto: ha preso prima ad ungere il mio corpo per la sepoltura” (v.8).

Accanto, dunque, ad una prospettiva di morte violenta, Marco affianca un racconto di pietà e di compassione, che, parimenti a quello, sarà sempre ricordato in tutto il mondo (v.9).

Questo modo di inframezzare e intrecciare i racconti tra loro è una tecnica narrativa tutta marciana, definita “a sandwich” e che già abbiamo incontrato altre volte, finalizzata a vivacizzare il racconto, creando attesa, suspense, stimolando l'attenzione del lettore o dell'ascoltatore, che deve saper ricordare e riprendere il filo del racconto lasciato in sospeso per dare spazio ad un altro; ma, altresì, per completare o approfondire il messaggio che i due racconti, intrecciati tra loro, intendono trasmettere al lettore. Sono cinque le unità che usano questo schema narrativo10.

Per una migliore comprensione e un migliore approfondimento accentrerò l'attenzione prima sui vv.1-2.10-11, che si completano tra loro, per poi passare al commento dell'unzione di Betania (vv.3-9).

Commento ai vv. 1-11

Progetti di morte e tradimenti (vv.1-2.10-11)

Il racconto della passione si apre con una doppia contestualizzazione temporale utile per scandirne i tempi: da un lato si attesta che “dopo due giorni”; dall'altro, che era “la pasqua e gli azzimi”.

Marco riprende qui, dopo un intermezzo che va da 11,27 a 13,37, ben oltre due capitoli tutti collocati nel Tempio di Gerusalemme e tutti facenti parte del “terzo giorno”, secondo il computo dei giorni iniziatosi in 11,11. Un computo che già avevo dettagliatamente esposto nel commento al cap 11 e che ora, per facilitare il lettore, riporto nuovamente di seguito.

Va tenuto presente che Marco qui sta scrivendo il suo vangelo per la comunità di Roma e quindi il conteggio dei giorni si svolge non secondo il computo giudaico, che fa partire il nuovo giorno dalle 18,00 della sera e lo fa terminare alle 18,00 della sera successiva, bensì secondo le logiche del computo temporale greco-romano11, che fa iniziare il nuovo giorno alle sei del mattino e lo fa terminare alle diciotto della sera, da dove comincia il conteggio della notte, che vien suddivisa in quattro vigilie o veglie di tre ore ciascuna, che richiamano i turni di guardia delle sentinelle. Lo si arguisce da 11,11-12.19-20 dove un racconto termina alla sera, mentre il mattino dopo ne inizia un altro; e similmente in 14,12, dove si annuncia il “primo giorno degli azzimi”, dove avvengono cose che si compiono durante il giorno, così come la pulizia della casa da ogni pane e da ogni pasta fermentati; operazione questa che doveva concludersi entro mezzogiorno; mentre l'immolazione degli agnelli pasquali avveniva sempre nello stesso giorno ma nel tardo pomeriggio tra le 15,00 e le 18,00.

Le note temporali, tuttavia, non vanno calcolate con il cronometro in mano, ma sono indicative, poiché il loro senso è quello di scandire lo svolgersi degli eventi. Non ci si trova davanti ad un diario di bordo, ma ad un tentativo dell'evangelista di mettere un po' d'ordine ai numerosi eventi accaduti in Gerusalemme e che legge secondo la sua prospettiva teologica e cristologica:

  1. Primo giorno (domenica) (vv.1-11): Gesù, lasciata Gerico, s'incammina verso Gerusalemme (10,46a.52b), dove arriva probabilmente nel primo pomeriggio, poiché, giunto a Gerusalemme, entra subito nel Tempio per poi uscirne subito, perché “già l'ora era tarda” (v.11b) e con i suoi se ne va a Betania (v.11c), luogo della sua dimora durante il soggiorno a Gerusalemme. Fine del primo giorno

  2. Secondo giorno (lunedì) (vv.12-19): il giorno dopo il suo arrivo a Gerusalemme, Gesù esce da Betania (v.12), dove aveva pernottato la sera precedente (v.11c), e si dirige verso Gerusalemme (v.15a). Durante il tragitto vi è l'episodio del fico infruttuoso e, per questo, reso sterile. Giunto a Gerusalemme, Gesù entra nel Tempio, scacciandone i venditori e inveendo contro il sistema di gestione del Tempio, trasformato in un luogo di affari e di commercio (vv.15-18). Ne esce verso sera e se ne esce dalla città (v.19), dirigendosi probabilmente a Betania. Fine del secondo giorno.

  3. Terzo giorno (martedì) (vv.11,20-13,37): questo terzo giorno, che si svolge per buona parte nel Tempio (11,27-13,1a), copre un'ampia sezione narrativa, che va da 11,20a, dove Gesù si sta nuovamente dirigendo da Betania verso Gerusalemme (v.27), fino a 13,37, dove si conclude il lungo discorso escatologico. Durante questo terzo giorno viene notato, nell'andare verso Gerusalemme, il rinsecchimento del fico e la conseguente lezione sulla fede e sul perdono rivolta ai Dodici (vv.20b-26). Si entra, poi, a Gerusalemme e, da qui, nel Tempio, dove Gesù, mentre passeggiava, viene avvicinato dai capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani, le tre categorie di persone che formano il Sinedrio, per aver ragguagli circa l'autorità con cui ha scacciato i venditori nel Tempio il giorno prima. A questa prima diatriba se ne aggiungeranno altre quattro (12,13-37), accompagnate da altri insegnamenti, che occuperanno l'intero cap.12. Nel mentre che esce dal Tempio (13,1a), siamo sempre nel terzo giorno di attività missionaria a Gerusalemme, Gesù, sollecitato da alcuni discepoli, fa il più lungo discorso dell'intero vangelo (13,2-37), quello escatologico ed apocalittico, che si conclude con l'ammonimento e il sollecito a vegliare (13,37).

  4. Quarto giorno (mercoledì): non viene presentata nessuna attività gerosolimitana di Gesù, ma l'autore apre il cap.14, riprendendo il computo dei giorni da dov'era rimasto, dal “terzo giorno”, ricordando ai suoi lettori che “dopo due giorni, era la pasqua e gli azzimi” (14,1a). Quindi la pasqua, o meglio la consumazione dell'agnello pasquale, poiché per gli ebrei questa era la pasqua, sarebbe caduta due giorni dopo il terzo, cioè nel quinto giorno, mentre gli azzimi sarebbero caduti nel sesto giorno, quello successivo alla pasqua. Marco, infatti, enumera la Pasqua e gli Azzimi, uno susseguente all'altro. Durante questo lasso di tempo Marco segnala ai suoi lettori tre episodi, che fungono da preambolo al racconto della passione e morte di Gesù: l'annotazione che i capi dei sacerdoti e gli scribi complottavano per uccidere Gesù, studiando la tempistica migliore per poterlo fare (14,1b-2); il racconto della donna che, a Betania, mentre Gesù era ospite in casa di Simone il lebbroso, unse Gesù “per la sua sepoltura” (14,3-9); ed infine, Giuda, staccatosi dal gruppo, va dai capi dei sacerdoti per contrattare la consegna di Gesù (14,10-11). Questo è quanto di rilevante, ai fini degli intenti narrativi dell'autore, avviene in questo quarto giorno.

  5. Quinto giorno (giovedì): da qui Marco riprende il suo racconto sugli eventi accaduti a Gerusalemme, riguardanti la passione e morte di Gesù, scandendoli con una nuova conta dei giorni: “Nel primo giorno degli azzimi” (14,12a). È quello immediatamente prima della pasqua, in cui il padrone di casa doveva, entro mezzogiorno, ripulire accuratamente la propria abitazione da ogni pasta fermentata e da ogni briciola di pane. È il giorno in cui, nel pomeriggio, si sacrificavano gli agnelli per la cena pasquale (14,12b) e si predisponeva il luogo della sua consumazione (14,12c) e alla sera si consumava l'agnello, cioè si dava inizio alle feste pasquali. “E venuta la sera” (14,17), è quella di pasqua in cui si consuma l'agnello pasquale (14,18-31) e in cui Gesù, dopo la cena, recatosi nel Getsemani, viene arrestato e condotto presso il sommo sacerdote (14,32-72). Non va mai dimenticato che Marco computa i giorni alla maniera greco-romana, partendo dalle sei del mattino.

  6. Sesto giorno (venerdì): “E subito di mattina” (15,1a), è la mattina successiva a quella della cena pasquale e, quindi, si è nella festa degli Azzimi, il 15 di nisan. Si è quindi nel sesto giorno, quello in cui Gesù viene portato da Pilato, che in modo sommario e per non inimicarsi le autorità giudaiche, condanna Gesù alla crocifissione (15,1-20), che avviene all'ora terza: “Era l'ora terza e lo crocifissero” (15,25), cioè le nove del mattino; tra l'ora sesta e l'ora nona, cioè tra mezzogiorno e le tre del pomeriggio, viene un gran buio sulla terra (15,33) e nell'ora nona Gesù muore (15,34.37). Alla sera (15,42a), comunque prima delle diciotto, ora in cui cominciava il sabato, Gesù viene deposto dalla croce e sepolto in una grotta. Gesù, quindi, secondo la tempistica di Marco, muore nel giorno degli Azzimi, che era di venerdì, giorno di parasceve, cioè di preparazione al sabato (15,42b).

  7. Settimo giorno (sabato) (16,1a) è il sabato. Gesù è già sepolto ed è un giorno di silenzio narrativo. La narrazione riprenderà con l'ottavo giorno, quello dopo il sabato: “E trascorso il sabato(16,1a);

  8. Ottavo giorno (domenica) (16,1-8) è il giorno dopo il sabato (16,1a), le donne vanno al sepolcro per inumare Gesù, ma trovano la tomba vuota. L'ottavo giorno è l'inizio di una nuova settimana, che comincia nella luce sfolgorante della risurrezione e che richiama da vicino quella della prima creazione, anche questa iniziata con il fulgore della luce divina, in cui viene avvolta l'intera creazione, che durerà una settimana (Gen 2,2): “Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu(Gen 1,3). L'ottavo giorno, dunque, è l'inizio di una nuova creazione, avvolta nella luce della risurrezione e che troverà il suo compimento nell'eternità di Dio, allorché tutto sarà nuovamente sottoposto a Dio, così come lo fu nei primordi della creazione e dell'umanità: “E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti(1Cor 15,28). E con questo si chiude definitivamente il ciclo della nuova creazione, il ciclo della salvezza e della sua storia. Tutto uscito da Dio, tutto ritorna a Lui e in Lui, per Cristo con Cristo e in Cristo.

Stabilito il computo dei giorni, che, non va dimenticato, Marco scandisce secondo le logiche greco-romane e non giudaiche, facendo iniziare i giorno alle sei del mattino, è importante, ora, dare un nome a questi giorni. Che giorno era il primo giorno e quelli successivi? Per poterlo fare è necessario ricorrere a Gv 19,31: “I Giudei dunque, poiché era la parasceve, affinché i corpi non rimanessero sulla croce di sabato, infatti era grande il giorno di quel sabato, chiesero a Pilato che fossero spezzate le loro gambe e fossero portati via”. Due le annotazioni temporali di rilievo: Giovanni ci avverte che il giorno in cui Gesù morì era “la parasceve”, cioè il giorno di preparazione al sabato, quindi, era di venerdì; e poi completa attestando che “era grande il giorno di quel sabato”, cioè quel sabato, giorno successivo alla parasceve, era grande, solenne, non era un sabato qualsiasi, poiché era il giorno di pasqua12. Ora, andando a ritroso nel computo dei giorni e partendo dal settimo giorno si arriva a calcolare che il primo giorno, quello in cui Gesù, salito da Gerico, era entrato a Gerusalemme e nel Tempio, era la domenica. Di conseguenza tutti gli altri seguono regolarmente.

Definito il computo dei giorni con tutti gli eventi che in essi sono accaduti, ora Marco afferma che stava per giungere da lì a due giorni “la pasqua e gli azzimi”. Un annuncio che richiede una nuova precisazione.

I Sinottici, aprendo il racconto della passione e morte di Gesù, lo collocano nel contesto delle feste pasquali, che indifferentemente chiamano Pasqua o Azzimi, identificando tra loro le due festività. Lc 22,1 dice che “Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua”. Mc 14,1 narra che “Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi”, l'unico tra i Sinottici che sembra creare una successione di festività: prima la Pasqua e poi gli Azzimi, tenendo distinte le due festività, così come lo erano in origine; mentre Mt 26,2, più correttamente, parla soltanto di Pasqua e non di Azzimi, così, a modo suo, anche Matteo, come Marco, tiene distinta la Pasqua dagli Azzimi: “Voi sapete che fra due giorni è Pasqua e che il Figlio dell'uomo sarà consegnato per essere crocifisso”. Tuttavia, tutti tre i Sinottici contestualizzano il giorno in cui si immolavano gli agnelli con il “primo giorno degli Azzimi” (Mt 26,17a; Mc 14,7), mentre Lc 22,7 racconta che “Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua”. Tutti e tre, quindi, anche se in modi differenti, sembrano identificare la Pasqua con gli Azzimi, senza creare alcuna distinzione tra le due feste.

Questo loro modo di esprimersi e di concepire le due festività come un'unica festa, di fatto identificandole, non è solo loro, ma lo stesso Giuseppe Flavio, che era di classe sacerdotale e quindi ben addentro alla questione, usa sostanzialmente l'identico linguaggio dei Sinottici e in particolare quello di Luca, che probabilmente ha desunto la sua espressione dallo stesso Giuseppe Flavio, di cui doveva conoscere le opere: “Ma siccome questo aveva luogo nel periodo della festa dei Pani Azzimi, che noi chiamiamo Pasqua, i Giudei di grande reputazione lasciarono la regione e ripararono in Egitto” (Ant.Jud, 14,21b); e similmente in Ant.Jud. 18,29b: “Nella festa degli Azzimi che noi chiamiamo Pasqua, i sacerdoti sogliono aprire i portoni del tempio dopo mezzanotte” e così in Bell.Jud. 2,10: Sopravvenuta la festa degli Azzimi, che presso i giudei si chiama Pasqua”.

Ai tempi di Gesù, pertanto, la festa di Pasqua e degli Azzimi coincidevano tra loro al punto tale da identificarle, benché, come s'è visto sopra, Marco e Matteo lascino intravvedere come queste due festività non solo non sono una sola, ma come l'una, gli Azzimi, è susseguente all'altra, la pasqua. Forse un antico ricordo di ciò che fu in origine. Non va dimenticato che Marco, alla pari di Matteo, era uno scriba e le cose, come la loro storia, le conosceva bene ed era ben addentro alle Scritture.

Questa unificazione delle due feste in una fu operata dalla riforma di Giosia nel 622 a.C., il quale accentrò il culto a Gerusalemme. Questo comportò lo spostarsi di masse enormi di persone, che per celebrare la pasqua si dovevano recare a Gerusalemme, trasformando la pasqua, nata come una festa di tipo rurale e familiare, in un enorme evento sociale di pellegrinaggio. Giuseppe Flavio ne tentò una conta in Bell.Jud. 6,423-425: 2.700.000 persone, tante erano quelli che dall'intera Palestina e dall'impero confluivano a Gerusalemme durante la festa di Pasqua, a cui, per motivi pratici, venne associata quella degli Azzimi.

Una prima attestazione di questo accorpamento è testimoniata da Ez 45,21: “Il quattordici del primo mese sarà per voi la pasqua, festa d'una settimana di giorni: mangeranno pane azzimo13

Le due festività, tuttavia, originariamente, erano sorte in contesti culturali e storici molto diversi e lontani nel tempo. La Pasqua, la cui etimologia è incerta14, era una festa caratteristica dei pastori, che, dopo la fermata invernale, sul far della primavera (marzo-aprile), al sorgere della luna nuova, riprendevano il loro peregrinare in cerca di nuovi pascoli per le greggi. In questo contesto temporale veniva sacrificato un giovane animale per la prosperità e la fecondità degli armenti. Il sangue, messo sui sostegni delle tende, aveva un significato apotropaico, serviva per tenere lontane le potenze malefiche, il mašhît, lo Sterminatore, il cui ricordo è conservato nella tradizione jahvista (Es 12,23). Altri particolari accentuano il carattere nomadico della Pasqua come il mangiare la vittima arrostita, senza attrezzi da cucina, con pani non lievitati, ancor oggi usati dai Beduini, e con erbe amare selvatiche, che sono i prodotti tipici del deserto e che servono per condire il pasto frugale, caratteristico del nomade. Questi consumava il pasto con i fianchi cinti e i calzari ai piedi e con il bastone del pastore in mano, come per una lunga marcia. Questo rituale è stato assimilato anche da Israele al tempo del suo nomadismo e soltanto in un tempo successivo venne associato alla sua liberazione e reinterpretato alla luce di quegli eventi, divenendone un rituale e un memoriale (Es 12,14). Una traccia di questa preesistenza presso il popolo ebreo ci viene offerta da Es 5,1-3; 8,23. La Pasqua, dunque, è una festa propriamente pastorale, associata al periodo nomadico di Israele e che certamente Israele ha ereditato da altri popoli nomadi.

Parallela alla festa della Pasqua e, nel tempo, ad essa associata è quella degli Azzimi, massôt, pani senza lievito. Questa festa agricola segna l'inizio della mietitura dell'orzo, che è la prima dell'anno. A partire da questa festa “Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane; poi celebrerai la festa delle settimane15 per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto” (Dt 16,9-10). La festa degli Azzimi, la cui durata era di una settimana, dal 15 al 21 di Abib o Nisan16 (Es 12,18), è una festività che il popolo ebreo ha incominciato a praticare dopo il suo ingresso a Canaan17 (circa 1200 a.C.) e che, probabilmente, Israele ha acquisito dalle popolazioni cananee, adattandola, poi, alle proprie esigenze religiose. Punto di congiunzione tra le due festività, ma non ancora di fusione tra loro, è Gs 5,10-11: “Si accamparono dunque in Gàlgala gli Israeliti e celebrarono la pasqua al quattordici del mese, alla sera, nella steppa di Gerico. Il giorno dopo la pasqua mangiarono i prodotti della regione, azzimi e frumento abbrustolito in quello stesso giorno”.

Essa, nel suo carattere iniziale, era una semplice offerta delle primizie della terra. Successivamente venne celebrata con un suo proprio rituale, ricordato nel Libro del Levitico: “Il Signore aggiunse a Mosè: Parla agli Israeliti e ordina loro: Quando sarete entrati nel paese che io vi darò e ne mieterete la messe, porterete al sacerdote un covone, come primizia del vostro raccolto; il sacerdote agiterà con gesto rituale il covone davanti al Signore, perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote l'agiterà il giorno dopo il sabato. Quando farete il rito di agitazione del covone, offrirete un agnello di un anno, senza difetto, in olocausto al Signore. L'oblazione che l'accompagna sarà di due decimi di efa di fior di farina intrisa nell'olio, come sacrificio consumato dal fuoco, profumo soave in onore del Signore; la libazione sarà di un quarto di hin di vino. Non mangerete pane, né grano abbrustolito, né spighe fresche, prima di quel giorno, prima di aver portato l'offerta al vostro Dio. E' una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete” (Lv 23,9-14). Durante la festa di questi sette giorni si mangiava pane con farina nuova, senza lievito e senza nulla che provenisse dal vecchio raccolto. Si trattava, quindi, di un nuovo inizio. Anche questa festa, di origine agricola e quasi certamente cananea, è stata rivisitata e risignificata da Israele e agganciata allo stesso significato della Pasqua (Es 12,15-20), molto probabilmente per la continuità logica dell'unico atto salvifico: liberazione dalla schiavitù egiziana (Pasqua, che venne consumata con pane azzimo ed erbe amare- Es 12,8) e insediamento nella Terra promessa (Azzimi).

Le due festività, quella della Pasqua e quella degli Azzimi, l'una, come si è visto, di origine pastorale e nomadica, l'altra agricola e stanziale, venivano celebrate entrambe nello stesso mese di Abib o Nisan. Con la riforma di Giosia (622 a.C.) le due festività vennero tra loro associate e poiché la Pasqua era celebrata anch'essa con pani azzimi (Es 12,8) e le due festività facevano memoria dello stesso evento salvifico, parve opportuno congiungere le due feste. La prima congiunzione, ma non ancora fusione delle due festività, che sono comunque tenute distinte tra loro e fatte susseguire l'una dopo l'altra, è testimoniata da Es 12,1-18 e Lv 23,5-8, in cui le due festività sono prescritte l'una dietro l'altra (Lv 23,5-6; Nm 28,16-17). Il motivo di questo susseguirsi delle due festività, Pasqua il quattordici e Azzimi il quindici, viene spiegato da Nm 33,3, legandolo ad un evento storico: “Partirono da Ramses il primo mese, il quindici del primo mese. Il giorno dopo la pasqua, gli Israeliti uscirono a mano alzata, alla vista di tutti gli Egiziani,

La seconda congiunzione, che sembra essere una vera e propria fusione delle due feste, è data da Dt 16,1-8. Su questo passo si è basata la riforma di Giosia. Tuttavia, va detto che questa pericope riporta un testo composito, il quale è stato profondamente rimaneggiato, quasi certamente dallo stesso Giosia, per giustificare la propria riforma, che ha come caratteristica principale e innovativa la centralizzazione della pasqua a Gerusalemme. I vv. 1-2.4b-7, infatti, riguardano la pasqua; mentre vv.3-4a.8 concernano gli Azzimi. Questo intreccio è servito probabilmente per fondere assieme i riti della pasqua con quelli degli Azzimi. L'accostamento dei testi, così come la loro disposizione, infatti, è artificiale. Ma vi è un altro elemento da considerare, che spinge a pensare come questo testo sia stato costruito da Giosia. I vv. 5-6, infatti, recitano: “Non potrai immolare la Pasqua in una qualsiasi città che il Signore tuo Dio sta per darti, ma immolerai la Pasqua soltanto nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto come sede del suo nome; la immolerai alla sera, al tramonto del sole, nell'ora in cui sei uscito dall'Egitto”. Versetti che fanno obbligo all'israelita di immolare l'agnello pasquale “nel luogo che il Signore tuo Dio avrà scelto come sede del suo nome”, cioè a Gerusalemme, presso il Tempio. Ed è proprio questo passo che qualifica la riforma centralizzante di Giosia, che trasformerà l'originaria festa della pasqua, da festa nomadica e familiare (Es 12,3-4) in un pellegrinaggio annuale, un evento sociale dalle proporzioni enormi, come s'è visto sopra. Una innovazione che Giosia attribuisce a sé: “Il re ordinò a tutto il popolo: <<Celebrate la Pasqua per il Signore vostro Dio, con il rito descritto nel libro di questa alleanza>>. Difatti una Pasqua simile non era mai stata celebrata dal tempo dei Giudici, che governarono Israele, ossia per tutto il periodo dei re di Israele e dei re di Giuda. In realtà, tale Pasqua fu celebrata per il Signore, in Gerusalemme, solo nell'anno diciotto di Giosia.” (2Re 23,21-2318).

La fusione tra le due festività, poi, fu facilitata anche sia dal modo ebraico di contare i giorni, dalla sera alla sera del giorno dopo, sia dal fatto che la pasqua doveva essere consumata con pane azzimo (Es 12,18; Nm 9,11).

Questa era la situazione al tempo del giudaismo del I sec. d.C., e a questa situazione fanno riferimento gli evangelisti.

In questo contesto pasquale Marco presenta i personaggi che hanno consentito l'arresto e la morte di Gesù: sommi sacerdoti e scribi, da un lato, e il tradimento di Giuda, che li ha favoriti, dall'altro.

Quel “cercavano di ucciderlo” lascia intravvedere come la fine di Gesù non fu casuale e improvvisata, ma quel verbo posto all'imperfetto indicativo, “cercavano”, dice che un simile progetto omicida era da tempo che stava maturando in loro (3,6), finché non giunse l'occasione opportuna, offerta loro inaspettatamente da Giuda. Da qui la loro gioia per 'inattesa opportunità (v11a). Marco sottolinea come essi meditavano di prendere Gesù “con inganno”, lasciando trasparire la loro perversità e il loro inqualificabile livello morale. Mentre il v.2 rivela il loro stratagemma per non creare turbamenti durante la pasqua e gli azzimi, la quale cosa avrebbe potuto risolversi in un bagno di sangue e con gravi conseguenze: “Non nella festa, affinché non vi sia tumulto del popolo”. Un timore questo che Gv 11,47-48 paventerà apertamente: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>”. Tutto, dunque, doveva svolgersi nel silenzio e prima che iniziassero le festività pasquali, pasqua ed azzimi, la cui durata era di complessivi otto giorni, un giorno la pasqua e sette giorni gli azzimi, dal 15 al 21 di nisan.

Un proposito questo che il racconto marciano non sembra rispettare, poiché Gesù verrà arrestato e processato di notte, dopo la cena pasquale, mentre il mattino seguente, il 15 di nisan con cui iniziavano gli azzimi, Gesù è processato da Pilato e crocifisso. Discrepanze queste su cui torneremo successivamente.

I vv.10-11 completano il quadro del complotto contro Gesù, facendo intervenire Giuda. Una figura che nei Sinottici comparirà sempre e soltanto due volte: nell'elenco dei Dodici, dove significativamente occupa sempre l'ultima posizione, per indicare come questa figura di apostolo fosse sempre stato posto ai margini del gruppo e fin da subito egli veniva definito come il traditore19, così come Pietro, invece, compare sempre in prima posizione.

