IL VANGELO SECONDO MARCO

Lo scontro con il giudaismo1,
le dispute giudaiche

Cap. 12, 1- 44


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





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Note generali


Il cap.12 prosegue con la sezione delle cinque dispute giudaiche, iniziatasi in 11,27 e si estenderà fino al v.12,37. Un capitolo sotteso da forti tensioni e polemiche, che dice il livello di dissidio e di attrito che intercorreva tra Gesù e le autorità giudaiche e che prelude alla ormai imminente fine di Gesù. Già si era rilevata, nel commentare la prima diatriba nel precedente cap.11, la presenza delle tre categorie di personaggi che formavano il Sinedrio, i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani (11,27), colti nel momento che si avvicinavano a Gesù, quasi che Marco, con quel loro “avvicinarsi” a Gesù per sottoporlo ad un interrogatorio circa la sua autorità e, quindi, circa la la sua identità, abbia voluto avvertire il suo lettore come il momento di Gesù, la sua ora, stia per avvicinarsi. Personaggi sinedriti e interrogatorio a Gesù che richiamano e in qualche modo anticipano quello che avverrà in 14,61-62, dove il sommo sacerdote interrogherà Gesù sulla sua identità di Messia e Figlio di Dio.

Ora il racconto marciano sul soggiorno di Gesù a Gerusalemme prosegue con altre quattro diatribe, precedute da una parabola sui vignaioli omicidi, che fornisce la cornice entro cui vanno collocate. Queste vengono fatte seguire da due pericopi in cui si accentua la polemica con il giudaismo e il suo modo di rendere culto a Dio (vv.38-40; 41-44).

Una sezione, quella delle diatribe giudaiche, che va letta attentamente, poiché, proprio perché posta a ridosso della passione, morte e risurrezione di Gesù, ne fornisce anche una chiave di lettura.

È significativo, infatti come il cap.12 si apra: “E incominciò a parlare loro in parabole”. Un inizio che spinge il lettore ad aspettarsi un susseguirsi di parabole, mentre queste si limitano ad una soltanto, quella dei vignaioli omicidi. Perché, dunque, quel “incominciò a parlare in parabole”, quando di queste ce n'è una soltanto? Il suggerimento che l'autore vuol dare al suo lettore è che quanto narrato in questo cap.12 va compreso come se fossero parabole e, quindi, da un lato, il racconto così come narrato, dall'altro, il suo doppio senso, quello che lascia trasparire la narrazione e quello a cui, invece, allude, come avviene nelle parabole2. E l'allusione qui riguarda la passione, morte e risurrezione di Gesù.

Così che si avrà che l'interrogatorio dei sinedriti (11,27-33) punta a mettere in luce l'identità di Gesù, che in qualche modo già era stata preannunciata nella titolatura attribuitagli nella sua entrata a Gerusalemme, ma nel contempo allude anche all'interrogatorio a cui Gesù sarà sottoposto dal sommo sacerdote (14,61-62); vi è poi il racconto della parabola dei vignaioli omicidi (12,1-12), in cui si attesta come la morte di Gesù cadrà a giudizio di condanna sul giudaismo, ponendovi fine come movimento spirituale, poiché ha tradito la sua missione originale: essere il nucleo fondante di una comunità credente (Es 19,5-6) attorno alla quale doveva aggregarsi l'intera umanità3; il racconto del tributo a Cesare (12,13-17) mette in rilievo la supremazia di Dio sugli uomini, per cui è meglio obbedire a Dio piuttosto che a loro (At 5,29). Ed è questa la linea di condotta di Gesù, che lo porterà sulla croce: rimanere fedele alla volontà del Padre; la diatriba sulla risurrezione, poi, ne chiarisce la natura, la quale cosa getterà una luce nuova sull'evento della risurrezione di Gesù: non è un semplice ritornare alla vita precedente, come avvenne per Lazzaro; la diatriba sul primo dei comandamenti indicherà l'amore di Dio e quello del prossimo come elementi predominanti ed emergenti su tutta la Legge, ma nel contempo lasciano intendere come siano proprio questi due elementi, che sospingono Gesù verso la sua passione e morte: un atto di amore del Padre che ha donato al mondo suo Figlio perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (Gv 3,16), ma nel contempo un servizio di redenzione che Gesù svolge a favore dell'intera umanità, quale pane che si spezza per tutti (Gv 13,1-15; Ef 2,6-8); ed infine, l'ultima diatriba (12,35-37), pone nuovamente in luce la natura e l'identità di Gesù, quale Messia regale promesso a Davide e costituirà, di fatto, la risposta alla prima diatriba circa l'autorità di Gesù e la sua provenienza, attestando in tal modo la veridicità degli attributi dati a Gesù nella sua entrata a Gerusalemme (11,9-10), che riprendono e sviluppano, a loro volta, la tematica della figliolanza davidica di Gesù, introdotta da Timeo, il cieco di Gerico (10,47-48).

Diatribe, dunque, che contrappongono le autorità giudaiche a Gesù, preludendone la fine ormai imminente, ma che nel contempo lasciano intravvedere, in seconda battuta, il senso del patire, morire e risorgere di Gesù.

Intermezzo della parabola dei vignaioli omicidi (vv.1-12)

Testo a lettura facilitata

Israele, la vigna che Dio ha impiantata e che si è riservata (v.1)

1- E incominciò a parlare loro in parabole: un uomo impiantò una vigna, mise attorno una siepe, scavò un torchio e costruì una torre e la consegnò a dei contadini e partì per un viaggio.

Il tempo dei profeti (vv.2-5)

2- E al tempo opportuno mandò un servo presso i contadini per prendere dai contadini i frutti della vigna;
3- e presolo, (lo) percossero e (lo) rimandarono vuoto.
4- E di nuovo inviò presso di loro un altro servo; anche quello ferirono sulla testa e oltraggiarono.
5- E (ne) mandò un altro; anche quello uccisero, e molti altri, alcuni maltrattarono, altri uccisero.

Il tempo di Gesù (vv.6-8)

6- Aveva ancora uno, un figlio amato; lo inviò, ultimo, presso di loro, dicendo che avranno rispetto del mio figlio.
7- Ma quei contadini dissero tra loro che costui è l'erede; orsù, uccidiamolo e l'eredità sarà nostra.
8- E preso(lo), lo uccisero e lo gettarono fuori dalla vigna.

Il giudizio di condanna posto su Israele per la sua pervicace incredulità (v.9)

9- Che cosa [dunque] farà il signore della vigna? Verrà e farà perire i contadini e darà ad altri la vigna.

Una riflessione postpasquale (vv.10-11)

10- Non avete letto questa Scrittura: “La pietra che i costruttori hanno rigettato, questa divenne la testata d'angolo;
11- questo è avvenuto da parte del Signore ed è una cosa mirabile ai nostri occhi”?

Il tentativo di sopprimere Gesù, preludio del Getsemani (v.12)

12- E cercavano di prenderlo, e temettero la folla, sapevano, infatti, che disse la parabola contro di loro. E lasciatolo se ne andarono.


Note generali

La persistente chiusura delle autorità giudaiche nei confronti di Gesù e il loro rifiuto portarono alla fine di Israele, quale popolo scelto da Dio per essere il nucleo fondante di una nuova umanità fondata sull'amore di Dio e del prossimo ei quali e con i quali rendere esistenzialmente culto a Dio. Per questo, ai piedi del monte Sinai, Dio aveva insignito di una nuova identità, costituendolo popolo consacrato a Sé (Dt 7,6; 14,2): “Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa” (Es 19,5-6). Israele, dunque, un punto fondamentale e imprescindibile della storia della salvezza, il cui intento era quello di ricondurre l'intera umanità e con essa l'intera creazione in seno a Dio (Is 60,1-3; Tb 13,13; 1Cor 15,28), da dov'era drammaticamente uscita (Gen 3,23-24).

Ma quella Legge che doveva preservarlo da deviazioni dal progetto iniziale è diventata, per una cattiva lettura e comprensione della stessa, una muraglia di incomunicabilità tra Israele e il suo Dio, riducendo il rapporto con Dio ad un mero legalismo e ad una formale esecuzione di comandi divini4. A nulla valse il continuo sorgere all'interno del popolo di profeti, che richiamavano il popolo dalle sue deviazioni, dando una corretta interpretazione della Torah. Israele si è, di fatto, impossessato della Torah e ne ha fatto uno strumento non solo di opposizione a Dio, ma anche di divisione nei confronti degli altri popoli, che, invece, secondo il progetto originale doveva integrare a sé (Is 2,2-5).

E neppure l'avvento di Gesù, riconosciuto dai suoi quale Messia e Figlio di Dio, riuscì a fare breccia nel cuore e nella mente di Israele, le cui autorità religiose perseguitarono e poi uccisero.

Israele, quindi, disconoscendo il messianismo divino di Gesù, si è posto fuori dal progetto salvifico iniziale e sostituito da un nuovo popolo, formato da tutte le genti della terra, che hanno saputo accogliere Gesù e che hanno come pietra angolare fondante lo stesso Gesù, rifiutato, invece, da Israele5. Gesù, pertanto, è divenuto per il popolo eletto la pietra d'inciampo su cui Israele è caduto. Un cruccio, questo, che tormenterà Paolo, il quale non sa darsene ragione (Rm 9-11).

Tuttavia, la missione affidata ad Israele, fallita per la sua durezza di cuore e incapacità di comprendere il proprio ruolo all'interno del progetto di salvezza6, non fece fallire il progetto di salvezza di Dio, poiché, abbandonato Israele ai suoi destini, Dio puntò le sue carte su Gesù, da cui nacque un nuovo Israele, non più fondato sulla Torah, ma sulla fede (Rm 3,21-24; Gv 3,16) e sull'amore di Dio e del prossimo7, superando così nella fede in Gesù ogni barriera di divisione tra i popoli e di incomprensione.

Questo, dunque, il senso della parabola dei vignaioli omicidi, il racconto della storia della salvezza, che Dio ha voluto costruire insieme ad Israele, ma andata a finire male per la durezza di cuore del suo popolo; un popolo che per ben undici vole Dio definì di “dura cervice”.

La parabola dei vignaioli omicidi viaggia su di un doppio sfondo: biblico e storico nel contempo. Quanto al primo va detto che il tema della vigna, quale allegoria di Israele colto nei suoi rapporti conflittuali con Jhwh è ricorrente nella Bibbia8 e fa da sfondo anche a questa parabola, presente in tutti tre i Sinottici9. Quanto all'aspetto storico, questo rispecchia la situazione sociale ed economica del I sec. d.C., allorché, sotto l'occupazione romana, si era creata una situazione di latifondi in mano a padroni stranieri, che sfruttavano la manodopera locale. Al momento del raccolto, il padrone, che viveva lontano dal latifondo, inviava ai contadini i suoi rappresentanti a riscuotere la propria parte. Non era raro che in un clima di odio e di rivolta, alimentati dal movimento zelota e che sfocerà poi nella guerra giudaica (66-73 d.C.), i contadini oppressi si ribellassero ai loro padroni stranieri, percuotendo o anche uccidendo i loro inviati. Così anche l'uccidere l'erede rientrava nella consuetudine dell'epoca, così che quella terra che i contadini coltivavano, in assenza di eredi o di altre rivendicazioni rimaneva a loro.

La parabola si sviluppa in sei parti, già messi in evidenza nella sezione “Testo a lettura facilita”:

  1. Israele, la vigna che Dio ha impiantata e che si è riservata (v.1);

  2. Il tempo dei profeti (vv.2-5);

  3. Il tempo di Gesù (vv.6-8);

  4. Il giudizio di condanna posto su Israele per la sua pervicace incredulità (v.9);

  5. Una riflessione postpasquale (vv.10-11);

  6. Il tentativo di sopprimere Gesù, preludio del Getsemani (v.12).

Un'attenzione particolare va riservata ai vv.10-11 che interrompono la dinamica narrativa della parabola per inserire una considerazione, che ha le sue origini nella riflessione postpasquale della chiesa dei primi tempi. La logica narrativa, infatti, vorrebbe che dopo il v.9, con cui si conclude la parabola, seguisse subito la reazione dei sinedriti del v.12. I vv.10-11, pertanto, vanno considerati come una interpolazione successiva. Lo denuncia anche il fatto che l'inserzione è stata fatta in modo poco elaborato, diversamente da Matteo e Luca, che pongono la citazione fuori dal contesto narrativo della parabola e la collocano nel dibattimento che ne segue, introducendola con l'espressione “E Gesù disse loro” (Mt 21,42) e “Allora egli si volse verso di loro e disse” (Lc 20,17).

Commento ai vv. 1-12

Israele, la vigna che Dio ha impiantata e che si è riservata (v.1)

Il v.1a si apre con una introduzione redazionale, che richiama da vicino il cap.4, dove Gesù decise un cambio di marcia nella sua predicazione: non parlare più in modo aperto e diretto, ma attraverso le parabole (4,1a.2a.33-34), che usano un linguaggio criptato, metaforico o allegorico, e sono finalizzate a coinvolgere l'ascoltatore nel racconto, spingendolo ad interpellarsi e ad emettere un suo giudizio, che in ultima analisi, è un giudizio su se stesso. Ciò che lascia perplessi in questo v.1a è come si propone: “E incominciò a parlare loro in parabole”, dove il verbo “incominciò” e il termine “parabole”, posto al plurale, lasciano intendere che qui si apre una sezione di insegnamento fatto attraverso parabole, mentre queste si limitano ad una sola parabola. Quale senso, dunque, attribuire al v.1a, che viene posto in apertura dell'intero cap.12. Quattro sono le soluzioni, che propongo:

  1. Marco ha estrapolato la parabola da un contesto completamente diverso da questo, dove Gesù insegnava in parabole, conservandone, l'introduzione. Un esempio si ha in Mt 13, un capitolo che raccoglie sette parabole dedicate al Regno dei cieli;

  2. al racconto della parabola dei vignaioli omicidi ne dovevano seguire altre, che qui, sono state omesse;

  3. Marco, seguendo le logiche del cap.4, con quel “Incominciò a parlare loro in parabole” intendeva dire più semplicemente: “Riprese a parlare in parabole”. Quest'ultima è quella che preferisco.

