IL VANGELO SECONDO MARCO
L'entrata
in Gerusalemme e
l'instaurazione
di un nuovo culto1
Cap. 11, 1- 33
Commento
esegetico e teologico
a cura di
Giovanni Lonardi
Note generali alla
terza parte (11,1-15,47)
Con il cap.11 si apre la terza parte del vangelo di Marco2, che comprende i capp.11,1-15,47, che, da un lato, raccontano l'attività missionaria di Gesù a Gerusalemme (vv.11,1-13,37); dall'altro, la sua passione e morte (14,1-15,47).
L'intera attività missionaria di Gesù qui a Gerusalemme, fulcro del culto giudaico, consiste esclusivamente nel suo insegnamento e si svolge prevalentemente nel Tempio, dove vi accede non appena giunto a Gerusalemme (v.11a). Due, quindi, gli elementi che emergono: la centralità del Tempio, quale luogo di preghiera e di un nuovo culto, preannunciato dal gesto profetico della cacciata dei venditori dal Tempio, dove Gesù farà risuonare la sua Parola. Sarà questo il tema centrale dell'intero cap.11
Ma Gerusalemme, centro del potere religioso e civile, diviene anche il luogo dello scontro ideologico finale tra tale potere e Gesù, dando origine alle cinque dispute giudaiche, che occupano la sezione delimitata dai vv.11,27-12,37, e che prelude in qualche modo all'arresto di Gesù e alla sua condanna a morte (14,1-2).
Dopo questo scontro, Gesù uscirà definitivamente dal Tempio (13,1) per non rientrarvi più. Una sorta di abbandono definitivo del culto giudaico, che verrà meglio evidenziato in 15,38, dove il velo del Tempio si squarciò, quasi a dire che lì, in quel Sancta Sanctorum, coperto da un velo, non vi era più la presenza di Dio. E mentre esce pronuncerà il lunghissimo discorso escatologico (13,2-37), posto significativamente da Marco a ridosso del racconto della passione e morte, quasi a voler associare l'intera umanità e con essa l'intera creazione alla sua morte, decretando non solo la fine dell'antico culto (13,2.14), ma anche del vecchio mondo (13,24-25), travolto dal peccato, che in lui e con lui (Gv 12,32) morirà al vecchio Adamo (Rm 6,6), per poi dare inizio in lui, nuovo Adamo (1Cor 15,45), ad una nuova creazione (Ap 21,1-5).
Con questo discorso escatologico termina l'attività missionaria di Gesù e inizia il lungo racconto della passione e morte (14,1-15,47).
Un'ampia sezione
narrativa, questa terza parte del vangelo marciano (11,1-15,47), che
costituisce una sorta di grande unità narrativa che si sviluppa
progressivamente, scandita da un continuo richiamo temporale,
all'interno del quale Marco inserisce i singoli quadri narrativi,
quasi a voler scrivere una sorta di dettagliato diario giornaliero
degli eventi che sono accaduti in Gerusalemme e che concludono sia la
missione che la vita terrena di Gesù. Eventi che Lc 24,18-20
sintetizzerà in una specie di formula di fede, perché quegli eventi
non fossero mai dimenticati e facilmente trasmissibili a tutti i
credenti: “Ma rispondendo uno, di
nome Cleopa, disse verso di lui: <<Tu solo sei straniero a
Gerusalemme e non hai conosciuto le cose che sono accadute in essa in
questi giorni?>>. E disse loro: <<Quali cose?>>.
Questi gli dissero: <<Quelle su Gesù
il Nazareno, che fu un uomo profeta, potente in opera e parola
davanti a Dio e a tutto il popolo; come i sommi sacerdoti e i nostri
capi lo consegnarono per farlo condannare a morte e lo crocifissero”.
Eventi che Marco
circoscrive sia geograficamente, sia spazialmente
che temporalmente, per darne una dettagliata
concretezza storica, perché da questi eventi dipende la fede
dell'intera comunità credente di ogni tempo e luogo, e costituiscono
una fondamentale chiave di lettura dell'evento Gesù (10,45).
Le note geografiche
circoscrivono gli eventi a Gerusalemme, che, durante le feste
pasquali, per soddisfare le esigenze delle numerose folle dei
pellegrini, che qui giungevano per la pasqua, veniva territorialmente
estesa fino al villaggio di Betfage, considerato per
l'occasione giuridicamente Gerusalemme, nei pressi del monte degli
Ulivi (11,1). Betania, che dista da Gerusalemme, secondo le
indicazioni di Gv 11,18, 15 stadi3,
pari a circa 2775 mt, diviene la dimora di Gesù durante il suo
soggiorno a Gerusalemme, presso Lazzaro, che egli aveva risuscitato,
secondo Gv 12,1; presso Simone il lebbroso per Mc 14,3. Egli farà
giornalmente il tragitto, andata e ritorno, tra Betania e il Tempio
durante i tre giorni della sua attività in Gerusalemme, rientrando
da Gerusalemme la sera e ripartendo al mattino.
Le note spaziali,
che tracciano i movimenti di Gesù all'interno di Gerusalemme, si
accentrano prevalentemente su quattro punti:
il Tempio, dove Gesù entra non appena giunto a Gerusalemme (11,11a) e che frequenterà quotidianamente nei suoi primi tre giorni gerosolimitani e qui nel Tempio svolgerà la sua ultima missione, per poi uscirne definitivamente in 13,1;
l'ultima cena, quella pasquale (14,17-18), sembra svolgersi a Gerusalemme (14,16) presso un tale, probabilmente un discepolo di Gesù o quantomeno un suo simpatizzante, terminata la quale Gesù con i suoi escono da Gerusalemme e non tornano a Betania, come era loro consuetudine, ma si dirigono verso il monte degli Ulivi (14,26), in un luogo, chiamato Getsemani (14,32), quindi nei dintorni di Betfage, il primo villaggio subito dopo Gerusalemme. Questa scelta di Gesù va compresa all'interno della festività pasquale, iniziata alla sera di quel giorno4. Era infatti consuetudine presso gli ebrei trascorrere la notte di pasqua a Gerusalemme, i cui confini, per l'occasione delle festività pasquali, erano estesi fino a Betfage5.
Dal Getsemani Gesù, arrestato, viene poi condotto presso il sommo sacerdote per essere interrogato e qui vi rimane tutta la notte, oltraggiato dai servi del sommo sacerdote o dai soldati del Tempio (14,53.65). Siamo qui sempre nella notet che segue l'ultima cena e, quindi, all'inizio del giorno di pasqua.
Il mattino successivo, siamo in pieno giorno di pasqua, viene riunito il sinedrio e trasferiscono Gesù da Pilato, sempre all'interno di Gerusalemme, probabilmente nella fortezza Antonia, prospiciente sul Tempio, dove vi era una guarnigione romana e dove normalmente risiedeva il governatore durante le grandi festività, per tenere sotto controllo il grande flusso di persone e per evitare possibili sommosse. Dopo l'interrogatorio di Pilato, Gesù, condannato, viene condotto “fuori”, nel senso di fuori dalla fortezza Antonia e fuori da Gerusalemme, dove venivano eseguite le condanne a morte per crocifissione. Gesù viene crocifisso all'ora terza6 (15,25), cioè le nove del mattino e morirà all'ora nona (15,33.37), cioè le tre del pomeriggio sul finire del giorno di pasqua, che sarebbe terminato alle sei di sera, momento in cui iniziava la festa degli Azzimi.
Significative sono le note temporali, all'interno delle quali sono collocati gli ultimi eventi della vita di Gesù, la sua missione a Gerusalemme e la sua passione e morte. Note temporali che non vanno calcolate con il cronometro in mano, ma sono indicative, poiché il loro senso è quello di scandire lo svolgersi degli eventi. Non ci si trova davanti ad un diario di bordo, ma ad un tentativo dell'evangelista di mettere un po' d'ordine ai numerosi eventi accaduti in Gerusalemme e che legge secondo la sua prospettiva teologica e cristologica:
Primo giorno (vv.1-11): Gesù, lasciata Gerico, s'incammina verso Gerusalemme (10,46a.52b), dove arriva probabilmente nel primo pomeriggio, poiché, giunto a Gerusalemme, entra subito nel Tempio per poi uscirne subito, perché “già l'ora era tarda” e con i suoi se ne va a Betania (v.11), luogo della sua dimora durante il soggiorno a Gerusalemme. Fine del primo giorno
Secondo giorno (vv.12-19): il giorno dopo il suo arrivo, Gesù esce da Betania (v.12), dove aveva pernottato (v.11b), e si dirige verso Gerusalemme (v.15a). Durante il tragitto vi è l'episodio del fico infruttuoso e, per questo, reso sterile. Giunto a Gerusalemme, Gesù entra nel Tempio, scacciandone i venditori, inveendo contro il sistema di gestione del Tempio, trasformato in un luogo di affari e di commercio (vv.15-18). Ne esce verso sera e se ne esce dalla città (v.19), dirigendosi probabilmente a Betania. Fine del secondo giorno.
Terzo giorno (vv.11,20-13,37): questo terzo giorno, che si svolge per buona parte nel Tempio (11,27-13,1a), copre un'ampia sezione narrativa, che va da 11,20a, dove Gesù si sta nuovamente dirigendo da Betania verso Gerusalemme (v.27), fino a 13,37, dove si conclude il lungo discorso escatologico. Durante questo terzo giorno viene notato, nell'andare verso Gerusalemme, il rinsecchimento del fico e la conseguente lezione sulla fede e sul perdono rivolta ai Dodici (vv.20b-26). Si entra, poi, a Gerusalemme e, da qui, nel Tempio, dove Gesù, mentre passeggiava, viene avvicinato dai capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani, le tre categorie di persone che formano il Sinedrio, per aver ragguagli circa l'autorità con cui ha scacciato i venditori nel Tempio il giorno prima. A questa prima diatriba se ne aggiungeranno altre quattro (12,13-37), accompagnate da altri insegnamenti, che occuperanno l'intero cap.12. Nel mentre che esce dal Tempio (13,1a), siamo sempre nel terzo giorno di attività missionaria a Gerusalemme, Gesù, sollecitato da alcuni discepoli, fa il più lungo discorso dell'intero vangelo (13,2-37), quello escatologico ed apocalittico, che si conclude con l'ammonimento e il sollecito a vegliare (13,37).
Quarto giorno: non viene presentata nessuna attività gerosolimitana di Gesù, ma l'autore apre il cap.14, quello immediatamente successivo al terzo giorno, ricordando ai suoi lettori che “dopo due giorni, era la pasqua e gli azzimi” (14,1a). Durante questo lasso di tempo Marco segnala ai suoi lettori due episodi, che fungono da preambolo al racconto della passione e morte di Gesù: l'annotazione che i capi dei sacerdoti e gli scribi complottavano per uccidere Gesù, studiando la tempistica migliore per poterlo fare (14,1b-2); e il racconto della donna che, a Betania, mentre Gesù è ospite in casa di Simone il lebbroso, unge Gesù “per la sua sepoltura” (14,3-9); mentre Giuda, staccatosi dal gruppo, va dai capi dei sacerdoti per contrattare la consegna di Gesù (14,10-11). Questo è quanto di rilevante, ai fini degli intenti narrativi dell'autore, avviene in questo quarto giorno.
Quinto giorno: da qui Marco riprende il suo racconto sugli eventi accaduti a Gerusalemme, riguardanti la passione e morte di Gesù, scandendoli con una nuova conta dei giorni: “Nel primo giorno degli azzimi” (14,12a). È quello immediatamente prima della pasqua, in cui il padrone di casa doveva accuratamente ripulire la propria abitazione da ogni pasta fermentata e da ogni briciola di pane. È il giorno in cui si sacrificavano gli agnelli per la cena pasquale (14,12b) e si predisponeva il luogo della sua consumazione (14,12c).
Sesto giorno: “E venuta la sera” (14,17), è quella di pasqua in cui si consuma l'agnello pasquale (14,18-31) e in cui Gesù, dopo la cena, recatosi nel Getsemani, viene arrestato e condotto presso il sommo sacerdote (14,32-72); “E subito di mattina” (15,1a), è la mattina di pasqua, si è sempre nel sesto giorno, e Gesù viene portato da Pilato, che in modo sommario e per non inimicarsi le autorità giudaiche, condanna Gesù alla crocifissione (15,1-20), che avviene all'ora terza7: “Era l'ora terza e lo crocifissero” (15,25), cioè le nove del mattino; tra l'ora sesta e l'ora nona, cioè tra mezzogiorno e le tre del pomeriggio, viene un gran buio sulla terra (15,33) e nell'ora nona Gesù muore (15,34.37). Alla sera (15,42a), comunque prima delle diciotto, ora in cui cominciava il sabato, Gesù viene deposto dalla croce e sepolto in una grotta. Gesù, quindi, secondo la tempistica di Marco, muore in giorno di pasqua, che era di venerdì, giorno di parasceve, cioè di preparazione al sabato (15,42b).