Marco definisce Giuda come “uno dei Dodici”, per evidenziare maggiormente il suo tradimento. Egli non era un semplice discepolo, ma uno scelto da Gesù come gli altri undici, “affinché fossero con lui e affinché li inviasse a predicare e ad avere autorità di scacciare i demoni” (3,14b-15). Giuda, quindi, qui non tradisce solo il suo Maestro, ma la sua stessa vocazione, che fu una vera e propria investitura e consacrazione divina posta su di lui, come sugli altri.

Marco racconta come Giuda “andò dai capi dei sacerdoti per consegnarlo loro”. Quel “andare” dalle autorità giudaiche dice lo staccarsi di Giuda dal gruppo e ancor prima da Gesù per passare dalla parte degli avversari di Gesù. Gv 13,27.30 dipingerà con tocchi drammatici e quanto mai foschi il tradimento di Giuda, che sparisce nel buio della notte del suo tradimento: “E dopo il boccone, allora satana entrò in quello. Gli dice dunque Gesù: <<Ciò che fai, fa(llo)presto>> [..] Preso dunque il boccone, quello uscì subito. Ora, era notte”.

Giuda, dunque, si stacca dal gruppo dei Dodici per “consegnare” Gesù ai suoi avversari. Significativo quel “parado‹” (paradoî, affinché consegnasse). Un verbo che è comparso nei secondi due annunci della passione, il primo in forma riflessiva “si consegna” (9,31) e la seconda volta in forma passiva, “sarà consegnato” (10,33). Nella prima forma riflessiva il verbo lascia intravvedere come Gesù stesso si sia offerto volontariamente ai suoi avversari, per compiere la volontà del Padre; mentre nella seconda forma passiva si prospetta un passivo teologico o divino, che rimanda l'azione del verbo a Dio stesso, in obbedienza ad un piano salvifico prestabilito dal Padre.

Un verbo, questo paradwomi (paradídomi, consegnare) che tornerà dopo questo v.10 altre nove volte sempre nell'ambito del racconto della passione e morte, quasi a sottolineare in modo ossessivo come Gesù, dono di amore del Padre agli uomini (Gv 3,16), si è fatto lui stesso volontariamente dono per loro, attuando in questo suo donarsi il progetto di salvezza pensato dal Padre fin dall'eternità (Ef 1,4).

Il v.11 costituisce la risposto al v.1, dove le autorità religiose cercavano di ucciderlo con l'inganno. Ed è in questo contesto di inganni e di tradimenti che nasce la loro gioia:”™c£rhsan” (ecáresan,) gioirono. Un verbo questo che ricorre 29 volte negli evangelisti in vari contesti, ma in Marco soltanto due volte ed entrambe nel contesto della passione di Gesù, qui e in 15,18 dove assume il significato di un ironico e beffardo saluto al re dei giudei da parte della soldataglia. Una gioia, quindi, che mette in evidenza la profonda perversione delle autorità giudaiche, che gioiscono “¢koÚsantej” (akúsantes), cioè dopo aver udito i propositi di tradimento di Giuda. Una gioia, quindi, che non nasce dall'ascolto della Parola di Vita, ma di morte e dalla quale tralucono le tenebre, in cui erano avvolti gli avversari di Gesù, che opereranno di notte e che richiama Lc 23,53b: “questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre”, quelle tenebre che avvolsero lo stesso Giuda, che lasciata la cena e Gesù, uscì, scomparendo nel buio della notte (Gv 13,30).

Ogni tradimento ha il suo prezzo e Gesù venne contrattato con del denaro. Solo Mt 26,15b parla di trenta denari d'argento, il prezzo con cui si pagava uno schiavo ucciso da un bue (Es 21,32) e che richiama Zc 11,12, poiché Matteo vede in questo l'attuarsi della profezia.

Ora è compito di Giuda studiare il tempo opportuno per consegnare Gesù ai suoi avversari: “E cercava come consegnarlo nel tempo più opportuno”. Quel “cercava”, che si pone in parallelo e si aggancia al “cercavano” (v.1b) delle autorità. Giuda, dunque, è passato al nemico e i due ora sono accomunati da un medesimo obbiettivo: sopprimere Gesù. “Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno” (Sal 41,10).

L'unzione di Gesù, preannuncio della sua morte (vv.3-9)

Note generali

Anche questo racconto, riportato da tutti gli evangelisti ad eccezione di Luca, che lo elaborerà a modo suo in un diverso contesto narrativo (Lc 7,36-50), fa parte del preambolo alla passione e morte di Gesù. Esso costituisce l'altra faccia della medaglia: i vv.1-2.10-11 hanno presentato i tradimenti e i progetti di morte da parte degli avversari di Gesù; ora questo racconto dell'unzione sviluppa una riflessione tutta interna alla comunità credente che gira tutt'attorno alla morte di Gesù e al suo culto in rapporto alla vita stessa della comunità credente. Tre sono essenzialmente i temi qui affrontati: l'impiego di denaro per il sostentamento del culto al Signore morto-risorto (v.3), la sovvenzione dei poveri (vv.4-5), nonché l'annuncio del vangelo. Problemi presenti nella comunità credente, che, tuttavia, non devono confliggere tra loro, ma armonizzarsi tra loro (vv.6-8) e divenire essi stessi annuncio di vangelo (v.9). Per cui il culto al Signore non va posto in alternativa al sostentamento dei poveri; né questo va opposto al culto del Signore, ma entrambi vanno armonizzati tra loro così che entrambi diventino annuncio del vangelo sia nella forma cultuale che caritatevole. In quale modo? Stabilendo delle priorità: primo il culto al Signore (vv.3.6.8), che si fa poi servizio ai poveri (vv.4-5.7), divenendo in tal modo annuncio del vangelo (v.9).

Quali che sia il senso di tale culto espresso qui dall'unzione, viene offerto in modo autorevole dall'esegesi dello stesso Gesù: “(Essa) fece ciò che ha potuto: ha preso prima ad ungere il mio corpo per la sepoltura” (v.8), prospettando in tal modo la sua fine imminente, la quale cosa va a completare il quadro dei vv.1-2.10-11. Ma al di là del senso di inumazione, che Gesù attribuisce a questo gesto, non vanno esclusi anche altri sensi: quello messianico, per cui Gesù, proprio a ridosso della sua morte, è unto Messia o, per meglio dire, si rivela quale Unto (vv.61-62), destinato a compiere una missione di salvezza, che avverrà con la sua morte. Un messianismo di servizio, dunque, che va riconosciuto come tale all'interno della casa di Simone, il cui nome significa “colui che ascolta”, richiamando in tal modo la comunità credente, costituitasi attorno alla Parola del Signore e formata da coloro che l'ascoltano e l'accolgono nella loro vita. Ma nel contempo una simile unzione richiama anche quella regale, con la quale Dio consacrava i suoi servi (2Re 9,6; 1Sam 10,1), che poneva a capo del suo popolo Israele. Una regalità che risuonerà per ben sei volte nel cap 15 e che formerà il tema di fondo del racconto giovanneo della passione e morte di Gesù, alla quale l'evangelista dedicherà lo spazio di un intero capitolo (Gv 18,37-19,22). La morte di Gesù va colta, dunque, come espressione del suo Messianismo e della sua Regalità, che vanno comunque lette come azione di servizio che Gesù ha compiuto in obbedienza al Padre e a favore del riscatto e della redenzione degli uomini. Se, dunque, questo è il senso della morte di Gesù, un servizio al Padre e agli uomini, che lo spinge a diventare pane che si spezza per tutti, allora anche l'intera comunità credente, stretta attorno al suo Signore è chiamata a celebrare nella propria vita tale culto, divenendo per ciò stesso annuncio del Vangelo. Dal culto, pertanto, alla vita, così che culto e vita si fanno annuncio del vangelo.

La struttura narrativa di questo racconto dell'unzione di Betania può essere scandita in quattro parti:

  1. presentazione del contesto, in cui viene inserito l'episodio: località, luogo, personaggi ed evento (v.3);

  2. la critica dei presenti al gesto della donna (vv.4-5);

  3. la riflessione di Gesù sul gesto della donna, di cui svela il senso (vv.6-8);

  4. Sentenza finale (v.9)


Commento ai vv.3-9

Il v.3 si apre con una triplice indicazione di luogo, che, restringendosi via via sempre più, focalizza l'attenzione del lettore sul contesto in cui avviene l'evento, che funge da tema dell'intero racconto: a Betania nella casa di Simone il lebbroso, a mensa, dove c'è Gesù. Qui, in tale contesto, una donna unge Gesù, il quale associa tale unzione alla sua morte.

Da un punto di vista narrativo e storico il racconto è coerente, poiché Gesù, da che è salito a Gerusalemme, pernotta, poi, a Betania ed è probabile che abbia come punto di riferimento logistico la casa di questo Simone (11,11-12). Un nome e un appellativo, lebbroso, che ricorrono identici nel racconto parallelo di Mt 26,6-13; in Lc 7,36-50, dove il racconto è stato rimaneggiato dall'autore per adattarlo ai propri intenti, il padrone di casa è sempre Simone, ma la sua posizione è quella di un autorevole fariseo; mentre nel parallelo racconto giovanneo (Gv 12,1-8) la casa è quella di Lazzaro e la donna anonima dei sinottici è Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro (Gv 12,3).

Era consuetudine che all'ospite di riguardo venissero riservate delle attenzioni particolari, come il lavargli i piedi e il bacio della pace, ai quali si aggiungeva talvolta anche il cospargere con un unguento profumato il suo capo. Ma ciò che qui attrae l'attenzione è l'anonimato di questa donna, che compare dal nulla, e nel bel mezzo di una convivialità versa sul capo di Gesù, sdraiato a mensa, un costoso unguento di puro nardo. Giovanni stima la quantità di questo unguento: una libbra, pari a circa 328 grammi (Gv 12,3a) e il cui costo stimato era di trecento denari (Gv 12,5; Mc 14,5), circa un anno di lavoro di un operaio.

Il quadro qui presentato da Marco si muove all'interno dello schema culturale proprio del giudaismo dell'epoca, ma l'uso che Marco fa dei suoi personaggi e del contesto in cui li colloca e li fa agire li trasforma in una metafora, per affrontare un problema interno alla comunità credente, sorto probabilmente nella fase di istituzionalizzazione delle comunità e della chiesa primitiva, dove le funzioni o ministeri al suo interno venivano assegnati a persone dedicate20 e, quindi, questi ministri dovevano essere anche riconosciuti economicamente, la quale cosa comportava un costo per la comunità-chiesa. Ne valeva la pena spendere soldi per creare un apparato di servizio interno alla comunità? O non era meglio questi soldi spenderli in opere caritative? Questo probabilmente il di battito interno alla chiesa primitiva. Paolo tratterà ampiamente la questione in 1Cor 9,1-27 e ne farà accenno in altre lettere, dove attesta che egli pur avendo diritto di essere mantenuto dalla comunità presso la quale espletava il suo ministero di apostolo, diritto che si faceva risalire direttamente al Signore21, si manteneva da solo per non gravare sulle comunità in cui annunciava il vangelo22.

Marco contestualizza, dunque, il suo racconto a Betania, che significa “la casa del povero” (Bēt 'ānī) o, in diversa interpretazione, “la casa della grazia, della misericordia di Dio” (Bēt hannāh jāh) o “dove Dio fa grazia, misericordia”. In questo particolare contesto si colloca la casa di Simone, dove la casa acquista in Marco quasi sempre il significato della comunità credente. Infatti questa casa è di Simone, un nome che è una forma tardiva del nome Simeone e viene fatto derivare dal verbo “šāma' ”, ascoltare. Questa casa, dunque, è di “colui che ascolta”. Una casa, pertanto, dell'ascolto, cioè dove si proclama e si ascolta accoglienti l'annuncio della Parola (At 2,42). In questa casa c'è un banchetto dove c'è Gesù, il pane che si spezza per tutti e che richiama da vicino quello eucaristico. In questo contesto sacrale viene collocato il gesto dell'unzione di Gesù, sdraiato a mensa, secondo l'uso greco-romano. Un gesto che è in qualche modo legato al culto e lo esprime in qualche modo. Si tratta di olio profumato, che nell'A.T. acquista una sua particolare sacralità23. Ogni unzione, infatti, purché non collocata in un contesto profano, ha a che fare con il mondo del divino e del sacro24; e qui il senso della sua sacralità è definito sia dal v.8 che dal suo collocarsi all'interno di una cena, in cui l'unzione diventa memoria della morte di Gesù (v.8); un gesto che è compiuto da una donna anonima, ma che è presente in questo contesto sacro e ne fa parte; un anonimato in cui si riflette il volto dell'intera comunità credente, al cui interno sembra esistere un profondo contrasto, una divisione tra chi riteneva giusto porre una particolare attenzione al culto, dedicandovi delle apposite persone al suo servizio, la quale cosa comportava un costo; e chi, invece, con veemenza, preferiva, quel costo lì, sostenerlo per i poveri e le opere caritative in genere (vv.4-5).

Questo dibattito interno alla chiesa primitiva troverà una sua soluzione, che viene fatta risalire all'autorità stessa di Gesù (vv.6-8)

Il v.6 si apre con un invito ad abbassare i toni da parte della fazione di chi con ardore, sdegno e ira, si opponevano a simili sprechi (vv.4-5). Il secondo passaggio è quello di considerare come un simile “sperpero” è invece un'opera buona fatta a favore di Gesù (v.6b), poiché simile atto cultuale nei confronti di Gesù, che viene da lui legato alla sua morte (v.8), è finalizzato a fare memoria di Gesù stesso, che non sempre sarebbe stato fisicamente presente in mezzo a loro, se non con la Parola e lo spezzare del Pane; mentre i poveri sarebbero stati una realtà costantemente e storicamente presente. “Unum facere et aliud non omittere25, dunque. Culto a Gesù e amore verso i poveri non sono due realtà contrapposte e irriducibili l'una all'altra, ma l'una, l'atto di pietà verso Gesù, che si fa culto vivo all'interno della comunità credente, deve tradursi in amore verso i poveri, poiché egli si è fatto Pane che si spezza per tutti.

Ed è proprio questo gesto di culto che Gesù trasforma in una sorta di memoriale: “In verità vi dico, ovunque fu predicato il vangelo per il mondo intero, anche ciò che essa fece sarà detto a suo ricordo”. Il ricordo di cui qui si parla è l'atto di culto, che celebra la morte di Gesù e che la comunità credente ha voluto perpetuare al proprio interno.

I preparativi per la pasqua (vv.12-16)

Testo

12- E nel primo giorno degli azzimi, allorché si sacrificava la pasqua, gli dicono i suoi discepoli: <<Dove vuoi che, andati, prepariamo affinché mangi la pasqua?>>.
13- E manda due dei suoi discepoli e dice loro: <<Andate nella città, e un uomo, che porta una brocca d'acqua, verrà incontro a voi; seguitelo
14- e allorché entrasse, dite al padrone di casa che il maestro dice: “Dov'è il mio alloggio dove mangio la pasqua con i miei discepoli?”.
15- Ed egli vi mostrerà una grande sala da pranzo (al piano superiore) apparecchiata (già) pronta; e là preparate per noi>>.

16- E uscirono i discepoli e andarono nella città e trovarono come disse loro e prepararono la pasqua.


Note generali

Con questa pericope Marco riprende la conta dei giorni, che enumera secondo il computo greco-romano e non giudaico, dalle 6,00 del mattino fino alle 18,00 della sera. Siamo, dunque, nel quinto giorno, il giovedì, e più esattamente il 14 di nisan, dove avvengono due eventi importanti, che lo caratterizzano: la pulizia della casa da ogni pasta fermentata, operazione che il padrone di casa doveva compiere entro mezzogiorno e per la quale vi era un particolare rituale da osservare scrupolosamente. Il divieto di mangiare pane fermentato durante la festa di massot, o Azzimi, il 15 di nisan, infatti, portava a compiere profonde pulizie della casa, perché non rimanessero resti di cibi fermentati, nessuna briciola spersa in qualche cassetto o addosso a qualche vestito. Terminate le pulizie, il padrone di casa, recitata una benedizione, ispezionava attentamente che fossero state compiute diligentemente; mentre le stoviglie, che avevano contenuto cibi fermentati, venivano rese kosher, cioè rese nuovamente idonee ad essere usate.

Il secondo evento era l'immolazione dell'agnello pasquale, che veniva eseguito secondo il rituale di Es 12,3-6: “Parlate a tutta la comunità di Israele e dite: Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa. Se la famiglia fosse troppo piccola per consumare un agnello, si assocerà al suo vicino, al più prossimo della casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l'agnello, secondo quanto ciascuno può mangiarne. Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell'anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo serberete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l'assemblea della comunità d'Israele lo immolerà al tramonto”. Quindi, quando Marco precisa “allorché si sacrificava la pasqua” (v.12a) indica implicitamente che si è al 14 di nisan “al tramonto”, letteralmente “tra le due sere” (ben harbàym)26, cioè tra l'inizio del declinare del sole, tra le 12,00 e le 15,00 circa, e il suo tramonto, tra le 15,00 e le 18,00. L'immolazione degli agnelli pasquali, pertanto, avvenivano in questa fascia di tempo che va tra le 12,00 e le 18,00. Si tenga presente questo computo temporale perché Gesù, che le prime comunità credenti celebravano quale agnello immolato (1Cor 5,7), morirà durante questo breve lasso di tempo e tutto viene consumato entro le 17,00 circa, poiché alle ore 18,00 iniziava il sabato e Gesù doveva essere deposto dalla croce e sepolto entro tale ora, poiché nessun condannato doveva rimanere appeso al legno della sua croce durante la notte (Dt 21-22-23).

Una pericope questa che funge da prologo agli eventi dell'ultima cena (vv.12-25), Tutto qui parla, infatti, di preparazione, sia a partire dal doppio contesto temporale (v.12a), sia dal racconto dell'individuazione straordinaria, che mette in rilievo l'onniscienza di Gesù, del luogo dove Gesù e i suoi celebreranno la pasqua.

La struttura del racconto è particolarmente studiata per mettere in rilievo l'evento della celebrazione della pasqua (v.14b).

La struttura di questa breve pericope è a parallelismi concentrici, secondo il seguente schema:

          A) 12- E nel primo giorno degli azzimi, allorché si sacrificava la pasqua, gli dicono i suoi discepoli: <<Dove vuoi che, andati, prepariamo affinché mangi la pasqua?>>

B) 13- E manda due dei suoi discepoli e dice loro: <<Andate nella città, e un uomo, che porta una brocca d'acqua, verrà incontro a voi; seguitelo

     C) 14- e allorché entrasse, dite al padrone di casa che il maestro dice: “Dov'è il mio alloggio dove mangio la pasqua con i miei discepoli?”.

B') 15- Ed egli vi mostrerà una grande sala da pranzo (al piano superiore) apparecchiata (già) pronta; e là preparate per noi>>.

         A')16- E uscirono i discepoli e andarono nella città e trovarono come disse loro e prepararono la pasqua.

Per cui si avrà che in A) i discepoli chiedono a Gesù dove preparare la pasqua e in A') i discepoli preparano la pasqua; in B) Gesù dà istruzione per trovare la persona che li porterà al luogo prestabilito e in B') la persona indicata mostrerà la sala dove preparare la pasqua; in C), la posizione centrale, quella che secondo le logiche della retorica ebraica è la più importante e sulla quale Marco intende focalizzare l'attenzione del suo lettore, viene annunciato che Gesù celebrerà la pasqua con i suoi, preparando in tal modo il secondo ciclo, quello che inizia con la nota temporale del v.17: “E venuta la sera, (Gesù) viene con i Dodici”. È importante che venga fatto capire al lettore che quanto accade in quella sera lì riguarda la cena pasquale, poiché il racconto non lo lascia intendere chiaramente, accentrando, invece l'intera attenzione dei lettori sul nuovo rito pasquale, quello dell'istituzione dell'eucaristia, anche se un brevissimo cenno al rito pasquale ebraico trapela al v.26a, dove si dice “E cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi”.


Commento ai v.12-16

Il v.12 si apre con una doppia annotazione di tempo, in cui la seconda (“allorché si sacrificava la pasqua”) va a specificare la prima (“E nel primo giorno degli azzimi”) e si completa con la richiesta dei discepoli del dove celebrare la pasqua. Tutte annotazioni queste che dicono come qui ci si trovi alla viglia della pasqua, che avrà inizio la sera stessa di questo primo giorno degli azzimi (v.17)27.

Un modo apparentemente poco coerente quello di chiamare la vigilia della pasqua “primo giorno degli azzimi”, rispetto a quanto aveva affermato in apertura di questo cap.14, dove si parla di “pasqua e azzimi”, due feste che Marco, unico tra gli evangelisti, tiene separate tra loro e messe tra loro nella giusta sequenza: prima viene la pasqua e poi gli azzimi (Lv 23,5-6; Nm 28,16-17; 33,3). Perché, dunque, Marco definisce ora “primo giorno degli azzimi” la vigilia pasquale? Quella vigilia che, poi, non è né pasqua né azzimi? Tre sono essenzialmente i motivi: a) sia perché in questo giorno ogni forma di pasta fermentata doveva essere eliminata dalla casa, per dare spazio alla pasta nuova, quella del nuovo raccolto. Quindi già da questo giorno, vigilia della pasqua, si doveva mangiare pane azzimo; b) sia perché l'agnello pasquale doveva essere mangiato con pane azzimo (Es 12,8); c) sia perché, infine, con la riforma di Giosia (622 a.C.) le due feste vennero di fatto unificate28 così che nella prassi popolare l'una valeva l'altra. Un cenno in tal senso viene testimoniato da Lc 22,1: “Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua”. Un'espressione che non è farina del sacco del greco Luca, non addentro alle questioni giudaiche, ma che egli ha sicuramente mutuato da Giuseppe Flavio29.

Per questo insieme di considerazioni l'autore definisce questa vigilia pasquale come “primo giorno degli azzimi”, modo di dire che esprime più il sentire popolare che il tecnicismo liturgico e sacerdotale. Ma ciò che più interessa, da un punto di vista cristologico, è la seconda annotazione di tempo: “allorché si sacrificava la pasqua”. Se da un punto di vista rituale e storico vero è che l'agnello pasquale doveva essere immolato “tra le due sere”, cioè al tramonto (Es 12,6), e quindi giusto ciò che Marco ha precisato. Tuttavia è da chiedersi se Marco non avesse un altro intento oltre che il precisare un simile dato rituale e storico. Il richiamo che Marco fa qui, infatti, come precisazione e in un contesto letterario che si qualifica come il prologo alla cena pasquale (vv.17-25), lascia intravvedere come con il richiamo all'immolazione dell'agnello pasquale egli intenda associare l'agnello immolato alla cena pasquale dove Gesù, pane che si spezza per tutti (v.22), va colto come il vero agnello di Dio, che sta per essere immolato. Una lettura che era già presente in 1Cor 5,7. Non va quindi escluso che qui Marco abbia voluto fornire al suo lettore una chiave di lettura della figura di Gesù, collocato in questa cena pasquale, dove di fatto non vi è alcun accenno ad essa, ma la presentazione di un nuovo e inatteso rituale, dove Gesù celebra il suo stesso sacrificio in quello spezzare il pane, in cui si identifica, offrendosi a tutti (v.22); e così similmente con il calice del vino, letto come il sangue della nuova alleanza (vv.23-24), fornendo in tal modo la chiave di lettura della sua stessa passione e morte, ormai imminente.

Vedremo, infatti, come nel racconto dei sinottici la passione e morte di Gesù avverrà nel giorno di pasqua ed azzimi insieme, il 15 di nisan, e, quindi, un Gesù agnello e pane azzimo insieme, non corrotto dal fermento del peccato. Una cadenza, questa del 15 di nisan, del tutto improbabile e certamente non credibile poiché in queste due feste non si potevano eseguire condanne a morte; non si potevano tenere riunioni del Sinedrio, né tanto meno deliberare; il racconto del Cireneo, poi, che torna dai lavori dei campi in un giorno di festa, diventerebbe incongruente; così come incongruente è il fatto che Giuseppe d'Arimatea compri in un giorno di pasqua-azzimi un lenzuolo per avvolgere Gesù. Qualsiasi attività lavorativa e commerciale era proibita in queste due festività. Forse un errore di Marco? Certamente no, Marco, come Matteo, infatti, erano due scribi e, quindi, esperti di Scritture e di comandamenti e ben sapevano il fatto loro. Ma essi, come Luca, avevano la necessità di associare la passione e morte di Gesù alla pasqua, per dire che lui, Gesù, era il vero agnello pasquale immolato, quello che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29.36); lui il vero Pane azzimo, non corrotto dal lievito del peccato. Certamente una incongruenza storica, ma necessaria per poter leggere Gesù morto crocifisso come l'Agnello di Dio immolato, prefigurato dall'agnello pasquale; come il vero Pane azzimo che si spezza per tutti; per poter leggere la pasqua di liberazione di Israele, a cui è associato l'agnello pasquale e il pane azzimo, come la liberazione dell'uomo dalla schiavitù del peccato e così introdotto nella Terra Promessa del Padre, dopo le peripezie del deserto della propria vita, in cui ci viene chiesto di fare la propria scelta.