  4. Ma non va esclusa una quarta ipotesi, che ho già sopra accennato: Marco con quel “incominciò a parlare loro in parabole”, posto in apertura del cap.12, intende fornire al suo lettore una chiave di lettura non solo della parabola dei vignaioli omicidi, ma indicare anche che quanto segue va compreso nel suo doppio senso, come se fosse una parabola.

La parabola è indirizzata “a loro”, dove quel “loro” sta per i sinedriti, indicati in 11,27: “i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani”, le tre categorie che compaiono per la prima volta nel primo annuncio della passione (8,31) e poi nel racconto della passione. Sono, dunque, le autorità religiose e civili di Israele, le responsabili del rifiuto e della morte di Gesù.

Il v.1b è un mirabile capolavoro di sintesi, che in poche parole descrive la storia di Israele nei suoi inizi, configurata dall'azione di Dio, attuatasi nella elezione di Israele e da un'Alleanza, che trovava la sua massima espressione nella Torah, affidata al nuovo popolo costituito in Dio.

Il tema della vigna, quale figura di Israele, non è nuova nell'A.T., e trova la sua origine nel linguaggio profetico e sapienziale10. La vigna o la vite, come il fico e l'ulivo, era una pianta molto diffusa in Palestina (1Mac 14,12), così da caratterizzare la vita stessa del popolo. Basti pensare che il termine vite, vigna o vigneto ricorre una novantina di volte nell'A.T. Da qui l'identificazione di Israele con la vite o la vigna.

La parabola, tuttavia, sembra essere stata mutuata da Is 5,1-7 e poi rielaborata e riadatta da Marco. È significativo in tal senso come l'evangelista concluda questo cap.12 muovendo un'accusa agli scribi (v.40a), che richiama da vicino Is 5,8, posto a conclusione della parabola isaiana.

Una vigna che “un uomo piantò”. L'impiantare parla di origine, di inizio e richiama da vicino il Sal 79,9-10: “Hai divelto una vite dall'Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra”. Si sta, dunque, parlando di Dio, che “impiantò” cioè costituì colui che era non popolo, schiavizzato in Egitto, in popolo11 e gli dette una dignità sacra, che lo rendeva sua proprietà tra tutti i popoli, costituendolo nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,5-6).

A protezione di questa vigna Dio pose una siepe, costruì una torre e scavò un torchio12. L'insieme delle immagini colloca il lettore nel contesto dell'Alleanza tra Jhwh e Israele. La siepe con cui è cinta la vigna, il torchio scavato nella vigna e la torre posta in mezzo ad essa. La siepe, nel linguaggio metaforico biblico, esprime la protezione e in taluni casi quella divina13. È una siepe che richiama da vicino la Torah, posta in Israele a protezione della sua fedeltà a Jhwh, quale sua identità e per distinguerlo dagli altri popoli e proteggerlo nelle necessità14. Paolo, nella sua lettera ai Galati, la definirà come un pedagogo (Gal 3,24-25). Similmente la torre posta in mezzo alla vigna richiama da vicino Jhwh, posto in mezzo al suo popolo (Sal 60,4; Prv 18,10), e il suo Tempio santo, punto d'incontro tra cielo e terra15; mentre la presenza del torchio all'interno della vigna richiama il castigo di Dio e l'ira divina16 per le infedeltà alla Torah.

Il v.1 si conclude con l'osservazione che l'uomo, dopo aver impiantato la sua vigna e dopo averla affidata ai contadini perché la coltivassero, metafora questi ultimi delle autorità giudaiche, se ne partì per un viaggio, che allude al tempo di assenza del padrone della vigna. Uno spazio temporale che definisce quel lasso di tempo che intercorre tra la costituzione dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo, disseminata di profeti inascoltati e perseguitati , e la venuta di Gesù, il figlio del padrone della vigna. Un tempo che verrà scandito dalla parabola stessa con l'invio, per ben tre volte, di servi di questo padrone, i profeti, (vv.2-5) e conclusosi con l'ultimo invio del suo amato figlio (vv.6-8), che inaugurerà anche l'ultimo tempo, dopo non resterà che il tempo del giudizio (v.9).

Il tempo dei profeti (vv.2-5)

I vv.2-5 descrivono il comportamento criminale dei contadini, che non si limitarono a respingere gli inviati del loro padrone, ma li perseguitarono, li aggredirono malmenandoli e infine anche li uccisero. Alla persistenza del padrone nell'invio dei propri servi corrisponde la persistente chiusura e il pervicace rifiuto dei contadini. Due parti contrapposte l'una all'altra in modo inconciliabile e irriducibili l'una all'altra. Di fatto i contadini si impossessarono della vigna, disconoscendo nei servi inviati il padrone della vigna.

La breve pericope si apre attestando che era giunto il “tempo opportuno”, espressione questa che in greco è resa con “kairÒj” (kairós), che nel linguaggio biblico indica il tempo di Dio, il tempo della resa dei conti e del suo giudizio, ma anche il tempo per l'uomo del suo ritorno a Dio e della sua conversione; così come “kairÒj” era il tempo dei profeti, lo spazio di Dio, che egli aveva riservato a questi suoi inviati, per risvegliare la coscienza di Israele. E di profeti qui si parla ai vv.2-5. Significativo è quel il triplice invio, poiché il tre nella sua simbologia parla di un inizio, di un compiersi e di una fine17, circoscrivendo un determinato tempo, come quello del profetismo, che caratterizzò l'intera vita di Israele e in particolare i secoli tra l'VIII e il V a.C.

Marco parla dell'invio di un servo (v.2), poi di un secondo servo (v.4), poi ancora di un terzo servo (v.5a) ed infine parla di “molti altri” servi inviati (v.5b). Un invio scandito da un tre e da un molti altri, forse un'allusione ai tre grandi profeti, Isaia, Geremia ed Ezechiele, ai quali seguirono, e in parte furono contemporanei, altri dodici profeti, definiti minori, non perché di poco conto, ma solo perché a noi giunsero pochi capitoli delle loro opere, a differenza dei tre profeti maggiori sopra menzionati.

Tutti i profeti furono perseguitati o costretti all'esilio o uccisi. Ne dà testimonianza lo stesso Mt 23,29-31: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti”.

Un atteggiamento persecutorio, quindi, che Matteo riconosce persistente anche presso le autorità giudaiche del suo tempo, eredi di quel radicato rifiuto nei confronti di Dio, che continuò e si riversò anche su Gesù.

Il tempo di Gesù (vv.6-8)

Il padrone della vigna doveva sapere che dopo gli innumerevoli tentativi di ottenere dei frutti dalla sua vigna, tutti falliti e conclusisi in modo tragico, non poteva aspettarsi una diversa conclusione per suo figlio. Davanti a sé aveva delle persone che non volevano più saperne di lui e si erano appropriati di fatto della vigna, disconoscendone la proprietà. Eppure questo padrone della vigna, contro ogni buona logica, insiste fino all'ultimo. Non vuole abbandonare la sua vigna per la quale ha avuto molta cura e molto aveva speso e molto aveva dato. Da qui l'estremo tentativo: l'invio del proprio figlio. Un figlio che Marco definisce in tre modi: questo figlio è “uno”, è “amato”, è “ultimo”. Quel “uno” definisce l'unicità di quel figlio nei confronti del Padre, un figlio, quindi, unigenito. Ed è proprio questa esclusiva unicità che lo rende l'unico polo catalizzatore dell'amore del Padre, che già altre due volte, altrove, lo aveva definito “prediletto” (1,11; 9,7), su cui ha riposto tutta la sua speranza e tutte le sue attese. Un figlio che inviò “ultimo”, cioè quale ultimo tentativo, così che l'invio di questo figlio assume una valenza e un significato del tutto particolari: il suo invio, in quanto ultimo, doveva considerarsi escatologico, così che questo figlio portava in se stesso un giudizio che incombeva sui contadini, a cui era stata affidata la vigna. Dopo di lui non ci si poteva aspettare altro che il giudizio, il cui peso, di assoluzione o di condanna, dipendeva solo dalla risposta che questi contadini avrebbero dato a quest'ultimo invio.

Un comportamento, quello del padrone della vigna, improntato alla pazienza, alla speranza e all'amore per la sua vigna, che già Is 5,1-7 aveva cantato e che la riflessione giovannea su tanto amore portò l'evangelista ad attestare che “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,16-19). È tutto qui il senso della parabola dei vignaioli omicidi. Tutti i tentativi del padrone della vigna erano quelli di ottenere dalla sua vigna, sulla quale aveva riversato tutte le sue attenzioni e il suo amore, dei frutti, che non è riuscito ad ottenere per la malvagia cecità dei suoi contadini. Il figlio, infatti, è venuto e ha cercato tra le foglie dei frutti, ma non trovò nulla, perché il tempo dei fichi non era ancora giunto, cioè per l'indisponibilità di quel fico nei confronti dell'evento Gesù. Da qui la sua maledizione (11,14.21), che trova la sua giustificazione ai vv.7-8.

I due vv.7-8 sono consequenziali l'uno all'altro: il primo presenta il progetto criminale di questi contadini; il secondo la sua attuazione. Il ragionamento di questi contadini, quello di uccidere l'erede per ottenerne l'eredità, ha probabilmente il suo fondamento giuridico nella “bonorum possessio”, una forma di successione introdotta a Roma dalle magistrature pretorie nell'ultima età repubblicana di Roma (146 a.C.-31 a.C.), che consentiva al possessore dei beni, in assenza di eredi, di continuare a goderne il possesso. Dapprima si regolava attraverso vie processuali, poi divenne un istituto di diritto sostanziale, così che ai possessori venivano riconosciuti gli stessi diritti simili a quelli degli eredi civili.

Se così fosse, allora è da pensare che questa parabola sia stata inventata da Marco, considerato che i contadini della parabola ragionano secondo gli schemi del diritto e degli usi propri dei romani. Marco, infatti, è un ebreo nato e vissuto nella comunità ebraica di Roma e, quindi, era a conoscenza degli usi, costumi e dei diritti in vigore presso i romani. Scrivendo, poi, il suo vangelo per la comunità di Roma, è probabile che li abbia riprodotti nei ragionamenti dei suoi personaggi.

Il v.8 riporta l'attuazione del piano criminale: “E preso(lo), lo uccisero e lo gettarono fuori dalla vigna”. Marco ne fa una descrizione per così dire cronachistica, mentre Mt 21,39 e Lc 20,15a invertono l'esecuzione del delitto, imprimendo con questa inversione un significato teologico. L'uccisione dell'erede è avvenuta in effetti fuori dalle mura di Gerusalemme (Gv 19,20; Eb 13,12); ma nel contempo quel “gettare l'erede fuori dalla vigna” lascia intendere che su Gesù sia stata emessa una sorta di scomunica dal giudaismo. Un'interpretazione questa che trova un suo fondamento in Gv 9,22, 12,42 e 19,38 dove si attesta che i seguaci di Gesù che riconoscevano in lui il Cristo o si facevano suoi discepoli venissero espulsi dalla sinagoga. In altri termini venivano scomunicati e posti fuori dal giudaismo e dal ciclo della salvezza. La quale cosa equivaleva ad una sorta di morte civile e religiosa.

La parabola termina con una domanda (v.9a), la cui finalità è di coinvolgere il lettore: “Che cosa [dunque] farà il signore della vigna?”. Una domanda carica di indignazione per un comportamento così malvagio e inaudito e che prepara il lettore alla sentenza finale, che giunge come liberatoria: “Verrà e farà perire i contadini e darà ad altri la vigna”. Si tratta di una sentenza che non viene emessa sulle persone, ma sul sistema giudaismo che di fatto ha fallito la sua missione. Ma nel contempo prepara in qualche modo il lettore alla devastazione di Gerusalemme e del Tempio narrata in 13,2.14-19, cioè alla fine del giudaismo. Da questo momento in poi la storia della salvezza proseguirà con un nuovo progetto, che non vede più Israele come suo protagonista, bensì soltanto un suo resto, questo suo figlio, rifiutato dalle autorità giudaiche come inviato divino e Messia atteso. Ma sarà proprio questo uomo, rigettato dal giudaismo, che sarà posto a fondamento di un nuovo popolo qualificato non più dalla circoncisione, ma dalla fede (Ef 2,20); non più racchiuso in una asfissiante gabbia fatta da prescrizioni e divieti, ma dal dono dello Spirito Santo, che consente di rivolgersi liberamente a Dio chiamandolo Padre, al di là di ogni razza, lingua, popolo o nazione, facendo di tutti i popoli della terra un unico popolo nel Risorto (Gal 3,28). Il rifiuto d'Israele divenne, pertanto, motivo di salvezza per l'intera umanità (Rm 11,11b-15).

