IL VANGELO SECONDO MARCO


Una sterzata verso Gerusalemme...
e il Golgota1

Cap. 10, 1- 52



Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





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Note generali

Il cap.10, l'ultimo della seconda sezione (8,31-10,52)2, è caratterizzato da continue note geografiche che scandiscono il cammino di Gesù e dei Dodici verso Gerusalemme e da qui verso il Golgota. Il capitolo si apre con un “alzatosi di là”, il riferimento qui è Cafarnao, l'ultimo luogo citato (9,33); da qui Gesù intraprende la strada verso la Giudea, prendendo un giro largo, passando così per la Decapoli e la Perea da dove entra in Giudea e più precisamente a Gerico, da dove salirà verso Gerusalemme (v.46a), la meta di tale cammino e che verrà ricordata per due volte consecutive ai vv.32.33. Un cammino che è tracciato non solo per le note geografiche, ma anche per i continui richiami dell'andare di Gesù e dei suoi per la strada o sulla via: “Uscendo di là, vanno verso” (v.1); “Ed uscendo Gesù in strada” (v.17); “Ora erano sulla strada, mentre salivano a Gerusalemme” (v.32), quasi a ricordare che quella strada che Gesù stava percorrendo con i suoi non era una strada qualunque, ma quella che porta a Gerusalemme, dove si compiranno i suoi destini; e con insistenza Marco evidenzia al versetto immediatamente successivo che Gesù sta salendo verso Gerusalemme (v.33), quasi a volerlo sottolineare al suo lettore nel caso questi non l'avesse colto bene; ed infine giungono a Gerico, la porta che apre verso Gerusalemme (v.46), e qui guarisce un cieco che segue Gesù “sulla via” (v.52).

Tutte queste segnalazioni geografiche con continui richiami alla strada o alla via che Gesù, partendo da Cafarnao (9,33), sta percorrendo verso Gerusalemme dà l'idea di un cammino, di una sorta di viaggio verso Gerusalemme, lungo il quale Gesù somministra il suo insegnamento e guarisce quanti incontra. Un viaggio che ricorda in qualche modo quello del Gesù lucano. Ed è probabile che Luca, il quale segue pedissequamente la struttura del vangelo marciano, abbia preso da qui la sua idea di strutturare il suo vangelo attorno al viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28), che occuperà ben 10 capitoli, e lungo il quale anche il suo Gesù distribuirà il suo insegnamento e compirà guarigioni ed esorcismi.

Un altro punto che collega il viaggio del Gesù lucano a quello marciano è il comune percorso. Marco infatti, apre il viaggio del suo Gesù verso Gerusalemme segnalando come Gesù andò verso la Giudea passando al di là del Giordano (Mc 10,1) e, quindi, bypassando la Samaria, una regione ostile al giudaismo e al Tempio di Gerusalemme, al quale contrapponeva un suo tempio, posto sul monte Garizim. Una insanabile rivalità, dunque, tra giudei e samaritani3, che anche Gv 4,9b annota. Parallelamente a Marco, anche Luca, agli inizi del viaggio del suo Gesù verso Gerusalemme, farà bypassare al suo Gesù la Samaria, rilevandone l'ostilità verso tutti quelli che erano diretti a Gerusalemme (Lc 9,51-56).

Questi tratti comuni tra Marco e Luca fanno pensare, dunque, che Luca abbia attinto qui, da questo cap.10, così caratterizzato, l'idea di costruire il suo vangelo sul viaggio che Gesù compie verso Gerusalemme.

Il cap.10 va letto e compreso all'interno degli annunci della passione, morte, risurrezione. Annunci che in realtà Marco concepisce come degli insegnamenti, fatti seguire da altri insegnamenti4, finalizzati a preparare il terreno per accogliere i drammatici eventi del Golgota, passando da un'immagine di Messia politico, militare e religioso vincitore e trionfatore, che i giudei coltivavano nel loro immaginario e così attendevano (Lc 24,21; At 1,6), ad un Messia sofferente, ripudiato e crocifisso. Un trauma sconvolgente, che spinge Pietro e con lui i Dodici a ribellarsi a Gesù e a rifiutare una simile prospettiva, creando una spaccatura tra Gesù e i suoi, che li rigetta e li associa assieme a quella folla dalla quale li aveva tratti, impartendo loro le nuove regole della sequela, posta all'insegna del rinnegamento e della croce (8,32-38). Una insanabile idiosincrasia tra quello che Gesù annuncia loro circa i suoi destini e la loro sostanziale incredulità e inintelligenza su quanto Gesù va dicendo loro (8,32; 9,10.19.32 ). Da qui la necessità di un insegnamento, che inizia con 8,31a: “E incominciò ad insegnare”; prosegue poi con 9,31: “insegnava, infatti, ai suoi discepoli” e prosegue qui con il cap.10, che si apre annotando che Gesù “come al solito le ammaestrava”.

Continua, quindi, l'insegnamento di Gesù ai suoi con la disputa sul divorzio (vv.2-12), che lascia intravvedere in seconda battuta la necessità della fedeltà fino in fondo, anche di fronte ai problemi. Una virtù questa indispensabile ai Dodici e con loro ai credenti di ogni generazione, per continuare la sequela e far fronte agli sconvolgimenti del Golgota; così come la necessità di coltivare nel proprio animo la semplicità e la fiducia che caratterizzano i bambini, che nella loro fragilità si affidano ai genitori, che li affidano a loro volta a Gesù, quale punto terminale della fiducia (vv.13-16); e similmente la necessità di spogliarsi da ogni sicurezza terrena per poter seguire Gesù, facendo di lui il fondamento della propria sicurezza, i cui parametri sono prospettati dal Sal 132,2: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia”.

Quindi, fedeltà fino allo stremo, semplicità e fiducia e abbandono di se stessi a Gesù, spogliandosi di ogni sicurezza terrena sono le virtù necessarie ai Dodici e a tutti i credenti per perseverare nella sequela. Questo è l'insegnamento del cap.10,1-31, che conclude l'ampia parentesi degli insegnamenti di Gesù iniziatisi con 8,31.

Ma è proprio qui, in questo cap.10, che avviene un radicale cambio di marcia, passando dall'insegnamento, dalla pedagogia, finalizzati a preparare gli animi agli eventi del Golgota, alla dettagliata predizione di tali eventi, nei quali anche i Dodici e con loro tutti i credenti sono coinvolti.

Il nuovo quadro è introdotto dal v.32a dove, tra paure, tremori e timori viene annunciata la “salita a Gerusalemme”. Quindi, dalla teoria si passa ora ai fatti. Ed è proprio a questo punto che il v.32b apre un nuovo scenario: “E presi nuovamente i Dodici, incominciò a dire loro ciò che stava per succedergli”. Non siamo più, quindi, di fronte ad un annuncio o ad un insegnamento, ma ad una predizione, che squarciando il velo del tempo, lascia intravvedere l'accadere di tali eventi: “incominciò a dire loro ciò che stava per succedergli”. C'è, dunque, un nuovo inizio, che crea uno stacco netto da quel “incominciò ad insegnare loro” di 8,31. Là si parla di insegnamento, qui di eventi che accadono e che vengono dettagliatamente enunciati nel loro meticoloso susseguirsi (vv.33-34), così da poter essere considerati come un sintetico e schematico resoconto di quegli eventi che verranno narrati nei capp.14,53-16,8.

Qui non si parla più di scandalo dei Dodici, del loro rifiuto, né della loro incredulità, ma soltanto dell'inintelligenza del senso e del significato profondo di tali avvenimenti (vv.35-41), che Gesù si affretta a spiegare loro: “[...] il figlio dell'uomo non venne (per) essere servito, ma (per) servire e dare la sua vita (quale) riscatto per molti” (v.45).

Ed ecco che dopo un lungo percorso di annunci, insegnamenti e rivelazioni i Dodici giungono alle porte di quel cammino che li condurrà a Gerusalemme e da lì al Golgota: Gerico, dove sotto la metafora del cieco guarito, e ora disposto a seguire Gesù sulla via della sofferenza e della morte, si intravvedono come in filigrana i Dodici, finalmente, ora, resi idonei a seguire Gesù fino al Golgota (vv.46-52).

Strutturalmente il cap.10 si divide in due ampie sezioni: i vv.1-31, che completano il cammino di formazione spirituale dei Dodici, iniziatosi in 8,31 e che qui continua con quel “di nuovo li ammaestrava”, con cui si apre il cap.10; e i vv.32-52, che danno, invece, inizio ad un nuovo percorso, suggerito dall'espressione “E presi nuovamente i Dodici, incominciò a dire loro ciò che stava per succedergli”.

Tre sono gli elementi principali di questa seconda sezione: la predizione degli eventi, che descrivono dettagliatamente le diverse fasi del racconto della passione morte e risurrezione di Gesù (vv.33-34); la rivelazione del senso di tali avvenimenti: un servizio di redenzione e di salvezza speso a favore dell'intera umanità (vv.35-45); ed infine, la constatazione della raggiunta accettazione degli eventi del Golgota da parte dei Dodici, la comprensione del loro senso e la decisione di seguire Gesù sulla via della croce. Il tutto raccontato con la metafora del cieco guarito (vv.46-52).

Commento ai versetti 1-52

La disputa sul divorzio, ossia la fedeltà alla scelta originale (vv.1-12)


Testo a lettura facilitata

Introduzione (v.1)

1- E alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano, e di nuovo le folle insieme vanno verso di lui, e come al solito le ammaestrava.

La questione (v.2)

2- E avvicinatisi i farisei, lo interrogavano se è lecito ad un uomo ripudiare (la) moglie, mettendolo alla prova.

Il motivo della concessione del divorzio (vv.3-5)

3- Ed egli rispondendo disse loro: <<Che cosa vi ha comandato Mosè?>>.
4- Essi dissero: <<Mosè permise di scrivere il libretto di allontanamento e di ripudiare>>.
5- E Gesù disse loro: <<Per la durezza del vostro cuore vi scrisse questo comandamento.

Gesù riconduce la legge umana all'originario principio creativo, inscritto nella natura stessa delle cose (vv.6-8)

6- Ma da principio (della) creazione (Dio) li fece maschio e femmina;
7- a motivo di questo (l')uomo lascerà suo padre [e la madre e si congiungerà a sua moglie],
8- e i due saranno in un'unica carne; così che non sono due ma un'unica carne.

La sentenza (v.9)

9- Pertanto ciò che Dio ha unito (l')uomo non divida>>.

L'indissolubilità del matrimonio: la nuova regola per la comunità credente (vv-10-12)

10- E (entrati) nella casa, di nuovo i discepoli lo interrogavano su questo.
11- E dice loro: <<Chi avrà ripudiato sua moglie e avrà sposata un'altra, commette adulterio verso di lei;
12- e qualora essa, ripudiato suo marito, avrà sposato un altro, commette adulterio>>.

Note generali5

La questione che qui viene affrontata riguarda una prassi molto diffusa, quella del divorzio presso il giudaismo, regolamentata da Dt 24,1-4, che, si badi bene, non sancisce l'istituto del divorzio, ma semplicemente prende atto di una certa situazione che si era venuta a creare all'interno della vita privata e sociale e cercava, quindi, di disciplinarla per tutelare la donna che subiva il divorzio. La donna, infatti, presso i giudei non poteva reclamare il divorzio contro il marito, poiché essa era considerata di proprietà del marito6, il quale poteva disfarsene a suo piacimento. Benché il divorzio fosse divenuto una consuetudine molto diffusa in Israele, tuttavia, non vi era presso il giudaismo veterotestamentario nessuna legge che avesse istituito il divorzio come diritto positivo e ne legittimasse positivamente i motivi, anzi, per contro, si trova, sia pur limitato ad alcuni casi, il divieto di divorziare (Dt 22,19.29).

Presso i giudei, infatti, il matrimonio era concepito come inscindibile, se si pensa a Gen 2,24, dove si attesta che “i due saranno una sola carne”. Prv 5,15-19 celebra la fedeltà alla donna della propria giovinezza, mentre Ml 2,14-16 condanna esplicitamente il tradimento e il ripudio della donna della propria giovinezza: “E chiedete: Perché? Perché il Signore è testimone fra te e la donna della tua giovinezza, che ora perfidamente tradisci, mentre essa è la tua consorte, la donna legata a te da un patto. Non fece egli un essere solo dotato di carne e soffio vitale? Che cosa cerca quest'unico essere, se non prole da parte di Dio? Custodite dunque il vostro soffio vitale e nessuno tradisca la donna della sua giovinezza. Perché io detesto il ripudio, dice il Signore Dio d'Israele, e chi copre d'iniquità la propria veste, dice il Signore degli Eserciti. Custodite la vostra vita dunque e non vogliate agire con perfidia”. È significativo poi come nel linguaggio profetico e sapienziale Dio descriva il rapporto che egli ha con il suo popolo come un inscindibile rapporto sponsale, rispecchiando quindi in qualche modo lo sfondo culturale che informava la società israelitica (Is 54,5-9).

Dt 24,1-4 detta delle regole generali circa la fine di un rapporto matrimoniale, ma è oscuro nel suo testo allorché si riferisce alla causa di divorzio, “perché egli ha trovato in lei qualche cosa di vergognoso”. Su questo si erano venute ad affermare nel giudaismo due contrapposte linee di pensiero, quella del rigorista Shammai, che ammetteva il divorzio solo in caso di adulterio e di condotta disdicevole e immorale della moglie, due casi che di per se stessi vanno ad inficiare il patto di fedeltà e di santità del matrimonio. Una rigorosità quella di Shammai che lascia intravvedere come il matrimonio fosse considerato presso il giudaismo come un'istituzione sacra e inviolabile e il divorzio un'eccezione. Vi era, poi, quella più lassista di Hillel che, invece, ammetteva un qualsiasi motivo, anche futile, per giustificare il ripudio della propria moglie, come nel caso in cui essa avesse cucinato male o bruciato del cibo o, più semplicemente, se il marito si fosse invaghito di un'altra donna. Su questa linea lo stesso Sir 25,6 attestava: “Se non cammina secondo i tuoi dettami, separati da lei”7. Un a linea di pensiero, quella di Hillel, che banalizzava la sacralità del matrimonio, ma ancor prima distruggeva in profondità la natura e le finalità stesse dell'istituzione del matrimonio, che fa parte della natura stessa dell'uomo.

A tutela della donna, il marito aveva l'obbligo di lasciarle un libello, una semplice dichiarazione di ripudio, che le consentiva, senza pregiudizio, di accedere a nuove nozze. La formula del ripudio era semplice, il marito faceva una dichiarazione scritta contraria alla formula di matrimonio: “Essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito”, formula questa che troviamo in Os 2,4a.

Poche erano le restrizioni all'arbitrio del marito di divorziare: il marito che aveva accusato falsamente la moglie di non essere vergine al momento del matrimonio, non solo veniva duramente sanzionato dagli anziani, ma non poteva più neppure ripudiarla (Dt 22,13-19); e similmente, l'uomo che aveva violentato una ragazza veniva sanzionato pecuniariamente ed aveva l'obbligo di sposarla, e la sua facoltà di ripudio veniva fatta decadere (Dt 22,28-29).

La struttura di questa pericope (vv.1-12) è scandita in tre parti:


Commento ai vv.1-12

Il v.1 va considerato di transizione e introduttivo al cap.10, di cui fornisce la chiave di lettura, ed è scandito in due parti: la prima è caratterizzata da una nota geografica: “E alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano”; la seconda parte annota che qui, in questa prima sezione del cap.10 (vv.2-31) continua l'insegnamento di Gesù alle folle e, con loro e ad esse associati (8,34a), ai discepoli: “di nuovo le folle insieme vanno verso di lui, e come al solito le ammaestrava”. Il verbo ammaestrare, qui posto all'imperfetto indicativo, tempo durativo, dà continuità ad un insegnamento iniziatosi in 8,31 e la cui finalità è quella di preparare i Dodici e con essi tutti i credenti ad accettare e a comprendere il senso dei drammatici, ma salvifici eventi del Golgota.

Quanto alla nota geografica questa è particolarmente significativa, poiché attesta che ora è iniziato il viaggio di Gesù verso Gerusalemme e da qui al Golgota: “Alzatosi di là”, cioè da Cafarnao (9,33a), l'ultima nota geografica prima di questa, dove Gesù stava ammaestrando i suoi nella casa, metafora della comunità credente. Un viaggio che ha una meta precisa, che verrà ricordata per due volte ai vv.32.33a. Gesù, quindi, qui non percorre più la Galilea per annunciare la sua parola (1,14.38-39), ma sostanzialmente si conclude qui la sua missione galilaica, imprimendo una sterzata verso Gerusalemme, il cui significato viene richiamato ai vv.33-34.45.

Il percorso che Gesù compie da Cafarnao a Gerusalemme traccia un cammino che di fatto bypassa la Samaria, un territorio ostile a tutti quelli che erano diretti a Gerusalemme8 (Lc 9,52-53), rendendosi in qualche modo impermeabile alla proposta di salvezza che Gesù porta con sé e che da Gerusalemme si irradierà fino ai confini della terra, passando, questa volta, anche attraverso la irriducibile Samaria: “e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1,8b).

Con il v.2 si entra nel vivo del dibattito sul divorzio. La discussione verte non tanto se si può divorziare o meno, ma se “è lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie”. La controversia quindi va posta sul piano della liceità morale del ripudio e non giuridica, poiché Dt 24,1-4 è chiaro nel merito: l'uomo può ripudiare la propria moglie. Ma la questione è se ciò sia lecito. Gesù, infatti, riporterà la questione del ripudio non più alla Legge mosaica, ma alla durezza del cuore e, quindi, all'insensibilità spirituale e di conseguenza morale verso le esigenze di Dio. Una questione questa che qui riguarda esclusivamente l'uomo e non la donna, che è soggetto passivo di tale ripudio, che spetta, presso i giudei, solo al marito, mentre presso il mondo greco-romano anche la donna è riconosciuta come soggetto attivo nel divorzio.