Il v.12 si conclude con la domanda dei discepoli: “Dove vuoi che, andati, prepariamo affinché mangi la pasqua?”. Non c'è logica nella sequenza dei verbi e nei loro soggetti in questa domanda: “Dove vuoi che”. Questa prima parte della frase va bene. È Gesù o il rabbi o il capo famiglia che decidono dove consumare la pasqua, gli altri si associano. Poi, c'è il cambio di soggetto: da Gesù (“Dove vuoi?”) al “noi” dei discepoli: “andati, prepariamo”. Essi si rendono disponibili e subordinati a Gesù: Gesù decide (“Dove vuoi”), gli altri eseguono (“andati, prepariamo”). Ma ciò che segue non quadra più con la sequenza logica delle azioni: “affinché mangi la pasqua”. I discepoli, dunque, predispongono i preparativi affinché Gesù “mangi la pasqua”. La logica sequenziale delle azioni è che “tu e noi, assieme, mangiamo” e non “tu mangi”, quasi che tutti gli altri ne siano in qualche modo esclusi. Un'altra svista di Marco? Mt 26,17b, pur mutuando da Marco, sfuma la battuta dei discepoli: “Dove vuoi che ti prepariamo da mangiare la pasqua?”; mentre il Gesù lucano, in modo più corretto, dice a Pietro e Giovanni : “Partiti, preparateci la pasqua affinché (la) mangiamo”.

Marco, dunque, è l'unico che fa dire ai discepoli, rivolti a Gesù: “affinché tu mangi la pasqua”, quasi che questa pasqua non riguardi anche a loro, anzi, si autoescludono. Quindi, sembrano dire: “noi ti prepariamo una pasqua che sarai tu a mangiarla”. Questa posizione dei discepoli nei confronti di Gesù, verrà ribadita dallo stesso Gesù al v.14, dove fa dire ai discepoli, rivolti all'anonimo padrone di casa: “Dov'è il mio alloggio dove mangio la pasqua con i miei discepoli?”. È sempre lui, Gesù, che mangia la pasqua, mentre i suoi discepoli qui vengono solo associati a lui. Ma l'attore principale del mangiare la pasqua è e resta sempre Gesù. Un'altra nuova e significativa sfumatura quest'ultima. Questa insistenza di Marco sul Gesù che mangia, lui, la sua pasqua, alla quale, successivamente, quasi a correggere il tiro, associa i suoi, sembra essere un escamotage dell'evangelista per associare la consumazione di questa pasqua a Gesù. Questa pasqua non è la pasqua di tutti, ma solo la Pasqua di Gesù, dove Gesù “mangia la pasqua”, l'agnello immolato, cioè offre se stesso al Padre. Solo successivamente (v.14) egli, quasi a perpetuarne la memoria, associa a sé i suoi. Marco, infatti, come del resto Matteo e diversamente da Lc 22,19 ometteranno il “fate questo in memoria di me”, che probabilmente Luca ha mutuato da 1Cor 11,24.25.

Soltanto alla fine (v.16) Gesù dirà ai suoi: “là preparate per noi”, dove si crea un'unica realtà tra Gesù e i suoi discepoli con una gradualità che sembra quasi a scandire dei tempi: dapprima solo Gesù; poi Gesù con i suoi; ed infine il “noi”, dove non c'è più alcuna distinzione tra Gesù e i suoi, ormai accorpati a Gesù stesso in questa pasqua, divenuta unica, e in quelle future.

Dopo il preludio del v.12, ora Gesù dà delle indicazioni ai suoi per individuare il luogo in cui si consumerà la pasqua. Una serie di segnali molto dettagliati, che occuperanno ben tre versetti (vv.13-15), che poi il v.16 attesterà essere avvenuti tutti così come descritti da Gesù, sottolineando in tal modo l'onniscienza di Gesù, quasi a dire che quanto ora sta per accadere è già tutto scritto e si muove secondo un preciso disegno del Padre, di cui Gesù è al corrente anche negli aspetti meno rilevanti.

Da un punto di vista storico, va detto che Gesù si trovava in questo frangente a Gerusalemme, ormai a stretto ridosso della pasqua, che, secondo le disposizioni riformatrici di Giosia (622 a.C.) e di Dt 16,5-6a30, andava celebrata a Gerusalemme, trasformando in tal modo la pasqua in una festa di pellegrinaggio. Considerata l'enorme affluenza di giudei proveniente da tutto l'impero per le festività pasquali (pasqua ed azzimi), Giuseppe Flavio ne conteggerà 2.700.000 persone31, i confini di Gerusalemme, per l'occasione venivano estesi fino a Betfage, che dista da Gerusalemme poco meno di un Km.

Sempre in questa circostanza sembra che gli abitanti di Gerusalemme favorissero i pellegrini con grande disponibilità, perché essi trovassero un posto per le festività pasquali. Si era, infatti, venuta a formare nel tempo un'usanza, per cui le case che non erano state divise tra le dodici tribù divenivano proprietà comune del popolo e non potevano essere affittate per denaro, così come si noleggiavano cuscini e divani gratuitamente. In genere gli ospiti per risarcire in qualche modo questa generosità donavano le pelli degli animali sacrificati32. Tuttavia questo contesto non sembra applicabile a Gesù, che indirizza i suoi in modo preciso in una determinata casa, forse quella di un qualche discepolo.

Fin qui l'aspetto storico. Tuttavia, la meticolosità delle indicazioni che Gesù dà ai suoi, che verranno poi confermate dal v.16, non sembra giustificata solo per evidenziare la sua onniscienza, che non sembra comunque centrare questo gran che in questo contesto. Se così è, allora perché Marco insiste molto su questi segni, che devono guidare i discepoli per individuare il luogo della pasqua, dove, ora, Gesù e loro assieme con lui, celebreranno questa pasqua, che è la pasqua di Gesù, alla quale essi sono associati. È, dunque, necessario comprendere il senso di questa pericope così farcita di numerose indicazioni.

Gesù, dunque, dà ai suoi una serie di segni per individuare il luogo dove questa sua pasqua deve essere celebrata: un uomo che porta una brocca d'acqua, fatto del tutto inconsueto, in quanto questo era un servizio affidato alle donne (Gv 4,7a); questo uomo che porta una brocca d'acqua va incontro ai discepoli, che lo devono seguire finché questi li porterà in una casa, dove il padrone di questa casa ha preparato un luogo riservato appositamente per la celebrazione della pasqua, una sala da pranzo; ed è qui, in questa casa del padrone che i discepoli devono preparare la pasqua, che loro, ora, con Gesù celebreranno assieme.

È interessante questa figura di uomo che ha con sé una brocca d'acqua e che va incontro ai discepoli i quali lo devono seguire fin dentro la casa, il cui padrone ha preparato una sala attrezzata per celebrare la pasqua, che i discepoli, inviati, sono chiamati a preparare e dove avverrà la celebrazione di questa pasqua, a cui essi, ora, sono associati a Gesù. Quest'uomo, che possiede la brocca d'acqua, simbolo e segno dello Spirito Santo o della Parola di Vita e che i discepoli sono chiamati a seguire fin dentro la casa, figura della chiesa, altri non è che Gesù, che spinge i suoi a celebrare la sua Parola nello Spirito Santo all'interno della casa-chiesa, di cui lui è il padrone, che ha predisposto tutto perché in questa casa, riempita dalla Parola e dallo Spirito Santo, venga celebrata la pasqua di Gesù, facendone memoria (At 2,42.46; 20,7a; 27,35).

Marco non riporterà la formula “fate questo in memoria di me”, ma lo lascerà intendere con questo prologo alla cena del Signore.


Primo quadro: La cena del Signore (vv.17-26)

Testo a lettura facilitata

Il contesto (v.17)

17- E venuta la sera, (Gesù) viene con i Dodici.

L'annuncio del tradimento (vv.18-21)

18- Ed essi sdraiatisi (a mensa) e mentre mangiavano, Gesù disse: <<In verità vi dico che uno di voi mi consegnerà, colui che mangia con me>>.
19- E incominciarono ad essere rattristati e a dire, uno dopo uno: <<(Sono) forse io?>>.
20- Ma egli disse loro: <<Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto.
21- Poiché il Figlio dell'uomo se ne va come è stato scritto su di lui, ma guai a quel uomo per mezzo del quale il Figlio dell'uomo è consegnato; meglio per lui se non fosse nato quel uomo>>.

L'istituzione dell'eucaristia (vv.22-25)

22- E mentre essi mangiavano, preso del pane recitata la benedizione, (lo) spezzò e (lo) diede loro e disse: <<Prendete, questo è il mio corpo>>.
23- E preso un calice, dopo aver reso grazie, (lo) diede loro, e tutti bevvero da esso.
24- E disse loro: <<Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti.
25- In verità vi dico che non ne berrò più del raccolto della vite fino a quel giorno, allorché lo berrò nuovo nel Regno di Dio>>.

Versetto di transizione (v.26)

26- E cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.


Note generali

Il racconto della cena pasquale, preparata da due prologhi (vv.1-11; 12-16) e da un continuo scandire di note temporali (vv.1.12.17), che lentamente e gradualmente restringono sempre più il campo, focalizzando l'attenzione del lettore su quest'ultimo evento, si presenta in modo inconsueto sia perché una cena pasquale, per la sua sacralità, non inizia mai con l'annuncio drammatico di un tradimento o di qualsiasi altra natura, ma segue sempre una sua ritualità rigorosamente codificata33, che non lascia spazi a chiacchiere o a confidenze personali; sia perché in questo racconto della cena pasquale non vi è nessuna traccia di cena pasquale: non si parla dell'agnello, non del pane azzimo, né della successione delle quattro coppe di vino, né delle erbe amare o d'altro. Nessun passaggio e nessun indizio che lasci trapelare che qui viene celebrata la pasqua. Solo il v.26 lascia intuire che la cena consumata doveva essere quella pasquale, per il richiamo all'inno con cui essa si concludeva.

Se si dovesse fare una valutazione letteraria, si dovrebbe dire che Marco è andato fuori tema, perché non si spendono ben 17 versetti per dire che siamo in un contesto pasquale e che a breve ci sarà la celebrazione della pasqua, per poi, giunto il momento di parlarne, si racconta di tutt'altro, che con la cena pasquale nulla ha a che vedere. Una svista di Marco? Certamente no. Il contesto pasquale così accuratamente descritto è servito a Marco per dire due cose importanti: che quanto avverrà in questo contesto pasquale e in particolar modo nella cena pasquale ha a che vedere con la morte di Gesù (vv.1b.8), che viene fatta passare attraverso il tradimento di Giuda (vv.10-11); il secondo momento, rilevando che il primo giorno era quello degli azzimi, in cui si immolava la pasqua, cioè gli agnelli (v.12), Marco associa il pane azzimo e l'immolazione della pasqua alla preannunciata morte di Gesù (v.8). In altri termini, l'evangelista, lentamente costruisce tutti i pezzi della pasqua ebraica mettendola in parallelo a quanto avverrà nell'ultima cena, che di fatto la sostituisce, e dove, invece, verrà posto in evidenza il nuovo Agnello pasquale e il nuovo Pane azzimo. Non c'è più dunque spazio per l'antico rito, figura e preannuncio del nuovo. Per questo la pericope, vv.22-25, non ne parla più, ma accende i fari sulla nuova Pasqua, dove Gesù è il nuovo Agnello pasquale, il nuovo Pane azzimo che si spezza per tutti, mentre il vino antico si fa Sangue della Nuova Alleanza.

In questo nuovo contesto pasquale, Marco si attiene alla tradizione cristiana, che già sembra ben consolidata. Essa, infatti, fin da subito ha associato alla cena del Signore il tradimento di Giuda, che viene ad essa premesso: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: <<Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>>. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: <<Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me>>. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,23-26). Un testo questo antichissimo, dai ritmi liturgici, che Paolo riporta come una tradizione già consolidata e che lui, a sua volta, ha ricevuto al Signore, cioè dalle comunità credenti presso le quali egli ha dimorato per circa dieci anni prima di iniziare la sua missione34.

E sull'onda della primitiva Tradizione cristiana, che vede il tradimento di Giuda associato all'ultima cena, Marco struttura il suo racconto scandendolo in due parti: l'annuncio del tradimento (vv.18-21) e il racconto dell'istituzione dell'eucaristia (vv.22-25). I vv.17.26 aprono e chiudono, circoscrivendoli e assommandoli assieme, i due racconti.

Commento ai vv.17-26

Il v.17 si apre con una nota temporale, la terza, quella che introduce il lettore nel Mistero della nuova Pasqua. È la sera del primo giorno degli azzimi, il 14 di nisan, secondo il computo dei giorni di Marco, che segue quello greco-romano; il 15 di nisan secondo il computo ebraico e, quindi, l'inizio anche del giorno degli Azzimi.

Ma quel “giunta la sera” non dice soltanto il declino di un giorno o l'inizio di un nuovo giorno in senso astronomico, ma anche la fine dell'antico culto e l'inizio di un nuovo culto, dove all'antico agnello pasquale viene sostituito ora il nuovo Agnello di Dio e dove al pane azzimo viene sostituito il Pane della Vita. Ed è in questo contesto di passaggio che “(Gesù) viene con i Dodici”. Significativo quel “con”, reso in greco con “met¦” (metà, con, insieme, in mezzo a, tra), che, reggendo qui il genitivo, indica non solo il Gesù che sta assieme ai Dodici, ma anche che egli è “in mezzo” a loro, preludendo in qualche modo al senso di quel “Pane” e di quel “Vino” che si perpetueranno nel tempo e a quella Parola, prefigurata in qualche modo in quella brocca d'acqua, che accompagna i discepoli nella casa del Padrone, dove il Pane viene spezzato e il Vino versato. Si realizza in tal modo la finalità e il senso della costituzione di questo gruppo dei Dodici e con loro di tutta la Chiesa, lo stare con Gesù e Gesù con loro: “E (ne) fece dodici [che denominò anche apostoli] affinché fossero con lui ( †na ðsin met' aÙtoà, ína ôsin met'autû)” (3,14). Un intento quello di Gesù che si fa promessa, che è certezza, in Mt 28,20b: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ed egli lo sarà in quel Pane spezzato per tutti e in quella Parola di Vita eterna (Gv 6,68).

L'annuncio del tradimento (vv.18-21)

Se il v.17 presentava il quadro temporale entro cui veniva posta la cena pasquale (“Giunta la sera”) e il gruppo che avrebbe celebrato la pasqua (“Gesù con i suoi”), il v.18 si apre con la scena di Gesù e i suoi “sdraiati a mensa” secondo la posizione greco-romana dei commensali, che dice quanto profonda sia stata l'inculturazione nell'intera Palestina dei costumi e dei modi di vivere delle due grandi civiltà occidentali, che hanno lasciato il loro segno anche nei nomi di alcuni apostoli come Andrea e Filippo, quei due discepoli che formeranno in Gv 12,20-22 il punto di contatto con il mondo greco. Non solo, ma le lingue più parlate in Palestina all'epoca di Gesù erano proprio il latino e il greco accanto all'ebraico (Gv 19,20). I Dodici con Gesù sono colti da Marco “mentre mangiavano”. Ci si sarebbe aspettati che Marco dicesse “mentre mangiavano la pasqua o l'agnello”, dando così una consequenzialità narrativa ai precedenti 17 versetti. Invece il quadro che qui l'autore presenta è quello di una normale cena conviviale tra buoni amici, una sorta di cena di addio. Una posizione questa che sostiene in modo più chiaro e netto Giovanni (Gv 13,1-2).

Ed è nell'ambito di questo incontro conviviale che Gesù rende noto il tradimento di uno dei Dodici: “In verità vi dico che uno di voi mi consegnerà, colui che mangia con me”. L'apertura dell'annuncio è solenne ed imprime a quanto segue il sigillo della veridicità e ne rileva l'importanza. Si tratta di un annuncio che suona come una sorta di accusa, che viene scandita in due parti: “uno di voi mi consegnerà”, dove quel “voi” crea uno stacco e una contrapposizione tra Gesù e gli altri, il gruppo dei Dodici, quel gruppo, che Gesù si era scelto perché stessero con lui e ne proseguissero la missione (3,14-15). Un gruppo, quindi, di persone scelte e consacrate per una missione, che ha le sue radice più vere e profonde nel disegno del Padre. Un gruppo, quindi, che è stato violato e profanato da questo “uno” che tradirà Gesù e si annida proprio nei Dodici. Uno la cui intimità con Gesù viene espressa dalla battuta successiva: “colui che mangia con me”. Un tradimento che qui viene definito in tutta la sua gravità, poiché va a colpire non un semplice conoscente, ma un Gesù con cui questo anonimo personaggio ha condiviso profondamente la sua vita.

Si noti come Gesù non fa il nome del traditore né fornisce indizi per individuarlo, ma lo lascia avvolto nel mistero, così che in quello sconosciuto ognuno può ravvisare se stesso, spingendo ciascuno ad esaminare se stesso e a interrogarsi sulla sua posizione nei confronti di Gesù. Ed è ciò che specificherà il v.19: “E incominciarono ad essere rattristati e a dire, uno dopo uno: <<(Sono) forse io?>>”. Nessuno, dunque, deve ritenersi sicuro della propria fedeltà nei confronti di Gesù, che va provata sul piano esistenziale e non a parole, poiché tutta la vita è un test continuo, che interpella quotidianamente il credente. Una sorta di premessa a quanto avverrà fra non molto con Pietro, che rinnegherà il suo Maestro nonostante avesse apertamente, poco prima, giurato la sua fedeltà fino alla morte (vv.27-31.66-72); con quanto succederà a Pietro, Giacomo e Giovanni che non sono stati in grado di vegliare neppure un'ora con il loro Maestro (vv.33-42), avvolto nelle spirali di un'angoscia di morte (v.34); e con quanto succederà a tutti i Dodici che, abbandonato Gesù nelle mani dei suoi nemici, fuggono impauriti (v.50).

Una sera triste e fallimentare questa di Gesù, fatta di tradimenti, di spergiuri di fedeltà poi rinnegata, di abbandoni e di fughe. Una sera che così è, perché questa è l'ora dell'impero delle tenebre, che avvolge tutti (Lc 22,53). Ma avvolto dal buio dei tradimenti e degli abbandoni e delle tenebre del Male, in questa sua unica ed esclusiva solitudine, Gesù appare sempre più come l'unico vero e atteso Agnello di Dio e lui s'impone su tutto e su tutti, poiché in questa sua solitudine appare ora come l'Unico.

A fronte delle perplessità dei Dodici che s'interrogano titubanti e pieni di tristezza, Gesù riprende nuovamente il discorso precedentemente iniziato (v.18b), riproducendolo sostanzialmente identico, ma apportando delle modifiche, che mettono in maggiore evidenza la gravità del tradimento, che va a colpire non solo Gesù, ma lo stesso gruppo dei Dodici e in qualche modo li coinvolge: “Uno dei Dodici, colui che intinge con me nel piatto”. Una battuta questa che richiama da vicino il Sal 41,10, che ben dipinge lo stato di delusione e di prostrazione che genera il traditore nel tradito: “Anche l'amico in cui confidavo, anche lui, che mangiava il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”.

Quel “uno di voi” (v.18b) precedente diventa qui “uno dei Dodici”, rilevando tutta la gravità di questo tradimento, che avviene all'interno di un gruppo ormai istituzionalizzato e consacrato da Gesù stesso in tre anni di intima convivenza e ammaestramento, divenuto, ormai, il suo alter ego, al quale Gesù non solo ha affidato i suoi poteri, ma anche se stesso e il proseguimento della sua missione dopo di lui; un gruppo che con Gesù ha condiviso e fin lì condivide la propria vita in quel gesto di intingere insieme a Gesù nell'unico piatto35.

Il v.21 suona come una sorta di riflessione tardiva della chiesa primitiva sul tradimento di Giuda, in cui esprime tutto il suo sdegno per quanto è successo, unendo a questo la condanna verso un uomo che meglio sarebbe stato per tutti non fosse mai venuto al mondo, quasi a volerlo cancellare dalla faccia della terra, affinché la storia se ne dimentichi. È quello che gli antichi romani chiamavano la damnatio memoriae, che consisteva nel cancellare ogni traccia di una persona così che questa sembri non essere mai esistita. Era una pena che era riservata ai traditori e ai nemici del Senato romano.

Un tradimento quello di Giuda inaccettabile proprio perché rivolto contro Gesù. Nessuna scusante può attenuare il gesto del traditore, neanche il fatto che Gesù doveva morire, perché questo era previsto dalle Scritture e, quindi, dal piano salvifico del Padre.

Termina così la pericope dedicata al tradimento di Giuda, rilevando come la morte di Gesù faccia parte del progetto di salvezza del Padre, fornendo così la chiave di lettura del senso della sua morte, non causata da eventi avversi e drammatici, ma prevista, perché il vecchio corpo adamitico, di cui Gesù era rivestito, venisse distrutto con lui sulla croce (Rm 6,6), per poter poi essere ricreato nuovo nella risurrezione, così com'era l'uomo nei primordi dell'umanità, allorché Dio soffiò nelle sue narici e divenne un essere vivente (Gen 2,7). Un uomo nuovamente incandescente di Dio, capostipite di una nuova umanità (1Cor 15,20-23).

L'istituzione dell'eucaristia (vv.22-26)

Note generali

Al racconto dell'annuncio del tradimento di Giuda (vv.18-21) segue ora il racconto dell'istituzione dell'eucaristia, agganciandosi a quello precedente (v.18a) con lo stesso verbo con cui quello si era aperto: “E mentre essi mangiavano”. Il contesto, pertanto, è quello della mensa, che, da come viene descritta da Marco, nulla ha a che vedere con quella pasquale, se non fosse per l'ampio preambolo (vv.1-17) con cui essa è stata preannunciata (vv.1.12.17). È difficile qui trovare in modo certo elementi che riconducano il lettore ad una cena pasquale, se non fosse per il v.26 dove si parla del canto dell'inno finale, l' Hillel, con riferimento al punto 13 del Seder pasquale36.

La scena che qui Marco ci presenta è quella caratteristica di una comune e quotidiana mensa ebraica, che nel suo svolgersi va ben oltre alla semplice necessità di nutrirsi. Anche questa si svolge secondo una ritualità che fa memoria e ringraziamento dei benefici ricevuti da Dio. Prima di mangiare ci si lava le mani secondo il rito prescritto (Mc 7,3) e, quindi, non solo per questioni igieniche, recitando una benedizione; il pasto poi comincia con la benedizione del pane poi quella del vino. La preghiera della mensa, poi, segue il pasto. Con questa si ringrazia Dio che nutre il mondo intero; poi lo si ringrazia per la terra, in cui ha introdotto il suo popolo liberandolo dalla schiavitù dell'Egitto, per l'alleanza e la Torah; segue poi una preghiera apposita per Gerusalemme e per la casa di Davide, perché Dio usi loro misericordia; ed infine, una benedizione di lode a Dio, come colui che è buono e fa il bene e sui cui benefici si può contare anche nel futuro.
In ogni pasto si ricostituisce nuovamente il popolo dell'Alleanza e si fa memoria della sua storia come storia sacra di Dio con il suo popolo37. Va tenuta presente questa annotazione, perché al v.24 si parlerà del sangue dell'alleanza.

L'intero racconto dell'istituzione dell'eucaristia ci riconduce, pertanto, all'interno del comune pasto ebraico, dove il desco si sostituisce all'altare e qui, in questo contesto, avviene il preannuncio ritualizzato dell'immolazione dell'agnello pasquale in quel pane spezzato e in quel vino versato, che anticipa di poche ore il sacrificio della croce.

Il testo che qui Marco riporta si rifà a formule liturgiche antichissime, che qui vengono inquadrate all'interno di una cornice narrativa; forse i primi tentativi di formulare liturgicamente la cena del Signore. Manca qui il “fate questo in memoria di me”, che ritroviamo, invece, in modo più elaborato, in Lc 22,19, ma riferito solo al pane, e in 1Cor 11,24-25, che lo riferisce sia al pane che al vino. Si nota sia in Luca che in Paolo una elaborazione successiva a quella marciana, che, invece, è da ritenersi più primitiva.


Commento ai vv.22-26

Il v.22 è scandito in due parti, la prima (“mentre essi mangiavano”) funge da cornice e da contesto alla seconda:: “preso del pane recitata la benedizione, (lo) spezzò e (lo) diede loro e disse: <<Prendete, questo è il mio corpo>>”. Il contesto non ci porta oltre ad un semplice banchetto conviviale, che il lettore, tuttavia, sa che è quello pasquale solo per il prologo formato dai primi diciassette versetti e il v.26, ma l'autore qui non lascia trasparire nulla di cena pasquale. Il motivo di questo silenzio sulla pasqualità di questo banchetto in corso è quasi certamente dovuto al fatto che Marco vuole accentrare l'attenzione del suo lettore su quanto sta avvenendo ora, un qualcosa che nulla ha a che vedere con il rituale del banchetto pasquale, ma che tuttavia qui avviene, associando in tal modo questo nuovo ed eccezionale evento all'antico rito, trasformandolo in uno nuovo.

La seconda parte del v.22 presenta una gestualità propria del capofamiglia che presiede il banchetto, ma questa rientra nella quotidianità di qualsiasi banchetto, come s'è visto sopra. Ma ciò che qui va oltre anche alla quotidiana convivialità è quanto dice il Gesù marciano: “Prendete, questo è il mio corpo”. Nessuno mai ha pronunciato simili parole, che esulano da qualsiasi rituale conviviale; parole che identificano Gesù con il pane. Il termine “corpo” qui va inteso non tanto come il mero aspetto fisico e materiale di una persona, ma esprime la persona nella sua interezza. Nell'antropologia ebraica non vi è la distinzione dicotomica, propria del platonismo, di anima e corpo, ma la persona è un corpo spiritualizzato e uno spirito incarnato. È l'insieme inseparabile e indistinguibile che forma l'IO della persona. Quel pane, infatti, è Gesù stesso, non in quanto corpo o in quanto spirito o anima, ma in quanto persona. Non è un caso che Gesù distribuisca questo pane ai suoi e li esorta a prenderlo e a mangiarlo, ma lui non ne mangia.