Una riflessione postpasquale (vv.10-11)

La parabola dei vignaioli omicidi termina con la sentenza finale del v.9. A questo punto sia Mt 21,42 e Lc 20,17 proseguono il loro racconto staccandolo dal precedente con la formula: “E Gesù disse loro”, quale commento alla risposta che gli ascoltatori avevano dato a Gesù circa al destino riservato ai vignaioli omicidi (Mt 21,41; Lc 20,16b). L'escamotage dei due sinottici, Mt e Lc, che attingono da Marco, serve per staccare la parabola dalla riflessione scritturistica tratta da Is 28,16 a cui si ispira anche il Sal 118,22. Marco, per contro, la ingloba all'interno della parabola stessa e ne fa una sorta di morale della favola, provata scritturisticamente, il cui senso è che Gesù è l'evento posto dal Padre a fondamento dell'intera storia della salvezza. Si tratta di una riflessione della chiesa postpasquale, che ha fatto di questa pietra, scartata da Israele, il fondamento del proprio esserci e del proprio esistere18: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito(Ef 2,19-22). E similmente in 1Pt 2,4-6: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso.

A questo punto sia Mt 21,44 e Lc 20,18 inseriscono un versetto, assente in Marco, che va a completare in qualche modo Is 28,16: “Chi cadrà sopra questa pietra sarà sfracellato; e qualora essa cada su qualcuno, lo stritolerà”. Non si tratta di una vera e propria citazione scritturistica, ma si ispira in qualche modo sia ad Is 8,14-15 che a Dn 2,34-35, dove, in Daniele, questa pietra ha travolto ogni regno divenendo essa stessa una gigantesca montagna che ha riempito l'intera regione.

L'intento di Mt 21,44 e Lc 20,18, con questo loro inserimento, che li scosta da Marco, è quello di rendere esplicita la dura minaccia per chiunque si oppose e continua opporsi a questa pietra, divenuta il fondamento su cui posa il nuovo popolo d'Israele, edificato sulla fede e nello Spirito Santo. In primis, tra gli oppositori, il giudaismo stesso. In altri termini, sarà l'affermarsi del cristianesimo e il suo rapido diffondersi che travolgerà il sistema giudaismo, che ha visto nel succedersi di due guerre giudaiche (66-73 d.C. e 132-135 d.C.) la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, quali luoghi storici del suo esserci, e lo soppianterà nel culto a Jhwh. Il giudaismo, tuttavia, continuerà, ma in tono minore, nella storia, trasformandosi in rabbinismo e soppiantando il culto del Tempio con il culto della Torah, capace, comunque, di conservare l'identità propria del popolo d'Israele, che rimarrà sempre il popolo della prima elezione e della prima Alleanza (Rm 11,1-5).

Il tentativo di sopprimere Gesù, preludio del Getsemani (v.12)

Sia la parabola dei vignaioli omicidi che la riflessione scritturistica della primitiva comunità credente si chiudono con il tentativo del sinedriti (11,27), a cui la parabola era rivolta, di arrestare Gesù: “E cercavano di prenderlo”. Quel “cercavano” dice il loro persistente tentativo di impossessarsi di Gesù. Non si tratta di un semplice tentativo occasionale, ma il tempo verbale, posto all'imperfetto indicativo, tempo durativo, dice la persistenza di questo loro tentativo, che rivela il loro stato d'animo e i loro intenti; ma il verbo stesso, “cercavano”, lascia intendere che questo era il loro progetto, che troverà la sua attuazione in 14,10-11.43-46. Questo “cercavano”, pertanto, prelude in qualche modo al tradimento di Gesù da parte di Giuda e al suo arresto nel Getsemani.

Seconda diatriba: la supremazia di Dio sugli uomini (vv.13-17)


Testo a lettura facilitata

L'introduzione (v.13)

13- E gli mandano alcuni dei farisei e degli Erodiani per prenderlo con (la) parola.

L'insidiosa questione posta (v.14)

14- E giunti gli dicono: <<Maestro, sappiamo che sei veritiero e non t'importa di nessuno, poiché non guardi la faccia degli uomini, ma insegni secondo verità la via di Dio. È lecito dare (il) censo a Cesare o no? Diamo o non diamo?>>.

La soluzione sta nelle cose stesse (v.15)

15- Ma egli, sapendo la loro ipocrisia, disse loro: <<Perché mi mettete alla prova? Portatemi un denaro perché (lo) veda>>.
16- Essi (glielo) portarono. E dice loro: <<Di chi (è) questa immagine e l'iscrizione?>>. Quelli gli dissero: <<Di Cesare>>.

La sentenza finale (v.17)

17- Gesù disse loro: <<Ciò che (è) di Cesare rendete a Cesare e ciò che (è) di Dio a Dio>>. E stupivano di lui.



Note generali

La pericope in esame presenta la seconda diatriba che, da un punto di vista letterario, si definisce come una sentenza inquadrata, cioè un detto di Gesù o a lui attribuito, che viene incorniciato all'interno di un piccolo racconto, finalizzato a metterne in rilievo il senso.

Anche se in apparenza tale detto sembra voler distinguere il sacro dal profano, in realtà esso punta ad affermare la supremazia di Dio sul potere umano. L'importanza di tale affermazione acquista tutto il suo peso in quanto essa si trova in un contesto che, da un lato, contrappone le pretese di Gesù a quelle del giudaismo; dall'altro, è posto a ridosso della passione e morte di Gesù e in qualche modo la prelude.

Il breve racconto è strutturato su quattro parti, che riproducono la suddivisione della sezione “Testo a lettura facilitata”:

  1. Introduzione (v.13);

  2. L'insidiosità della questione posta (v.14);

  3. La soluzione sta nelle cose stesse, basta saperle leggere (vv.15-16);

  4. La sentenza finale (v.17)


Commento ai vv.13-17

L'introduzione (v.13)

Il v.13 crea il contesto scenico entro cui viene collocato il breve racconto. Pur nella sua brevità esso è molto denso. Il soggetto di quel “mandano” sono gli stessi personaggi contro i quali Gesù ha appena raccontato la parabola dei vignaioli omicidi e più precisamente “i capi dei sacerdoti e gli scribi e gli anziani” (11,27b), le tre categorie di personaggi che formano il Sinedrio e che già hanno sottoposto Gesù ad un interrogatorio circa la sua autorità (11,27-33), che preludeva in qualche modo a quello che condurrà il sommo sacerdote dopo l'arresto di Gesù nel Getsemani e che lo condannerà a morte (14,60-64). Tutto, dunque, in queste cinque diatribe ha a che fare con il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù e in qualche modo lo preludono, lasciandone intuire il senso.

Significativo è quel “gli” mandano, che il greco rende con l'espressione “prÕj aÙtÒn” (pròs autón), cioè “verso di lui”. Tuttavia la particella di moto verso luogo “pròs” possiede in se stessa anche un senso avversativo di “contro di lui”. Per cui l'invio dei farisei e degli erodiani assume un senso completamente ostile, che viene sottolineato anche dall'espressione “¢greÚswsin lÒgJ” (agreúsosin lógo), che letteralmente significa “prendere per la parola”, che corrisponde al nostro “prendere uno in castagna” su di un qualche argomento di cui sta parlando. Il verbo “¢greÚw” (agreúo), infatti, significa prendere, ma nel senso di dare la caccia e, quindi, possiede in se stesso un senso persecutorio ed equivale a quel “cercavano di prenderlo” del precedente v.12a

Gli inviati sono i farisei e gli erodiani, un'accoppiata che già compare in 3,6, dove “i farisei uscirono subito con gli erodiani e tennero consiglio contro di lui per farlo morire”. Un'accoppiata che fin da allora tramava contro Gesù per farlo morire. Il nuovo approccio ora non cambia di senso e va compreso all'interno di un progetto di sopraffazione e di morte nei confronti di Gesù, che già aleggiava in quel “cercavano di prenderlo” del precedente v.12a.

Gli erodiani, di cui qui si parla, più che un partito o una fazione favorevole ad Erode o suoi funzionari e/o cortigiani, categorie di persone queste estranee ai farisei e con i quali i farisei nulla avevano di che spartire e che certamente non frequentavano, è molto probabile che fossero una casta di sacerdoti, discendenti anche loro dal sommo sacerdote Sadok, e salita in auge sotto Erode il grande. Questi, infatti, sposò nel 24 a.C. Mariamne, la figlia del sacerdote Simone l'alessandrino, figlio di Boethos (da qui Boethusiani). Erode, per nobilitare il sacerdote e la sua famiglia, con cui si stava imparentando, dando così rango e lustro anche a Mariamne, destituì l'allora sommo sacerdote in carica, Gesù, figlio di Fiabi, e nominò al suo posto, Simone, che ricoprì la massima funzione religiosa e politica dal 24 a.C. fino al 5.a.C. circa. Per questa loro posizione, era evidente che essi fossero strettamente devoti e legati alla famiglia degli Erode, sostenuta da Roma e ad essa legata. Si comprende, quindi, la loro presenza qui, dove Gesù era chiamato a pronunciarsi a favore o meno dei romani.

L'insidiosa questione posta (v.14)

Il v.14 si apre con un preambolo che negli intenti degli interlocutori doveva rassicurare Gesù e, quindi, inconsciamente fargli abbassare la guardia: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e non t'importa di nessuno, poiché non guardi la faccia degli uomini, ma insegni secondo verità la via di Dio”. Benché un simile riconoscimento suonasse ipocrita per gli intenti che lo sottotendevano, tuttavia esso riveste una grande importanza storica, poiché descrive un lato del carattere di Gesù, che lascia intravvedere la determinazione con la quale egli svolgeva la sua missione, senza guardare in faccia gli uomini, poiché non doveva compiacere loro, bensì il Padre19. Ma nel contempo, inserita in questo contesto, una simile affermazione riconosceva che l'insegnamento di Gesù aveva l'imprimatur di Dio stesso, poiché Gesù insegnava “secondo verità la via di Dio”. Ciò che qui verrà detto, pertanto, assume una gravità teologica, poiché riflette “la verità di Dio” stesso.

La questione viene qui introdotta con la formula del “aut aut”: “Diamo o non diamo?”. Qualsiasi fosse stata la risposta, Gesù era destinato a cozzare o contro i Giudei, che mal tolleravano il tributo; o contro gli erodiani, alleati e favorevoli a Roma, che lo avrebbero denunciato a Pilato qual sovversivo. Nota questa che comparirà tra le accuse mosse contro Gesù in Lc 23,1-2. Tuttavia, la questione qui posta non è se si deve pagare o meno il tributo a Cesare, ma se “è lecito” pagarlo. Quindi la questione più che politica è morale. Di che si trattava?

Per poter comprendere la gravità della questione posta è necessario contestualizzarla. Innanzitutto Marco, come Mt 22,17, chiama il tributo in questione con il termine “kênson”, cioè censo, anziché con il più corretto termine “fÒron” (fóron, tributo, imposta), usato da Luca 20,22, poiché di tributo si trattava, benché nella sostanza la cosa non combiasse. Tuttavia va capito il significato di questo “kênson, “censusin latino. Esso designava le liste di cittadini e dei loro averi ai fini fiscali. Da qui il censimento ricordato anche da Lc 2,1. La questione, tuttavia, verte non tanto l'imposizione fiscale sugli averi dei cittadini, bensì quella sui singoli cittadini stessi, il “tributum capitis20, introdotto dal procuratore Quirino nel 6 d.C., allorché l'etnarca Erode Archelao, destituito da Augusto, venne esiliato a Vienne, e l'etnarcato ridotto a provincia romana. In questa occasione Quirinio fece un censimento della nuova provincia romana per verificarne il gettito fiscale e forse per questo Matteo e Marco usano il termine “kênson(census), anziché il più corretto “fóronlucano, che riguarda l'imposta individuale, che gravava indistintamente su ogni cittadino, indipendentemente dai suoi averi. Tale tributo o imposta costituiva di fatto il riconoscimento del dominio di Roma su ogni singolo cittadino, la quale cosa significava per molti la rinuncia ad ogni speranza messianica. Per questo dei rivoltosi si opposero con la violenza a questa imposta, considerata sacrilega perché contraria alla concezione teocratica in Israele. Per cui la questione qui sollevata era sentita come un caso di coscienza21: “È lecito dare (il) censo a Cesare o no? Diamo o non diamo?”. Due sono gli elementi che portano a concludere che la questione qui sia di tipo morale e di natura identitaria: quel “È lecito”, che indaga sul campo della coscienza e dei rapporti con Dio; e il soggetto di quel “diamo o non diamo”, cioè “noi”, inteso come Israele, popolo della Promessa e dell'Alleanza. La questione è quindi rivestita di sacralità ed è acutamente sentita dal popolo, mentre il tributo, calato all'interno di questo contesto, diventa dissacratore e sacrilego, poiché porta l'impronta dell'oppressore straniero e pagano, che opprime e profana il popolo di Dio e calpesta la Terra della Promessa, considerata per questo Santa.

La soluzione sta nelle cose stesse (vv.15-16)

I vv.15-16 riportano la risposta di Gesù, introdotta da un preambolo (v.15) che smaschera l'ipocrisia dei suoi interlocutori: “Sapendo la loro ipocrisia”. Una nota questa dell'autore che in quel “sapendo” mette in rilievo l'onniscienza di Gesù e la sua capacità di penetrare i segreti più profondi e nascosti dell'animo umano, che viene testimoniato dalle stesse parole di Gesù: “Perché mi mettete alla prova?”. Da questo momento si gioca a carte scoperte, poiché Gesù è colui che insegna secondo verità, la cui luce smaschera le tenebre dei suoi avversari (Gv 1,5; 3,19).