L'evangelista segnale come tale interrogativo fosse stato posto per mettere Gesù alla prova. La prova consisteva nello spingere Gesù a prendere posizione nei confronti di Dt 24,1-4 e, quindi, nei confronti delle disposizioni mosaiche, poiché rifiutare tale normativa poneva Gesù contro Mosè e, quindi, in posizione eretica e pertanto giuridicamente e religiosamente perseguibile. Si verifica qui quanto era già successo parallelamente in 3,1-6, dove Gesù guarisce in giorno di sabato un uomo con la mano inaridita. Anche là venne posta da Gesù una questione di liceità su di una guarigione compiuta in giorno di sabato. Anche là i farisei, trinceratisi nel loro infido silenzio, osservavano se Gesù compiva la guarigione per poterlo poi accusare di aver violato il sabato. Ma là ancora non si parla di “prova”, benché già fin d'allora si elaborino delle trame per farlo perire (3,6) e che ora stanno lentamente prendendo forma in quel sottoporre Gesù alla “prova”..

Soltanto, ora, infatti, mentre Gesù si sta avvicinando a Gerusalemme e, quindi, in un contesto in cui si prospetta la sua passione e morte (vv.33-34), compare significativamente il verbo “peir£zw” (peirázo, tentare, mettere alla prova), il cui senso è quello di spingere Gesù a compromettersi per poterlo poi accusare. Esso comparirà un'altra volta, nell'ambito delle cinque diatribe giudaiche, quando giunto in Gerusalemme, si proporrà, anche là, la questione sulla liceità di pagare il tributo a Cesare (12,13-17), allorché Gesù è ormai a ridosso della sua passione e morte. Queste prove, pertanto, costituiscono una sorta di triste preludio per Gesù9.


Il dibattito sulla liceità del divorzio si snoda su tre passaggi:

  1. Si focalizza la questione, partendo da ciò che Mosè “ha comandato”. L'espressione “comandato” rimanda all'autorità e all'autorevolezza di Mosè, che qui viene posta a confronto con quella di Gesù, il nuovo legislatore, che riscrive la Torah partendo non più dalle perverse esigenze dell'uomo, ma da quelle di Dio, che riporta l'uomo all'originario progetto e senso della sua vita e del suo esserci. La risposta dei farisei è significativa, poiché in qualche modo correggono la domanda di Gesù, che pone la questione su di un piano di “comandamento”, ma che in realtà tale non è e, pertanto, non vincolante, poiché esso non riflette la volontà di Dio, ma quella degli uomini: “Mosè permise di scrivere il libretto di allontanamento e di ripudiare”. Si tratta, quindi, di un permesso, di una concessione che Mosè ha fatto per regolamentare una sregolatezza, che affonda le sue radici nella perversità dell'uomo, così come la legge del taglione è nata per limitare una vendetta che poteva andare oltre il limite, ma che certamente non era stata scritta per favorire la vendetta o per attestare che la vendetta è una cosa giusta e buona. C'è di mezzo, dunque, sempre la perversità dell'uomo, quella di una natura ammalata, profondamente segnata dalla colpa originale, che in qualche modo si cerca di contenere e di raddrizzare, tra punizioni e concessioni regolamentatrici. Una concessione che trova la sua motivazione più vera e profonda nella “sklhrokard…a” (sklerokardía, durezza di cuore, ostinazione). Il termine ricorre in tutta la Bibbia soltanto quattro volte, se si esclude Mt 19,8 che riproduce Mc 10,5 e se si esclude Mc 16,14, che non appartiene all'evangelista10. Quindi, il termine diviene significativo, poiché solo Marco nel N.T. lo riporta ed ha solo altri tre precedenti in tutto l'A.T., in Dt 10,16; Sir 16,10 e in Ger 4,4. In tutti tre i casi si sente il pressante invito di Dio ad una radicale conversione per evitare un incombente castigo. Un termine, quindi, pregno di significato, poiché racchiude in se stesso un atto di accusa, un giudizio divino e la promessa di un castigo. Si tratta, quindi, di un termine evocativo di un giudizio divino posto su Israele e in attesa di una sua conversione (Gal 3,24-25). Ed ecco che l'avvento di Gesù inaugura i tempi escatologici, quelli dell'ultima chance che Dio offre all'uomo in Gesù, invitandolo a prendere esistenzialmente posizione nei confronti della sua offerta di salvezza. Dopo, di quella “sklhrokard…a”, non rimane che il giudizio, che già si attua nel presente, ma che diviene definitivo solo nell'eternità.

  2. La sentenza del v.5, che si muove su di uno sfondo profetico e sapienziale, ed evoca il passato di Israele, popolo dalla dura cervice11, nel suo difficile rapporto con Jhwh, proprio per la durezza del suo cuore, e decreta in qualche modo la nullità di Dt 24,1-4, che non proviene da Dio, ma dagli uomini, lascia ora spazio al secondo passaggio di questa diatriba, in cui vengono riportarti Gen 1,27 (v.6) e Gen 2,24 (vv.7-8). Gesù qui non si rifà all'autorità scritturistica, poiché anche Dt 24,1-4 ne possiede la natura, ma si rifà agli inizi della creazione, quando ancora tutto era incandescente di Dio (Gen 1,31). Quel “Ma da principio” oppone alla concessione mosaica l'ordine primordiale della creazione, in cui si rispecchia la volontà stessa di Dio (Gen 1,3.31). L'istituto del matrimonio, con tutto ciò che questo comporta, rientra, pertanto, nell'ordine naturale delle cose e della stessa creazione, in cui si riflette la volontà di Dio, che ha dotato la sua creazione, di cui fa parte inscindibile il matrimonio, di leggi intrinseche finalizzate a portare al suo compimento una creazione iniziata da Dio, ma poi affidata nella sua gestione all'uomo (Gen 2,15). Il ripudio della moglie da parte del marito e, quindi, il divorzio, che sancisce la rottura dei due che sono e continuano ad essere una carne sola, così come Dio, nei suoi due principi di mascolinità e femminilità (Gen 1,27)12, è Uno e in quanto tale inscindibile, viene a turbare l'ordine naturale delle cose e con questo della stessa creazione. Il ripudio, cioè il divorzio, non sancisce soltanto la rottura di fatto tra uomo e donna, ma porta dietro a sé un disordine che si riflette in modo disgregante sull'intera società, che sul matrimonio è fondata.

  3. Dopo le due premesse (vv.3-5.6-8), la disputa sulla liceità del ripudio si chiude con una sentenza, che sancisce l'autorità e la superiorità di Dio sull'uomo e, in quanto tale, sancisce implicitamente l'arbitrarietà di Dt 24,1-4, riconducendo le cose al loro ordine originario: “Pertanto ciò che Dio ha unito (l')uomo non divida”. Non è più, dunque, l'uomo che unisce, ma Dio stesso opera l'unione dei due, in cui si riflette la sua immagine di Uno inscindibile e, in quanto portatore dei principi di mascolinità e femminilità, che ha trasfusi negli uomini, creati a sua immagine e somiglianza, generatori di vita. In quale modo Dio opera direttamente questa unione tra l'uomo e la donna e tale da non poter essere più divisa? Di certo non si fa riferimento al rito del matrimonio, che consacra e pone sotto la tutela di Dio l'unione dell'uomo con la donna, ma al fatto che nell'uomo e nella donna sono inscritti i due principi divini di mascolinità e di femminilità e a questi due principi è informato e caratterizzato il loro essere uomo e donna e, quindi, intrinsecamente predisposti e sospinti per legge naturale, e quindi divina, all'unione e alla comunione; e qualora ciò avvenga si realizza quell'unità e quella comunione che caratterizza Dio stesso, che per sua natura è un Uno inscindibile. Un'unione, quindi, che non va banalizzata e ridotta ad una mera e dissacrante ricerca di un piacere nel rapporto sessuale, poiché con tale atto si realizza e si sancisce nell'uomo e nella donna tale Unione inscindibile dell'Uno. Questo lascia intendere come nella creazione in genere e nell'uomo in particolare vi siano dei principi inviolabili, sottratti alla disponibilità degli uomini, e su tali principi si regge il retto svolgersi ed evolversi della creazione stessa. E qualora tali principi venissero violati, innescano la distruzione dell'uomo e della stessa società, che da persone è costituita.

Dopo la sentenza finale del v.9, che chiude la disputa sul divorzio, Marco passa ora alla sua applicazione pratica all'interno della comunità credente, dove c'era la presenza sia di giudeocristiani che di etnocristiani, spesso conviventi all'interno della stessa comunità, allorché il cristianesimo, inizialmente nato all'interno del giudaismo, cominciò ad espandersi anche presso i pagani, creando non pochi problemi di coesistenza, sia perché, da un lato, i convertiti provenienti dal giudaismo erano ancora legati al purismo delle pratiche mosaiche; sia perché, dall'altro, i convertiti dal paganesimo, di mentalità e cultura molto più aperti, portavano con loro le proprie usanze pagane. Da qui la doppia sentenza dei vv.11 e 12, la prima riguardante i giudeocristiani, dove la facoltà di ripudio era concessa solo al marito; la seconda riguardante gli etnocristiani, dove la facoltà di ripudio era estesa anche alla donna. In entrambi casi l'uomo, inteso qui come maschio e femmina, non deve dividere ciò che Dio ha unito (v.9).

Il v.10, redazionale, è di transizione e traghetta il lettore da un contesto pubblico, il dibattito con i farisei davanti alle folle (vv,1b-2a), ad un luogo privato, all'interno della casa. Una logica questa ricorrente nel vangelo marciano, dove, a partire dal cap.4, sovente si passa dagli spazi aperti a quelli chiusi, dove, in disparte, Gesù istruiva i suoi con approfondimenti sulle parabole, poiché ad essi erano riservati i misteri del Regno di Dio (4,11.34). “Ed entrati nella casa”, un temine questo che ricorre 31 volte nel racconto marciano e quando compare quasi sempre il riferimento è alla comunità credente o alla chiesa in genere, divenendone una metafora. E così similmente il termine “barca”, che compare 16 volte, allude ad una chiesa itinerante e missionaria. E che così sia è dato dal contesto: Gesù, infatti, è in viaggio verso la Giudea, attorniato dalle folle (v.1) e poi, all'improvviso lo si ritrova “nella casa”, non “in una casa”. La preposizione articolata “nella” dice che non si tratta di una casa qualsiasi, come più logico sarebbe, considerato che Gesù e i suoi sono in viaggio, ma in una particolare e determinata casa, che è la comunità credente o chiesa. Di conseguenza tutto ciò che avverrà in questa casa ha attinenza con la chiesa e, di conseguenza, le nuove regole (vv.11-12), desunte dalla sentenza del v.9, riguardano la vita stessa della chiesa.

I vv.11-12 riportano la medesima regola applicata sia all'uomo che alla donna. Questa doppia specificazione dice come Marco qui si stia rivolgendo sia ai giudeocristiani (v.11), per i quali il diritto al ripudio era riservato solo ai mariti; sia agli etnocristiani (v.12), presso i quali tale diritto era esteso anche alle donne. Regole che ritroviamo anche in 1Cor 7,10-16.

Il “non separi l'uomo ciò che Dio ha unito” (v.9) trova qui la sua applicazione e lascia intendere come il ripudio, quale convenzione umana (Dt 24,1-4), in realtà non scioglie l'originaria unione sancita tra marito e moglie, poiché questa, per disposizione divina, insita nella natura stessa del matrimonio, permane sempre, così come l'unità comunionale dell'Uno è inscindibile, dove i principi della mascolinità e femminilità, quali sorgenti della vita, sono inseparabili nell'Uno. Solo così l'Uno diviene il principio generatore della vita e dell'esistente. Di conseguenza, allorché questi due principi, incarnati separatamente nell'uomo e nella donna, si ricongiungono tra loro così da formare un “uno”, divengono per ciò stesso inseparabili, pena la morte e la disgregazione dissacrante di questo “uno”, che non rimarrà senza conseguenze. Pertanto, qualsiasi altra unione diviene illecita in quanto adultera, poiché la nuova unione va ad adulterare e ad alterare quella precedente, l'originaria, che proprio per questo è unica.


I bambini, eredi del Regno di Dio; 
ossia il sapersi abbandonare nelle braccia del Padre (vv.13-16)


Testo a lettura facilitata

Il contesto della scena (v.13)

13- E gli portavano appresso dei bambini perché li toccasse; ma i discepoli li rimproverarono.

I bambini eredi del Regno di Dio (v.14)

14- Avendo visto, Gesù si sdegnò e disse loro: <<Lasciate che i bambini vengano a me, non li impedite, poiché il Regno di Dio è di questi tali.

I bambini, parametro di raffronto per la comunità credente (v.15)

15- In verità vi dico: chi non accoglierà il Regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso>>.

L'imprimatur di Gesù sui bambini (v.16)

16- E abbracciatili (li) benediceva, ponendo le mani su di loro.


Note generali

Questo breve e inatteso inserto sui bambini fa parte dell'ammaestramento che Gesù sta impartendo ai suoi. Il contesto topografico è sempre la casa, in cui Gesù era entrato con i suoi al v.10a, considerato che soltanto al v.17a si dice che Gesù esce in strada.

Il senso d questo nuovo insegnamento va compreso all'interno del cammino verso Gerusalemme, su cui si estende l'ombra della croce, incompresa e rifiutata dai Dodici, e con loro da molti altri futuri credenti, in qualche modo raffigurati da queste folle che vanno verso Gesù (8,34; 9,15;10,1b).

Il senso che emerge da questo breve episodio di vita quotidiana, probabilmente storico, se da un lato dice la predilezione di Gesù per i bambini, già emersa in 9,36-37 in cui si identifica con loro, e qui indicati quali eredi del Regno di Dio per la loro semplicità e disponibilità d'animo, che li caratterizza, dall'altro, in seconda lettura, mette in evidenza la loro fragilità che li spinge a fidarsi e ad abbandonarsi nelle mani dei loro genitori senza atteggiamenti critici o di diffidenza. Esattamente ciò che serve ai Dodici per poter approcciare il mistero del Golgota: fidarsi del piano del Padre, che Gesù sta realizzando, accantonando ogni dubbio, ogni perplessità, abbandonandosi completamente nelle sue mani, così come il Gesù lucano fece sulla croce (Lc 23,46).

La pericope è circoscritta da un'inclusione, data per complementarietà e contrapposizione di posizioni: al v.13 i bambini, ostacolati dai Dodici, accorrono verso Gesù, che invece li accoglie e li benedice (v.16). I centrali vv.14-15 sono tra loro speculari, creando in tal modo uno stretto legame e una continuità logica tra loro: i bambini sono dichiarati eredi del Regno di Dio (v.14) e il Regno di Dio sarà ereditato da chi è come i bambini (v,15).

La pericope vv.14-16 si presenta come una sentenza inquadrata, cioè un detto di Gesù attorno al quale Marco ha costruito un breve racconto per contestualizzarlo ed ha il suo vertice al v.14, attorno al quale gira l'intero racconto.


Commento ai vv.13-16

il v.13 contestualizza la scena: dei bambini vengono portati a Gesù, presumibilmente dalle madri, in quanto i padri erano verosimilmente impegnati nel lavoro. Bambini che non dovevano avere più di due tre anni, in quanto che avevano bisogno di essere accompagnati. Lc 18,15 parla di “t¦ bršfh” (tà bréfe), cioè lattanti, richiamando da vicino il Sal 8,3: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”, accoppiando questi bimbi e lattanti alla grandezza e alla magnificenza di Dio (Sal 8,2), che si manifesta nella grandezza e nella magnificenza della creazione (Sal 8,4). I bambini, dunque, capolavoro della creazione divina in cui Dio ritrova l'originaria innocenza della creazione, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Ci troviamo, dunque, di fronte ad un incontro, espresso dall'abbraccio benedicente di Gesù, tra Gesù, la potente Parola creatrice (Gv 1,3), e questi bambini, nei quali in qualche modo vibra ancora la primordiale innocenza della creazione.

I bambini vengono portati a Gesù, perché “li toccasse”. Il toccare era un gesto proprio del guaritore, ma anche del benedicente, perché si riteneva che attraverso il tocco della mano del guaritore defluisse l'energia vitale e rigeneratrice, ma nel contempo, nel linguaggio dei vangeli e in particolare di Marco il toccare dice l'esperienza salvifica e rigenerante di Gesù da parte di chi tocca o, come in questo caso, cerca il tocco di Gesù.

Stranamente a questo accorrere di bambini con le proprie madri si oppongono i discepoli, che cercano di ostacolarli, quasi non fossero abituati a scene più travolgenti di un Gesù investito da folle che gli si accalcavano attorno, quasi schiacciandolo e certamente infastidendolo con questo loro far ressa attorno a lui13. L'annotazione del rimprovero dei discepoli è probabilmente un escamotage di Marco, finalizzato a mettere in rilievo tutta la grandezza del gesto di Gesù (v.16), fatto precedere dal sollecito e dal monito di lasciare che i bambini vadano a lui liberamente. È significativo, infatti, come qui il termine “discepoli” non sia fatto precedere dall'aggettivo possessivo “suoi”, quasi a voler disconoscere la loro appartenenza a Gesù, per quel gesto che è fuori dalle sue logiche. E che così sia lo mette in rilievo quello sdegnarsi di Gesù verso di loro, che lascia trasparire un'ira mal contenuta (v.14a): “Avendo visto, Gesù si sdegnò”. Quel vedere di Gesù fatto seguire da un iroso sdegno per un comportamento in netta dissonanza con il suo insegnamento, equivale di fatto ad un giudizio, che viene posto sulla testa dei discepoli, che si discostano così malamente dal loro maestro. Essi, infatti, non sono più i “suoi” discepoli, ma soltanto dei discepoli.