Così posto e chiarito che quel pane è il corpo di Gesù e, quindi, Gesù stesso nella pienezza della sua persona e del suo essere, anche la gestualità che lo precede assume un significato del tutto nuovo. Il prendere il pane dice che quel oggetto lì è preposto a svolgere una funzione particolare rispetto a qualsiasi altro alimento; l'azione benedicente acquista un significato consacratorio nel senso di riservare quel pane lì, scelto tra altri, ad un uso esclusivo, che solo quanto segue gli assegna. Si tratta di un pane-corpo-di-Gesù che Gesù stesso spezza per donarlo ai suoi, richiamando e anticipando in qualche modo il suo sacrificio, che avrebbe avuto seguito da lì a poche ore. Con il mangiare di quel pane-corpo-di-Gesù-spezzato si viene in qualche modo associati al suo sacrificio e a quanto ne consegue. Un pane che viene “spezzato e distribuito” da Gesù, spiega il senso del suo morire: un dono che egli fa di se stesso per l'intera umanità credente. Viene, quindi, qui in qualche modo ritualizzata la sua passione e morte, alla quale si è associati proprio in virtù di questo pane-spezzato-donato-mangiato, così che Paolo ricorderà alla sua comunità di Corinto che “Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga” (1Cor 11,26), aprendo in tal modo questa associazione al Gesù morto ad una prospettiva escatologica: “finché egli venga”. Ed è ciò che anche Marco farà al v.25.

Nell'ambito del banchetto conviviale associato al pane vi è sempre anche la coppa del vino (v.23), sulla quale, parimenti al pane, viene effusa la benedizione, che va qui comunque sottintesa. Tuttavia qui, in questo contesto sacrale, questa coppa di vino assume un significato nuovo e si muove sullo sfondo del Sal 22, 5: “Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca” e similmente il Sal 115, 13: “Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore”, dove il calice assume il significato di un'esperienza salvifica, che Dio offre al suo fedele. Un'esperienza salvifica che qui assume i contorni e l'identità stessa di Gesù, che si è fatto Pane-spezzato-per-tutti. Da qui il nuovo senso di questa coppa di vino, che diviene proprio per questo un rendimento di grazie per la salvezza donata in quel Pane-spezzato-per-tutti e che lo stesso Salmista suggerisce: “Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato? Alzerò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (Sal 115,12-13). L'esperienza salvifica del Pane-spezzato-per-tutti e a tutti donato si traduce ora in un'esperienza di ringraziamento, che Marco intende sottolineare con questa coppa di vino, evidenziando non più il tema della benedizione, che qui viene sottaciuto anche se non assente e, comunque, presupposto, ma l'aspetto del rendimento di grazie a Dio (“eÙcarist»saj”, eucaristésas, dopo aver reso grazie). Questa, dunque, è la coppa del rendimento di grazie per l'esperienza salvifica che il Padre ha concesso ai credenti in quel Pane-spezzato-per-tutti e a tutti donato.

Un rendimento di grazie che non è personale e lasciato alla libera coscienza di ognuno, ma e corale, unico, ecclesiale. L'invito di Gesù, infatti, non è quello che ognuno prenda il suo calice e bevva, ma che ognuno bevva dall'unico calice che è per tutti e lo dona ai suoi perché da questo unico calice tutti bevano l'unico e corale atto di rendimento di grazie.

Se questo calice è un rendimento di grazie per il Pane-corpo-spezzato-per-tutti, il v.24 ne amplia e ne completa il significato, richiamandosi ad Es 24,8, dove Mosè in un contesto di conclusione dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo, dopo aver letto il libro dell'alleanza, asperge il popolo con il sangue: “Quindi prese il libro dell'alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: <<Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo eseguiremo!>>. Allora Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: <<Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!>>”. Un aspersione del sangue, che conclude l'alleanza dopo che il popolo ha ascoltato e accolto le parole del libro dell'alleanza. Ora, qui, c'è un nuovo Libro dell'Alleanza, i cui termini si sono resi manifesti in modo unico e irripetibile nella Parola stessa del Padre, quella Parola che Giovanni ha contemplato nell'eternità di Dio (Gv 1,1) e che, dopo la sua incarnazione, contempla nel suo dispiegarsi storico e rivelativo (Gv 1,14). Questa Parola eterna del Padre, secondo un progetto prestabilito ancor prima della creazione (Ef 1,4), diviene il punto di convergenza e di confluenza dell'intera creazione (Ef 1,10), quel punto d'incontro, unico e irripetibile, tra Dio e l'uomo e con l'uomo l'intera creazione. Pace fatta, dunque, tra Dio e l'uomo in Cristo per Cristo e con Cristo, secondo la promessa di Ger 31,31-34, che vaticinava tempi in cui Dio avrebbe stipulato con il suo popolo una nuova alleanza, che non sarebbe stata più violata perché avrebbe coinvolto l'uomo nelle profondità del suo essere, associandolo per sempre a Dio. E come al tempo della prima alleanza, sancita con il sangue e un sacrificio di comunione38, che vedeva coinvolti Dio e il suo popolo, anche questa nuova e irripetibile alleanza, di cui la prima fu figura e preannuncio di questa, viene sancita con il sangue non più di animali, ma del Figlio stesso di Dio, decretando in tal modo una pace definitiva tra Dio e l'uomo, poiché fondamento di questa nuova alleanza non è più il sacrificio di animali ed essa non è più affidata alla buona quanto fragile volontà dell'uomo, ma a Gesù stesso, morto-risorto, al quale l'uomo è accorpato in virtù della fede e del battesimo. In tal modo questa alleanza, questo patto tra Dio e l'uomo, diventa stabile per sempre, indipendentemente dalla fragilità dell'uomo.

Un sangue che, afferma Marco, è stato “versato per molti”. Un “molti” che non va inteso in senso riduttivo, ma sta per le moltitudini degli uomini, nessuno escluso, ma solo per chi crede e aderisce a questo nuovo patto nella fede e con la vita esso produrrà i suoi effetti salvifici.

Il v.25 proietta questo banchetto conviviale in una dimensione escatologica. È una cena che ha avuto il suo inizio qui nella storia, ma troverà il suo epilogo e il suo compimento nella metastoria, nello spazio di Dio, dove essa proietta ogni uomo che si nutre di essa, impegnandolo, già fin da oggi, nella sua testimonianza39. Ogni credente, infatti, vive in un già, che non è ancora pienamente compiuto, ma verso il quale egli è in cammino. Egli si muove verso questo spazio di Dio dove lo attende il compimento di una promessa: “allorché lo berrò nuovo nel Regno di Dio”. Matteo, più significativamente aggiungerà a questa promessa un “con voi” (Mt 26,29). Si tratta di una definitiva associazione a Cristo di tutti i credenti, grazie alla quale essi potranno partecipare al vero banchetto escatologico, che è la vita stessa di Dio, di cui l'eucaristia è solo una prefigurazione; un banchetto escatologico che Is 25,6-9, in una grande visione messianica, aveva già preannunciato: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: <<Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse; questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza>>”.

Il racconto dell'ultima cena, in cui Gesù ha ritualizzato, anticipandola, la sua morte in quel pane spezzato e in quel sangue versato, offerti ai suoi e con i suoi all'intera umanità, accorpando tutti alla sua morte e alla sua risurrezione (Gv 12,32), si conclude ora con il v.26, che possiamo definire di transizione, perché, concludendo il racconto dell'ultima cena, traghetta il lettore in un nuovo contesto topografico: “E cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi”.

L'inno a cui qui si fa riferimento è quello conclusivo della cena pasquale, che corrisponde al punto 13 del Seder pasquale. Si tratta del canto dell'Hallel (hallel, lode) con cui si recitano i salmi 113-118 e il 136, detto il Grande Hallel, che canta i momenti salienti della liberazione e dell'entrata nella Terra Promessa. Sono canti di ringraziamento per la cena pasquale, nella quale si è rivissuto il portentoso intervento di Jhwh per liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana. Al termine viene aperta la porta per favorire l’entrata di Elia, il messaggero dell’era messianica, il precursore del Messia, nel grande giorno, sperato da ogni Ebreo come imminente. Si termina questo momento con l'augurio rituale “l’anno prossimo a Gerusalemme”. Si beve qui la quarta coppa appoggiandosi sul gomito destro.

Gesù, qui, dopo la cena pasquale consumata a Gerusalemme in conformità a Dt 16,7a, non fa ritorno a Betania come il suo solito da che era entrato a Gerusalemme (vv.11-12.19-20;14,3), si dirige, invece, verso il monte degli Ulivi, che rientra nel territorio di Gerusalemme, dove secondo l'usanza ebraica si pernottava nella notte di pasqua. Un appunto questo che prepara il v.32, dove Gesù si recherà nel Getsemani.

Secondo quadro: Gli eventi del Getsemani (vv.27-52)


Intermezzo tra la cena e gli eventi del Getsemani:
Morte e risurrezione di Gesù, causa di dispersione e ricostituzione (vv.27-31)


Testo

27- E Gesù dice loro che tutti sarete scandalizzati, poiché è scritto: percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse.
28- Ma dopo che sarò risorto, vi precederò nella Galilea>>.
29- Ma Pietro gli dice: <<Anche se tutti saranno scandalizzati, ma non io>>.
30- E gli dice Gesù: <<In verità ti dico che tu oggi, in questa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte>>.
31- Ora egli parlava in modo eccessivo: <<Qualora fosse necessario che io muoia con te, non ti rinnegherò>>. Ora, anche tutti (gli altri) dicevano allo stesso modo.



Note generali

La pericope in esame costituisce un intermezzo tra la fine della cena pasquale e l'entrata di Gesù nell'orto del Getsemani. Un riempitivo, dunque, tra due diverse sezioni, la prima riguardante l'annuncio della pasqua, che accompagna gradualmente (vv.1.12.17) il lettore fino alla cena pasquale e alla sua consumazione (vv.1-26); la seconda concernente il racconto della passione e morte di Gesù (14,32-15,47), che si apre con il primo quadro, quello degli eventi del Getsemani (vv.32-52).

Ci troviamo di fronte ad una pericope particolarmente densa, delimitata dall'inclusione per complementarietà di azione: al v.27 Gesù attesta che “tutti sarete scandalizzati” e al v.31b i discepoli reagiscono all'annuncio della loro defezione da parte di Gesù, protestando la loro fedeltà, associandosi alla protesta di Pietro (v.31a).

Una pericope che già fin d'ora traccia alcune significative linee di previsione, che troveranno il loro riscontro negli eventi narrati: a) la dispersione delle pecore (v.27) troverà il suo riscontro al momento dell'arresto di Gesù (14,50); b) l'annuncio di Gesù che precederà i suoi in Galilea dopo la sua risurrezione (v.28) avrà la sua attuazione in 16,7; c) ed infine, l'annuncio del rinnegamento di Pietro (v.30) verrà confermato dal racconto in 14,66-72 .

L'importanza di questa pericope viene evidenziata da Marco da come distribuisce questi tre annunci: il primo e il terzo (vv.27.30) riguardano la dispersione dei discepoli di fronte alla morte di Gesù, che metterà a dura prova la loro fede, mettendo in evidenza tutta la loro fragilità; il secondo, che occupa la parte centrale, narrativamente la più importante, riguarda la risurrezione di Gesù, quale momento riaggregante della dispersione dei discepoli e indicherà il punto geografico di partenza della missione dei Dodici, la Galilea, lo stesso da cui è partita la missione del loro Maestro40, quasi a dire che essi, dopo di lui, dovranno continuare la sua missione, ripartendo da là, da dove egli aveva iniziato.

Commento ai vv.27-31

La pericope si apre con un annuncio shoccante: “E Gesù dice loro che tutti sarete scandalizzati”. Il verbo “skandalisq»sesqe” (skandalistéseste, sarete scandalizzati) ricorre nei vangeli 26 volte e riguarda sempre la fede del discepolo nei confronti di Gesù, la cui adesione viene messa in discussione da eventi che la possono anche distruggere. Se il verbo dice solo “scandalizzare”, il sostantivo “sk£ndalon” (skándalon) assume significati più espliciti come “ostacolo, insidia per far cadere” ed ha il suo parallelo al femminile in “skand£lh” (skandále), che definisce il “legno della trappola a cui si attacca l'esca” e, quindi, tranello. La morte di Gesù, pertanto, viene letta come una prova, che mette in discussione la fedeltà dei discepoli nei confronti di Gesù, quella fedeltà che viene, invece, rivendicata, a parole, sia da Pietro che dagli altri undici (vv.29.31b).

Il verbo, posto al passivo teologico o divino, lascia intendere come questa prova abbia la sua origine nel piano di Dio, preannunciato in qualche modo da Zc 13,7, le cui parole Marco fa risuonare sulle labbra di Gesù: “percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse”. Anche il rinnegamento di Pietro e la dispersione dei Dodici fa parte di questo piano divino, per spingere i discepoli a riflettere sulle certezze della loro fede e, quindi, a riformulare le loro scelte iniziali, quando le folle applaudivano il loro Maestro, seguendolo in massa, mentre le autorità lo temevano, cercando in loro stessi delle nuove motivazioni, alla luce dei tragici eventi, che, emblematicamente, spinsero i due discepoli di Emmaus ad allontanarsi da Gerusalemme, lamentando la loro grande amarezza e delusione nei confronti di questo sedicente rabbi, miseramente finito in croce (Lc 24,13-31). Uno scandalo che essi superarono ricorrendo alle Scritture (Lc 24,27), alla sua Parola (Lc 24,32) e allo spezzare il pane (Lc 24,30-31). Serve, dunque, una prova per spingere il credente a far fare alla propria fede un salto di qualità.

Marco, in realtà, sta qui preparando le motivazioni e, in un certo qual senso, le giustificazione all'abbandono dei discepoli al momento dell'arresto di Gesù (14,50) e del rinnegamento di Pietro (14,66-72). Tutto questo è accaduto, perché tutto questo rientrava nel piano di Dio, così che si compissero le Scritture: “poiché è scritto”.

All'annuncio della dispersione dei Dodici a seguito della morte di Gesù, si contrappone ora il v.28, che inizia significativamente con una particella avversativa: “¢ll¦” (allà, ma). Se la morte di Gesù segna la fine di un'epoca, quella della sua missione terrena, che ha provocato la dispersione del gruppo dei Dodici, la sua risurrezione segnerà per loro un nuovo inizio, che avrà come nuovo elemento riaggregante non più il Gesù della storia, ma il Risorto, che li precederà in Galilea, quasi a dire che egli, quale Risorto, si metterà nuovamente a capo loro e da lì, come per il passato con Gesù, riprenderà la sua missione, che, ora, opererà attraverso i Dodici ed avrà come elementi addensanti la Parola e lo spezzare del Pane (Lc 24,30-32; At 2,42).

Dopo l'annuncio rassicurante di una ricostituzione dei Dodici attorno al Risorto (v.28), segue ora la pericope vv.29-31, dove Pietro diventa l'esemplificazione concreta della defezione preannunciata, alla quale si accoderanno gli altri (v.31b). Pietro, lui è il leader del gruppo, e, in quanto tale, il suo intervento è finalizzato non solo a contestare l'annuncio di Gesù, ma egli si contrappone anche a tutti gli altri, forse nella coscienza di occupare un posto di rilievo all'interno dei Dodici: “ma non io”, che preannuncia la sconsideratezza che verrà rilevata al v.31a: “Ora egli parlava in modo eccessivo”, noi diremmo “a sproposito”.

Di mezzo ai due interventi di Pietro (vv.29.31a) Marco colloca un altro annuncio di Gesù circa le sicurezze di Pietro e, con lui, degli altri undici; un nuovo annuncio che suona come una sorta di sentenza dai ritmi sapienziali, che Gesù pone su Pietro e su chi lo ha seguito (v.31b). L'annuncio, infatti, si apre in modo solenne con l'espressione “In verità ti dico”, che imprime il segno della veridicità su quanto Gesù sta per dire, una sorta di giuramento: “tu oggi, in questa notte, prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte”. Un'espressione questa che scandisce i tempi del rinnegamento in tre passaggi: “tu oggi, in questa notte”, è la prima nota temporale che inquadra il rinnegamento di Pietro proprio nell'oggi delle sue sicurezze, rivelandole in tutta la loro vacuità. Considerato che Marco sta scandendo il computo dei giorni secondo il metodo greco-romano (e non è da pensare che qui sia passato a quello giudaico), quel “oggi” va inteso come adesso o fra poco, mentre la nota “questa notte” va a precisare la parte dell'oggi, come quella in cui in cui non c'è il sole, cioè quella che va dalle 18,00 alle 6,00 del mattino successivo. In questo arco di tempo, Marco presenta la seconda nota temporale, in cui colloca il rinnegamento di Pietro: “prima che il gallo canti due volte”. L'espressione è presa dal gergo militare e riguardava la terza veglia notturna, quella che va da mezzanotte alle tre del mattino, chiamata anche “canto del gallo”. Quanto al gallo che canta due volte, probabilmente o si fa riferimento a qualche segnale sonoro che indicava il cambio di guardia oppure Marco ha parla di “due volte” solo per concordarlo con il “tre volte” del rinnegamento, dando così un senso dinamico al suo accadere. In tal senso, Marco in 13,35, esortando alla vigilanza per non farsi sorprendere dal ritorno del padrone, già aveva parlato del “canto del gallo”, come il terzo momento della notte: “o alla sera (18,00-21,00) o a mezzanotte (21,00-24,00) o al canto del gallo (00,00-3,00) o al mattino (3,00-6,00)”. In questo lasso di tempo Pietro avrà rinnegato tre volte Gesù, dove quel tre dice il compimento e la consumazione di un rinnegamento, che suona come una sorta di tradimento, sul quale Gesù aveva già messo in guardia i suoi: “chi mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,33); un rinnegamento che avviene, come quello di Giuda, nella notte, nell'ora delle tenebre (Lc 22,53).

Nella sua foga Pietro ribatte alle fosche previsioni di Gesù, andando oltre alle sue capacità e impegnando tutto ciò che ha per il suo Maestro, la sua stessa vita, pur di non rinnegarlo: “Qualora fosse necessario che io muoia con te, non ti rinnegherò”. Una determinazione, quasi un atto eroico, che trascina anche tutti gli altri (v.31b), che si accodano a Pietro, facendo propria la sua ostentazione. Ma significativo è il commento dell'evangelista con cui viene introdotto il v.31, che stigmatizza quanto segue: “Ora egli parlava in modo eccessivo”. Noi diremmo: “a sproposito”, dove quel “parlava”, posto all'imperfetto indicativo, tempo durativo, lascia intendere come egli “continuasse a parlare in modo eccessivo”, emettendo in tal modo un giudizio di merito anche su quanto egli, Pietro, aveva appena detto prima al v.29.

Testo a lettura facilitata

Prima scena: Gesù e i suoi (vv.32-42)

Il nuovo scenario (v.32)

32- E vanno in un luogo il cui nome (era) Getsemani e dice ai suoi discepoli: <<Sedete qui finché prego>>.

Tre testimoni esortati a vegliare (vv.33-34)

33- E prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni e incominciò ad essere preso da angoscia e ad essere agitato
34- e dice loro: <<L'anima mia è triste fino alla morte; rimanete qui e vegliate>>.

L'affidamento di Gesù al Padre (vv.35-36)

35- E andato avanti un po', cadeva sulla terra e pregava affinché se fosse possibile l'ora passasse oltre da lui,

36- e diceva: <<Abbà, Padre, a te tutte le cose (sono) possibili; rimuovi da me questo calice; ma non che cosa io voglio, ma che cosa tu (vuoi)>>.

La fragilità dei testimoni (vv.37-38)

37- E viene e li trova addormentati, e dice a Pietro: <<Simone, dormi? Non sei stato capace di vegliare un'ora?
38- Vegliate e pregate, affinché non entriate in tentazione: lo spirito (è) pronto, ma la carne (è) debole>>.

Gesù rinnova la sua fiducia al Padre (v.39)

39- E di nuovo andatosene, pregò dicendo la stessa parola.

La persistente incapacità dei tre a vegliare (vv.40-42)

40- E di nuovo venuto, li trovò addormentati; erano infatti i loro occhi appesantiti, e non sapevano che cosa rispondergli.ori.
41- E viene la terza volta e dice loro: <<Dormite, dunque, e riposate; basta! L'ora è giunta. Ecco, il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori
42- Alzatevi, andiamo. Ecco, chi mi consegna si avvicina>>.


Note generali

La sezione in esame (vv.32-42) riguarda la prima parte degli eventi del Getsemani, quelli che vedono Gesù e i suoi, colti, per l'ultima volta, nella loro intimità. Dopo questa scena Gesù verrà sottratto alla loro disponibilità e, da questo momento in poi, essi dovranno vedersela da soli. Il dopo-Gesù, quindi, comincia già da qui.

Se si esclude Mt 26,36-46, dipendente da Marco, rileviamo come Marco sia l'unico tra gli evangelisti ad accentrare l'attenzione del proprio lettore più sul comportamento dei discepoli che su quello di Gesù, che viene rilevato solo di riflesso. Ci si sofferma, infatti, a lungo sulla necessità di vegliare, di pregare e, per contro, sulla fragilità dei discepoli, incapaci sia di vegliare che di pregare e di condividere le sofferenze del loro Maestro, che, solo, deve affrontare i suoi destini di sofferenza e di morte, realizzando in tal modo il disegno salvifico del Padre. Una solitudine che viene evidenziata da Marco con quel continuo andirivieni di Gesù tra la preghiera al Padre e i suoi discepoli. Ne esce così un Gesù che si staglia nettamente nella sua solitudine e nella sua sofferenza, richiamando da vicino il Giusto sofferente Servo di Jhwh (Is 53,1-12), “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,3a), quasi a voler sottolineare l'unicità e l'esclusività della passione e morte di Gesù, così che gli effetti redentivi e di riscatto vadano attribuiti soltanto a lui, poiché tutti gli altri lo hanno lasciato solo. Una solitudine, quindi, che da un lato esclude un qualsiasi contributo umano alla redenzione; dall'altro ne assegna il merito, in modo unico ed esclusivo, al solo Gesù.

Nonostante questo quadro cristologico e soteriologico, che tuttavia qui non è centrale nel racconto marciano, ma ne esce come conseguenza dell'incapacità di vegliare dei discepoli, il racconto assume forti tinte parenetiche, per comprendere le quali è necessario rifarsi alla sezione 13,33-37, la parte finale del lungo e complesso discorso escatologico di Gesù, tutta incentrata sulla necessità di vegliare, quasi a preludere la fragilità dei discepoli di fronte alla prova, incapaci di vegliare con il Gesù sofferente.

Questa marcata sottolineatura sull'inconsistenza dei discepoli, travolti dal sonno della loro incapacità di saper vegliare e pregare con il loro Maestro, associandosi alla sua sofferenza, evidenziando in tal modo tutta la loro fragilità, trova probabilmente il suo sitz-im-leben nella persecuzione di Nerone, dove la comunità di Roma fu chiamata a vegliare, cioè a prendere coscienza della gravità del momento per la loro fede, sottoposta al rischio concreto dell'apostasia, e a dare testimonianza con le loro sofferenze a quelle di Gesù. Uno scenario, dunque, che assume anche toni di richiamo e di rimprovero per l'incapacità di condividere nelle loro sofferenze quelle di Gesù. (Col 1,4). Forse un dito puntato contro le comprensibili e numerose defezioni.

Il racconto di questo primo scenario del Getsemani, dove Gesù è presentato per l'ultima volta con i suoi e in cui viene rilevato il rapporto di fragilità tra lui e i Dodici, è circoscritto da un'inclusione, data per contrapposizione di movimenti: al v. 32 Gesù invita i suoi a fermarsi e a sedere finché lui va a pregare; al v.42, Gesù, terminata la sua preghiera al Padre, invita i suoi ad alzarsi e ad andare.

All'interno di questa inclusione che dà, comunque, unità al racconto, Marco sviluppa il suo racconto in cui si riscontrano dei doppioni: due sono i gruppi di discepoli, dapprima i Dodici, poi i tre prescelti (vv.32.33a); per due volte Gesù invita i suoi ad aspettare (vv.32.34b); due sono le preghiere formulate: la prima in forma indiretta (v.35), la seconda in forma diretta e più elaborata (vv.36-36); per due volte si dice che Gesù viene consegnato: al v.40 e al v.41; si passa poi dal titolo di “Figlio dell'uomo” (v.40) all'io del successivo v.4141.

Questo insieme di doppioni lascia intravvedere come qui Marco, probabilmente, abbia in qualche modo imbastito due diverse tradizioni.