Il v.16 accentra l'attenzione sull'oggetto del contendere: il denaro romano, il cui valore equivaleva ad una giornata di lavoro di un contadino (Mt 20,2). Esso è qualificato da due elementi: l'immagine dell'imperatore e la scritta che ne riportava nome e titolo. Un segno sacrilego del potere straniero imposto sul popolo di Dio, il popolo dell'Alleanza. Sacrilego in quanto vi era riportata l'immagine di un uomo, che Esodo e Deuteronomio proibivano22; sacrilego, poi, perché prodotto e simbolo di un mondo pagano, la cui presenza in mezzo al popolo di Jhwh e sulla Terra Santa era dissacrante.

L'immagine era quella di Tiberio Claudio Nerone, figlio adottivo di Augusto Ottaviano (27 a.C.-14 d.C.) e destinato a succedergli, cosa che avvenne alla morte di Ottaviano nel 14 d.C. e regnò fino al 37 d.C. e il suo nome mutò in Tiberio Giulio Cesare Augusto. La scritta diceva “Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, Augusto”. Sull'altra faccia della moneta vi era l'effige di Livia, moglie di Augusto, accompagnata dalla scritta “Pontefice Massimo”. Anche la scritta risultava blasfema, poiché definiva “divino” Ottaviano Augusto.

Anche l'uso, sia pur imposto, di una simile moneta, da cui comunque i giudei sapevano trarre notevoli vantaggi, era posto in violazione della Torah e non poteva essere usata per le offerte al Tempio. Da qui la necessità dei cambiavalute.

Pertanto, la risposta data dagli interlocutori di Gesù non poteva essere che quella moneta lì riportava tutte le insegne di Cesare.

La sentenza finale (v.17)

Il v.17 riporta la sentenza di Gesù, che talvolta viene usata anche nel nostro contesto culturale per sentenziare che a ciascuno va dato il suo: “Ciò che (è) di Cesare rendete a Cesare e ciò che (è) di Dio a Dio”. Una lettura superficiale del detto porta a considerarlo un'esortazione a tenere separate le cose profane da quelle sacre. Una lettura più attenta fa sorgere l'interrogativo: che cosa è di Dio e tale da doverlo dare a lui? Gen 1,1 si apre attestando che “In principio Dio creò il cielo e la terra”, quindi , tutto gli appartiene. Is 66,1-2a, rivolto al popolo, ritornato dall'esilio di Babilonia e in difficoltà nel ricostruire il Tempio per poi riprendere il culto con i sacrifici, proclama: “Così dice il Signore: "Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie, oracolo del Signore”.

Tutto, dunque, è di Dio e tutto va a lui attribuito e a lui ricondotto. Quindi anche il potere degli uomini va letto e compreso come espressione storica di quello di Dio23, benché non di rado gli uomini ne facciano un uso improprio se non criminale. Ma questo è un abuso, poiché il potere viene dato per il bene comune. Di conseguenza viene tolta ogni barriera tra il puro e l'impuro, tra il pagano e il giudeo, poiché anche il primo appartiene a Dio come il secondo. Un concetto questo che verrà ripreso ed elaborato da Ef 2,13-16, che in Gesù vede eliminata ogni barriera che separa il sacro dal profano, il pagano dal giudeo e dei due ne fa un unico nuovo popolo plasmato dall'unica fede. Gal 3,28 sottolinea questo aspetto in modo inequivocabile: “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”; gli fa eco Col 3,11: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Sciita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. Ed è lo stesso Luca, in At 10,14-15, che narrerà la significativa visione di Pietro, in cui Dio lo invitava a mangiare animali considerati impuri dalla legge mosaica: “Ma Pietro rispose: <<No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo>>. E la voce di nuovo a lui: <<Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano>>”, così che Pietro arriverà a concludere in At 10,34-35: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”.

Un detto, quindi, questo di Gesù che, ben lungi dal porre dei distinguo e delle separazioni, apre invece le porte ad una visione che supera ogni barriera e ogni limitazione umana, riconducendo tutto e tutti in Dio.

Il v.17 si conclude rilevando lo stupore degli ascoltatori, di fronte ad una sapienza irresistibile e che sconfigge ogni inganno, portando la luce in mezzo alle tenebre: “E stupivano di lui”. Uno stupore che evidenzia tre aspetti: l'incapacità degli avversari di sopraffare la sapienza di Dio manifestatasi in Gesù; una manifestazione che produce una duplice reazione negli insidiatori, caratteristica delle teofanie: stupore e silenzio, che rivelano l'autorità e l'autorevolezza di Dio, che sovrasta la pochezza degli uomini, riducendo al silenzio i suoi avversari. Un versetto, il 17, che ha per sfondo il Sal 8,3 e che in qualche modo lo riecheggia in se stesso: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.

Terza diatriba: La risurrezione dai morti (vv.18-27)

Testo a lettura facilitata

Il preambolo (v.18)

18- E vengono verso di lui i Sadducei, i quali dicono che non c'è risurrezione, e lo interrogavano dicendo:

Una questione che parte da un presupposto sbagliato (vv.19-23)

19- <<Maestro, Mosè ci ha scritto che qualora il fratello di qualcuno morisse e lasciasse (la) moglie e non lasciasse un figlio, il suo fratello prenda la moglie e susciti una discendenza a suo fratello.
20- C'erano sette fratelli: e il primo prese moglie e, morendo, non lasciò discendenza;
21- anche il secondo la prese e morì non lasciando discendenza; e allo stesso modo il terzo;
22- e i sette non lasciarono discendenza. Ultima di tutti anche la donna morì.
23- Nella risurrezione [allorché risorgeranno] di chi di loro sarà moglie? Infatti i sette l'hanno avuta moglie>>.

L'accusa di Gesù: non sapete comprendere le Scritture (v.24)

24- Disse loro Gesù: <<Non è per questo che siete tratti in errore, non conoscendo le Scritture né la potenza di Dio?

La risposta (vv.25-27)

25- Quando, infatti, risorgeranno dai morti né prendono moglie né prendono marito, ma sono come angeli nei cieli.
26- Quanto ai morti che risorgono non avete letto nel libro di Mosè sul (racconto del) rovo come gli disse Dio dicendo: “(Sono) il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe?”
27- Non è Dio dei morti, ma dei viventi; (Voi) errate molto>>.


Note generali

La terza diatriba ha per oggetto la risurrezione dai morti e riveste una notevole importanza, perché posta a ridosso della passione e morte di Gesù, consentendo in tal modo a Marco non solo di preannunciare quella di Gesù, ma di precisarne anche i termini e la natura.

All'interno del giudaismo, circa la risurrezione, vi erano due posizioni contrapposte: quella dei farisei, che sostenevano la risurrezione, da loro pensata come una ripresa e un proseguimento migliorati di questa vita; e quella dei Sadducei, che invece la negavano, perché la Torah scritta, unico testo scritturistico da loro accettato, non ne parlava. Per questo, al v.26, si controbatterà che, invece, Mosè ne ha parlato, evidenziando la loro pochezza nella conoscenza delle Scritture. Una contrapposizione che lo stesso Paolo, chiamato a rispondere al Sinedrio, sfruttò per creare una divisione all'interno del Sinedrio stesso, volgendola a proprio favore: “Paolo sapeva che nel sinedrio una parte era di Sadducei e una parte di farisei; disse a gran voce: <<Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti>>. Appena egli ebbe detto ciò, scoppiò una disputa tra i farisei e i Sadducei e l'assemblea si divise. I Sadducei infatti affermano che non c'è risurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose. Ne nacque allora un grande clamore e alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi, protestavano dicendo: <<Non troviamo nulla di male in quest'uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse parlato davvero?>>.(At 23,6-8).

Il tono della questione posta dai Sadducei non sembra occasionale, ma risente delle dispute rabbiniche costruite ad hoc per mettere in imbarazzo e ridicolizzare la controparte. Tutto gira attorno a Dt 25,5-10, la legge del levirato, termine che deriva dal latino “levir, che significa “cognato” e traduce l'ebraico “yabam. Questi doveva subentrare al fratello morto senza prole, per dargli una discendenza. Qualora rifiutasse veniva pubblicamente disonorato dalla vedova davanti agli anziani del popolo e la sua famiglia veniva additata come “la famiglia dello scalzato” (Dt 25,10), con riferimento al gesto della vedova, che in segno di disprezzo e di condanna gli levava un sandalo e gli sputava in faccia, perché egli non aveva riedificato la casa di suo fratello. Il figlio che nasceva assumeva il nome del fratello deceduto, a lui andava l'intera eredità ed era ritenuto legalmente come il vero figlio del defunto. Benché se ne discuta ancora, tuttavia la regola del levirato ha come finalità quella di perpetuare in Israele il nome del defunto e si fonda sull'importanza data ai legami di sangue in una società di tipo tribale24.

La struttura di questa breve pericope è distribuita su quattro parti, che ricalcano la sezione del “Testo a lettura facilitata”:

  1. Il preambolo, in cui vengono presentati i personaggi (v.18);

  2. La questione, che parte da un presupposto sbagliato (vv.19-23);

  3. L'accusa di Gesù: non sapete comprendere le Scritture (v.24);

  4. La risposta, che precisa la natura della risurrezione (vv.25-27)


Commento ai vv. 18-27

Il preambolo (v.18)

Il v. 18 apre la terza diatriba presentando i nuovi interlocutori di Gesù: i Sadducei, che sono colti nel loro andare “verso di lui”. Anche qui compare l'espressione “prÕj aÙtÒn” (pròs autón) in cui la particella “pròs”, come si è già sopra accennato, assume un doppio significato: quello di moto verso luogo, quindi, i Sadducei vanno “verso di lui”; ma anche quello negativo di andare “contro” di lui. Anche questi personaggi, dunque, vengono presentati dall'autore come avversi a Gesù e la loro avversità compare meglio nel fatto che essi non credono nella risurrezione, una questione che stanno per sottoporre a Gesù solo per metterlo in imbarazzo. Vedremo subito, come il modo di porre la questione sia ingannevole e certamente ben lontano dal ricercare la verità. Tuttavia questo dibattito servirà a Marco per chiarire ai suoi lettori il concetto di risurrezione, che dovrà poi affrontare al cap.16.

La casta sacerdotale dei Sadducei25 era formata da famiglie nobili e potenti, conservatrici e filoromane. Questi, parimenti ai Samaritani, credevano soltanto nella Torah Scritta, rifiutando quella orale, tenuta, invece, in grande considerazione dai Farisei, tanto da prendersi le critiche di Gesù, che la definì dottrine di uomini (Mt 15,9; Mc 7,7). Per questo i Sadducei, a differenza dei Farisei, non credevano negli spiriti, negli angeli, nell'anima e nella risurrezione dai morti, poiché la Torah Scritta non ne parlava (At 23,8). I Sadducei, la cui classe sembra comparire intorno alla prima metà del II sec. a.C., durante il periodo maccabaico, si dicevano discendenti di Zadok o Sadoq, di cui hanno assunto il nome. Benché il nome Sadduceo sia di origine oscura e dibattuta, tuttavia la maggioranza degli studiosi sembra farla discendere da Zadok, sommo sacerdote, insieme ad Ebiatar, ai tempi di Davide (1010-970 a.C.); questi incoronò re Salomone (970-933 a.C.), che, a sua volta, lo riconobbe come l'unico sommo sacerdote, divenendo capostipite dei successivi sacerdoti.

Il v.18 termina con i Sadducei che “interrogavano” Gesù. Il verbo “™phrètwn” (eperóton) si riscontra nei quattro vangeli complessivamente 52 volte, di cui 25 volte nel solo Marco. Esso significa “domandare, interrogare, informarsi” ed è significativo come questo verbo ricorra così numerose volte nel vangelo di Marco, un vangelo che va alla ricerca dell'identità di Gesù quale “Cristo e Figlio di Dio” (1,1). Ma il verbo posto qui in questo contesto e che ricomparirà per altre quattro volte nel racconto della passione assume un significato più sinistro, poiché l'indagine su Gesù non è per scoprirne l'identità, ma per ritorcergliela contro e farne motivo di condanna (14,60-64).

Una questione che parte da un presupposto sbagliato (vv.19-23)

La questione posta si svolge con un ritmo di tipo accademico e si snoda su tre passaggi, che risentono dei dibattiti dottrinali: si parte dall'affermazione di un principio scritturistico, delineato da Dt 25,5-1026 (v.19), per poi passare alla casistica (vv.20-22), del tutto improbabile e paradossale, ma posta in termini tali da mettere meglio in rilievo l'assurdità della risurrezione; ed infine la domanda o bordata finale destinata a mettere in difficoltà Gesù (v.23).

Con la domanda finale (v.23) i Sadducei, pur non credendo nella risurrezione, si allineano alla credenza nella risurrezione propria degli scribi e dei farisei, che pensavano alla risurrezione come un ritorno allo stato di vita precedente, così come è successo per Lazzaro (Gv 11,41-45) o per il figlio della vedova di Nain (Lc 7,11-15) o la figlia di Giairo (Mc 5,22-24.35-43). Ma queste, più che risurrezioni, erano delle risuscitazioni, cioè dei passaggi da uno stato di morte ad uno nuovamente di vivenza, forse migliorata rispetto a quella precedente, ma niente di più. Una visione, quindi, circoscritta alla storia e alla condizione umana.

Che cosa significhi in realtà la risurrezione verrà indicato dalla successiva pericope vv.24-27.

Cos'è la risurrezione (vv.24-27)

La pericope che segue è delimitata dall'inclusione data dalle due espressioni “siete tratti in errore” e “(Voi) errate molto”, poste rispettivamente ai vv.24a e 27b, che evidenzia come l'intero ragionamento sulla risurrezione, sviluppato dai Sadducei e dal pensiero giudaico, in genere sia errato per una errata comprensione delle Scritture e sottovalutando la potenza di Dio, lasciando così intendere come la risurrezione non sia un processo naturale della vita, che dipende dall'uomo o dalla natura delle cose, ma vi è un diretto intervento di Dio, che opera attraverso la potenza del suo Spirito (Rm 1,4; 8,11).

