IL VANGELO SECONDO MARCO

Prologo e prima attività di Gesù

Cap. 1 (Prima Area: 1,2-8,30)1



Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi






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Note generali

Benché il mio studio segua lo svolgersi dei singoli capitoli e il loro susseguirsi, tuttavia, va sempre tenuto presente che il racconto marciano si muove su spazi più ampi, definibili per i loro contenuti, sottesi dalle finalità e dagli intenti che muovono l'autore: presentare la figura di Gesù, facendola emergere lentamente nel corso della prima area (capp.1-8,30), che funge da grande contenitore di miracoli, detti di Gesù, sua titolatura e il tutto incorniciato all'interno di note di stupore, di interrogativi sull'identità di Gesù, che puntano a risvegliare l'attenzione del lettore. È difficile creare degli stacchi narrativi o tematici tra un capitolo e un altro, anche perché nel suo narrare il racconto marciano si muove senza strutture narrative, sulle quali gli autori sono soliti distribuire il proprio materiale e il loro pensiero. Marco, invece, si limita a dare soltanto un certo ordine logico più che strutturale al suo narrare, come avviene all'interno di questa prima area narrativa in cui, più che strutture, possiamo rinvenire degli schemi narrativi ripetitivi, che si sviluppano progressivamente e in cui la figura di Gesù emerge, via via sempre più, fino ad apparire nella sua reale identità di “Cristo” in 8,29, senza tralasciare l'altro aspetto della sua identità, preannunciato in 1,1, quello della sua divinità, che di tanto in tanto compare come d'improvviso, sullo sfondo, dalla testimonianza di qualche indemoniato.

All'interno di questa prima grande area (1,1-8,30) possiamo rilevare, precedute da una presentazione dell'opera (1,1) e da un prologo (1,2-13), tre tappe narrative, sottese da un unico schema ripetitivo, che costituiscono un graduale sviluppo tematico, riguardante l'attività di Gesù, richiamata attraverso continui sommari (1,14-15; 3,7-12; 6,6b); in parallelo segue poi la chiamata dei primi discepoli (1,16-20), la costituzione del gruppo dei Dodici (3,13-19) e il loro invio in missione (6,7-13); ed infine, ma mano che l'attività missionaria di Gesù procede, la graduale reazione espansiva del rifiuto e dell'incomprensione di Gesù da parte dei suoi più stretti parenti, che lo ritengono fuori di testa (3,21); da parte delle autorità religiose (3,6), dei propri compaesani (6,2-6a) ed infine degli stessi discepoli (8,14-21).

Prima tappa (1,1-3,6)

  1. Sommario sulla predicazione del vangelo di da parte di Gesù (1,14-15);

  2. Chiamata dei primi quattro discepoli (1,16-20)

  3. Conclusione dello schema con i farisei e gli erodiani che tramano contro Gesù (3,6)

Seconda tappa (3,7-6,6a)

  1. Sommario dell'attività taumaturgica ed esorcistica di Gesù (3,7-12)

  2. Costituzione del gruppo dei Dodici (3,13-19)

  3. Conclusione dello schema in cui si rileva come i compaesani di Gesù non credono in lui (6,2-6a)

Terza tappa (6,b-8,21)

  1. Sommario dell'attività predicatoria di Gesù caratterizzata dal suo peregrinare per i villaggi, che in qualche modo prelude all'invio in missione dei Dodici, che costituirà il secondo momento di questa tappa (6,6b);

  2. Invio in missione dei Dodici, accompagnata da alcune note di comportamento da tenere durante la missione (6,7-13);

  3. Conclusione dello schema narrativo di questa terza tappa con la nota che i discepoli non comprendono Gesù (8,14-21)


L'ultima parte (8,22-30) di questa prima grande area si conclude significativamente con la guarigione di un cieco, metafora dell'inintelligenza dei discepoli. Essa è tanto più significativa in quanto che si pone immediatamente prima della scoperta della vera identità e natura di Gesù da parte di Pietro: “Tu sei il Cristo” (8,29b). La guarigione della cecità è sempre emblematica in Marco e allude all'aprirsi dell'intelligenza ad una comprensione e ad una visione superiori di Gesù, che solo la fede può dare. Guarire dalla cecità significa, quindi, entrare nella luce della fede, che apre al Mistero. Similmente succederà a Gerico, dove Gesù guarisce il cieco Bartimeo (10,46-52). Guarigione che avviene immediatamente prima della salita a Gerusalemme (10,32-33) a ridosso, quindi, della passione e morte di Gesù, che va letta e compresa con occhi illuminati dalla fede. Anche questa seconda guarigione di un cieco viene posta a conclusione della “Seconda Area” narrativa (8,31-10,52). Marco, quindi, tende a seguire schemi narrativi, più che vere proprie strutture. E questa è la logica che caratterizza la predicazione orale, dalla quale Marco mutua il suo racconto, mettendola per iscritto. Chi predica, infatti, ha bisogno di avere nella propria mente degli schemi narrativi, che lo guidano nella sua predicazione, dandole uno sviluppo logico.

Ciò premesso, passiamo ora ad una analisi dello sviluppo narrativo di questo primo capitolo:

Nell'ambito di questo sviluppo narrativo si può rilevare una certa struttura, anche se un po' grezza. Tuttavia questa non va presa come regola del comporre marciano, poiché qui l'autore non sta creando un suo schema narrativo, ma sta riportando quello della predicazione orale di At 10,37-43 e in particolar modo 10,37-38: “Voi conoscete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”.

In questa pericope di At 10,37-38 si dice che ci fu inizialmente la predicazione di Giovanni, finalizzata ad un battesimo di penitenza; anche Gesù vi partecipò e qui venne consacrato dallo Spirito Santo e incominciò a predicare a partire dalla Galilea fino giù nella Giudea. E passando beneficò tutti, liberandoli dalla schiavitù di satana. Questo è lo schema del cap.1 e, poi a seguire, dell'intera prima area narrativa (1,1-8.30).

Pertanto si avrà il seguente schema narrativo, anche se, a mio avviso, non è possibile definirla una vera e propria struttura:

  1. v.1) Presentazione dell'opera marciana. Non si tratta del titolo del libro di Marco, ma della presentazione della sua opera in cui se ne definisce la natura: essa è un vangelo, cioè un annuncio, il cui genere verrà meglio precisato dal verbo “khrÚssein(cheríssein, predicare), che ricorre ben 14 volte nel suo vangelo, contro le nove volte di Matteo e le sei volte di Luca. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un'opera che è una “predicazione scritta”, che ha attinenza con Gesù, creduto Cristo e Figlio di Dio. È significativo, infatti, come in Marco non ricorra mai il verbo “eÙaggel…zomai” (euanghelízomai), che significa “annunciare una buona notizia” e da qui “evagelizzare”; verbo questo che ricorre, invece, una sola volta in Matteo e ben 10 volte in Luca, l'evangelista missionario e compagno di avventure apostoliche con Paolo. Marco ricorre, invece, ad una perifrasi, più grossolana del più tardivo, più tecnico ed elegante “eÙaggel…zomai”: “khrÚsswn tÕ eÙaggšlion” (cherísson to euanghélion, predicare il vangelo), che risente molto da vicino del tipo di annuncio primitivo, quello proprio dei predicatori itineranti, che andavano in giro per la Palestina a predicare il vangelo. E qui Marco ne riproduce anche lo stile in 1,14, dove il suo Gesù, alla pari di quelli, gira per la Galilea prima e per la Giudea poi a predicare il vangelo di Dio.

    Tuttavia il termine vangelo non è di invenzione di Marco, ma questi l'ha mutuato dal comune uso che ricorreva presso il mondo greco ed ellenista in genere, quello di definire “eÙaggšlion” (euanghélion) una qualsiasi buona notizia che dall'alto si riversava favorevolmente sulla gente, come l'annuncio di una vittoria sui nemici, il matrimonio del re o di suo figlio o, comunque, una qualsiasi buona notizia che avesse un tono di ufficialità. Un termine questo, che Marco deve aver incontrato non solo nel mondo profano, ma anche all'interno del mondo scritturistico, quello veterotestamentario, dove il verbo “eÙaggel…zomai” ricorre” 22 volte con lo stesso identico significato di portare una lieta notizia2

  2. vv.2-13) Prologo all'attività missionaria di Gesù, che potremmo considerare come una fase preparatoria e introduttiva alla missione di Gesù, che viene scandita in due parti: a) l'attività predicatoria del Battista, tutta incentrata su di un continuo confronto tra Giovanni e Gesù, da cui emerge non solo la sostanziale differenza tra i due, ma, in particolare, la radicale e sostanziale diversità di missione dei due, in cui l'uno è in funzione dell'altro (vv.2-8); b) la presentazione della figura di Gesù, qualificata da due elementi: la teofania, in cui viene rivelata la natura e l'origine di Gesù (v.11) e la sua consacrazione con la potenza dello Spirito Santo (v.10)

  3. v.14) Versetto di transizione, dal prologo all'attività missionaria di Gesù. Il v.14a chiude il prologo con la morte del Battista e con questo l'intera epoca veterotestamentaria e profetica; mentre il v.14b apre una nuova era, quella di Gesù, inaugurata dalla sua predicazione, sintetizzata in un denso quanto significativo sommario (v.15). Vi sono studiosi che inglobano nel prologo i vv.14-15, perché ritengono che questi facciano inclusione con il v.1, data dal termine “Vangelo”. Benché tecnicamente non si possa negare l'inclusione, tuttavia, questa va valutata all'interno del contesto in cui si colloca. Infatti se si considera il v.14 come di transizione, cioè di passaggio da un contesto ad un altro, allora il termine “Vangelo” dei vv.14.15 non va più considerato in relazione a quello del v.1. L'inclusione è una sorta di parentesi letteraria che delimita un'unità narrativa attribuendole un particolare significato dato proprio dal termine che forma l'inclusione. Ma non mi sembra questo il caso. Ci troviamo, quindi, di fronte soltanto ad una apparente inclusione. Del resto se questo è il “vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio” (v.1), allora è da pensare che l'attività di Gesù inizi con la predicazione di questo vangelo e il suo inizio si origina dopo la morte del Battista. Va tenuto presente, poi che il v.1, a mio avviso, non debba farsi rientrare nel prologo, costituendo un'attestazione a se stante.

  4. v.15) Inizio dell'attività missionaria di Gesù, che si apre significativamente con la predicazione

  5. vv.16-45) A partire da questi versetti e così anche nei capitoli successivi, Marco infilerà una serie di racconti giustapposti gli uni agli altri, pur, nel contesto in cui si trovano, legati talvolta tematicamente tra loro, ma non narrativamente, per cui diventa molto difficile trovarvi una struttura narrativa. Da questo inseme si rileverà la preoccupazione dell'autore di mettere in rilievo, in modo crescente, l'identità di Gesù, presentandolo come racchiuso nel Mistero, che lentamente, attraverso il suo dire e il suo fare, trapela dalla sua persona.

Due sono gli elementi che rilevano in questo capitolo, ma anche nel resto di questa prima area (1,2-8,30), che raccoglie l'intera attività galilaica di Gesù: la predicazione e le guarigioni, che seguono subito dopo la predicazione, legando l'annuncio della Parola con la guarigione, mostrandone in tal modo l'efficacia, la capacità rigeneratrice che essa possiede sull'uomo che l'accoglie (1Pt 1,23). È quella Parola potente, che risuonò agli inizi della creazione in quel “Dio disse … e fu”. Una Parola che Is 55,10-11 canta in una sorte di inno, che celebra la potenza e l'efficacia della Parola: “Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l'ho mandata”. Una Parola che è viva ed efficace e produce ciò che dice (Eb 4,12).


Commento ai vv. 1-45

La presentazione dell'opera (v.1)


Testo


1- Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]


Commento al v.1


Il racconto marciano esordisce in un modo insolito e apparentemente banale, dicendo al lettore che quello che sta leggendo è l'inizio del vangelo di Gesù. Un'affermazione questa che lascia perplessi, poiché tutti i libri cominciano dal loro inizio e non è il caso che si sprechi un versetto per dirlo. Ma evidentemente quel “'Arc¾” (Arché, Inizio) assume per l'autore un significato del tutto particolare. Si tratta, innanzitutto, di un inizio di un vangelo, cioè di un lieto annuncio, che è al suo inizio, ma che lascia intendere avrà dei grandi sviluppi futuri. Non è un caso, infatti, che il primo atto di Gesù sia quello di scegliersi dei suoi collaboratori e che fin da subito dichiari le sue intenzioni nei loro confronti: “Orsù, dietro di me, e farò che voi siate fatti pescatori di uomini” (v.17). La prospettiva, dunque, di questo inizio è ecclesiologica, da un lato, poiché alla costituzione di questo gruppo dei Dodici Marco dedicherà quasi tutto il suo vangelo. Un gruppo che si muoverà sempre in parallelo e in consonanza a Gesù, quasi in modo simbiotico, e al quale Gesù dedicherà molta attenzione e cura. Ma, dall'altro, questo inizio è posto anche in una prospettiva missionaria. Una prospettiva che prenderà corpo fin da subito: “e dice loro: <<Andiamo altrove, nei villaggi vicini, affinché anche là predichi; per questo, infatti, uscii” (v.38). La finalità, dunque, per cui Gesù è uscito, cioè venuto, è quella dell'annuncio di una lieta notizia, che deve diffondersi ovunque e di cui, quanto è qui scritto, è solo l' “Inizio”. Il testo marciano, pertanto, costituisce un inizio che possiede in se stesso una potente forza espansiva. E lo dirà senza mezzi termini in 4,30-32, dove paragona il regno di Dio ad un granello di senape, il più piccolo fra tutti i semi, ma destinato a diventare un grande albero, capace di ospitare una moltitudine di uccelli. Il granello di senape di certo non è un albero, ma è solo il suo inizio; un inizio che possiede in se stesso una potenza espansiva che soltanto il tempo potrà dire, poiché quella potenza è propria di Dio.

L'inizio, dunque, è quello proprio di un annuncio potente, che viene qualificato come quello “di Gesù”. Un genitivo che assume una duplice valenza: di proprietà e di origine, poiché quel annuncio appartiene a Gesù e si origina da lui. In tal modo ne viene indicata non solo l'importanza, ma nel contempo tutta la sua potenza; la potenza di una Parola, che già era risuonata fin dai primordi della creazione in quel “Dio disse”. Ci si trova di fronte, pertanto, ad un inizio in cui ancora una volta risuona in tutta la sua potenza la Parola creatrice e generatrice di una nuova creazione, che sgorgherà proprio da questa. 1Pt 1,23 ricorderà proprio questo aspetto generativo della Parola: “essendo stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma immortale, cioè dalla parola di Dio viva ed eterna”; e così similmente in 1Cor 4,15: “Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il vangelo”. Una Parola che si scoprirà, man mano che il racconto avanza, come pronunciata con autorità (1,22.27b) e potente (1,27c; 4,41b), capace di dare la vita (5,41-42). La sua potenza, pertanto, non può essere che espansiva e affermativa.

Si è, dunque, agli inizi di un annuncio che proviene da Gesù e gli appartiene, come parte integrante ed espressione di se stesso. Un Gesù che è definito quale Cristo e Figlio di Dio. Una doppia titolatura che, da un lato, evidenzia la natura messianica di Gesù; dall'altro, quella divina, in quanto Figlio di Dio, a cui allude in qualche modo quel “uscii” del v.38. Gesù, pertanto, è di provenienza divina e quel suo “uscire” da Dio “per questo”, cioè per predicare il vangelo, per proclamare il suo annuncio agli uomini (v.38), dice non solo la sua azione missionaria, ma anche la natura rivelativa del suo annuncio e, in quanto tale, spinge l'uomo a prendere esistenzialmente posizione nei suoi confronti.

Una nota va riservata al titolo [Figlio di Dio], che è stato posto tra parentesi quadre dalla critica testuale, perché esso non compare in tutte le versioni. Non è chiaro perché un simile titolo, che ricorre in tutto il racconto marciano per ben sei volte in varie forme3, non dovrebbe apparire anche nel titolo iniziale, considerato che la stessa identica titolatura così abbinata, “Cristo, Figlio di Dio” compare in 14,61 e come il solo titolo “Figlio di Dio” forma inclusione con 15,39, mettendo l'intero vangelo marciano sotto l'egida di questa fondamentale titolatura, scandendo narrativamente il racconto in due parti, che hanno il loro vertice in 8,29 e 15,39. Un titolo, quindi, utile anche per creare delle sezioni narrative. Va considerato, infine, che l'intero racconto marciano è una ricerca e una graduale scoperta dell'identità e della natura di Gesù, che l'autore indica già fin dall'inizio al suo lettore, quale attestazione di fede, che ha i suoi due capisaldi in quello di “Cristo” e in quello di “Figlio di Dio”, che costituiscono la tematica di fondo dell'intero vangelo di Marco. È, quindi, probabile che in qualche modo, nel girotondo dei numerosi amanuensi e di copie trascritte e tramandate, qualcuno inavvertitamente abbia tralasciato tale titolo, che è, invece, rilevante in Marco; o forse perché, più semplicemente, suonava troppo altisonante quel Gesù Cristo Figlio di Dio, messo lì in prima battuta e quasi sbattuto in faccia la lettore, magari non ancora addentro ai Misteri della sua fede incipiente.

Va tuttavia presa in considerazione un'altra ipotesi, che il Vangelo di Marco sia nato originariamente con il solo titolo di “Cristo” e così inizialmente copiato. Si è, quindi, venuto a creare un primo filone di copiature. Ma poi, successivamente, Marco abbia aggiunto anche il titolo di “Figlio di Dio”, per essere allineato con l'intera tematica del suo vangelo, come si è sopra menzionato, che fa capo a questi due titoli. Nasce così una sorta di seconda edizione del racconto marciano, riveduta e corretta, sempre edito dal suo autore, ma perfezionato nella sua titolatura di testa e così nuovamente copiato e diffuso, venendosi a creare in tal modo un secondo filone di copiature. Per questo vi sono copie che riportano il solo titolo di “Cristo” e altre anche quello di “Figlio di Dio”. Ma entrambi i titoli sono, a mio avviso, di prima mano dell'autore.