Commento ai vv.32-42

Dopo l'intermezzo dell'annuncio dell'abbandono dei discepoli e il rinnegamento di Pietro, durante il cammino verso il monte degli Ulivi (vv.27-31), il v.32 riprende il v.26, dove Gesù e i suoi “cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi”. Un cammino che li porta in una località che si trova, ai piedi del monte degli Ulivi, sul versante occidentale, denominata Getsemani, dall'ebraico “gat, torchio, e “semanim(olii), il cui significato è luogo dei torchi degli olii; mentre la diversa lezione suggerita da P33 (III sec.) “Gessam(ani), favorisce l'interpretazione di “ge, valle, “semanim, olii, quindi, “valle degli olii”; comunque sia la derivazione, essa aiuta a capire il riferimento su cui convergono, sia pur in vario modo, tutti quattro gli evangelisti: si tratta di un luogo coltivato ad ulivi dove c'erano probabilmente dei torchi per la spremitura. Lc 22,40a parla in senso generico di un luogo (™pˆ toà tÒpou, epì tû tópu) che si trova nei pressi del monte degli Ulivi (Lc 22,39), evitando precisazioni topografiche sconosciute al suo pubblico greco-ellenista e probabilmente a lui stesso, considerata la scarsa conoscenza che il greco Luca aveva della geografia della Palestina. Gv 18,1 non cita il nome Getsemani, ma ne fornisce le coordinate topografiche: “Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cedron, dove c'era un orto, nel quale entrò lui e i suoi discepoli”. Si tratta, quindi, di una località ben determinata, dove quel “entrò lui e i suoi discepoli” dice che doveva essere in qualche modo recintata, una proprietà privata dove Gesù e i suoi frequentavano di sovente assieme (Gv 18,2b). Giovanni definisce questo luogo come “kÁpoj” (kêpos), che significa “giardino, orto”, mentre Mc 14,32a e Mt 26,36, che mutua da Marco, lo definisce con “cwr…on” (coríon), che significa luogo, località, podere, campo, fondo rustico e, quindi, un terreno ampio dove vi era una coltivazione di ulivi e dei frantoi per la spremitura delle olive. Più credibile quest'ultima versione di Marco che quella di Giovanni, considerato come in questo luogo Gesù verrà arrestato da una moltitudine di persone lì presenti e del trambusto che qui si era venuto a creare.

Il v.32 termina con l'invito di Gesù ai suoi di sedersi in quel luogo, mentre lui pregava. Una preghiera, dunque, in tutta solitudine quella di Gesù, come altre volte era successo (1,35; 6,46). Ma se in tutto il racconto marciano l'autore rileva solo due volte il Gesù in preghiera solitaria, accennandone appena, ora questa preghiera in solitudine acquista una sua valenza del tutto particolare: essa viene rilevata più volte in pochi versetti; una preghiera, quindi, insistente e persistente, di cui, a differenza che altrove, viene svelato il contenuto. Non si tratta di una preghiera con formule preconfezionate o liturgiche, ma un dialogo di intima comunione tra Gesù e suo Padre, che si muove sullo sfondo e in un contesto di grave sofferenza e di morte.

L'invito di Gesù ai suoi di sedersi per permettergli di pregare in solitudine, in realtà costituisce il primo passo verso una selezione: tra tutti quelli seduti Gesù ne sceglierà tre, perché vengano con lui e per associarli a lui in questa preghiera di sofferenza e di morte imminente. Sono tre personaggi, Pietro, Giacomo e Giovanni, che abbiamo trovato altrove. Sono tre discepoli che hanno avuto nella vita di Gesù un particolare rilievo e che sono associati a Gesù fin dagli inizi della sua missione. Essi furono i primi scelti del gruppo apostolico (1,16-20); sono sempre loro, assieme a Pietro e a Gesù che, usciti dalla sinagoga, entrano nella casa di Pietro (1,29); sono Pietro, Giacomo e Giovanni i tre che sono nominati tra i primi del gruppo dei Dodici (3,16-17), occupando, quindi, nell'elencazione dei Dodici una posizione di riguardo; sono sempre loro ai quali Gesù permette di entrare nel segreto della stanza della figlia di Giairo, dove egli, Gesù, si rivela quale risurrezione e vita, quale salvatore, capace di fa passare da morte a vita (5,17); sono sempre loro ad essere portati da Gesù “su di un alto monte”, dove egli si rivelerà quale Figlio di Dio nello splendore della sua gloria, che preannuncia in qualche modo quello della sua risurrezione (9,2-3); sono sempre loro che chiedono a Gesù di rivelare i segni che porteranno alla distruzione del Tempio di Gerusalemme (13,3) e solo a loro, assieme ad Andrea, Gesù rivolgerà il lungo discorso escatologico;

Una particolare attenzione di Gesù verso di loro, dunque, evidenziata dai Sinottici probabilmente per giustificare la posizione di rilievo di Pietro, Giacomo e Giovanni all'interno della comunità credente di Gerusalemme, la prima chiesa, culla del cristianesimo e madre delle altre comunità credenti e che Paolo in Gal 2,9 definisce come le colonne: “e riconoscendo la grazia a me conferita, Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne, diedero a me e a Barnaba la loro destra in segno di comunione, perché noi andassimo verso i pagani ed essi verso i circoncisi.

Ora questi tre personaggi, dopo un lungo cammino con Gesù, sempre al suo fianco, li ritroviamo qui, in questo momento estremo della sua vita, quello più decisivo e più significativo, proprio perché è l'ultimo, quello che decide i destini non solo di Gesù, ma anche dei Dodici e con loro della Chiesa e dell'intera umanità; quello che dà pieno compimento al disegno del Padre, pensato ancor prima della creazione del mondo (Ef 1,4), fare di Cristo il cuore del mondo, ricapitolando in lui tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 1,10). Un momento grave e solenne, al quale essi non solo sono chiamati ad essere testimoni privilegiati, ma altresì associati e chiamati a condividere con Gesù i suoi destini, continuandone la missione. Proprio per questo il v.33 si apre evidenziando l'azione di Gesù nei confronti di questi tre discepoli: “E prende con sé”. Un prendere “con sé” che non va letto come un semplice complemento di compagnia, ma come un associarli alla sua passione e morte e con loro l'intera chiesa e umanità (Gv 12,32). Solo così la Chiesa può essere definita veramente di Gesù; solo così ogni credente può definirsi veramente cristiano (8,34b-35).

La scelta di questi tre discepoli da parte di Gesù, in questo frangente di grande e drammatica sofferenza, va ricongiunta con quella della trasfigurazione (9,2-9): là, essi furono testimoni della gloria di Gesù e della sua intima e nascosta divinità; qui sono testimoni della sua sofferenza e del suo grave dolore, mostrando qui tutta la fragilità umana del Figlio di Dio di fronte alla morte. Niente qui assomiglia allo splendore onnipotente e invincibile della trasfigurazione, che in qualche modo rimandava a questo momento (9,9). Un lontano ricordo, forse un sogno. Qui c'è solo Gesù, raffigurato in tutta la tragicità della sua umanità: “incominciò ad essere preso da angoscia e ad essere agitato” e che il Gesù marciano descriverà con poche, incisive e drammatiche parole: “L'anima mia è triste fino alla morte”, in cui riecheggiano in qualche modo le parole del Sal 42,6-8. L'espressione “anima mia” non va intesa come la parte spirituale della persona di Gesù, ma, secondo l'antropologia degli antichi, l'anima è il punto di congiunzione e d'incontro di due realtà altrimenti non compatibili tra loro: lo spirito e il corpo. L'uomo, pertanto, nella sua interezza e in quanto persona è un insieme inscindibile di spirito, anima e corpo (1Ts 5,23); un corpo spiritualizzato e uno spirito incarnato. Solo la morte fa venir meno questo punto di saldatura tra spirito e corpo, che è l'anima. Quando Gesù qui si riferisce alla sua anima, questa va intesa come l'interezza della sua persona, colta sotto ogni aspetto psicologico, morale, fisico e spirituale.

Ed è proprio in questo drammatico contesto di profonda sofferenza, che lo pervade interamente, che Gesù dà loro un incarico, una missione da compiere: “rimanete qui e vegliate” nel mentre che egli, Gesù, va avanti (v.35a), designando in tal modo il compito e l'atteggiamento che la Chiesa deve tenere qui nella storia, nel mentre che il Suo Signore è andato avanti: uno stato di vita vigilante, per non disperdersi nelle cose, nell'attesa del ritorno del suo Signore (Mc 13,33-37; Mt 25,1-13). Ed è ciò che accadrà ai vv.37.40.41, dove in un contesto di sofferenza e di morte, la vigilanza è venuta ripetutamente meno, nonostante i continui solleciti a vegliare e a pregare. Il motivo di tale loro defezione è perché “erano i loro occhi appesantiti”, denunciando con questo la loro incapacità di vigilare e vegliare. Il motivo di questa loro incapacità è la fragilità della carne, non adeguatamente sostenuta dallo spirito: “lo spirito (è) pronto, ma la carne (è) debole”. La vigilanza sollecitata, infatti, non è mai disgiunta dalla preghiera, da questo intimo legame di comunione con Dio nello Spirito.

L'esempio di questa intima comunione con Dio viene data ora da Gesù stesso, esempio, oltre che di preghiera, anche di ogni martirio, quale testimonianza fedele del Padre fino alla fine.

I vv.35-36, pertanto, delineano e propongono il parametro di raffronto per ogni credente, chiamato a dare la sua testimonianza. La breve pericope è scandita in due parti: la prima, v.35, descrive lo stato di grave e drammatica prostrazione spirituale e psichica in cui Gesù viene a trovarsi: “cadeva sulla terra e pregava affinché se fosse possibile l'ora passasse oltre da lui”. Quel “cadere a terra” dice tutta la fragilità psico-fisica in cui Gesù viene a trovarsi, mentre la sua fragilità spirituale viene tutta rilevata in quel “pregava”, posto all'imperfetto indicativo, che dice l'insistenza e la persistenza di questa preghiera, il cui oggetto non è quello di chiedere un aiuto di sostentamento al Padre, ma quello di liberarlo da quell'ora di sofferenza e di morte: “affinché se fosse possibile l'ora passasse oltre da lui”. Un Gesù, dunque, che punta a rifuggire il disegno del Padre, troppo doloroso e insostenibile per lui.

Il v.36 esplicita e dettaglia questa preghiera, che nella prima parte è rafforzativa del v.35: “Abbà, Padre, a te tutte le cose (sono) possibili; rimuovi da me questo calice”. Gesù si rivolge al Padre in termini figliali e confidenziali con l'appellativo di “Abbà”, seguito dalla consueta traduzione marciana, di “Padre”, quasi in un ultimo ed estremo appello, cercando di toccare il cuore del Padre, richiamandosi alla sua onnipotenza (“a te tutte le cose (sono) possibili”) e, quindi, anche alla possibilità di cambiare il disegno di salvezza con un altro meno oneroso e drammatico (“rimuovi da me questo calice”).

La seconda parte della preghiera, tuttavia, porta una rettifica ai vv.35-36a: “ma non che cosa io voglio, ma che cosa tu (vuoi)”. Significativa è la particella avversativa con cui si apre questa seconda parte del v.36: “ma”, che contrappone e pospone i desideri, le speranze e le angosce di Gesù al progetto del Padre, di cui Gesù non solo è manifestazione e rivelazione, ma anche attuazione: “ma non che cosa io voglio, ma che cosa tu (vuoi)”.

Molto diverso l'atteggiamento del Gesù giovanneo, che mostra una elevata coscienza di se stesso, della propria missione e dei propri destini, quasi stoicamente eroica: “Ora la mia anima è turbata. E cosa dico? Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo venni, per quest'ora” (Gv 12,27).

I vv.37-41a presentano un continuo susseguirsi di andirivieni di Gesù, che mette in rilievo, da un lato, tutta la fragilità dei discepoli, incapaci di sostenere la prova di Gesù, incapaci di condividerla nonostante che Gesù li avesse associati a sé (v.33a), lasciando trasparire quasi in filigrana la condizione di quei credenti della comunità di Roma, a cui questo vangelo è rivolto, i quali, sotto la pressione della persecuzione neroniana (64-67 d.C.), non hanno saputo farvi fronte, abbandonando la propria fede; dall'altro, la profonda solitudine di Gesù, che progressivamente lasciato dai suoi (vv.37-42.50-52), appare sempre più come l'unico in grado di affrontare gli eventi di sofferenza e di morte; una forza che egli trae dal suo intimo rapporto di comunione con il Padre e dalla sottomissione alla sua volontà (vv.35-36.39), apparendo in tal modo sempre più come l'unico ed esclusivo redentore e salvatore, il preannunciato Giusto Servo di Jhwh, che “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori” (Is 53,11-12).

Se i vv.37-41a, con questo continuo andirivieni di Gesù, denunciavano, da un lato, la fragilità di quei discepoli incapaci di vegliare, dall'altro, scandivano l'avvicinarsi dell'ora, che giunge alla terza volta in cui Gesù torna dai suoi, trovandoli nuovamente addormentati. Il tre, infatti, dice il dinamico compiersi degli eventi, poiché nel tre vi è un inizio, un metà ed una fine42. Ed è proprio alla terza volta che Gesù va dai suoi ed annuncia che l'ora è giunta. Un annuncio fatto in modo solenne: “Ecco, il Figlio dell'uomo è consegnato nelle mani dei peccatori”, dove quel “Figlio dell'uomo” possiede in se stesso un qualcosa di ineluttabile, di escatologico; l'uomo atteso, sul quale grava l'ultima chance per l'intera umanità, che si realizza nel suo consegnarsi ai peccatori, dove quel “e„j t¦j ce‹raj tîn ¡martwlîn” (eis tàs cheîras tôn amartolôn, nelle mani dei peccatori), lascia intravvedere, in quel “eis”, che questo suo consegnarsi ha una finalità, uno scopo, quello di salvare i peccatori e, quindi, in ultima analisi, un consegnarsi, un offrirsi a loro come ultima offerta di salvezza.

Se il v.41 è un annuncio di salvezza escatologica, unica e irripetibile per i peccatori, ai quali Gesù si offre quale ultima chance, il v.42 è un ritorno alla realtà del momento, dove l'espressione solenne “Figlio dell'uomo” è sostituita con il semplice pronome “io” e dove il “consegnarsi” trova la sua attuazione in “colui che si avvicina”, che diventa il ministro di questa offerta che Gesù fa di se stesso; mentre quel “Alzatevi, andiamo”, che contrasta con il precedente “Dormite, dunque, e riposate”, indica ai Dodici la strada maestra che essi, ormai associati a Gesù, devono seguire. Loro, dunque, dopo essersi ripresi dalla loro fragilità (“Alzatevi”), sono chiamati a camminare con Gesù sulla strada della croce (“andiamo”).

Seconda scena: il Gesù che si consegna è consegnato (vv.43-52)

Testo a lettura facilitata

La comparsa di un nuovo scenario, preambolo all'arresto di Gesù (v.43)

43- E subito, mentre stava ancora parlando, sopraggiunge Giuda, uno dei Dodici e con lui una folla con spade e bastoni, da parte dei capi dei sacerdoti e degli scribi e degli anziani.

Il tradimento (vv.44-45)

44- Ma colui che lo consegnava aveva dato loro un segnale convenuto, dicendo: <<Colui che bacerò, è lui, prendetelo e portate(lo) via con prudenza>>.
45- E giunto, subito avvicinatosi a lui, dice: <<Rabbi>>, e lo baciò.

L'arresto (v.46)

46- Ed essi gli misero le mani addosso e lo afferrarono.

Uno strano episodio di resistenza (v.47)

47- Ma uno, [qualcuno] di quelli che erano presenti, estratta la spada, colpi il servo del sommo sacerdote gli asportò il lobo (dell'orecchio).

Denuncia del subdolo comportamento degli avversari di Gesù (vv.48-49)


48- E rispondendo disse loro Gesù: <<Come contro un brigante siete usciti a prendermi con spade e bastoni?

49- Ogni giorno ero nel tempio insegnando presso di voi e non mi prendeste; ma (questo è avvenuto) affinché fossero compiute le Scritture>>.

La solitudine di Gesù, tradito e abbandonato dai suoi (vv.50-52)

50- E abbandonatolo, fuggirono tutti.
51- E un tale giovinetto lo seguiva avvolto in un lenzuolo sul (corpo) nudo e lo presero;
52- ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì nudo.


Note generali

Questa seconda parte del racconto, riguardante gli eventi del Getsemani, vede l'entrata in scena di nuovi personaggi estranei al gruppo dei Dodici. Si passa qui dall'intimità di Gesù con i suoi all'arresto di Gesù, che viene espropriato al gruppo dei Dodici, che si trova, ora, privato definitivamente del loro maestro. Con questa scena Gesù, per così dire, passa di mano: dai Dodici al resto dell'umanità e già fin d'ora, in qualche modo, ha inizio per i discepoli una nuova fase della loro vita, quella del dopo Gesù. Una fase che avrà due tempi: il primo disgregante, questo, in cui il gruppo dei discepoli si disperde e Gesù tolto loro per sempre; il secondo riaggregante attorno al Risorto e alla su Parola con la quale si fa memoria di lui nello spezzare il Pane e trova il suo vertice nel dono dello Spirito Santo. Entrambi i momenti preannunciati ai vv.27.28.

Tutto ciò che qui avviene non rappresenta una cosa inattesa, poiché sia il tradimento di Giuda che l'abbandono di Gesù da parte dei discepoli, dapprima con la fuga e poi con il loro rinnegamento, era già stato predetto (vv.18-21.27-31), dando in tal modo l'idea di un disegno superiore che si sta lentamente realizzando.

Il racconto dell'arresto di Gesù nel Getsemani viene riportato da tutti quattro gli evangelisti, sia pur con differenze narrative, finalizzate a mettere in rilievo aspetti cristologici e teologici propri di ogni autore. La dinamica degli eventi, tuttavia, è identica: il tradimento di Giuda, l'arresto di Gesù, la reazione aggressiva dei discepoli ed infine la loro fuga. Tuttavia all'interno di questi eventi ve n'è uno che stona e non lega bene con il resto del racconto: l'episodio dell'anonimo personaggio, probabilmente un discepolo, che estratta la spada, colpisce il servo del sommo sacerdote. Per Giovanni questi è Pietro. La stonatura è molto più avvertibile nel racconto di Marco, poiché l'episodio viene riportato senza provocare nessuna reazione da parte né di Gesù, che sembra ignorarlo completamente, né dei presenti né nelle guardie che erano venute ad arrestare Gesù, tanto che gli altri evangelisti si sono sentiti in dovere di dare un maggiore sviluppo all'episodio, facendo intervenire Gesù che da un lato rimprovera il discepolo, dall'altro risana il servo del sommo sacerdote. Ma in Marco non vi è nulla di tutto questo. Anzi, questo episodio risulta, e questo in tutti gli evangelisti, come un corpo estraneo, tanto che se si cancellasse, il racconto dell'arresto di Gesù diverrebbe più logico, più scorrevole e privo di incongruenze, generate da questo episodio di aggressione da parte di un discepolo. L'idea che ne nasce è che questo episodio sia stato presente nella tradizione in modo autonomo e riportato in questo contesto per stigmatizzare una certa frangia rivoltosa presente nei discepoli43, tra i quali vi erano probabilmente degli zeloti, il partito armato, convinto che il regno di Dio si sarebbe realizzato solo dopo la cacciata dei Romani. L'episodio è molto elaborato in Matteo, Luca e Giovanni, ma risulta essere un vero e proprio corpo estraneo in Marco, per i motivi sopra riportati, segno questo che nel suo testo originale Marco non lo aveva inserito, ma un successivo amanuense lo ha riportato senza curarsi di armonizzarlo con il resto del racconto, cosa questa che, invece, avviene con gli altri tre evangelisti.

Pur nella sua brevità, questa seconda parte del racconto del Getsemani, presenta una notevole dinamicità narrativa, che ho rilevato suddividendola in sei momenti:

  1. Preambolo all'arresto di Gesù (v.43);

  2. Il tradimento (vv.44-45);

  3. L'arresto (v.46);

  4. Uno strano episodio di resistenza (v.47);

  5. Denuncia del subdolo comportamento degli avversari di Gesù (vv.48-49);

  6. La solitudine di Gesù, tradito e abbandonato dai suoi (vv.50-52).


Commento ai vv. 43-52

Insistentemente preannunciato dai vv.41.42 il v.43 apre la seconda scena del Getsemani presentando l'arrivo di Giuda, che Marco annota come “uno dei Dodici”, per ricordare al proprio lettore il tradimento di questo personaggio, accompagnato da una folla armata, che l'autore rileva come proveniente dai sacerdoti, scribi e anziani, le tre categorie di persone che formano il Sinedrio. Sono loro dunque i mandanti. Per Gv 18,3, invece, è Giuda che prende una coorte e dei servi del sommo sacerdote e si mete a loro capo per arrestare Gesù.

Con questo semplice tocco, l'evangelista presenta qui raggruppati, come in una foto di famiglia, i personaggi che hanno perseguito il disegno omicida su Gesù, mentre Giuda lo ha favorito.

Questa seconda scena del Getsemani è strettamente collegata alla precedente e ne è un suo sviluppo non solo perché preannunciata dai vv.41.42, ma anche per come si apre il v.43, rilevando come questi nuovi personaggi compaiono, quasi dal nulla, “mentre (Gesù) stava ancora parlando”. Il riferimento è appunto al quanto Gesù stava dicendo ai vv.41-42.

Se i vv.10-11 presentavano il tradimento di Giuda, che “cercava come consegnarlo” (v.11b), i vv.44-45 raccontano le modalità di questo tradimento, che avviene nel modo più spregevole, attraverso un bacio, il segno dell'affetto, che dice amicizia, venerazione e amore, com'era usanza tra discepolo e maestro. Ma è proprio l'usare questo segno, il bacio, che rende ancor più abietto il tradimento di Giuda. Una modalità strana, comunque, perché, da come ci raccontano i vangeli, il personaggio di Gesù era molto noto a tutti e, dunque, non c'era bisogno di individuarlo attraverso un bacio. Perché, dunque, Marco racconta questo particolare, che doveva comunque mettere in imbarazzo e a disagio lo stesso Giuda non solo di fronte a Gesù, ma anche ai suoi compagni di avventura, poiché egli “era uno dei Dodici”, uno scelto da Gesù stesso (3,14-19) e che ha condiviso con loro in modo intenso un'esperienza, che è durata almeno tre anni di vita comune con Gesù e con gli altri. Il motivo di questo rilievo va probabilmente cercato nel voler aggravare la colpa di Giuda, che non si è limitato a denunciare Gesù presso le autorità religiose (vv.10-11), ma si è reso parte attiva di questo tradimento: è lui che ha condotto la folla armata contro Gesù e lui glielo ha consegnato. Non va tuttavia escluso il fatto che la folla armata fosse composta da personaggi che non erano seguaci di Gesù, ma semplice soldataglia, insensibile al personaggio. Un'ultima ipotesi è perché l'arresto è avvenuto in piena notte e Gesù tra i suoi non era ben distinguibile e solo una persona che ben lo conosceva poteva individuarlo senza ombra di dubbio. Forse l'insieme di queste tre ipotesi ha spinto Marco a raccontare l'episodio del bacio di Giuda.

In questo contesto due elementi vanno rimarcati: ad arrestare Gesù si presenta una folla armata; Gv 18,3 parla di una coorte, cioè di un'unità dell'esercito romano composta da circa seicento uomini, addestrati al combattimento. Il secondo elemento è il consiglio che Giuda dà alla folla armata: “prendetelo e portate(lo) via con prudenza”. Perché, dunque, un simile dispiegamento di forze per arrestare Gesù? E perché una forza simile doveva agire con prudenza? Solo un'ipotesi può in qualche modo giustificare un simile schieramento di forze, che deve muoversi guardinga: il timore che l'arresto di Gesù potesse scatenare una rivolta delle numerose folle che seguivano Gesù. Più volte gli evangelisti rilevano il timore delle folle da parte delle autorità (Mc 11,32; 14,2; Lc 22,2) e, quindi, una qualche sollevazione. La motivazione storica proviene dallo stesso Gv 11,47-48: “I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>”. E in questo contesto doveva essere tenuta presente la figura di Pilato, prefetto della Giudea per il decennio 26-36 d.C, ben noto per la sua determinazione e la sua crudeltà, tanto da essere, alla fine, rimosso nel 36 d.C. dal suo incarico da Lucio Vitellio, governatore della Siria, da cui Pilato dipendeva, proprio per la sua durezza e la sua crudeltà. Successivamente venne esiliato a Vienne. In quel frangente la Giudea fu ridotta a provincia romana. Le precauzioni, dunque, erano d'obbligo per evitare rivolte che si sarebbero concluse in un bagno di sangue.

Il segnale dato da Giuda viene fatto seguire immediatamente dall'arresto: “Ed essi gli misero le mani addosso e lo afferrarono” (v.46). Nessuna parola di rimprovero da parte di Gesù contro Giuda, a differenza di Mt 26,50a e Lc22,48, che invece sottolineano il tradimento di Giuda con le parole stesse di Gesù, quasi a condanna del suo gesto.

Il v.46 presenta l'arresto di Gesù in modo fulmineo, che non lascia spazi a convenevoli o a discorsi di rimprovero o a riflessioni. Fu un atto di pronta e determinata aggressione e che contrasta in qualche modo con i vv.48-49, una pacata protesta di Gesù contro i suoi aggressori.

A tal punto viene riportato uno strano episodio circa l'intervento da parte di un'anonima persona, quasi certamente uno dei Dodici, che, armato di spada, colpisce il servo del sommo sacerdote ad un orecchio (v.47). Strano perché un simile grave gesto, che avrebbe potuto scatenare l'arresto dell'intero gruppo dei Dodici, non trova nessuna risonanza nel contesto dell'arresto di Gesù, né da parte di Gesù, che sembra neppure accorgersi di quanto è successo, né da parte del gruppo di arresto. L'episodio, pertanto, risulta essere un corpo estraneo, per cui se venisse tolto non toglierebbe nulla al resto della narrazione. Anzi, il v.47 interrompe l'azione narrativa, che viene ripresa con il v.48, il quale si ricollega narrativamente alla precedente pericope, vv.43-46, completandola e a cui appartiene. Per questo insieme di considerazioni, il v.47 sembra essere una tardiva inserzione da parte di un qualche amanuense, certamente poco curata, così da risultare un episodio inserito in modo estemporaneo. Per quale motivo, dunque, fu inserito questo episodio nel vangelo di Marco?