I vv.13b-14a preparano il detto, che funge da vertice dell'intero racconto: “Lasciate che i bambini vengano a me, non li impedite, poiché il Regno di Dio è di questi tali”. Il senso del detto, che Marco ha trovato probabilmente così, decontestualizzato, doveva avere lo scopo di difendere e rivalutare la presenza dei bambini in seno alla società e a alla stessa chiesa, in particolar modo nella società romana, alla quale il vangelo marciano era rivolto, dove il pater familias esercitava sui figli un potere illimitato. Dopo la nascita era lui che decideva del destino del neonato: se egli non lo sollevava da terra, il bambino non poteva essere allevato e veniva venduto o ucciso. Sul mercato vi era un apposito settore riservato alla compravendita dei bambini. Spesso i bambini erano costretti alla prostituzione o venivano mutilati e poi usati come mendicanti. Talvolta giungevano nelle case dei nobili per servire da giocattoli viventi per i loro bambini. E similmente nel giudaismo i bambini erano insidiati dagli stessi pericoli della società ellenistico-romana14. Essi erano disprezzati e trascurati perché incapaci di comprendere la Torah, e occuparsi di loro significava sprecare il proprio tempo15. Ebbene, questi bambini così bistrattati e gravemente offesi nella loro dignità all'interno della famiglia e della società ricevono da Gesù una sorta di loro consacrazione in quel abbraccio da parte di Gesù, che in qualche modo li assimila a sé (9,37), mentre con quella benedizione li pone sotto la protezione divina. Così nuovamente riqualificati e ricollocati all'interno della società e della famiglia, i bambini e la loro immagine divengono per i credenti il parametro di raffronto su cui conformare il proprio modo di vivere per poter accedere al Regno di Dio.

Fiducia nel Padre e in Gesù, non nei beni materiali (vv. 17-31)

Testo a lettura facilitata

Una sequela impossibile se il cuore è nelle ricchezze (17-22)

17- Ed uscendo egli in strada, correndo(gli) incontro uno e caduto in ginocchio davanti a lui, lo interrogava: <<Maestro buono, che cosa farò per ottenere la vita eterna?>>.
18- Ma Gesù gli disse: <<Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non uno, Dio.
19- Conosci i comandamenti: non ucciderai, non commetterai adulterio, non ruberai, non farai falsa testimonianza, non froderai, onora tuo padre e la madre>>.
20- Ma quello gli disse: <<Maestro, tutte queste cose osservo dalla ma giovinezza>>.
21- Ma Gesù, scrutatolo, lo amò e gli disse: <<Una cosa ti manca: vai, vendi quanto hai e dà(llo) [ai] poveri e avrai un tesoro in cielo, e di qui seguimi>>.
22- Ma quello, rattristatosi per il discorso, se ne andò dispiaciuto: infatti era uno che aveva molti beni.

Una considerazione di Gesù sull'episodio (vv.23-27)

23- E guardatosi attorno, Gesù dice ai suoi discepoli: <<Quanto difficilmente quelli che hanno beni entreranno nel Regno di Dio>>.
24- Ma i discepoli stupivano per le sue parole. Ma Gesù, di nuovo, rispondendo dice loro: <<Figli, quanto è difficile entrare nel Regno di Dio!
25- È più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio>>.
26- Ma quelli erano maggiormente sbalorditi, dicendo a stessi: <<E chi può essere salvato?>>.
27- Gesù, scrutati(li), dice loro: <<Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio; tutte le cose, infatti (sono) possibili presso Dio>>.

La ricompensa per chi ha scelto la sequela, abbandonando tutto (vv.28-31)

28- Incominciò a dirgli Pietro: <<Ecco, noi abbiamo lasciato tutte le cose e ti abbiamo seguito>>.
29- Dice Gesù: <<In verità vi dico, non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del vangelo,
30- che non riceva (il) centuplo ora, in questo tempo, (in) case e fratelli e sorelle e madri e figli con persecuzioni, e nel tempo che viene (la) vita eterna.
31- Molti primi saranno ultimi e [gli] ultimi primi>>.


Note generali alla sezione vv.17-31

Alla sentenza inquadrata dei vv.13-16, quella dei bambini portati da Gesù perché li toccasse, segue ora il racconto del ricco alla ricerca della via perfetta per raggiungere la vita eterna. Due racconti che apparentemente sembrano soltanto giustapposti e senza alcun legame tra loro. In realtà essi hanno molto in comune sia da un punto di vista narrativo che tematico. In entrambi i racconti, infatti, sia i bambini che il ricco accorrono verso Gesù per ottenere qualcosa: la ricerca di Gesù e l'incontro con lui, che, quanto ai bambini, restituisce loro la propria dignità di persone, divenendo il parametro di raffronto e la via da seguire per entrare nel Regno di Dio; quanto al ricco, la ricerca e l'incontro con Gesù per ottenere la conoscenza superiore per accedere alla vita eterna. In entrambi i casi Gesù rivela la via per poter accedere al Regno di Dio e alla vita eterna: l'essere come i bambini, che non contano sulle proprie forze per potersi affermare, ma si abbandonano fiduciosi nelle mani della madre e del padre, per i credenti; il contare su Gesù e non sulle proprie ricchezze, per chiunque intenda seguire Gesù sulla via che porta a Gerusalemme, sulla quale si proietta l'ombra della croce, la via perfetta (8,34-38). Anche le modalità dell'incontro tra Gesù e i bambini e il ricco si assomigliano molto: i bambini, proprio per la loro fragilità, che li rende incapaci di qualsiasi scelta, sono accompagnati dalle loro madri; similmente il ricco corre incontro a Gesù e si prostra davanti a lui, riconoscendo in se stesso tutta la sua fragilità umana rispetto alla vita eterna, che vorrebbe raggiungere per una via più perfetta e superiore a quella che egli ha sempre praticato, ma che ancora non conosce. In entrambi i casi, sia per i semplici credenti che per chi opta per una scelta superiore, Gesù indica la via. Ma diverse saranno le risposte, dipendendo queste dall'atteggiamento interiore di ciascuno.

Il racconto del ricco, circoscritto dai vv.17-22, trova il suo naturale sviluppo nelle due pericopi successivi (vv.23-27.28-31), che fanno parte del racconto e costituiscono una sorta di riflessione sull'episodio, che Marco offre alle comunità credenti. L'intera sezione (vv.17-31), infatti, costituisce un'unica unità narrativa, inclusa dall'espressione “vita eterna” (vv.17b.30b). Il tema di fondo, quindi, che percorre l'intera sezione è quello della vita eterna, raggiungibile attraverso la rinuncia dei beni di questo mondo per la sequela di Gesù.

Va, tuttavia, rilevato che la pericope vv.23-27 inizialmente non doveva far parte del racconto e del suo sviluppo, originariamente limitato alla sola pericope vv.28-31. Lo si arguisce dal come termina il racconto del ricco (v.22), che rifiuta la sequela di Gesù per non disperdere le proprie ricchezze, e dal come inizia la pericope vv.28-31, dove Pietro, agganciandosi al rifiuto del ricco , che non voleva depauperarsi, chiede a Gesù quale ricompensa spetti, invece, a loro, che si sono depauperati per la sequela. La pericope vv.17-22, quindi, si associa bene e in modo logico e sequenziale alla successiva richiesta di Pietro e a quanto segue (vv.28-31), ma non la pericope che la precede, quella sulle ricchezze, il cui attaccamento impedisce l'accesso al Regno di Dio (vv.23-27). Questa nulla ha a che vedere con l'intero racconto, perché qui non si parla della via superiore per raggiungere la vita eterna, ma vene sviluppata una riflessione sull'attaccamento del proprio cuore alle ricchezze e ai beni di questo mondo, che impediscono l'accesso, si badi bene, non alla vita eterna, ma al Regno di Dio, due realtà simili ma diverse.

Il Regno di Dio dice il ricostituito potere di Dio sugli uomini, e gli esorcismi di Gesù hanno questo significato: la cacciata di satana e la ricostituzione del potere di Dio sugli uomini e sulla creazione, così com'era nei primordi della creazione, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Dio, quindi, in Gesù e attraverso di lui e la potenza del suo Spirito Santo (Lc 11,20) è venuto a riprendersi ciò che gli era da sempre appartenuto. Ed ha come luogo di accesso primario la comunità credente, che ha sposato gli ideali di Gesù e del Padre, vivendo la propria vita in conformità alle esigenze di Dio, rivelatesi in Gesù. La vita eterna, per contro, dice la vita stessa di Dio, alla quale ogni credente vi potrà partecipare in qualche modo fin d'ora attraverso la fede (Gv 3,16) e l'adesione esistenziale all'insegnamento di Gesù, nonché per mezzo del dono dello Spirito Santo, che è caparra di quella vita eterna (Ef 1,13-14), alla quale il credente vi accederà in modo definitivo soltanto al momento del suo ingresso nell'eternità di Dio. Il Regno di Dio, quindi, funge in qualche modo da anticamera alla “Vita Eterna” e ne è la strada maestra, ma non è la “Vita Eterna”.

La questione, invece, posta inizialmente dal ricco è sul come raggiungere la vita eterna (v.17b) e non come entrare nel Regno di Dio, che comunque era atteso dal giudaismo, a cui appartiene questo ricco, considerato che in modo ligio ha sempre osservato i comandamenti fin dalla sua giovinezza. E ciò che risponde al quesito del ricco è il v.21 e il suo naturale sviluppo nella pericope vv.28-31.

La pericope vv.23-27, pertanto, è estranea al racconto ed è stata probabilmente interpolata successivamente da qualche amanuense, che ha voluto sviluppare una beve riflessione sulle ricchezza e sui beni materiali in genere. Uno sviluppo che, per altro, non è logico né omogeneo, perché si passa dalla difficoltà che i ricchi hanno di accedere al Regno di Dio al quanto sia difficile, in senso generico e quindi non più per i soli ricchi, ad entrare nel Regno di Dio, per poi ritornare nuovamente sulla difficoltà dei ricchi di entrare nel Regno di Dio. E da qui si passa inaspettatamente al tema della salvezza, che nulla ha a che vedere con l'entrare nel Regno di Dio.

Si tratta, quindi,di una pericope piuttosto contorta e mal elaborata anche nella sua dinamica narrativa.

La sezione (vv.17-31) si compone di tre pericopi: il racconto del ricco alla ricerca della via perfetta per accedere alla vita eterna (vv.17-22); una riflessione sulle ricchezze, l'attaccamento alle quali rende difficili sia l'accesso al Regno di Dio che alla salvezza (vv.23-27); la riflessione sulla ricompensa per chi ha abbandonato tutto per la sequela (vv.28-31).

Commento ai vv 17-31

Una sequela impossibile se il cuore è nelle ricchezze (17-22)

Note generali alla pericope vv.17-22

Il racconto del ricco alla ricerca della via perfetta per accedere alla vita eterna è riportato anche da Mt 19,16-22 e Lc 18,18-23, ma diverse sono le prospettive con cui i tre evangelisti presentano questo racconto ai propri lettori, poiché diversi sono i contesti in cui i racconti vengono inseriti e diversi sono gli intenti teologici dei tre sinottici.

Matteo sta parlando ad una comunità ricca e benestante, formata prevalentemente da latifondisti e banchieri16, in cui il benessere eccessivo poteva oscurare la scelta della sequela, molto impegnativa e sulla quale si stende l'ombra della croce, che mal si concilia con ricchezze e agiatezze. Luca, invece, vede la ricchezza come un elemento che può spingere la comunità ad egoismi e divisioni, rendendo insensibili ai bisogni degli altri, come nel racconto di Lazzaro e il ricco Epulone (Lc 16,19-31), per cui spinge molto sulla condivisione dei beni, che si esprime nel fare le elemosine (Lc 11,11; 12,33-34). Beni, dunque, non trattenuti egoisticamente, ma condivisi con gli altri (At 4,36-37). È questo l'ideale lucano delle comunità credenti, dove “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto” (At 4,32.34). Comunità dove chi tratteneva i beni egoisticamente per se stesso veniva duramente punito da Dio (At 5,1-11).

Il racconto marciano si apre ad un'altra prospettiva, suggerita dal contesto in cui il racconto del ricco è inserito. Si è qui sulla strada per Gerusalemme, su cui si sta lentamente materializzando la croce, alla quale si oppone il rifiuto dei Dodici e la loro persistente inintelligenza, per cui si rende necessario un insegnamento finalizzato a sensibilizzare spiritualmente i Dodici, spingendoli a vedere le cose dalla prospettiva di Dio e non da quella degli uomini (8,33), cercando di creare dentro di loro atteggiamenti spirituali che favoriscano una nuova visione delle cose, anche se umanamente repellente. Tra questi atteggiamenti spirituali Marco prospetta ai suoi lettore anche quello di riporre la propria fiducia e la propria sicurezza non nella ricerca dei beni materiali, ma in un abbandono filiale nelle braccia del Padre, riponendo la propria fiducia in Gesù, il Messia crocifisso, che proprio in questo assurdo controsenso, si rivelerà anche salvifico. Da qui il racconto positivo dei bambini, che nella loro semplicità e fragilità, corrono incontro a Gesù, gettandosi nelle sue braccia e lasciandosi abbracciare; e, in qualche modo, il suo seguito negativo, quello del ricco, che rinuncia alla sequela per la durezza delle condizioni: si fidava più di se stesso e dei suoi beni che della difficile proposta di Gesù, così piena di incognite.

Viene qui in qualche modo drammatizzato quanto Mc 8,34-35 aveva enunciato come regola per la sequela: “Se qualcuno vuol seguire dietro di me, rifiuti se stesso e prenda la sua croce e mi segua. Chi, infatti, volesse salvare la sua vita, la perderà; chi, invece, perderà la sua vita per causa mia e del vangelo, la salverà”.

Il racconto costituisce un'unità narrativa a se stante ed è delimitato dall'inclusione data da un movimento eguale e contrario: il v.17 presenta il ricco che, pieno di entusiasmo e di buone intenzioni, corre verso Gesù perché gli indichi la via perfetta per ottenere la “vita eterna”; mentre il v.22 presenta sempre lo stesso ricco, che, deluso e amareggiato, si allontana da Gesù.

Il racconto è particolarmente curato ed è strutturato su parallelismi concentrici, per cui si avrà:

A) Un ricco corre verso Gesù supplicandolo di indicargli la via perfetta per ottenere la vita eterna (v.17);

B) Gesù gli indica la via comune per la salvezza, quella praticata da tutti i giudei: l'osservanza della Legge (vv.18-19);

     C) il ricco è già un rigoroso osservante della Legge e vuole, quindi, andare oltre, tentare una nuova esperienza spirituale, poiché sente che la Torah ormai gli va stretta (v.20); ed esprime il nuovo anelito del giudaismo verso un rinnovamento spirituale;

B1) Gesù colto il suo profondo anelito spirituale, gli propone una nuova via: liberarsi dai beni e dalle preoccupazioni materiali e poi seguirlo (v.21);

A1) Il ricco, deluso, si allontana tristemente da Gesù (v.22)


Commento ai vv.17-22

Il v.17 si apre con una nota topografica: “Ed uscendo egli in strada”. Il riferimento qui è all'entrare in casa del v.10, dove Gesù impartisce il suo insegnamento ai Dodici. Una sorta di sosta, di riflessione sul cammino verso Gerusalemme, che riprende qui al v.17a. Si noti come qui Marco non dice: “E uscito di casa”, la quale cosa legherebbe bene con il v.10, bensì “Ed uscendo egli in strada”, ricordando al suo lettore che questa è la strada che porta a Gerusalemme e che qui continua quel cammino intrapreso al v.1. Ed è proprio su questo cammino, su questa strada, che forma da cornice e da chiave di lettura al racconto, che avviene l'incontro con il ricco.

L'incontro è plateale: questo personaggio corre incontro a Gesù e si butta in ginocchio davanti a lui. Mt 19,16 dice semplicemente che si avvicinò un tale a Gesù; Lc 18,18 parla di un notabile che sta interrogando Gesù. Perché, dunque, Marco presenta questa scena così teatrale. L'evangelista con questo racconto vuole sottolineare l'importanza del fidarsi di Gesù e del confidare in lui e non nelle proprie ricchezze e, quindi, in se stessi. E l'incontro, così spettacolare di questo personaggio alla ricerca della via perfetta, lo descrive molto bene: egli corre verso Gesù e si inginocchia davanti a lui, esprimendo in tal modo il suo desiderio di incontro con Gesù (corre verso di lui) e il suo affidarsi a lui (si getta in ginocchio davanti a Gesù). Si tenga presente che qui tutto avviene sulla strada che porta a Gerusalemme e da lì al Golgota. È questa la via perfetta, la strada maestra che porta alla vita eterna, incomprensibile per chi ripone la fiducia in se stesso e nei propri beni: il fare la volontà del Padre; l'aderire al suo progetto di salvezza, molto lontano dal modo di pensare degli uomini. Da qui la necessità di spogliarsi di se stessi e seguire Gesù (8,34b), perché è lui la Via che porta al Padre, alla Vita Eterna, che è vita stessa di Dio, e su questa Via è impressa l'impronta della croce.

La questione su cui gira l'intero racconto è data dal v.17b: “Maestro buono, che cosa farò per ottenere la vita eterna?”. Gesù è definito “Maestro buono”, in cui il termine “Maestro” definisce il rapporto che intercorre tra Gesù e questo tale, che si pone in un atteggiamento di discepolo e, quindi, ben disposto ad accogliere l'insegnamento di Gesù, che qui, in modo strano e certamente anomalo nel definire un maestro, viene chiamato “buono”, che ne specifica una qualità morale. Un maestro lo si può definire saggio, illuminato, dotto, sapiente, tutti attributi che evidenziano la sua posizione di maestro e ne definiscono la qualità. Farisei ed erodiani si rivolgono a Gesù come maestro veritiero, che insegna secondo verità la via di Dio (12,14), come in questo caso, in cui lo sconosciuto ricco chiede la via perfetta per avere la vita eterna. Non ha, dunque, senso che Gesù venga definito “buono” e Gesù lo rileverà subito come a lui inappropriato, poiché, da buon giudeo, Gesù sa che questo attributo va riferito e riconosciuto pubblicamente soltanto a Dio17: “Nessuno è buono se non uno, Dio”. Forse in quel “se non uno” vi è un richiamo allo Shema' (Dt 6,4-9)18, in cui si attesta che Dio è uno e, quindi, tutto ciò che gli si attribuisce è unico e non può essere riferito ad altri. Gesù, dunque, rimanda la ricerca di questo ricco a Dio stesso. Gesù non possiede la chiave miracolosa che apre alla “Vita Eterna”, perché essa appartiene al Padre, ma può indicare la via maestra dei comandamenti, in cui si rispecchia la volontà stessa di Dio e sono posti a sigillo del patto di Alleanza, che sta alla base dell'identità stessa del popolo d'Israele e di ogni suo membro (Dt 19,5-6). Ai due figli di Zebedeo che gli chiedevano di sedere uno alla sua destra e uno alla sua sinistra nella sua gloria, Gesù risponderà che questo non dipende da lui, ma dal Padre (10,40; Mt 20,23). Del resto lo stesso Gesù giovanneo ricorderà ai suoi che egli, da se stesso, non può fare nulla, ma tutto è rimandato al Padre (Gv 5,19.30; 8,28), per questo egli è anche la Via, la Verità e la Vita, che conduce al Padre (Gv 14,6), poiché lui è la manifestazione del Padre (Gv 14,9-10), ma non è il Padre.