Settimo giorno (16,1a) è il sabato. Gesù è già sepolto ed è un giorno di silenzio narrativo. La narrazione riprenderà con l'ottavo giorno, quello dopo il sabato: “E trascorso il sabato” (16,1a);
Ottavo giorno
(16,1-8) è il giorno dopo il sabato (16,1a), le donne vanno al
sepolcro per inumare Gesù, ma trovano la tomba vuota. L'ottavo
giorno è l'inizio di una nuova settimana, che comincia nella luce
sfolgorante della risurrezione e che richiama da vicino quella della
prima creazione, anche questa iniziata con il fulgore della luce
divina, in cui viene avvolta l'intera creazione, che durerà una
settimana (Gen 2,2): “Dio
disse: "Sia la luce!". E la luce fu”
(Gen 1,3). L'ottavo giorno, dunque, è l'inizio di una nuova
creazione, avvolta nella luce della risurrezione e che troverà il
suo compimento nell'eternità di Dio, allorché tutto sarà
nuovamente sottoposto a Dio, così come lo fu nei primordi della
creazione e dell'umanità: “E
quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà
sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia
tutto in tutti”
(1Cor 15,28). E con questo si chiude definitivamente il ciclo della
nuova creazione, il ciclo della salvezza e della sua storia. Tutto
uscito da Dio, tutto ritorna a lui e in Lui, per Cristo con Cristo e
in Cristo.
Note
generali al cap. 11
Dopo un lungo cammino, partito dai dintorni di Cesarea di Filippo (8,27), passando attraverso la Galilea (9,30) e giungendo fino a Cafarnao (9,33) e da qui intraprendendo la strada verso la Giudea “al di là del Giordano” (10,1), cioè passando per le regioni della Decapoli e della Perea, per evitare il passaggio attraverso la Samaria, territorio ostile a chi doveva andare a Gerusalemme (Lc 9,51-53), a motivo di antichi rancori tra i Samaritani e i Giudei8 (Gv 4,9b), Gesù e i suoi giungono a Gerico (10,46a), l'ultima città prima di accedere a Gerusalemme. Un percorso piuttosto impegnativo, lungo circa 30 Km e che portava il pellegrino dai 250 mt sotto il livello del mare di Gerico, la città più depressa al mondo, fino ai 750 mt sopra il livello del mare di Gerusalemme. Uno sbalzo di circa mille metri.
Un cammino lungo complessivamente circa 200 Km in linea d'aria, durante il quale Gesù, scoperto dai suoi quale Messia (8,29) e Figlio di Dio (9,7b), ha somministrato loro continui insegnamenti circa i suoi destini di sofferenza e di morte (8,31; 9,31; 10,1.32b), finalizzati a prepararli spiritualmente ad accettare la sua figura di Messia e di Figlio di Dio sofferente, destinato ad essere ripudiato, perseguitato e ucciso. Un cammino, quindi, di conversione interiore, che doveva aprirli alla comprensione del senso della sua missione e del suo patire e morire (10,45). Un cammino che, metaforizzato dalla guarigione del cieco Timeo (10,46-52), si chiude positivamente, con i Dodici che si rimettono assieme a Gesù (v.10,32c), disposti, ora, a seguirlo sulla via (10,52b), che li porterà tutti a Gerusalemme e da qui sul Golgota.
Il cap.11 apre l'attività
di Gesù a Gerusalemme ed è caratterizzata da un'accentuata critica
al sistema religiose e cultuale giudaico, che sfocerà, poi nelle
cinque diatribe giudaiche, che occuperanno la sezione 11,27-12,37; ma
nel contempo verrà indicato il nuovo culto gradito a Dio, fondato
sulla fede e sul perdono (vv.20-26). Un'attività molto intensa che
viene distribuita su tre giornate, scandite da note temporali e
spaziali contemporaneamente: nella prima giornata
(vv.1-11), Gesù entra in
Gerusalemme ed è
riconosciuto come il messianico re davidico inviato da Dio, venuto a
ristabilire e dare continuità al regno di Davide (vv.9-10). La
giornata si chiude con la presa di possesso del Tempio (v.11); la
seconda giornata
(vv.12-19) è
caratterizzata dalla critica e dalla condanna del culto giudaico,
metaforizzate dal fico con molte foglie, ma senza frutti (vv.12-14),
e dalla la cacciata dei venditori dal Tempio (vv.15-19); la terza
giornata,
che inizia in 11,20, ma occuperà un'ampia sezione, che abbraccia
l'intero cap.13, ha come suo inizio la scoperta del fico rinsecchito,
metafora del culto giudaico, a cui fa seguito l'indicazione di un
nuovo tipo di culto, fondato sulla fede e il perdono (20-26), a cui
si contrappone la prima diatriba, che mette in discussione l'autorità
di Gesù (vv.27-33).
Una questione questa che in qualche modo ha già la sua risposta in
apertura del cap.11, dove vengono presentati gli attributi regali e
messianici di Gesù.
La struttura del cap.11 è scandita in tre parti:
L'entrata di Gesù a Gerusalemme (vv.1-11), dove Marco mette in rilievo le qualità messianiche e regali di Gesù, colto come la realizzazione della profezia di Natan a Davide (2Sam 7,12-16), preparando in qualche modo la risposta alla questione posta dalle autorità giudaiche sull'autorità di Gesù: “Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato questa autorità perché tu faccia queste cose?” (v.28);
La sezione circoscritta dai vv.12-21, a forma di sandwich, composta da tre pericopi: a) vv.12-14, dove Gesù maledice il fico infruttuoso; b) vv.15-19, la cacciata dei venditori dal Tempio; c) vv.20-21, in cui si scopre il fico rinsecchito. A questi ultimi versetti viene fatta seguire la piccola catechesi sulla fede, la preghiera e il perdono, che tematicamente fa parte della pericope vv.12-21 e la porta a conclusione. Per cui, dalla critica al Tempio e al sistema cultuale giudaico si passa ad una nuova forma di culto, fondato sulla fede, preghiera e perdono; un culto squisitamente spirituale, dove vittima offerta e sacerdote offerente sono lo stesso credente;
La terza parte, vv.27-33, apre la sezione delle diatribe giudaiche e comprende la prima delle cinque dispute, che ha per argomento l'autorità di Gesù, di fatto, la sua identità.
Commento ai vv.1-33
L'entrata di Gesù in Gerusalemme, riconosciuto re e messia davidico (vv.1-11)
Testo a lettura facilitata
Introduzione
(v.1)
1- E quando si avvicinano a Gerusalemme, a Betfage e a Betania, presso il monte degli Ulivi, manda due dei suoi discepoli
La
prescienza di Gesù (vv.2-6)
2-
e dice loro: <<Andate nel villaggio dinnanzi a voi, e subito,
entrando in esso troverete un puledro legato, sul quale nessuno degli
uomini mai si sedette; scioglietelo e portate(lo qui).
3-
E qualora qualcuno vi chiedesse: “Perché fate questo?”, dite:
“Il signore ne ha bisogno e subito (dopo) lo manda di nuovo qua”>>.
4-
E andarono e trovarono un puledro legato presso una porta, fuori
sulla strada, e lo slegano.
5-
E alcuni di quelli che stavano là dicevano loro: <<Che cosa
fate, slegando il puledro?>>.
6-
Ma quelli dissero loro come disse Gesù; e li lasciarono andare.
Gesù,
il promesso re e messia davidico (vv.7-10)
7-
E portano il puledro da Gesù e pongono su di lui i loro mantelli, e
(Gesù) sedette su di lui.
8-
E molti stesero i loro mantelli sulla via, altri invece delle fronde
che tagliarono dai campi.
9-
E quelli che precedevano e quelli che seguivano gridavano: <<Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore;
10-
benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide: Osanna negli
altissimi (cieli)!>>.
La
presa di possesso del Tempio, ossia l'avvento di un nuovo culto
(v.11)
11-
Ed entrò a Gerusalemme nel tempio e guardate attorno tutte le cose,
essendo già l'ora tarda, uscì verso Betania con i Dodici.
Note generali
La pericope in esame presenta un quadro articolato, finalizzato ad approfondire l'identità di Gesù, che già era stata preannunciata da Timeo, il cieco di Gerico, che si era rivolto a Gesù invocandolo con l'epiteto di “Figlio di Davide” (10,47.48). Ora Marco riprende quel titolo e lo analizza a fondo attraverso tre passaggi, evidenziando: a) la prescienza di Gesù (vv.2-6); b) la davidica regalità messianica di Gesù, rifondatore del regno di Davide, che attua in se stesso la promessa che Dio aveva fatto a Davide attraverso il profeta Natan (vv.7-10); c) la presa di possesso del Tempio, cuore di Gerusalemme e del giudaismo, punto di arrivo di Gesù (v.11).
Il
tutto viene incorniciato geograficamente dal v.1, che presenta i
quattro luoghi attorno ai quali girerà l'intera missione giudaica di
Gesù e dove si svolgerà il dramma della sua passione e morte. Un
versetto, quindi, che funge da chiave di lettura non solo della
presente pericope, ma dell'intera sezione 11,1-15,47.
Commento ai vv. 1-11
Introduzione:
la cornice geografica (v.1)
Il
v.1 si apre presentando lo scenario geografico entro il quale si
svolgerà l'attività missionaria di Gesù, durata sostanzialmente
tre giorni, e dove si consumerà il dramma della sua passione e
morte.
Gerusalemme è la capitale della Giudea e il cuore del giudaismo e del potere religioso e civile. Qui si trova il Tempio del vero culto giudaico. Gerusalemme, la città davidica, carica di storia e profondamente radicata nel cuore di ogni giudeo; è la città dove risiede Dio nel suo Tempio. Un nome la cui importanza viene testimoniata dal numero di volte che compare nell'A.T., all'incirca 800 volte. E il salmista canterà con struggente malinconia il ricordo di Gerusalemme nel cuore degli esuli a Babilonia (597-538 a.C.): “Se ti dimentico, Gerusalemme, si paralizzi la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato, se lascio cadere il tuo ricordo, se non metto Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia” (Sal 137,5-6). Questa centralità storico-religiosa di Gerusalemme, dove Gesù entra per consumare l'ultimo atto della sua vita in ottemperanza al disegno del Padre, dice la centralità che questa città ha nel piano salvifico del Padre e che il Gesù giovanneo sottolineerà alla Samaritana, che opponeva a Gerusalemme il culto del monte Garizim, che avevano contrapposto a quello di Gerusalemme: “Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei” (Gv 4,22).
Betfage (Bēt pā'gē, “casa dei fichi”) un villaggio posto sul lato orientale del monte degli Ulivi, a cinque stadi da Gerusalemme, circa 925mt (Ant. Jud. 20,169). Una sorta di propaggine di Gerusalemme. Esso godeva, infatti, dell'estensione giuridica di città di Gerusalemme durante il grande afflusso di pellegrini nelle festività pasquali, i quali venivano a pernottare, secondo l'usanza, a Gerusalemme la notte di pasqua. Similmente farà Gesù, che quella notte, dopo la cena pasquale uscirà da Gerusalemme e, anziché ritornare a Betania, com'era suo solito durante il suo soggiorno a Gerusalemme, pernottò nella località del Getsemani, dove, tradito da Giuda e abbandonato dai suoi, verrà arrestato.
Betania ( Bēt 'ānī, Casa del povero) forse una delle tre località poste ad est di Gerusalemme, dove, secondo il rotolo del Tempio di Qumran dovevano abitare i lebbrosi: “E costruirai tre luoghi, a est della città, separati l'uno dall'altro, nei quali andranno i lebbrosi, e coloro che soffrono di scolo e coloro che avranno avuto una polluzione” (11QMiqd 46,16-18)9. Qui, infatti, a Betania, Gesù fu ospite di Simone il lebbroso durante il suo soggiorno a Gerusalemme (14,3). Una semplice coincidenza? O una riminiscenza? Diversamente Gv 11,1 e 12,1 attestano che Gesù fu ospite di Lazzaro, da lui risuscitato, e delle sue sorelle, Marta e Maria, la quale, quest'ultima, cosparse di unguenti profumati Gesù (Gv 11,2; 12,3). Secondo Mc 11,1 e Lc 19,29 è da cercarsi ad est di Gerusalemme, sul versante orientale del Monte degli Ulivi, non lontano dalla strada romana che conduceva a Gerico. Essa si trovava a circa 2 km da Betfage e, secondo Gv 11,18, a 15 stadi da Gerusalemme, poco meno di tre km.
Monte degli Ulivi è la quarta indicazione geografica fornita da Marco. È alto circa 800 mt e fa parte dell'omonima catena montuosa; esso è posto a ridosso di Gerusalemme, sul lato est della città, ed è attraversato dalla strada romana, che passa da Gerico e conduce verso Gerusalemme. Ai piedi di questo monte è posto il Getsemani o orto degli Ulivi, dove Gesù passerà, secondo i racconti evangelici, la sua ultima notte e dove egli verrà arrestato, dando così inizio alla sua passione, che si concluderà sulla croce. Quattro i luoghi, quindi, strettamente connessi ai misteri della salvezza, che stanno per compiersi e su di essi convergono.