L'episodio dell'intervento armato di un anonimo discepolo contro il servo del sommo sacerdote è riportato da tutti gli evangelisti44. L'episodio tuttavia lascia molto a desiderare quanto a storicità, poiché urta contro il contesto in cui esso si colloca. Il gesto di estrarre una spada e scagliarsi contro il servo del sommo del sommo sacerdote, ferendolo all'orecchio, avrebbe sicuramente provocato l'intervento armato del piccolo esercito e l'anonimo discepolo, Pietro per Gv 18,10-11, o sarebbe stato ucciso sul posto o quanto meno arrestato assieme a Gesù. Invece nessun evangelista menziona una qualche reazione da parte della forza di arresto, che ha assistito all'aggressione senza batter ciglio, quasi non fosse successo nulla; e così dicasi pure del Gesù marciano. L'episodio, quindi, a mio avviso, assume contorni più simbolici che storici. È probabile che il racconto dell'intervento armato di Pietro voglia denunciare il concetto di un messianismo rivoluzionario, condannato da Gesù perché contrastava con il progetto salvifico pensato dal Padre (Gv 18,11), e certamente perdente, se si pensa al contesto storico in cui Gesù visse, dove sedicenti profeti, visionari o autoproclamatisi re o rivoltosi, messisi a capo di piccoli eserciti di fanatici, non erano una rarità, mentre tutti i tentativi di sollevazione finivano sistematicamente in un bagno di sangue. Gli stessi sinedriti in 11,47-48 temono simili eventi, per cui decidono di sopprimere Gesù prima che sia troppo tardi (Gv 11,49-50). Il racconto probabilmente è rivolto a tutti quei discepoli o comunque seguaci di Gesù e del suo pensiero, che intendevano instaurare il regno di Dio o il regno messianico attraverso rivolte armate; un regno dalle dimensioni storiche, che prevedeva la cacciata dell'invasore romano e la ricostituzione dell'autonomia nazionale di Israele, richiamandosi agli splendori dei regni davidico e salomonico. Gli stessi discepoli in At 1,6 denunciano tutta la loro inintelligenza circa la reale portata della missione di Gesù allorché lo sollecitano a costituire il nuovo regno messianico di Israele. La risposta del Gesù giovanneo al gesto di Pietro è, pertanto, l'ordine di rinfoderare la spada per dare spazio al progetto del Padre (Gv 18,11). L'uso dell'imperativo “B£le(bále, metti via) non lascia dubbi sulle intenzioni di Gesù: le rivolte armate non rientrano nei progetti del Padre, né tanto meno fanno parte della sua missione.

Tuttavia, lascia perplessi il fatto che Pietro o comunque questo anonimo discepolo porti con sé una spada. Che ci faceva Pietro armato? Era l'unico nel gruppo o ve ne erano degli altri? Il racconto lucano in 22,38 vede i discepoli che presentano a Gesù due spade. Perché, poi, Gesù avrebbe accettato gente armata nel suo gruppo? L'equivoco nasce dal termine “m£caira(mácaira), che viene in genere tradotto con “spada”, e tale è se il termine venisse inserito in un contesto militare, ma in realtà esso indica un coltello di vario uso, che serviva per compiere i sacrifici o tagliare la carne; ma anche indica il rasoio. Questo è il suo primo significato. Come arma esso può significare anche pugnale, sciabola, daga, spada leggermente ricurva a un solo taglio. È dunque da pensare che Pietro o questo anonimo discepolo non portasse una spada, ma tuttalpiù un coltello, all'epoca di normale uso, che poteva servire per tagliare un qualsiasi oggetto. Potremmo paragonarlo al nostro odierno coltellino pieghevole da tasca o a quello più sofisticato del tipo multiuso. Ben lontano quindi da una vera e propria arma da combattimento. Il fatto poi che colpisca il servo del sommo sacerdote all'orecchio fa pensare più che ad un fendente o ad una sciabolata, che certamente avrebbe procurato danni maggiori di una semplice ferita all'orecchio, ad una sorta di improvvisa operazione chirurgica: Pietro si scaglia contro il servo e gli taglia l'orecchio destro. Un gesto questo comprensibile e compatibile con Lv 21,18-21, dove si stabilisce come il difetto fisico sia di impedimento ad esercitare il sacerdozio45. Nel dettagliato elenco di difetti impedienti si cita anche “¥nqrwpoj cwlÕj À tuflÕj À kolobÒrrin À çtÒtmhtoj(ántzropos colòs è tiflòs è kolobórrin è otótmetos), e cioè “un uomo zoppo o cieco o col naso mozzo o un orecchio tagliato46. Benché qui non si parli di sacerdote o di sommo sacerdote, ma soltanto del servo del sommo sacerdote, tuttavia questi non va pensato come uno schiavetto qualunque, ma era una sorta di prefetto dei sacerdoti, anch'egli sottoposto alla regola della perfezione fisica per poter esercitare il suo incarico47. Giovanni infatti lo definisce con l'articolo determinativo “tÕn toà ¢rcieršwj doàlon(tòn tû archieréos dûlon), “il servo del sommo sacerdote”, indicando una precisa figura professionale. Lo stesso nome “Malco”, riportato dal solo Giovanni, è simbolico e deriva dall'ebraico “mlk, cioè re, signore, capo. Il suo nome quindi indica in qualche modo la sua funzione di sovraintendente. L'essere così sfregiato da Pietro significava non solo umiliarlo, ma togliergli ogni possibilità di continuare il suo prestigioso incarico48. La precisazione che Pietro tagliò “l'orecchio destro” rafforza questa ipotesi. Infatti nel rituale di consacrazione del sacerdote vi era anche quello dell'unzione del lobo dell'orecchio destro con il sangue (Lv 8,23-24) e qui Pietro più che tagliare l'orecchio, taglia “tÕ çt£rion(tò otárion), l'orecchietta, cioè il lobo e non l'orecchio.

Dopo l'estemporaneo episodio del v.47, di cui nessuno dei personaggi presenti all'arresto di Gesù e con loro Gesù stesso, si sono accorti, il racconto dell'arresto di Gesù riprende con una reprimenda da parte di Gesù. Anche questa suona come una stonatura se si analizzano attentamente le modalità in cui è avvenuto l'arresto: “Ed essi gli misero le mani addosso e lo afferrarono”. La determinazione e l'aggressività dell'arresto non lasciano spazi per ragionamenti o riflessioni. Tuttavia, all'interno di un concitato arresto, la Tradizione ha inserito i vv.48-49, che hanno una duplice funzione: apologetica, finalizzata a mettere in rilievo il vile arresto di Gesù avvenuto di notte, all'insaputa di tutti per non creare problemi di ordine sociale; dall'altro era necessario far capire al lettore che quanto stava accadendo si muoveva secondo un piano prestabilito da Dio e rivelato nelle Scritture. In altri termini, Gesù non era sopraffatto dai suoi nemici, ma stava obbedendo alla volontà del Padre (v.36). Sono loro, invece, i nemici di Gesù, che a loro insaputa stanno compiendo le Scritture.

I vv.50-52 chiudono la seconda scena del Getsemani e con questa tutta la sezione del Getsemani (32-52).

Il v.50 dà attuazione alla predizione di Gesù: “tutti sarete scandalizzati, poiché è scritto: percuoterò il pastore, e le pecore saranno disperse” (v.27). Il progressivo abbandono di Gesù da parte dei suoi mette sempre più in rilievo, da un punto di vista umano, la solitudine di Gesù, ma nel contempo, da un punto di vista cristologico e soteriologico, si attribuisce al solo Gesù l'intera capacità di redenzione e di riscatto di tutti gli uomini, senza alcun intervento umano. Da questo momento in poi, Gesù è sottratto alla disponibilità dei suoi e ha inizio per loro il tempo del dopo Gesù, quello disgregativo, fatto di abbandoni, fughe, tradimenti e rinnegamenti e che Gesù aveva predetto al v.27, ma che sarebbe, poi, seguito da quello riaggregante, attorno al Risorto, alla sua Parola e allo spezzare del Pane (At 2,42) e che avrà il suo culmine nel dono dello Spirito Santo (At 2,2-4).

I vv.51-52 narrano di uno strano episodio riportato dal solo Marco, sul quale si possono fare solo delle ipotesi, che lasciano comunque sempre qualche dubbio. Certamente è da escludere, a mio avviso, la figura dello stesso Marco, il quale non ha mai avuto modo di conoscere Gesù, in quanto nato e vissuto nella diaspora giudaica di Roma49. Egli conoscerà Gesù solo tramite la predicazione di Pietro, dalla cui predicazione prenderà lo spunto per scrivere questo vangelo, che altro non è che una predicazione scritta.

Per poter comprendere chi sia il personaggio illustrato ai vv.51-52 è necessario ricreare il contesto in cui questi due versetti vengono collocati. Qui si è nel Getsemani dove Gesù, tradito da Giuda sta per essere consegnato ai suoi nemici. E in questo frangente chiede ai tre discepoli prediletti, Pietro, Giacomo e Giovanni, di vegliare con lui e di condividere, quindi, la sua sofferenza di persecuzione e di morte con lui. Nessuno dei tre non solo non riesce a reggere una simile prova, ma essi fuggiranno dal Gesù sofferente fino alla morte, così che Gesù si ritroverà solo ad affrontarla. Si è dunque in un contesto di sofferenza e di morte causata dalla persecuzione dei nemici di Gesù. Si è detto sopra (pagg. 36.39 ultimi capoversi) come questo contesto trova il suo sitz-im-leben nella persecuzione scatenata da Nerone nella sola città di Roma tra il 64 e il 67 d.C. Una nuova, inattesa e quanto critica situazione si era venuta a creare per la prima volta all'interno della comunità credente di Roma, a cui Marco sta scrivendo questo suo vangelo, il quale, con questo racconto del Getsemani, dai tratti fortemente parenetici, sta esortandola a sostenere la prova condividendo con lui la sua passione e morte, mettendo in guardia i credenti dalle defezioni. E per farlo ricorrerà ad un verbo che solo Marco usa ed è unico in tutta la Bibbia50: “sunhkoloÚqei” (sinecolútzei), che significa letteralmente “con-seguire”, cioè seguire qualcuno accompagnandosi a lui, condividendo il suo cammino.

Creato il contesto, ora è più semplice a capire chi ci sta davanti. Il v.51 traccia i tratti salienti di questo anonimo personaggio:

Presi, dunque, questi quattro tratti e assemblandoli assieme, sembra di poter dire che qui Marco si stia rivolgendo ai catecumeni o ai neobattezzati della comunità credente di Roma per sospingerli, da un lato, a seguire con fermezza la via del loro Maestro e Guida sulla via della sofferenza e della morte, condividendola con lui.

Tuttavia, nonostante i solleciti alla fedeltà della scelta esistenziale fatta, il v.52 attesta che quel giovinetto “lasciato il lenzuolo, fuggì nudo”.

Il v.52 inizia con un'espressione fortemente avversativa “Ð dš” (o dé, ma questi) che si contrappone decisamente, quasi rovesciandolo, il v.51. Il giovinetto ha lascia il lenzuolo, cioè ha rinnegato la propria fede e “fuggì nudo”, cioè si allontanò dal cammino intrapreso assieme a Gesù, spogliato della sua stessa fede, che ha rinnegato di fronte alla testimonianza.

Un finale triste, ma che da un lato denuncia queste defezioni ed apostasie dei catecumeni e/o neobattezzati; dall'altro un implicito sollecito a non concludere così miserevolmente l'avventura, appena intrapresa, della nuova vita in Cristo.

Se questo sembra essere il prevalente significato dei vv.51-52, tuttavia Marco pare anche creare, di soppiatto, una sorte di gioco letterario, che si viene a formare accomunando tra loro i vv.46 e 52, per cui si avrà: “Ed essi gli misero le mani addosso e lo afferrarono […] ma egli, lasciato il lenzuolo, fuggì nudo”. In tal caso il riferimento è alla passione-morte (v.46) e risurrezione (v.52) di Gesù, dove quel “lasciato il lenzuolo” si riferisce al lenzuolo con cui è stato avvolto il corpo di Gesù (15,46) (il termine greco qui è identico a quello di 15,46 “sindÒna”, sindóna, lenzuolo), e quindi, lasciato il lenzuolo della morte, fuggì nudo, cioè spogliato e liberato dal corpo dell'antico Adamo, per rivestirsi delle vesti del nuovo Adamo.

Terzo quadro: nella casa del sommo sacerdote (vv.53-72)

Preambolo introduttivo (vv.53-54)

Testo

53- E condussero Gesù dal sommo sacerdote, e si riuniscono tutti i capi dei sacerdoti e gli anziani e gli scribi.
54- E Pietro lo seguì da lontano fin dentro il cortile del sommo sacerdote ed era seduto insieme con i servi e riscaldandosi presso il fuoco.

Commento ai vv.53-54

Il terzo quadro si apre con un preambolo, che lo scandisce in due parti, preannunciando con il v.53 la scena del processo giudaico (vv.55-65) e con il v.54 quella del rinnegamento di Pietro (66-72).

Il v.53a è di transizione perché, riprendendo il racconto dell'arresto di Gesù, avvenuto al v.46 e interrotto dall'inserzione della pericope, vv.47-52, lo porta a compimento, annunciando che Gesù viene condotto davanti ai membri del Sinedrio, aprendo in tal modo sia un nuovo contesto, dal Getsemani alla casa del sommo sacerdote, sia un nuovo scenario, quello del processo giudaico.

Il v.53b presenta al completo le tre categorie che compongono il Sinedrio e, quindi, gli attori e i responsabili sia dell'arresto di Gesù che del suo processo e della sua consegna ai pagani perché venisse giustiziato.

Queste tre categorie compaiono, citate sempre assieme, cinque volte, sempre in contesti dove si parla della passione e morte di Gesù, quasi che Marco voglia puntare il dito contro i responsabili della morte di Gesù. Fanno la loro prima apparizione in 8,31, dove Gesù fa il primo annuncio della sua passione e morte; in 11,27, dove, nel Tempio, si avvicinano a Gesù per interrogarlo circa la sua autorità; e in quel “avvicinarsi a Gesù” Marco lascia trasparire come ormai si stia avvicinando l'ora di Gesù; in 14,43, dove appaiono come i mandanti dell'arresto di Gesù e, infine, in 15,1, dove questi consegnano Gesù a Pilato, aprendo in tal modo un nuovo scenario, quello del processo pagano, che si concluderà con la morte di Gesù.

Significativo quel “riunirsi tra loro” di queste tre categorie di personaggi, che dice, da un lato, che essi si stanno preparando per condannare Gesù, ormai in loro possesso; dall'altro, quel “riunirsi tra loro” li rende tutti in egual modo responsabili e colpevoli della morte di Gesù.

Il v.54 preannuncia la scena del rinnegamento di Pietro (vv.66-72) e ne prepara il contesto, a cui si aggancerà il v.66. A quel punto il lettore sa già che Pietro ha seguito Gesù fin dentro il cortile del sommo sacerdote, acquartierandosi, quasi mimetizzandosi, in mezzo ai servi, nei pressi del fuoco per riscaldarsi. Nota, questa, verosimile, considerando che si è nel mese di marzo/aprile e le notti sono ancora fredde. Significativo l'appunto con cui Marco descrive le modalità della sequela di Gesù da parte di Pietro: “lo seguì da lontano”, che rileva più che la distanza fisica tra Pietro e Gesù, quella del rapporto tra lui e Gesù; un rapporto che si sta affievolendo sempre più e che lo spingerà a rinnegare il suo Maestro, al quale solo qualche ora prima aveva giurato fedeltà fino alla morte (vv.29-31).

Il processo giudaico (vv. 55-65)

Testo a lettura facilitata

Un interrogatorio pretestuoso e inconsistente (vv.55-61a)

55- Ora, i capi dei sacerdoti e l'intero sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per farlo morire, e non (ne) trovavano.
56- Molti, infatti, testimoniavano il falso contro di lui, e le testimonianze non erano uguali.
57- E alcuni, alzatisi, testimoniavano il falso contro di lui dicendo
58- che noi l'abbiamo udito che diceva che io distruggerò questo tempio fatto da mani (d'uomo) e in tre giorni (ne) costruirò un altro non fatto da mani (d'uomo).
59- E neanche così la loro testimonianza era uguale.
60- E alzatosi il sommo sacerdote in mezzo, interrogò Gesù dicendo: <<Non rispondi niente, che cosa questi testimoniano contro di te?>>.
61a- Ma egli taceva e non rispondeva niente.

La testimonianza di Gesù ... (vv.61b-62)

61b- Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogava e gli dice: <<Sei tu il cristo, il figlio del Benedetto?>>.
62- Ma Gesù disse: <<Io (lo) sono, e vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e che viene tra le nubi del cielo>>.

che provoca scandalo e una sentenza di morte (vv.63-64)

63- Ma il sommo sacerdote, strappando le sue tuniche, dice: <<Che bisogno abbiamo ancora di testimoni?
64- Avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?>>. Ora tutti sentenziarono che egli era passibile di morte.

Un'inutile prevaricazione (v.65)

65- E alcuni cominciarono a sputargli (addosso) e a bendare la sua faccia e a colpirlo con pugni e a dirgli: <<Profetizza>>; e i servi lo presero a schiaffi.


Note generali

La pericope in esame costituisce la prima scena del terzo quadro narrativo della passione e morte di Gesù e riguarda il processo giudaico posto a suo carico. Ma è corretto chiamarlo processo? O forse è meglio definirlo un improvvisato incontro formale tra alcuni autorevoli esponenti del Sinedrio per meglio definire le accuse contro Gesù e accordarsi su di esse, per poi rendere credibile e accettabile la consegna di Gesù a Pilato per la sua condanna a morte? Di certo non si è trattato di un incontro finalizzato a far emergere la verità su Gesù, ma per condannare a morte Gesù (v.55). Una condanna che di fatto era già stata scritta e pazientemente rincorsa da lungo tempo, e che, con un inatteso colpo di fortuna, vedono realizzarsi (v.11). Si trattava, ora, solo di formalizzarla in qualche modo.

Un progetto di morte (14,1-2) che poté attuarsi grazie al tradimento di Giuda (14,10-11) e che è partito da molto lontano e si è venuto lentamente costruendo nel corso degli anni. Già in 3,6, agli inizi della missione di Gesù, farisei ed erodiani “tennero consiglio contro di lui per farlo morire”; in 11,18 “i sommi sacerdoti e gli scribi e gli anziani cercavano il modo di farlo morire. Avevano infatti paura di lui, perché tutto il popolo era ammirato del suo insegnamento”; in 14,1 “ i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di lui con inganno, per ucciderlo”, mentre già in 12,12 sommi sacerdoti, scribi ed anziani “cercarono di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto quella parabola contro di loro. E, lasciatolo, se ne andarono”. La parabola a cui facevano riferimento era quella dei vignaioli malvagi (12,1-9), con la quale Gesù aveva smascherato e condannato i progetti di morte delle autorità giudaiche nei suoi confronti.

Ora si è giunti a quello che tradizionalmente si chiama il “processo a Gesù”, che sebbene raccontato da tutti quattro gli evangelisti, assume contorni molto diversi a seconda degli intenti degli autori stessi. Marco e il suo parallelo Matteo presentano un processo che, in realtà, se così avvenuto, non può essere definito tale. Un processo regolare, infatti, non poteva essere celebrato in quel frangente storico, poiché un processo non poteva essere svolto durante la notte; si era, poi, durante le feste di Pasqua e degli Azzimi, e di sabato e di festa non si potevano tenere le udienze; una sentenza di morte, poi, non poteva essere emessa il giorno stesso dell'udienza, ma soltanto nel giorno successivo ad essa; quanto al motivo della condanna a morte per bestemmia è possibile emetterla solo per la pronuncia del nome di Dio52. Per questo insieme di cose il “processo giudaico” a Gesù non può essere considerato tale.

Lascia poi perplessi come, emessa la sentenza di morte, lì seduta stante, nella stessa casa del sommo sacerdote e alla sua presenza e di altri esponenti religiosi, Gesù venga dileggiato, sputacchiato e ripetutamente colpito con pugni da “alcuni” lì presenti (v.65), per poi, il mattino seguente, portarlo da Pilato (15,1). Una scena inverosimile.

Più credibile il racconto di Lc 22,54-71, dove, in sequenza, Gesù dal Getsemani viene condotto nella casa del sommo sacerdote; qui Pietro, messo alle strette, lo rinnega ripetutamente, nel mentre che Gesù è tenuto prigioniero, dileggiato, offeso e picchiato, probabilmente nello stesso cortile dove Pietro egli altri servi bivaccavano attorno al fuoco, considerato che, dopo gli spergiuri di Pietro, Gesù si voltò verso di lui guardandolo: “Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro” (Lc 22,61a). Gesù, quindi, era lì presente, probabilmente un po' scostato dal gruppo dei servi e da Pietro, ma non così tanto da non sentire la reazione di Pietro. E così Gesù passa tutta la notte in balia dei servi e della soldataglia e, giunto il mattino del giorno dopo, si riunisce il Sinedrio per giudicare Gesù.

Tuttavia, anche Lc 22,66-71 riduce tutto il processo a due domande: “Se tu sei il Cristo, diccelo” (Lc 22,67a) e “Tu dunque sei il Figlio di Dio?” (Lc 22,70a). E tutto finisce lì, senza la formulazione di nessuna accusa né di alcuna condanna a morte e subito viene consegnato a Pilato. Sarà, tuttavia, il successivo Lc 23,2-5 a focalizzare l'attenzione sulle risposte di Gesù, che vengono tradotte dalle autorità religiose giudaiche in termini politici, perché diversamente Pilato non avrebbe acconsentito a condanne a morte per motivi religiosi. Gesù, un rivoltoso e un sobillatore del popolo contro Roma, autoproclamatosi re dei Giudei. Un soggetto, quindi, rivoltoso e pericoloso per Roma e la pace sociale, per questo venne condannato alla morte di croce, riservata a questa tipologia di crimini.

Tuttavia, anche per il racconto lucano non si può parlare di processo, perché viene a mancare la formulazione dell'atto di accusa, le testimonianze e il dibattimento, che deve concludersi con una sentenza, da pronunciarsi non subito, ma il giorno successivo, mentre, dopo solo due domande di contenuto religioso, del tutto irrilevanti per ottenere una sentenza di morte da Pilato, la riunione si scioglie e Gesù inviato a Pilato. Anche per Luca il “processo” contro Gesù avviene nella festa di Pasqua-Azzimi e, quindi, non credibile per i motivi sopra esposti.

L'unico ad avvicinarsi alla realtà storica sembra essere Giovanni, che riduce il “processo” contro Gesù ad un semplice incontro informale con Anna, suocero di Caifa, per prendere qualche informazione sulla dottrina e sui discepoli di Gesù, ma non ricavandone alcuna risposta, lo manda da Caifa (Gv 18,19.24), sommo sacerdote in carica in quel periodo (18-36 d.C.), il quale, sul far del mattino del giorno successivo a quello dell'arresto di Gesù, senza convocare nessun consiglio, lo manda da Pilato (Gv 18,28).

Una cosa, dunque, molto semplice e informale, probabilmente con la presenza-assistenza di qualche altro sinedrita, ma senza apparati giudiziari in piena regola. Tutto doveva svolgersi rapidamente e nel silenzio per evitare clamori o rivolte. Del resto non c'era bisogno di svolgere un processo, avendo già in mano argomentazioni a sufficienza ed avendo già decisa l'eliminazione di Gesù.

La diversità tra i quattro racconti è dovuta essenzialmente al progetto teologico e cristologico proprio dei singoli evangelisti: i sinottici puntano ad evidenziare con i loro racconti sul processo due elementi: la falsità di tutto l'impianto accusatorio e, quindi, il comportamento persecutorio, subdolo e calunnioso delle autorità religiose, da un lato; dall'altro, la messianicità di Gesù e la sua figliolanza divina.

Diversamente, Giovanni aveva già ampiamente dibattuto nel corso del suo vangelo sia la messianicità53 che la figliolanza divina di Gesù54; ora non gli restava che mettere in evidenza la sua regalità, che farà risaltare proprio qui, nell'ora della passione e morte e alla quale dedicherà l'ampia sezione 18,28-19,15.19-22.

Non va, poi, tralasciato il clima di polemica che, all'epoca in cui gli evangelisti stavano scrivendo i loro vangeli, infuocava i rapporti tra il giudaismo e il nascente cristianesimo, che maggiormente si sente in Matteo (23,1ss) e in Giovanni e negli stessi Atti degli Apostoli (3,13). È proprio questo clima che spinge le prime comunità credenti ad evidenziare la colpevolezza delle autorità giudaiche nella morte di Gesù.

La pericope in esame (55-65) è nella sua macrostruttura suddivisibile in due parti: la prima riguarda l'escussione dei testi, le cui testimonianze erano discordi (vv.55-59); la seconda riguarda l'intervento del sommo sacerdote e il dialogo con Gesù, che si conclude con una sentenza di morte (vv.60-64).

All'interno di queste due sezioni vi sono delle sotto strutture: nella prima parte (vv.55-59) il v.55 introduce il tema delle testimonianze; i vv.56-59 danno seguito al v.55 e sono delimitati da un'inclusione data dall'espressione “le testimonianze non erano uguali”, che si ritrova sostanzialmente identica ai vv.56b e 59, evidenziando in tal modo l'inconsistenza di queste testimonianze.