Il prologo (vv.2-13)


Testo a lettura facilitata

Tutto ha il suo inizio dalla Parola, che è rivelazione (vv.2-3)

2- Come è scritto nel profeta Isaia: “Ecco, mando il mio messaggero davanti al tuo volto, che preparerà la tua via”;
3- Voce di colui che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, fate dritte le sue vie”,

La figura e l'annuncio di Giovanni, il battezzatore (vv.4-8)

4- giunse Giovanni [il] quale battezza nel deserto e predica un battesimo di conversione per (la) remissione dei peccati.
5- E tutta la regione Giudea usciva verso di lui e tutti i Gerosolimitani, e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
6- E Giovanni era vestito di peli di cammello e di una cintura di cuoio intorno al suo fianco e mangiando cavallette e miele selvatico.
7- E predicava dicendo: <<Viene il più forte di me dopo di me, di cui non sono degno, chinatomi, di sciogliere la cinghia dei suoi calzari.
8- Io vi battezzai con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo.

L'accadere dell'evento Gesù (vv.9-13)

9- E accadde (che) in quei giorni venne Gesù da Nazareth della Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni.
10- E subito, salendo dall'acqua, vide i cieli squarciati e lo Spirito come colomba scendeva verso di lui;
11- e ci fu una voce dai cieli: <<Tu sei il mio figlio amato, in te mi compiacqui>>.
12- E subito lo Spirito lo spinge fuori nel deserto.
13- Ed egli era nel deserto per quaranta giorni provato da satana, ed era con le fiere, e gli angeli lo servivano.


Note generali

Dopo la presentazione della sua opera quale vangelo, cioè annuncio scritto, mutuato da quello orale, riproducendone sostanzialmente le stesse logiche e gli stessi schemi, Marco passa subito all'introduzione o prologo alla sua opera, che, coerentemente, fa iniziare partendo sempre dalla Parola, qui storicamente annunciata dai profeti. È da questa, infatti, che tutto discende e tutto viene rivelato.

Il prologo è costruito intorno a tre momenti fondamentali tra loro concatenati: l'annuncio della Parola (vv.2-3), che trova la sua attuazione in Giovanni (vv.4-8), che preannuncia Gesù, il cui avvento si compie (vv.9-13), inaugurando i tempi nuovi dello Spirito (vv.8.10). È lui il vero inizio, che in qualche modo attua la profezia di Gl 3,1-2.

La finalità del prologo è quella di presentare due figure protagoniste dell'annuncio, che è vangelo, cioè quel annuncio dei profeti, allora solo sperato, ma che ora sta storicamente prendendo corpo, così che quel annuncio si fa ora vangelo, cioè un lieto annuncio. Due figure strettamente legate tra loro e poste tra loro in parallelo, da cui emergono i rispettivi ruoli e tutta la novità di Gesù rispetto a quella di Giovanni; ma nel contempo quella di porre anche una netta distinzione di ruoli tra i due. Entrambi, Giovanni e Gesù, sono presentati come due eventi, il cui accadere attua la parola dei profeti, dando origine alla sua incarnazione (Gv 1,14a). È significativo, infatti, come Marco introduca la pericope che riguarda Giovanni e quella che riguarda Gesù con un comune verbo “™gšneto” (eghéneto, avvenne, accadde) (vv.4.13), che dice il venire, l'accadere, il realizzarsi di quanto viene raccontato nelle rispettive pericopi, che da questi verbi dipendono. E il tutto è strettamente legato alla parola dei profeti e da questa dipendente.

Commento ai vv.2-13

L'annuncio del profeti (vv.2-3)

Similmente al primo libro della Genesi, che si apre con il suo “'En ¢rcÍ” (En archê, In principo) (Gen 1,1), facendovi risuonare dentro la Parola creatrice, che si dispiega in tutta la sua efficacia (Gen 1,3); e similmente al Vangelo di Giovanni che si apre, anche questi, con il suo “'En ¢rcÍ” (En archê, In principo) (Gv 1,1), contemplandovi la Parola nella sua eternità divina, rivolta al Padre, la quale in 1,14a egli attesta che “divenne carne”, così anche Marco apre il suo Vangelo con un “'Arc¾” (Arché, Inizio, Principio), al cui interno pone la Parola creatrice, di cui le due successive pericopi (vv.4-8; 9-13) attesteranno l'efficacia. La Parola, dunque, quella creatrice, quella che produce ciò che dice (Is 55,11-12; Eb 4,12), è sempre posta all'inizio di ogni evento rivelativo e salvifico.

Il racconto marciano si apre con un solenne e autorevole “Come è scritto nel profeta Isaia”. Si tratta, dunque, della parola dei profeti, che proprio qui nel vangelo di Marco è giunta al suo termine, mentre lo stesso Vangelo ne annuncia il suo pieno compimento.

Il testo qui riportato da Marco è in realtà una sorta di miscellanea tratto per il v.2, da Ml 3,1 in cui riecheggia in qualche modo anche Es 23,20; mentre per il v.3 viene riportato il testo del Deuteroisaia (Is 40,3). Un versetto significativo quest'ultimo, perché nel suo contesto esortava il popolo d'Israele, prigioniero a Babilonia (587-538 a.C.), ad aprirsi alla speranza e a preparare la via del ritorno in patria con una sorta di secondo esodo, attraverso il deserto, dove il resto d'Israele, quello rimasto fedele a Dio, vedrà la gloria del Signore (Is 40,1-5). Nel deserto, dunque, si vedrà la gloria del Signore. Ed è proprio sulla spinta di Is 40,3 che il maestro di Giustizia, l'enigmatica figura della comunità di Qumran, creerà la sua comunità in mezzo al deserto, dove essa si affinerà spiritualmente nell'attesa della venuta del Signore4. Una comunità, quindi, animata da forti tensioni escatologiche ed apocalittici nel contempo.

Deserto, una parola emblematica e molto significativa nella storia di Israele, perché è da lì che è partita la sua storia della salvezza; lì il non-popolo è diventato popolo5; lì ha ricevuto la sua identità diventando proprietà di Dio, regno di sacerdoti e popolo santo (Es 19,5-6); è sempre lì, nel deserto, che Israele viene messo alla prova, trova il suo riscatto e la sua rigenerazione spirituale. Ed è ancora da qui, dal deserto, che parte ora la storia di un nuovo Israele, a cui Marco allude, richiamandosi ai testi profetici sopra accennati e che vedrà i suoi protagonisti principali in Giovanni, il messaggero preannunciato da Ml 3,1; l'atteso Elia, sempre preannunciato da Ml 3,23-24: “Ecco, io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile del Signore, perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri; così che io venendo non colpisca il paese con lo sterminio”. Elia, dunque, il profeta, rapito da un carro di fuoco (2Re 2,11) e che, secondo la credenza diffusa ai tempi di Gesù, sarebbe ritornato alla fine dei tempi per annunciare l'avvento di Jhwh e il suo giudizio in mezzo agli uomini. Gesù stesso verrà scambiato per questo profeta escatologico6. Per contro, sarà Gesù stesso ad interpretare la figura di Giovanni come l'Elia che doveva venire7.

Il secondo protagonista, posto in parallelo a Giovanni, è Gesù, l'uomo nuovo, investito dallo Spirito Santo e di questi rivestito, che si muove sotto la sua azione, inaugurando i tempi escatologici, caratterizzati dallo Spirito e dal quale sgorgherà una nuova umanità, generata e continuamente rigenerata dalla sua Parola e qualificata dallo Spirito di Dio, che la riconduce in seno a se stesso, da cui era uscita in modo drammatico.

Ecco perché Marco vede la sua opera come un “'Arc¾” (Arché), come un inizio, che ha la sua origine unica e primaria nella Parola.

La figura e l'annuncio di Giovanni, il battezzatore (vv.4-8)

Dopo l'annuncio della parola dei profeti (vv.2-3), Marco ne esprime ora la sua efficacia aprendo la pericope che riguarda il Battista con un verbo significativo: “™gšneto” (eghéneto), che dice il compiersi di quanto annunciato. L'autore ricalca qui lo stesso schema di Gn 1,3 dove al comando divino del “Sia la luce” segue subito “™gšneto fîj” (eghéneto fôs, la luce fu). Vi è, dunque, consequenzialità tra la Parola e l'attuarsi di questa. È una Parola che presenta Giovanni nella sua natura di messaggero che cammina davanti al volto di Dio, un'espressione questa che ricorre 24 volte nell'A.T., e dice come questo messaggero sia gradito a Dio e come il suo agire sia conforme alla sua volontà. Gv 1,6, in modo più plastico e solenne, dirà: “Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni”. Anche qui, in Gv 1,6, la venuta del Battista viene introdotta con il verbo “™gšneto” (eghéneto), che annuncia in lui il compiersi di un evento di salvezza.

Una Parola, quella citata da Mc 1,2-3, che presenta il Battista anche nella sua missione, quella di preparare la via di Dio in mezzo agli uomini. Come ciò avvenga, viene ora definito dalla successiva pericope introdotta da quel “™gšneto”, che dice il suo attuarsi storico.

Ci troviamo d fronte ad una pericope delimitata dall'inclusione data dal verbo battezzare che si ritrova ai vv.4 e 8. Una pericope che è nel contempo particolarmente curata nella sua struttura posta a parallelismi concentrici in C). per cui si avrà che in A) Giovanni battezza (v.4) e in A1) viene presentata la natura di questo battesimo, fatto di semplice acqua, ma che ne prelude un altro fatto di Spirito Santo, di cui l'acqua è una metafora e un preludio; in B) viene presentato l'accorre dall'intera regione della Giudea verso Giovanni (v.5) e in B1) Giovanni predica annunciando a loro un nuovo battesimo (v.7); in C), punto di convergenza di tutto e, secondo la retorica ebraica, il più importante, viene presentata in modo scultoreo la monumentale figura del Battista (v.6).

Il v.4 è scandito in due parti: viene presentata, da un lato, al v.4a, l'attività battezzatoria di Giovanni; mentre, dall'altro, in v.4b, viene spiegato il significato di questo battesimo, colto qui come un gesto di conversione finalizzata al perdono dei peccati. Si noti come questo battesimo non dice la sua efficacia circa la remissione dei peccati, ma esprime soltanto il desiderio di conversione di coloro che si assoggettano al rito. Sarà soltanto questa, la conversione, che porta con sé il perdono dei peccati. Perché questo battesimo non sia intrinsecamente efficace nella remissione dei peccati verrà detto al v.8, dove si sottolineerà la sua diversa natura rispetto a quello che verrà nello Spirito. Un confronto tra i due battesimi che meglio apparirà in At 19,1-6.

Il gesto del battezzare di Giovanni non è nuovo presso il mondo giudaico e affonda le sue lontane radici già in Lv 13-14, dove vengono prescritti i rituali della purificazione, che hanno come elementi indispensabili l'acqua e il lavarsi8. Ma anche nell'ambito del profetismo il lavarsi con acqua era un segno di purificazione dei propri peccati, un segno di cambiamento del proprio modo di vivere, assumendo anche il senso di una radicale conversione: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova” (Is 1,16-17). Similmente Ez 36,25-27 assocerà l'aspersione con acqua non solo ad una purificazione dei peccati, ma anche ad un rinnovamento di vita, preludendo in questo al dono dello Spirito: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi”. Ma, alle soglie del N.T. compare nel deserto la comunità di Qumran, che faceva delle abluzioni e dei bagni un rituale quotidiano dalle forti tinte escatologiche. Un'eco in tal senso la si ritrova nello stesso Mc 7,3-4 dove si parla di abluzioni quotidiane da parte dei giudei. Su questa scia e sorretto da una solida tradizione, che assommava le abluzioni alla purificazione, Giovanni inaugura il movimento battista, a cui anche Gesù, agli inizi della sua missione, si era associato come discepolo del Battista e, similmente a Giovanni, battezzava (Gv 3,22-23.26). Lo lascia intendere anche quel “Ñp…sw mou” (opíso mu) al v.7, che letteralmente significa “dietro di me” e che compare altre tre volte in Marco con un chiaro senso di sequela (Mc 1,17; 8,33.34) e in tal senso è usata anche dagli altri evangelisti9. Gesù, quindi, come lascia intendere più apertamente Giovanni nel suo vangelo, ha incominciato la sua missione come discepolo del Battista, anche se poi in Gv 4,1-2 verrà corretto il tiro.

Se il v.4 annuncia l'evento Giovanni, che battezza e predica, il v.5 costituisce la risposta a tale evento, che crea un grande movimento di conversione attorno a sé: l'intera regione della Giudea e della sua capitale Gerusalemme, il cuore pulsante dell'intero Giudaismo accorrono da Giovanni. Si tratta della regione e della città verso le quali si incamminerà poi Gesù e dove si compirà il suo destino di morte e risurrezione, i Misteri della salvezza. È questo giudaismo che è chiamato a convertirsi per preparare la strada all'avvento di Gesù.

Due sono le note significative di questo versetto: “Tutta la regione della Giudea usciva verso di lui”. Quel “Tutta” dice l'universalità della chiamata, che è rivolta a tutti; mentre quel “usciva verso di lui” crea un movimento che va dall'interno verso l'esterno, da se stessi verso l'altro da sé, il punto di convergenza e di salvezza. È il movimento proprio della conversione, che esige l'abbandono del proprio modo di vivere per accoglierne un altro nuovo e rigenerante. Un grande movimento di masse intere di persone che ne prelude un altro più grande ancora, che ha le dimensioni dell'universalità, in cui viene ravvisato in qualche modo il grande movimento espansivo della chiesa nascente: “e da Gerusalemme e dall'Idumea e da al di là del Giordano e dai d'intorni di Tiro e Sidone, una grande folla, avendo udito quello che faceva, vennero da lui” (3,8). La consistenza di questa conversione è data dal verbo “uscire” posto all'imperfetto indicativo, che dice la persistenza di questa conversione, così che quel “usciva” si può anche dire “continuava ad uscire”.

Il secondo elemento significativo fornisce il senso e il contenuto di quel uscire: “farsi battezzare” e “confessare i loro peccati”. Il primo dice il gesto della penitenza, che allude alla purificazione della propria vita e ne esprime il desiderio; il secondo riguarda il prendere coscienza e il riconoscere il male che permea il proprio modo di vivere, che allontana l'uomo da Dio. Il verbo peccare, in greco “¡mart£nw” (amartáno), infatti, significa anche “deviare, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, da ciò che è giusto”. Il peccato, quindi, non è soltanto una semplice violazione di un qualche comandamento, dettata, magari, dalla fragilità umana, ma è un qualcosa di molto più profondo e grave, poiché implica una deviazione esistenziale, che allontana l'uomo da Dio, orientandolo su di un cammino opposto a Lui. Per cui la conversione è il processo opposto: il ritornare a Dio, riorientando la propria vita verso di Lui. In tal senso la parabola del Figlio prodigo (Lc 15,11-24) è un capolavoro narrativo che aiuta a comprendere che cosa sia veramente il peccato, a cosa e a come riduce l'uomo; ma nel contempo dice anche in che cosa consista la conversione e quale sia l'atteggiamento del Padre nei confronti del figlio deviato10.

Lo sfondo biblico su cui si muovono i vv.4-5 è l'invito di Is 1,18: “Su, venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”. “Su, venite”. Anche qui un'esortazione ad uscire, a lasciare il proprio vecchio modo di vivere e iniziare un cammino di conversione verso la salvezza, la quale consiste nel perdono dei propri peccati. E sarà proprio questo il primo gesto di Gesù nei confronti del paralitico, metafora dell'uomo degradato dal peccato e incapace di relazionarsi a Dio: “Figlio, i tuoi peccati sono perdonati” (2,5b). Ed è proprio nel perdono dei peccati che l'uomo fa l'esperienza della salvezza: “per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77). Ed è grazie a questo che egli è condotto “sulla via della pace” (Lc 1,79b), cioè sulla via della riconciliazione con Dio. Un cammino di conversione e di preparazione che prelude, a sua volta, ad un altro evento universale di salvezza, che ancora una volta riecheggia in Is 2,3: “Verranno molti popoli e diranno: <<Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri>>.

Il v.6 presenta in modo scultoreo la figura essenziale e austera del Battista. Il versetto si apre presentando il modo di vestire di Giovanni. Non è un semplice appunto dell'autore per soddisfare la curiosità del suo lettore, ma è un messaggio che Marco gli manda, poiché nel mondo antico e in quello ebraico, in particolare, il vestito è la metafora dell'essere stesso della persona, ne esprime l'essenza e ne consente la conoscenza. Una semplice pelle di cammello e una cintura ai fianchi parlano della ruvida essenzialità della vita, che deve accompagnare chi accoglie in se stesso il richiamo alla conversione. Significativamente il vestire è accostato anche al mangiare: locuste e miele selvatico. Essenzialità, dunque, anche nel mangiare, raccogliendo, senza ricercatezze, ciò che la natura del luogo arido offre. Vestire e mangiare, delineano i due aspetti essenziali del vivere umano e la loro essenzialità, collocata nell'austerità del deserto, dicono nel loro insieme il ritorno dell'uomo a ciò che conta realmente nella propria vita, senza disperdersi in essa, poiché la troppa attenzione alle cose distoglie dall'avvento escatologico che si sta per compiere. Le cose vanno usate per quello che consentono di vivere, ma l'attenzione va rivolta a Dio, poiché è tutto ciò che rimane dopo che si è lasciata l'illusorietà delle cose. Deserto, dunque, una parola emblematica che ha segnato profondamente la vita di Israele, poiché lì nel deserto è incominciata la sua storia; lì nel deserto ha incontrato il suo Dio e ha stabilito con lui l'Alleanza. E nella riflessione dei profeti esso diventa il luogo della conversione e del ritorno a Dio, da dove Dio ricondurrà nuovamente a sé il suo popolo. Non a caso questa parola ricorre in tutto l'A.T. ben 366 volte, quasi un filo rosso che percorre l'intera storia di Israele e la sottende, poiché è lì, nel deserto, nel suo arido e austero silenzio, che risuona la voce salvifica di Dio e il popolo, lontano dal rumore delle cose e nel suo silenzio interiore, la può sentire

I vv.7-8 sono entrambi costruiti sul confronto tra Giovanni e Gesù, che qui, si noti, non viene mai nominato, poiché lo spazio di Giovanni è ancora quello veterotestamentario, ancora non appartiene al nuovo evento che sta per accadere. Qui si è ancora nell'ambito dell'annuncio di questo evento, ma nel contempo se ne preannunciano le qualità che lo definiscono: da un lato, la grandezza di Giovanni (v.7), che Gesù stesso riconoscerà (Mt 11,11a; Lc 7,28a), viene posta a confronto a quella vincente di Gesù; dall'altro la diversa natura dei due battesimi (v.8). In entrambi i casi emergerà l'abissale e sostanziale distanza che separa i due, che Gv 1,8 stigmatizzerà duramente: “Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce”.