La questione posta dal ricco è “che cosa farò per ottenere la vita eterna?”. La questione fa parte del dibattito rabbinico, che va alla continua ricerca di una sofisticata via di perfezione o di un qualche comandamento tale che possa in qualche modo riassumere la foltissima schiera di tutti gli altri, ben 613, che scandivano e tuttora scandiscono il vivere del pio ebreo19. La religione ebraica è concepita come una sorta di prassi religiosa, una mera esecuzione di ordini e comandi divini20. La Torah, infatti, era colta come concreta espressione della volontà divina, che come tale andava soltanto eseguita e non discussa21. A fronte della corretta esecuzione Dio era tenuto a dare al suo fedele la ricompensa promessa. Si trattava, quindi, di una sorta di rapporto contrattuale, che il pio ebreo aveva stipulato con Dio nell'ambito dell'Alleanza22. La fedeltà all'Alleanza, intesa come fedele esecuzione dei suoi comandi, era promessa di vita eterna (Lv 18,4-5; Ab 2,4). Significativo in tal senso è l'atteggiamento del fariseo, che sale al tempio e si pone davanti a Dio, dichiarando tutta la sua giustizia, perché egli è un perfetto esecutore della Legge (Lc 18,11-12). Entro queste logiche si comprende la richiesta del ricco “cosa devo fare per ottenere”. Siamo, dunque, ancora nell'ambito di una logica contrattualistica, quella del fare per avere23, ma nel contempo lascia intuire il desiderio profondo di aprirsi ad un nuovo rapporto con Dio, capace di superare i vecchi schemi del do ut des. Ed è proprio questa esigenza di un rinnovamento interiore e di crescita spirituale, che ha indirizzato questo tale verso Gesù.

Con il v.19 Gesù, messa da parte la questione teologica del v.18, indica ora la via maestra, aperta ad ogni pio ebreo e a tutti gli uomini di buona, volontà poiché i comandamenti altro non sono che una legge che è inscritta nella natura stessa dell'uomo e gli indica il cammino da percorre per realizzare se stesso ed affermarsi all'interno della società con correttezza e onestà, divenendo un suo apprezzato cittadino.

I comandamenti che Gesù elenca riguardano il solo rapporto con gli altri (Es 20,12-17), omettendo, invece, la prima parte riguardante il rapporto con Dio (Es 20,2-11). Questa scelta di campo operata dal Gesù marciano, tuttavia, non si contrappone ai rapporti con Dio né li esclude, ma li va a completare e ne costituisce la “conditio sine qua non”. Non si può, infatti, amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede (1Gv 4,20). L'amore per il prossimo, pertanto, viene percepito come il fondamento per l'amore per Dio, che passa attraverso quello per il prossimo24. Vi è, pertanto, una stretta connessione tra le due sezioni della Legge, così che il comandamento dell'amore per il prossimo viene definito simile a quello dell'amore per Dio (Mt 22,39; Mc 12,31), e sovente i due comandamenti, pur mutuati da diversi contesti biblici (Dt 6,5; Lv 19,18b), vengono citati assieme (Mc 12,30-31). Significativo in tal senso è Mt 19,18b, che, riecheggiando Rm 13,9, termina l'elencazione dei comandamenti, a differenza di Marco e Luca, citando Lv 19,18b: “e amerai il prossimo tuo come te stesso”, in quanto che questo comandamento riassume e amplifica tutti gli altri.

Nell'elencazione dei comandamenti, che riportano fedelmente Es 20,12-16 e il suo parallelo Dt 5,16-20, Marco aggiunge un “M¾ ¢poster»sVj” (Mè aposteréses, non froderai), che di fatto non esiste tra i comandamenti, ma che in realtà sintetizza Es 20,17 e Dt 5,21: “Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna delle cose che sono del tuo prossimo”. Il verbo “¢posteršw” (aposteréo, frodare), che qui Marco usa al posto del “oÙk ™piqum»seij” (uk epitziméseis, non desidererai) di Es 20,17 e Dt 5,21, significa oltre che frodare, anche “privare, spogliare, portar via, defraudare, non dare quello che si deve”. Il senso che Marco qui vuole attribuire a quel “non desidererai” originario è quello di un sottrarre in modo subdolo e ingannevole un bene che appartiene al tuo prossimo. Il perché di questa scelta da parte di Marco, cioè di sostituire il “non desiderare” con “non frodare”, va capita per la platea di lettori a cui Marco destina il suo vangelo: la comunità di Roma, per la quale “desiderare” è un semplice moto dell'animo, mentre per la mentalità e la cultura ebraica il “desiderare” assume aspetti molto più concreti, che è il mettere in atto un comportamento tale da poter sottrarre all'altro, in modo subdolo e ingannevole, il bene “desiderato”. Un concetto che per i Romani meglio si esprimeva con “frodare”.

Il v.20 riporta la risposta del ricco, che attesta di osservare tali cose fin dalla sua giovinezza. Il riferimento qui è probabilmente al “bar mitzvah” (figlio del comandamento), una cerimonia che viene celebrata all'età di 13 anni per il bambino25. È questo il momento in cui il giovinetto, ormai alle soglie dell'adolescenza, fa la sua entrata ufficiale nella comunità civile e religiosa, assumendo le sue prime responsabilità, partecipando attivamente alla vita religiosa e sociale. Egli può da questo momento essere conteggiato nel “Minjan”, il numero minimo di dieci persone perché la preghiera pubblica in sinagoga abbia valenza comunitaria.

Fin qui Gesù aveva indicato la comune strada maestra per accedere alla vita eterna. Ma la disponibilità di questa persona a ricercare ulteriori cammini di perfezione spinge Gesù ad indicare una via che non si contrappone alla prima, ma la va a completare, trasformando una semplice osservanza giuridica della Torah in una autentica evoluzione e crescita spirituali, che porterebbero questa persona a quella perfezione spirituale che egli stava cercando.

La risposta di Gesù viene fatta precedere e preparata da una breve introduzione che lascia intravvedere la profondità di rapporto che era venuta ad instaurarsi tra Gesù e quest'uomo: “Ma Gesù, scrutatolo, lo amò e gli disse”. Quello scrutare di Gesù dice la profonda penetrazione spirituale, una sorta di sintonia e di comunione spirituali che Gesù aveva stabilito con quest'uomo, ponendo su di lui la sua elezione, che sfocia in quell'accoglienza e disponibilità ad instaurare un rapporto di vita, che qui Marco esprime con quel “lo amò”. Tutta questa carica di forte tensione spirituale si profonde ora in quel “disse”. Quanto segue, pertanto, non va compreso solo come una semplice proposta, ma come un atto di elezione per quel uomo, che lo avrebbe portato ai vertici di quella perfezione che egli cercava.

La risposta di Gesù si articola in tre momenti che costituiscono una sorta di graduale cammino verso la perfezione spirituale: a) la constatazione che la semplice osservanza della Torah, per quanto perfetta, non soddisfa adeguatamente il bisogno di spiritualità di questo tale: “Una cosa ti manca”. Più apertamente il Gesù matteano affermerà: “Se vuoi essere perfetto” (Mt 19,21a). Segno evidente che la Legge mosaica non era in grado di dare quella perfezione spirituale capace di creare

un'adeguata comunione tra il credente e Dio, se il Gesù matteano attesterà che egli non è venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (Mt 5,17); b) il secondo momento crea la condizione per accedere a questa perfezione: liberarsi da ogni vincolo materiale, che lega chi lo possiede alla terrestrità, impedendogli ogni elevazione spirituale: “vendi quanto hai e dà(llo) [ai] poveri e avrai un tesoro in cielo”. Non si tratta di un semplice ripudio dei beni terreni, ma di una “distribuzione” degli stessi a chi ne ha bisogno e, quindi, di una sorta di condivisione, che si fa comunione di vita, trasformando in tal modo questa ricchezza materiale e deperibile in una spirituale ed eterna. c) Il terzo elemento, che costituisce la risposta di Gesù, è la sequela: “e di qui seguimi”. Il verbo qui usato è “¢koloÚqei” (akolútzei), che non dice soltanto un seguire Gesù, ma esprime una sequela che si pone a servizio di Gesù e degli altri. Un verbo tecnico questo, proprio degli gli evangelisti, per definire il rapporto che intercorre tra il discepolo che ha deciso la propria vita per Gesù e Gesù stesso.

Quello della sequela, pertanto, è un percorso graduale, che nasce dal bisogno di perfezione spirituale, per dare un senso più profondo e più vero alla propria vita; da qui la necessità di liberarsi dai vincoli materiali che possono condizionare il cammino di evoluzione spirituale; ed infine la sequela di Gesù, quale momento culminante di questo percorso di spiritualità, che proprio “da qui”, dalla spogliazione di se stessi, ha inizio. Una sequela che è caratterizzata dalla croce: “Se qualcuno vuol seguire dietro di me, rifiuti se stesso e prenda la sua croce e mi segua.” (8,34b); e lo è ancor più in questo contesto del cap.10 che in qualche modo funge da preambolo alla passione e morte. Liberarsi, dunque, dai beni materiali per poter seguire Gesù sul cammino della croce. È questo il consiglio che Marco propone alla comunità di Roma, perché questa comprenda il significato e il senso della scandalosa morte di croce, la cui predicazione è “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23). E Marco prospetta questa realtà della sequela di spogliazione su cui si allunga l'ombra della croce e della sofferenza ad una comunità, quella romana, che sta subendo la persecuzione di Nerone, che apparirà al v.30, in quell'annotazione, riportata solo da Marco: “con persecuzioni”.

Il v.22 chiude il racconto sul ricco alla ricerca della via di perfezione con una nota di tristezza che lascia molto amaro in bocca: “rattristatosi per il discorso, se ne andò dispiaciuto”, perché, commenta l'autore, “era uno che aveva molti beni”. Una tristezza, dunque, che è legata ai beni, perché sono proprio questi che gli impediscono di accedere a quella perfezione a cui tanto aspirava. Una tristezza che dice l'annichilimento e la frustrazione di un grande desiderio di Dio. Ma questo non deve stupire, perché Marco l'aveva già in qualche modo preannunciato in 4,19, riguardo al seme della Parola caduto tra le spine soffocanti della ricchezza e dei conseguenti piaceri della vita: “le preoccupazioni del secolo e l'inganno della ricchezza e i desideri circa le restanti cose, introdottisi (in loro), soffocano la parola e diviene sterile”. Proprio per questo, perché la sequela sia efficace, comporta che il proprio cuore sia completamente libero dalla materialità del vivere, poiché essa non è un percorso di potere e di affermazione personale (Mt 20,20; Mc 10,35-37), ma di spiritualità, che, trascendendo la materialità, evolve il discepolo verso Dio e lo conduce a lui attraverso il servizio agli altri.

Una considerazione di Gesù sull'episodio (vv.23-27)


Note generali

La pericope vv.23-27 va considerata come un'aggiunta interpolata successivamente, forse da Marco o forse da un suo discepolo. Il testo originario doveva comprendere il racconto del ricco alla ricerca della via perfetta (vv.17-22) a cui faceva subito seguito la pericope vv.28-31, dove Pietro, raffrontandosi con la scelta del ricco, che ha rinunciato alla sequela di Gesù a favore dei propri beni, contrappone la scelta di quanti, invece, hanno lasciato tutto per la sequela. Quest'ultima pericope va d'accordo con la conclusione del racconto del ricco, ponendo a confronto due contrapposte scelte di vita. Questa pericope in esame (vv.23-27), invece, benché parli dell'attaccamento alle ricchezze, tuttavia non ha nulla a che vedere con la sequela di Gesù. Gesù, infatti, ha proposto la sequela quale via perfetta per raggiungere la vita eterna e, quindi, la salvezza. L'attaccamento alle ricchezze hanno impedito al ricco di aderire all'innovativa proposta di Gesù, ma certamente non gli ha impedito di raggiungere la vita eterna, che egli comunque raggiungerà se si manterrà fedele all'osservanza dei comandamenti, la via comune, indicata da Gesù stesso in prima battuta (v.19).

La pericope (vv.23-27), affronta invece un altro problema: l'impossibilità dei ricchi di entrare, non nella vita eterna, ma nel regno di Dio. Vi è una sostanziale differenza, come s'è visto sopra (v. pag.14), tra “Vita Eterna”, che dice la vita stessa di Dio, e il “Regno di Dio”, che dice il ricostituito potere di Dio sugli uomini, inaugurato da Gesù (1,14-15) e che si identifica e si esprime visibilmente nella comunità dei credenti, che fonda se stessa sulla Parola di Gesù, riconoscendolo quale Figlio inviato dal Padre. Il Regno di Dio, pertanto, è il prodromo, il preambolo alla Vita Eterna e, grazie al dono dello Spirito Santo effuso in esso e in ogni credente, ne diviene caparra, anticipazione, ma non è la Vita Eterna.

Entrare, pertanto, nel Regno di Dio o comunità credente serve un cambio di passo e un profondo rinnovamento esistenziale, difficilmente operabile per chi antepone se stesso e i propri beni all'offerta di salvezza della chiesa, che segue, invece, un cammino di spogliazione, sulla via della croce (8,34-35; At 2,42-48).

La questione, poi, in chiusura di pericope (vv.26-27), viene spostata sul tema della salvezza, quale stato di vita proprio della Vita Eterna, concludendo come questa non dipende dall'uomo, sia che questi si impegni nell'osservanza rigorosa dei comandamenti, sia che questi, invece, decida la sua vita per Gesù, ma solo da Dio. Probabilmente questi ultimi due versetti sono una stoccata al giudaismo e, probabilmente, ai giudeocristiani, convinti che l'osservanza dei comandamenti obbligasse in qualche modo Dio a dar loro la salvezza, una sorta di “do ut des”. Paolo sulla questione svilupperà tutta una lunga riflessione nelle sue due lettere, scritte a circa un anno di distanza: quella ai Galati (56/57 d.C.) e quella successiva ai Romani, (57/58 d.C.), dottrinalmente legata ai Galati.

La struttura e la dinamica della pericope può essere definita come una piccola raccolta di detti giustapposti l'uno accanto all'altro, sul tema della ricchezza (vv.23-25) e sulla salvezza (vv.26-27), tra loro mal imbastiti da continui interventi dei discepoli che sollecitano Gesù alla risposta; e tra loro anche mal coordinati, poiché si passa dalla difficoltà di entrare nel Regno di Dio per i ricchi alla difficoltà generica di entrare nel Regno di Dio, per poi passare nuovamente, con il proverbio del cammello, che andrebbe legato al v.23, ai ricchi. Si passa poi ad un nuovo tema, quello della salvezza, che nulla ha a che vedere con tutto il resto.

Va, comunque, apprezzata l'abilità di Marco o della sua scuola che ha saputo inserire in questo contesto, dove si parla di ricchezza, sequela e vita eterna, degli apoftegmi altrimenti difficilmente gestibili e che comunque consentono una riflessione sul possesso dei beni terreni, posti in relazione al proprio essere nella chiesa e in rapporto alla salvezza.

La struttura della pericope è stata disposta a parallelismi concentrici sul v.25, dove si trova il detto proverbiale attorno al quale gira, si sviluppa e si sintetizza l'intera pericope per cui si avrà:

A) Constatazione di Gesù sulla difficoltà, per chi è ricco, di entrare nel Regno di Dio (v.23);

B) Ripresa del tema della generalizzata difficoltà ad entrare nel Regno di Dio (v.24);


    C) Il detto proverbiale, cuore della pericope (v.25);

B1) Introduzione di un nuovo tema, quello della salvezza, legato al v.24 (v.26);

A1) Impossibile per l'uomo salvarsi, ma a Dio tutto è possibile (v.27);

A) e A1) si completano tra loro perché a fronte delle difficoltà di entrare nel Regno di Dio per i ricchi (v.23) si attesta che questo è impossibile per l'uomo, ma non per Dio (v.27); a fronte dell'attestazione in B) di una generica e generalizzata difficoltà ad entrare nel Regno di Dio (v.24), sorge spontanea in B1) la domanda sul chi, allora, si può salvare, creando in tal modo una sorta di binomio identificativo Regno di Dio-salvezza (v.26); C) è il punto convergente attorno al quale gira l'intera pericope, che viene qui sintetizza nel proverbio paradossale del cammello e della cruna dell'ago (v.25).

Commento ai vv.23-25

Il v.23 si apre descrivendo il comportamento di Gesù che “si guarda attorno”, quasi a voler, da un lato, abbracciare quanti, a differenza del ricco, hanno qui fatto la scelta della sequela; dall'altro sembra voler preparare i suoi seguaci ad una sentenza che possiede in se stessa una sorta di minaccia: “Quanto difficilmente quelli che hanno beni entreranno nel Regno di Dio”.

L'apoftegma non ha certamente l'intenzione di contestare e tanto meno di condannare il possesso dei beni terreni, comunque utili e in certa misura indispensabili per poter vivere. Ma qui viene stigmatizzato l'atteggiamento difronte ai beni di coloro che li possiedono, poiché l'eccessivo attaccamento ai beni, tale da farne il centro dei propri interessi e della propria vita, storna l'orientamento esistenziale da Dio verso le cose, facendo delle cose il proprio dio e, quindi, di fatto, innescando un processo di culto idolatrico alternativo. La centralità di Dio sulle cose è posta in apertura del Decalogo, che forma la base dell'Alleanza: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me” (Es 20,2-3; Dt 5,6-7), la cui esclusiva assolutezza viene proclamata tre volte al giorno dal pio ebreo nello Shema' che si apre significativamente attestando con forza l'unicità esclusiva di Dio, al quale va riservata l'interezza della propria vita, quasi un atto consacratorio, che esclude ogni altra possibilità di un qualsivoglia compromesso: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze” (Dt 6,4-5). Nulla, quindi, deve distogliere Israele e ogni credente da Dio, che va posto al centro della propria vita.