La
citazione di queste quattro località è stranamente citata da Marco
esattamente al contrario per chi viene da Gerico (10,46a), come di
chi vedesse tali luoghi stando dentro Gerusalemme. Probabilmente un
errore di prospettiva da parte di Marco, che, nato e vissuto a Roma,
ben poco conosceva della geografia della Palestina10.
Significativo quel “si avvicinano a Gerusalemme”, con cui si apre
il cap.11 e, con questo, la terza parte del vangelo marciano. Questo
loro avvicinarsi, più teologico che geografico, non dice solo che il
viaggio di Gesù sta per concludersi, ma sottolinea in particolar
modo l'imminente compiersi di quell'ora, per la quale il Gesù
giovanneo era venuto (18,37) e in cui il Padre glorificherà il
Figlio, nel quale il Padre, a sua volta, sarà glorificato (Gv 17,1).
La
prescienza di Gesù (vv.2-6)
La pericope circoscritta dai vv.2-6 è scandita in due parti: la preveggenza di Gesù (vv.2-3) e il riscontro di quanto da lui preannunciato (vv.4-6), quale attestazione di veridicità. Due sono infatti i discepoli inviati, giusto il numero di testimoni stabilito da Dt 19,15 per validare l'accadere di un evento. Un segnale che l'autore manda al suo lettore, per dirgli che quanto qui sta avvenendo ha notevole importanza.
Due, qui, gli elementi di rilievo: Gesù si rivolge ai due discepoli con autorità e autorevolezza, descrivendo dettagliatamente quanto sta per accadere, ma che nel contempo assume un significato particolare. Ed è proprio in questo contesto che Gesù, indica se stesso come il “Signore”. Si è, quindi, nell'ambito di una preveggenza legata in qualche modo alla signoria di Gesù, che domina gli eventi, anche se questi sembrano travolgerlo. È lui, infatti, che si consegna agli uomini e non gli uomini che lo sopraffanno. Al goffo tentativo di un discepolo di difenderlo con la spada, il Gesù matteano dirà: “Pensi forse che io non possa pregare il Padre mio, che mi darebbe subito più di dodici legioni di angeli?” (Mt 25,53). E similmente il Gesù giovanneo, al momento del suo arresto, si mostrerà un vero dominatore degli eventi e sarà lui che si concede al suo avversario (Gv 18,4-8); e al tentativo di difesa di Pietro, lo zittirà, facendogli presente che ha un piano da compiere, stabilito dal Padre (Gv 18,11). Non sono, dunque, gli uomini che scrivono la storia, ma è la storia che si sta attuando secondo i piani del Padre, malgrado la volontà degli uomini11.
L'attenzione, ora, viene incentrata su di “un puledro12 legato, sul quale nessuno degli uomini mai si sedette”. Il tema del “puledro legato” ha un suo riscontro in Gen 49,10-11, dove Giacobbe, rivolto ai suoi dodici figli, preannuncia il loro futuro (Gen 49,1) e a Giuda riserva questo destino: “Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli. Egli lega alla vite il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina13, lava nel vino la veste e nel sangue dell'uva il manto”. È l'annuncio di un uomo forte, che dominerà sulle nazioni e che riecheggerà in qualche modo anche in Dn 7,13-14; un uomo in cui la tradizione vide raffigurato il messia. Ebbene, questo personaggio misterioso viene colto qui come colui che lega “a scelta vite” un puledro d'asina. Ora, invece, questo puledro è sciolto e condotto a Gesù, “colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli”. È lo sciogliersi, dunque, di una lunga attesa, che vede in Gesù il preannunciato e atteso messia. Significativo quel “conducetelo qui”, cioè “da me”, con cui viene evidenziata la centralità della figura di Gesù. Tutto deve essere ricondotto a lui, poiché in lui si sta compiendo il disegno del Padre (Ef 1,10).
Vi è poi l'annotazione che questo puledro non è mai stato cavalcato da nessuno. Un puledro, quindi, mai utilizzato per servizi riservati agli uomini. Un puledro attorno al quale aleggia una sorta di aura di riservatezza ed esclusività, che confinano molto con la consacrazione di questo puledro, destinato ad essere cavalcato da un personaggio, che si rivelerà nella sua regalità messianica, preannunciato in qualche modo da Zc 9,9.
La
seconda parte della pericope (vv.4-6) funge soltanto da
certificazione da parte dei due testimoni della veridicità della
predizione di Gesù, che viene descritta meticolosamente nel suo
attuarsi, rispecchiando, passo per passo la predizione. Gesù,
dunque, è veramente il dominatore degli eventi e tutto ciò che
avverrà è soltanto l'attuarsi di un piano prestabilito, di cui Gesù
è, non la vittima, ma l'esecutore.
Gesù,
il promesso re e messia davidico (vv.7-10)
Dopo aver presentato l'onniscienza di Gesù e la sua signoria sugli eventi (vv.2-6), Marco fa seguire ora la pericope, delimitata dai vv.7-10, in cui si attesta la regalità messianica di Gesù, e nella sua entrata a Gerusalemme l'avvento del messianico regno davidico. Un'attestazione che avviene in due passaggi: dapprima i discepoli drappeggiano il puledro con i propri mantelli, sul quale Gesù “sedette”14, quasi in una sorta di presa di potere, che gli viene riconosciuto in quel puledro drappeggiato con i loro vestiti e a lui esclusivamente riservato; abiti che poi vengo stesi anche per terra. Un gesto questo che richiama l'intronizzazione regale, ricordata in 2Re 9,13: “Tutti presero in fretta i propri vestiti e li stesero sotto di lui sugli stessi gradini, suonarono la tromba e gridarono: <<Ieu è re>>”. Si tratta di rappresentazioni simboliche di una sorta di investitura regale, dove il mantello o l'abito, nel linguaggio biblico, hanno a che vedere con la condizione di vita di chi lo indossa15. Lo stendere i propri mantelli e i propri abiti per terra, pertanto, significa riconoscere la regalità, a cui si asserve la propria vita.
Il secondo passaggio, raffigurato anche in 2Re 9,13 nel grido “Ieu è re”, consiste qui nell'acclamazione, che accompagna la stesura dei mantelli e che proclama la regalità messianica di discendenza davidica di Gesù, con la quale si riconosce in lui l'attuarsi della profezia di Natan, fatta a Davide: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno” (2Sam 7,12-13).
La proclamazione della regalità messianica di Gesù avviene attraverso due battute (vv.9.10), incluse dal grido “Osanna”, collocate all'interno di uno scenario festoso: “quelli che precedevano e quelli che seguivano gridavano”. Gesù, dunque, si trovava nel mezzo, in una sorta di processione, accompagnato da grida e dall'agitazione di rami frondosi, raccolti lì, lungo la via, occasionalmente e che ricordano le celebrazioni liturgiche o paraliturgiche, consuete in Israele16. Il quadro, quindi, che qui Marco ci presente ha un certo che di sacrale.
La prima proclamazione “Benedetto colui che viene nel nome del Signore” allude alla messianicità di Gesù, dove l'espressione “colui che viene” è reso con il participio presente “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, il veniente), un'espressione questa che ricorre in tutto il N.T. 26 volte; un appellativo che nel linguaggio biblico indicava il messia, la cui provenienza divina è resa con l'espressione “nel nome del Signore”. L'acclamazione è stata presa dal Sal 118,25-2617 e riguardava la formula di benedizione che i sacerdoti imponevano sui pellegrini in visita a Gerusalemme ed era composta da due battute: il pellegrino, accedendo a Gerusalemme, invocava la misericordia e il sostentamento di Dio: “Dona, Signore, la tua salvezza, dona, Signore, la vittoria!” (Sal 118,25), qui espressa dal grido “Osanna”18; e il sacerdote rispondeva imponendo sul pellegrino la benedizione di Jhwh con la formula: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Vi benediciamo dalla casa del Signore” (Sal 118,26), a cui faceva seguito l'esortazione a procedere processionalmente con rami frondosi fino al Tempio: “Dio, il Signore è nostra luce. Ordinate il corteo con rami frondosi fino ai lati dell'altare” (Sal 118,27).
La
seconda proclamazione va a completare la prima ed esprime le attese
del popolo d'Israele, quelle della liberazione di Israele dal potere
di Roma con la conseguente restaurazione del glorioso regno davidico.
Attese e speranze che ritroviamo nei due discepoli di Emmaus: “Noi
speravamo che fosse lui a liberare Israele” (Lc 24,21); e negli
stessi discepoli, che rivolti al Risorto, gli chiedono: “Signore, è
questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” (At
1,6). Attestazioni di simili attese si ritrovano anche in Lc
2,25.38. L'avvento di Gesù, pertanto, dà concretezza a queste
speranze, che in lui vedono non solo “il veniente”, cioè il
Messia promesso, ma anche colui che inaugura un nuovo tempo con la
restaurazione del regno davidico: “benedetto il regno che viene,
del nostro padre Davide”. Un'espressione questa che si ritrova
soltanto in Marco.
La
presa di possesso del Tempio, ossia il prodromo ad un nuovo culto
(v.11)
Il lungo viaggio che Gesù ha intrapreso verso Gerusalemme, a partire da Cesarea di Filippo19, in realtà non termina a Gerusalemme, ma ha il suo vertice nel Tempio, realizzando in tal modo la profezia di Ml 3,1a: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore”. La meta, dunque, è il Tempio, il cuore del culto giudaico e casa del Padre. Una meta significativa che prelude alla successiva azione di Gesù, quella della cacciata dei venditori. Gesù, dunque, ha compiuto un lungo viaggio per entrare nel cuore del culto giudaico, di cui prende atto, “e guardate attorno tutte le cose”, ma, annota l'evangelista, l'ora ormai era tarda. Gesù, dunque, è entrato nel Tempio verso sera, quando ormai il giorno declinava non solo sul Tempio, ma anche sul suo culto. Non vi era più spazio, dunque, per poterlo rinnovare e rigenerare. Per questo Gesù se ne uscì dal Tempio, abbandonandolo. Ed è proprio uscendo dal Tempio, durante il terzo giorno della sua attività missionaria in Gerusalemme, che ne predirà la fine (13,2) e con questa la fine del culto giudaico20. Un lungo viaggio che si conclude nel Tempio, la casa del Padre. E rileva Marco che era giunta la sera, che cala ormai non solo sul Tempio, ma anche sulla sua missione terrena di Gesù e prelude al suo ritorno al Padre, di cui Gerusalemme è la porta d'entrata. Un lungo viaggio, che ha le sue origini più remote nel Padre, che si sta ora concludendo, richiamando da vicino Gv 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”.
Il
v.11, pertanto, costituisce il prodromo, da un lato, alla passione e
morte di Gesù, alludendovi in qualche modo; dall'altro,
narrativamente, alla sezione circoscritta dai vv.12-26 e ne fornisce
la chiave di lettura. Tutta la sezione successiva, infatti, è
incentrata sul tema del Tempio e tutto allude all'irreversibile
infruttuosità di questo culto, sfarzoso quanto inutile, perché non
coinvolge la vita, e metaforizzato sia dal fico lussureggiante di
foglie, ma privo di frutti, sia dal suo rinsecchimento, che toglie
ogni speranza di conversione e che avrà il suo epilogo nel velo
squarciato del Tempio (15,38). Per questo, di seguito, si avrà una
nuova entrata di Gesù nel Tempio con la cacciata dei venditori. Un
gesto profetico, che va letto come il tentativo disperato quanto
inutile di Gesù di rovesciare quell'asfittico culto, che impediva un
vero rapporto esistenziale con Dio e sul quale già Isaia ebbe a
lamentarsi: “Poiché
questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le
labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi
rendono è un imparaticcio di usi umani, perciò,
eccomi, continuerò a operare meraviglie e prodigi con questo popolo;
perirà la sapienza dei suoi sapienti e si eclisserà l'intelligenza
dei suoi intelligenti”
(Is 29,13-14). Da qui la necessità di instaurare un nuovo culto,
fondato sulla fede, che si fa preghiera e diventa amore, che si
esprime nel perdono (vv.20-26). Un culto spirituale, che coinvolga la
vita del credente, che deve trasformarsi in una perenne liturgia di
lode e di ringraziamento a Dio e che ha la sua charta
magna in Gv 4,21-24. Un
culto non più legato a strutture fisiche, ma celebrato nella propria
vita (Rm 12,1).
Il
v.11 termina con un'annotazione di tempo e topografica, che scandisce
la fine della prima giornata di Gesù a Gerusalemme: “essendo
già l'ora tarda, uscì verso Betania con i Dodici”.
La fine dell'antico
culto e l'instaurazione di uno nuovo (vv.12-26)
Testo a lettura
facilitata
Preambolo (v.12)
12- E il giorno dopo, usciti da Betania, ebbe fame.