La breve pericope si apre con un annuncio, il cui verbo è posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, che dice la persistenza di tale annuncio: “E predicava dicendo”. Il verbo usato, qui, è “™k»russen” (ekérissen), che dice la primitività, ma nel contempo l'essenzialità di questo annuncio, che si radica in un evento storico. Significativi sono i tempi verbali di questo annuncio, posti al presente indicativo: “Viene” e “non sono degno”, per indicare come questo evento sia una realtà già presente in mezzo agli uomini; mentre quelli posti al v.8 sono tra loro contrapposti. Il verbo è lo stesso: battezzare. Ma quello che riguarda Giovanni è posto all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, “battezzai” (™b£ptisa, ebáptisa) ed indica un evento puntuale nel tempo e che non ha più nulla a che vedere con il presente. A questo passato, dunque, appartiene il battesimo di Giovanni, legato alle abluzioni rituali, ma improduttive ai fini della salvezza; mentre quello che riguarda Gesù è posto al futuro: “battezzerà” (bapt…sei, baptísei), che apre ad una nuova realtà caratterizzata dallo Spirito Santo (v.8)

Il v.7 pone in un confronto diretto la persona di Giovanni e quella di Gesù e ne valuta il diverso peso: “Viene il più forte di me dopo di me”. Vi è tra i due una sequenzialità logica crescente, che va dal minus al maior, dove il minus non rappresenta soltanto Giovanni, ma l'intero suo mondo veterotestamentario, fatto di ritualità, di abluzioni, di sacrifici di animali e di un legalismo asfissiante e insostenibile (Mt 23,4). Tuttavia questo si colloca nei confronti del maior non in una posizione di inferiorità, ma di diversità di posizione, che lo pone in sua funzione. Significativo in tal senso quanto attestava il Gesù matteano: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Non c'è, quindi, il rifiuto delle Scritture e di quanto esse rappresentano, ma la loro integrazione e il loro completamento nel nuovo. I due Testamenti non vanno mai contrapposti tra loro, ma tra loro integrati, in quanto questi costituiscono un unico atto salvifico scandito in due tempi, come lascia intendere Eb 1,1-2: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo” Un mondo quello veterotestamentario che nel progetto di salvezza è propedeutico e pedagogico rispetto a quello neotestamentario e in esso non viene abolito, ma completato (Eb 10,1).

Che cosa significhi “il più forte di me” viene specificato dalla seconda parte del v.7: “non sono degno, chinatomi, di sciogliere la cinghia dei suoi calzari”. La misura di questa differenza di grandezza, che separa i due, dunque, è maggiore di quella che separa uno schiavo dal suo padrone. Considerata la posizione dello schiavo nei confronti del suo padrone, ciò che Giovanni intende dire è che egli è un nulla rispetto a Gesù, benché Gesù rivaluti la persona di Giovanni definendolo come il più grande tra i nati di donna (Mt 11,11; Lc 7,28).

L'abissale differenza di grandezza tra i due si riflette, ora, anche nella diversa natura dei due battesimi, che in qualche modo rappresentano la diversa qualità delle due missioni, quella del Battista e quella di Gesù. Il battesimo di Giovanni, relegato nel passato veterotestamentario da quel verbo posto all'aoristo, “battezzai”, è soltanto di acqua. Il riferimento qui è alle abluzioni giudaiche finalizzate alla purificazione, più che spirituale, meramente fisica per rendere la persona ritualmente capace, qualora fosse stata in qualche modo contaminata; o purificazione di oggetti destinati al culto o anche all'uso comune per renderli nuovamente idonei (7,3-4). Abluzioni e purificazioni, tuttavia, improduttive di salvezza, perché ristrette all'interno di un orizzonte meramente fisico. Il secondo battesimo, aperto ad un nuovo orizzonte, in cui viene proiettato dal verbo al futuro, “battezzerà”, è definito nello Spirito Santo, la nuova dimensione dei tempi nuovi che in qualche modo Gl 3,1-2 aveva già preannunciato e in cui è collocata la nuova creazione e in essa l'uomo nuovo. Luca aggiungerà al tema dello Spirito quello del fuoco (Lc 3,16), assegnando al nuovo battesimo anche una dimensione escatologica e di giudizio divino posto sul mondo.

L'accadere dell'evento Gesù (vv.9-13)


Note generali

Similmente alla pericope vv.4-8, in cui si attuava la parola dei profeti (vv.2-3), un attuarsi significato dal verbo “™gšneto” (eghéneto), che dice l'accadere di un evento storico che ha la sua origine nella Parola, che racchiude in se stessa e nel contempo rivela il piano salvifico di Dio, così anche questa questa seconda pericope (vv.9-13) inizia parimenti con il verbo “™gšneto” (eghéneto), che dice l'accadere storico di un evento salvifico preannunciato dalla predicazione del Battista ai vv.7-8. L'accadere di tale evento è l'apparire sulla scena della storia umana di Gesù, che funge da spartiacque tra il prima e il dopo, portando a compimento non solo le parole di Giovanni, ma altresì quelle dei profeti, che in Giovanni trovano il loro vertice, ma nel contempo inaugura una nuova era, quella preannunciata al v.8, dove il Battista contrappone l'era dell'acqua a quella dello Spirito Santo.

Il senso di questa pericope, che riguarda la figura di Gesù, viene data dalla struttura stessa di questa pericope che, similmente a quella precedente, è disposta a parallelismi concentrici in C). per cui si avrà che in A) compare Gesù che viene battezzato nel Giordano (v.9), mentre in A1) si dice che Gesù “era nel deserto per quaranta giorni per essere provato” (v.13); in B) Gesù, emergendo dalle acque del Giordano, è riempito dello Spirito Santo (v.10); mentre in B1) Gesù si muove sotto l'azione dello Spirito (v.12). Ed infine in C) Gesù, in un contesto teofanico, è proclamato “Figlio di Dio” (v.11).

Cosi strutturata e combinata nei suoi parallelismi, la pericope lascia trasparire la complessità della figura di Gesù, lasciando intuire la ricchezza del Mistero della sua persona e della potenza della sua missione.

In A) e A1) compare un Gesù che, passato attraverso le acque del Giordano, entra nel deserto per quaranta giorni dove viene provato. Un'immagine questa che richiama il passaggio del mar Rosso del popolo d'Israele che si incammina nel deserto, dove viene provato per quarant'anni. Un cammino fatto di infedeltà e di duri castighi, di sofferenze, di privazioni e di morte, dove Israele imparerà a conoscere Jhwh e a stabilire con lui un patto di Alleanza. E dopo il suo lungo peregrinare, giunto a Gerico, passa il Giordano ed entra nella Terra Promessa, dove vi entrerà solo un resto d'Israele, che si è mantenuto fedele a Jhwh. Ora Gesù con il suo uscire dal Giordano ed entrare nel deserto, compie il percorso inverso del popolo d'Israele, quasi a voler riviere quell'esperienza dei quarant'anni, significata nei quaranta giorni, ma riviverla nella piena fedeltà alla volontà di Dio. E lui, da questo momento in poi, sarà il nuovo resto d'Israele, che ha saputo superare nella fedeltà a Dio le prove di un deserto, che prefigura l'aridità e la durezza della sua vita, osteggiata dall'incredulità, che si farà persecuzione fino alla sua morte, da parte delle autorità giudaiche (3,6; 11,18); incomprensione da parte dei suoi compaesani (6,1-6a); poi dai suoi discepoli (8,13-21) ed infine dei suoi stessi familiari, che lo ritenevano fuori di testa (3,21). Ed egli, quale fedele resto d'Israele, stabilirà con Dio una nuova Alleanza, che meglio apparirà in 14,24, dove offrendo il calice di vino ai suoi, dirà: “Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti”, richiamandosi ad Es 24,8, dove Mosè, aspergendo il popolo con il sangue dell'agnello, affermava: “Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole”. Il sangue, tuttavia, non sarà più quello di un agnello, ma quello di Gesù stesso, “mio sangue”; mentre le parole non saranno più quelle di Mosè, ma quelle di Gesù, Parola del Padre.

Un altro aspetto che caratterizza l'evento Gesù è lo Spirito Santo, messo in rilevo da B) e B1). Gesù, uscito dalle acque del Giordano viene ricolmato di Spirito Santo. È la sua unzione profetica, che lo rende Messia, cioè l'Unto di Dio, ma non più con un'unzione umana, ma divina, significata dallo Spirito, che è vita stessa di Dio, di cui, l'uomo Gesù viene rivestito, per cui il suo agire, il suo operare e la sua stessa parola non sono più personali di Gesù, ma del Padre, che opera in lui per mezzo dello Spirito, da cui Gesù si lascerà condurre, divenendo in tal modo Azione e Parola del Padre in mezzo agli uomini.

Un terzo elemento che qualifica la persona di Gesù si trova in C), il punto più importante secondo le logiche della retorica ebraica. Qui Gesù è definito nell'ambito di una teofania Figlio prediletto del Padre; definizione questa che verrà ripresa in una seconda teofania, quella della Trasfigurazione (9,7). In tal modo Marco, fin da subito mette in rilievo la figliolanza divina di Gesù, che già era stata preannunciata in 1,1.

La pericope, considerata nello svolgersi dinamico della narrazione, è composta da cinque versetti che presentano cinque scene diverse, in modo fotografico, giustapposte l'una accanto all'altra, unite tra loro soltanto dall'immagine che la precede, dando una sequenzialità di immagini, che potrebbero essere colte anche in modo indipendente l'una dall'altra, quasi che l'autore intendesse concentrare l'attenzione del suo lettore non tanto sull'intero racconto racchiuso nella pericope, quanto piuttosto su ogni scena, scandita dal rispettivo versetto, attribuendo ad ognuna un suo significato particolare su cui riflettere. Per cui si avrà che:

  1. al v.9 viene creato il contesto temporale e geografico in cui viene collocato l'evento Gesù. Se già si è visto qui sopra il significato dell'immergersi di Gesù nel Giordano, vedremo subito il senso del contesto temporale in cui questo avvento di Gesù è circoscritto;

  2. il v.10 crea invece il contesto teofanico dove viene collocata al successivo v.11 la voce del Padre, che rivela il Mistero dell'uomo Gesù, che non è come la gente pensava: “<<Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?>>. E si scandalizzavano di lui” (6,3), bensì il “Figlio amato” del Padre, in cui ha riposto il suo compiacimento.

  3. Il v.12 crea uno stacco netto dalla scena precedente e introduce il lettore in un nuovo contesto geografico, quello del deserto, dove Gesù, al successivo v.13, farà l'esperienza dell'esodo, rivissuta nella fedeltà a Dio e dove il sangue dell'agnello, che sanciva l'antica alleanza, verrà sostituito dal suo sangue (14,24), che sancisce una nuova alleanza.


Commento ai vv. 9-13

Il v.9 esordisce con una significativa nota temporale, che assume una duplice valenza: “E accadde (che) in quei giorni”. Da un punto di vista narrativo essa introduce semplicemente una nuova scena, avvertendo il lettore che qui si gira pagina rispetto a quella precedente, venendo introdotto un altro racconto. Tuttavia, questa espressione, se viene colta nel contesto di un accadere (“™gšneto”, eghéneto), che attua storicamente la parola proclamata da Giovanni (vv.7-8) e quindi questo accadere rientra in un disegno salvifico di Dio, allora anche l'espressione “in quei giorni” assume una valenza che nel linguaggio profetico11 dice il tempo dell'intervento salvifico o di giudizio di Dio in mezzo al suo popolo.

Ciò che qui accade è l'apparire, quasi d'improvviso sulla scena, introdotta da quel “venne”, la figura di Gesù, che qui viene storicizzata, indicandone la provenienza geografica: Nazareth della Galilea. Non si parla, quindi, di un evento idealizzato, ma che si radica nella storia e che si colloca concretamente nella storia. Un evento che ha inizio qui nella storia. Un'immagine questa che richiama 1Gv 1,1: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita”. Quel “Ciò che era fin da principio” parla di un principio che ha avuto la sua origine qui nella storia. E per non lasciar dubbi, Giovanni fa seguire la sua testimonianza con una serie di verbi che indicano la sensorialità, che da concretezza storica a questo evento sorto nella storia, ma che è l'accadere e l'attuarsi dell'intervento di Dio in mezzo agli uomini.

Il v.9 si conclude con una seconda nota geografica, quella del Giordano. Un accostamento decisamente arduo dove Nazareth della Galilea viene giustapposta al Giordano. Un salto geografico di circa 110 km in linea d'aria e che potrebbe disorientare il lettore. Tuttavia, ciò che all'autore interessa non è tanto la precisione geografica, quanto il creare attorno al suo Gesù una rete geografica che gli dia consistenza storica, entro la quale collocare un altro evento, che dice tutta la solidarietà di Gesù con i peccatori: il battesimo di conversione e di penitenza, verso il quale “tutta la regione Giudea usciva verso di lui e tutti i Gerosolimitani, e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (v.5). Un evento quello del battesimo di Giovanni che viene collocato a suo volta in un contesto escatologico nel suo richiamarsi all'urgenza della conversione, sottolineata da quel correre generale da parte della gente (vv.4-5), e nel contempo apocalittico (vv.7-8), nel suo rivelare l'avvento di uno più forte di me, che battezza non più con acqua, ma nello Spirito Santo. Anche il battesimo di Gesù, pertanto, avviene in tale contesto così che anche l'evento Gesù assume tinte escatologiche ed apocalittiche, che appariranno subito ai successivi vv.10-11.

I vv.10-11 sono tra loro concatenati e svolgono, il primo (v.10a), la funzione di creare un contesto apocalittico con quel “vedere i cieli squarciati”, la quale cosa dice che qui ci si trova di fronte ad una rivelazione divina; mentre la sua seconda parte (v.10b), unitamente al v.11 formano il contenuto di questa teofania: lo Spirito che scende su Gesù (v.10b) e una voce, proveniente dal cieli, che rivela la vera natura di quel uomo.

Significativo è l'accostamento che Marco fa tra lo Spirito e la colomba, che richiama da vicino l'immagine genesiaca dello Spirito di Dio che aleggiava sulle acque (Gen 1,2b), posto a premessa della creazione. Un'immagine che, a sua volta, rimanda a quella di Noè e del diluvio universale, che di fatto ha cancellato la prima creazione, aprendone una nuova, in conformità alla volontà di Dio. Non a caso in questo racconto si riprende il linguaggio e le immagini della prima creazione (8,15-9,12). Ed anche qui, prima del comparire di una nuova creazione, appare una colomba che aleggia sulle acque, come il primordiale Spirito di Dio (Gen 8,8-12). Ed ecco il ritornare di queste immagini genesiache, che si richiamano alla creazione, nel contesto del battesimo di Gesù, l'uomo che esce dalle antiche acque del Giordano, con tutto ciò che queste evocano, come l'entrata di Israele nella Terra Promessa, le antiche abluzioni con cui Israele cercava la sua purificazione nei confronti di Dio e tutte le sue ritualità cultuali. Tutto questo Gesù lascia alle sue spalle uscendo da quelle acque. Ed ecco su di lui ritornare l'immagine dello Spirito di Dio che nuovamente aleggia, questa volta non più sulle acque, ma su Gesù, costituendolo quale principio di una nuova creazione. Gesù è uscito dall'antico tempo dell'acqua per entrare in quello dello Spirito: “egli vi battezzerà in Spirito Santo” (1,8b). E quel “scendeva”, posto all'imperfetto indicativo, tempo durativo, dice come quello scendere dello Spirito su Gesù sia persistente e definitivo.

Il secondo momento teofanico è la voce che, come lo Spirito, esce dal cielo e investe Gesù, rendendogli testimonianza. Essa è la voce del Padre, che qualifica Gesù come “mio Figlio”, definito “¢gaphtÒj” (agapetós, amato). Si faccia attenzione, quel “amato” non va inteso in senso sentimentale o emotivo, poiché in Dio non ci sono sentimenti o emozioni, fenomeni strettamente legati alla corporeità, ma designa la natura di un rapporto, che caratterizza Dio e dice la sua totale apertura all'altro, la sua totale donazione di sé all'altro, e la sua totale accoglienza dell'altro in se stesso. Vi è quindi tra i Due una profonda interconnessione e una profonda intercompenetrazione, così che Gesù diviene lo spazio storico dell'azione del Padre in mezzo agli uomini; ne è la sua voce o, meglio, la sua Parola, che in quanto tale è per sua natura rivelativa, e che Gv 1,1-2 contemplerà nell'eternità divina in una forte tensione verso il Padre e tale da fare dei Due una cosa sola (Gv 10,30; 17,11c.22), così che Gesù potrà dire a Filippo “Chi ha visto me ha visto il Padre”, rivelando il suo rapporto con il Padre: “In verità, in verità vi dico, il Figlio da sé non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa” (5,19.30). Gesù, dunque, rivelazione del Padre. E questa investitura dello Spirito fa di Gesù il luogo della rivelazione e dell'agire del Padre, che di Gesù, definito Figlio, dirà “in te mi compiacqui”. Il compiacimento di Dio nel suo Figlio, non va inteso come un indice di gradimento nei confronti di Gesù, ma il compiacimento del Padre nel Figlio dice il ritrovarsi del Padre nel Figlio. Come dire che Gesù è espressione piena della sua volontà e sua piena rivelazione. E Gesù si lascerà condurre e si muoverà sempre secondo il soffio dello Spirito del Padre. Ne daranno testimonianza i successivi vv.12-13.

I vv.12-13 creano uno stacco netto dalla precedente scena del battesimo e con quel caratteristico “eÙqÝj” (eutzìs, subito), tutto marciano, che compare ben 41 volte nel suo breve vangelo, il lettore è introdotto, come d'improvviso, quasi inaspettatamente, in un nuovo contesto, quello del deserto, benché, a livello teologico, vi sia in realtà una continuità tra la scena del battesimo e quella del deserto, data dal termine “Spirito”, che serve a Marco per attestare come, da questo momento in poi, Gesù si muoverà soltanto sotto l'azione dello Spirito. E lo Spirito “spinge fuori nel deserto” Gesù. È alquanto strano quello “spingere fuori nel deserto”. Fuori da dove? Il verbo greco che dice “spingere fuori” è “™kb£llei” (ekbállei). Già si è visto Gesù che esce dalle acque del Giordano, metafora in qualche modo del suo uscire dal mondo del giudaismo, a cui era appartenuto finché, uscito, non è stato investito dallo Spirito, che ne ha fatto una nuova realtà, testimoniata dal Padre. Ed è proprio questo Spirito, che fa nuove tutte le cose, che lo “butta fuori” dal giudaismo, costituendolo in tal modo principio di una nuova creazione; e forse non è un caso che Marco usi lo stesso verbo “™kb£llein” (ekbállein) in 11,15 dove Gesù, a sua volta, “butta fuori” i venditori dal Tempio, un gesto che, come vedremo a suo tempo, dice il rovesciamento del culto giudaico, per riportarlo alla sua purezza iniziale, che meglio apparirà nel dialogo con la Samaritana, che chiedeva a Gesù dove si dovesse adorare Dio, se a Gerusalemme o sul monte Garizim: “Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori” (4,23). Vi è, dunque, un superamento del culto antico, che viene spiritualizzato nell'interiorità dell'uomo, trasformando la vita dell'uomo in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio (Rm 12,1). E come ogni inizio nella storia di Israele ha avuto la sua origine nel deserto, come è avvenuto per Abramo, per Mosè, per Elia, per lo stesso popolo d'Israele, così non è diversamente per Gesù, che in quei quaranta giorni richiama i quarant'anni di Israele, che qui egli in qualche modo rivive nella fedeltà a Dio.