Con il v.24 la platea, prima limitata ai ricchi possessori di beni, si allarga generalizzando la difficoltà dell'entrare nel Regno di Dio, non solo per i ricchi, ma per tutti, ed è ciò che farà esclamare a Pietro: “E chi può essere salvato?” (v.26b). I beni materiali, quindi, indipendentemente dalla loro quantità e dalla loro natura, tendono a sviare il credente da Dio. Il v.24, pertanto, denuncia questo pericolo che non colpisce soltanto i ricchi, ma ogni uomo, che rischia di vivere la propria vita riducendola ad una continua ricerca di beni, quasi che questi siano quelli che diano la certezza di vita. Luca, formidabile narratore, racconta di quel uomo benestante che ha avuto una notevole annata e progetta di ampliare i suoi magazzini, impegnando tutto se stesso nell'accumulare, ma dimenticando quanto fragile sia la sua vita, di cui gli si chiederà conto quella notte stessa: “Ma Dio gli disse: Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato di chi sarà?” e conclude amaramente l'evangelista: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio” (Lc 12,16-21).

Il v.23 attestava della difficoltà per chi possiede beni materiali di entrare nel Regno di Dio; ora, il v.25 stabilisce la misura di questa difficoltà ricorrendo ad una sentenza divenuta ormai proverbiale: “È più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago che un ricco entri nel Regno di Dio”. Un paradosso per dire che è totalmente impossibile che il possessore di beni possa accedere al Regno di Dio, proprio perché nelle scelte della propria vita è necessario che queste seguano un preciso orientamento esistenziale, che metta al primo posto Dio, così che ogni cosa assume il suo giusto posto nella vita e il suo giusto valore, poiché “Non potete servire a Dio e a mammona […] Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta” (Mt 6,24.33). Tutta la vita, allora, acquisirà il suo significato più vero e profondo.

I vv.26-27 si richiamano in qualche modo al quesito iniziale posto da questo ricco possessore di beni: “[...] che cosa farò per ottenere la vita eterna?” (v.17b). Già lo si è detto sopra (pag.17) come l'ebreo concepiva il suo rapporto con Dio, come un'Alleanza regolata giuridicamente dalla Torah scritta, quella mosaica, alla quale si è aggiunta nel tempo quella orale, che conteneva tutte le interpretazioni esecutive per poter eseguire i comandamenti della Torah scritta, altrimenti difficilmente eseguibili. In buona sostanza il rapporto che il pio ebreo aveva con Jhwh era posto su base giuridica, che in qualche modo regolava il rapporto operaio-padrone: io lavoro e tu mi devi pagare. Non era concepita una salvezza per grazia, ma solo per le opere compiute. Era, dunque, l'uomo il fautore della propria salvezza e Dio il soggetto passivo di questo rapporto. Sarà Paolo a rovesciare completamente il rapporto tra Dio e l'uomo, salvato per grazia e non per merito delle sue opere (Rm 3,20-24; Gal 2,16), anche se già Dt 7,6-8a prospettava questo rovesciamento di rapporti: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri”. Non per meriti, dunque, ma per grazia.

Ed è ciò che il v.27 attesta in chiusura di questa pericope: la salvezza non è possibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile. Una stocca, quindi, al giudaismo e ai giudeocristiani, che popolavano le prime comunità credenti ed erano ancora legati alle pratiche mosaiche, non avendo ancora compreso la novità dell'evento salvifico Gesù. Forse anche per questo l'intera pericope è percorsa da una persistente inintelligenza di quanto qui Gesù sta proclamando (vv.24a.26a): la salvezza non viene dagli uomini, legati ai loro beni, ma da Dio. Da qui la necessità di confidare non in se stessi e nei propri beni materiali, ma in Dio. Del resto è anche il giusto atteggiamento per poter accedere agli sconvolgenti misteri del Golgota. Non va mai dimenticato che tutto questo insegnamento viene somministrato sulla strada per Gerusalemme e va ricompreso anche in questa prospettiva.

La ricompensa per chi ha scelto la sequela, abbandonando tutto (vv.28-31)

La pericope in esame (vv.28-31) costituisce la logica conseguenza, ma in senso inverso, della scelta del ricco possidente di beni terreni, che ha rinunciato alla sequela di Gesù per se stesso e per salvaguardare i propri beni. Che cosa dunque aspetterà a chi, invece, ha lasciato tutto per la sequela? Forse una questione che si poneva ai credenti, che entrando a far parte della nuova fede vedevano la loro vita molto contrastata sia a livello familiare che sociale (13,9.11-13).

La risposta che il Gesù marciano dà è molto articolata e distingue un tempo presente da uno futuro (v.30), ma un futuro che in qualche modo ha già cominciato qui nel presente. Il sintetico “tutte le cose” menzionato da Pietro, viene ora specificato al v.29: si tratta non solo di beni materiali, come casa e campi, ma anche di beni immateriali, quali gli affetti che legano le persone tra loro e tali da caratterizzare e costituire la famiglia, come il padre, la madre, i figli e i fratelli. In tal senso il termine “casa” citato come primo bene lasciato non va inteso solo come bene materiale, ma anche come il luogo di ritrovo d tutti i membri della famiglia e, quindi, il luogo del ritrovo degli affetti e delle proprie sicurezze psicologiche e della propria identità. Ebbene, la sequela comporta anche questo abbandono, quello del “rifiutare se stessi” (8,34), poiché “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26), in cui il verbo “odiare” ha il senso di abbandonare, lasciare, preferire l'uno piuttosto di un altro, sottolineando in tal modo le pretese esclusive della sequela di Gesù, che non scende a compromessi, ma deve essere totale.

Il v.30 presenta la ricompensa per chi ha abbandonato beni materiali e immateriali, cioè tutto, per la sequela. Tutto quello che egli ha lasciato per Gesù e la sua Parola, verrà ritrovato parimenti all'interno della comunità credente, dove non gli mancherà chi si prende cura di lui né gli mancherà il sostentamento: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno” (At 2,44-45). Una nuova famiglia, dunque, fondata su Gesù e la sua Parola, dove ognuno si riconosce nell'altro e dove l'altro diventa per lui padre, madre, figlio, fratello o sorella. Ed è quella comunità a cui Gesù stesso fa riferimento in 3,33-35 e alla quale egli stesso appartiene: “E rispondendo loro disse: <<Chi è mia madre e i miei fratelli?>>. E guardando attorno (a sé) quelli che stavano seduti in cerchio attorno a lui, dice: <<Ecco mia madre e i miei fratelli. Chi [infatti] facesse la volontà di Dio, costui è mio fratello e sorella e madre>>”.

Marco, a tal punto, unico tra i sinottici, aggiunge “con persecuzioni”. L'annotazione va compresa nel contesto storico in cui Marco sta scrivendo il suo vangelo (65-69 d.C.), epoca questa in cui Nerone aveva scatenato la persecuzione contro i cristiani di Roma (64 d.C.), di cui Marco faceva parte.

Tutto questo riguarda la ricompensa per il tempo presente, il tempo in cui ognuno, credente o meno, è chiamato a vivere, il suo tempo. Ma vi è anche un altro tempo, “quello che viene”, per il quale si prospetta la “Vita Eterna”, quella di cui il ricco possidente cercava la via perfetta per raggiungerla. La prospettiva, quindi, qui è escatologica. Ma l'uso che Marco fa del verbo “venire”, al presente indicativo anziché futuro, “tempo che viene” e non “tempo che verrà”, lascia intendere come questo futuro sia per i credenti già incominciato e quella vita di comunità e di comunione fraterna, in cui tutti invocano il comune ed unico Dio con l'appellativo di “Padre nostro”, fondata sull'amore di Dio e del prossimo, che si radica in Gesù e nella sua Parola, ne sia di fatto una sorta di anticipazione, allorché tutto e tutti si ritroveranno nella comune casa del Padre (1Cor 15,28) in una perfetta e definitiva comunione di amore, che è Vita Eterna.

L'intera sezione, vv.17-31, dedicata alla ricerca della via perfetta che porta alla vita eterna, la quale prevede la spogliazione dei propri beni terreni per seguire Gesù sulla via della croce, si chiude inaspettatamente con una sentenza che lascia perplessi e di difficile decifrazione: “Molti primi saranno ultimi e [gli] ultimi primi” (v.31). Una sentenza che sembra sovvertire e ribaltare ogni logica e ogni prospettiva umana. Qui non si parla de “I primi”, ma di “molti primi”. Quindi questi primi non sono tutti gli uomini, ma molti, pertanto una buona parte che si differenzia dagli altri; mentre quando si parla degli “ultimi” non si dice “molti ultimi”, ma “gli ultimi”, quindi tutti quelli che si collocano in questa categoria e che si contrappongono alla posizione dei “molti primi”. Quale dunque il senso di questa inattesa sentenza? Per poterlo comprendere è necessario rifarsi al ricco possidente di beni terreni, che ha rifiutato la novità dell'evento Gesù per non disperdere i suoi beni; mentre altri si sono resi poveri per la sequela. Questi, nel secolo che viene, si troveranno in posizioni completamente rovesciate: chi ha rifiutato Gesù non solo perderà i suoi beni sui quali confidava, ma spogliato di tutto, si troverà tra gli ultimi; mentre chi in questo secolo ha rinunciato a tutto per la sequela e il Regno di Dio, si ritroverà ricompensato di molto di più di ciò che ha rinunciato. Quindi un sovvertimento non solo di posizioni, ma anche di valori, “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8).

Una seconda possibile comprensione di questo detto oscuro, potrebbe riferirsi alla posizione privilegiata di Israele, il primo ad essere convocato da Dio ed essere costituito sua proprietà tra tutti i popoli, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5b-6); un popolo consacrato al Signore: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra” (Dt 7,6). Ma questo popolo reso primo tra tutti, alla venuta di Gesù, non solo non l'ha riconosciuto come il Messia atteso e inviato da Dio, ma lo ha anche rifiutato e poi ucciso (Gv 1,11). Per questo il suo primato presso Dio verrà assegnato agli ultimi, cioè al mondo pagano, che ha, invece, accolto il messaggio di Gesù, quale Messia e Figlio di Dio.

Sarà questa la conclusione anche della parabola dei vignaioli infedeli e omicidi: il padrone verrà, sterminerà questi omicidi e darà la vigna ad altri (12,1-9). Ed è proprio su tale dramma del mistero della storia della salvezza, che Paolo non sa capacitarsi e a questo dramma, che tanto lo addolorava, dedicherà i capp.9-11 della sua Lettera ai Romani.

Il terzo annuncio della passione (vv.32-34)

Testo a lettura facilitata

Il preambolo (v.32)

32- Ora, erano sulla strada, mentre salivano a Gerusalemme, e Gesù li precedeva, e stupivano, quelli che (lo) seguivano temevano. E presi nuovamente i Dodici, incominciò a dire loro ciò che stava per succedergli:

La predizione degli eventi (vv.33-34)

33- <<Poiché ecco, saliamo a Gerusalemme, e il Figlio dell'uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi e lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani
34- e lo scherniranno e gli sputeranno (addosso) e lo flagelleranno e (lo) uccideranno, e dopo tre giorni risusciterà>>.


Note generali

Con il v.32, già lo si era accennato sopra (pag.3), il cap.10 imprime una sterzata al viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Un viaggio iniziatosi nei dintorni di Cesarea di Filippo (8,27), proseguito per la Galilea (9,30) fino a Cafarnao (9,33) e da qui verso i confini della Giudea (10,1a). Un versetto che imprime al racconto un radicale cambio di passo: da un insegnamento finalizzato a preparare i Dodici ai drammatici eventi del Golgota e alla comprensione del loro senso, iniziato con 8,31 (“Incominciò ad insegnare loro”) e proseguito con 9,31 (“insegnava, infatti, ai suoi discepoli”), fino a qui, 10,32, dove non si dice più che insegnava, ma che “incominciò a dire loro ciò che stava per succedergli”. Non si è più quindi nell'ambito di un semplice annuncio o di un insegnamento, ma di una vera e propria predizione di eventi ormai imminenti, fatta seguire da una loro dettagliata elencazione, (vv.33-34), che scandirà il racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù (14,1-16,8).

Ma nel contempo il v.32 forma con il v.52 una inclusione, data dall'espressione “™n tÍ Ðdù” (en tê odô, sulla strada, sulla via), che si ripete in entrambi i versetti. La via di cui qui si parla è quella che porta a Gerusalemme, dove si compiranno gli eventi annunciati ai vv.33-34. Viene in tal modo a delinearsi un'intera sezione in cui si focalizza l'attenzione del lettore non solo sugli eventi del Golgota (vv.33-34), ma anche sul loro significato (vv.42-45), così che le menti dei Dodici, finora cosi recalcitranti difronte al mistero di questo Messia sofferente, finalmente si apriranno e seguiranno il loro Maestro sulla via (vv.46-52).

La struttura della sezione, delimitata dall'inclusione formata dai vv.32.52, è composta da tre unità narrative, strettamente concatenate tra loro:

Commento ai vv.32-34

Il v.32 potremmo considerarlo come di transizione perché, da un lato, conclude il lungo cammino d'insegnamento e di preparazione spirituale (8,34-10,31), che Gesù ha somministrato ai suoi e con i suoi alle folle, figura queste dei futuri credenti, per aprire le loro menti e i loro cuori al Mistero della sua sua passione, morte e risurrezione; dall'altro, introduce il lettore in un contesto di raggiunto rinnovamento interiore.

Il clima qui, infatti, con il v.32, cambia completamente. Si respira ora un'aria di avvenuta trasformazione spirituale, benché, come vedremo, non ancora pienamente compiuta (vv.35-41). Un versetto in apparenza semplice, ma molto denso, che tratteggia lo stato d'animo dei Dodici e delle folle ormai giunte a Gerico (v.46a), la porta di entrata per Gerusalemme.

Il v.32, pur nella sua brevità, descrive sei momenti molto significativi che presentano un nuovo contesto, completamente capovolto rispetto a quello descritto in 8,31-38:

Ora erano sulla strada”, quel “erano” dice che vi è una continuità tra il cammino fin qui compiuto e quello che ancora si prospetta loro. Questa “strada” non è soltanto quella che porta a Gerusalemme, ma è anche il cammino di una conversione spirituale, che i Dodici con le folle devono operare in loro stessi per poter accedere al Mistero. Questa “strada”, dunque, è anche la via spirituale, che li deve portare ad una piena illuminazione su Gesù e sul senso della sua missione. Soltanto dopo l'increscioso episodio dei due fratelli, Giacomo e Giovanni (vv.35-41), fatto seguire da un ultimo insegnamento di Gesù sul senso della sua passione, morte e risurrezione (vv.42-45) e il racconto conclusivo della guarigione del cieco di Gerico (vv.46-52), si potrà finalmente dire che il cammino di perfezionamento spirituale si è pienamente compiuto.

Mentre salivano a Gerusalemme”, Gerusalemme è la meta finale in cui il mistero della salvezza, nascosto in Dio dall’eternità, si dovrà pienamente manifestare: morte e risurrezione. Qui il Messia sofferente sarà ricompreso come “Figlio di Dio” anche dal mondo pagano (15,39). Ma per giungere a Gerusalemme, il luogo del mistero di Dio e della sua manifestazione, bisogna “salire” . Il salire comporta sempre un distaccarsi da un qualcosa, un lasciare dietro alle proprie spalle un qualcosa che prima ci tratteneva; è un rompere i vincoli con il passato per guardare avanti. Lo era stato chiesto al ricco (v.21) e lo ha fatto il cieco, lasciando dietro di sé il proprio mantello, metafora della propria vita passata, e balzando in piedi, come in una sorta di risurrezione e di rinnovamento interiore. Il salire, poi, non è mai una cosa facile, comporta fatica, comporta il vincere il peso di una gravità che ci vorrebbe trattenere in basso. Questo salire a Gerusalemme, dunque, indica tutta la difficoltà dei discepoli di distaccarsi dalle loro logiche umane per abbracciare le prospettive e gli orizzonti di Dio.

Gesù li precedeva”, il maestro precede sempre i suoi discepoli; egli è sempre là dove essi ancora non sono, ma indica loro la via da seguire (8,34b). Gesù li precede nel cammino, li precederà in Galilea. Questo “precedere” sta ad indicare la costante iniziativa di Dio. L’uomo da solo non riuscirebbe a cogliere il progetto di Dio se non fosse “preceduto” dalla grazia che si è manifestata in Gesù (Tt 2,11).

e stupivano”, il viaggio, ormai, è giunto al termine: la luce dell’intelligenza di Dio si sta facendo strada nel buio dell’intelligenza umana, che non comprende e con difficoltà e riluttanza si apre alle logiche di Dio. Ecco perché “stupivano”. Lo stupore è la risposta dell’uomo all’esperienza di Dio.

quelli che (lo) seguivano temevano”, se l’esperienza di Dio e il comprenderne il disegno crea stupore, l’accorgersi di esserne coinvolti (“lo seguivano”) incute paura. Stupore e paura sono i segni di una teofania, la risposta dell’uomo all’esperienza di Dio. Non a caso, infatti, la trasfigurazione (9,2-10) viene collocata da Marco lungo questo cammino verso Gerusalemme; cammino lungo il quale Gesù non solo è stato scoperto come Messia sofferente (8,29), ma anche come Figlio di Dio (9,7), che tale verrà riconosciuto e testimoniato anche dal mondo pagano ai piedi della croce (15,39).