Il fico, lussureggiante di foglie, ma privo di frutti, metafora del culto giudaico (vv.13-14)
13-
E avendo visto da lontano un fico che aveva foglie, andò (a veder)
se mai trovasse qualcosa in esso, e andato presso di esso non trovò
niente se non foglie; non era infatti il tempo dei fichi.
14-
E rispondendo disse ad esso: <<Nessuno mai più in eterno da te
mangi un frutto>>. E udivano i suoi discepoli.
Il rovesciamento del culto giudaico (vv.15-19)
15-
E vanno a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio, incominciò a scacciare
quelli che vendevano e quelli che comperavano nel tempio, e rovesciò
i tavoli dei cambiavalute e le sedie di quelli che vendevano le
colombe,
16-
e non permetteva che qualcuno trasportasse un vaso attraverso il
tempio.
17-
E insegnava e diceva loro: <<Non è scritto che la mia casa
sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli? Voi, invece,
l'avete fatta una spelonca di ladri>>.
18-
E udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano come farlo
perire; infatti lo temevano, poiché tutta la folla era stupita per
il suo insegnamento.
19-
E allorché giunse la sera, uscivano fuori dalla città.
La
prospettiva di un nuovo culto, fondato sulla fede, sulla preghiera e
il perdono (vv.20-26)
20-
E passandoci davanti di mattina, videro il fico seccato dalle radici.
21-
Ed essendosi ricordato Pietro, gli dice: <<Rabbi, guarda, il
fico che hai maledetto è rinsecchito>>.
22-
E Gesù rispondendo, dice loro: <<Abbiate fede in Dio!
23-
In verità vi dico che chi dicesse a questo monte: “Levati e
gettati in mare” e non esitasse nel suo cuore, ma credesse che ciò
che dice succede, (ciò) gli succederà.
24-
Per questo vi dico che tutto quanto invocate e chiedete, credete che
(già lo) riceveste, e vi succederà.
25-
E allorché state pregando, perdonate se qualche cosa avete contro
qualcuno, affinché anche il Padre vostro, che è nei cieli, perdoni
a voi i vostri peccati.
26-
[Ma se voi non perdonate neanche il Padre vostro che è nei cieli
perdonerà i vostri peccati]21
Note
generali
La sezione circoscritta dai vv.12-26 è costituita da tre episodi: il racconto del fico sterile e rinsecchito (vv.12-14.20-21), quello della cacciata dai venditori del Tempio (vv.15-19) e una breve catechesi sulla fede e il perdono (vv.22-26). Tre racconti apparentemente diversi quanto a tema e giustapposti l'uno accanto all'altro. In realtà costituiscono un unico blocco tematico, anche se scandito in due parti narrativamente elaborate: l'episodio della cacciata dei venditori dal Tempio (vv.15-19) viene incluso, a mo' di sandwich, nel racconto del fico infruttuoso (vv.12-14) e per questo rinsecchito (vv.20-21); a cui fa seguito la breve catechesi sulla fede incrollabile e il perdono nella preghiera (vv.22-26).
L'elaborazione a sandwich della pericope vv.12-21 si ritrova soltanto in Marco ed è redazionale. Il motivo di tale intervento sembra essere duplice: da un lato, ponendo l'episodio della cacciata dei venditori dal Tempio all'interno di quello del fico infruttuoso e rinsecchito, consente di leggere l'episodio del Tempio quale conseguenza logica di un culto infruttuoso e per questo spiritualmente rinsecchito, poiché inincidente sulla vita del credente; dall'altro, ponendo il rinsecchimento del fico il giorno successivo al racconto dell'episodio del Tempio, Marco può agganciarsi narrativamente alla piccola catechesi sulla fede e il perdono, consentendo nel contempo uno sviluppo tematico di quanto avvenuto nei due episodi precedenti, quello del fico e del Tempio.
L'intervento redazionale così elaborato, potremmo definirlo come strategico e certamente molto indovinato.
Commento
ai vv.12-26
Il v.12 si apre con il movimento uguale contrario a quello con cui si è chiuso il v.11: “E il giorno dopo, usciti da Betania”. Siamo nel giorno successivo, il secondo del soggiorno di Gesù in Gerusalemme. Con questo cadenzare di note temporali e topografiche, che continueranno a ripetersi fino al cap.16,1, Marco, da un lato, dà continuità narrativa a questa ultima parte del suo vangelo, quasi a crearne un evento unico; dall'altro sembra scandire i tempi della salvezza, questo lento susseguirsi di eventi dislocati nello spazio temporale storico, che indicano il lento e progressivo realizzarsi del piano salvifico del Padre.
Il v.12 termina con una nota inattesa su Gesù: “ebbe fame”. Inattesa perché Gesù proveniva da Betania, il luogo della sua dimora abituale durante il suo soggiorno a Gerusalemme ed era ospitato presso la casa di Simone il lebbroso (14,3). E poi, perché solo Gesù ha fame, mentre per nessuno dei suoi l'autore segnala questa necessità fisiologica? Stiamo per entrare in un contesto narrativo metaforico, quello del fico infruttuoso e, quindi, la segnalazione della fame di Gesù, che introduce e giustifica la ricerca di fichi per sfamarsi da parte di Gesù, va ricompresa, anche questa, in senso metaforico.
Il
tema della fame di Gesù, allorché compare nei vangeli, assume
sempre un senso spiccatamente spirituale. Ciò avviene nel racconto
delle tentazioni, al termine delle quali Gesù ha fame (Mt 4,2; Lc
4,2), che per Gesù viene saziata con la Parola di Dio (Mt 4,4b; Lc
4,4); mentre per il Gesù giovanneo suo cibo è fare la volontà del
Padre (Gv 4,34). Del resto il Regno di Dio, per il quale Gesù è
venuto, “[...] non
è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia
nello Spirito Santo”
(Rm 14,17).
Il
fico, lussureggiante di foglie, ma privo di frutti, metafora del
culto giudaico (vv.13-14)
Per
poter comprendere il senso di questo episodio è necessario leggere
dietro le righe di questo breve racconto, dove ci sono dei segnali
che lasciano trasparire il messaggio, che l'autore ha voluto
trasmettere al suo lettore in questo breve aneddoto, che,
inframezzato dal racconto della cacciata dei venditori dal Tempio, ha
un suo seguito conclusivo ai vv.20-21.
Le parole a cui è necessario porre attenzione sono: “avendo visto da lontano un fico che aveva foglie”; “andato presso di esso non trovò niente se non foglie”; “E rispondendo disse ad esso”. Sono questi tre elementi chiave che consentono la decriptazione dell'aneddoto. Gesù si rivolge al fico non come ad un oggetto inanimato, ma come se fosse una persona: “rispondendogli disse ad esso”, cioè Gesù risponde all'infruttuosità del fico come se fosse un suo interlocutore. La domanda, quindi, da porsi non è che cos'è, ma chi è questo fico.
Il fico era una pianta molto diffusa in Israele, tanto da dover pensare che ogni casa ne avesse uno nel proprio cortile o nei pressi (Zc 3,10). Anche il Gesù giovanneo vedrà Natanaele sotto il fico (Gv 1,48). Il fico, assieme alla vite, al melograno al vino, all'olio e al frumento era il simbolo della prosperità e del benessere22, della sicurezza e della pace23; ma diviene nel contempo l'oggetto dell'ira di Dio per colpire le infedeltà di Israele24. Il fico era un ottimo ricostituente25 e opportunamente usato anche un medicamento26. Schiacciate di fichi non potevano mancare su di una tavola imbandita per una festa27. Esso faceva parte delle decime da consegnare ai sacerdoti e ai leviti28. Il fico nel linguaggio dei profeti, proprio per questa peculiare presenza in mezzo al popolo e nella cultura popolare, diviene anche il simbolo di Israele29.
Ed è proprio questi, Israele, che qui viene metaforizzato da Marco nel fico, verso il quale Gesù si rivolge. È un Gesù che vede da lontano questo fico con molte foglie e gli si avvicina per cercarne dei frutti. In altri termini, la venuta di Gesù in mezzo ad Israele aveva lo scopo di risvegliare la sua spiritualità dall'ingessatura di un legalismo che gli impediva un autentico rapporto con Dio (Mt 15,24), così da meritarsi i rimbrotti di Dio per mezzo del profeta: un popolo che onora Dio con parole, ma il suo cuore è lontano da lui (Is 29,13). Quel “vedere da lontano” dice l'attenzione di Dio verso questo fico lussureggiante di foglie così da inviare suo figlio per cercarne dei frutti, ma inutilmente. Qui si parla di quel fico della parabola di Lc 13,6-9, piantato in mezzo alla vigna, dove, con linguaggio metaforico, si allude sia ad Israele, simboleggiato dal fico; sia al tempo di Gesù, significato nei tre anni, il tempo della sua missione: “Ecco (sono) tre anni da che vengo cercando frutto in questo fico e non trovo; taglialo, [dunque], a qual fine rende inoperosa la terra?”. È questa l'interpretazione che Luca dà a questo aneddoto marciano e lo lascia più chiaramente intendere in 19,44: “<<abbatteranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata>>”. Gesù, dunque, è venuto a cercare tra il lussureggiante culto di Israele, ricco di ritualità e di sfarzosità, ma totalmente estraneo alla vita. Un culto, insomma, che veniva celebrato nel Tempio, ma non nella propria vita.
Quanto sta avvenendo qui, ora, ha la valenza di un giudizio di condanna per questa infruttuosità di Israele. Gesù è venuto e ha constatato che quel fico ridondante di foglie è privo di frutti, perché, commenta l'evangelista, “non era infatti il tempo dei fichi”. Il tempo di cui si parla qui è espresso in greco con il termine “kairÕj” (kairòs), che nel linguaggio biblico indica il tempo di Dio, quello che Dio si riserva per operare la salvezza o emettere il suo giudizio di condanna; ma è anche il tempo in cui Israele è chiamato alla conversione. Marco, dunque, assieme a Luca, legge la venuta di Gesù come il tempo della misericordia di Dio per salvare il suo popolo (Lc 1,77-79), per sollecitarlo alla conversione, perché quel lussureggiare di foglie sia accompagnato e sostanziato anche dai frutti. Ma questo non era il tempo dei fichi, cioè il tempo della missione di Gesù. In altri termini, il tempo della venuta di Gesù non era quello di Israele. Non c'è stata una coincidenza di tempi. Altri erano i tempi che sognava Israele, mentre si stava realizzando quello di Gesù. Una constatazione amara, che evidenzia il fallimento della sua missione, in cui riecheggia l'altrettanto amara e deludente constatazione che Giovanni fa del suo Gesù al termine della sua missione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,37).
Il v.14 si apre introducendo la risposta di Gesù a questa chiusura ostinata di Israele nei confronti della mano tesa del Padre, rivelatasi in Gesù: “E rispondendo disse ad esso”. È una risposta che Gesù dà a Israele a conclusione della sua missione e suona come una sentenza di condanna definitiva: “Nessuno mai più in eterno da te mangi un frutto”, con cui, da un lato, si riconosce l'incapacità di Israele di dare delle valide risposte agli interventi di Dio, dapprima attraverso i Profeti e ora con suo Figlio (Eb 1,1-2a); dall'altro viene decretata la fine del giudaismo, quale movimento religioso, preannunciato nella distruzione del Tempio (13,2) e nel velo squarciato del Tempio alla morte di Gesù (15,38).
La
decretazione di condanna del giudaismo, come movimento religioso
incapace di dialogare esistenzialmente con Dio e celebrarne il culto
nella vita, e la solennità nonché la gravità di tale sentenza è
pronunciata davanti ai Dodici, che in quel “udivano” sono
costituiti testimoni, ad imperitura memoria (il verbo all'imperfetto
indicativo è un tempo durativo), di tale decretazione di condanna, i
cui esiti verranno evidenziati ai vv.20-21.
Il
rovesciamento del culto giudaico (vv.15-19)
Il racconto della purificazione del Tempio va compreso all'intero di quello del fico, lussureggiante quanto a foglie, ma completamente infruttuoso. Non a caso l'aneddoto del fico è stato posto narrativamente sulla strada che collega Betania a Gerusalemme e, da qui, al Tempio. Quindi esso ne costituisce una sorta di preambolo e di chiave di lettura.
Il racconto della cacciata dei venditori dal Tempio costituisce in qualche modo il proseguimento e lo sviluppo del v.11, allorché Gesù, giunto a Gerusalemme entra subito nel Tempio, limitandosi a “guardare attorno tutte le cose”, quasi a prendete atto dello stato del Tempio e del culto che in esso si svolgeva. Che cosa Gesù abbia visto quella sera al Tempio e cosa egli ne pensasse, ci viene raccontato nell'episodio del fico e, di conseguenza, l'azione profetica di Gesù operata nel Tempio il giorno dopo, va letta come il tentativo di Gesù di rovesciare un culto ormai asfittico, dandogli un nuovo orientamento spirituale, facendo del Tempio un luogo di preghiera, di incontro del credente con il suo Dio e non più un luogo di traffici e di affari. Un tentativo andato a vuoto, perché già si era detto che questo, il tempo della missione di Gesù, non era il tempo dei fichi, un tempo fruttuoso, per la durezza di cuore delle autorità religiose giudaiche.