Va, tuttavia, al di là delle immagini bibliche, compreso bene questo v.13, che si pone sulla soglia dell'attività missionaria di Gesù. Gesù viene qui presentato nel deserto, luogo di privazioni e di sofferenze, dove si dice che è “provato da satana” per “quaranta giorni”. Il quaranta è un numero biblicamente significativo, che compare nell'A.T. per ben 132 volte e designa un tempo compiuto che è spesso collegato a potenti azioni di Dio e che in qualche modo ha attinenza con la storia della salvezza. Ebbene Gesù si trova in questo deserto, luogo di sofferenza, di dolore, luogo di morte, provato da satana. Ed è un tempo che dura quaranta giorni, legato quindi in qualche modo ad un'azione potente di Dio che ha a che fare con la storia della salvezza. Colto in questo contesto, il deserto diviene la metafora della vita e della missione stessa di Gesù, azione potente e salvifica di Dio in mezzo agli uomini, costellata da sofferenze, persecuzioni, incomprensioni, tradimenti e abbandoni fino alla morte di croce. Luogo quindi di prova. In questo luogo di sofferenza e di morte Gesù era da un lato con le fiere, dall'altro con gli angeli che lo servivano. Lo sfondo di queste due immagini è biblico, dove le fiere stanno ad indicare i nemici che divorano l'innocente12 e Gesù nel corso dell'intera sua missione starà in mezzo a queste fiere. Lo ricorderà lui stesso al momento del suo arresto: “Ogni giorno ero in mezzo a voi a insegnare nel tempio, e non mi avete arrestato” (14,49). Quanto agli angeli che lo servivano, questi indicano i suoi discepoli, la cui sequela viene definita con un verbo significativo, che troveremo subito in 1,18 e altre 17 volte nel vangelo marciano con riferimento ai discepoli e seguaci in genere di Gesù: “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan, seguirono), il cui significato dice un particolar modo di seguire Gesù, quello del servire, tant'è che il sostantivo tratto da tale verbo, “¢kÒlouqoj” (akólutzos) significa “servo”, colui che segue il proprio padrone servendolo. Quindi, quegli “angeli”, termine che in greco significa messaggeri, inviati per portare un annuncio, raffigurano i discepoli e in genere i seguaci di Gesù; coloro che in qualche modo hanno posto le proprie vite al servizio di Gesù.

Il v.13, pertanto, posto a conclusione del prologo e a ridosso dell'inizio dell'attività pubblica di Gesù, diviene una metafora, che in qualche modo preannuncia come la vita di Gesù sarà tutta una prova, una sofferenza ed una persecuzione costante da parte delle autorità giudaiche, che si concluderà con la sua morte; ma nel contempo egli riuscirà a crear attorno a sé un gruppo scelto di persone disponibili a seguirlo, pronte a raccogliere il suo messaggio, mettendo al suo servizio la loro vita.

Gli inizi della missione di Gesù (vv. 14-15)


Testo a lettura facilitata

Transizione dal prologo all'attività di Gesù (v.14)

14- Dopo che Giovanni fu consegnato, Gesù venne in Galilea predicando il vangelo di Dio

La predicazione, primo atto dell'attività missionaria di Gesù (v.15)


15- e dicendo che il tempo è compiuto e si è avvicinato il regno di Dio; pentitevi e credete nel vangelo.


Commento ai vv.14-15


Transizione dal prologo all'attività di Gesù (v.14)

Il v.14 funge da transizione, perché concludendo il prologo con la prigionia di Giovanni (v.14a), la cui attività era iniziata al v.4, formando in tal modo inclusione non solo per il ripetersi del nome Giovanni, ma anche per complementarietà di azione, poiché in v.4 inizia la sua attività e in v.14a la termina, si passa ora all'attività missionaria di Gesù (v.14b), dando consequenzialità alle due predicazioni: terminata quella di Giovanni, inizia ora quella di Gesù. In tal modo l'autore, con l'arresto del Battista, le cui motivazioni verranno raccontate in 6,17-28, sgombera il campo da una figura che poteva oscurare quella di Gesù, ponendosi parallelamente a lui, quasi in concorrenza, come in qualche modo si evince dal racconto giovanneo, dove Gesù battezzava assieme a Giovanni (Gv 3,22-23), suscitando la gelosie, l'invidia e le proteste dei discepoli del Battista (3,26; 4,1). Il Gesù giovanneo, infatti, discepolo di successo del Battista (3,22.26), sembra lasciare la Giudea, ritirandosi in Galilea, da dove inizia la sua missione, per evitare di scontrarsi con Giovanni e i suoi discepoli: “Quando il Signore venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni […] lasciò la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea” (4,1.3).

Il v.14b, annunciando l'inizio dell'attività di Gesù, riproduce lo schema narrativo e, in un certo qual senso, anche, in parte, contenutistico del v.4, dove si dice che venne Giovanni a predicare un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati. Cambiano, tuttavia gli attori: là Giovanni; qui Gesù. Il v.14b fa, quindi, iniziare l'attività missionaria di Gesù con la predicazione, come avvenne al v.4 per Giovanni. Un'attività missionaria, quella di Gesù, che apparirà sempre più legata alla predicazione, là dove, rivolto ai suoi discepoli, dice: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, affinché anche là predichi; per questo, infatti, uscii”. (v.38).

Oggetto della predicazione di Gesù è “il Vangelo di Dio”. È significativo questo cambio di titolarità del Vangelo: al v.1,1 l'autore presenta la sua opera come il “Vangelo di Gesù”; qui, invece, presenta il Vangelo predicato da Gesù come quello di Dio. Questa diversità dice la diversa origine del Vangelo: in 1,1 è Marco che, riporta l'annuncio predicato da Gesù e, quindi, la sua fonte primaria di riferimento è Gesù. Ma qualora sia Gesù a predicare il Vangelo, questi non è il “suo” Vangelo, ma quello di Dio, cioè del Padre. Vi è pertanto un'ascendenza di annuncio predicato: gli uomini si riferiscono a Gesù e Gesù al Padre, che in tal modo diviene, rispetto agli uomini, da un lato, elemento di mediazione verso il Padre o suo sacramento d'incontro con gli uomini; dall'altro sua rivelazione. È significativo, infatti, quanto Gesù attesta al v.38: “Andiamo altrove, nei villaggi vicini, affinché anche là predichi; per questo, infatti, uscii”. Qui Gesù evidenzia come la sua missione è quella di predicare ovunque ed è per questo che egli uscì (“e„j toàto g¦r ™xÁlqon”, eis tûto gàr exêltzon). L'affermazione riportata da Gesù al v.38b possiede il tono di un annuncio solenne e in qualche modo rivelativo. E, quindi, la sua attestazione, “per questo infatti uscii”, non può essere considerata come un semplice uscire dalla città o dal villaggio in cui si trovava, anche perché da questo era già uscito al v.35. La sua uscita ai fini del compiere la sua missione di predicazione non può che essere intesa come uscita del Figlio dal Padre. Una nota questa molto vicina alla cristologia giovannea13.

La predicazione, primo atto dell'attività missionaria di Gesù (v.15)

Il v.15 si presenta come un sommario della predicazione di Gesù, scandito in due parti: la prima (v.15a) riguarda il proporsi di Dio agli uomini, tendendo loro nuovamente la mano per ricondurli in se stesso, così com'era nei primordi dell'umanità; la seconda parte (v.15b) è l'attesa risposta dell'uomo a tale proposta di Dio, che si attua attraverso la predicazione, di fronte alla quale l'uomo è chiamato, suo malgrado, a prendere posizione:

  1. Si attesta che il tempo è compiuto. Di quale tempo si tratta? Il termine tempo è qui reso in greco con “kairÕj” (kairòs), che indica un determinato tempo particolare, un tempo opportuno, che nel linguaggio profetico si riferisce al tempo dell'intervento di Dio. Il fatto che questo tempo si sia compiuto lascia intendere come dietro a tale compimento temporale ci sia un progetto che scandisce tale tempo e che nell'oggi di Gesù esso ha trovato il suo compimento. Similmente Gal 4,4 attesta che “Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge” e ciò avviene nella “pienezza del tempo”. E ciò che è avvenuto in tale compimento è l'avvicinarsi del regno di Dio, che dice il ritorno di Dio in mezzo agli uomini, per ristabilire il suo potere in mezzo a loro, così com'era ai primordi dell'umanità. E ciò avviene attraverso il compiersi di un annuncio che si attua in Gesù, che proprio nel suo predicare e operare diviene manifestazione e rivelazione del Padre. Marco qui non parla, tuttavia, di compimento del regno di Dio, ma soltanto del suo avvicinarsi. La quale cosa significa che il Regno di Dio, innescato dalla venuta di Gesù, per cui il tempo è compiuto, è ancora ai suoi inizi e il suo compimento sarà soltanto al definitivo compimento del tempo, allorché questo tempo fisico entrerà nell'eternità. Quindi la compiutezza del tempo, quale spazio sacro riservato all'agire di Dio qui nella storia, riguarda soltanto la venuta di Gesù, che inaugura i tempi escatologici, cioè gli ultimi tempi, entro i quali il Regno di Dio, che Gesù concepisce ancora soltanto come un piccolo seme (Mc 4,26-29; Mt 13,31-32) destinato a crescere, dovrà sempre più affermarsi.

  2. La seconda parte del v.15 (v.15b) riporta la risposta che l'uomo, interpellato dalla predicazione del Regno, è chiamato a dare esistenzialmente: “pentitevi e credete nel vangelo”. L'esortazione a prendere la giusta posizione di fronte all'annuncio è scandita in due momenti successivi, ma strettamente connessi tra loro: pentirsi e credere al vangelo. In questa formula riecheggia in qualche modo la predicazione dello stesso Giovanni, che predicava un battesimo di penitenza per la remissione dei peccati, dove l'uomo, pentitosi, si rendeva disponibile a Dio per il perdono, assumendo in tale contesto un comportamento passivo, poiché il perdono dei propri peccati era affidato soltanto alla misericordia di Dio. L'uomo era chiamato a rendersi disponibile tramite un processo di conversione, che partiva dal pentimento. Benché questo elemento del pentimento, preambolo ad un cammino di conversione, sia presente anche nella predicazione di Gesù, tuttavia esso non rappresenta il tutto per ottenere il perdono, ma serve un ulteriore passo qualitativamente superiore: è necessario credere al vangelo, dove il termine “vangelo” riguarda la stessa persona di Gesù, così come egli si è manifestato nelle parole e nelle opere, in quanto che egli è la Parola del Padre, che va ascoltata (9,7), cioè accolta in se stessi. Quindi, non è sufficiente pentirsi, ma serve anche aderire esistenzialmente a Gesù, quale manifestazione e rivelazione del Padre. Il credere in lui, pertanto, è la conditio sine qua non per poter accedere alla salvezza. Non è più sufficiente pentirsi, perché la sincerità di tale pentimento è omologata soltanto dall'adesione esistenziale a Gesù. La fede, il credere in lui, pertanto, diviene l'elemento determinate della propria salvezza. Gv 3,16.18 esprimerà questo concetto in modo significativo, legando la propria salvezza o condanna al credere o non credere: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. […]. Chi crede in lui non è giudicato; ma chi non crede è già stato giudicato, poiché non ha creduto nel nome del Figlio unigenito di Dio”. Ed è significativo come in Giovanni la fede non è mai espressa con un sostantivo, ma sempre con un verbo, perché se il sostantivo esprime solo un concetto, che è un'astrazione della realtà, per contro il verbo indica sempre un movimento, che è quello proprio del vivere. La vera fede, pertanto, per Giovanni è il credere a livello esistenziale, la quale cosa significa soltanto aderire e conformarsi esistenzialmente a Gesù.


Attività galilaica di Gesù: una lenta e graduale scoperta della sua identità (1,16-8,30)

La prima chiamata dei discepoli (vv.16-20)


Testo

16- E passando presso il mare della Galilea vide Simone e Andrea, fratello di Simone, che gettano lì attorno (le reti) nel mare; erano infatti pescatori.
17- E disse loro Gesù: <<Orsù, dietro di me, e farò che voi siate fatti pescatori di uomini>>.
18- E subito, lasciate le le reti, lo seguirono.
19- E andato un po' avanti, vide Giacomo (figlio) di Zebedeo e Giovanni suo fratello anche loro nella barca che mentre riparavano le reti,
20- e subito li chiamò. E lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i salariati, se ne andarono dietro di lui.


Note generali

Dopo un prologo molto intenso, dove compaiono le due figure di Giovanni e di Gesù, quali attuazioni storiche della parola dei profeti (vv.2-3), il primo, e di Giovanni il secondo (vv.7-8); e dopo la prima attività di Gesù, che ricalca in parte la predicazione del Battista, nel suo richiamo alla conversione (v.15a), ma aprendo un nuovo orizzonte di adesione esistenziale (v.15b), che non è più la Legge mosaica, ma un nuovo annuncio, che si manifesta dapprima con la parola e poi con l'azione, ha ora inizio il racconto dell'attività missionaria di Gesù. Un racconto che difficilmente è strutturalmente inquadrabile, poiché esso segue le logiche non della narrativa, ma della predicazione orale, di cui il racconto marciano è la versione scritta. Ogni tentativo di dare una quadratura al vangelo di Marco è soltanto un tentativo, poiché difficilmente si lascia imbrigliare in schemi narrativi. Tuttalpiù si possono individuare al suo interno delle sezioni, che costituiscono raccolte di materiali classificabili come dispute o miracoli o parabole o detti, ma oltre a ciò è difficile andare.

È significativo, tuttavia, come il primo atto di Gesù sia la predicazione, quale seme originario e indispensabile, da cui dipende la fede e con questa il discepolato e l'intera chiesa (Rm 10,14-17); mentre il suo secondo atto, conseguente al primo, è la costituzione del primo gruppo di discepoli, posto a fondamento della comunità credente e sui quali egli ha un suo progetto: “Orsù, dietro di me, e farò che voi siate fatti pescatori di uomini”. Due atti che narrativamente sono giustapposti l'uno accanto all'altro e tra loro in qualche modo associati, dando in tal modo l'idea come Parola e chiesa, siano il binomio su cui poggia l'ecclesiologia di Marco, che ha una forte impronta missionaria, caratterizzata dai continui movimenti su cui è intessuto l'intero racconto marciano14.

Ed è questo il senso del breve racconto della prima chiamata di quattro fratelli dediti alla pesca. Un'attività verosimile per chi abita in riva al lago e vive dei suoi frutti, che qui, tuttavia, assume un senso metaforico, in relazione alla futura attività ecclesiologica, che le viene assegnato dal v.17. Tutti sono pescatori, ma diverso è il momento in cui essi vengono colti da Gesù: i primi due sono intenti a pescare; i secondi due sono intenti a riparare le reti, per renderle disponibili per una nuova pesca. Tutti quattro i fratelli si trovano nella barca, ma diversa è la loro posizione e la loro attività, benché tutta la loro attività sia finalizzata alla pesca. Ai primi due è stata impartita la chiamata, seguita dal progetto in cui erano fin da subito inseriti (v.17), e sarà da qui che uscirà Pietro; mentre per i secondi due tutto si riduce ad una semplice chiamata (v.20a), benché identica sia stata la risposta. Già fin da subito si stanno delineando le diverse posizioni e i diversi livelli di responsabilità legati alla comune attività di pesca missionaria. Se, infatti, è indispensabile annunciare, è anche necessario chi sa accogliere l'annuncio, elaborarlo, farlo crescere, conservandone l'originale efficacia, chi, insomma, ha cura dell'annuncio e delle sue conquiste, generando in tal modo al proprio interno altre capacità di annuncio.

Lo schema narrativo costruito all'interno dei vv.16-18, molto semplice e poco elaborato sia nella sua dinamica narrativa che nel linguaggio, che comunque molto efficace, viene sostanzialmente doppiato nei successivi vv.19-20: Gesù vede e chiama, a cui segue l'abbandono della propria attività e la sequela.

Un breve racconto in cui si impone la figura di Gesù con un'austera autorità, che sembra dominare gli eventi e gli uomini. Non vi è alcun dialogo e nessun rapporto tra Gesù e i quattro fratelli, se non un perentorio invito a seguirlo, che si attua prontamente, senza alcun commento da parte degli interessati, come se fosse la cosa più ovvia e naturale del mondo abbandonare tutto, ogni sicurezza, per seguire il primo sconosciuto che passa per strada. Benché l'incongruenza della scena sia evidente e strida da un punto di vista narrativo, tuttavia essa si giustifica se si entra nella logica della potente efficacia della Parola, che al suo risuonare produce ciò che dice. Lo si è visto con quei due “™gšneto” (eghéneto) riferiti all'accadere dell'evento Giovanni al v.4 e dell'evento Gesù al v.9, dipendenti e conseguenti alla parola dei profeti il primo (vv.2-3) e a quella di Giovanni il secondo (vv.7-8). Due eventi che si sono storicamente attuati al suono della Parola. Non fa eccezione questo breve racconto, dove il suono della Parola produce con efficacia ciò che dice: “Seguitemi” e ciò avviene. Parola ed evento che richiama il primo atto creativo di Dio: “Sia la luce! E la luce fu” (Gen 1,3). Una Parola potente e proclamata con autorità e che lascia sbalorditi gli ascoltatori, preciserà subito il v.22, quasi a voler in qualche modo giustificare quanto era appena accaduto nel racconto della chiamata. Lo stesso schema di chiamata verrà applicato per quella di Levi, dove il commando “Seguimi” produce l'evento della sequela: “E levatosi, lo seguì” (2,14).