E presi con sé di nuovo i Dodici”, è molto significativo quest'ultimo passaggio. Per poterlo comprendere è necessario rifarsi a 8,34, dove Gesù, dopo aver subito i rimbrotti di Pietro (8,32b), che rifiutava la figura di un Messia sofferente, e dopo averlo respinto, definendolo un satana, che pensa secondo le logiche degli uomini, ma non secondo quelle di Dio (8,33), allontanerà anche i suoi da sé: “E convocata la folla con i suoi discepoli”. Quindi, per la loro inintelligenza e la loro incredulità i discepoli sono associati alla folla, cioè a “quelli di fuori” (4,11). Non sono più con Gesù, perché essi “non hanno il senso delle cose di Dio, ma di quelle degli uomini” (8,33). Ora, invece, al termine del cammino di conversione e di rinnovamento spirituale, proprio perché essi incominciano a comprendere e ad accettare le logiche di Dio, Gesù “li prende con sé di nuovo”.

Marco conclude il v.32 rilevando che Gesù “incominciò a dire loro ciò che stava per succedergli”. Quel “incominciò a dire” significa che qui ha inizio un nuovo percorso, diverso dall'insegnamento, iniziatosi in 8,31a, dove, invece “incominciò ad insegnare”. Ha qui inizio una nuova fase, non più d'insegnamento, ma di predizione degli eventi, che stanno per accadere. Si è, dunque, passati dalla teoria alla pratica. Del resto si è ormai giunti alla fine di questo cammino per Gerusalemme. Gerico sarà l'ultima tappa, prima dell'ultimo tratto di strada per raggiungere alla meta.

I vv.33-34 più che un annuncio o una predizione di eventi futuri, sembrano essere lo schema narrativo dei capp. 14,1-16,8, perché vengono dettagliati tutti i passaggi dell'ampio racconto della passione-morte-risurrezione. Un'anticipazione che Marco sembra fare affinché il proprio lettore abbia bene sott'occhio il dramma di questi eventi, che tuttavia, letti unitamente ai vv.42-45, evocano in qualche modo il IV canto del sofferente Servo di Jhwh (Is 52,13-53,12), che in modo impressionante sembra descrivere, circa sette secoli prima, gli eventi della passione-morte-risurrezione di Gesù o quanto meno li richiama da molto vicino.

Il v.33 si apre riprendendo il v.32a: “Ecco, saliamo a Gerusalemme”. Non si tratta di una ripetizione, ma di un confronto tra questi due modi di salire. Al v.32, quanto detto era una nota dell'autore, che rilevava come Gesù, i Dodici e le folle, che compaiono assieme a Gesù e ai Dodici ai vv.1.46 e, quindi è presumibile che anche qui siano presenti, considerata la continuità del racconto, si stavano incamminando tutti verso Gerusalemme (“mentre salivano a Gerusalemme”). Qui, invece, al v.33, in quel “saliamo” a Gerusalemme è da ravvisarsi soltanto Gesù con i Dodici. Infatti, a conclusione del v.32, che introduce il v.33, si dice che Gesù “presi nuovamente i Dodici”. Quindi i soggetti di quel “saliamo” sono soltanto Gesù e i suoi, che egli ha ripreso nuovamente con sé, riassociandoli non solo a se stesso, ma anche al cammino che egli sta percorrendo, ora anche con i suoi, verso Gerusalemme. Una annotazione questa che rileva come ormai il cammino di conversione dei Dodici è giunto a conclusione ed essi sono pronti a seguire Gesù sulla strada della croce; la quale cosa verrà confermata anche dalla guarigione del cieco, metafora della guarigione della cecità dell'intelligenza spirituale dei discepoli.

Una seconda annotazione va riservata al titolo di “Figlio dell'uomo”, che qui Marco attribuisce a Gesù e che in questo contesto di passione-morte-risurrezione acquista una valenza escatologica ed apocalittica nel contempo, richiamandosi a Dn 7,13-14, e che comunque ha a che vedere con il mondo di Dio. Il titolo, infatti, in Marco, compare sempre in contesti in cui Gesù viene in qualche modo associato al potere di Dio o al suo progetto di salvezza26. Un'associazione e un titolo che meglio si comprenderà in epoca postpasquale.

Un'ultima annotazione va riservata al verbo “paradoq»setai” (paradotzésetai, sarà consegnato). A differenza del precedente annuncio, il secondo, (9,31), dove il verbo “consegnare” era posto nella forma medio-passiva (“parad…dotai”, paradídotai), per cui si poteva interpretare in modo ambivalente come “è consegnato” o “si è consegnato”, sottolineando in questo secondo caso la libera offerta che Gesù fa di se stesso, la quale cosa verrà confermata poi in 10,45, qui, il verbo è chiaramente al passivo, che nel linguaggio degli evangelisti rimanda l'azione a Dio stesso. Gesù, quindi, spinge i suoi a vedere in questi eventi, che seguono il “sarà consegnato” l'attuarsi di un preciso piano salvifico del Padre.

Lo svelamento del senso della missione di Gesù, che ha il suo vertice nella croce (vv.35-45)

Testo a lettura facilitata

La ricerca dei primi posti e del potere (vv.35-37)

35- E gli si avvicinano Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: <<Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo>>.
36- Egli disse loro: <<Che cosa volete che io vi faccia?>>.
37- Quelli gli dissero: <<Dà a noi affinché sediamo nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra>>.

La gloria passa attraverso la croce, mentre la glorificazione è opera del Padre (vv.38-30)

38- Ma Gesù disse loro: <<Non sapete che cosa chiedete. Potete bere il calice che io bevo o essere battezzati con il battesimo con cui io sono battezzato?>>.
39- Quelli gli dissero: <<Possiamo>>. Ma Gesù disse loro: <<Berrete il calice che io bevo e sarete battezzati con il battesimo con cui io sono battezzato,
40- ma il sedere alla mia destra o alla sinistra non spetta a me dar(lo), ma per quelli per i quali è preparato.

Versetto di transizione: la rivalità esacerba gli animi (v.41)

41- Udito (ciò), i dieci incominciarono a sdegnarsi circa a Giacomo e Giovanni.

Un testamento spirituale per la chiesa postpasquale (vv.42-45)

42- E chiamatili, Gesù dice loro: <<Sapete che quelli che sono considerati comandare i popoli li dominano e i loro grandi esercitano il potere su di loro.
43- Ma non così è tra voi, ma chi volesse diventare grande tra di voi, sarà vostro servitore,
44- e chi tra di voi volesse essere primo, sarà servo di tutti;
45- poiché anche il figlio dell'uomo non venne (per) essere servito, ma (per) servire e dare la sua vita (quale) riscatto per molti>>.


Note generali

Marco qui segue lo schema narrativo di 9,31-37, dove, dopo il secondo annuncio della passione, morte e risurrezione, viene fatto seguire l'episodio in cui i Dodici discutevano tra loro chi fosse il più grande, forse nella prospettiva di subentrare a Gesù quale suo successore, dopo la sua dipartita, considerato che Gesù continuava ad accennare a questo evento. La risposta di Gesù fu quella di farsi servi di tutti, riparametrando le proprie aspirazioni e il proprio comportamento su quello del bambino. Quindi, umiltà, semplicità e disponibilità al servizio di tutti, mettendo da parte le proprie ambizioni.

Ora, viene qui ripreso quell'insegnamento e meglio focalizzato il senso del servizio, che ha qui come parametro di raffronto non più un bambino, ma lo stesso Gesù, che rivela il senso della sua missione, che ha per vertice la croce, intesa quale servizio di redenzione a favore di tutti gli uomini.

Vi è, quindi, qui una sorta di continuità narrativa e tematica di quel episodio, così che se là si parlava di chi fosse il più grande, qui si parla della conquista dei primi posti, passando dalla teoria alla pratica, che viene vissuta all'interno del gruppo come un vero attentato non tanto a Gesù, quanto agli altri segreti aspiranti al potere, che in tal modo si vedono sgambettati e inaspettatamente superati da due fratelli molto attivi e determinati: Giacomo e Giovanni

Questo comportamento così rivalista tra i Dodici nasceva dal fatto che essi attendevano l'avvento del Regno di Dio in termini storici (Lc 24,21; At 1,6) e non spirituali e questo rendeva loro difficile comprendere la figura di Gesù e la sua missione. Una simile posizione nei primi discepoli si radicava nella cultura propria del mondo ebraico e nella sua mentalità, che li spingeva a leggere le cose e gli eventi in termini di concretezza storica, nonostante il profetismo e la letteratura sapienziale spingessero il giudaismo a darne una diversa comprensione, più interiore e spirituale. Era, pertanto, difficile per i discepoli pensare al Regno di Dio come ad un Regno spirituale, che non fosse di questo mondo (Gv 18,36). Tutte le profezie (2Sam 7,12-13; Mt 22,42), infatti, parlavano di un Regno e di un messia dai tratti storici. Anche l'ascetica comunità di Qumran attendeva l'avvento di Dio e l'instaurazione del suo Regno in termini concreti e storici e si preparava allo scontro finale tra le forze del bene, a cui essa apparteneva per eccellenza, e le forze del male, in termini militari; così come concepivano una pluralità di figure messianiche, ma sempre con sembianze umane e terrene27. Il pensare in termini trascendentali e spirituali comportava per il giudaismo un cambio di parametri culturali non facile da realizzare. I fraintendimenti della figura di Gesù e della sua missione, dunque, erano strettamente legati a questi modelli culturali, che rendevano molto difficile una diversa comprensione. Per questo gli evangelisti sollecitano una radicale conversione e un rinnegamento del proprio modo di pensare e di essere per poter seguire Gesù28.

Non va poi escluso che Marco riporti qui questi episodi per stigmatizzare segrete ambizioni di carrierismo, che sfociavano poi in comportamenti di rivalità, che si verificavano all'interno della comunità di Roma, a cui egli apparteneva e alla quale era rivolto il suo vangelo. Ne abbiamo una traccia in Rm 12,3-11.

La struttura di questa sezione si compone di due pericopi: il disdicevole episodio di subdolo arrivismo dei due fratelli, detestati per il loro comportamento dagli altri del gruppo (vv.35-41), a cui fa seguito l'ultimo ammaestramento di Gesù (vv.42-45) prima di intraprendere la salita a Gerusalemme, che avverrà dopo la guarigione del cieco di Gerico.

L'intera sezione ruota attorno al tema della passione e morte di Gesù, che viene richiamato dal dialogo tra Gesù e i due fratelli, dove si parla del calice da bere e del battesimo con cui Gesù dovrà essere battezzato (vv.38-39) e dall'insegnamento di Gesù ai Dodici, dove si parla del servizio che si fa dono di vita per tutti (v.45).


Commento ai vv.35-45

il v.35 si apre presentando i protagonisti di questo episodio e la loro richiesta, che viene accostata narrativamente al terzo annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, creando in tal modo uno stridente contrasto tra gli interessi di Gesù, che sta parlando in termini drammatici della sua fine imminente, e quelli dei due fratelli, che pensano, invece, di accaparrarsi i primi posti, sentendo probabilmente imminente la fine di Gesù e lo fanno in modo arrogante e presuntuoso, davanti a tutti (v.41): “Maestro, vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiederemo”. Sono i due fratelli, Giacomo e Giovanni, il cui carattere doveva essere piuttosto impetuoso ed umorale, se sono soprannominati da Gesù “figli del tuono” (3,17). Sono loro, infatti, che, al rifiuto dei samaritani di concedere il passaggio di Gesù sul loro territorio per andare a Gerusalemme, vogliono invocare un fuoco dal cielo che li incenerisca tutti (Lc 9,53-54). Ma essi godono anche, assieme a Pietro, di un rapporto privilegiato con Gesù, forse per questo pretendevano, senza mezzi termini, un riconoscimento di spicco all'interno del gruppo. Essi, infatti, sono stati tra i primi chiamati da Gesù, i più anziani del gruppo (1,19-20); sono loro che Gesù porta con sé nel segreto della stanza, dove giace esanime la figlia di Giairo, e lì, quali testimoni, assistono al manifestarsi del Mistero che opera in Gesù (5,37-43); sono loro che Gesù, assieme a Pietro, porta con sé su di un alto monte dove si trasfigura (9,2); sono sempre loro tre che, in disparte, chiedono a Gesù quando accadranno gli eventi annunciati, quelli della distruzione del Tempio di Gerusalemme (13,3); sono sempre loro che Gesù prende con sé perché gli siano di conforto nell'agonia del Getsemani (14,33); ed infine, saranno proprio loro tre i capi della chiesa di Gerusalemme, quelli che Gal 2,9 definisce le “colonne” della chiesa madre di Gerusalemme.

Due figure eminenti, dunque, all'interno del gruppo dei Dodici, ai quali Gesù dà ascolto alle loro pretese: “Dà a noi affinché sediamo nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra”. Quel “Dà a noi” è la richiesta di una investitura e di un potere che loro vogliono condividere con Gesù e che, successivamente, riusciranno ad ottenere (Gal 2,9). Quel “sedersi nella tua gloria” si riferisce non tanto alla risurrezione, il cui significato era loro sostanzialmente ignoto (9,10). La gloria a cui i due pensavano era la costituzione del nuovo Regno di Israele in termini storici da parte di Gesù. Una speranza questa che essi nutrirono fino all'ultimo contro ogni logica evidente (Lc 24,21; At 1,6). Il “sedersi” dice, da un lato, la posizione di privilegio rispetto agli altri; dall'altro, la presa di possesso di un potere privilegiato, espresso in quel “sedersi alla tua destra e alla tua sinistra”, che indica nel contempo il conferimento a loro della totalità del potere di Gesù, a cui aspirano. Ciò che qui viene richiesto, in buona sostanza, è che Gesù riconosca loro due quali eredi del suo potere e, quindi, l'essere suoi successori. Un riconoscimento ufficiale e diretto da parte di Gesù davanti a tutti (v.41) avrebbe tolto di mezzo ogni discussione (“chi è il più grande”, 9,34) e, di conseguenza, ogni pretendente al trono. Da qui lo sdegnarsi degli altri dieci, che si vedono sgambettati e portar via da sotto il naso l'oggetto dei loro desideri: “Udito (ciò), i dieci incominciarono a sdegnarsi circa a Giacomo e Giovanni”. Quel “incominciarono” lascia intendere che il loro sdegnarsi non fu uno sfogo momentaneo, ma di lunga durata e, probabilmente, sarebbe stato l'inizio dello sgretolamento della compattezza del gruppo dei Dodici e il presupposto di divisioni e contrapposizioni interne, come si assisterà presso la chiesa di Corinto (1Cor 1,10-13) e come lascia intravvedere Rm 12,3-11.

La risposta di Gesù (v.39) è scandita in due parti. Essa si apre sottolineando la loro persistente inintelligenza: “Non sapete che cosa chiedete”. La richiesta che i due fratelli avevano fatto a Gesù riguardava il potere temporale. Una richiesta che dà a vedere come essi ancora non avevano capito veramente che cosa significasse che Gesù è “il Cristo” (8,29), né che che cosa significasse “Figlio di Dio” (9,7) e che cosa tutto ciò comportasse. Tutto era riparametrato alla loro capacità di comprensione che, come s'è visto sopra, non riusciva a trascendere il livello orizzontale della missione di Gesù e della figura stessa di Gesù.

La risposta, quindi, prosegue nella sua seconda parte, riconducendo il tutto alla drammatica realtà che si stava per compiere e che diviene centrale in questa sezione: “Potete bere il calice che io bevo o essere battezzati con il battesimo con cui io sono battezzato?”. Gesù, dunque, non rifiuta la loro richiesta, né si sdegna come gli altri dieci (v.41), ma pone quale “conditio sine qua non” per raggiungere la “gloria”, a cui essi aspirano, la via della croce. Il “bere il calice” e “l'essere battezzati con il battesimo con cui sarò battezzato”, locuzione quest'ultima che si trova solo in Marco, sono due espressioni metaforiche che parimenti alludono a degli eventi a cui Gesù deve essere sottoposto per raggiungere quella gloria che, non lui si arroga per se stesso, ma che il Padre gli dona (Gv 17,5.22a.24), in quanto ha compiuto pienamente la sua volontà, realizzando quel progetto salvifico che egli, il Padre, aveva pensato fin dall'eternità (Ef 1,4-5.10).

La risposta dei due fratelli lascia esterrefatti, perché ancora una volta dà a vedere come essi non abbiano capito di che cosa Gesù stia parlando; e quasi come fosse un gioco rispondono: “Possiamo” (v.39a).

Anche qui la risposta di Gesù (vv.39b-40) è duplice. Nella prima parte della risposta (v.39b) viene attestato loro che anch'essi verranno associati alla sorte del loro Maestro. Marco qui riporta le due espressioni del calice e del battessimo, riferite dapprima a Gesù e ora a Giacomo e Giovanni, lasciando intendere che anche i due, ma con loro tutti i Dodici e in comunione con loro tutti i credenti, saranno associati ai medesimi destini di Gesù. Del resto, nel merito, il Gesù giovanneo l'aveva predetto: “Ricordatevi la parola che io vi dissi: “non c'è servo più grande del suo signore”. Se perseguitarono me, perseguiteranno anche voi; se osservarono la mia parola, osserveranno anche la vostra. Ma faranno tutte queste cose contro di voi a causa del mio nome, perché non conoscono chi mi ha mandato” (Gv 15,20-21).

La seconda parte della risposta (v.40) lascia intravvedere come la gloria di Gesù, strettamente legata al compimento della volontà del Padre e all'attuazione del suo progetto di salvezza a favore degli uomini, pienamente realizzato in Gesù, azione del Padre, operata per mezzo della potenza dello Spirito Santo, non dipende da Gesù, ma il tutto è rimandato al Padre, che si rivela in Gesù e in lui attua, per mezzo della potenza del suo Spirito il suo progetto di salvezza per gli uomini, riconducendo in se stesso, per Cristo, con Cristo e in Cristo, l'umanità e con essa l'intera creazione (1Cor 15,28), così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità.

Una gloria che è destinata “per quelli per i quali è preparata”. Sono quelli che hanno scelto la via della croce (8,34) e sono stati associati alla morte di Gesù e, per questo, anche alla sua risurrezione. Ed è ciò che anche Rm 6,3-5 attesta: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione”. Vi è quindi un'estensione di questa gloria, che passa per la via della croce, da Gesù ai suoi: “E io ho dato a loro la gloria che hai dato a me, affinché siano uno come noi (siamo) uno” (Gv 17,22).