Il v.14 si apre riprendendo l'apertura del v.11: “E vanno a Gerusalemme. Ed entrato nel tempio”, dando, quindi, continuità narrativa al v.11. E qui nel Tempio Gesù “incominciò”. L'azione di Gesù, pertanto, assimilabile più ad un gesto profetico che ad un atto rivoluzionario e distruttivo, non fu soltanto uno sfogo di rabbia, ma ebbe una continuità che ha avuto inizio con quel gesto, ma proseguì poi con il suo insegnamento: “E insegnava e diceva loro” (v.17a). Il verbo all'imperfetto indicativo, tempo durativo, dice come questo insegnamento non fu occasionale, ma continuativo.
L'azione di Gesù puntò su tre categorie di persone: a) “quelli che vendevano e quelli che comperavano nel tempio”; b) i “cambiavalute e i venditori di colombe” (v.15); c) “non permetteva che qualcuno trasportasse un vaso attraverso il tempio” (v.16).
I luogo in cui tutte queste cose avvenivano era il cortile dei Gentili, una vasta area all'interno del recinto del Tempio, aperta a tutti, anche ai pagani. L'area sacra del Tempio, invece, era racchiusa da un recinto ed era elevata rispetto al cortile dei Gentili, per cui per accedervi bisognava salire alcuni gradini. L'accesso, pena la morte, era consentito esclusivamente ai giudei. Questa ampia area, quindi, era diventata una sorta di piazza del mercato e un luogo di transito per quelli che dalla città volevano recarsi al monte degli Ulivi, usando il territorio del Tempio, come una sorta di scorciatoia (v.16).
L'intervento di Gesù doveva mettere ordine a tutta questa baraonda dissacrante, ma anche redditizia per il Tempio e i sacerdoti, e restituire al Tempio la sua dignità e il rispetto dovuto alla casa di Dio.
Tuttavia, quel rovesciamento dei banchi dei cambiavalute e delle sedie dei venditori di colombe va letto più che in senso reale, in senso metaforico e, cioè, un tentativo di rovesciare un culto ormai asfittico, fatto di cose da fare e da eseguire secondo prescrizioni legalistiche, ma senza alcun coinvolgimento esistenziale.
Il gesto viene fatto seguire da un insegnamento: “Non è scritto che la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli? Voi, invece, l'avete fatta una spelonca di ladri”. Marco mette sulle labbra del suo Gesù due citazioni: la prima tratta da Is 56,7c; la seconda, quella della spelonca di ladri, tratta da Ger 7,11.
Quanto
alla prima citazione, Marco è l'unico tra gli evangelisti che cita
per intero Is 56,7c, gli altri due Mt 21,13 e Lc 19,46, si limitano a
riportare Is 56,7c soltanto nella sua prima parte: “la
mia casa sarà chiamata casa di preghiera”.
In questo caso l'accento cade sulla contrapposizione dell'uso che i
giudei fanno del Tempio e su quello che il Tempio dovrebbe essere
realmente: una casa di preghiera. Marco riporta, invece, per intero
la citazione: “la
mia casa sarà chiamata casa di preghiera per
tutti i popoli”,
dando in tal modo un tocco di universalismo e messianico al Tempio,
non più di esclusivo uso dei Giudei, ma aperto a tutti quelli che
credono nel Dio d'Israele (Is 56,3-7: At 10,34-35). Ed è ciò che
accadrà con la venuta di Gesù, che preannuncia la distruzione del
Tempio (13,2) e la fine del suo culto nel velo squarciato (15,38),
per poi approdare a quel culto spirituale preannunciato dal Gesù
giovanneo alla Samaritana (Gv 4,21.23-24).
Quanto
alla seconda citazione, quella di Ger 7,11, questa va compresa nel
contesto da cui è stata tratta, poiché ha una stretta attinenza con
il culto nel Tempio e il modo di vivere: “Ma
voi confidate in parole false e ciò non vi gioverà: rubare,
uccidere, commettere adulterio, giurare il falso, bruciare incenso a
Baal, seguire altri dei che non conoscevate. Poi venite e vi
presentate alla mia presenza in questo tempio, che prende il nome da
me, e dite: Siamo salvi! per poi compiere tutti questi abomini. E'
forse è una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che
prende il nome da me?”
(Ger 7,8-11). Ed è sostanzialmente ciò che dirà anche Is 1,10-17.
Serve, dunque, per accedere a un nuovo culto, un radicale
rinnovamento del cuore e una vita profondamente rigenerata, in cui
viene incarnata la Parola di Dio. Tutto il resto è marginale, poiché
Dio punta al cuore dell'uomo e non alla pratica religiosa.
Significativo in tal senso è il dialogo tra Gesù e la Samaritana,
che avendo intuito chi aveva davanti, gli sottopone una questione che
contrapponeva i Giudei ai Samaritani: “I
nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è
Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”
(Gv 4,20). E Gesù supererà la questione prospettando una nuova
realtà, che non ha più a che vedere con il Tempio e i suoi
sacrifici: “Credimi,
donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in
Gerusalemme adorerete il Padre […] Ma viene l'ora ed è adesso,
allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità;
e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio
è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in
spirito e verità” (Gv 4,21.23-24). Un culto, quindi, che si
celebra nella vita, che si fa liturgia di lode e di ringraziamento a
Dio; una vita che diviene preghiera.
La
storicità dell'episodio (11,15-17)
Il racconto della purificazione del Tempio è riportato da tutti gli evangelisti, pur con qualche comprensibile e giustificabile variazione. Tuttavia, l'episodio presenta problemi circa la sua storicità, poiché il contesto storico, in cui è avvenuto, non lo rende credibile. Tutti gli evangelisti pongono l'episodio nella cornice della pasqua ebraica, un tempo molto critico per la sicurezza e per questo il livello di attenzione delle autorità religiose, civili e militari era altissimo30. Oltre all'incremento di reparti militari, provenienti in rinforzo dalla vicina Siria31, va tenuto presente che il gesto di Gesù si compie all'interno del recinto del Tempio, sorvegliato non solo dalla polizia del Tempio32 e dalle stesse autorità religiose, ma anche da una nutrita guarnigione romana, insediata nella Fortezza Antonia o Torre Antonia33, che dall'alto, prospiciente sul Tempio, controllava l'intero flusso e l'intero movimento di persone al suo interno. Se Gesù avesse effettivamente fatto ciò che gli evangelisti raccontano, avrebbe creato un notevole parapiglia generale, generando una situazione di criticità nella sicurezza; per questo sarebbe stato immediatamente arrestato e subito imprigionato. Sarebbe stata, quindi, un'ottima occasione per porre fine alle continue sfide di questo sedicente rabbi, che era visto dalle autorità come un pericoloso sobillatore (Gv 11,46-50; 18,14). Inoltre, nessuno avrebbe più avuto nulla da eccepire e le autorità avrebbero avuto in mano una carta vincente, presentando Gesù come un pericoloso e blasfemo sovvertitore dell'ordine pubblico e religioso; un attentatore del Tempio. E chi mai avrebbe potuto dire il contrario?
Vi sarebbe, inoltre, da capire il motivo che spinse Gesù a intervenire così pesantemente sui venditori di colombe e di animali per il sacrificio e sui cambiavalute. Entrambe le figure erano indispensabili per il buon funzionamento del Tempio. Entrambe rendevano un servizio importante. I venditori fornivano sul posto animali di varie taglie, così come stabilito dalla Legge (Lv 1,2) ed erano animali selezionati e controllati, perché dovevano possedere tutte le prescrizioni legali, che li rendevano idonei al sacrificio (Lv 1,3a.10; 22,17-33). Quanto ai cambiavalute, questi cambiavano ai numerosissimi pellegrini, provenienti da tutto l'impero, le loro monete, considerate impure e quindi non idonee per l'offerta al Tempio, con l'unica moneta accettata dal Tempio: il siclo d'argento di Tiro34. Da questo commercio non traevano beneficio soltanto venditori e cambiavalute, ma anche il Tempio stesso, che imponeva a questi commercianti una tangente sulle loro attività. Inoltre, questo commercio si collocava in un'area profana, denominata significativamente cortile dei Gentili, che costituiva una sorta di grande piazzale in cui tutti, ebrei e pagani, potevano liberamente accedere. Esso potremmo definirlo un po' come il sagrato delle nostre chiese. Non si comprende, quindi, perché Gesù se l'avesse presa così di petto con persone che, di fatto, rendevano un servizio autorizzato al Tempio e contribuivano in qualche modo anche al suo sostentamento.
Per questo insieme di considerazioni, diventa molto difficile ritenere come storicamente accaduto questo episodio, che, invece, a nostro avviso, va letto solo come gesto profetico, simbolico, finalizzato a far comprendere alle comunità credenti il senso della missione di Gesù, che, ora, posta a ridosso della passione e morte, sta per raggiungere il suo vertice.
Il
v.18 chiude il racconto della cacciata dei venditori dal Tempio,
riprendendo lo schema narrativo di 3,6, in cui farisei ed erodiani,
usciti dalla sinagoga, dove Gesù aveva guarito l'uomo dalla mano
rinsecchita in giorno di sabato, confabulano tra loro sul come far
perire Gesù. Cambiano i personaggi, perché i luoghi sono diversi:
là si è ancora in Galilea; qui a Gerusalemme, il luogo dove
sacerdoti e dottori della Legge sono di casa, ma gli intenti
assassini sono identici, testimoniati, qui come là, da quel
“cercavano di farlo perire”, dove il “cercavano”,
posto all'imperfetto indicativo, dice la persistenza di questi loro
intenti di morte; ma il verbo dice anche che essi stavano elaborando
dei progetti per sopprimere Gesù.
Capi dei sacerdoti e dottori della Legge sono le due figure che, assieme agli anziani, formano il gruppo di persecuzione e di accusa contro Gesù. Un gruppo che compare sempre in contesti dove si parla o si preannuncia in qualche modo la passione e morte di Gesù. Lo ritroviamo per la prima volta nel primo annunci della passione in 8,31; lo ritroveremo qui al v.27 nel contesto della prima delle cinque diatribe giudaiche, che preludono allo scontro finale tra le autorità religiose e Gesù, che avrà come esito finale la condanna a morte; ricompariranno nel Getsemani in 14,43, come mandanti dell'arresto di Gesù e in 14,53, dove, assieme al sommo sacerdote, interrogano Gesù e in 15,1, dopo la loro sentenza di morte su di lui, lo conducono da Pilato.
Il versetto si chiude in modo contrastato, evidenziando come la figura di Gesù fosse per il giudaismo imbarazzante ed equivoca: da un lato le autorità religiose, che cercano il modo di sopprimerlo, attestando in tal modo come quel fico così ricco di foglie non era in grado di produrre nessun frutto se non di morte; dall'altro, una folla stupita per l'insegnamento di Gesù, che incuteva timore ai suoi avversari.
La
pericope, vv.12-19, si chiude con la consueta nota temporale e
spaziale e con questa si chiude il secondo giorno dell'attività
missionaria di Gesù in Gerusalemme. Benché in senso generico Marco
dica che Gesù e i suoi “uscivano dalla città”, il luogo dove
essi sono diretti è sempre Betania. Lo lascia intendere l'inizio del
terzo giorno (v.20), dove passano nuovamente davanti al fico
rinsecchito, che al v.12 avevano trovato appena fuori Betania.
La
prospettiva di un nuovo culto, fondato sulla fede, sulla preghiera e
il perdono (vv.20-26)
Note generali
I vv.20-21, con cui si apre la terza giornata di Gesù a Gerusalemme, che si concluderà in 14,1 con la segnalazione temporale che mancano due giorni alla Pasqua, sono di transizione, perché chiudendo il racconto del fico, iniziatosi al v.12 e includente quello della cacciata dei venditori dal Tempio, traghettano il lettore verso una nuova pericope (vv.22-26), che potremmo definire come uno spazio di catechesi e di riflessione, che apre il lettore alla visione di un nuovo culto. Una pericope che non va considerata, pertanto, a se stante, come una sorta di incomprensibile inciso tra la cacciata dei venditori dal Tempio e la sezione delle diatribe giudaiche (11,27-13,1), finalizzata soltanto a raccogliere qualche detto di Gesù, che Marco non sapeva altrimenti dove inserire; al contrario, questa pericope (vv.20-26) è parte integrante della sezione circoscritta dai vv.12-26 e costituisce il naturale e logico sviluppo dei due racconti precedenti, quelli del fico e della cacciata dei venditori dal Tempio, che sviluppano una dura critica al giudaismo e al suo culto, definendolo infruttuoso e inconsistente ai fini spirituali e del rapporto con Dio, di fatto ponendovi fine. La critica mossa, tuttavia, non è sterile e fine a se stessa, limitandosi a demolire, ma propone un nuovo culto, non più fatto di incensi e olocausti, ma squisitamente spirituale, che coinvolge il cuore stesso del credente. Un culto fondato essenzialmente su tre elementi tra loro strettamente concatenati: la fede, che si esprime nella preghiera e si fa azione di amore, testimoniato nel perdono. Marco, pertanto, qui contrappone ad un culto sterile un'altra forma di culto del tutto spirituale, che si celebra non più in un tempio con offerte, sacrifici ed olocausti, ma nella vita di ogni credente.