Commento ai vv.16-20

Il v.16 si apre con una nota geografica di rilievo, poiché indica l'area attorno alla quale si svolgerà l'intera attività galilaica di Gesù, che vedrà il lago15 di Galilea16 quale protagonista di numerosi racconti presenti in questa prima ampia sezione, che occupa i capp. 1,1-9,50: “E passando presso il mare della Galilea”. Se quel “passando”, da un punto di vista narrativo dice soltanto il muoversi di Gesù, che, quasi per caso, incappa in questi pescatori, tuttavia ad un diverso livello di lettura, questo “passare” di Gesù evidenzia, da un lato, la sua attività missionaria, che rispecchia quella dei primi predicatori itineranti; dall'altro, ad un livello superiore, teologico, si può intravvedere in quel “passare” dell'evento Gesù, qualificato quale “Figlio del Padre, ripieno di Spirito Santo” (v.10), in cui il Padre si riconosce ed opera (v.11), come il ritorno di Dio in mezzo agli uomini e il suo muoversi in mezzo a loro, dopo il dramma del Paradiso Terrestre, come la sua volontà salvifica di incontrarli, tendendo loro nuovamente la mano e indicando in suo Figlio, in quel “ascoltatelo” (9,7), la via del ritorno al Paradiso perduto, quella stessa dimensione divina in cui l'uomo era stato generato da Dio, a sua immagine e somiglianza (Gen 1,26-27) e da cui è drammaticamente e tragicamente uscito (Gen 3,16-24). Ora, Dio è ritornato in mezzo agli uomini a riprendersi ciò che gli era da sempre appartenuto.

Il suo passaggio avviene nei pressi del “mare di Galilea”, così genericamente definito anche da Mt 4,18; 15,29 e Gv 6,1, dove però precisa, che si tratta del “mare di Tiberiade”: “Dopo questi fatti, Gesù andò all'altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberiade”; mentre in 21,1, senza altro precisare lo definisce direttamente “mare di Tiberiade”; Lc 5,1, invece, con maggiore precisione geografica, lo definisce “lago di Gennesaret”. Sia Tiberiade, la città costruita da Erode Antipa in onore del suo protettore Tiberio (14-37 d.C.), che Gennesaret, l'antica Kinneret, citata in Nm 34,11; Dt 3,17 e Gs 13,27, sono città poste sul lato ovest del lago, dalle quali, a seconda degli interessi o delle informazioni degli stessi evangelisti, trae la sua denominazione.

L'appellativo di mare, che Lc 5,1 definisce correttamente lago, “l…mnh” (límne, lago), anziché “q£lassa” (tzálassa, mare), va compreso all'interno della lingua ebraica, povera di termini, per cui ogni bacino che si presenti con una certa dimensione di ampiezza o di vastità è definito con il termine generico “Yam”, mare. Similmente con tale appellativo viene chiamato in Ger 51,36 il fiume Eufrate e similmente in Na 3,8 viene definito il Nilo.

Nel suo passare presso il “mare della Galilea”, Marco precisa che Gesù “vide”. Il rilievo che qui fa Marco circa il vedere di Gesù, dice l'importanza di questo vedere, che si ripeterà subito dopo al v.19 per gli altri due fratelli, Giacomo e Giovanni, e in 2,14 per Levi e così pure nel racconto del paralitico, dove Gesù “vede” la fede di coloro che glielo hanno portato davanti (2,5). Si tratta, dunque, di un vedere che penetra nell'animo umano, che ne sa cogliere la spiritualità e la disposizione; un vedere che equivale ad una scelta che Gesù opera su quelle persone e, quindi, una loro elezione, che comporterà, ipso facto, una separazione da tutto ciò che è mondano e, di conseguenza, ad una loro implicita consacrazione, che significa un riservare per Dio e al suo disegno di salvezza quelle persone su cui si è posato lo sguardo elettivo di Gesù.

Simone e Andrea, il primo è un nome di derivazione ebraica, forma tardiva e contratta del nome Simeone; il secondo, invece, è di derivazione greca e testimonia il profondo livello di ellenizzazione che aveva subito l'intera Palestina. Entrambi i fratelli sono colti nel pieno della loro attività lavorativa, mentre stanno gettando le reti, precisando che “erano infatti pescatori”. Una puntualizzazione che suona come una sorta di tautologia, ma, nelle logiche narrative, funge da preambolo al successivo v.17.

Il v.17 è scandito in due parti tra loro contrapposte: da un lato, l'esortazione secca, perentoria e autoritaria, che non dà spazio a repliche e nel contempo dà un taglio netto al presente e al passato dei due fratelli, qui e ora: “Orsù, dietro di me”, in cui si prospetta la sequela; dall'altro, con quel verbo al futuro “vi farò diventare” dice tutto lo scarto tra ciò che erano e sono e quelli che saranno, lasciando tralucere in quel “diventare” un lungo cammino di trasformazione interiore, dove il loro lavoro di pescatori viene sublimato in una pesca di uomini, in cui si prospetta la futura attività missionaria della chiesa.

Il v.18 si apre con l'espressione caratteristica di Marco, che ricorre ben 41 volte nel suo vangelo17, “E subito”, con cui spesso introduce le sue pericopi o le sue unità narrative, creando una sorta di continuità, ma nel contempo di stacco con quella precedente. Tuttavia, in questo versetto essa assume un significato del tutto particolare ed esprime la potente efficacia della Parola creatrice, in cui la stretta sequenzialità tra il dire e l'accadere di ciò che è detto richiama l'azione creatrice di Dio, dove al suono della Parola, “E Dio disse”, segue l'immediata attuazione di ciò che viene detto. Non fa eccezione neanche questo v.18 dove si assiste ad una sorta di nuova creazione, una sorta di rigenerazione di questi uomini investiti dalla Parola e la cui trasformazione è insita in quel “vi faro diventare”.

Ciò che accade “subito” è il lasciare le reti, che dice lo stacco netto con il loro passato, per dare spazio al loro nuovo futuro, racchiuso tutto in quel “lo seguirono”, che dice il nuovo inizio; l'inizio di un cammino di trasformazione, di una nuova vita generata dalla Parola accolta.

Lo schema narrativo viene ripetuto, con lo stesso significato, anche ai vv.19-20 per la chiamata degli altri due fratelli Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che lavoravano nell'impresa paterna; e il lavoro non doveva andare loro male se con loro c'erano anche dei salariati. Sono di questi due che Mc 3,17 riporterà il loro soprannome: “Boanèrghes, cioè figli del tuono”, che lascia trasparire il loro carattere turbolento o forse troppo predisposto alla critica. Sono sempre loro che in 10,35-37, con faccia tosta si presentano a Gesù chiedendogli di poter occupare posti di privilegio nella sua gloria, tra lo scandalo e l'indignazione degli altri, che si sono visti subdolamente defraudati dei loro sogni segreti (10,41). E sono sempre loro che nel racconto lucano invocano dal cielo un fuoco che bruci i samaritani, che si erano rifiutati di accogliere Gesù, perché diretto a Gerusalemme (Lc 9,53-54).

Si viene in tal modo a costituire il primo nucleo apostolico ed ecclesiale attorno a Gesù. Ed è significativo come già al successivo v.21 non si dica che Gesù “entra” a Cafarnao, ma “Entrano a Cafarnao”, indicando la solidarietà che si sta creando tra Gesù e i suoi, che, man mano che il racconto procede, apparirà sempre più evidente.

Un sabato a Cafarnao (vv.21-45)


Testo a lettura facilitata (vv.21-45)

Un insegnamento fatto con autorità (vv.21-22)

21- Ed entrano a Cafarnao; e subito, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava.
22- E restavano sbalorditi per il suo insegnamento; insegnava loro, infatti, come uno che ha autorità e non come i scribi.

e un esorcismo (vv.23-28)

23- E subito c'era nella loro sinagoga un uomo in uno spirito impuro e gridò
24- dicendo: <<Che cosa (c'è) tra noi e te, Gesù Nazareno? Venisti per distruggerci? So chi tu sei, il Santo di Dio.
25- E Gesù lo rimproverò dicendo: <<Sta zitto ed esci da lui>>.
26- E malmenandolo e gridando con grande voce, lo spirito immondo uscì da lui.
27- E stupirono tutti quanti così che discutevano tra loro dicendo: <<Che cos'è questo? Un inaudito insegnamento (fatto) con autorità; e comanda agli spiriti immondi, e gli obbediscono>>.
28- E subito la sua fama uscì ovunque, in tutta la regione intorno della Galilea.


Dalla sinagoga alla casa di Pietro (vv.29-31)

29- E subito, usciti dalla sinagoga, andarono nella casa di Simone e di Andrea con Giacomo e Giovanni.
30- Ora, la suocera di Pietro giaceva febbricitante, e subito gli dicono di lei.
31- E avvicinatosi, presa(le) la mano, la sollevò; e la febbre la lasciò, ed (essa) li serviva.


Dalla casa di Pietro si irradia la salvezza (vv.32-34)

32- Fattasi sera, allorché tramontò il sole, portarono a lui tutti quelli che stavano male e gli indemoniati;
33- e tutta l'intera la città si era radunata presso la porta.
34- E curò molti che stavano male per malattie di svariata specie, cacciò molti demoni, e non lasciò parlare i demoni, poiché lo conoscevano.


Dalla casa di Pietro oltre Cafarnao, ovunque si diffonde l'annuncio (vv.35-39)

35- E di mattino, a notte fonda, alzatosi, uscì e se ne andò in un luogo deserto e la pregava.
36- E lo insegui Simone e quelli con lui,
37- e lo trovarono e gli dicono che tutti ti cercano,
38- e dice loro: <<Andiamo altrove, nei villaggi vicini, affinché anche là predichi; per questo, infatti, uscii.
39- E andò predicando nelle loro sinagoghe nell'intera Galilea e scacciando i demoni.


. e dall'annuncio la salvezza (vv.40-45)

40- E viene verso di lui un lebbroso supplicandolo [e cadendo in ginocchio] e dicendogli che se vuoi puoi purificarmi.
41- E, mosso a compassione, stesa la mano, lo toccò e gli dice: <<Voglio, sii purificato>>.
42- E subito la lebbra se ne andò via da lui, e fu purificato.
43- E rimproveratolo, subito lo scacciò
44- e gli dice: <<Vedi di non dire niente a nessuno, ma va e mostrati al sacerdote e presenta ciò che prescrisse Mosè a riguardo della tua purificazione, a testimonianza per loro.
45- Ma quello, uscito, cominciò a predicare molte cose e a divulgare la parola, cosi che egli non poteva più entrare manifestamente nella città, ma era fuori presso luoghi deserti e andavano a lui da ogni parte.


Note generali

Sotto il titolo “Un sabato a Cafarnao” sono raggruppate un insieme di unità narrative tra loro concatenate secondo una logica di sviluppo narrativo, scandito e qualificato dalla titolatura, sopra riportata nella sezione “Testo a lettura facilitata”, che introduce ogni singola unità narrativa, così da creare una sorta di continuum narrativo e teologico, dove la potenza della Parola e la sua efficacia vengono attestate dai racconti di guarigione ed esorcismi, che seguono ogni annuncio o insegnamento. Il raggruppamento di tutte queste unità narrative è incluso da due verbi di movimento posti al v.21, dove Gesù e i suoi entrano in Cafarnao, e ai vv.35-36 dove Gesù e i suoi escono, probabilmente da Cafarnao, anche se non viene precisato da dove escono, considerato, poi, che in 3,1 entrano nuovamente a Cafarnao. Viene in tal modo a costituirsi una sorta di contenitore che acquista una logica narrativa che sottende tutte le attività svolte a Cafarnao, omogeneizzate temporalmente dal giorno di sabato , iniziatosi in sinagoga (v.21b) e terminato al calar del sole con guarigioni ed esorcismi (vv.32-34).

Per cui si avrà che:

  1. Gesù entra nella sinagoga di Cafarnao dove somministra il suo insegnamento, che viene riconosciuto di una nuova e sconcertante autorevolezza, ben diversa da quella degli stessi scribi (vv.21-22);

  2. Alla potenza della parola proclamata fa seguito un esorcismo, che testimonia il livello di potenza e di efficacia della parola e come da questa scaturisca la salvezza per l'uomo (vv.23-28);

  1. Una svolta decisiva avviene allorché Gesù esce dalla sinagoga, quale luogo di culto e di ritrovo del giudaismo, per entrare nella casa di Pietro, figura della nuova comunità credente, dove la sola presenza di Gesù guarisce la suocera di Pietro, che si mette a servirli (vv.29-31);

  2. E la presenza di Gesù nella casa di Pietro fa accorrere una moltitudine di persone affette da ogni sorta di malattia e di possessione demoniaca e Gesù li guarisce tutti; metafora delle moltitudini che accorreranno nella chiesa, dove trovano la loro guarigione (vv.32-34);

  3. Dalla casa di Pietro, dove ognuno che entra o lì vi accorre trova la sua salvezza, la parola esce e si espande ovunque nella Galilea, preludio dell'espansione missionaria della chiesa, che è chiamata ad uscire dalle proprie mura per abbracciare l'intero mondo che le si muove e vive attorno (vv.35-39);

  4. Secondo lo schema, parola-guarigione, segue all'attività predicatoria di Gesù per l'intera Galilea accompagnata da esorcismi (v.39) e dalla guarigione di un lebbroso, metafora dell'uomo degradato dal peccato e risanato dalla parola annunciata e accolta (vv.40-45).

Un insegnamento fatto con autorità (vv.21-22)

Il v.21 apre una nuova fase dell'attività pubblica di Gesù, caratterizzata da predicazione, sovente accompagnata da esorcismi e guarigioni, creando una sorta di binomio inscindibile tra annuncio della parola e guarigione, quasi a dire che l'annuncio accolto guarisce chi lo accoglie.

Per la prima volta Gesù qui compare accompagnato dai suoi primi quattro discepoli. Lo lascia intendere il verbo al plurale: “Entrano” a Cafarnao. Questa è la cittadina, prospiciente sul lago di Galilea, da dove ha inizio l'attività pubblica di Gesù e dove Gesù, secondo Mt 4,13, stabilisce il suo quartiere generale e dove ritorna sovente dopo il suo itinerare per la Galilea (2,1; 9,3): “e, lasciata Nazareth, venne ad abitare a Cafarnao, presso il mare, nel territorio di Zàbulon e di Nèftali”. È qui che abita Pietro ed è qui che Gesù ha scelto i suoi primi quattro discepoli, sul lago mentre erano intenti ad attività di pesca. La scelta di abitare a Cafarnao e di iniziare da qui l'attività pubblica non è causale. Cafarnao, infatti era una cittadina di frontiera abitata prevalentemente da Giudei e sorgeva su di un'arteria che immetteva sulla “via del mare”, che collegava la Siria con l'Egitto e, quindi, luogo ad alto transito di persone e carovane, luogo ideale per incontrare persone, fare affari e, di conseguenza, anche predicare.

Se la prima parte del v.21 si apre con una segnalazione di tipo geografico, che circoscrive storicamente l'agire di Gesù, la sua seconda parte introduce il lettore nel pieno della sua attività missionaria, che incomincia dalla sinagoga: “e subito, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava”. Se da un lato quel “e subito”, che caratterizza il primitivo modo di esprimersi di Marco, dall'altro dice il potente dinamismo missionario che muove Gesù. Il suo primo incontro è con ciò che rappresenta il mondo giudaico per eccellenza nell'epoca post-babilonese (538 a.C.): la sinagoga18, sorta durante il periodo dell'esilio babilonese (587-538 a.C.) per surrogare il Tempio di Gerusalemme, diventa ora il luogo centrale del ritrovarsi di Israele, il cuore della comunità, per celebrare il proprio culto fatto di letture, di spiegazioni e commenti e di preghiere, ma non di sacrifici, riservati questi al solo Tempio di Gerusalemme. Ma al di là del culto e del servizio liturgico in genere, la sinagoga diviene anche il cuore pulsante della comunità giudaica locale; il luogo del suo ritrovarsi e della propria via sociale: qui si insegnava la Torah ai bambini, qui avvenivano avvenivano i processi, qui si infliggevano le pene, qui avvenivano le assemblee cittadine. Era una sorta di casa del popolo. Il termine stesso, del resto, “sunagwg»” (sinagoghé) significa “riunione, adunanza, raccolta” e traduce l'ebraico “qāhāl” che significa “riunione plenaria” del popolo, a cui si aggancia anche il termine greco “kklhsa” (ekklesía) che, parimenti al termine “sunagwg»” (sinagoghé), significa assemblea, adunanza, riunione. Da qui deriva la nostra “chiesa”, intesa quale luogo di culto dove si raduna il popolo cristiano, il quale, ai suoi inizi, ha avuto come struttura comunitaria proprio quella giudaica della sinagoga e su questa si sono strutturate le prime comunità credenti. La sinagoga, pertanto, era il centro vitale della comunità giudaica, sia sociale che religioso. Ed essere espulsi dalla sinagoga significava in buona sostanza una condanna ad una morte sociale e religiosa. Una pena con la quale le autorità giudaiche minacciavano coloro che avessero riconosciuto Gesù come il Cristo (Gv 9,22; 12,42).

Gesù, dunque, come suo primo atto missionario, entra nella sinagoga, nel cuore della vita del giudaismo, ma ancora di più vi entra in giorno di sabato, quello più sacro della settimana, il settimo giorno, quello in cui Dio “portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro” (Gen 2,2). E Gesù entrando in questa sinagoga in giorno di sabato, riprende in qualche modo quella prima creazione che Dio portò a termine, per iniziarne una nuova, che sta per nascere, anche questa come quella, dalla Parola e che troverà la sua pienezza nella risurrezione; mentre la vecchia creazione verrà distrutta sulla croce, dove il Gesù giovanneo attesterà: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. Lo ricorderà ancor prima Paolo in Rm 6,6: “Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato”. La vecchia creazione cessa, dunque, sulla croce e ne nasce una nuova nella risurrezione, preannunciata da Ap 21,5, che a sua volta si richiama a Is 43,19: “E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>”.

E in questa sinagoga in giorno di sabato, il giorno in cui Dio portò a compimento la prima creazione, Gesù farà risuonare, ora, come allora, la sua parola creatrice, che dà inizio ad una nuova creazione, di cui la prima era, in qualche modo, figura di questa, che è, a sua volta, preparatrice e anticipatrice di una terza creazione, quella dei cieli nuovi e della terra nuova, vaticinati da Is 65,17 e testimoniati da Ap 21,1, e in cui tutto verrà definitivamente ricondotto in Dio, così che Dio, come ai primordi della creazione e dell'umanità, sarà nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,26-28).