Affermato il principio che la risurrezione è opera di Dio, l'unica origine originante la Vita Eterna, ora Marco passa con i successivi due vv.25-26 a sviluppare, in due passaggi, le due linee fondamentali per comprendere correttamente la risurrezione.

Il v.25 illustra la nuova condizione di vita delle persone che risorgono: esse non prendono né moglie né marito. Questa prima parte del v.25 se, da un lato, si riferisce, nello specifico, alla fattispecie del quesito posto dai Sadducei, dall'altro, delinea un nuovo stato di vita, in cui gli istituti naturali umani, come quello del matrimonio, finalizzato alla costituzione della cellula fondante e fondamentale della società umana, in cui uomo e donna trovano la loro naturale convergenza e realizzazione, assicurando la continuità della specie, accolta in un ambiente stabile e rassicurante. Ora, tutto questo viene a cessare, poiché la risurrezione, per sua natura, introduce l'uomo in una dimensione di perfezione definitiva, che non ha più bisogno di istituti o istituzioni umane che lo sorreggano per raggiungere i propri fini, poiché egli diviene un'entità perfetta a se stante, partecipe, nella comunione con Dio, alla comunione universale con tutti gli altri esseri spirituali e, come lui, spiritualizzati. In altri termini, la risurrezione ricondurrà e ricostituirà l'uomo e con lui, per un principio di solidarietà primordiale, l'intera creazione, alla condizione originale, allorché l'uomo e la creazione erano ancora incandescenti di Dio.

Una simile condizione nuova di vita viene accennata in Ap 21,23, dove si attesta, con riguardo alla nuova Gerusalemme, che “La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna perché la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l'Agnello”; e similmente in Ap 22,5, dove, con riguardo agli uomini, si dice: “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli”. Due versetti che lasciano tralucere come la dimensione in cui si entra con la risurrezione ha a che vedere con il mondo di Dio e non più con questa dimensione, significata dal sole e dalla luna. Si tratta di “un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra” (Ap21,1), di una nuova dimensione, che più nulla ha a che vedere con questa nostra spazio-temporale. Di conseguenza, anche la condizione di vita sarà completamente diversa rispetto a questa, come lascia intuire Ap 21,4-5a: “E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>”. Morte, dolore, sofferenza, oppressione, tutto viene a cessare, poiché tutto è stato nuovamente ricreato nella risurrezione di Gesù, nella cui morte è stato distrutto il mondo del vecchio Adamo, prospettato da Gen 3,16-24.

Una nuova dimensione, dunque, e un nuovo stato di vita, che il Gesù marciano definisce con l'espressione “come angeli di Dio” (v.25b). In altri termini, i risorti torneranno ad essere una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato; una condizione di vita questa, che il Sal 8,6, cantando la creazione dell'uomo, declama in modo significativo: “Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato”, dove il “poco meno degli angeli” sta a significare non una vita diversa dagli angeli, ma soltanto inferiore per costituzione, poiché l'uomo fu carne spiritualizzata dal Soffio divino, che lo ha assimilato a Sé, mentre gli angeli sono puri spiriti, generati direttamente dallo Spirito divino. Di conseguenza la risurrezione riveste nuovamente l'uomo di Dio, di quel suo Soffio originale, che lo ha reso sua immagine e a Lui somigliante (Gen 1,26-27; 2,7).

Il v.26 controbatte e contesta il rifiuto dei Sadducei, quello del non credere alla risurrezione perché, a loro dire, Mosè nella Torah non ne aveva parlato. Viene qui citato Es 3,6a, dove Mosè, avvicinatosi al roveto ardente, viene chiamato da Jhwh, che presenta le sue credenziali: “Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Tutti personaggi costoro che al tempo di Mosè erano tutti deceduti, eppure Dio li presenta a Mosè come esseri viventi in Lui, lasciando in qualche modo trasparire come la vita continui dopo la morte. Infatti, viene rimarcato come Dio si presenti a Mosè come il Dio dei viventi e non dei morti, poiché tutti vivono in Lui e per suo mezzo. Là dove c'è Dio c'è anche la Vita. E come Dio l'ha trasmessa al primo uomo con il suo soffio vitale (Gen 2,7), così egli continua a generarla. Dio non genera morte, ma vita poiché non potrà mai generare ciò che non gli appartiene per sua stessa natura.

Un lungo cammino quello dell'intuire una vita oltre la vita e quello della risurrezione, che ha inizio nel II sec a.C. con Dn 12,2-3 e 2Mac 7,9.11.14.23.36; 12,43-44 e che verrà ripreso ed approfondito dal pensiero cristiano, illuminato dalla Parola rivelatrice di Dio.

La disputa sulla risurrezione si chiude con il v.27, che, da un lato, sentenzia attestando che Dio “Non è Dio dei morti, ma dei viventi” e, in quanto tale, capace di generare la vita; dall'altro, viene emesso una sorta di anatema sull'incredulità dei Sadducei e sul concetto di risurrezione prodotto dal giudaismo: “(Voi) errate molto”.

Quarta diatriba: il comandamento più grande (vv.28-34)

Testo a lettura facilitata

Preambolo (v.28a) e questione posta (v.28b)

28- E avvicinatosi uno degli scribi, avendo udito loro che discutevano, avendo visto che aveva risposto loro bene, lo interrogò: <<Di tutti, qual è il primo comandamento?>>.

I più grandi di tutti i comandamenti (v.29-31)

29- Gesù rispose che (il) primo è: “Ascolta Israele, (il) Signore Dio nostro, è (il) solo Signore”,
30- e amerai (il) Signore tuo Dio da tutto (il) tuo cuore e da tutta (la) tua anima e da tutta (la) tua mente e da tutta la tua forza”.
31- (Il) secondo (è) questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non vi è un altro comandamento più grande di questi>>.

La conferma (vv.32-33)

32- E lo scriba gli disse: <<Bene, maestro, hai parlato secondo verità (dicendo) che è uno e non vi è un altro oltre lui;
33- e l'amarlo da tutto (il) cuore e da tutto l'intelletto e da tutta la forza e l'amare il prossimo come se stesso (è) più grande di tutti gli olocausti e sacrifici>>.

La sentenza finale (v.34)

34- E Gesù, avendolo visto che aveva risposto saggiamente, gli disse: <<Non sei molto lontano dal Regno di Dio>>. E nessuno più osava interrogarlo.


Note generali

Questa disputa si ritrova in tutti tre i sinottici, ma cambia il contesto in cui è posta e l'approccio verso Gesù. Sia per Matteo che per Marco essa è collocata all'interno delle dispute giudaiche, ma un elemento importante le distingue tra loro: mentre Mt 22,34-35 vede in questa disputa un modo per mettere alla prova Gesù per coglierlo in fallo, per Marco, invece, lo scriba che interpella Gesù è mosso da una profonda onestà intellettuale ed ammirazione nei suoi confronti, così da ricevere gli elogi dello stesso Gesù (v.34). In questo scriba vi era solo una sincera ricerca della Verità, che s'intuisce da come Marco costruisce l'approccio tra i due. Non compare più l'espressione “prÕj aÙtÒn” (pròs autón), il cui significato era l'avvicinarsi “verso di lui”, ma nel senso negativo di andare “contro di lui”, come in 11,27 e 12,13.18, ma soltanto il verbo “proselqën” (proseltzòn), che significa avvicinarsi, accostarsi a qualcuno, esprimendo così soltanto un moto verso luogo; e parimenti non compare più l'espressione “per metterlo alla prova”, che invece compare sia in Mt 22,35b che in Lc 10,25.

È interessante rilevare questa benevola attenzione di Marco verso questo scriba, del quale mette in rilievo l'onestà intellettuale con cui si pone nei confronti di Gesù, la sua sete di Verità e quell'osservazione di Gesù, che lo vede non lontano dal Regno di Dio. È probabile che Marco veda in questo scriba quel giudaismo, che ha saputo apprezzare Gesù e ben disposto verso di lui fino a farsi suo discepolo, come Nicodemo o Giuseppe d'Arimatea (3,1a;19,38.39) e tutti quei giudei che guardavano a Gesù con interesse, ma anche con riserbo, per evitare le ritorsioni delle autorità giudaiche contro chi avesse riconosciuto in Gesù il Cristo (Gv 7,12-13; 9,22; 12,42)

Tuttavia, non va escluso che in questo scriba, che così si distingue dagli altri, dichiarandosi favorevole a Gesù, dal quale si sente dire che non è lontano dal Regno di Dio, proprio per la sua correttezza e onestà intellettuali, Marco veda se stesso, allorché ebbe modo di incontrarsi per la prima volta con l'annuncio di Pietro a Roma. È l'unica volta, infatti, che Marco cita il termine scriba al singolare, contro le altre venti volte che invece lo cita al plurale. Quindi, una sorta di cammeo, come similmente ritroviamo anche in Matteo, lo scriba che, entusiasta, decide di seguire Gesù in 8,19 e che ritroviamo, poi, in 13,52 a capo di una comunità credente27.

Quanto a Lc 10,25-37 la disputa viene collocata agli inizi del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che occuperà ben 10 capitoli (Lc 9,51-19,28) ed è proprio su questa strada, che porterà Gesù verso il Golgota, che compare un primo inciampo: uno scriba che vuole mettere alla prova Gesù, quasi una sorta di preludio dello scontro che avrà poi a Gerusalemme (Lc 20,1-47) e che lo porterà sulla croce. Anche la natura di questa disputa lucana ha una natura diversa rispetto a quella di Matteo e Marco. Per questi due sinottici la questione è meramente speculativa, si voleva sapere quale fosse il comandamento più grande o il primo dei comandamenti; per Luca, invece, la questione è soltanto etica: cosa fare per ottenere la vita eterna (Lc 10,25), mentre il come farlo viene illustrato dalla parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37). Luca, infatti, è un greco e risente del modo di fare filosofia, la cui finalità non è quasi mai speculativa, ma punta sempre al senso pratico del come vivere la propria vita. La filosofia, quindi, come modo di vivere saggiamente.

Tuttavia, per cogliere il senso della questione posta dallo scriba è necessario comprendere il contesto giudaico, a cui fa riferimento la questione.

La religione ebraica, fondata essenzialmente sull'esecuzione dei comandamenti, raccolti nella Torah, espressione concreta dell'Alleanza, si qualifica come una ortoprassi, cioè la correttezza dell'esecuzione del comandamento, quale espressione della stessa volontà di Dio. La corretta esecuzione dei comandamenti era fondamentale per rimanere nell'Alleanza e godere dei benefici della promessa, garantendo in tal modo la stessa identità dell'Israelita.

Tuttavia, questa scrupolosa cura, posta nell'osservanza-esecuzione della Torah, aveva portato a creare attorno ad essa un proliferare abnorme di comandamenti, una sorta di siepe protettiva, il cui intento era quello di preservare la Legge da qualsiasi possibile violazione, anche involontaria. Per un principio di solidarietà e di unità, infatti, violare un comandamento significava violare tutta la Torah e, quindi, porsi fuori dall'Alleanza e precludersi l'accesso alla salvezza. Si trattava di un principio rabbinico, secondo il quale chi non ha osservato uno dei 613 precetti non ha compiuto la Legge.

Per l'ebreo, infatti, non vi era distinzione tra i comandamenti, poiché tutti, in egual modo, esprimevano l'identica volontà di Dio, che in quanto tale andava scrupolosamente eseguita. Questa scrupolosa attenzione all'esecuzione della Torah aveva prodotto ben 613 comandamenti, che regolamentavano il vivere quotidiano del pio israelita; di questi 365 erano posti in forma negativa e 248 in forma positiva. Significativi sono i numeri: 365 si riferivano ai giorni dell'anno, quasi a dire che ogni giorno ha il suo comandamento, così che la Torah ricopre e pregna di sé ogni spazio vitale dell'uomo; mentre i 248 indicavano il numero delle ossa, di cui, secondo il Talmud, era composto il corpo umano. Anche questo numero era significativo, poiché indicava come la Torah è posta nel profondo dell'uomo stesso e lo sostiene lungo il cammino della sua vita, come lo scheletro sostiene il corpo.

Tuttavia, la pesante quantità di comandamenti, sempre in proliferazione e imposti quotidianamente su ogni pio israelita, era eccessiva e insopportabile. In tal senso, il Gesù matteano rileverà, contro i dottori della Legge, come questi “Legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle della gente, ma loro non vogliono muoverli neppure con un dito” (23,4). E similmente declasserà questo modo di esecuzione dei comandamenti, definendo la Torah orale, frutto della plurisecolare interpretazione degli scribi e dei maestri, come precetti di uomini: “Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7).

La coscienza di questa situazione imbarazzante era nota anche tra i dottori della Legge, per cui si era acceso tra loro il dibattito di quale fosse il comandamento più importante e tale che, in qualche modo, potesse ricomprendere tutti gli altri. La domanda posta dallo scriba a Gesù si inserisce in questo contesto di ricerca. Ma l'intento, secondo il racconto matteano e lucano, non era quello di raggiungere la verità, bensì quello di coinvolgere Gesù in qualche schieramento, che lo avrebbe travolto in dibattiti senza fine, svuotando l'originalità del suo insegnamento28.