Il v.41 chiude il dibattito tra Gesù e i due fratelli, coinvolgendo anche gli altri dieci, poiché anche loro erano tra quelli che in 9,34 stavano discutendo chi fosse tra loro il più grande. È da pensare, pertanto, che qui essi non fossero del tutto estranei alla vicenda dei due fratelli. Anch'essi sono qui coinvolti per la loro indignazione, provocata non per lo scandaloso ardire dei due nei confronti di Gesù, ma perché essi si vedono sgambettati in questa corsa verso i primi posti, dai due più intraprendenti di loro. Per questo Gesù li convocherà tutti assieme attorno a lui, per l'ultimo insegnamento circa il senso del suo patire e morire.

Un versetto, quindi di transizione, che chiudendo la pericope vv.35-40, traghetta il lettore verso la seconda parte di questa sezione (vv.42-45), tutta dedicata al senso più vero e profondo della missione di Gesù, che ha il suo vertice nella croce, con cui termina il suo cammino in questo mondo, proseguendo, poi, risorto, la sua missione nella chiesa.

Un testamento spirituale per la chiesa postpasquale (vv.42-45)


Note generali

La breve pericope in esame costituisce l'ultimo insegnamento di Gesù prima di accedere a Gerusalemme e sarà quello che, in modo aperto e diretto, affronterà la questione non solo delle posizioni di responsabilità nella chiesa, ma rivelerà il senso del patire e del morire di Gesù, il senso più vero e profondo della sua missione, che avrà il suo vertice nella croce.

Lo schema della pericope è molto semplice e incisivo nel contempo. Si parte rilevando le modalità con cui avviene la gestione politica dei popoli da parte di chi è chiamato al potere (v.42); modalità che non possono essere adottate all'interno della chiesa: “Ma non così tra voi”, mentre di seguito vengono presentati i nuovi parametri comportamentali, completamente capovolti: i grandi siano servi di tutti e i primi siano ultimi e tutti devono avere come scopo precipuo il servizio all'intera comunità. Ci si trova, dunque, di fronte ad un nuovo concetto di società, dove il ruolo di chi detiene il potere è quello di servirsene per il bene della comunità stessa, in cui tutti operano vicendevolmente per il bene di tutti e tutti si muovono in base ad un comune denominatore: quello del servire per il bene degli altri, dove chi serve trova la propria realizzazione e la propria affermazione nella realizzazione e nell'affermazione dell'altro.

Che cosa ci sta dunque alla base di questo rovesciamento di prospettive? Sarà il v.45, posto a conclusione dell'intera sezione, a rivelare il fondamento di questo nuovo e rivoluzionario modo di concepire il potere quale servizio: “poiché anche il figlio dell'uomo non venne (per) essere servito, ma (per) servire e dare la sua vita (quale) riscatto per molti”. Gesù, dunque, deve diventare all'interno della chiesa il parametro di raffronto non solo per i pastori, chiamati a pascere il gregge di Dio, ma per chiunque abbia un incarico (1Pt 5,1-3) o un dono da mettere a disposizione della comunità credente (1Cor 10,24; 12,7; 14,12). Tutti devono porsi in un atteggiamento di servizio, gli uni verso gli altri; in un atteggiamento di dono totale di se stessi (Rm 13,8; 14,19), celebrando in tal modo la propria eucarestia comunitaria, divenendo pane che si spezza per tutti.

Commento ai vv.42-45

Il v.42 si apre con una certa solennità: “E chiamatili”. Il verbo qui usato è “proskales£menoj” (proskalesámenos), il verbo delle grandi occasioni, che ricorre 19 volte in tutto il N.T. e compare solamente nei tre sinottici, che lo usano in contesti di rilevanza, dove Gesù deve somministrare un insegnamento particolare ai discepoli o alle folle, richiamando in tal modo il radunarsi delle grandi assemblee liturgiche in Israele, dove veniva proclamata la Torah (Ne 8,1-18); o deve compiere qualche azione significativa o importante, come la costituzione del gruppo dei Dodici. Ci si trova, dunque, di fronte ad una convocazione dei Dodici da parte di Gesù, una sorta di sinodo per stabilire una dirittura di comportamento comune all'interno del gruppo. Quanto viene detto, pertanto, sarà rilevante per la vita comunitaria non solo dei primi discepoli, riuniti da Gesù e attorno a Gesù e Gesù è in mezzo a loro, ma anche per la chiesa futura. Viene, infatti, qui tratteggiata la chiesa colta nel suo nucleo fondante e fondamentale e quanto qui verrà detto ha, pertanto, una valenza squisitamente ecclesiologica.

Significativo è qui il verbo greco che Marco usa: “proskales£menoj” (proskalesámenos, avendo chiamato). Esso è formato da due parti: la preposizione “proj” (pros), che indica un moto verso luogo e il verbo “kalšw” (kaléo), che significa chiamare. Il senso di questo verbo, nel suo significato più intensivo, è, dunque, non solo il chiamare i Dodici verso Gesù perché deve somministrare loro un nuovo insegnamento, ma è un sospingere i Dodici ad orientare il proprio modo di vivere su Gesù, conformandosi a lui. Una chiamata, dunque, che è anche un'esortazione. Questo andare verso Gesù dei Dodici e con loro l'intera chiesa evidenzia la centralità di Gesù all'interno della Chiesa.

I vv.42-44 sviluppano un accostamento di comportamenti volutamente contrastanti, che hanno il loro vertice nell'espressione: “Ma non così è tra voi”, che crea uno stacco netto e insanabile, scevro da ogni possibile compromesso, tra due diversi e contrapposti modi di pensare e di comportarsi. Uno scontro, potremmo dire, ideologico e che ha, quindi, radici molto profonde, che si pongono su di un piano ontologico.

Da un lato, viene sinteticamente illustrato il modo di comportarsi dei regnanti e dei potenti dell'epoca, ma, in questi, di ogni tempo, non c'è distinzione, poiché, avverte Qo 1,9b: “Nihil novi sub sole”: comandare, dominare, esercitare il proprio potere sui popoli, che fanno rima con aggressività, violenze, rivalità, inganni, soprusi, egoismi, divisioni, contrapposizioni e guerre; dall'altro, preceduto da un perentorio comando “Ma non così è tra voi” che si erge come una solida e invalicabile barriera tra il comportamento dei potenti di questo mondo e ciò che ora Gesù proporrà loro di seguito.

Significativo è quel “™n Øm‹n” (en imîn) che ho tradotto “tra di voi”, ma che il testo greco dice “in voi”, quasi a voler indicare l'origine di simili comportamenti, che vanno sradicati dal proprio animo. Risuona qui la lezione conclusiva di Gesù sulla purità, dove attestava che “Tutte queste cose cattive escono da dentro e rendono impuro l'uomo” (7,23). Va, quindi, elaborata interiormente una conversione del cuore, per passare da un certo modo di vedere e di sentire le cose ad un altro, non diverso, ma diametralmente opposto. Da qui l'esortazione di 8,34: “Se qualcuno vuol seguire dietro di me, rifiuti se stesso e prenda la sua croce e mi segua”.

Prosegue, ora, con il v.43b la contro-descrizione di un nuovo comportamento, che di fatto ribalta radicalmente quello del modo di pensare degli uomini: “ma chi volesse diventare grande tra di voi, sarà vostro servitore, e chi tra di voi volesse essere primo, sarà servo di tutti”. Benché i due detti sembrino sostanzialmente identici nel loro significato, tuttavia vi sono delle sfumature, che non vanno trascurate. Al v.43b si parla di “chi volesse diventare grande”, dove in quel “volesse” si lascia trasparire una volontà di affermazione di se stesso all'interno della comunità credente e, quindi, una sorta di progetto proprio. Ebbene, Gesù non esclude questa ipotesi, poiché all'interno di una comunità si rendono necessari ruoli di guida sicura. Ma accanto al “volesse” viene aggiunto “diventare grande”, cioè deve imparare a diventare grande, il cui senso viene subito dopo specificato: “sarà vostro servitore”. Il ruolo di grandezza a cui uno può aspirare all'interno della comunità credente è quello di essere servo di tutti, la quale cosa non è immediatamente acquisibile, dal momento che uno decide di porsi a capo di una comunità, ma prima “deve diventare grande”, cioè deve operare in se stesso un processo di conversione e di maturazione e di crescita spirituali tali da non solo porsi al servizio degli altri, ma anche il sentirsi servo degli altri nel ruolo primario che ricopre.

Di conseguenza, il v.44 sancisce, a mo' di conclusione, che il voler porsi ai primi posti, di fatto significa voler essere servo di tutti.

Un simile capovolgimento di parametri, che scuote profondamente le logiche umane, lasciando sconcertati, non sono il frutto di una mente sconvolta o l'elaborazione di una nuova sociologia, ma hanno la loro logica profonda e il loro solido radicamento storico e morale nella persona stessa di Gesù: “poiché anche il figlio dell'uomo non venne (per) essere servito, ma (per) servire e dare la sua vita (quale) riscatto per molti”. L'espressione “figlio dell'uomo”, che Gesù riferisce a se stesso, in questo contesto, perde ogni valenza escatologica e messianica, ma va letto come un ebraismo per dire “uomo”, colto nella sua fragilità e posto in contrapposizione all'onnipotenza di Dio, che ne evidenzia ancor più la fragilità. Quel “venne” allude non solo alla sua nascita in termini storici, ma sottende anche un mandato per il quale egli “venne”. In altri termini, in quel “venne” va compreso che la sua venuta non è stata casuale, ma per compiere una missione, che non lo vede dominatore degli uomini, ma loro servitore, la quale cosa meglio apparirà nel racconto delle tentazioni, dove Gesù venne sospinto ad esercitare la sua missione con onnipotenza e fragore, ma che egli rifiutò, perché questo non era il mandato del Padre. Egli, infatti, decise, seguendo le logiche della Parola di Dio, di servire il Padre nella fragilità del suo essere umano. Significativo in tal senso è l'inno cristologico di Fil 2,6-8, dove viene rilevato lo svuotamento dello splendore e dell'onnipotenza propria della divinità del Figlio per rivestirsi di una natura umana per porsi al servizio degli uomini, realizzando in tal modo il progetto del Padre: “Egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall'aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”.

Tutto, dunque, viene posto su di un piano di servizio, che si attua nel dono della propria vita finalizzato al riscatto di molti: “ma (per) servire e dare la sua vita (quale) riscatto per molti”. Tutto è racchiuso in queste poche parole: il senso dell'evento Gesù, la sua missione, che si svolge lentamente tra gli uomini fino a raggiungere il vertice del suo compimento: la croce. Una venuta, la cui finalità viene posta in evidenza da At 10,38: “Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”. Una missione, quindi, di servizio al Padre e agli uomini, finalizzata a ricondurre l'intera umanità e con essa l'intera creazione in seno a Dio, per ristabilire il potere di Dio su tutto (1Cor 15,28), così com'era nei primordi della creazione, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). Quando tutto era ancora incandescente di Dio. Un senso di tale missione di servizio di redenzione a favore dell'umanità, che apparirà più chiaro nel Gesù giovanneo, allorché, ormai a ridosso della sua passione e morte, egli si cingerà i fianchi e laverà i piedi a suoi discepoli, spiegando come quel gesto sia un gesto di servizio, che si protrarrà fin sulla croce, ma che deve continuare anche all'interno della comunità credente (Gv 13,3-5.14-15).

Una vita spesa e donata in “riscatto per molti”. Può lasciar perplessi quel “per molti”, in quanto è riduttivo rispetto a “tutti”. In realtà il dono che Gesù ha fatto di sé è per tutti, poiché la sua morte e risurrezione hanno una valenza universali e cosmiche, ma produrrà i suoi effetti benefici solo per coloro che aderiranno alla sua offerta di salvezza: “Noi infatti ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono” (1Tm 4,10), “ Dio, infatti, non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34b-35).

Dalla cecità alla luce, che illumina la via per Gerusalemme (vv.46-52)

Testo a lettura facilitata

Preambolo introduttivo (v.46)

46- E giungono a Gerico. E uscendo egli da Gerico e i suoi discepoli e una considerevole folla, il figlio di Timeo, Bartimeo, un cieco mendicante, sedeva presso la strada.

L'invocazione persistente (vv.47-48)

47- Ed avendo sentito che c'è Gesù il Nazareno, incominciò a gridare e a dire: <<Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me>>.
48- E molti lo rimproveravano perché tacesse; ma quello molto di più gridava: << Figlio di Davide, abbi pietà di me>>.

La chiamata e la pronta risposta (vv.49-50)

49- E fermatosi, Gesù disse: <<Chiamatelo>>. E chiamano il cieco, dicendogli: <<Coraggio, alzati, ti chiama>>.
50- Quello, gettato il suo mantello, balzato in piedi, andò da Gesù.

L'illuminazione e la sequela illuminata (vv.51-52)

51- E rispondendo Gesù gli disse: <<Che cosa vuoi che ti faccia?>>. Il cieco gli disse: <<Maestro, che io riabbia la vista>>.
52- E Gesù gli disse: <<Vai, la tua fede ti ha salvato>>. E subito riebbe la vista e lo seguiva sulla via>>.


Note generali

Il racconto della guarigione del cieco di Gerico è l'ultimo miracolo dell'intera missione di Gesù. Un miracolo significativo sia per il luogo in cui viene compiuto, Gerico, l'ultima stazione prima della salita a Gerusalemme; sia per la tipologia di miracolo in sè: la guarigione di un cieco, cioè l'aprire il cieco alla luce perché possa finalmente vedere. Esso, pertanto, diviene la metafora della guarigione dell'inintelligenza dei Dodici, che finalmente si aprono al mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù, che essi avevano scoperto come Messia (8,29) e Figlio di Dio (9,7) e per questo vedevano inconciliabile questa sua posizione con i destini che egli andava predicendo loro su se stesso. Ma, ora, dopo un lungo cammino di insegnamenti e di formazione spirituale (8,31; 9,31), a un passo ormai da Gerusalemme, essi sono pronti ad accettare questi destini di Gesù, perché ne comprendono il senso e il Mistero (v.45). Sono, quindi, pronti a salire con Gesù verso Gerusalemme (v.33a).

Il racconto costituisce un'unità narrativa completa ed è circoscritto da un'inclusione data dal termine “ÐdÒj” (odós, via, strada) che si ritrova ai vv.46.52, ne caratterizza il testo e funge da chiave di lettura: tutto ciò che qui viene narrato ha attinenza con la via che porta Gesù a Gerusalemme.

La struttura di questa unità narrativa ricalca quella proposta nella sezione del “testo a lettura facilitata”:

  1. Preambolo introduttivo, dove vengono presentati gli attori principali del racconto e il luogo dove avverrà il miracolo. Gli unici ad essere definiti per nome, segno questo della loro importanza nel racconto, sono il cieco Timeo, metafora dell'inintelligenza dei Dodici; e Gerico, l'ultima tappa prima di Gerusalemme; mentre Gesù è solo sottinteso e i suoi sono nominati in senso generico assieme alla folla, quindi racchiusi nell'anonimato.

  2. L'invocazione persistente, che diviene il parametro su cui la comunità credente ed ogni suo singolo membro devono conformare la propria domanda di fede illuminante sul difficile e incomprensibile Mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù (vv.47-48), che diviene modello di vita per ogni singolo credente (8,34-38);

  3. La chiamata e la pronta risposta formano il secondo parametro di conformazione: a fronte di una chiamata alla sequela, la risposta deve essere pronta e priva di ogni dubbio, lasciandosi alle spalle la vita precedente e con essa ogni incertezza sulla scelta fatta (vv.49-50);

  4. L'illuminazione e la sequela illuminata, compiuto il passo decisivo della propria vita, la sequela deve essere senza alcuna remora, soltanto allora la necessità di capire verrà superata, poiché la luce della fede pervaderà la profondità dell'animo credente e ogni Mistero diverrà luce divina che illuminerà la propria vita e spingerà a seguire Gesù ovunque, anche sulla croce delle incomprensioni e delle persecuzioni (vv.51-52).

Commento ai vv. 46-52

Il v.46 funge da prologo al racconto e introduce, incorniciandola, la scena dell'incontro tra Gesù e Timeo, un nome teoforo contratto, che doveva essere “Timoteo”, cioè “colui che onora Dio”. Si tratta di un nome greco dato ad un giudeo, che dice quanto profonda sia stata l'ellenizzazione della Palestina, se anche tra gli apostoli si riscontrano nomi greci come Andrea e Filippo; se anche dei greci, affascinati da Gesù, chiedono a Filippo di poterlo incontrare (Gv 12,20-21). La stessa scritta posta sulla croce, il titulus, su cui era scritto il motivo della condanna, era oltre che in ebraico e in latino anche in greco (Gv 19,20).

Il v.46 si apre con una doppia nota geografica, ripetuta consequenzialmente: la comitiva di Gesù con i suoi e la folla, un quadro che si ripete sovente in Marco, entra in Gerico e ne esce subito. Un modo strano di comportarsi, poiché Gerico, in quanto ultima stazione prima della lunga salita a Gerusalemme, era in genere un luogo di soggiorno dove riposarsi e rifocillarsi prima di salire a Gerusalemme o per quelli che vi discendevano, come era successo per il malcapitato della parabola lucana, che incappò nei ladroni (Lc 10,30). Una città molto affollata e rumorosa se si pensa al via vai di sacerdoti e leviti che salivano e scendevano da Gerusalemme per il servizio al Tempio o che si davano il cambio settimanale nel servizio29. Una città dove confluivano i pellegrini che salivano o discendevano da Gerusalemme. Città, quindi, molto trafficata dove fiorente era il commercio. Non mancò, poi, l'opera di Erode il grande, che proprio qui svolse un'intensa attività edilizia, introducendo in Palestina lo sfarzoso stile della Roma augustea, costruendo nei pressi dello sbocco di Wadi El-Qelt due sontuosi palazzi, collegati tra loro da un ponte. Arredò poi la reggia con un lusso sfrenato, con molte piscine e un giardino d'inverno; costruì un ippodromo e un anfiteatro30.