La seconda parte è scandita a sua volta in tre parti: il silenzio di Gesù di fronte alle false testimonianze (vv.60-61a); l'interrogatorio di Gesù da parte del sommo sacerdote, che mette in evidenza la vera natura di Gesù di messia e Figlio di Dio (vv.61b-62); la sentenza di morte pronunciata dal sommo sacerdote e condivisa dai presenti (vv.63-64).

Il tutto si chiude con atti aggressione nei confronti di Gesù (v.65)

L'intero impianto narrativo sul “processo giudaico a Gesù” si muove su di uno sfondo biblico e lascia trasparire continui richiami o implicite citazioni scritturistiche.

Lo sfondo biblico su cui si muove il v.55 sono i Sal 37,32 e 54,5, che vedono il giusto insidiato da arroganti e prepotenti, che lo spiano per farlo morire.


Commento ai vv.55-65

Il v.55 forma da cornice all'intero quadro processuale e ne dà il tono generale, così che il lettore è informato fin da subito del tenore e della consistenza di questo processo. Vengono qui presentati gli attori principali e le loro intenzioni. Si tratta di un processo viziato nella sua sostanza, perché non è finalizzato a far emergere la verità sulla persona e sull'operato di Gesù per darne una valutazione di merito, ma soltanto a trovare elementi di condanna su di lui per “farlo morire”. Prova ne sono le stesse testimonianze che sono solo a carico di Gesù e nessun testimone a suo discarico. Significativo quel “cercavano”, un verbo posto all'imperfetto indicativo, che dice l'insistenza di quel cercare un motivo di condanna, vanificato dalla constatazione che “e non (ne) trovavano”. Un cercare, quindi, a vuoto, che evidenzia la malafede dei giudici e la loro tendenziosità e la loro faziosità, che va ad inficiare la loro stessa sentenza di morte, pronunciata sul nulla. Non si è trattato, quindi, di un processo, ma di una scatola vuota di contenuti, sorretta soltanto dalla volontà dei giudici di far fuori l'imputato.

Marco presenta in apertura due categorie di giudicanti: i capi dei sacerdoti e l'intero sinedrio. I primi sono probabilmente sacerdoti che hanno già ricoperto l'incarico di sommo sacerdote e appartengono alla classe nobile del sacerdozio giudaico, quella dei sadducei, che si ritenevano i diretti discendenti del sommo sacerdote, ai tempi di Salomone (972-933 a.C.), Zadoqq, che esercitò tale funzione nel Tempio di Salomone, lui e i suoi discendenti fino alla distruzione del Tempio (587 a.C.). Socialmente erano degli aristocratici ed erano al vertice della società, tradizionalisti e conservatori, si rifacevano alla sola Torah scritta, rifiutando quella orale, formata dalle successive interpretazioni di quella scritta. Politicamente erano collaboratori con l'invasore romano e per questo invisi al popolo.

La seconda categoria di giudicanti sono citati collettivamente da Marco con l'espressione “l'intero sinedrio”, dando l'idea di una seduta plenaria, che non poteva convocarsi perché durante la notte e durante le festività non si potevano tenere sedute del Sinedrio. Non va, poi, dimenticato che il Sinedrio era formato da 70 persone più il sommo sacerdote e che qui, in questo contesto ci si trova nella casa del sommo sacerdote, che difficilmente avrebbe potuto ospitare agevolmente una simile quantità di persone. Pertanto la citazione anonima di “intero sinedrio” va intesa che a quel processo parteciparono anche dei sinedriti, ma che la responsabilità di quel processo va fatta ricadere sull'intero Sinedrio. Significativo poi che Marco tra i giudicanti citi in chiaro i “capi dei sacerdoti”, lasciando in ombra il resto dei giudicanti, volendo probabilmente in tal modo attribuire la colpa maggiore a questa categoria di persone.

Se il v.55 forma la cornice entro cui si svolge il processo, rilevando che “cercavano una testimonianza contro Gesù per farlo morire, e non (ne) trovavano”, la pericope, vv.56-59 ne dà attuazione. Questa è significativamente delimitata dall'inclusione data dall'espressione “le testimonianze non erano uguali” (vv.56b.59), rilevando in tal modo la natura di tali testimonianze, evidenziando la veridicità di quel “non ne trovavano”, con cui terminava il v.55 e a cui si aggancia la presente pericope, che per ben quattro volte in pochi versetti sottolinea come queste testimonianze erano tra loro discordi (due volte) e false (due volte). Annotazioni insistenti e pesanti, in cui si può leggere l'atto di accusa della chiesa nascente contro le autorità giudaiche

Il v.56 funge, a sua volta, da cornice all'intera pericope (vv.56-59) entro cui verrà collocata, di fatto, una sola testimonianza, quella più importante per Marco e che troverà il suo sviluppo nella successiva pericope, vv.60-65, in cui il sommo sacerdote, Caifa, riprendendo la testimonianza del v.58, la preciserà meglio, mettendo in rilievo la messianicità e la figliolanza divina di Gesù, che in qualche modo sono legate alla sua risurrezione, lasciata trasparire dal v.58 in quel “in tre giorni”, che nel linguaggio neotestamentario vi allude.

Il v.56, con quel “g¦r” (gàr, infatti) dichiarativo iniziale, diventa esplicativo di quel “non (ne) trovavano”. Non ne trovavano perché “testimoniavano il falso” e le “testimonianze non erano uguali”. Due verbi posti all'imperfetto indicativo che dicono la persistente falsità e discordanza di queste testimonianze, così da creare un contesto di menzogne tale da inficiare lo stesso processo, che diventa, a tal punto, un atto di accusa contro gli stessi giudici e contro lo stesso giudaismo.

In questo contesto di falsità, Marco focalizza l'attenzione del suo lettore su di una testimonianza, che viene dichiarata falsa e inattendibile per la discordanza degli stessi testimoni che la riferirono: “io distruggerò questo tempio fatto da mani (d'uomo) e in tre giorni (ne) costruirò un altro non fatto da mani (d'uomo)” (v.58). In tutto il N.T. non si trova traccia di un Gesù che minacci la distruzione del Tempio per ricostruirne uno nuovo. L'unico gesto di Gesù rivolto non tanto contro il Tempio, ma contro l'uso di questo, si trova in 11,15-17. Un gesto che probabilmente fu male interpretato come rivolto contro il Tempio e il suo culto; un gesto che unito alla profezia di 13,2, dove Gesù aveva attestato che di quel Tempio lì non sarebbe rimasto se non un mucchio di macerie, ha portato all'accusa di voler distruggere il Tempio, cuore del giudaismo e della vita sociale e religiosa di Israele, nonché casa di Dio (Sal 75,3; 131,13; Tb 1,4c).

Chiaramente si tratta solo di un'ipotesi, per altro storicamente poco attendibile se non irrilevante. A cosa, dunque, alludeva una simile accusa? Per poterlo comprendere è necessario rifarsi ai successivi vv.61b-62, dove il sommo sacerdote, rifacendosi proprio al v.58, sul quale sollecita una risposta da parte di Gesù (v.60), a fronte del suo persistente silenzio, pone la domanda diretta, che quell'accusa (v.58) intendeva dire: “Sei tu il cristo, il figlio del Benedetto?”. L'accusa del v.58, che risuonerà anche in 15,29 e similmente in At 6,13-14, si riferiva, pertanto, alle aspettative giudaiche secondo le quali nei tempi escatologici Dio avrebbe mandato il suo messia a ricostruire Gerusalemme e il suo tempio nel loro splendore e nella loro gloria e con questo inaugurare un nuovo culto. Ma altrove si prospetta che Dio stesso costruirà il suo Tempio in mezzo al suo popolo: “Ed io costruirò il mio santuario in mezzo a loro e risiederò con loro e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo, in verità e giustizia” (Giub. 1,17); ma ancor prima Es 15,17 si parla di un santuario che le mani del Signore hanno fondato: “Lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede, Signore, hai preparato, santuario che le tue mani, Signore, hanno fondato”. Passo questo che verrà ripreso dai testi di Qumran e che lo collocano in una prospettiva escatologica: “Questa è la casa che sarà edificata alla fine dei giorni, come è scritto nel libro di Mosè: il santuario, Adonai, fu fondato dalle tue mani” (4QFlor, framm. 1-2)55

Se Gesù avesse effettivamente fatta una simile affermazione, si sarebbe dichiarato il Messia atteso e, quindi, i suo messaggio, che stravolgeva il modo d'intendere la Torah, veritiero e tutto ciò avrebbe minato le fondamenta del culto e della stessa comprensione della Torah, pazientemente imbastita in lunghi secoli dalla Tradizione. Sconvolgente e inaccettabile! Per questo il sommo sacerdote, scandalizzato, si strappa le vesti e sancisce la condanna a morte di Gesù.

Tuttavia l'accusa mossa dal v.58 merita un'attenzione particolare, perché è l'unica accusa che Marco riporta qui in chiaro, segno che in essa è racchiuso un messaggio che va ben oltre alle attese messianiche del giudaismo e dalle quali Marco lascia trasparire il senso stesso della missione di Gesù e della sua persona. Si tratta di un'accusa che certamente si rifà alle attese messianiche ed escatologiche del giudaismo, ma Marco le elabora in senso cristologico. Tre gli elementi rilevanti del v.58: a) si parla di una contrapposizione di due Templi: l'uno fatto da mano d'uomo; l'altro fatto non da mano d'uomo; b) due i verbi contrapposti e tutti due posti al futuro: distruggerò e costruirò; c) il terzo elemento è il tempo occorrente per la riedificazione di questo Tempio: tre giorni.

Una contrapposizione che parla di un prima e di un dopo, dove la discriminante è Gesù stesso, che Eb 8,1b-2 vede come il nuovo sommo sacerdote, ministro di un Santuario costruito non da mano d'uomo, ma da Dio stesso, che inaugura un culto del tutto spirituale (Rm 12,1; 1Pt 2,5.9), del quale Tempio e culto giudaico erano soltanto un'ombra e una figura di questa nuova realtà e in qualche modo la preannunciava. Ma Ap 21,22 e 23,3-4 parlando della nuova Gerusalemme celeste (Ap 21,1-2), va ben oltre e prospetta la realtà ultima e definitiva di questo Tempio e del suo nuovo culto,: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio […] Il trono di Dio e dell'Agnello sarà in mezzo a lei e i suoi servi lo adoreranno; vedranno la sua faccia e porteranno il suo nome sulla fronte”.

La prospettiva, dunque, è escatologica, rimarcata dai verbi al futuro,“distruggerò/costruirò”. Due verbi significativi perché parlano di una doppia distruzione e costruzione: storica e spirituale. Quanto a quella storica, il tempio di Gerusalemme e con questo il suo sacerdozio e il suo culto furono distrutti nelle due guerre giudaiche del 70 e 135 d.C., che posero fine all'antico giudaismo, che in Gesù venne ripreso e ricostituito secondo una nuova prospettiva spirituale ed ha trovato il suo proseguo nel nuovo Israele, la Chiesa, il nuovo Tempio, costruito dal Signore e fatto di pietre vive, dove si celebra un nuovo culto: “[...] pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo” (1Pt 2,5). Un nuovo Tempio e un nuovo culto, che il Gesù giovanneo aveva annunciato e prospettato alla Samaritana (Gv 4,20-24). Quanto all'aspetto spirituale, questa distruzione e questa ricostruzione, poste in questo contesto della passione e morte di Gesù, indicano la morte e la risurrezione di Gesù, alla quale l'espressione “tre giorni” allude. Se l'espressione “tre giorni” nel linguaggio biblico ricorrente indica una dinamica temporale di un inizio, di un mezzo ed di una fine o compimento e parla comunque di un tempo breve, trasportati nel contesto cristiano i “tre giorni” o il “terzo giorno”, rientrano nel linguaggio tecnico della chiesa nascente per indicare la risurrezione.

La pericope delle false testimonianze (vv.55-59) si chiude con il v.59, il quale attesta che “neanche così la loro testimonianza era uguale”. Questo intreccio di continue discordanze, contraddizioni e false testimonianze (vv.55-57.59) gira tutto attorno al vv.58, che attesta il Mistero della persona di Gesù, della sua missione e del futuro escatologico, in cui è collocata la sua Chiesa. Tutto ciò lascia intravvedere come, al di là del rifiuto della persona di Gesù, colto come un nemico “in casa propria” (Gv 1,11), vi sia stata da parte del giudaismo la sostanziale incapacità di penetrare e comprendere il Mistero che avvolgeva sia Gesù e, ancor prima, Israele, la cui missione doveva essere quella di abbracciare l'intera umanità per ricondurla al Padre. Una vocazione e una dignità di cui era stato insignito ai piedi del Sinai, dove Israele fu consacrato quale proprietà di Dio, popolo di sacerdoti e nazione santa: “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,5-6). Ma la condizione era quella di “ascoltare la voce” di Dio, quella Voce per la quale era stato preparato e coltivato da Dio e per la quale era stato scelto in mezzo a molti popoli (Dt 7,7-8). Ma quando questa Voce, la sua Parola, venne in mezzo a loro (Gv 1,14), Israele non la riconobbe (Gv 1,11), anzi, la rifiutò, la perseguitò e la uccise, dando a vedere di non aver compreso il Mistero della propria vocazione e il senso della propria consacrazione, che nascevano dal disegno del Padre, quella di fare di Israele la culla accogliente della salvezza universale, che trovava il suo vertice in Gesù, nonostante che il movimento del profetismo avesse cercato, ma inutilmente (Mt 5,12b; 23,30-36), di modellare spiritualmente Israele, facendolo evolvere spiritualmente, cercando di aprirlo in modo accogliente alla venuto del Messia promesso (Mt 5,17; 13,17). Di tale fallimento Paolo non sa darsene ragione e cercherà di sondare nel fallimento vocazionale del suo popolo l'imperscrutabile disegno di Dio (Rm 9-11).

A fronte delle continue bordate di testimonianze inconcludenti, perché discordanti tra loro, se non false, l'interrogatorio sembra arrivare ad un punto morto. Ed è così che la palla viene presa in mano dal sommo sacerdote, che cerca di coinvolgere Gesù, chiamandolo ad esprimersi su queste testimonianze, ma s'imbatte nel suo silenzio: “Ma egli taceva e non rispondeva niente”. I due verbi posti all'imperfetto indicativo dicono la persistenza di questo silenzio di Gesù, così che si può tradurre con “continuava a tacere e continuava a non rispondere niente”. È il silenzio con cui si esprime il Mistero della persona di Gesù, che non si lascia abbordare se l'atteggiamento di ricerca della Verità su di lui non è quello giusto, cioè disponibile ad accoglierlo. Non è insultando, offendendo o aggredendo la Parola di Dio, che la si può penetrare nel suo Mistero. Serve un diverso atteggiamento di ricerca sincera, saper porre le domande giuste, solo così la Parola si svelerà nel suo Mistero. Ed è ciò che farà il sommo sacerdote con quel “Di nuovo”. In altri termini, Caifa si rende conto che non è quella la strada per penetrare nel Mistero di Gesù, scoprendone la Verità, della quale anche Israele, inconsapevolmente, faceva parte integrante. Ed ecco la domanda giusta, che traduce il senso dell'accusa del v.58: “Sei tu il cristo, il figlio del Benedetto?”. Vi è qui un cambio di marcia e un cambio di atteggiamento interiore, che tuttavia porta con sé tutti i dubbi che avevano tormentato le autorità giudaiche. Qui non c'è più un atteggiamento di accusa, ma di ricerca, anche se mossa in modo malintenzionato. Si è giunti qui al vertice del Mistero con cui Marco aveva iniziato il suo vangelo, quale testimonianza su Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio (1,1) e attorno al quale ruota l'intero suo racconto. Una domanda che forma inclusione con 1,1. Ed è solo a questo punto che Gesù si aprirà nel suo Mistero e ne darà, infine, la sua testimonianza (v.62). Lui è il vero Testimone del Padre, gli altri sono solo testimoni degli uomini, incapaci di testimoniare la Verità.

Alcune annotazioni vanno poste sul v.61b, in particolare sulla sua introduzione e sulla formulazione della domanda: “il sommo sacerdote lo interrogava e gli dice”. Vi è qui un cambio di tempo verbale: si passa dall'imperfetto indicativo (“lo interrogava”) al presente indicativo (“gli dice”). Questo cambio di tempo verbale dice che qui la lunga ricerca del sommo sacerdote e delle stesse autorità giudaiche, espressa da quel “lo interrogava”, è giunta al termine; un termine che gli è imposto dal tempo presente e tutto ora si concentra su questa domanda. La domanda che il sommo sacerdote pone a Gesù è sulla sua identità, che interpella il Mistero della sua persona e della sua stessa essenza, ed è una domanda carica di tensione, perché si sta per svelare la reale identità di Gesù, il suo Mistero, la porta per entrare in quello di Dio stesso e del suo progetto di salvezza: “Sei tu?”.

Quanto all'espressione “figlio del Benedetto”, questa è del tutto inusuale e si trova, in tutta la Bibbia, soltanto qui in Marco, ma riflette bene la mentalità ebraica che, in ottemperanza ad Es 20,7, impone all'ebreo di non pronunciare invano il nome di Dio, per cui al suo posto si svilupparono una serie di appellativi come “il Signore”, “il Santo”, “l'Onnipotente”, “l'Altissimo”, mentre il titolo “Benedetto” deve avere una datazione piuttosto recente e va considerato probabilmente come una contrazione di espressioni composite, come “Benedetto il Signore”, “Benedetto Dio”, “Benedetto il suo nome” e, quindi, “il Benedetto”.

Il v.62 dà continuità alla domanda del sommo sacerdote, riportando, da un lato, la risposta di Gesù, che è una conferma di quanto Caifa aveva chiesto e intuito. Ogni domanda, infatti, contiene in se stessa la risposta cercata: “Io (lo) sono”. Gesù, dunque, è “il Cristo, Figlio di Dio”. La lettura che Marco fa qui alla domanda del sommo sacerdote è squisitamente cristologica e va ben oltre a quanto intendeva chiedere Caifa. La sua domanda, infatti, si rifaceva alla promessa che Dio aveva fatto a Davide per mezzo del profeta Natan : “Quando i tuoi giorni saranno finiti e te ne andrai con i tuoi padri, susciterò un discendente dopo di te, uno dei tuoi figli, e gli renderò saldo il regno. Costui mi costruirà una casa e io gli assicurerò il trono per sempre. Io sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio; non ritirerò da lui il mio favore come l'ho ritirato dal tuo predecessore. Io lo farò star saldo nella mia casa, nel mio regno; il suo trono sarà sempre stabile” (2Sam 7,12-14; 1Cr 17,11-14). Gesù, dunque, per il sommo sacerdote, con quel “Io (lo) sono” confermava di essere la realizzazione di quella Promessa. Gesù, pertanto, era il discendente di Davide, venuto per rendere saldo e per sempre stabile il regno davidico, e per costruire un nuovo Tempio e inaugurare un nuovo culto, dei quali il racconto della purificazione del Tempio(11,15-17) era solo un gesto profetico e una metafora. Lui era colui che Dio aveva dichiarato: “sarò per lui un padre e lui sarà per me un figlio”. Gesù, pertanto, è l'atteso messia davidico, il figlio di Dio, nel senso della promessa, ma non in senso reale. Ma Marco, invece, riprenderà la profezia di Natan, sinteticamente formulata nella domanda del sommo sacerdote, e la trasformerà in una dichiarazione di fede cristologica: Gesù è il Cristo, cioè il vero Messia promesso ed atteso, ed è Figlio di Dio in senso reale.

Se con quel “Io (lo) sono” il Gesù marciano dichiarava solennemente davanti ai “capi dei sacerdoti e l'intero sinedrio” (v.55a) che egli era l'attuazione delle loro attese, quale Cristo e Figlio di Dio, ora egli completa la sua risposta collocando questa sua inattesa e shoccante identità su di uno sfondo escatologico: “e vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e che viene tra le nubi del cielo”. Lo sfondo biblico su cui si muove questa seconda attestazione, che va completare la prima, è quella di Dn 7,13-14: “[...] ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”; e del Sal 110, che si riferisce all'intronizzazione del re, applicato poi al Messia ed infine, riferito dalla chiesa nascente, nella sua rilettura cristologica delle Scritture, a Gesù. Gesù, dunque, Messia escatologico, Figlio di Dio, elevato nella risurrezione alla Potenza di Dio e, ora, anche re universale. Tema quest'ultimo che Marco svilupperà nel cap.15, ma che già fin d'ora lascia trasparire come in filigrana.

I vv.63-64 riportano la reazione del sommo sacerdote alla risposta di Gesù: “Ma il sommo sacerdote, strappando le sue tuniche, dice: <<Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia. Che ve ne pare?>>. Ora tutti sentenziarono che egli era passibile di morte”. Lo stracciarsi le vesti faceva parte del rituale, che imponeva al giudice che ha udito una bestemmia di alzarsi dal suo seggio e di strapparsi le vesti56. Curioso il termine greco con cui Marco definisce le “vesti” del sommo sacerdote e che tradisce la sua romanità: “citînaj” (chitonas, tuniche). Il termine greco ha la sua derivazione da quello ebraico kuttonet, che definiva la tunica, un indumento molto diffuso nell'antichità, che veniva portato sopra la pelle e la cui lunghezza raggiungeva le ginocchia o le caviglie ed era a maniche corte o lunghe o senza maniche. La bibbia conosce anche una kuttonet passim, cioè una sopravveste colorata, che doveva, a mo' di plaid, fasciare l'intero corpo57. A Roma, durante l'età imperiale (27 a.C – 476 d.C.), si era soliti portare due tuniche, una intima, a stretto contatto con la pelle e una sovratunica. Probabilmente Marco, citando il termine “tuniche”, al plurale, si riferiva a questo tipo di abbigliamento del sommo sacerdote. Quindi un abbigliamento dimesso, adatto per quella riunione notturna, senza molte formalità, giusto per dare una parvenza di legalità all'arresto di Gesù e alla richiesta di condanna a morte da presentare il giorno successivo a Pilato. Più correttamente Mt 26,65 parla, sempre al plurale, di “ƒm£tia” (imátia), cioè di vesti esteriori drappeggianti, che avvolgevano la persona. È probabile che Marco intendesse questo tipo di indumento, ma lo ha reso con “citînaj” proprio per facilitare la comprensione dei sui lettori di Roma, a cui il suo vangelo era destinato.

L'accusa lanciata contro Gesù dal sommo sacerdote è quella di bestemmia58. Questa va intesa in senso lato e non soltanto come ingiurie contro il Nome Santissimo di Dio. Essa consiste o in un parlare o in un agire contro Dio, con cui si esprime disprezzo, scherno, ingiuria. Questa veniva punita con la lapidazione, secondo un particolare rituale (Lv 24,14-16). Ma il reato di bestemmia non si limitava soltanto all'invettiva contro Dio, ma anche alla disobbedienza o all'insubordinazione nei confronti dei capi scelti da Dio o il rifiuto della Torah, la rottura dell'alleanza e l'idolatria erano forme di bestemmia. Un'accusa che già venne rivolta a Gesù allorché al paralitico ha perdonato i suoi peccati (2,5-7), poiché in tal modo egli si poneva alla pari di Dio. E similmente in Gv 10,33 i Giudei intendono lapidare Gesù per bestemmia: <<Non ti lapidiamo per un'opera buona, ma per la bestemmia e perché tu, che sei uomo, ti fai Dio>>”.

Quindi, benché il nome di Dio non fosse mai stato pronunciato da Gesù, tuttavia egli ha lasciato intendere senza ombra di dubbio chi era lui: Messia e Figlio di Dio, l'escatologico Figlio dell'uomo, lasciando trasparire in questo la profezia di Dn 7,13-14.

La sentenza di morte, pertanto, emessa dal sommo sacerdote, viene riconosciuta e validata dal Sinedrio.

Il v.65 conclude il “processo” in modo grottesco e difficilmente credibile. Si è, infatti, nella casa del sommo sacerdote Caifa (v.53a), dove, schierati, si trovano “i capi dei sacerdoti e l'intero sinedrio” (vv.53b.55a), cioè 71 persone, alle quali vanno aggiunti almeno una decina o più servi, quindi tra 80-90 persone, la quale cosa non è storicamente credibile, come s'è visto sopra. Ma posto che così sia, questi atti volgari di dileggio e di aggressione nei confronti di Gesù da parte dei sinedriti ai quali si associarono i servi sono inconcepibili, perché lesivi della dignità del sommo sacerdote, dei capi dei sacerdoti e dei sinedriti stessi oltre che della sacralità del consiglio ancora riunito in assemblea plenaria. Il tutto, infatti, sembra avvenire lì, di fronte al sinedrio. Più credibile, invece, è che Gesù, dopo l'emissione della sentenza, sia stato dato in custodia ai servi e tenuto sotto scorta in una qualche stanza, forse della stessa casa del sommo sacerdote o forse trasferito presso qualche apposita stanza del Tempio e qui sono avvenuti gli abusi e le violenze su Gesù da parte dei servi e della soldataglia del Tempio. Comunque sia, a Marco non sembra interessare il dato storico, ma il presentare Gesù come il Giusto e Sofferente Servo di Jhwh, che ha per sfondo biblico Is 50,6 e 53,5.

Il rinnegamento di Pietro (vv. 66-72)

Testo a lettura facilitata

Il nuovo contesto (v.66)

66- E mentre Pietro era giù nel cortile, viene una delle serve del sommo sacerdote

Il primo rinnegamento (vv.67-68)

67- ed avendo visto Pietro che si stava scaldando, guardato(lo) attentamente gli dice: <<Anche tu eri con il Nazzareno, Gesù>>.
68- Ma egli negò dicendo: <<Né so né capisco che cosa tu dici>>. E uscì fuori verso l'atrio [e un gallo cantò].