La pericope in esame è scandita in tre parti: a) la domanda dello scriba e la risposta di Gesù, che formano una unità narrativa a se stante, circoscritta dall'inclusione data dalla domanda dello scriba, posta in apertura di questa disputa al v.28: “Di tutti, qual è il primo comandamento?” e dalla ripresa di questa domanda da parte di Gesù che, a conclusione, risponde che “Non vi è un altro comandamento di questi” al v.31; b) la seconda parte è data dalla ripresa della risposta di Gesù da parte dello scriba, che attesta come la pratica di questi due comandamenti sia superiore agli stessi sacrifici ed olocausti, introducendo una nuova questione: la prospettiva di un nuovo culto non più celebrato nel Tempio, ma nella propria vita, che lo stesso Gesù giovanneo attesterà in Gv 4,20-24; c) la sentenza finale di Gesù circa la posizione dello scriba rispetto alla novità portata da Gesù: il Regno di Dio.

Commento ai vv.28-34

Il v.28 è scandito in due parti: da un lato, introduce un nuovo personaggio, uno scriba e, quindi, un esperto della Torah; quelli che Luca definisce i dottori della Legge. Costui è un testimone di quanto era avvenuto nella disputa precedente con i Sadducei: egli infatti “ha udito” e “ha visto” ed attesta che Gesù ha risposto bene, emettendo, quindi, una valutazione di merito su quanto Gesù ha affermato sulla risurrezione. Ma dice nel contempo anche l'onestà intellettuale di questo scriba, ben disposto nei confronti di Gesù, tanto da meritarne gli apprezzamenti (v.34). Dall'altro, il v.28 pone la questione, oggetto della disputa: “Di tutti, qual è il primo comandamento?”. Quel “Di tutti” si riferisce ai 613 comandamenti che formano la Torah orale, definita in Mc 7,3.5 con l'espressione “Tradizione degli antichi”, ma che Gesù criticò apostrofandola come “precetti di uomini”: “Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mc 7,7; Mt 15,9) e che definì come un “pesante fardello”, che viene legato sulle spalle della gente (Mt 23,4a). Essa si era venuta a creare lungo i secoli per adattare la Torah scritta, quella che, secondo la Tradizione, Mosè ricevette direttamente da Dio sul monte Sinai, alle esigenze del vivere quotidiano ed aveva pari valore di quella scritta, essendone una interpretazione e, quindi, una derivazione diretta.

In mezzo a questa ridda di comandamenti, che opprimevano il vivere quotidiano della gente, trasformandolo in una continua ritualità da osservare, si rendeva indispensabile l'individuazione di quel comandamento fondamentale e principale che un po' li riassumesse tutti, così che questo dovesse formare da guida al pio ebreo nel suo vivere quotidiano. Il dibattito rabbinico era ampio, non sempre concorde e difficilmente individuabile. Un comandamento che lo scriba definisce come il “primo”, da cui tutti gli altri in qualche modo discendono e dipendono. Una definizione che richiama da vicino Gen 1,1: “In principio Dio creò il cielo e la terra”. In principio, quindi, “Dio”, da cui tutto discende e tutto dipende. Un comandamento, dunque, che avesse a che fare con Dio e ne definisse in qualche modo i rapporti con l'uomo nella dinamica della sua quotidianità.

I vv.29-31 rispondono alla questione posta dallo scriba riportando i due passi scritturistici: Dt 6,4-5 e Lv 19,18b. Il primo riguardante le relazione con Dio e il secondo quelle con il prossimo. Marco, tuttavia, a differenza degli altri due sinottici riporta anche l'apertura dello “Shema', Jisraél”: “Ascolta Israele, (il) Signore Dio nostro, è (il) solo Signore”, una preghiera, tratta da Dt 6,4-7, che il pio israelita era chiamato a recitare due volte al giorno, il mattino e la sera. Una preghiera che veniva recitata e celebrata con addosso, legate sul braccio sinistro e sulla fronte, due scatolette di cuoio nero in cui erano contenuti i testi di Dt 6,4-9; 11,13-21 e Es 13,1-10.11-16, in ottemperanza a Dt 6,8, denominate “teffilìn” in ebraico o “filatteri” in greco. Similmente, in ottemperanza a Dt 6,9, veniva appeso sullo stipite della porta la “mezuzah”, un piccolo rotolo di pergamena su cui era scritto il testo di Dt 6,4-9 e 11,13-21.

Il testo, quindi, riportato da Marco era ben noto presso il giudaismo, ma ciò che più colpisce è come Marco riporti la parte introduttiva dello “Shemà, Jisrael”, che assume in questo contesto il significato di un ultimo appello ad Israele, perché ascolti la voce dell'inviato definitivo di Dio, nella persona di Gesù: “Shemà, Jisrael”, “Ascolta, Israele”, quasi un invito a rileggere le Scritture dove si parla del Messia di discendenza davidica e ricomprenderle alla luce dell'evento Gesù, cosa che farà la chiesa primitiva. “Ascolta, Israele”, un pressante ed accorato invito all'ascolto, che si conclude con un amaro rimpianto: “Ascolta, popolo mio, ti voglio ammonire; Israele, se tu mi ascoltassi! […] Ma il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito” (Sal. 80,9.12). Le conseguenze di questo rifiuto traspariranno tragicamente, quasi in filigrana, dal cap.13.

L'esortazione all'ascolto viene fatta seguire dal primo comandamento, da cui tutti gli altri dipendono e discendono, poiché questi hanno come fondamento l'amore per Dio e ne sono espressione, poiché sono finalizzati a plasmare la vita del credente, orientandone l'esistenza verso Dio: “e amerai (il) Signore tuo Dio da tutto (il) tuo cuore e da tutta (la) tua anima e da tutta (la) tua mente e da tutta la tua forza”.

Amerai”, un'esortazione-comando che viene posta al futuro indicativo per sottolineare come questo Amore per Dio deve pervadere e permeare la vita di ogni credente, ne deve riempire l'intero spazio esistenziale. Un comando, che tuttavia, non va inteso in senso oppressivo, ma indicativo, poiché tratteggia la strada che il credente è chiamato a percorrere per realizzare se stesso. Tuttavia rimane sempre nella disponibilità dell'uomo anche il rifiuto. Ed è proprio questo il dramma della storia della salvezza individuale o sociale: essa può anche fallire, poiché è lasciata alla discrezionalità dell'uomo accettare o meno la proposta di salvezza. Ma questo rientra nel conto, poiché, quando Dio creò l'uomo, ha creato, sia pur a livello creaturale, un altro se stesso (Gen 1,26-27), libero dunque, anche di rifiutarlo, anche se questo non sarà privo di drammatiche conseguenze, che simbolicamente sono state tratteggiate in Gen 3,15-24.

All'esortazione all'amore vengono fatte seguire quattro modalità con cui questo amore deve esprimersi nell'uomo. Ogni modalità è espressa con un “da”, che ha il suo corrispondente greco in “ek”, una particella che esprime prevalentemente il “moto da luogo” e quindi la provenienza e l'origine, benché essa talvolta indichi il modo e la maniera, per cui in genere si traduce con la particella “con”. Ho tuttavia preferito dare un senso di “moto da luogo” per evidenziare come questo amore per Dio deve provenire dalle profondità dell'uomo, così da esprimerne l'essenza stessa del suo essere, poiché se tale amore per Dio non coinvolge il credente nel suo intimo più profondo, questo non solo non è più amore, ma ne diventa una parodia, una menzogna esistenziale, che ci tranquillizza, ma nel contempo ci condanna. Un amore quello per Dio, quindi, che deve essere totale e totalizzante. Una totalità che viene espressa per ben quattro volte da quel “Ólhj” (óles), che corrisponde al latino “totus” e significa “tutto quanto; tutto intero” e, quindi, non ci devono essere spazi di accomodamento, che il credente si riserva per se stesso. O è tutto quanto o non è amore.

Un amore per Dio che sgorga dal “cuore”, che per gli antichi era il centro vitale dell'uomo; la sede delle emozioni e della volontà; dall'anima, espresso in greco da “yucÁj” (psichês), che non va inteso nel senso di spirito, ma, secondo l'antropologia degli antichi, come il luogo d'incontro e di sintesi del corpo e dello spirito, due realtà altrimenti tra loro inconciliabili, così che il termine esprime l'interezza della vita dell'uomo. A tal punto Marco prosegue prendendosi una libertà nella traduzione rispetto al testo originale “dun£meèj” (dinameós), che letteralmente significa “potenza, potere”, ma anche “ricchezze, beni” con cui esprimere il proprio potere e la propria autorità. Un modo equivoco, che avrebbe potuto spingere il lettore ad un fraintendimento o ad una cattiva interpretazione, così ché Marco scinde quel “dun£meèj” in “diano…aj” (dianoías, mente, intelletto) e in “„scÚoj” (ischíos, forza, vigore, gagliardia), imprimendo quindi a quel “dinameós” un senso più spirituale e non storicizzante, nonché, specificandone il senso, rivela il pensiero di Marco, anche lui, come quello scriba del suo racconto, dottore della legge ed esegeta della Torah.

All'amore totalizzante per Dio, Marco fa seguire il secondo comandamento, tratto da Lv 19,18b. Secondo non perché valga meno del primo, ma perché questo comandamento va aggiunto a completamento del primo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. Non vi può essere, infatti, un totale amore per Dio se si esclude quello per il prossimo: “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20b). E in tal senso Mt 25,40.45 attesterà che qualunque cosa venga o non venga fatta nei confronti dell'altro viene fatta o non fatta a Gesù stesso, rilevando come nell'altro sia sacramentalizzato Gesù stesso.

Si passa, dunque, dal verticale (v.30) all'orizzontale. Anche qui il tempo del verbo è posto al futuro, proiettando in tal modo l'impegno dell'uomo sull'intero arco della sua vita. La responsabilità verso l'altro, qui, passa attraverso se stessi; parametro di raffronto non è Dio, ma se stessi. Il punto su cui lavorare, dunque, è “se stessi”, che va ricompreso alla luce della fede. È necessario, pertanto, imparare ad amare, a rispettare e ad accettare se stessi per poter accedere all'amore, al rispetto e all'accoglienza degli altri. Non si tratta soltanto di un principio psicologico, di una semplice proiezione inconscia del proprio ego sull'altro, ma possiede in sé anche una dimensione teologica, che rimanda all'immagine e alla somiglianza dell'uomo a Dio (Gen 1,26). L'uomo icona di Dio, che possiede in sé la medesima sacralità di Dio stesso. Per il credente, infatti, il suo relazionarsi con gli altri, al di là dei sentimenti o delle emozioni personali, diventa un segno, che lo spinge a trascendere il semplice rapporto umano, per agganciarsi ad una realtà superiore presente nell'altro (Mt 25,34-45); una realtà superiore che si fa prossima a te nel prossimo e ti interpella; così come questa realtà superiore, presente anche in te e di cui tu sei immagine e somiglianza, si fa in te prossima all'altro. Una corretta coscienza di sé, illuminata e alimentata dalla fede, che consente di accedere alle realtà superiori, sono poste a fondamento dell'amore del prossimo, che trova dunque il suo punto di riferimento in un “se stessi” illuminato dalla fede.

Luca, nel medesimo contesto narrativo (Lc 10,25-28), con il racconto della parabola del Buon Samaritano (Lc 10,30-37) va oltre alla tradizionale definizione di “prossimo”, ridefinendolo come colui che “si fa prossimo” per gli altri. Un rovesciamento di concetto, che spinge il credente a non sentirsi più vittima di chi gli tende la mano, ma è lui, il credente, che si apre all'altro e gli tende la mano nelle sue difficoltà. Quindi, da un atteggiamento passivo si passa ad uno attivo.

Il v.31 termina riprendendo in qualche modo la domanda dello scriba, alla ricerca del comandamento più grande di tutti, circoscrivendo in tal modo la quarta disputa e qui terminandola: “Non vi è un altro comandamento più grande di questi”. E similmente gli altri due sinottici terminano questa disputa con la risposta di Gesù.

Tuttavia, in Marco vi è l'aggiunta di una seconda pericope, vv.32-34, che probabilmente è una interpolazione successiva operata dalla chiesa giudeocristiana, se non dallo stesso Marco in una delle sue revisioni, che aggiornavano il suo vangelo. Quest'ultimo, non va mai dimenticato, è una predicazione scritta, che segue, quindi, i continui sviluppi narrativi e teologici della stessa.

La pericope riprende il tema della disputa che viene sintetizzato nei due vv.32-33 e rielaborato sotto forma di riflessione. Nel primo, v.32, parallelamente al v.29, viene ripreso Dt 6,4 citato da Gesù; mentre il v.33 accoppia e mette sullo stesso piano l'amore di Dio e quello del prossimo, lasciando intuire come il primo passa attraverso il secondo e sono tra loro inscindibili; ma nel contempo li rilancia in una nuova prospettiva: il viverli costituisce il nuovo culto, che viene celebrato nella vita e con la vita e non più nel Tempio, che qui si percepisce come ormai superato. Una riflessione, quindi, che riprende il pensiero dei profeti29, che hanno sempre cercato di fornire una lettura sapienziale della Torah, lasciando trasparire l'aspetto spirituale che essa cercava di inculcare nel pio israelita, superandone la comprensione meramente legalistica e storicizzante. Su questa linea si pone lo stesso Gv 4,19-24.

La quarta disputa si chiude con il v.34 ed è una valutazione positiva su quel giudaismo che ha saputo superare i limiti del pensiero mosaico, dandone una interpretazione più sapienziale che legalistica e storicizzata, avvicinandosi così al pensiero cristiano: “Non sei molto lontano dal Regno di Dio”.

Il v.34 si chiude con l'osservazione del narratore: “E nessuno più osava interrogarlo”. Una constatazione che serve a Marco per giustificare il successivo libero intervento di Gesù, senza che nessuno lo provocasse con qualche altra domanda, com'era avvenuto nelle precedenti quattro diatribe.