Una città, quella di Gerico, posta in una depressione, che la colloca a circa 250 mt sotto il livello del mare, ultima città prima di Gerusalemme, da dove incomincia la lunga salita, circa 30 km, verso Gerusalemme, posta, invece, a 750 mt sopra il livello del mare. Un dislivello, quindi, tra Gerico e Gerusalemme di circa 1000 mt.

Una città sontuosa, ricca, benestante e ospitale, ma Marco sottolinea in apertura del suo racconto come Gesù vi entri e vi esca subito, imprimendo in tal modo al cammino di Gesù verso Gerusalemme una forte accelerazione, lasciandosi alle spalle un mondo che non appartiene né a lui né a quanti hanno deciso per la sua sequela. Ma è proprio su questa strada che si trova un cieco, Timeo, un tale che, si, “onora Dio”, ma non lo segue, perché “sedeva presso la strada”. Il verbo posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, dice la persistenza di quel essere seduto di quel cieco, che pur trovandosi sulla stessa strada di Gesù, quella che porta a Gerusalemme, di fatto non lo seguiva, perché “sedeva”; così come i Dodici, pur trovandosi con Gesù sulla strada che porta a Gerusalemme, tuttavia, di fatto non lo seguivano, a motivo della loro persistente cecità spirituale, che sognava un Messia conquistatore, regnante, onnipotente e rivoluzionario, che avrebbe ricostituito il regno di Israele riportandolo agli antichi splendori di Davide e Salomone (Lc 24,21; At 1,6). Ma è proprio qui a Gerico, su questa strada, che dà una sterzata per Gerusalemme, che avviene l'incontro risolutore, proprio perché Gesù non si sofferma a Gerico, ma tira diritto per Gerusalemme, dove si compiranno i suoi destini, facendo così capire ai suoi come tutto ormai stava per compiersi e si rendeva necessario un loro risveglio spirituale. Ma in quale modo? Saranno i vv.47-48 a indicare la via maestra per poter seguire Gesù lungo il cammino della croce.

Il v.47 presenta due titoli di Gesù, quello per cui era conosciuto dalla gente, Gesù il Nazzareno. Un Gesù, dunque, conosciuto per le sue origini storiche e la sua provenienza geografica31, ma per poterlo approcciare ed avere una esperienza della sua vera identità serve un passo ulteriore, quello della fede, quello del saper leggere in lui non soltanto un uomo, ma il vero erede della promessa, che il profeta Natan aveva fatto a Davide: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno […] La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me e il tuo trono sarà reso stabile per sempre” (2Sa, 7,12.16). Un tema questo che riecheggerà anche in Is 9,5-6, in Ger 23,5-6; 33,15-17 e sarà ripreso anche dal Sal 88,36-38. Si era venuta, dunque, a formare una lunga tradizione in Israele, che stimolava le attese, le speranze e le fantasie attorno a questa mitica figura del Messia davidico. Si trattava ora di riconoscerlo e di aderirvi esistenzialmente, ritenendo in tal modo adempiuta in Gesù la promessa, che Dio fece a Davide per mezzo del profeta Natan.

Ed è ciò che farà il cieco di Gerico, che Marco in qualche modo mette in un confronto vincente con Pietro. Anche Pietro aveva riconosciuto in Gesù il “Cristo” (8,29) e quindi il compiersi in lui della promessa fatta a Davide, ma a differenza del cieco egli credette al suo “Cristo” e non a quello che aveva realmente scoperto in Gesù, un Messia sofferente (8,30-31). Anzi, rimproverò Gesù per aver distrutto la sua immagine di Messia, che egli, e con lui i Dodici e il giudaismo in genere, si era creata: “E Pietro, presolo, incominciò a rimproverarlo” (8,32b). Per questo egli rimase nella sua cecità. Per contro, Timeo, saputo di Gesù in cammino sulla strada per Gerusalemme, non esitò a invocarlo come il Messia davidico: “incominciò a gridare e a dire: <<Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me>>”. “Incominciò a gridare e a dire” e, quindi, a dare apertamente, con forza e determinazione, la sua testimonianza di fede nel messianismo di Gesù. Esattamente il contrario di Pietro che, invece, “incominciò a rimproverare Gesù”, dopo averlo riconosciuto davanti ai Dodici. Fu questo il suo primo rinnegamento, che avrà il suo epilogo nel triplice rinnegamento nel corso del racconto della passione. (14,66-71). Contrariamente a Timeo, che, invece, rimproverato perché tacesse, gridò ancor più forte la sua testimonianza, senza timore alcuno per gli astanti, che infastiditi cercavano di tacitarlo (v.48). Non a caso Marco racconta come egli “Incominciò a gridare e a dire” e, quindi, a dare la sua testimonianza in modo persistente e continuativo, vincendo ogni ostacolo ed ogni remora: “Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me”. Un atto di fede invincibile nel messianismo restauratore di Gesù, contro tutto e contro tutti. Probabilmente una formula di fede e d'invocazione, come quelle di 9,22b.24b, che dovevano riecheggiare in qualche modo presso le primissime comunità credenti.

Marco sottolinea come egli “incominciò”, lasciando intendere come l'incontro con Gesù fu solo l'inizio del suo “gridare e dire”, del suo testimoniare il Gesù, Messia sofferente, tant'è che l'evangelista concluderà il racconto attestando che, riavuta la vista, “lo seguiva sulla via”. Una testimonianza, dunque, che si trasformò in una sequela, quella più difficile, quella voluta da Gesù per i suoi seguaci (8,34b), quella che porta a Gerusalemme.

La persistente testimonianza del cieco su Gesù, sotto forma di invocazione, si trasforma ora in un incontro con Gesù, un'esperienza salvifica e di vitale importanza, che cambierà radicalmente la vita di questo cieco, poiché Gesù, vista la sua invincibile fede, lo chiama a sé, così come chiamò a sé i primi discepoli (1,16-20). Ci si trova, qui, di fronte ad una chiamata alla sequela. Per tre volte Marco, al v.49, ripeterà il verbo “chiamare”: “chiamatelo”, lo “chiamano”, “ti chiama”. Si noti come la chiamata di Timeo non è diretta come per i primi discepoli, ma per interposta persona, lasciando intravvedere, forse, una prassi della primissima chiesa, allorché “un cieco”, cioè uno non ancora illuminato dalla fede, mostrava il suo aperto interesse per la figura di Gesù ed era disposto alla sequela. Significativo quel sollecito: “Coraggio, alzati, ti chiama”. Un pressante invito ad alzarsi da quella sua condizione di cieco, di non credente, per rispondere alla chiamata di Gesù. Una sorta di preludio a quello che avverrà qui al v.50: “Quello, gettato il suo mantello, balzato in piedi, andò da Gesù”. Il mantello, come gli abiti in genere, nel linguaggio degli evangelisti sono la metafora della condizione della propria vita. Questo “gettare il proprio mantello” dice, pertanto, l'aver abbandonato la propria vita di prima, quello che lo aveva reso cieco, per poter accedere a Gesù; e lo fa “balzando in piedi”, quasi una sorta di risurrezione, l'inizio di una nuova vita. Si noti come egli non fu accompagnato da Gesù, come ci si aspetterebbe per un cieco, ma egli andò a Gesù in modo autonomo, perché illuminato dalla fede. Un avvicinarsi a lui, quindi, dettato dalla sua fede, certo, ancora primitiva, poiché vede in Gesù soltanto il figlio di Davide, il realizzarsi in lui di una promessa, un passaggio quindi dal giudaismo al cristianesimo, ma la strada per raggiungere Gesù, quale Messia e Figlio di Dio (1,1), è ancora lunga, bisognerà arrivare sotto la croce per sentirlo proclamare: “Veramente quest'uomo era Figlio di Dio!” (15,39b).

I vv.51-52 vedono il riavvicinarsi dei Dodici a Gesù. L'invocazione a Gesù quale “Figlio di Davide”, cioè il vedere in Gesù il realizzarsi della promessa del profeta Natan, sostenuta questa da una fede incrollabile, segna l'inversione di marcia dei Dodici, che “balzati in piedi”, cioè rialzatisi dalla perdita di fiducia e di fede in Gesù, quale messia sofferente, sarà così anche per i due discepoli di Emmaus, si gettano alle spalle quel loro messianismo fantasioso, tutto umano, per abbracciare quello di Gesù, così che essi “andarono da Gesù”. Ed è significativo come si conclude il v.51: “Maestro, che io riabbia la vista”, dove l'appellativo “Maestro” dice il ricostituirsi del rapporto tra Gesù e i Dodici, tra il Maestro e i suoi discepoli, che in 8,34a Gesù aveva disconosciuto come sui discepoli, respingendoli come dei satana, perché pensavano come gli uomini e non come Dio (8,33) e, quindi, riassociandoli all'anonimato di quella folla (8,34a), da cui inizialmente erano stati tratti per la sua chiamata (1,16-20; 2,14). Ed è significativo, inoltre, come quelli che erano ciechi, chiedano a Gesù non di vedere o di avere la vista, ma di “riavere la vista”, quella che si era perduta a motivo del messianismo sofferente.

L'invocazione a Gesù, sorretta questa volta da una solida fede, trova la conferma dell'avvenuta guarigione: “Vai, la tua fede ti ha salvato”. Non è, dunque, Gesù che qui compie il miracolo. Non vi è nessun gesto particolare in tal senso, nessuna formula guaritrice, ma soltanto la conferma della loro raggiunta fede, dopo un lungo cammino di insegnamento e di loro maturazione spirituale. E la conclusione non poteva che essere questa: “E subito riebbe la vista e lo seguiva sulla via”. Quell'intelligenza spirituale, perduta di fronte ad un messianismo sofferente, ora, grazie alla raggiunta fede in Gesù, viene recuperata nuovamente: “riebbe la vista” e, quindi, continuarono ad essere non solo discepoli di Gesù, spersi nell'anonimato delle folle, ma suoi seguaci, incamminandosi con lui “sulla via”, quella che porta a Gerusalemme, sulla qual si allunga l'ombra della croce.



NOTE

1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima (1,2-8,30) riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù, quale Cristo e Figlio di Dio; la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Vedi qui sopra nota 1

3I cattivi rapporti che intercorrono tra i Giudei e i Samaritani hanno la loro origine sul finire del sec. VIII a.C. allorché, dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista, ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche (2Re 17,24-29). Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, distrutto nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione sia del Tempio che di Gerusalemme (Esd 4,1-5). La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah scritta, disconoscendo quella orale e con essa i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra le due popolazioni si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim. I Samaritani, quindi, erano originari di due diversi ceppi etnici: quello ebraico, che non fu deportato alla caduta del Regno del nord (722 a.C), e quello formato dai coloni provenienti da Babilonia e dalla Media. Erano, dunque, una razza imbastardita non solo etnicamente, ma soprattutto religiosamente. Erano per questo considerati eretici e impuri. Passare per il territorio dei Samaritani ed entrare in contatto con loro significava rimanere contaminati. È significativo e rivelativo della mentalità giudaica nei confronti dei Samaritani quanto dice la Mishnah in loro proposito: “Le figlie dei samaritani sono in stato di mestruazione fin dalla loro culla […] esse restano nell'impurità per sette giorni a causa di ogni genere di flusso di sangue”. Un'espressione che sottolinea il profondo stato di impurità in cui vivevano costantemente gli abitanti della Samaria; un'impurità congenita. Quanto poi alla capacità di testimonianza dei Samaritani si ritenevano questi giuridicamente incapaci, eccetto che per il documento di divorzio. Il samaritano, infatti, era assimilato ad un pagano e considerato alla pari di un 'am ha-haretz, cioè un ignorante, un peccatore e trasgressore.

4Cfr. 8,34-38; 9,31-50; 10,1-45

5Il contenuto di queste note generali è stato desunto da R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977; ristampa 2002; e dalla voce “Matrimonio, Divorzio, Celibato (AT)” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

6È significativo in tal senso come in Es 20,17 la donna venga elencata tra le proprietà del marito, come la casa, lo schiavo, la schiava, il bue, l'asino e altre cose di sua proprietà.

7La traduzione letterale dal testo greco della LXX dice: “Se non cammina secondo le tue mani, recidela dalle tue carni”. Tuttavia lo stesso Sir 9,8-9, per contro, attesta: “Distogli l'occhio da una donna bella, non fissare una bellezza che non ti appartiene. Per la bellezza di una donna molti sono periti; per essa l'amore brucia come fuoco. Non sederti mai accanto a una donna sposata, non frequentarla per bere insieme con lei perché il tuo cuore non si innamori di lei e per la tua passione tu non scivoli nella rovina”. E questo probabilmente in ottemperanza ad Es 20,17: “Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo”.

8Per i motivi di tale avversione, cfr. nota 4 del presente studio.

9Il verbo peir£zw” (peirázo), compare nel vangelo di Marco soltanto altre due volte: in 1,13, dove Gesù è sospinto nel deserto per essere provato da satana; e in 8,11 dove i farisei chiedono a Gesù un segno dal cielo per metterlo alla prova. In in entrambi i casi queste due prove, benché in qualche modo preludano alle altre due successive, di cui stiamo trattando, tuttavia assumono un significato molto diverso. Nel caso delle tentazioni, poste a ridosso della sua missione, Gesù è chiamato a fare una scelta sul come svolgere la sua missione, in cui è ricompresa anche la croce. È significativo, infatti, come Lc 4,13 conclude il racconto delle tentazioni: “Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato”, in cui l'annotazione del “tempo fissato” allude alla passione e morte di Gesù. Nel caso del segno dal cielo, Gesù è chiamato dalle autorità giudaiche a dar prova della sua identità, per provare, quindi, la liceità e la credibilità della sua missione. Ma soltanto, qui, in queste ultime due prove si prelude ad una vera e propria resa dei conti, che porterà Gesù sulla croce.

10Il vangelo di Marco, infatti, si chiude con 16,8. I vv.9-20 sono stati aggiunti successivamente da mano anonima, che ha voluto allineare la conclusione del vangelo marciano a quella degli altri evangelisti.

11Cfr. Es 32,9; 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; 31,27

12Gen 1,27 attesta che “Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Quindi l'uomo, in quanto maschio e femmina, riflette in se stesso la mascolinità e la femminilità di Dio, intese come principi generatori di vita, che nel creare l'uomo Dio ha scisso in maschio e femmina, in uomo e donna, portatori separatamente di questi due principi. E soltanto quando queste due immagini di Dio, maschio-femmina, si congiungono tra loro non solo diventano inscindibili, riflettendo e realizzando nella loro unione l'Uno inscindibile, di cui sono immagine, e in quanto tali, come questo Uno, generatori di vita, nei quali questo Uno ha impresso la sua stessa fecondità: “Dio li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gen 1,28a)-

13Cfr. Mc 2,4; 3,9.20; 4,1; 5,24.31; 6,56

14Cfr. la voce “Bambino, Infanzia, Figliolanza” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

15Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S. Antonio-Editrice, Padova 1998, VI edizione.

16Cfr. https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf pag .8

17Cfr. 1Cr 16,34; 2Cr 5,13; 7,3; 30,18; Sal 24,8; 33,9; 85,5; 99,5; 102,8; 105,1; 115,5; 134,3; 144,9; Ger 33,11; Na 1,7; Dn 3,89; Sap 15,1

18Lo Shema' Israel (Ascolta Israele) più che una vera e propria preghiera era una sorta di promemoria, che il pio israelita recitava due volte al giorno, al mattino e alla sera. Esso costituisce il cuore della fede ebraica. Letterariamente è composto da una premessa (Dt 6,4), che proclama l'unicità di Dio e la sua assoluta signoria, e da tre parti, tratte da alcuni testi della Torah. La prima parte, che proviene da Dt 6,5-9, esorta ad un amore di Dio totalmente coinvolgente la persona fin nel profondo del suo essere, radicato nei comandamenti divini, da trasmettere alle generazioni future; la seconda, dettata da Dt 11,13-21, riporta la promessa di benedizioni e maledizioni riguardanti rispettivamente l'osservanza o la trasgressione dei comandi divini; la terza parte, composta da Nm 15,37- 41, dispone le modalità utili per ricordare, attraverso simboli da portare addosso, i comandamenti divini.

19Cfr. Mt 22,36.38; Mc 12,28; Gc 2,8

20Cfr. Es 7,6.10.20; 12,28; 19,8; 24,3.7; 25,9; Lv 24,3; Dt 5,27; 30,12; 32,46.

21Il giudaismo di fatto non sviluppò mai una sua vera e propria teologia, ma si limitò sempre ad una meticolosa analisi della Torah e dei suoi comandi, finalizzata ad inculturare nella quotidianità i comandamenti stessi.

22Cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005; pagg. 259 e 384-386.

23Cfr. O. da Spinetoli, Matteo, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1998, sesta edizione; pag. 534

24Cfr Rm 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8; 1Gv 4,20

25Per le bambine la cerimonia del “bat mitzvah” (figlia del comandamento) dell'entrata in età adulta avviene a 12 anni.

26Cfr. 2,10.28; 8,31.38; 9,9.12; 10,45; 13,26; 14,62

27Cfr. “La regola della guerra” in Luigi Moraldi, I Manoscritti di Qumran, Editori Associati, Milano 1986; Ernest – M. Laperrousaz, Gli Esseni secondo la loro testimonianza diretta, Editrice Queriniana, Brescia 1988.

28Cfr. Mt 16,24; Mc 8,34; Lc 9,23

29I sacerdoti addetti al servizio del Tempio erano circa 18/20.000, suddivisi da Davide (1010-970 a.C.) in 24 classi sacerdotali. Zaccaria, ricordato da Lc 1,5-9, faceva parte dell'ottava classe, quella di Abia (1Cr 24,1-19) ed ogni classe poteva accedere al servizio presso il Tempio solo due settimane all'anno – Sulla questione cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1986; pag 434 e nota n.1, pag. 461.

30Cfr. la voce “Gerico” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata, 2005.

31Cfr. 14,67; 16,6; Lc 18,37; Gv 1,45-46; 18,5; 19,19