Il v.22 presenta la carta d'identità di questa Parola, che al suo risuonare crea stupore, sbalordimento, che dicono la reazione dell'uomo di fronte all'irrompere del divino nel suo mondo. C'è, dunque, qui una sorta di teofania, che viene attestata nella seconda parte del v.22, dove si testimonia l'autorevolezza di questa Parola, che non ha eguali qui in mezzo agli uomini, neanche tra i più dotti nelle cose di Dio, gli scribi.

e un esorcismo (vv.23-28)



Note generali

La potenza della Parola che si esprime con autorità e autorevolezza e che non ha eguali tra gli uomini, si manifesta ora in un esorcismo, che dice la liberazione dell'uomo dal potere di satana per mezzo della Parola, che lo rigenera a Dio. Numerosi sono in Marco le guarigioni per esorcismo e i sommari che riguardano gli esorcismi19, che vengono legati all'annuncio della Parola (v.39). Perché l'autore è così sensibile al tema della liberazione dell'uomo dal potere di satana? Il motivo va ricercato al v.14a dove si attesta che “il tempo è compiuto e si è avvicinato il regno di Dio”. La compiutezza del tempo trova la sua attuazione nell'evento Gesù con il quale si è avvicinato all'uomo il Regno di Dio. Lc 11,20, in termini più espliciti e diretti, legherà il regno di Dio alla cacciata di satana, che avviene con il dito di Dio, cioè con la potenza del suo Spirito: “Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio”. Gli esorcismi, pertanto, acquistano negli evangelisti e in particolar modo in Marco, che per primo lo ha capito, il significato dell'affermarsi del regno di Dio in mezzo agli uomini. In altri termini, Dio, in Gesù, è venuto a riprendersi, a danno di satana, ciò che gli apparteneva fin dalla creazione, riaffermando in mezzo agli uomini la sua autorità e il suo potere sovrano, che si esprime attraverso l'esorcismo. E sarà proprio questo che il diavolo dirà a Gesù in questo primo esorcismo: “Che cosa (c'è) tra noi e te, Gesù Nazareno? Venisti per distruggerci? So chi tu sei, il Santo di Dio”. Gesù, dunque, è la rovina del diavolo, che vede ora crollare il suo potere sull'uomo. E lo scontro tra Gesù e satana verrà messo in luce in 3,22-27, dove si disquisirà proprio sul potere di Gesù e su quello di Beelzebul. Uno scontro che, secondo il racconto lucano, avrà il suo epilogo sul Golgota (Lc 4,13b).

È, dunque, significativo come il primo miracolo di Gesù sia proprio un esorcismo. Ma qui è ancor più significativo perché questo avviene in una sinagoga e in un giorno di sabato e, quindi, nel cuore stesso del giudaismo, dove il potere di satana si esprime nell'incapacità del giudaismo di saper cogliere la vera natura della Torah e il vero senso dell'Alleanza, limitandosi ad una mera esecuzione formale di quanto prescritto dalla Legge mosaica, ritenendo che tale formalismo legale possa soddisfare le esigenze dell'Alleanza (Es 24,7). La cosa verrà duramente denunciata sia dai profeti (Is 1,10-20; 29,13) che dallo stesso Gesù (Mt 23,1-39), che ai profeti si richiama (Mt 15,7-9; Mc 7,6-7). Un potere di satana sugli uomini, che si manifesta nei sordi e nei ciechi guariti da Gesù, metafora dell'incapacità dell'uomo di saper ascoltare la Parola e di saperla comprendere. Incapacità, in ultima analisi, di sapersi relazionare con Dio, come nel racconto-metafora della guarigione del paralitico. La prima azione che Gesù compie su di lui è quello di rimettergli i peccati, cioè liberarlo da tutte quelle catene, i peccati, che lo tengono legato a satana e sono il frutto del potere di satana sull'uomo.

La pericope è scandita in tre parti: a) il racconto dell'esorcismo (vv.23-26); b) il commento di stupore da parte degli astanti (v.27); e c) il commento dell'autore (v.28).

Commento ai vv.23-28

Il v.23 apre il racconto con l'avverbio temporale “subito”, che crea un inatteso squarcio nel cuore del giudaismo: proprio all'interno della sinagoga, nel giorno più sacro della settimana, il sabato, si scopre un indemoniato. Marco definirà questo indemoniato non come posseduto da un demonio, ma come un uomo “in uno spirito impuro”. Quindi non è satana nell'uomo, ma è l'uomo che è avvolto nelle spire di satana e quindi in suo pieno potere. Significativo è come Marco definisce in genere il diavolo, come “pneàma ¢k£qarton” (pneûma akátzarton), cioè “spirito impuro” dove quel “a” privativo, posto davanti al termine “kátzarton”, dice che quello spirito è spogliato di quella purezza che caratterizza la santità stessa di Dio. Non è un caso, infatti, che questo spirito impuro sveli Gesù come il “Santo di Dio”, cioè che appartiene in modo eccellente al mondo e alla vita stessa di Dio, contro il quale, questo spirito, spogliato della santità di Dio, si contrappone per sua natura.

Il v.24 è scandito in tre parti: la prima misura tutta a distanza che intercorre tra lo spirito impuro e Gesù, che qui è definito nella sua dimensione storica data sia dal suo nome, Gesù, che dalla sua provenienza geografica: Nazareno. L'accenno storico posto sulla persona di Gesù non è casuale, ma punta a creare un forte contrasto tra questo Nazareno e la sua la vera natura, il cui Mistero viene svelato dal diavolo, che definisce questo uomo come il “Santo di Dio”. Un'espressione quest'ultima che se, da un lato, dice l'appartenenza di Gesù al mondo di Dio, che per sua natura è il Santo per eccellenza20, da cui ogni altra santità deriva21; dall'altro si può ravvisare in questo “Santo di Dio” un'allusione al “Santo” con cui gli ebrei indicavano il luogo della presenza di Jhwh sull'arca dell'alleanza22, il Kadosh ha kedoshim. Il “Santo dei santi” che qui, in Gesù diviene il “Santo di Dio”, il luogo per eccellenza della presenza di Dio. Non è un caso questa allusione se si pensa che alla morte di Gesù, il velo che separava il Santo23 dal Santo dei santi (Es 26,33) si squarcerà (15,38), segnando la fine del culto giudaico, poiché un nuovo “Kadosh ha kedoshim” e un nuovo Tempio verranno inaugurati con la risurrezione: “Non vidi alcun tempio in essa perché il Signore Dio, l'Onnipotente, e l'Agnello sono il suo tempio” (Ap 21,22).

In questo potente ambito di Santità e di Sacralità, che lascia comprendere tutta la distanza che si frappone tra questo spirito impuro e il Gesù di Nazareth, racchiuso nel suo Mistero, si comprende anche l'accusa che il diavolo lancia contro Gesù: “Venisti per distruggerci?”, che lascia intendere come la venuta di Gesù, contestualizzata nell'ambito degli esorcismi, sia la venuta di un Dio che è ritornato in mezzo agli uomini per riprendersi ciò che gli appartiene da sempre, sottraendolo al potere di satana, che tiene avvolto nelle sue spire l'uomo, esercitando il suo potere su di lui e tenendolo schiavo e schiavizzato nel suo regno di morte, che si esprime nel peccato. Gesù, azione e potenza del Padre, è venuto a rompere queste catene di schiavitù e riportare l'uomo nella dimensione di Dio, da cui era uscito tragicamente.

Il v.25 mostra tutta l'autorevolezza della Parola, che nella semplicità del suo dire sprigiona la sua potenza creatrice, operando con efficacia: “Sta zitto ed esci da lui”. Doppio è il comando: “Sta zitto” e “esci da lui”. Quanto al primo, questo dice, da un lato, il respingimento dell'atto aggressivo di satana nei confronti di Gesù; dall'altro è il tentativo di sventare la rivelazione del Mistero che si nasconde nella persona di Gesù.

Questo tentativo da parte di Gesù di zittire i diavoli che rivelano tutti immancabilmente la sua figliolanza divina o, comunque, la sua divinità e il Mistero che vive e si agita in lui; così come l'imposizione del silenzio ai risanati, è stato etichettato dagli studiosi come il “segreto messianico”. Personalmente ritengo che se è vero che, da un lato, Gesù, di volta in volta, zittisce e impone il silenzio a chi ha scoperto la sua vera identità di Cristo e di Figlio di Dio, dall'altro, credo anche che non esista alcun “segreto messianico”, a cui attribuire una valenza teologica o cristologica o anche semplicemente pedagogica, nel senso del tracciare un cammino di graduale scoperta dell'identità di Gesù. Il “segreto messianico”, cioè il silenzio che Gesù impone sulla sua persona e sulla sua identità, risulta essere sempre un tentativo mal riuscito, poiché Gesù interviene sempre dopo che gli spiriti impuri o Pietro hanno confessato il Mistero della sua persona, mentre gli ammalati risanati proclamano l'evento della loro guarigione a tutti, divenendo in qualche modo testimoni e seguaci di Gesù. Comunque, o in un modo o in un altro, questo silenzio imposto non riesce mai a contenere la discrezione e il riserbo su Gesù. Di conseguenza, ritengo che tutta questa “segretezza”, che Marco crea intorno alla figura di Gesù, altro non sia che un escamotage letterario per creare suspense e, quindi, accentrare l'attenzione del lettore-ascoltatore sulla persona di Gesù. È indubbio che Marco sia un abile narratore e conosca bene l'arte del narrare e lo sa dimostrare anche in queste cose.

Quanto al secondo comando “esci da lui”, si esprime in tutta la sua semplicità: soltanto tre parole; ma, considerati gli impressionanti effetti descritti al successivo v.26, dice tutta la potenza di quella Parola, che già era risuonata, quando ancora Dio aleggiava sopra le acque del caos primordiale, riuscendo a creare un ordine nuovo, accendendo in mezzo ad esso la prima luce divina della creazione con una semplicità sconvolgente: “Sia la luce” (Gen 1,3). Anche qui, come ora, soltanto tre parole: “esci da lui”.

Il v.27 riprende qui lo stupore che il manifestarsi di questa Parola aveva già provocato al v.22 e lo amplia, completando l'identità di questa Parola, aggiungendo che essa ha potere sugli spiriti impuri. Viene in tal modo sottolineato come il potere di questa Parola è di fatto un potere divino, il quale, così come è avvenuto nei primordi della creazione, mette ordine al caos originale, costruendoci sopra una nuova creazione, avvolta dalla luce divina, ora, come allora. Come dire che l'uomo viene liberato dal potere degli spiriti impuri dalla potenza della Parola accolta e per suo mezzo, rigenerato, quale nuova creazione, nuovamente a Dio. L'uomo, dunque, nuova creatura, generato allora e rigenerato ora sempre dal risuonare della stessa Parola.

Il v.27, come il v.22, si apre sottolineando lo stupore che riecheggia in quel “discutevano”, posto all'imperfetto indicativo, dando l'idea di un'eco che non sembra più finire e che al successivo v.28 dilaga “ovunque, in tutta la regione intorno della Galilea”. Uno stupore che dice, ancora una volta, la reazione dell'uomo all'irrompere dell'azione divina nella sua dimensione spazio-temporale. Il manifestarsi pertanto della Parola, il suo riecheggiare in mezzo agli uomini diviene in realtà una rivelazione divina, una vera e propria teofania, che viene rimarcata da quel interrogativo che segue: “Che cos'è questo?” in cui il “questo” viene subito specificato. Si tratta, da un lato, di un autorevole insegnamento mai udito prima e che, quindi, non ha il pari tra gli uomini, lasciando intuire in ciò come esso abbia un'origine divina; dall'altro, un potere che domina anche gli spiriti impuri, lasciando tralucere che un altro potere si sta sostituendo a quello di satana: quello del Regno di Dio.

Si noti l'abilità narrativa di Marco che sa creare attorno alla persona di Gesù, senza mai nominarlo, quasi a sottolinearne il Mistero, un grande interesse da parte del lettore, parlando di insegnamento inaudito, autorevole, fatto con autorità, potente da comandare agli spiriti impuri. Un manifestarsi di questo personaggio che crea una forte risonanza di sbalordimento e di stupore tra tutti e su cui pone un interrogativo che esalta ancora di più il Mistero e le caratteristiche di questo personaggio: “Che cos'è questo?”. Cosa starà mai succedendo? Allertando in tal modo l'attenzione del proprio lettore e stimolandone la curiosità e spingendolo ad andare avanti in una lettura che è sempre più avvincente.

Dalla sinagoga alla casa di Pietro (vv.29-31)

Note generali

La breve pericope in esame funge da contraltare al precedente racconto dell'esorcismo, avvenuto in sinagoga. Ci si trova di fronte a due luoghi diversi, collocati nel medesimo sacro contesto temporale del sabato: la sinagoga (vv.23-28) e la “casa di Simone”. In entrambi i racconti vi sono due diversi ammalati, ma molto simili tra loro: entrambi sono incapaci di qualsiasi relazione, paralizzati ne loro male endemico; l'uno, un uomo, avvolto nelle spire di uno spirito impuro; la seconda, una donna, che giace febbricitante, avvolta nelle spire di una febbre maligna. Entrambi guariti, ma con due esiti completamente diversi: il primo è liberato dallo spirito impuro, ma ancora immobilizzato dai vincoli del sabato, così che, a differenza della donna, non si pone a servizio di Gesù; della seconda si dice che prese una posizione positiva, mettendosi a servizio di Gesù e dei suoi. Nel primo episodio lo strumento liberatore fu la parola; nel secondo nessuna parola, ma il tocco risanatore di Gesù, che dice l'esperienza di lui, che la spinge poi a mettersi al suo servizio, superando le imposizioni sabbatiche.

La diversità dei due racconti è dettata dalla diversità dei due luoghi in cui si collocano i due ammalati, pur essendo entrambi inquadrati all'interno del medesimo spazio temporale: la sinagoga, cuore del giudaismo; la casa di Simone, dove il termine “casa”, che ricorre 18 volte in Marco, diviene la metafora della comunità credente. Qui, in particolar modo si è nella “casa di Simone”, cioè nel cuore della chiesa nascente, di cui Marco vede già in questo Simone il futuro Pietro (3,16) e dove si trovano Gesù con gli altri discepoli.

La struttura del racconto è molto semplice: il v.29 introduce il lettore in nuovo contesto; il v.30 presenta lo stato di sofferenza della donna; e il v.31 la guarigione della stessa con la sua pronta risposta: il suo porsi al servizio.

Commento ai vv. 29-31

Il v.29 si apre con l'espressione cara a Marco con la quale l'evangelista suole introdurre nuove unità narrative: “E subito”. Vi è qui un cambio di scenario: dalla sinagoga alla casa di Simone. L'uscire di Gesù dalla sinagoga per entrare nella casa di Simone dice il passaggio di Gesù dal giudaismo, immobilizzato dal suo legalismo, alla nuova realtà credente. Un passaggio che avviene “subito”, cioè fin dall'inizio dell'attività missionaria di Gesù, qualificandola come una sorta di critica del giudaismo. Gesù non ci sta più a vivere e a sostenere un giudaismo, fondato sul legalismo e sulla pratica formale di un'Alleanza, che si esprime in una mera esecuzione di norme e regole che soffocano il vivo rapporto del credente con il suo Dio, perdendo di vista il senso autentico della norma, quale momento di riflessione e punto di orientamento esistenziale, riducendosi, invece, soltanto ad una regola del dover fare o non fare, lasciando completamente estraneo il cuore. Per ben due volte Ezechiele, in 11,19 e 36,26, attesterà l'azione rinnovatrice di Jhwh sul suo popolo: “Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne” e che troverà il suo riscontro nella cacciata dei venditori dal Tempio (11,15-17). Un gesto profetico ed emblematico che dice il tentativo di Gesù di rovesciare un culto ormai asfittico, fatto di continui quanto inutili sacrifici, soffocato da una ritualità vuota, perché non trovano posto nel cuore dell'uomo. Un gesto che viene significativamente preceduto dall'annotazione di quel fico ricco di fogliame, ma privo di frutti (11,12-14), metafora di un giudaismo ridondante nelle sue forme cultuali ed espressioni religiose, che si riduce tutto ad una gestualità esteriore senza toccare il cuore dell'uomo, senza rinnovarlo spiritualmente nei sui rapporti con Dio e con il prossimo. Sarà proprio questo il duro atto di accusa che lancerà Is 1,10-17 contro un culto a Dio non sostanziato dall'amore per il prossimo.

L'entrare di Gesù nella casa di Simone, che qui non è ancora definito Pietro, nome che comparirà per la prima volta soltanto in 3,16, dove Gesù costituirà ufficialmente il gruppo dei Dodici, dice l'iniziale costituirsi della prima comunità credente, raccolta attorno a Gesù. Una comunità credente che è qualificata da due elementi costitutivi: la “casa di Simone” dove si trova “Gesù” e con lui il primo nucleo fondante, formato dai primi quattro discepoli, il cui numero, quattro, dice simbolicamente l'universalità e la solidità24 della nascente comunità credente stretta attorno a Gesù.

Il v.30 presenta la situazione che viene trovata all'interno di questa casa di Simone: vi è una donna che “giaceva febbricitante”. Quel giacere, posto all'imperfetto indicativo, dice lo stato di persistente prostrazione in cui questa donna si trovava, priva di ogni speranza, divorata da una sorta di fuoco interiore, a cui sembra alludere il verbo “puršssousa” (piréssusa), che letteralmente significa essere nel fuoco. Questa è la condizione di coloro che sono nella “casa di Simone”, vista ancora come una sorta di prolungamento della sinagoga, appena lasciata. Infatti qui non siamo ancore nella “casa di Pietro”, ma soltanto di “Simone”; ma l'avvento di Gesù in essa trasforma chi vi “giaceva febbricitante” in un essere completamente nuovo e rigenerato, che superando i vincoli del sabato si mette subito a servire Gesù. Il verbo giacere, infatti, prelude in qualche modo al successivo verbo che gli si contrappone: “½geiren(égheiren, sollevò), un verbo tecnico che, all'interno delle prime comunità credenti, alludeva alla risurrezione di Gesù. Il flusso vitale, dunque, che da Gesù scorre nella donna è un flusso che genera vita e la rinnova completamente, richiamando in quel tocco vitale il simile racconto dell'emorroissa (5,25-34) o della figlia di Giairo, anche lei ritornata in vita grazie a questo tocco (5,41). Un tocco che dice l'esperienza salvifica di Gesù, che rigenera l'uomo a Dio.