I vv.20-21, pertanto, danno continuità narrativa ai due racconti precedenti e li saldano alla pericope seguente (vv.22-26), presentandola come un loro naturale e conseguente sviluppo, di fatto come proposta di un nuovo culto spirituale. Una proposta che, si noti bene, avviene agli inizi del “terzo giorno”, dopo che si è constatato che il fico infruttuoso si è completamente rinsecchito. In altri termini, con il terzo giorno viene in qualche modo allusa la risurrezione, che inaugura un nuovo tempo, quello escatologico, collocando il credente in un nuovo rapporto con Dio, da cui ottiene la salvezza per fede (Gv 3,16), che si espleta, in Cristo per Cristo e con Cristo, in un rapporto vitale con Dio, trasformando la propria vita in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento, che, tuttavia, non può attuarsi se non nell'amore, che si adempie nella riconciliazione con l'altro, poiché, attesta Gv 4,20b: “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”. Un amore di Dio, dunque, che passa attraverso a quello del prossimo, poiché, attesta il Gesù matteano, qualunque cosa avete fatto ad uno di questi piccoli l'avete fatta a me (Mt 25,40.45)
Un nuovo culto spirituale a Dio, che come luogo non ha più un tempio materiale, ma il nuovo tempio del proprio corpo (1Cor 6,19-20); e come sacrifici non più incensi, focacce od olocausti, ma l'offerta di se stessi, in cui sacerdote e vittima sono il credente stesso, come sollecita lo stesso Paolo nella sua lettera ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1).
La
struttura della pericope 20-26 si distribuisce su quattro parti:
Ripresa e conclusione del racconto del fico e transizione ad uno spazio di catechesi e di riflessione, che apre alla visione di un nuovo culto (vv.20-21);
prima lezione: la fede deve radicarsi nella sincera e profonda convinzione del credente (vv.22-23)
versetto di transizione, che conclude la prima lezione ed apre ad un nuovo tema, quello della preghiera (v.24);
seconda lezione: non vi può essere preghiera senza la
riconciliazione con l'altro (v.25).
Il
v.26, che non risulta dalla critica letteraria, per cui non viene
inserito nel testo canonico, altro non è che la versione al negativo
del v.25.
Commento
ai vv.20-26
Il v.20a si apre con una nota temporale, che inaugura la terza giornata del soggiorno di Gesù a Gerusalemme, che si concluderà in 14,1 con la segnalazione che mancano due giorni alla pasqua.
Il
v.20b riprende in qualche modo il v.14b, dove si attesta che i
discepoli “udivano”, cioè furono testimoni della maledizione di
Gesù contro il fico. Ora questa testimonianza si completa con il
“vedere” da parte dei discepoli gli effetti di quella
maledizione: “videro il fico seccato dalle radici”. Un fico
infruttuoso, quindi, che viene divelto dalla maledizione; un anatema
che va ad intaccare la parte vitale di questo fico: le radici, con
cui esso traeva il suo nutrimento dal terreno della Torah e del culto
del Tempio. Al di fuori della metafora, il giudaismo e il suo culto
sono stati squalificati da Gesù ed estromessi dalla storia della
salvezza, per la durezza di cuore delle autorità giudaiche, che
hanno disconosciuto in Gesù l'inviato di Dio (Gv 1,11; 12,37) e lo
hanno rifiutato, perseguitato ed infine ucciso, come racconterà
Marco in apertura del cap.12 con la parabola dei vignaioli infedeli e
assassini. Una conclusione amara e sconfortante, che addolorò
profondamente Paolo, che non riusciva a capacitarsi di questo rifiuto
da parte dei suoi correligionari. Un dolore che, come una sorta di
diario personale, sfogherà nei capp.9-11 della lettera ai Romani,
cercando di trovare un senso a tale rifiuto negli imperscrutabili
disegni di Dio.
Il v.21 riprende il v.20b, in cui genericamente si dice che i discepoli videro il fico rinsecchito, e pone il sigillo definitivo sulla testimonianza dei Dodici con l'intervento di Pietro, quale loro portavoce, che attesta come questo fico sia stato rinsecchito per opera di Gesù, perché non ha saputo dare frutti nel tempo opportuno (v.13c). Un'attestazione, che in quel “essendosi ricordato Pietro”, viene lasciata alla memoria e che probabilmente risuonava ancora nelle prime comunità credenti, che ne leggevano il riscontro storico nella distruzione del Tempio e del suo culto nel 70 d.C. e in quello teologico del velo squarciato del Tempio (15,38) alla morte di Gesù, quasi a dire che nel Tempio non vi era più la presenza di Dio e come Egli non fosse più in mezzo al suo popolo, che ha rifiutato e ucciso il suo inviato.
Da un punto di vista narrativo il v.21 funge da trait-d'union tra l'episodio del fico, della cacciata dei venditori dal Tempio e la catechesi sulla fede, dando così seguito ai due episodi precedenti, che confluiscono naturalmente in essa. Una confluenza che va vista come un radicale cambio di direzione: se il culto giudaico, significato nel fico rinsecchito e nel Tempio, non ha saputo produrre frutti di conversione e tali da non saper riconoscere in Gesù l'inviato di Dio e l'atteso Messia, giunto per rinnovare il culto a Dio, questa era una delle funzioni primarie del Messia atteso, allora significa che tutto l'apparato cultuale giudaico si era svuotato di ogni significato spirituale e privato di ogni intelligenza spirituale, quindi di ogni capacità di comprendere il linguaggio di Dio, che andava letto in termini spirituali e non storici, come insegnavano i profeti. Si rende quindi necessario dare una sterzata a questo culto fatto di sacrifici di animali, ma che non coinvolgeva esistenzialmente il credente e lo teneva lontano da Dio e lo illudeva di essergli fedele e prediletto per l'osservanza di una Legge che Gesù aveva definito “precetti di uomini” (Mt 15,9; Mc 7,7), ed aprirlo così ad un rapporto personale e spirituale con Dio che lo coinvolgesse esistenzialmente. Da qui l'imperativo: “Abbiate fede in Dio!”
Il v.22 presenta il tema che verrà sviluppato nei due successivi vv.23-24, ma nel contempo costituisce un'esortazione ed un comando, che impone al credente di fondare il proprio rapporto con Dio sulla fede e non su offerte, sacrifici od olocausti. È significativo, infatti, come questa esortazione-comando costituisca la risposta che Gesù dà all'osservazione di Pietro sul fico, contrapponendo al fico rinsecchito la vita che proviene dalla fede: “E Gesù rispondendo, dice loro”.
È la fede, dunque, il giusto atteggiamento che deve rapportare il credente al suo Dio; fede che è apertura e orientamento esistenziali verso di Lui, che lo collocano in Lui, rendendolo partecipe della sua vita (Gv 3,16). Uno stretto rapporto, dunque, tra fede e vita. È rilevante il fatto che Giovanni nel suo vangelo non usi mai il sostantivo fede, ma solo il verbo “credere”, poiché il verbo indica sempre un'azione, quella che è più confacente al vivere, mentre il sostantivo esprime un concetto, un'astrazione della realtà, è un forma più intellettuale che di vita. La fede per Giovanni, invece, è espressione di vita ed è rivelativa di un modo di vivere, che orienta il credente a Dio e lo apre a Lui e gli dona un'intelligenza spirituale, che gli consente di vivere secondo le esigenze di Dio (Rm 12,2). Essa è per l'evangelista un cammino esistenziale verso Dio; non è un caso, infatti, se il verbo credere in Giovanni è spesso seguito dalla particella di moto a luogo o verso luogo “e„j” (eis), definendo il movimento della vita del credente. Solo una volta, in Gv 3,15, il verbo credere è fatto seguire dalla particella di stato in luogo “™n” (en, in), per attestare che la fede colloca il credente in Dio fin da subito, anche se non in modo definitivo.
La formulazione di questa esortazione, “Ecete p…stin qeoà” (Echete pístin tzeû), che si traduce normalmente con “Abbiate fede in Dio”, è alquanto bizzarra e inconsueta e si ritrova soltanto in Marco. Questa espressione “p…stin qeoà” (pístin tzeû) dove “tzeû”, direttamente dipendente da “pístin”, è un genitivo, ascrivibile probabilmente ad una sorta di forma di genitivo adnominale, cioè un genitivo che dipende o si accompagna ad un nome e che, come in questo caso, potrebbe essere un genitivo di argomento in cui la preposizione “per…” (perí, intorno a, quanto a, circa a) è stata sincopata, per cui la traduzione dovrebbe essere “quanto a Dio, abbiate fede”. Il senso, comunque, non cambia.
Se il v.22 attesta la necessità di una fede, che interpelli il modo di vivere del credente e si incarni in lui, il v.23 dice come questa fede deve essere. L'importanza di questa definizione circa la natura della fede, che Marco fa per immagini, che meglio ne rendono il senso, si apre con la formula delle grandi occasioni: “In verità vi dico”, una sorta di giuramento che impegna solennemente Gesù su quanto segue. L'immagine che qui Marco propone è quella caratteristica di un paradosso, che meglio rende il senso di come deve essere la fede, che deve animare la vita del credente: “chi dicesse a questo monte: “Levati e gettati in mare” e non esitasse nel suo cuore, ma credesse che ciò che dice succede, (ciò) gli succederà”. Il monte a cui Gesù qui fa riferimento è certamente quello degli Ulivi, considerato che la comitiva (Gesù e i Dodici) sta dirigendosi da Betania a Gerusalemme; mentre il mare di riferimento, quello più vicino, è il Mar Morto, che dista da Gerusalemme, in linea d'aria, poco meno di 30Km. Ma ciò che più interessa al lettore è quel “non esitasse nel suo cuore, ma credesse”. Una fede, quindi, che deve essere radicata nel cuore del credente e lo deve informare nel suo modo di essere, così da costituire il suo modus operandi e vivendi. Una fede a prova di ogni dubbio e che va oltre ogni dubbio; una fede indefettibile. Significativo è quel “ciò gli succederà”, cioè “succederà” quello a cui egli crede, dando così una concretezza esistenziale e visibile alla fede stessa; una fede che si radica e si manifesta concretamente nell'oggetto del suo credere, non tanto nel miracolismo, quanto nella vita stessa del credente, che nella e dalla fede viene plasmato e trasformato, così da divenire egli stesso evento di fede, testimone della realtà di Dio, che vive e si manifesta in lui. La fede ha e deve sempre avere un risvolto manifestativo, diversamente non è fede. Lo attesta Rm 10,9: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo”. La fede, dunque, deve radicarsi nel cuore, ma deve anche manifestarsi agli altri, poiché una fede senza le opere è morta (Gc 2,26b).
Il v.24 è di transizione perché, concludendo il tema
della fede in 24b, introduce con 24a quello successivo della
preghiera con quel “tutto quanto invocate e chiedete”.
Si è giunti qui all'ultimo passaggio sulla fede: dall'esortazione-comando dell'aver fede in Dio (v.22), si è passati al dover credere senza esitazioni nella profondità del proprio cuore (v.23), per arrivare infine alla pratica della fede nella preghiera, che si esprime in quel “invocate e chiedete”, ma che ancor prima dice il rapporto che lega il credente al suo Dio, sul quale poggia ogni certezza; un rapporto di fiducia, di abbandono nelle braccia del Padre, come un “bambino svezzato lo è nelle braccia della madre” (Sal 130,2). La preghiera, per sua natura, dice relazione spirituale: comunicazione con Dio, che si fa comunione di vita con e in Lui. Una preghiera di invocazione e di domanda, ma che è soltanto una forma di preghiera, che ha la sua autentica espressione in una vita, che si è fatta preghiera, cioè orientamento esistenziale verso Dio, come suggerisce 1Cor 10,31: “Sia dunque che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” per essere “irreprensibili e semplici, figli di Dio immacolati in mezzo a una generazione perversa e degenere, nella quale dovete splendere come astri nel mondo” (Fil 2,15).
Il v.25, preannunciato dal v.24, introduce il tema della preghiera a cui si aggancia quello del perdono. Un tema che richiama da vicino quello di Mt 5,23: “Se dunque presenti la tua offerta sull'altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te”; e nel contempo anche la formula matteana del Padre nostro: “e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). Un versetto molto denso perché sottende, di fatto, l'intero vivere credente.