Il secondo rinnegamento (vv.69-70a)

69- E la serva, vedendolo, cominciò di nuovo a dire a quelli che stavano presso (di lui) che costui è dei loro.
70- Ma egli di nuovo negava.

Il terzo rinnegamento (vv.70b-72a)

E dopo un po', di nuovo, quelli che (gli) stavano appresso dicevano a Pietro: <<Veramente sei (uno) di loro, e infatti sei galileo>>.
71- Ma egli incominciò ad imprecare e a giurare che non conosco quest'uomo che dite.

72- E subito un gallo cantò per la seconda volta.

Il pentimento (v.72b)

E Pietro si ricordò la parola, come gli disse Gesù che prima che il gallo canti due volte, mi rinnegherai tre volte. E datosi (alle lacrime), piangeva.

Note generali e commento ai vv. 66-72

Il cap.14 si chiude con i vv.66-72, che narrano il rinnegamento di Pietro. Un racconto emblematico, che si muove su di uno sfondo pastorale, una sorta di monito ai nuovi credenti, sottoposti a pressioni e a persecuzioni a causa della loro nuova fede (13,9-13), a non rinnegare o tradire la scelta di vita (13,13b).

L'episodio del rinnegamento, così come il tradimento di Giuda e l'abbandono di Gesù da parte dei discepoli al momento del suo arresto, sono da considerarsi storici non solo perché riportati da tutti quattro gli evangelisti, ma soprattutto perché la chiesa primitiva non avrebbe avuto nessun interesse e nessun vantaggio dal narrare ai credenti le vergognose debolezze dei Dodici, che sono posti a fondamento della chiesa stessa. Insomma nulla di eroico da passare alla memoria dei posteri, quanto piuttosto da dimenticare e, ancor prima da nascondere. Tuttavia questi episodi vengono ricordati e questo fa pensare che essi siano veri, benché elaborati dai singoli evangelisti secondo i propri intenti pastorali. Da una parte, infatti, abbiamo Gesù, che dà la sua testimonianza fino alla fine, quale fedele Testimone del Padre e della missione che questi gli ha assegnato; dall'altra, invece, abbiamo Pietro, che si lascia travolgere dalla sua fragilità e rinnega il suo Maestro, proprio lui, il prediletto di Gesù. Ma vicino alla fragilità di Pietro si sono associati anche gli altri: Giuda, che, abbandonato il suo Maestro, lo tradisce; altri, quelli più vicini a Gesù, non sanno vegliare con lui neppure un'ora; tutti, infine, di fronte alla durezza della prova, lo abbandonano e fuggono. Ma alla fine sarà sempre lui, il Risorto, che con la potenza della sua Parola li ricostituirà nuovamente in lui.

Giuda e Pietro, due emblematiche figure di abbandono, la prima di completo e definitivo smarrimento; la seconda di ravvedimento. C'è spazio, dunque, anche per chi ha ceduto di fronte alla prova. Pietro, quindi, diventa uno spazio di speranza per chi ha sbagliato. Gesù, tuttavia, al di sopra di tutti, è posto come l'esempio a cui ogni credente deve ispirarsi: dare la testimonianza della propria identità con fermezza e senza tentennamenti davanti a tutti fino alle estreme conseguenze.

Con questo racconto Marco chiude il ciclo di Pietro e lascia trasparire tutta la fragilità di quest'uomo, irruente, impetuoso, generoso, avventato e per questo molto fragile, perché il suo aderire a Gesù è fondato sul sentire umano e non sulla fede. Per questo egli non accetterà la figura di un Messia sofferente (8,32b); per questo, nel racconto di Mt 14,27-33, messo alla prova, cede. Tra lui e Gesù c'è sempre di mezzo tutta la sua debolezza umana. Lo ha dimostrato sulle minacciose acque di Tiberiade, che in qualche modo preludevano alla prova, a cui i discepoli sarebbero stati sottoposti con l'arresto e la morte di Gesù. Egli vuole raggiungere Gesù su queste acque tempestose, ma la pochezza della sua fede lo ha tradito ed è andato a fondo; ma non ne è stato travolto, perché egli si è rivolto a Gesù (Mt 14,30). Soltanto la fede in Gesù riesce a placare il tumulto delle acque e la violenza del vento (Mt 14,32; Mc 6,51); soltanto quando i discepoli lo riconoscono vero Figlio di Dio, tutto si placa, tutto acquista un suo senso, tutto appare in una dimensione diversa (Mt 14,33). Solo se si sta con Gesù cessa il tumulto della paura e si è pronti alla testimonianza.

In questo breve racconto, Marco lascia trasparire come il rinnegamento di Pietro non sia nato da un momento di paura, ma come esso affondi le sue radici nella pochezza di fede in Gesù. Pietro, infatti, al v.54a è presentato non più come uno che “sta con Gesù” (3,14), ma come uno che lo sta seguendo “da lontano”; al v.54 non è nel sinedrio con Gesù a condividerne la sorte e a dare con lui la sua testimonianza, ma siede di fuori insieme agli altri, insieme a quelli che non conoscono Gesù e si confonde in mezzo ad essi; se ne sta fuori dalla drammatica vicenda, che ha travolto il suo Maestro, non ne vuole più sapere; al v.68 viene presentato un Pietro, che, chiamato alla testimonianza, se ne fugge verso il portone d'uscita; mentre, dopo l'ultimo spergiuro accompagnato da imprecazioni (v.71), se ne esce di scena definitivamente e non gli resta che piangere sulle macerie della sua fragilità umana (v.72). Questa sarà l'ultima immagine che il racconto marciano ci lascia di Pietro: un rinnegato per viltà e per la pochezza della sua fede.

Anche il suo rinnegamento conosce un progressivo allontanamento da Gesù: dapprima nega semplicemente, fingendo di non capire quello che la serva del sommo sacerdote gli sta imputando minacciosamente: “Né so né capisco che cosa tu dici” (v.68a); poi, al v.70, rafforza il suo disconoscimento negando persistentemente le pericolose insinuazioni della serva: “Ma egli di nuovo negava”. Significativo quel “di nuovo”, che lascia intendere la ripresa del suo primo rinnegamento. Pietro, dunque, riafferma la sua linea di difesa e con quel “negava”, posto all'imperfetto indicativo, dice la persistenza del suo rinnegamento. E, infine, impreca e giura nuovamente (v.71). Ma quanto sia travolgente quest'ultima fase e da quale oscurità sia ormai avvolto Pietro, lo lascia intuire il verbo che regge l'imprecare e il giurare: incominciò (v.71a). Questo dice come ormai la vita di Pietro abbia preso una svolta decisiva, che lo ha allontanato definitivamente dal suo Maestro. Infatti, se nei primi due disconoscimenti egli nega di essere mai stato con Gesù, nell'ultimo egli nega la sua identità stessa di discepolo, di seguace di Gesù, rinnega, in ultima analisi, se stesso: “Veramente sei (uno) di loro, e infatti sei galileo” (v.70b). Un'accusa questa che ormai è divenuta corale, poiché tutti puntano il dito contro di lui: “E dopo un po', di nuovo, quelli che (gli) stavano appresso dicevano a Pietro”.

Il racconto del rinnegamento di Pietro ha una cadenza ternaria per indicare la gravità e la pienezza del suo tradimento. Il tre, infatti, dice la pienezza, la completezza di un determinato ciclo, poiché il tre scandisce l'inizio, il centro e la fine59. E con questo rinnegamento Pietro lascia la scena e non comparirà più nel racconto marciano se non indirettamente in 16,7a.

Il racconto mostra alcune criticità narrative. La pericope vv.66-68 è completa in se stessa, poiché dopo la prima accusa, seguita dal rinnegamento di Pietro, questi si defila dalla scena e va verso l'uscita. Scena che viene suggellata dal canto del gallo. Quindi tutto potrebbe terminare qui. La scena in se stessa è completa e non ha bisogno di altre aggiunte. Ma poi, inopinatamente, ecco ricomparire Pietro in mezzo agli altri intorno al fuoco, dove nuovamente la stessa serva gli punta ancora il dito contro. Narrativamente il racconto non ha senso. Ormai quel luogo, il cortile del sommo sacerdote, era diventato per Pietro un luogo pericoloso, non ha senso che egli vi ritorni, subendo altri due attacchi sia dalla serva che dai presenti, dove, dopo aver continuato a negare, giurando e imprecando rimane lì in mezzo a tutti a piangere disperatamente. Più realistici sono Mt 26,75b e Lc 22,62 che racconto che Pietro, dopo il terzo rinnegamento, se ne uscì piangendo amaramente.

Non è, quindi, da escludere che il racconto originario, quello marciano, fosse limitato alla sola pericope vv.66-68 e soltanto successivamente, con una certa forzatura, che lascia trasparire delle incongruenze narrative, siano stati aggiunti gli altri due rinnegamenti, che si concludono con un Pietro in lacrime, ma incomprensibilmente sempre nel bel mezzo dei suoi accusatori, mentre al v.68b era uscito per sottrarsi ai presenti.


NOTE

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10, dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Dopo la sua esperienza di Damasco (36 d.C.) Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che erano nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario. Inoltre, Paolo nelle sue lettere riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da quelle stesse stesse comunità credenti che egli ha frequentato per una decina d'anni circa prima di iniziare il suo primo viaggio missionario (45-48 d.C.).

3Cfr. Lc 24,25-27.45; Gv 20,9; At 17,11; 18,28; 1Cor 15,3-4. Un'attenzione particolare va riservata al vangelo di Matteo, che riporta al suo interno oltre una quarantina di citazioni scritturistiche dirette e indirette, che testimoniano il notevole sforzo delle prime comunità credenti, operato fin da subito, alla ricerca nelle Scritture di tutti quei passi che potessero illuminare la persona di Gesù e il suo Mistero.

4Lo scritto neotestamentario più antico in nostro possesso è la Prima Lettera ai Tessalonicesi, scritta da Paolo all'incirca tra il 49 e il 50 d.C. L'ultima sua lettera, scritta tra il 57 e il 58 d.C., è quella indirizzata alla comunità di Roma.

5Cfr. Mt 10,16-25.38; 16,24 17,22-23; 20,17-19; 24,9; 26,2-4.45

6Cfr. Mc 8,31-34; 9,9-12.30-32; 10,33-34; 13,9-13

7Il materiale qui riportato, relativamente agli scostamenti tra Marco e Luca, viene mutuato da G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico,ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992, III edizione, gennaio 2001, pag. 825

8L'ordine dei fatti circoscritti dai relativi versetti di Lc e Mc e la loro denominazione sono stati mutuati da A. Poppi, Sinossi Quadriforme dei quattro vangeli, greco-italiano, ed. Messaggero di S. Antonio – Editrice, Padova,1999.

9Cfr. anche At 3,13

10Cfr. 3,20-21 (3,22-30) 3,31-35;// 5,22-24 (5,25-34) 5,35-43; // 6,7-13 (6,14-29) 6,30-33; // 11,12-14 (11,15-19) 11,20-26; // 14,1-2 (14,3-9) 14,10-11

11Cfr. J. Gnilka, Marco, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2^ edizione 207, pag. 743

12Vi è una sfasatura tra il computo della pasqua dei sinottici e quello di Giovanni. Per i Sinottici Gesù morì il giorno di pasqua; per Giovanni, invece, Gesù morì il giorno prima della pasqua, che in quel anno cadeva di sabato. Computo corretto quello giovanneo. Vedremo, infatti, che il far coincidere la pasqua con il venerdì si incorrerà in numerose incongruenze.

13Il profeta svolse la sua missione tra il 593-571 a.C., durante il periodo dell'esilio babilonese (597-538 a.C.). Epoca questa in cui la riforma di Giosia era già operante da qualche decennio, dal 622 a.C.

14Il significato del termine pasqua viene spiegato dallo stesso agiografo che legge nel termine “pasqua” legge quel “passare oltre” del Signore nella notte in cui morirono tutti i primogeniti degli uomini e degli animali. In quella notte il Signore “passò oltre”, “saltò” le case degli ebrei segnate dal sangue dell'agnello (Es 12,11b-13.27). Lo stesso Giuseppe Flavio in Ant.Jud. 2,313 spiega ai suoi lettori il significato del termine “pasqua”, legandolo all'evento della X piaga, quella dello sterminio dei primogeniti d'Egitto: “Questo è il motivo per cui anche oggi, nella festa che chiamiamo Pasqua, che significa “passare oltre sacrifichiamo secondo questo rito, perché in quel giorno il loro Dio li oltrepassò, mentre colpiva gli Egiziani con una piaga; in quella stessa notte, infatti, avvenne lo sterminio dei primogeniti egiziani, tanto che molti che abitavano nei dintorni del palazzo, consigliavano a Faraone di mandare via gli Ebrei

15La “festa delle Settimane” o Shavuot, è una festa che dura sette settimane dal giorno dopo la Pasqua, durante le quali si ringrazia il Signore per i doni della terra. Festa eminentemente agricola, quello delle “sette settimane” era il tempo della mietitura per eccellenza: iniziava con la mietitura dell'orzo e terminava con quella del grano. La festività veniva celebrata all'ultimo giorno delle sette settimane ed era conosciuta anche come la festa della Mietitura. Gli ebrei di lingua greca chiamarono questo tempo Pentecoste, cioè la festa dei cinquanta giorni, comprendendo anche il giorno della Pasqua. Shavuot, assieme alle feste di Pasqua (Pesach) e delle Capanne (Sukkot) erano e sono le tre feste principali ebraiche, le quali prevedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme.

16Il termine Abib, o mese delle spighe, era così denominato prima della deportazione di Israele a Babilonia (597-538 a.C.). Successivamente, risentendo della lingua babilonese, venne chiamato Nisan.

17Cfr. Es 13,3-8

18Cfr. anche 2Cr 35,1-18

19Per un approfondimento sulla figura di Giuda cfr. il mio commento al cap.3, pagg. 20-21 al seguente sito: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Cap.%203.pdf

20Cfr. 1Cor 12,8; Fil 1,1; Ef 4,11

21Cfr. 1Cor 9,14: “Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo

22Cfr. 1Cor 4,12; 1Ts 2,9; 2Ts 3,7-9

23Cfr. Es 29,7.21.29; 30,25.31; 31,11; 37,29; 39,38; 40,9.15

24Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002, pagg. 111-113

25Traduzione: Fare una cosa e non tralasciale l'altra

26Secondo il computo giudaico del giorno, questo aveva di fatto quattro sere: quella con cui iniziava e quella successiva con cui terminava, 24 ore dopo, dalle 18,00 alle 18,00 del giorno dopo; poi ne aveva altre due: quella con cui iniziava declinare il sole, dalle 12,00 alle 15,00, e quella in cui il sole tramontava fino a scomparire all'orizzonte, dalle 15,00 alle 18,00.

27Non va mai dimenticato che questo computo di giorni marciano viene fatto secondo la mentalità greco-romana e non secondo quella giudaica, che faceva partire il giorno alla sera, intorno alle 18,00. Il giorno per Marco inizia alle 6,00 del mattino e termina alle 18,00. dopo inizia la notte, cioè la parte del giorno in cui non c'è il sole, la quale viene divisa in quattro vigilie o veglie di tre ore ciascuna.

28Sulla riforma di Giosia e l'unificazione delle feste di pasqua e azzimi, vedasi pag.14-15 del presente studio.

29Cfr. Ant.Jud 14,21b; 18,29b; Bell.Jud 2,10. Per un maggiore dettaglio vedasi pag.12 del presente studio.

30Per il commento a Dt 16,1-8 vedi sopra, pag.14

31Cfr. G. Flavio, Bell. Jud. 6,423-425; vedi anche qui sopra, pag.12

32Per questo capoverso cfr. J. Gnilka, Marco, ed. Cittadella Editrice, Assisi, seconda edizione 2007, pagg. 759-760

33La cena era regolata dal Seder, cioè dal rituale che scandiva, in modo ordinato, i quattordici momenti della cena pasquale, detti simanim, nel seguente modo:

1) La celebrazione si apre con la benedizione della prima coppa (qaddesh, consacrare), che si berrà al termine della preghiera, appoggiando il gomito sinistro su un cuscino di seta, simbolo della libertà.

2) Segue la lavanda delle mani (urchatz, lavare).

3) Il rito del sedano (karpas, sedano): se ne mangia un pezzo intinto nell’aceto oppure nel succo di limone o in acqua salata, come ricordo dell’amarezza della schiavitù.

4) Il rito dello spezzamento del secondo pane azzimo (yachatz, dividere): il capo famiglia prende tre pani azzimi, spezza in due quello centrale, ricollocando una prima metà al centro e nascondendo sotto la tovaglia o sotto un panno l’altra metà, che verrà consumata al termine della cena.

5) Il rito della narrazione (magghid, narrazione): è il momento più solenne. Si riempie una seconda coppa di vino e prima di berla si racconta la liberazione dall’Egitto spiegandone il senso e l’attualità con brani biblici. È la parte più specifica e importante del Seder pasquale. All’inizio della “narrazione” il più giovane dei partecipanti pone al capo famiglia quattro domande: “perché tutte le altre sere non intingiamo neppure una volta, mentre questa sera intingiamo due volte? Perché tutte le altre sere mangiamo pane lievitato e questa sera solo pane azzimo? Perché tutte le altre sere mangiamo qualunque verdura e questa sera solo erbe amare? Perché tutte le sere mangiamo e beviamo stando seduti e questa sera solo appoggiati sul gomito?” A queste domande risponde il lungo testo della “narrazione”, prima in forma generale e poi in particolare.

6) La seconda lavanda delle mani (rochtzah, lavare): ultimata questa lunga “catechesi” biblica si beve la seconda coppa e si procede ad una nuova lavanda della mani (sesto atto).

7) La benedizione del pane azzimo (motzi matzzah) Si passa quindi alla benedizione dell’azzima. Chi presiede prende l'azzima superiore e l'azzima divisa a metà. Ne prende un pezzo delle due e lo mangia. Poi ne spezza ancora e ne distribuisce ai commensali, che le mangiano assieme.

8) Il rito dell'erba amara (maror, erba amara): i commensali mangiano una lattuga amara intinta nell’ haroset, il dolce composto di mele grattugiate, fichi, noci con un po’ di mattone tritato, segno dei lavori forzati d’Egitto. Il sapore dolce, che predomina, ricorda che, pur nell’oppressione, era sempre accesa la fiaccola gioiosa dell’amore della libertà.

9) Il rito del pane azzimo avvolto nell'erba amara (korek, avvolgere, combinare assieme): viene spezzato il terzo pane azzimo ancora intatto e viene avvolto nell'erba amara e così mangiato.

10) Il rito della cena (shulchan 'oreka, tavolo ordinato): a questo punto si celebra la vera e propria cena dell’agnello, preceduta da un antipasto di uova e di altre pietanze cariche di significato simbolico.

11) Il rito dell'azzima nascosta (tzafun, nascosto): si mangia il pezzo di azzima che era nascosto, in memoria dell’agnello pasquale; dopo questo è proibito prendere cibo fino al giorno seguente. È un momento particolarmente importante soprattutto per i bambini che vengono invitati a cercare quella parte di azzima che era stata nascosta.

12) La benedizione sulla terza coppa (berek, benedizione): lavate le mani, si pronunzia la benedizione sulla terza coppa di vino.

13) Il canto dell'Hallel (hallel, lode): si recitano i salmi 113-118 e il 136, detto il Grande Hallel, che canta i momenti salienti della liberazione e dell'entrata nella Terra Promessa. Sono canti di ringraziamento per la cena pasquale, nella quale si è rivissuto il miracolo della libertà. Al termine viene aperta la porta per favorire l’entrata di Elia, il messaggero dell’era messianica, il precursore del Messia, nel grande giorno sperato da ogni Ebreo come imminente. Si termina questo momento con l'augurio rituale “l’anno prossimo a Gerusalemme”: si beve la quarta coppa appoggiandosi sul gomito destro.

14) Il rito conclusivo (nirtzah, accettazione): con il rituale conclusivo si prega Dio di restare sempre il Liberatore di Israele. Insieme a canti e inni religiosi, si recitano o si cantano filastrocche popolari.

34Dopo la sua esperienza di Damasco Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che erano nell’area di Gerusalemme, in cui ha ricevuto la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco dove ha dato una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia da dove prenderà forma e avvio il suo impegno missionario. Paolo, infatti, inizierà il suo primo viaggio missionario nel 45. Fino ad allora rimane sostanzialmente in silenzio all’interno delle comunità di Damasco, Gerusalemme ed Antiochia, che diverrà poi, quest’ultima, la sua base logistica da cui partirà per compiere i suoi viaggi missionari. All’interno di queste comunità egli acquisirà gli elementi fondamentali della fede, che poi trasmetterà ai pagani. Egli stesso, infatti, in 1Cor. 15,3 afferma che “Vi ho trasmesso, dunque, anzitutto quello che anch’io ho ricevuto” così come, similmente, qui nel testo sopra citato di 1Cor 11,23. Le sue stesse lettere, del resto, denunciano la sua dipendenza dalle primitive comunità credenti. In esse, infatti, vi sono riportate numerose formule, professioni di fede e kerigmatiche, testi liturgici, inni e parenesi.

35Considerato che il racconto di questa cena è stato inserito in un contesto pasquale (vv.1.12.17), il piatto di cui si parla qui potrebbe essere il Ke’arà, cioè il piatto o vassoio del Seder, che contiene, divisi tra loro e ben disposti nel piatto, gli elementi essenziali per la celebrazione della Pasqua. Si tratta di tre focacce di pane non lievitato sovrapposte (Matzòt), che richiamano le tre classi di cui era composto Israele: i sacerdoti, i leviti e il popolo; delle erbe amare (Maror); una zampa di agnello arrostita sul fuoco (Zeroà); un uovo sodo (Betzà); della verdura, prezzemolo o gambi di sedano (Karpas); un impasto di frutta, in ricordo della malta adoperata dagli schiavi in Egitto per fare i mattoni. Il tutto è cosparso di cannella e cinnamomo in ricordo della paglia usata per produrre i mattoni (Charosset);

36Cfr n.33 qui sopra

37Cfr. G. Stemberger, La religione ebraica, Edizioni Dehoniane, Bologna 1998, pag.27

38Il sacrificio di comunione consisteva nel dividere in tre parti la vittima, una spettante a Dio, una al sacerdote e una all'offerente, che la mangiava quale cosa santa. La parte spettante a Jhwh veniva bruciata sull'altare in offerta a Lui. In tal modo per l'offerente questo diveniva un pasto sacro che lo metteva in comunione con Dio.

39Significativa, in tal senso, è la proclamazione di fede che l'assemblea compie a conclusione del rito della consacrazione: “Annunciamo, Signore, la tua morte; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta”

40Cfr. Mc 1,9.14.16.28.39

41Per tutte queste annotazioni cfr. J. Gnilka, Marco, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2 edizione 2007; pagg. 796-797.

42Cfr. M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

43Quando si parla di “discepoli” qui non vanno intesi i Dodici, ma tutti i seguaci di Gesù che dovevano essere molti di più secondo quanto riportato da Lc 1,1.17, settantadue presi tra i discepoli, il che lascia intendere che ce ne fossero ben più di settantadue; e 1Cor 15,6, dove Paolo annota che che Gesù risorto apparve a più di cinquecento fratelli, molti dei quali erano ancora invita. Dopo la dipartita di Gesù, pertanto, il movimento spirituale da lui innescato e a cui questo si rifaceva non partiva da Dodici discepoli, ma è ipotizzabile almeno un qualche migliaio di persone. Sono probabilmente quelle folle che seguivano in modo anonimo la predicazione di Gesù e delle quali le autorità religiose avevano un grande timore.

44Cfr. Mt 26,51-54; Lc 22,49-51; Gv 18,10-11

45Cfr. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XIV, 366 e Guerra Giudaica, I, 269-270

46La traduzione italiana, da me curata, è stata tratta dalla LXX: 21,18b

47Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, 1990; pag. 1028

48In tal senso cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XIV, 365-366; episodio raccontato anche in Guerra Giudaica al Libro I, 270

49Cfr. la Parte Introduttiva di questa opera, pagg.6-17: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

50Il verbo in tutta la Bibbia ricorre tre volte, in Mc 5,37, dove Gesù chiamerà con sé Pietro, Giacomo e Giovanni nella stanza della figlia morta di Giairo, per condividere con lui l'esperienza di vita; poi qui (14,51), dove questo giovinetto è chiamato a condividere le sofferenze di Gesù; e in Lc 23,49, che lo mutua da Marco.

51Cfr. Mc 14,1.44.46.49

52Cfr. Es 22,27; Lv 24,11.14.16;

53Cfr. Gv 1,41; 4,25-26; 7,26-27.31.41-42; 10,24; 11,27; 20,31

54Cfr.. Gv 1,14.34.49; 3,18; 5,25; 10,33.36; 11,27; 19,7; 20,31

55Cfr. L. Moraldi, I Manoscritti di Qumran, ed. TEA, Milano 1994, pag 573

56Cfr. J. Gnilka, Marco, ed. Cittadella Editrice, Assisi 2007, seconda edizione, pagg. 833-834

57Sul tema della tunica cfr. la voce “Vestito” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 2005, nuova edizione rivista e integrata.

58Sul tema della “bestemmia” cfr. il termine “Bestemmia” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni , Casale Monferrato, 2005, nuova edizione rivista e integrata.

59 Cfr. la voce “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo,1990