La quinta disputa: il messia davidico (vv.35-37)

Testo

35- E rispondendo Gesù diceva, insegnando nel tempio: <<Come mai dicono gli scribi che il Cristo è figlio di Davide?
36- Davide stesso disse nello Spirito Santo: “Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra finché ponga i tuoi nemici sotto ai tuoi piedi”.
37- Davide stesso lo dice Signore, e come mai è suo figlio?>>. E molta folla lo ascoltava volentieri.


Note generali

La pericope in esame è circoscritta da un'inclusione data dal termine “figlio”, che si trova ai vv.35.37, con riferimento a Davide in entrambi i casi. Essa, dunque, forma un'unità narrativa a se stante, che ha per tema la figliolanza davidica del messia atteso.

La questione già si era posta nel racconto del cieco di Gerico, che si era rivolto a Gesù chiamandolo per due volte “Figlio di Davide” (10,47.48); è stata poi ripresa dalle acclamazioni della gente, che accompagnava Gesù nella sua entrata a Gerusalemme: “benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide” (11,10a). In entrambi i casi si metteva in evidenza il messianismo davidico riferendolo a Gesù, ma in entrambi i casi la sua lettura era meramente orizzontale. Il popolo d'Israele attendeva un messia che lo riscattasse dalla sua condizione di popolo conquistato da Roma e ad essa assoggettato e rianimasse il culto in Israele, riconducendo il popolo agli splendori della gloria del regno di Davide. È questo il senso di quel “benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide” riferito a Gesù. E a questa restaurazione del regno davidico si riferivano i discepoli, rivolti a Gesù, reincontrato dopo la sua risurrezione: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” (At 1,6); e similmente i due discepoli di Emmaus, che speravano che Gesù liberasse Israele dal potere romano (Lc 24,21a). E così i discepoli che discutevano tra loro chi fosse il più grande, il più importante del gruppo e, quindi, il possibile erede di Gesù (9,34); o parimenti i due figli di Zebedeo che cercavano di accaparrarsi i posti di maggior prestigio nel regno (10,35-37). Un messia, dunque, dai tratti meramente storici, quelli di un conquistatore che sapesse riaffermare storicamente il regno di Israele sia politicamente che religiosamente.

Ora con questo ultimo intervento sul tema della natura del messia, che costituisce la quinta disputa, viene precisato il senso del messianismo di questo Messia atteso, in cui si legge la sua ricomprensione da parte della chiesa nascente, la cui interpretazione viene posta sulle labbra di Gesù, per validarne la veridicità.

Il tono della pericope è quello di una dissertazione di tipo accademico, una sorta di speculazione teologica, che riflette il dibattimento rabbinico sulla natura di questo messia atteso; e lo attesta quel “rispondendo” con cui si apre la pericope. La risposta che qui Gesù dà non è una risposta diretta a qualche domanda, infatti al v.34 si dice che “nessuno più osava interrogarlo”, ma in senso più generico alla questione che veniva discussa nel giudaismo. Si tratta, quindi, di una precisazione all'interno di un dibattito.

Il tono qui è velatamente polemico ed è animato dalla voce della chiesa primitiva la quale riteneva che non solo Gesù fosse stato costituito Messia, Signore e Figlio di Dio nella risurrezione (Rm 1,2-4; Eb 1,5-13), ma che anche Davide nel Sal 110,1 lo abbia riconosciuto tale. Ed è attorno a questo salmo che gira quest'ultima disputa innescata, questa volta, da Gesù.

Commento ai vv.35-37

Il v.35a introduce la pericope in modo complesso e presenta in un certo qual modo le credenziali di questa disputa: a) il v.35 si apre con il verbo “¢pokriqeˆj” (apokritzeìs), che se da un lato significa “rispondere”, in riferimento ad una domanda o ad un dibattito in corso, come in questo caso, esso assume anche il significato di “separare, distinguere, secernere, discernere, operare una scelta su qualcosa” e, quindi, in ultima analisi, sentenziare un giudizio di merito su di una determinata questione. L'apparire di questo verbo in questo contesto lascia intendere che qui ci si trova di fronte ad una questione importante e chiarificativa; una questione di indirizzo per meglio comprendere il senso del messianismo davidico; b) si prosegue, poi, attestando che Gesù “sta insegnando” e, quindi, quanto segue assume un significato di ammaestramento e ne possiede l'autorità, che gli deriva dal suo Maestro; c) ed infine, si precisa il luogo dove tutto ciò avviene: “nel tempio”, che è il cuore del culto giudaico. Ciò significa che la questione riguardante il messianismo davidico costituisce un elemento importante e fondamentale del pensiero e della cultura giudaica e con questa ha a che vedere.

Questa sorta di disputa, ma che in realtà assume i toni di una dissertazione accademica, non priva di una certa polemica, si sviluppa su tre livelli:

  1. Si espone il caso: gli scribi attestano che il Cristo, cioè il Messia, è figlio di Davide, quindi di discendenza davidica. Ci si muove, quindi, su di una mera linea storica e umana (v.35);

  2. citazione scritturistica. Il v.36 richiama il Sal 110,1, un salmo di intronizzazione regale, attribuito a Davide. Il testo originale, tratto dalla LXX (Sal 109,1), dice: “Oracolo del Signore al mio Signore: <<Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi>>”. Qui è il salmista che riporta l'oracolo di Jhwh rivolto a Davide, chiamato dal salmista “mio Signore”. Quindi il vero senso è: “Il Signore dice a Davide, siedi alla mia destra”. Il Sal 110,1, qui citato da Marco, gioca invece sul titolo di “Signore”, cambiando i soggetti di riferimento di quei due “Signore”, per cui si avrà: “Disse il Signore al mio Signore”, in cui il primo “Signore” è attribuito a Davide, che si rivolge “al suo Signore”, inteso qui come il messia. Quindi la comprensione che Gesù ha di questo salmo, (in realtà qui è la voce della chiesa primitiva che sta parlando), è che Davide, a cui è stata promessa una stabile discendenza, si rivolge a questa sua discendenza messianica, chiamandola “mio Signore”, attribuendole in tal modo una dimensione superiore a se stesso, dai tratti divini. La reale interpretazione di questo passo, Sal 110,1, viene data da Luca in At 2,29-36, che sintetizza il pensiero della chiesa primitiva in merito a questo salmo. Questa attestazione di Davide viene avvalorata dalla sua introduzione: “Davide stesso disse nello Spirito Santo”, come dire che Davide nel dire queste cose fu ispirato da Dio stesso e, pertanto, ci si muove sul piano della rivelazione divina;

  3. Quesito: Il v.37a riporta la stoccata finale, che va compresa non nel senso originale del Sal 109,1, ma nel senso successivamente attribuitogli dalla chiesa primitiva, che ha riletto le Scritture in chiave cristologica: “Davide stesso lo dice Signore, e come mai è suo figlio?”. Marco, e di conseguenza gli altri due sinottici che da Marco dipendono, gioca sulla contrapposizione del binomio che definisce il messia davidico, contrapponendo in realtà il pensiero giudaico, secondo il quale il messia è figlio di Davide, cioè di discendenza davidica e, quindi, storico-umana; a quello reinterpretato e ricompreso dalla chiesa primitiva, secondo la quale il Messia è il Risorto (At 2,29-36). Vi è quindi una ricomprensione della figura messianica: da meramente umana a trascendentale, dimensione quest'ultima che coincide con quella di Gesù.

Il v.37b chiude la quinta disputa con il plauso della folla che ascolta volentieri Gesù, perché, come dissero subdolamente i farisei affiancati dagli erodiani: “sappiamo che sei veritiero e non t'importa di nessuno, poiché non guardi la faccia degli uomini, ma insegni secondo verità la via di Dio”. Una folla in cui Marco vede probabilmente i credenti, quelli che con semplicità d'animo e sincerità di cuore hanno accolto la Parola.


L'ultima polemica (vv.38-44)


Testo a lettura facilitata

Un perbenismo formale e contraddittorio (vv.38-40)

38- E nel suo insegnamento diceva: <<Guardatevi dagli scribi che vogliono passeggiare in abbigliamenti e (amano i) saluti nelle piazze
39- e (i) primi seggi nelle sinagoghe e (i) primi posti nei banchetti;
40- i quali divorano le case delle vedove e in apparenza pregano a lungo; costoro riceveranno un più abbondante giudizio>>.

L'offerta gradita a Dio (vv.41-44)

41- E sedutosi davanti alla tesoreria osservava come la folla gettasse del denaro nella tesoreria. E molti ricchi (ne) gettavano molti.
42- E venuta una vedova povera gettò due monetine, cioè un quadrante.
43- E convocati i suoi discepoli disse loro: <<In verità vi dico che questa vedova povera gettò più di tutti quelli che gettarono nella tesoreria;
44- tutti, infatti, gettarono da ciò che sopravanzava loro; questa, invece, dalla sua penuria gettò tutto quanto aveva, l'intera sua sostanza.


Note generali

In un contesto arroventato dalle dispute con le autorità religiose, la pericope, vv.38-44, non stona, ma è il tocco finale che attesta il livello di tensione che serpeggiava tra Gesù e le autorità religiose o, per meglio dire, tra la nascente chiesa e il giudaismo, da cui si stava staccando e contrapponendo. Un esempio significativo lo si ha in Mt 23, un intero capitolo dedicato al giudaismo e alle autorità giudaiche, che mette in rilievo con un linguaggio duro, aggressivo e violento tutte le discrepanze e le contraddizioni di un culto giudaico ormai svuotato di ogni significato e ridotto ad una mera formalità legalistico-cultuale, così come formale e scrupolosamente obbediente alla lettera della Legge, ma completamente difforme dal suo spirito era la religiosità e il modo di viverla dei giudei. Tutto, quindi, si risolveva in una esecuzione formale, ma che non intaccava il proprio modo di vivere.

Marco riporta qui due esempi di questo modo di vivere scollato dalle esigenze di Dio, anzi, contrapposto a queste: il primo, molto duro e aggressivo, riguarda il comportamento degli scribi (vv.38-40); il secondo riguarda l'atteggiamento interiore con cui si accompagna la propria offerta, il cui valore non va legato alla quantità di denaro donato, ma alla generosità con cui si dona (vv.41-44).


Commento ai vv. 38-44

Un perbenismo formale e contraddittorio (vv.38-40)

Il v.38 si apre ricordando al lettore che si è ancora in un contesto di insegnamento e, quindi, dando continuità narrativa alle cinque dispute, rilevando qui il clima di tensione che le ha animate. Un insegnamento che trae spunto dal modo contraddittorio di vivere degli scribi, che amano pavoneggiarsi in pubblico e presentarsi come gente perbene, ma in realtà sono persone prive di scrupoli morali, che si mascherano dietro una vita pubblica religiosa. Quanto questo quadro, collocato in un contesto di dura polemica, sia vero non ci è dato di sapere, ma certo non contrasta se posto a confronto con il cap.23 di Matteo, bensì lo va ad integrare, rilevando in tal modo tutti i danni che una vita religiosa non vissuta nello spirito e nella sincerità del cuore può creare. Un simile comportamento ha un comune denominatore: una sostanziale amoralità, in cui l'ego vive e si alimenta a spese dell'altro, soprattutto nei confronti di chi non si sa difendere o non ne ha i mezzi per farlo. Diventa tutto ciò ancor più deprecabile e condannabile. Per questo la pericope termina con una netta condanna di questa categoria di persone: “costoro riceveranno un più abbondante giudizio”.

L'invettiva si apre con un “Guardatevi dagli scribi”. È singolare come Marco, egli pure scriba, nato e vissuto nella diaspora di Roma, se la prenda con i propri colleghi e ne prenda le distanze. Forse è proprio questa sua presa di coscienza del modo di vivere iniquo e contraddittorio che lo ha spinto a lasciare la categoria, per abbracciare il messaggio di amore, di condivisione e di fraternità (At 2,42-45) proposto dalla predicazione di Pietro a Roma. Marco, dunque, un personaggio moralmente integro, ricercatore e amante della Verità, pronto a rompere senza indugi con la propria categoria di appartenenza, di cui denuncia i soprusi e li condanna, proponendoli come un esempio da non imitare: “Guardatevi dagli scribi”.

L'offerta gradita a Dio (vv.41-44)

Il v.40a raccontava come gli scribi fossero dei divoratori di case delle vedove. Un pensiero questo che serve a Marco per agganciarsi con quest'altro racconto (vv.41-44), dove c'è come protagonista una vedova, la quale saprà impartire, nonostante la sua precaria condizione di vita, una lezione di totale abnegazione di sé in favore del Tempio, in ultima analisi di Dio stesso.

Due comportamenti contrapposti, narrativamente infilati uno dietro l'altro, perché meglio risalti il contrasto tra predatori e prede e tra ricchi e poveri. Un confronto da cui emerge come le offerte fatte dai donatori benestanti non vanno ad intaccare il loro patrimonio e comunque non incidono sulla qualità della loro vita, anzi ne traggono un pubblico vantaggio, perché tutti vengono a sapere della loro “generosa” offerta, contrariamente alla vedova, che dà tutto ciò che ha e nulla trattiene per se stessa. Un dono a cui è legata la sua stessa sopravvivenza e la sua vita.