Il v.30 si conclude con l'annotazione: “subito gli dicono di lei”, che dice la particolare attenzione che Gesù riserva “subito” a chi “giaceva” in quella casa di Simone. E gli effetti di questa attenzione vengono illustrati al successivo v.31, che descrive in modo particolareggiato questo atto di nuova vita, da cui è investito chi “giaceva”: “E avvicinatosi, presa(le) la mano, la sollevò”. Tre sono i movimenti che accompagnano questa risurrezione: l'avvicinarsi di Gesù a chi è in uno stato di prostrazione, che dice l'avvicinarsi di Dio, nella persona di Gesù, all'uomo prostrato dal peccato. Non è, dunque, l'uomo che si avvicina a Dio, ma questi si avvicina a lui, perché il suo connaturato stato di peccato lo rende incapace di avvicinarsi a Dio e di relazionarsi a lui in modo adeguato. Il secondo movimento è il “prenderle la mano”. Un gesto semplice che dice l'incontro di Dio con l'uomo, che in questo incontro fa l'esperienza salvifica di Dio, che si attua in quel “la sollevò”, il cui verbo si richiama alla risurrezione di Gesù, quasi a dire che il sollevarsi di questa donna che “giaceva” esprime la sua rigenerazione ad una nuova vita, la cui fonte stessa è nel Risorto. Un triplice movimento che racconta in modo semplice ed efficace, da un lato, il senso della missione di Gesù: reinfondere la vita stessa di Dio nell'uomo, la cui vita è degradata dal peccato; dall'altro il progetto stesso di Dio, che si realizza in Gesù, che diviene il suo spazio storico dove, in Gesù, egli tende ancora una volta la sua mano all'uomo, per risollevarlo dalla sua triste condizione, riconducendo in se stesso. È, in sintesi, lo schema stesso del progetto salvifico di Dio, che in Gesù si fa storia della salvezza.

La seconda parte del v.31 racconta il duplice effetto di questo incontro di Dio con l'uomo: “e la febbre la lasciò, ed (essa) li serviva”. Vi è in questa febbre che lascia la donna, che si incontra con Gesù, una sorta di esorcismo, che si richiama in qualche modo a quello avvenuto nella sinagoga, dove lo spirito impuro “malmenandolo e gridando con grande voce, lo spirito immondo uscì da lui” (v.26), quasi a dire che ogni male che colpisce l'uomo ha la sua radice profonda in satana. Ma l'incontro con Gesù e l'esperienza salvifica della sua parola e della sua persona liberano l'uomo dal potere del diavolo, che lo racchiude nelle sue spire, come l'uomo della sinagoga, che giaceva anche lui “in uno spirito impuro” (v.23); o lo rende incapace di risollevarsi verso il suo Dio, giacendo in uno stato di prostrazione esistenziale e spirituale, come la donna della casa di Simone. Ma se per chi è guarito nella sinagoga e in essa rimane non vi è alcun riscontro del beneficio ricevuto, se non per se stesso, l'effetto della liberazione dal potere demoniaco per chi è nella casa di Simone si traduce in un porsi al servizio di chi abita quella casa. Quella del servire era una funzione che caratterizzava i membri delle prime comunità credenti, tanto che si era creato un apposito ministero all'interno della chiesa, quello della diaconia (At 6,3-6). Un servizio che si esprimeva anche nel mettere i propri beni a disposizione della comunità stessa (At 4,32).

Dalla casa di Pietro si irradia la salvezza (vv.32-34)


Note generali

La pericope in esame è un sommario, una formula letteraria che caratterizza il racconto marciano. Sono sintesi di attività di guarigione o di esorcismo o della predicazione di Gesù, una sorta di promemoria per il lettore, che chiudono una sezione o ne preannunciano un'altra. Se ne contano sette e sono distribuiti tutti nella prima area narrativa, quella dell'attività galilaica di Gesù25. A questi si affiancano numerose altre annotazioni generiche, tutte variamente distribuite sempre nell'ampia sezione dell'attività galilaica di Gesù (1,14b-9,50) e servono ad orientare il lettore nell'ambito del racconto26.

Questo sommario si presenta particolarmente significativo perché si colloca a conclusione dei due racconti di esorcismo e di guarigione avvenuti di sabato, l'uno nella sinagoga (vv.23-28), l'altro nella casa di Simone (vv.29-31). Due diversi luoghi tra loro collegati dal passaggio di Gesù dalla sinagoga, metafora del giudaismo, alla casa di Simone, metafora della nuova comunità credente che si sta consolidando attorno a Gesù. Indicazioni queste che forniscono la chiave di lettura di questo sommario, che presenta una struttura a parallelismi concentrici in B), per cui si avrà:

A) Vengono portati da Gesù gli ammalati e gli indemoniati (v.32a);

B) l'intera città si raduna presso la porta della casa di Simone dove c'è Gesù (v.33);

A1) Gesù guarisce ogni specie di malattia e compie esorcismi (v.34)

A) e A1) si integrano tra loro e formano anche inclusione per complementarietà di azione: in A) vengono portati da Gesù ammalati e indemoniati e in A1) vengono tutti indistintamente risanati; mentre in B), posto centralmente e quindi la parte più importante secondo i canoni della retorica ebraica, si precisa che non sono solo ammalati e indemoniati che accorrono da Gesù, ma è l'intera città che si accalca alla porta della casa di Pietro, dove c'è Gesù, dando un tocco di universalità a questo accorre verso Gesù, che prelude in qualche modo all'accorrere delle genti nella chiesa nascente.

Il sommario si sviluppa su due elementi fondamentali e, come vedremo nel commento, tra loro complementari: da un lato, la nota temporale che avverte il lettore che il sabato è passato (v.32a); dall'altro, terminato il sabato, il gran accorre di gente verso Gesù (v.32b), via via sempre più crescente fino ad abbracciare l'intera città, che si accalca davanti alla porta della casa di Simone (v.33), dove Gesù guarirà tutti quanti indistintamente (v.34).

Commento ai vv.32-34

Il sommario si apre significativamente con una nota temporale: “Fattasi sera, allorché tramontò il sole” (v.32a). L'annotazione si riferisce alla conclusione del giorno del sabato, che terminava al calar della sera, intorno alle 18,00 circa, momento questo in cui si entrava nel nuovo giorno. Lo si evince anche dal grande movimento di persone, che la rigorosa osservanza del sabato aveva fin lì tenute confinate nelle proprie abitazioni. Non si poteva infatti lavorare in giorno di sabato ed anche gli spostamenti da un luogo all'altro erano limitati a non più di mille passi, all'incirca 800 mt. Ma questa nota temporale, inserita nel contesto di un Gesù che lascia la sinagoga per entrare con i suoi nella casa di Pietro, dice anche come questo sabato, in quanto istituzione giudaica, è ormai giunto alla fine. Lo lascia intendere non solo il giorno che declina, ma anche il consistente afflusso di persone che corrono sempre più numerose non più verso la sinagoga, ma verso Gesù e si accalcano alla porta della casa di Simone e qui vengono risanate. Vi è quindi anche qui, in parallelo a quello che è avvenuto per Gesù e i suoi, un passaggio dal sabato giudaico, che caratterizza il giudaismo, alla casa di Pietro dove si trova Gesù con i suoi, e qui tutti vengono indistintamente guariti. La salvezza, pertanto, non viene più dalla sinagoga o dal sabato, espressioni del giudaismo e della Legge mosaica, ma da Gesù, che si trova nella casa di Pietro e da qui si irradia universalmente verso tutti quelli che accorrono verso lui. Una universalità che è lasciata intendere dal v.33 dove si dice che “tutta l'intera la città” si era raccolta come in una sorta di grande assemblea radunatasi attorno a Gesù e che lascia intravvedere i grandi successi e le grandi espansioni di questa primitiva casa di Pietro, da cui si irradia la salvezza universalmente elargita a quanti vi accorrono (At 2,41.48; 6,7; 12,24; 13,49).

Dalla casa di Pietro oltre Cafarnao, ovunque si diffonde l'annuncio (vv.35-39)


Note generali

Il precedente sommario (vv.32-34), nel sintetizzare l'attività guaritrice di Gesù rivolta a tutti quelli che accorrevano a lui, sottolineava al v.33 l'universalità di questo accorre. Vi è ora, in questa successiva pericope in esame (vv.35-39) una continuità non solo temporale rispetto al precedente sommario (vv.32.35), ma anche dell'attività missionaria di Gesù, che da Cafarnao si estende ai vicini villaggi (v.38) e da questi in tutte le sinagoghe dell'intera regione della Galilea (v.39). Un'attività missionaria, quindi, espansiva, che si origina tutta nella e dalla casa di Simone, dove c'è Gesù con i suoi, preludio della chiesa nascente e della sua futura attività missionaria, che in breve tempo avrebbe conquistato l'intero impero romano.

Anche questa pericope, come la precedente, si sviluppa su di una struttura a parallelismi concentrici in C). Per cui si avrà che in A) Gesù, di buon mattino si alza per pregare (v.35), mentre in A1) Gesù amplia la sua attività missionaria a tutta la Galilea. Il rapporto tra i due punti, preghiera e missione in Gesù, sta nel fatto che la preghiera per Gesù non va colta come una recita di formule, ma come un intimo rapporto di comunione con il Padre, da cui trae la sua forza vitale per compiere la missione per la quale è stato mandato e che in qualche modo traluce dal v.38b in quel “per questo, infatti, uscii”.

In B) Pietro e quelli con lui seguono Gesù (v.36), mentre in B1) Gesù sollecita i suoi a seguirlo nella sua attività missionaria (v.38). E, infine, in C) la parte centrale della pericope e, quindi, anche la più importante, l'attestazione che tutti cercano Gesù (v.37), in cui in quel “tutti” si rileva, ancora una volta, l'universalità, che caratterizza, da un lato, la missione, dall'altro, rileva la centralità di Gesù, cuore e soggetto-oggetto di questa missione.

Commento ai vv. 35-39

Anche il v.35a, alla pari del v.32a, si apre con una significativa annotazione di tempo, che, agganciando questa pericope con la precedente (vv.32-34), ne dà continuità temporale e narrativa. Il v.32a, infatti, rileva: “Fattasi sera, allorché tramontò il sole”, attestando non solo il declinare del giorno, ma nel contempo anche del sabato. Il v.35, per contro, si apre rilevando a sua volta che “di mattino, a notte fonda, alzatosi, uscì”. Siamo, dunque, nel giorno dopo il sabato, allorché le donne, di buon mattino, quando ancora faceva buio, vanno alla tomba per inumare il corpo di Gesù, ma non lo trovano (16,1-2; Gv 20,1). È questo il primo segnale della risurrezione. Non so se Marco ne avesse avuto l'intenzione, ma scandendo la stessa successione dei tempi e usando gli stessi termini (l…an prw; lían pro) con cui aprirà il suo racconto della scoperta della tomba vuota, inserendo qui al v.35 due verbi significativi che alludono alla risurrezione (¢nast¦j ™xÁlqen, anastàs exêltzen), cioè “levatosi uscì”, nel senso del suo levarsi dalla morte e del suo uscire dalla tomba, intendesse alludere alla risurrezione. Ma certamente, con tutti questi elementi convergenti, è difficile ritenere che questo sia un semplice caso. Per cui è da pensare che l'evangelista intendesse inserire un richiamo alla risurrezione, che qui viene inserito in un contesto di annuncio missionario, quasi a dire che l'intera attività missionaria della nascente chiesa, predicazione e azione, ha il suo fondamento nella risurrezione e ne deve essere testimonianza viva.

Il v.35b prosegue la narrazione asserendo che Gesù “uscì”. Questo uscire di Gesù, da un punto di vista meramente narrativo, è da intendersi l'uscire dalla casa di Simone, dove aveva certamente passato la notte assieme ai suoi. Gesù esce per ritirarsi a pregare in un luogo deserto, che sembra contrastare con l'universalità della missione che, invece, dovrebbe spingere Gesù in mezzo alle genti, la quale cosa gli verrà ricordata dai suoi discepoli al v.37b: “tutti ti cercano”.

Soltanto cinque volte in tutto il suo vangelo Marco presenta il suo Gesù mentre prega in contesti esistenziali del tutto normali (1,35b; 6,46), se escludiamo le tre volte dell'intensa preghiera nel Getsemani (14,32.35.39). Una preghiera che non va intesa come una recita di formule, ma come espressione dell'intenso e intimo rapporto di comunione vitale tra Gesù e il Padre. Così come dovrebbe essere la preghiera propria di ogni credente, recitata e celebrata con la vita, spesa in conformità alle esigenze di Dio, trasformando la propria vita in una liturgia di lode e ringraziamento a Dio (Rm 12,1). E se Marco pone a fondamento dell'azione missionaria della chiesa nascente la risurrezione, essa va accompagnata anche dalla preghiera, quale strumento e canale preferenziale di comunione e comunicazione con Dio, da cui trarre l'energia spirituale che deve animare la missione stessa. Non servono le parole, ma l'atteggiamento di vita, poiché il rapporto con Dio non ha bisogno di parole, ma di una osmosi esistenziale tra il credente e il suo Dio.

Ed è su questa strada della preghiera-comunione-celebrazione esistenziale che i discepoli seguono l'esempio del loro maestro, quale risorsa spirituale e preambolo alla loro missione, che verrà richiamata ai vv.38-39.

Al sollecito dei discepoli, “tutti ti cercano”, in cui quel “tutti” narrativamente qui va inteso come gli abitanti di Cafarnao, dove Gesù ha operato le guarigioni e dove ha soggiornato nella casa di Simone, Gesù guarda avanti e va oltre i ristretti confini di Cafarnao, estendendo i suoi orizzonti missionari, qualificati da una forte spinta espansiva, che va dai paesi limitrofi a Cafarnao fino a tutta la regione della Galilea. Una nota geografica, quest'ultima, che caratterizza l'intera attività missionaria galilaica di Gesù, che da 1,14b si estende fino a 9,50.

Al sollecito dei suoi, che spingevano Gesù a fermarsi a Cafarnao, dove ha avuto pieno successo, Gesù risponde con il suo contro sollecito: “Andiamo altrove”, che racchiude in sé la spinta missionaria che muove Gesù e che costituisce il senso e il motivo del suo essere uscito. Uscito da dove? Certamente non dalla casa di Simone, poiché già questo era stato detto al v.35, dove Gesù è uscito per pregare e non per andare altrove. Certamente non allude alla futura missione, poiché il verbo “uscii” è posto al passato remoto, che indica un'azione che già si è compiuta. Quale senso, dunque, attribuire all'espressione: “e„j toàto g¦r ™xÁlqon” (eis tûto gàr exêltzen), “per questo, infatti, uscii”? Ritengo che l'espressione abbia un senso profondamente teologico e cristologico, che richiama da vicino la cristologia e la teologia giovannee, dove più volte Gesù attesta che egli è uscito dal Padre o da Dio27. La sua venuta, quindi, tra gli uomini ha un solo senso: predicare, che significa annunciare, far conoscere e rivelare. Ed è proprio sulla predicazione che si baserà il grande successo della chiesa primitiva, attraverso la quale consente agli uomini di conoscere e di accedere a Dio, che nella Parola si offre e si rivela. Un'importanza tale per cui Marco dedicherà buona parte del cap. 4 alla Parola, che, se accolta, porta il suo frutto di salvezza.

Se il v.38 attesta l'importanza della missione per la quale Gesù è venuto, il v.39 ne fornisce i contenuti: “E andò predicando nelle loro sinagoghe nell'intera Galilea e scacciando i demoni”. Un versetto questo che forma inclusione con 1,14b dove si attesta che Gesù andava predicando per tutta la Galilea. Un inclusione che caratterizza questa ampia sezione (vv.1,14b-39) del cap.1, qualificandola come una missione ecclesiologica, che ha quali strumenti di azione la predicazione e gli esorcismi, che attestano il sopraggiungere del Regno di Dio. Una missione che si presenta espansiva e universale e ha come intenti la testimonianza del Risorto. Essa ha il suo centro propulsore nella casa di Simone insieme agli altri, dove c'è Gesù. È lui il fondamento di tale casa e il motore propulsore dell'intera missione, per cui è venuto e che ora sta proseguendo nei suoi.

Una nota va posta sull'espressione “loro sinagoghe”, in cui quel “loro” rileva l'estraneità della sinagoga nella vita del nuovo credente, che ha, invece, come luogo di ritrovo la casa di Simone, dove c'è Gesù con gli altri. Un Gesù che, non va dimenticato, è uscito con i suoi dalla sinagoga per entrare nella casa di Simone (v.29)

. e dall'annuncio la salvezza (vv.40-45)


Note generali

Il breve racconto di risanamento di un lebbroso si colloca al termine di un capitolo molto denso, dove Marco ha messo in piedi l'intero impianto teologico, cristologico ed ecclesiologico del suo vangelo, che perfezionerà, poi, arricchendolo, nel corso della sua composizione. Potremmo definire questo racconto come un racconto di transizione verso la piena attività missionaria di Gesù, che lo vedrà subito scontrarsi nelle cinque dispute galilaiche con le autorità giudaiche (2,1-3,6), dove emergerà lentamente, sempre più dettagliata, la sua figura e il senso della sua missione.

Il racconto, benché non abbia una sua propria contestualizzazione narrativa, tuttavia va colto all'interno dell'attività missionaria di Gesù, enunciata dai vv.38-39 e inserito nel contesto delle guarigioni sopra narrate, come quella dell'indemoniato della sinagoga (vv.23-28), della suocera di Pietro (vv.29-31) e quelle raccontate nel sommario (vv.32-34). Si tratta di un loro sviluppo e alle quali l'autore lo aggancia con quel “Kaˆ” (Kaì, E) iniziale (v.40). Ci si trova, infatti, di fronte ad un particolare racconto la cui finalità, unitamente a quello immediatamente successivo del paralitico (2,3-12), è mettere in rilievo il potere di Gesù di riabilitare l'uomo nei suoi rapporti con Dio, rendendolo nuovamente capace di rendergli culto.