“Allorché state pregando” non va inteso nel senso restrittivo che gli attribuisce Mt 5,23, che lega la riconciliazione tra fratelli nel momento dell'offerta e al ricordo dell'offerente. Quel “allorché” non ha un senso limitativo, ma estensivo, poiché la preghiera investe l'intera vita del credente ed è un suo modo di vivere e di esprimersi nella vita credente, che per sua natura è costantemente orientata a Dio e deve divenire un continuo atto di offerta di se stessi a Dio (Rm 12,1), così da diventare una liturgia di lode e dì ringraziamento, che si celebra con e nel proprio vivere quotidiano. Il credente, infatti, non vive la sua vita, ma la celebra come un atto di culto, dove egli è sacerdote offerente e offerta di se stesso nel contempo. Ed è proprio all'interno di questo contesto esistenziale orante che il Gesù marciano sollecita il perdono: “perdonate”, cioè nulla deve chiudere il credente all'altro e tanto meno deve spingerlo contro l'altro. Il perdono è la forma più evoluta dell'amore e sarà l'ultimo atto che compirà il Gesù morente: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34a). Ma l'amore del credente, che deve informare il suo modo di vivere, non va inteso come un sentimento o uno stato emotivo, ma come un atteggiamento di vita che è totale apertura all'altro, totale donazione di se stessi all'altro, totale accoglienza dell'altro in se stessi, poiché questo è Dio, che vive ed opera in te in virtù della fede. E il Gesù matteano in questo pone davanti al credente una meta che lo sollecita ad una continua conversione; conversione che deve diventare la dinamica dell'evoluzione spirituale del credente; conversione come stile di vita: “Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48), in cui riecheggia il pressante sollecito di Lv 19,2b: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”.
Questo, dunque, è il vivere credente e del credente, che deve lasciar trasparire nel proprio vivere quotidiano quelle realtà spirituali di cui è stato rivestito e permeato nel battesimo e, ancor prima, nella fede (Ef 1,13).
Imbarazzante è il modo con cui termina il v.25: “affinché anche il Padre vostro, che è nei cieli, perdoni a voi i vostri peccati”. Perdonare, dunque, per essere perdonati. Questo lascia intendere che esiste uno stretto legame con il modo con cui ci si rapporta con l'altro, “perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati” (Mt 7,2).
Si
chiude così il v.25, che si prolunga al v.26, che riporta la formula
inversa e complementare del v.25b, ma che la critica testuale ha
tralasciato, perché non è riportato nei migliori testimoni, tra cui
quello Vaticano e, quindi, di dubbia autenticità. Entrambi i
vv.25b-26, comunque, riprendono Mt 6,14-15, che attingono a loro
volta alla comune fonte Q, da cui dipende in questo caso anche Marco.
Lo lascia intravvedere quel “Padre vostro, che è nei cieli”, una
formula totalmente estranea a Marco e che si ritrova soltanto qui.
Le cinque
diatribe giudaiche (11,27-12,37)
Prima diatriba: l'identità di Gesù irraggiungibile dal giudaismo per la sua incredulità (vv.27-33)
Testo a lettura
facilitata
Introduzione (v.27)
27- E vanno nuovamente a Gerusalemme. E mentre egli passeggiava nel tempio, vanno verso di lui i capi dei sacerdoti e gli scribi e gli anziani
La questione del dibattimento (v.28)
28- e gli dicevano: <<Con quale autorità fai queste cose? O chi ti ha dato questa autorità perché tu faccia queste cose?>>.
La contro questione (vv.29-30)
29-
E Gesù disse loro: <<Vi interrogherò un parere e rispondetemi
e vi risponderò con quale autorità faccio queste cose:
30-
Il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini?
Rispondetemi>>.
L'imbarazzo (vv.31-32)
31-
E discutevano tra loro dicendo: Se rispondiamo: “Dal cielo”,
dirà: “Perché dunque non gli avete creduto?”
32-
Ma se diciamo: “Dagli uomini?” - Temevano la folla: tutti quanti
infatti stimavano veramente che Giovanni fosse un profeta.
Gesù
rimane irraggiungibile per l'incredulità (v.33)
33-
E rispondendo a Gesù dicono: <<Non (lo) sappiamo>>. E
Gesù dice loro: <<Neppure io vi dico con quale autorità
faccio queste cose>>.
Note generali
Dopo l'episodio del fico rinsecchito, metafora di un culto giudaico ormai incapace, al di là della sfarzosità del culto e delle sue pretese di superiorità rispetto al mondo pagano (Rm 2,1,17-20), di produrre frutti spirituali; episodio sfociato, poi, nel gesto profetico di rovesciare tale culto, il cui senso era di volerlo spogliare di tutti quegli orpelli legalistici, dai quali era ingessato e che lo rendevano incapace di relazionarsi con il suo Dio con la sincerità di un cuore rigenerato dallo Spirito della Legge e non più mortificato dalla sua lettera, ora tale scontro si sposta su di un piano ideologico, che sta alla base culturale su cui poggia anche il culto, ed è sintetizzato nelle cinque diatribe giudaiche (11,27-12,37), che hanno il loro parallelo nelle cinque diatribe galilaiche (2,1-3,6): là gli interlocutori erano gli scribi e i farisei, qui, nel cuore del potere religioso e civile, i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani, categorie di persone che formano il Sinedrio, che poi giudicherà Gesù e lo condannerà a morte. Tutti e ovunque sono accomunati tra loro da una vis polemica contro Gesù e da inequivocabili intenti di morte (3,6; 12,12).
Il problema che sta alla base di queste dispute, sia quelle galilaiche (2,1-3,6) che queste giudaiche (11,27-12,37), tra Gesù e le autorità religiose è in buona sostanza l'autorità con cui Gesù parla e opera, che si riconduce, a sua volta e in ultima analisi, all'identità di Gesù. Chi è questo sedicente rabbi che parla con un'autorità e un'autorevolezza, che stupiva il popolo con insegnamenti mai uditi (1,22.27), e che con la sua parola dominava le forze della natura (4,41; 6,51)? Una figura certamente inquietante e fuori dagli schemi ordinari, se gli stessi suoi familiari, entrati in conflitto con lui (3,31.33), lo ritengono fuori di testa (3,21b) e vogliono portarselo a casa prima che comprometta se stesso e loro con le autorità religiose (3,21a). Certo, si scoprirà che questo Gesù è il Messia (8,29), nonché Figlio di Dio (9,7), ma questa strana identità, del tutto incomprensibile ai suoi e fuori dai loro schemi mentali (8,32b; 9,10), era circoscritta all'interno della ristretta cerchia dei Dodici.
Ora
con queste cinque diatribe giudaiche, giunti ormai al termine della
missione di Gesù e alla soglia della sua passione e morte, viene
posta ufficialmente e pubblicamente la questione sull'identità e
sull'origine di Gesù. È significativo, infatti, come la sezione
delle diatribe giudaiche sia inclusa proprio dalla questione
sull'identità di Gesù (11,28; 12,35.37). Una sezione questa che,
altrettanto significativamente, si apre con un'indagine da parte dei
capi dei sacerdoti, scribi ed anziani, membri del sinedrio,
sull'autorità di Gesù e, quindi, in ultima analisi, sulla sua
identità (vv.27-28); un interrogatorio che prelude e in qualche modo
si pone in parallelo a quello che il Sinedrio condurrà su Gesù
(12,61) e che lo porterà alla sua condanna a morte (12,64). Ed è
significativo il fatto che queste diatribe, che hanno per intento
quello di porre la questione sull'identità di Gesù e sulla sua
origine, si pongano a ridosso della passione e morte di Gesù, in cui
Gesù si svelerà nella sua regalità (15,9.18.26.32) e divinità
(15,39), fornendo la chiave di lettura di quella passione e morte,
che appare come la fine di una illusione, ma che agli occhi del
credente è fonte di salvezza, in cui prende forma storica la
misericordia di Dio (Lc 1,77-79)
Lo
schema narrativo di questa prima diatriba (vv.27-33) è scandita in
cinque parti:
Parte introduttiva, che colloca questa diatriba e le successive quattro all'interno del Tempio, presentando gli inquietanti interlocutori di Gesù (v.27);
La questione posta su Gesù, circa la sua autorità e da chi è stato investito di tale autorità (v.28); è, in ultima analisi, la ricerca posta sulla natura di Gesù, su chi egli veramente è e, in particolar modo, sulla sua provenienza. Quesiti questi che conducono direttamente nel cuore del Mistero dell'evento Gesù e da qui a quello di Dio stesso ;
Il Battista è la chiave per comprendere Gesù (vv. 29-30), non solo perché nei racconti evangelici la vita del Battista è posta in uno stretto parallelismo con quella di Gesù e in qualche modo la preannuncia (Lc 1,76-77), ma anche perché Giovanni ha indicato chiaramente in Gesù colui che doveva venire, cioè il messia (“Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, colui che viene35, Lc 7,20) e che avrebbe battezzato con Spirito Santo (1,8) e al quale egli, il più grande tra i nati di donna (Mt 11,11), non era degno neppure di slacciargli i sandali (1,7);
Viene qui messa in rilievo la pervicace quanto invincibile cecità delle autorità giudaiche (vv.31-32): il rifiuto di riconoscere Giovanni come l'inviato di Dio, che ne precede la venuta, porta al rifiuto di accogliere Gesù, Rivelazione del Padre;
Per questo il Mistero di Gesù, la sua natura e il “da dove” egli venga, rimane loro nascosto (v.8)
Commento ai vv.27-33
Il v.27 funge da cornice introduttiva all'intera sezione delle diatribe (11,27-13,1a), che ha per sfondo il Tempio in Gerusalemme, un binomio che caratterizzerà il soggiorno di Gesù a Gerusalemme (vv.11.15.27). Vengono qui presentati i personaggi della prima delle cinque diatribe: Gesù e i suoi interlocutori: i capi dei sacerdoti, gli scribi e gli anziani, le tre categorie di personaggi rappresentative del Sinedrio. L'interrogatorio di Gesù, che segue, pertanto, anticipa in qualche modo quanto avverrà in 14,53.61.
Il v.27a riproduce lo schema narrativo del v.15 e quello, ancor prima, del v.11, dove Gesù, entrato in Gerusalemme la prima volta va subito nel Tempio. È dunque questa la terza volta che Gesù va a Gerusalemme, pur partendo questa volta, come la precedente (v.15), da Betania, per raggiungere Gerusalemme con destinazione immediata il Tempio. Lo sottolinea quel “nuovamente”, che accompagna qui la sua entrata in Gerusalemme. Un particolare, quello della sua costante presenza nel Tempio, che verrà ricordato anche da Gesù ai suoi avversari in 14,49a: “Ogni giorno ero nel tempio insegnando presso di voi e non mi prendeste”.
La seconda parte del v.27 presenta la scena del Tempio, dove Gesù “passeggiava”. È la prima volta che Gesù entra nel Tempio e vi passeggia. La prima volta entra nel Tempio e, avvolto nel suo silenzio, getta il suo sguardo indagatore tutt'attorno, quasi a voler prendere atto della situazione in cui versava il Tempio e il suo culto (v.11); la seconda volta vi entra quasi per porvi rimedio, compiendo quel gesto profetico di rovesciamento di un sistema e di un ordine cultuale, su cui lancia il suo giudizio di condanna: il Tempio è diventato una spelonca di ladri, non è più una casa di preghiera; forse anche per questo il velo del Tempio si squarcerà (15,38); ora, la terza volta (vv.15-17), Gesù vi “passeggiava”, per esprimere la presa di possesso del Tempio. Uno scenario tranquillo, che prelude alla tempesta, poiché, ecco, “vanno verso di lui i capi dei sacerdoti e gli scribi e gli anziani”. Sono quei personaggi di cui al v.18 si dice che “udirono i capi dei sacerdoti e gli scribi e cercavano come farlo perire”, ma non intervennero per timore della folla, ma che ora ritroviamo qui, per sottoporre ad interrogatorio giudiziale Gesù sul suo gesto sovversivo, che aveva colpito il Tempio e con esso il cuore del giudaismo e del culto.
Quel “vanno verso di lui” dei sinedriti, che verrà ricordato da Gesù anche in 14,49, prelude quel loro avvicinarsi a Gesù nell'orto del Getsemani, dove compaiono tutte tre le categorie come mandanti del suo arresto (14,43).
Il v.28 presenta l'interrogatorio dei sinedriti, che prelude a quello del sommo sacerdote. Anche là, come qua, si interroga Gesù sulla sua identità: là in modo diretto e più esplicito: “Sei tu il cristo, il figlio del Benedetto?” (14,61c). Qui l'indagine su Gesù verte sulla sua autorità e sulla provenienza della sua autorità. In ultima analisi sull'origine di Gesù e sulla sua identità nascosta, e che tale rimarrà per l'incredulità delle autorità giudaiche (v.33b).
La questione dell'autorità di Gesù e della sua provenienza non è nuova in Marco36, ma ora la questione, posta a ridosso della sua passione e morte, acquista una valenza del tutto particolare, poiché ad essa si lega il senso della morte di Gesù e del suo sacrificio, che resterà irraggiungibile per chi non crede.