Il v.41 apre il breve racconto sulla vedova presentando Gesù che, seduto di fronte alla tesoreria del Tempio, posta nel cortile delle donne, raggiungibile attraverso la porta d'entra al Tempio, detta Bella, stava osservando quanti portavano le loro offerte nella stanza del tesoro del Tempio. Da un punto di vista topografico, secondo quanto racconta Marco, Gesù doveva essersi seduto sulla gradinata che sale alla porta bronzea detta Nicanore, che introduce nel cortile riservato ai sacerdoti, dove si compivano i sacrifici. L'unico posto dove ci si poteva sedere nel cortile delle donne. Per trovarsi di fronte la stanza del tesoro, posta ad est della gradinata, Gesù doveva essersi seduto sul lato est della gradinata, cioè sul suo lato destro. Di fronte si trovava la stanza del tesoro, dove il pio israelita, sotto la vigile presenza del guardiano della stanza, compiva la sua offerta. Da qui Gesù vede la scena delle offerte compiute dai ricchi, ma anche dalla povera vedova.

Gesù, dunque, si trova seduto davanti ala tesoreria del Tempio ed osservava. Il sedersi di Gesù in questo contesto assume un duplice significato: da un lato, egli sta continuando il suo insegnamento, che aveva intrapreso ai vv.35a e 38a, ma questa volta riservato ai suoi discepoli, che convoca attorno a sé (v.43a). Il sedersi, infatti, è la caratteristica posizione del maestro che impartisce il suo insegnamento; dall'altro, la posizione di Gesù, sedutosi davanti alla tesoreria del Tempio, mentre osserva attentamente quelli che compiono la loro offerta, lascia trasparire la postura propria del giudice che si pone di fronte all'imputato o al ricorrente e ne valuta la posizione, per poi emettere la sua sentenza, esposta ai vv.43-44, ma che nel contempo è anche insegnamento ai suoi discepoli.

Il v.42 presenta il personaggio principale, una vedova, che Marco definisce povera. Un aggettivo qualificativo quest'ultimo che lascia trasparire la condizione sociale di questa vedova, una delle categorie sociali assieme agli orfani, più a rischio in quel contesto sociale e più esposte alle angherie e ai soprusi. La sua offerta, solo due monetine, testimonia il suo stato di indigenza.

Interessante la conversione valutaria, che Marco fa qui per i destinatari del suo vangelo, che li rivela come romani: “due monetine, cioè un quadrante”. Il quadrante era la più piccola delle monete romane, il cui peso, ai tempi dell'imperatore Nerone (37-68 d.C.), epoca in cui il vangelo di Marco stava nascendo, si aggirava intorno ai due grammi, e, come dice il suo stesso nome “quadrans”, valeva un quarto di asse, la moneta romana base. Un valore, dunque, di poco conto, equiparabile a pochi centesimi. Ma tutto questo rappresentava il suo avere, a cui era legata l'intera sua esistenza e costituiva la differenza tra il vivere e il morire. Ed è a tal punto che il giudice e il maestro convoca attorno a sé i suoi discepoli (v.43a) per impartire il suo insegnamento ed emettere nel contempo la sua sentenza, che è scandita in due parti: la sentenza vera e propria (v.43b) e la motivazione della stessa (v.44).

Il v.43b apre con la formula solenne del giuramento: “In verità vi dico”, che pone la sentenza e l'insegnamento sotto il segno della veridicità: “questa vedova povera gettò più di tutti quelli che gettarono nella tesoreria”. Una sentenza che vede contrapposte due parti: questa povera vedova, nella parte vincente, contro tutti gli altri offerenti, soccombenti.

Un rovesciamento di valori e di prospettiva, la cui motivazione viene data al successivo v.44: “tutti, infatti, gettarono da ciò che sopravanzava loro; questa, invece, dalla sua penuria gettò tutto quanto aveva, l'intera sua sostanza”. La valutazione, quindi, non è posta sul valore venale dell'offerta, ma su quanto questa ha a che vedere con la sincerità del proprio cuore e della propria vita. Ciò che assegna valore o disvalore alle cose è ciò che risiede nel cuore dell'uomo e non nelle cose. La sentenza capovolge i parametri di valutazione degli uomini, rilevando tutta la distanza che li separa da quelle di Dio (Is 55,8-9), fino a giungere al paradosso: il niente che questa povera donna ha dato sopravanza di gran lunga le cospicue offerte dei ricchi. E il motivo di questo paradosso sta nel fatto che “questa, invece, dalla sua penuria gettò tutto quanto aveva, l'intera sua sostanza”. Questa vedova trasse tutto quello che aveva “dalla sua penuria” (™k tÁj Øster»sewj aÙtÁj, ek tês isteréseos autês). In altri termini, il suo stato di privazione non le impedì di raschiare il fondo della sua penuria, raccogliendo tutto quello che aveva, due monetine, che definiscono ancor prima che il valore dell'offerta, lo spessore del suo stato di penuria. Non si tratta, dunque, di un'indigenza qualsiasi, come tanta ve n'era a quel tempo, ma di un grave stato di povertà, che metteva in discussione la sua stessa sopravvivenza. In ultima analisi, questa vedova, gravemente indigente, tra se stessa e Dio ha anteposto Dio ala sua stessa vita. Un esempio parallelo a questo si trova nel racconto della vedova di Zarepta (1Re 17,8-16), che antepose le pretese dell'uomo di Dio, Elia, alla sua sussistenza e a quella di suo figlio, ormai giunte al termine. Solo un po' d'olio e una manciata di farina li separava dalla morte. Questa, tuttavia, non esitò, credette alla parola del profeta e in questa trovò la sua salvezza.



NOTE

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10, dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2La parabola può considerarsi una metafora o un'allegoria, che nel suo narrare coinvolge l'ascoltatore in prima persona e lo spinge a dare un giudizio di merito. La natura stessa della parabola e la sua dinamica narrativa, infatti, hanno questa precipua finalità: essere un racconto in cui l'ascoltatore è anche attore ed è chiamato ad identificarsi con i personaggi su cui è chiamato ad esprimersi, emettendo di fatto un giudizio su se stesso. - Sulla questione delle parabole, cfr. Sul significato narrativo delle parabole cfr. G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, Indagine storica, Centro editoriale dehoniano, Bologna 2002 – pagg. 299-310

3Cfr. Sal 66,2-8; 85,9; 96,6; Is 2,2-5; 25,6-7; 52,10; 56,6-7; 60,1-22; Ger 3,17; Ez 39,21; Tb 14,6;

4Cfr. Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27

5Cfr. Ef 2,19-22; 1Pt 2,4-10

6Cfr. Es 32,9; 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; 2Cr 30,8; Ez 3,7

7Cfr. Mt 25,40.45; Mc 12,29-31; 1Gv 4,20

8Cfr. Sal 79,9-16; Is 3,14-15; 5,1-7; Ger 2,21; 12,10; Na 2,2; Os 10,1

9Anche Giovanni userà l'immagine della vigna, che tuttavia, non raffigura più Israele, ma Gesù stesso (Gv 15,1), che ad Israele si è sostituito.

10V. precedente nota n.8

11Cfr Os 1,9; 2,25

12L'impianto di un vigneto rendeva necessario, di norma, il terrazzamento delle pendici e la rimozione delle pietre presenti nel terreno, pietre che venivano poi riutilizzate per costruire i muretti di rinforzo, ma che con il passare del tempo venivano accumulate ai bordi del campo. Attorno al vigneto veniva piantata anche una siepe di lycium e cespugli di acacia, oppure venivano costruiti muri bassi sui quali venivano poggiati i rami del poterium spinosum per tenere lontani ladri e animali feroci (Sal 80,13-14). Una torre di guardia o una casetta di pietre servivano d'estate, come fresco riparo, quando i lavoratori vivevano nella vigna. Attorno al campo recintato veniva accuratamente scavato un fossato e, una volta dissodato il terreno, venivano impiantate le le giovani vigne a una distanza di circa 2,5 mt. Su di un'altura sovrastante la vigna, veniva edificata una costruzione di legno coperta, la torretta di guardia, dalla quale il proprietario e la sua famiglia potevano sorvegliare il lavoro durante la vendemmia. Quando i grappoli d'uva erano maturi venivano raccolti nei canestri e portati ai torchi, spesso scavati nella roccia, dove venivano torchiati o pigiati dagli aiutanti fra grida e canti di gioia. Il vino in fermentazione veniva posto in otri nuovi di pelle di capra o in grandi vasi di terracotta. Gli esattori delle imposte chiedevano una parte dei prodotti delle vigne e i debiti accumulati venivano saldati spesso con del vino, talvolta usato anche come oggetto di baratto. La vigna era simbolo di pace e di prosperità, come l'olio e il grano e simboleggiava Israele (Sal 80,9 e Is 5,1-7).

13Cfr. Gb 1,10; Sir 28,24; 36,25; Is 5,5;

14Cfr. Es 19,5-6; Dt 30,9-10; Ne 9,29b; Sal 17,21-22; 85,2; 96,10; 102,17-18; 118,80.93.173;131,12; 147,9 Prv 2,1-8; 3,1-2; 4,4-6; 7,1-5; Sir 6,37; 1Re 2,3; 3,14; 9,4-7.

15Nell'antichità le torri nel loro slanciarsi verso il cielo erano concepite come il punto di collegamento tra Dio e gli uomini. Si pensi in tal senso alle ziqqurat dell'antica Mesopotamia, alla stessa Torre di Babele, quale tentativo di ristabilire un punto di collegamento tra Dio e gli uomini, spezzato dal peccato originale. Di fatto una sfida lanciata a Dio. Essa è il punto sicuro all'interno della città, estremo baluardo dei nemici, ma anche, poste alle mura della città, diventano sua difesa. Tutti questi significati della torre sono applicabili al Tempio e allo stesso Jhwh. - In tal senso cfr. le voci “Torre” e “Tempio” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

16Cfr. Is 63,1-6; Gl 4,13; Ap 14,19-20; 19,15.

17Cfr. La voce “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

18Cfr. Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,32-33; Ef 2,20; 1Pt 2,4.6-8

19Cfr. Gv 4,44; 5,30; 6,38

20Il sistema tributario gravava soltanto sui residenti nelle provincie e privi della cittadinanza romana. Esistevano soltanto due tipi di tributi, il tributum soli, che corrispondeva alla nostra tassa patrimoniale sulle proprietà ed era prelevata in misura fissa per tutti. In Siria, da cui la Palestina dipendeva, la percentuale del prelievo era dell' 1%; e il tributum capitis era un'imposta sulla persona, anche questa in misura uguale per tutti e corrispondente ad un denaro, il cui valore equivaleva alla paga giornaliera di un operaio. Essa era applicata sia sugli uomini che sulle donne a partire dai 14 ai 65 anni per i primi e dai 12 ai 65 per le seconde. Per determinarne la quantità e chi ne fosse soggetto, venivano fatti periodicamente dei censimenti. Oltre a queste due imposte dirette, Roma esigeva dalle province anche tutta una serie di imposte indirette sul movimento delle merci. - Cfr. la voce “Tassazione” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, prima edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005; e J. S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004.

21Cfr. A. Poppi, I quattro Vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S. Antonio Editrice, Padova, 1997

22Cfr. Es 20,4; Dt 4,16.23.25; 5,8; 27,25

23Cfr. Is 44,28; 45,1-13; Gv 19,10-11; Ef 3,14-15.

24Sulla questione del levirato cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; pagg.47-48

25Sulla questione cfr. la voce “Sadducei” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, prima edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005. Cfr. anche Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, XIII,173; 293; 297; 298; XVIII,16 e in Guerra Giudaica, II,164-165.

26Dt 25,5-10 recita testualmente: “Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele. Ma se quell'uomo non ha piacere di prendere la cognata, essa salirà alla porta degli anziani e dirà: Mio cognato rifiuta di assicurare in Israele il nome del fratello; non acconsente a compiere verso di me il dovere del cognato. Allora gli anziani della sua città lo chiameranno e gli parleranno; se egli persiste e dice: Non ho piacere di prenderla, allora sua cognata gli si avvicinerà in presenza degli anziani, gli toglierà il sandalo dal piede, gli sputerà in faccia e prendendo la parola dirà: Così sarà fatto all'uomo che non vuole ricostruire la famiglia del fratello. La famiglia di lui sarà chiamata in Israele la famiglia dello scalzato”.

27Nel vangelo di Matteo compare per 22 volte il termine “scribi” posto al plurale. Soltanto due volte esso compare al singolare in Mt 8,19, dove “uno scriba si avvicinò e gli disse: <<Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai>>”; e in 13,52, dove Gesù dice: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. È interessante notare come questo scriba venga colto all'inizio della sua vocazione in Mt 8,19 e poi ripreso in Mt 13,52 dove lo si vede come già “divenuto discepolo” e probabilmente un discepolo che ha un posto di responsabilità all'interno della comunità credente, poiché si parla di “padrone che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. Qui il riferimento è alla capacità di questo scriba di saper coniugare la ricchezza della Tradizione dell'Alleanza con la novità dell'insegnamento di Gesù, che è venuto per dare compimento alla Legge e ai Profeti (Mt 5,17). La singolarità di questi due versetti, unici in tutto il vangelo matteano, se posti l'uno di seguito all'altro, parlano dell'evoluzione di una sequela di un determinato scriba, che si stacca da tutti gli altri, lasciando intravvedere in qualche modo la figura dello stesso Matteo. Una sorta di cammeo alla Hitchcock, se mi è consentito il paragone profano.

28Sulla questione fin qui trattata si cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, Edizioni S.Paolo, Cinisello Balsamo, 2005; P. De Benedetti, Introduzione al Giudaismo, ed. Editrice Morcellania, Brescia 2001; G. Stemberger, La religione ebraica, ed. Centro editoriale dehoniano, Bologna 1998

29Cfr. 1Sam 15,22; Is 1,10-17; Am 5,21-24; Os 6,6; Sal 50,18-19;