Con i vv.29-30, sulla falsaria delle dispute rabbiniche, Gesù risponde ai suoi interlocutori con una contro domanda, innescando un implicito parallelismo tra lui e Giovanni. In altri termini, rispondere correttamente sull'identità e sul senso della missione del Battista, il quale su Gesù attestava: “Viene il più forte di me dopo di me, di cui non sono degno, chinatomi, di sciogliere la cinghia dei suoi calzari. Io vi battezzai con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo.” (1,7-8) e lo indicava come il Messia: “Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?” (Lc 7,19), una formula questa con cui veniva designato il Messia, pensato come “colui che viene o che deve venire” (Sal 118,26; Gv 6,14; 11,27), significava riconoscere che l'autorità di Gesù veniva da Dio e da Dio egli era mandato.
La contro domanda, pertanto, ha il senso di spingere i sinedriti alla ricerca di una risposta, che in genere costituiva la risposta alla loro stessa domanda. Una sorta di maieutica socratica riformulata secondo le logiche rabbiniche. Due soluzioni si aprono davanti alle autorità giudaiche: riconoscere che la missione di Giovanni aveva un carattere divino, ma in tal caso questo significava, da un lato, un atto di autoaccusa, in quanto che il Battista fu da loro rifiutato; dall'altro il dover riconoscere che Gesù è il Messia atteso, su cui Giovanni aveva posto la sua testimonianza; o negare la natura divina della sua missione, ma in tal caso rischiavano, come avveniva nelle fattispecie di blasfemia, di essere lapidati dal popolo, presso il quale era invece diffusa la convinzione che Giovanni fosse un profeta inviato da Dio (Gv 1,6). Da qui il loro rifiuto di rispondere, che attesta una volta di più la loro invincibile incredulità e la loro pervicace chiusura a Dio e a tutti i suoi messaggeri.
Chi è, dunque, Gesù e da dove gli provenga la sua autorità rimarrà per il giudaismo un mistero insoluto a motivo della sua pervicace e invincibile incredulità.
Note
1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10, dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La “Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
2Cfr. nota qui sopra, n.1
3Uno stadio è un'unità di misura greca adottata anche in Palestina e la sua misura è di poco meno di 185mt. - Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2005, pag.205
4I giorni presso gli ebrei sono conteggiati dalla sera, intorno alle nostre ore 18,00, alla sera del giorno successivo. Questo modo di conteggiare i giorni va tenuto presente per comprendere la datazione che gli evangelisti ci presentano.
5Cfr. la voce “Getsemani” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.
6Il giorno, secondo la suddivisione del tempo dei romani, iniziava alle sei del mattino e terminava alle sei della sera; mentre la notte era suddivisa in quattro vigilie a partire dalle sei della sera, le nostre ore 18,00.
7Il giorno per gli ebrei era suddiviso in due parti: il giorno, che iniziava alle sei del mattino e da qui le ore erano scandite in prima, seconda, terza, ecc. fino alla dodicesima, corrispondente alle nostre ore 18,00. Da quest'ora aveva inizio la notte, che era scandita non più in ore, ma suddivisa in quattro veglie notturne di tre ore ciascuna, per cui la prima veglia andava dalle 18,00 alle 21,00; la seconda dalle 21,00 alle 24,00 e così via di seguito. Il termine “veglia” deriva dal gergo militare e indicava il turno di veglia delle sentinelle durante la notte.
8I cattivi rapporti che intercorrono tra i Giudei e i Samaritani hanno la loro origine sul finire del sec. VIII a.C. allorché, dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista, ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche (2Re 17,24-29). Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, distrutto nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione sia del Tempio che di Gerusalemme (Esd 4,1-5). La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah scritta, disconoscendo quella orale e con essa i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra le due popolazioni si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim. I Samaritani, quindi, erano originari di due diversi ceppi etnici: quello ebraico, che non fu deportato alla caduta del Regno del nord (722 a.C), e quello formato dai coloni provenienti da Babilonia e dalla Media. Erano, dunque, una razza imbastardita non solo etnicamente, ma soprattutto religiosamente. Erano per questo considerati eretici e impuri. Passare per il territorio dei Samaritani ed entrare in contatto con loro significava rimanere contaminati. È significativo e rivelativo della mentalità giudaica nei confronti dei Samaritani quanto dice la Mishnah in loro proposito: “Le figlie dei samaritani sono in stato di mestruazione fin dalla loro culla […] esse restano nell'impurità per sette giorni a causa di ogni genere di flusso di sangue”. Un'espressione che sottolinea il profondo stato di impurità in cui vivevano costantemente gli abitanti della Samaria; un'impurità congenita. Quanto poi alla capacità di testimonianza dei Samaritani si ritenevano questi giuridicamente incapaci, eccetto che per il documento di divorzio. Il samaritano, infatti, era assimilato ad un pagano e considerato alla pari di un 'am ha-haretz, cioè un ignorante, un peccatore e trasgressore.
9Cfr. L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, ed. Editori Associati, Milano, 1994 – pag. 783
10Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
11È significativo quanto viene detto in Ap 5,1: “E vidi nella mano destra di Colui che era assiso sul trono un libro a forma di rotolo, scritto sul lato interno e su quello esterno, sigillato con sette sigilli”. Il libro che Giovanni vede è metafora della storia, scritta sul lato esterno e su quello interno, per dire che la storia, tenuta nelle mani di Dio, è stata pienamente scritta da Dio e agli uomini spetta solo viverla in conformità a quanto è stato scritto. È un libro, tuttavia, sigillato da sette sigilli e quindi impenetrabile nel suo significato più vero e autentico, soltanto l'Agnello, immolato e diritto in piedi (Ap 5,6a), metafora di Gesù morto e risorto, è in grado di togliere i sigilli a questa storia (Ap 5,5), rivelandone il profondo significato. Una storia svelata, dunque, che gli uomini sono chiamati a vivere in conformità alla volontà del Padre, rivelatosi pienamente nel Figlio (Gv 14,9-10).
12A differenza di Mt 21,5 e Gv 12,15 che nel contesto di Gesù che entra a Gerusalemme seduto su di un puledro d'asina citano espressamente Zc 9,9, leggendo in questa entra di Gesù l'attuazione della profezia, Marco qui stranamente non fa alcun riferimento espresso a Zc 9,9, tuttavia la particolare attenzione che l'evangelista riserva a questo “puledro”, che viene descritto e citato numerose volte, lascia intravvedere in qualche modo il riferimento a tale profezia.
13L'espressione “il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina” è una formula caratteristica della retorica ebraica che ripete lo stesso concetto in due modi diversi, per cui si avrà “l'asinello” che viene ripetuto sotto la forma di “figlio della sua asina”. Non si tratta, quindi, di due o tre asini, ma di uno solo, quello che gli evangelisti definiscono come “puledro”. Sarà solo Matteo che leggerà la formula come se ci fossero due asini, il puledro e la madre entrambi legati. Mt 21,2b.7 parla, infatti, di due animali: di un'asina e di un puledro, per rimanere più fedele al testo di Zc 9,9, che citerà subito dopo in 21,5. Zc 9,9 infatti parla di questo re che entra in Gerusalemme cavalcando “epˆ ØpozÚgion kaˆ pîlon nšon” (epì ipozígnon kaì pôlon néon). Quel “kaì” che viene letto erroneamente da Matteo come disgiuntivo, in realtà è specificativo di “ipozígnon” (asino), cioè si tratta di un asino che è anche “un nuovo puledro”. Infatti non è possibile cavalcare contemporaneamente due animali da soma, come lascia poi intendere in 21,7: “condussero l'asina e il puledro e vi misero sopra i loro mantelli e si sedette sopra di loro” .
14Il “sedersi” esprime sempre un atteggiamento autoritario.
15Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990
16Cfr. Lv 23,40; 1Mac 13,51; 2Mac 10,5-8; Gdt 15,12-14; Sal 117,27. Le citazioni riportano tutte antiche celebrazioni sacre o parasacrali, in cui il popolo partecipa agitando rami frondosi e palme
17Il salmo 118 fa parte dell'Hallel (Lode), un gruppo di 6 salmi (sall. 113-118), che veniva cantato in occasione di due grandi festività: quella delle Capanne (Sukkot), celebrata nel mese di Tishri (Settembre/Ottobre); il 14 di Nisan (Marzo/Aprile), mentre al tempio venivano sacrificati gli agnelli pasquali; e, infine, nelle case durante il Seder (=ordine con cui si svolge un rito) o celebrazione del rito della Pasqua. Dopo la distruzione del Tempio, l'Hallel divenne parte integrante della liturgia sinagogale
18L'espressione “Osanna!” deriva dall'aramaico “hōša'-nâ” (in ebr. Hōšī'āh-nnâ), che significa “Salva!”. Simili espressioni si trovano anche nei Sal 12,2; 20,10; 28,9; 60,7; 108,7. Ma forse ciò che più interessa per il nostro caso è l'uso che di questa espressione viene fatto in 2Sam 14,4 e 2Re 6,26 in cui il suddito si rivolgeva al suo re, riconoscendogli un potere salvifico. Un'invocazione che ritroviamo sei volte in tutto il N.T. e nei soli evangelisti e nel medesimo contesto narrativo della festosa entrata di Gesù a Gerusalemme. Fa eccezione il solo Luca, che pur dipendendo per il suo vangelo da Marco, tuttavia, non la riporta nel suo, probabilmente a motivo dei destinatari, il mondo greco-ellenistico, per il quale una simile acclamazione-invocazione sarebbe risultata del tutto incomprensibile.
19Vedasi sopra, pag.5
20Storicamente la distruzione del Tempio avverrà nel 70 d.C. durante la prima guerra giudaica e definitivamente nella seconda guerra (132-136 d.C.), dove Gerusalemme e il suo Tempio verranno rasi al suolo e il nome di Gerusalemme soppresso e sostituito con quello di Aelia capitolina, alla quale nessun ebreo poté più accedere. Con la fine della prima guerra giudaica e la distruzione del Tempio termina anche il sacerdozio, che al Tempio era legato, e a Jamnia sorgerà un nuovo giudaismo, quello rabbinico, non più legato al Tempio e ai sacrifici, ma al culto della Torah; ai sacerdoti si sostituirono i rabbini, quelli che un tempo erano chiamati “scribi e farisei”. Il suo fondatore fu Jochanan ben Zakkaj. Sulla questione cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005; pagg 396-398
21Il v.26 viene tralasciato dalla critica testuale perché non attestato da tutti i manoscritti.
22Cfr. Nm 13,23; 20,5; Dt 8,8;
23Cfr. 1Re 5,5; 2Re 18,31; 1Mac 14,12; Is 36,16; Gl 2,22; Mi 4,4; Zc 3,10
24Cfr. Ger 5,17; 8,13; Os 2,14; Gl 1,12; Am 4,9; Mi 7,1; Ab 3,17
25Cfr. 1Sam 25,18; 30,12
26Cfr. 2Re 20,7; Is 38,21
27Cfr. 1Cr 12,41
28Cfr. Tb 1,7
29Cfr. Is 28,4; Os. 9,10; Ger. 8,13; 24,1-10; 29,17; Gl 1,7
30Nel merito si cfr. l'episodio dei disordini all'interno del Tempio durante la Pasqua, narrati da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche (XVII, 213-218), che dà l'idea della situazione di tensione e di pericolosità per l'ordine pubblico durante le grandi celebrazioni festive e della durezza con cui si reprimeva ogni tentativo di sovversione o possibile tale.
31la Palestina era un territorio occupato da Roma, la quale, per l'occasione della Pasqua e di altre festività importanti, rafforzava la sicurezza in Palestina e a Gerusalemme in particolare, inviando delle coorti in appoggio a quelle già presenti sul territorio palestinese, che avevano funzioni di polizia (ogni coorte comprendeva circa 600 soldati), distaccandole dalla III Gallica, VI Ferrata Fidelis, XII Fulminata e X Fretensis, tutte legioni di stanza in Siria, da cui la Palestina dipendeva amministrativamente.
32Cfr. Mt 27,62-66; 28,11-15; 2Cr 23,3-7; Ez 44,10-11.14 - Il Tempio aveva proprie truppe di polizia, soprattutto leviti, conosciute come Guardie del Tempio. Tra i loro compiti vi era anche quello di tenere i non giudei lontani dal Tempio. Cfr. la voce “Guardia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.
33La Fortezza Antonia o Torre Antonia era stata costruita da Erode il Grande e sorgeva sul lato settentrionale a ridosso del Tempio. Era la sede di una consistente guarnigione romana, probabilmente una coorte di seicento uomini. Qui vi risiedeva anche il procuratore romano della Giudea, quando si trovava a Gerusalemme, mentre ordinariamente egli dimorava nella sede imperiale di Cesarea marittima. Cfr anche G. Flavio, Guerra Giudaica, I,118; I,401.
34Questa moneta, unità fondamentale del sistema monetario giudaico, aveva assunto la denominazione di “siclo del santuario” per la stabilità della sua valuta. Cfr. la voce “cambiavalute” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005; e R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002.
35Espressione questa che nel linguaggio dei vangeli indica il “Messia”.
36Cfr. Mc 1,22.27; 4,39.41;