La lebbra di cui si parla qui in realtà non è proprio quella causata dal “mycobacterium lepræ, l'agente eziologico della lebbra, così come noi la conosciamo. Il termine ebraico che riscontriamo nel A.T. è “ṣāra'at”, tradotto poi nella LXX con “lšpra(lépra), che indica una superficie squamosa, rugosa, scabra, aspra, scagliosa. Il termine “ṣāra'at”esprime sostanzialmente una impurità rituale o l'essere macchiati dalla comparsa di chiazze colorate, che potevano intaccare anche la lana, il lino o le pelli o anche i muri di casa. Lo stesso termine veniva usato per descrivere la comparsa di macchie sulla pelle umana. Il termine “ṣāra'at”, pertanto, non doveva indicare propriamente la lebbra in senso medico, anche se quest'ultima soluzione non era esclusa. La diagnosi di lebbra spettava al sacerdote, che analizzava le macchie che si erano formate sulla pelle. Tuttavia era difficile stabilire se fosse veramente lebbra in senso medico o una semplice dermatite o eritema o una qualche infezione della pelle, poiché il processo con cui si sviluppa la lebbra vera e propria è molto lento e certamente non diagnosticabile nei sette o quattordici giorni stabiliti da Lv 13,4-628. La diagnosi a cui era chiamato il sacerdote, comunque, non aveva finalità mediche, ma soltanto rituali. Egli doveva solo dichiarare se la persona colpita da macchie fosse o no ritualmente impura. Da qui l'invocazione del lebbroso, che chiede a Gesù non di guarire, ma di essere purificato, cioè essere reso nuovamente idoneo a celebrare il culto a Dio e, quindi, essere riammesso nel ciclo vitale della salvezza. Il fatto che si insista sulla purificazione e, quindi, sulla idoneità al culto e al rapportarsi a Dio, lascia intravvedere come la guarigione che Gesù è venuto a portare non è quella corporea, ma spirituale, rendendo l'uomo nuovamente capace di relazionarsi a Dio e di entrare, quindi, nuovamente in comunione con Lui.

La struttura del racconto è scandita in due parti: la prima riguarda la purificazione del lebbroso (vv.40-42); la seconda il sollecito di Gesù a compiere quanto prescritto dalla Legge mosaica nel caso di guarigione, accompagnata da un inatteso monito a non divulgare quanto gli era successo. Inatteso per la durezza del monito stesso.

Commento ai vv. 40-45

I vv.40-42 narrano in modo conciso la dinamica della salvezza che Gesù è venuto a portare: da un lato, l'uomo, colto nel suo degrado esistenziale causato dal peccato, che presa coscienza della sua miserevole condizione di vita, intraprende un cammino di conversione, che gli consentirà di incontrare Gesù e fare l'esperienza della propria salvezza; dall'altro, il movimento salvifico di Gesù, che descrive in sintesi i tratti essenziali della storia della salvezza, caratterizzata dall'avvicinarsi di Dio all'uomo e dal tendergli nuovamente la sua mano.

Il v.40 si apre con un “Kaˆ” (Kaì, E), che in qualche modo aggancia il presente racconto ai precedenti vv.38-39, inserendo la guarigione del lebbroso nell'ambito dell'attività missionaria di Gesù. Ed è, infatti, durante questo suo peregrinare per la Galilea (vv.14b.39), che Gesù incontra quest'uomo, consumato nel corpo e nello spirito da una lebbra che lo sta lentamente divorando, ma che ancor prima lo ha socialmente e religiosamente ghettizzato e relegato tra i morti viventi. Un uomo a cui è stata tolta ogni speranza di vita e ogni dignità.

La richiesta di purificazione da parte del lebbroso, che conclude il v.40, è preceduta da tre suoi movimenti significativi: a) Il primo movimento, “viene verso di lui”, descrive quello proprio della conversione, che è un riorientare la propria vita verso Dio, un riprendere il cammino verso di Lui, esprimendo in tal modo il desiderio di incontrarlo, che si tradurrà, poi, in un incontro rigenerante e salvifico; b) il secondo movimento, “supplicandolo”, descrive un atteggiamento interiore nei confronti di Gesù, che nasce dalla coscienza del proprio stato di vita penoso e disperato, che non gli lascia scampo; ma nel contempo riconosce Gesù come unica fonte di salvezza; c) il terzo movimento, “[e cadendo in ginocchio]”, benché secondo la critica letteraria sia di incerta autenticità29, lascia comunque trasparire tutta la distanza che intercorre tra lui e Gesù, denunciando nel contempo lo stato di prostrazione in cui egli versa. È questo l'atteggiamento implorante, caratteristico del servo nei confronti del padrone o nei confronti del re. Non è ancora un atto vero e proprio di adorazione, nel quale caso Marco avrebbe usato il verbo “proskunšw” (proskinéo), caratteristico degli evangelisti per indicare l'adorazione o il riconoscimento della signoria di Gesù30, ma usa il più pedestre “gonupetîn” (gonipetôn), che indica il cadere fisico del corpo sulle ginocchia, quasi che la forza non lo regga più in piedi, da cui traspare in qualche modo la spossatezza, più che fisica morale e spirituale in cui l'uomo è ridotto a causa del peccato. Tuttavia, questo cadere in ginocchio potrebbe, comunque, essere letto anche come un preludio ad un'adorazione vera e propria, considerata la reazione finale del lebbroso risanato (v.45b), che riconosce in Gesù una realtà umanamente superiore.

Ed infine, a conclusione del v.40 e di questo lungo cammino interiore, che porta il lebbroso a Gesù, si pone la sua richiesta, caricata in tal modo di una forte tensione spirituale e morale: “se vuoi puoi purificarmi”. Nessuna pretesa, dunque, ma con quel “se vuoi puoi” si affida totalmente a Gesù, riconoscendo in quel “puoi” il suo potere salvifico. Ma ciò che più interessa qui è ciò che chiede: essere non guarito o risanato, ma purificato. La differenza è sostanziale, poiché la guarigione o il risanamento hanno a che vedere con la propria corporeità, distrutta dalla lebbra; l'essere purificato ha a che fare con la purità legale per poter accedere al culto di Dio, dal quale il lebbroso era escluso a motivo della sua condizione. Tra le due, il lebbroso sceglie quest'ultima.

Parallelamente al percorso del lebbroso, che lo portò alla sua richiesta finale, il v.41, riprendendo in qualche modo lo schema narrativo del v.31a, accentra ora l'attenzione su Gesù. Anche qui la guarigione è preceduta da un triplice movimento da parte di Gesù, in cui è sintetizzato il progetto salvifico del Padre, che, in Gesù, è tornato in mezzo agli uomini per tendere loro nuovamente la mano: a) il primo movimento, “mosso a compassione”, dice il profondo sentire di Dio verso quel uomo, che ha creato a sua immagine e somiglianza e ora ridotto ad un lebbroso. Il verbo qui usato per esprimere questo profondo stato di sconvolgimento di Dio, tale da mandare suo Figlio per ricondurre in se stesso l'uomo (Gv 3,16), è “splagcnisqeˆj” (splancnisteìs), che ha la sua radice in “spl£gcnon” (spláncnon), che significa viscere, ciò che c'è di più profondo nell'uomo e, assieme al cuore e all'anima, considerato come il luogo delle passioni e del sentire umano. Il verbo qui è posto significativamente al passivo, che nel linguaggio dei vangeli, rimanda il soggetto dell'azione a Dio stesso, per cui la compassione che Gesù prova è il commuoversi stesso di Dio, che contempla in quel lebbroso il deturpamento che il peccato ha operato della sua immagine. b) il secondo movimento è lo stendere la mano verso quel povero disgraziato, che dice l'avvicinarsi di Dio all'uomo per rendersi con lui solidale e che già in qualche modo era stato preannunciato fin dall'inizio della predicazione di Gesù in Galilea: “il Regno di Dio si è avvicinato” (v.1,15a); c) il terzo movimento è il toccare quell'uomo, che attesta come quel avvicinarsi di Dio all'uomo non è una finzione per illuderlo, ma quel toccarlo dice il suo incontrarlo concretamente, rendendosi storicamente raggiungibile dall'uomo e consentendogli in tal modo l'esperienza storica della sua salvezza.

Anche qui, al termine di questi tre movimenti di Gesù nel suo incontrarsi con questo lebbroso, viene posta la Parola della salvezza: “Voglio, sii purificato”. In quel “Voglio” c'è tutta la volontà e la determinazione della potenza salvifica di Dio, che affonda le sue radici nel Mistero di un progetto salvifico, nascosto fin dall'eternità, prima della creazione (Ef 1,4-6), e rivelatosi nella Parola, che possiede in se stessa il potere rigenerante di Dio e in essa si rivela e si attua (1Pt 1,23). E la volontà salvifica di Dio si manifesta e si concretizza in quel “sii purificato”, che riprende le parole del lebbroso e con queste anche il senso autentico di una rigenerazione spirituale, tale che l'uomo torni ad essere nuovamente immagine e somiglianza di Dio. E sarà questo il senso, che meglio traspare dalla seconda guarigione che Gesù compirà sul paralitico, al quale si rivolge perdonandogli i peccati e rilevando come la sua missione non è quella di sopperire alle necessità terrene dell'uomo, ma a quelle spirituali, verso le quali, volente o no, l'uomo è incamminato e destinato. La missione di Gesù, infatti, è quella di ricondurre l'uomo in seno a Dio, dal quale era drammaticamente uscito.

Ci si trova di fronte ad una guarigione che richiama da vicino, per certi aspetti, la parabola lucana del Buon Samaritano (Lc 10,30-35), figura di Gesù, che viene incontro all'uomo caduto nel degrado del peccato e lo risana: “Ma un Samaritano, mentre viaggiava, venne presso di lui e, visto(lo), fu mosso a compassione, e avvicinatosi, fasciò le sue ferite, versando sopra olio e vino; ora, fattolo salire sul proprio giumento, lo condusse in un albergo e si prese cura di lui” (Lc 10,33-34). Come il Buon Samaritano, anche Gesù è qui in cammino per compiere quella missione per cui era venuto (v.38); e come il Samaritano Gesù qui s'imbatte in un uomo non aggredito e gravemente ferito da briganti, ma similmente, se non peggio, travolto dalla lebbra, che lo ha distrutto completamente sia a livello fisico che spirituale, togliendogli ogni speranza di vita. Così come il Buon Samaritano, anche Gesù è qui mosso a compassione, si avvicina al lebbroso, lo tocca e lo risana. In entrambi i casi gli evangelisti descrivono il movimento proprio della storia della salvezza, che dice il ritorno di Dio tra gli uomini nella persona di Gesù, si avvicina a loro, ne prova compassione per il degrado in cui essi versano a causa del peccato, ne diventa solidale; si incontra con loro, li tocca e li risana, rigenerandoli ad una nuova vita. Tre tocchi, tre pennellate in cui è sintetizzato lo schema dell'intero progetto di salvezza di Dio a favore degli uomini.

Il v.42, sulla falsariga del v.31b, costituisce l'attestazione dell'avvenuta guarigione, riproducendo qui lo schema dell'atto creativo primordiale, in cui al dire di Dio risponde l'essere della creazione. Un'attestazione che avviene in due momenti: con il primo si dice che la lebbra se ne andò via; con il secondo si attesta che il lebbroso, figura dell'uomo travolto dal peccato, “fu purificato”. Si badi bene: “fu purificato” e non “fu guarito”. Un verbo che qui viene ripetuto in poche righe per ben tre volte, quasi a voler sottolineare come l'intervento di Gesù e la sua missione sia quella di rendere l'uomo nuovamente capace di rapportarsi a Dio; mentre il verbo, posto al passivo teologico o divino, “fu purificato” (™kaqar…sqh, ekatzaríste) rimanda l'azione del purificare a Dio stesso.

I vv.43-45 costituiscono la seconda parte del racconto, che potremmo definire come i perentori comandi impartiti da Gesù al lebbroso risanato, ma che da questi vengono completamente disattesi. Il lebbroso, infatti, non si è presentato al sacerdote per i complessi rituali di purificazione previsti da Lv 14 e in particolare, per quanta riguarda il v.44, Lv 14,1-7, ma ha preferito annunciare ai quattro venti la sua guarigione, la quale cosa potrebbe essere letta come una normale esplosione di incontenibile gioia, benché contravvenga all'autoritario ordine di Gesù di non parlarne a nessuno. Insomma, a ben guardare, questo lebbroso risanato sembra fregarsene altamente di Gesù e non solo non obbedisce alle sue indicazioni, ma senza neppure ringraziarlo se ne va per i fatti suoi. In realtà le cose non sono andate proprio così, poiché qui Marco sta celebrando il passaggio dalla morte alla vita; da un legalismo giudaico, che teneva imprigionato quest'uomo e incapace di salvezza, ad un canto di lode e di ringraziamento a Dio per la salvezza finalmente ritrovata.

Il v.43 introduce la seconda parte del racconto, ma lascia immediatamente perplesso ed esterrefatto il lettore per l'incredibile durezza con cui Gesù si esprime contro questo povero disgraziato, che egli stesso ha guarito. Vi è un evidente contrasto tra la profonda e viscerale compassione di Gesù, che lo ha spinto a purificare quest'uomo perduto e il v.43, che presenta inopinatamente un Gesù violentemente repressivo contro questo poveraccio, che gli ha chiesto, senza insistenza, soltanto “Se vuoi”. Il verbo greco, “™mbrimhs£menoj” (embrimesámenos), che io ho tradotto con “rimproveratolo”, ma solo per ammorbidire i toni, in realtà dice ben altro: fremere d'ira, sbuffare, agitarsi, sdegnarsi. Un verbo che in Marco ricorre soltanto un'altra volta in 14,5 dove si parla dello sdegno dei discepoli nei confronti della donna, che unse con costosi aromi il capo di Gesù. Perché, dunque, Gesù avrebbe dovuto assumere un atteggiamento così violento e aggressivo nei confronti di quest'uomo, verso il quale qualche istante prima si era avvicinato profondamente commosso e pieno di compassione? E che dire poi di quel “™xšbalen” (exébalen cacciò), rafforzato dall'avverbio “eÙqÝj” (eutzìs, subito), che letteralmente significa “scacciare, buttare fuori, espellere, rigettare”. Un verbo questo che in Marco ricorre 18 volte ed è usato prevalentemente negli esorcismi per indicare lo scacciare i demoni.

Il motivo di un simile linguaggio duro e inaudito, che Gesù usa quasi esclusivamente negli esorcismi, e che nel contempo contraddice chiaramente il suo comportamento profondamente commosso e compassionevole di qualche istante prima, a mio avviso non ha nulla a che vedere con la cristologia o la teologia marciane, ma è attribuibile soltanto alla scarsa conoscenza del greco di Marco e al suo linguaggio molto primitivo, perché povero, con cui è stato scritto il suo vangelo. Certamente Marco voleva dire che Gesù, congedando il lebbroso risanato, lo ammonì che non parlasse con nessuno di questo evento di salvezza, per non creargli quei problemi che rileverà subito la seconda parte del v.45.

Il v.44 contiene due comandi: il non dire niente a nessuno di quanto gli è successo e quello di recarsi dal sacerdote che doveva esaminare le macchie sulla pelle del lebbroso per constatarne la guarigione e, quindi, procedere con il rituale della purificazione.

Quanto al primo comando, quello del silenzioche Gesù impone su se stesso, ma che sistematicamente viene violato, sia perché il silenzio è imposto dopo che viene rivelata la vera natura di Gesù da parte dei demoni e, quindi, del tutto inutile; sia perché, come in questo caso, il silenzio è altrettanto sistematicamente violato. Perché dunque Gesù pretende un silenzio che già sa non verrà mai mantenuto? Già lo si è detto che questo, più che segreto messianico, è una tecnica narrativa di Marco per sollecitare, da un lato, l'attenzione dei suoi lettori-ascoltatori (non va mai dimenticato che il vangelo marciano è una predicazione scritta); dall'altro, spingerli a riflettere sulla vera natura che Gesù vuole nascondere, stimolandone in tal modo la curiosità.

Quanto al secondo comando, quello che Gesù impartisce al lebbroso di ottemperare alle disposizioni mosaiche nel merito (Lv 14), non va compreso, a mio avviso, come una testimonianza di un Gesù pio ebreo rispettoso osservante della Legge, ma diventa per Marco un escamotage narrativo per creare il contrasto tra ciò che il lebbroso risanato doveva compiere e il successivo v.45 dove, invece, il lebbroso, disattende non ciò che Gesù ha detto, ma ciò che la Legge mosaica ha sancito, mettendosi di fatto alla sequela di Gesù e divenendone una sorta di missionario itinerante, che si aggirava tra la gente, proprio come Gesù, ad annunciare l'evento di salvezza che egli aveva trovato e di cui aveva fatto una esperienza salvifica. Ciò che predica e diffonde tra la gente non è il semplice racconto della sua guarigione, ma una vera e propria predicazione dell'evento salvifico Gesù: “cominciò a predicare molte cose”. Quel “cominciò” dice che la sua purificazione, l'aver sperimentato l'evento di salvezza, gli ha cambiato completamente la vita e da qui “cominciò a predicare”. E ciò che egli predicava erano “molte cose”, quindi non un semplice racconto della sua guarigione. E il suo predicare, precisa subito Marco, consisteva nel “diffondere la parola”. Il lebbroso, pertanto, è diventato un vero e proprio missionario della Parola e dell'evento salvifico Gesù. I verbi che qui si ritrovano al v.45a sono, infatti, quelli caratteristici della predicazione missionaria, “khrÚssein” (keríssein) e della diffusione missionaria della parola, “diafhm…zein” (diafemízein), anche se quest'ultimo verbo ricorre soltanto tre volte in tutta la Bibbia, in Mt 9,31; 28,15 e qui in Mv 1,45.

Il v.45b si chiude riportando gli effetti di questa testimonianza salvifica: un grande accorrere della gente da ogni parte, la cui misura viene soppesata dal fatto che Gesù non è più in grado di godere un po' di riservatezza personale. Una testimonianza che si contrappone a quella che il lebbroso doveva rilasciare al sacerdote, ma che non ha rilasciato, lasciando intendere l'indisponibilità delle autorità giudaiche ad accogliere Gesù. Una indisponibilità che verrà testimoniata subito, nel corso delle cinque dispute galilaiche (2,1-3,6)


Note


1Nella mia Introduzione al Vangelo di Marco ho suddiviso il racconto marciano in tre grandi aree narrative: la prima riguardante la graduale e progressiva scoperta dell'identità e della natura di Gesù (1,2-8,30); la seconda (8,31-10,52), che ho definita di transizione, perché segna il passaggio dall'attività galilaica di Gesù a quella giudaica con meta Gerusalemme. È in quest'area che cominciano ad apparire i primi segnali della passione e morte di Gesù: i tre annunci della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), la Trasfigurazione (9,1-8), strettamente legata ad essa (9,9-12), il sollecito di Gesù ai discepoli di seguirlo sulla via della croce (8,34) e la nota geografica con cui si apre il cap.10 dove si annuncia che Gesù “alzatosi di là, va verso i confini della Giudea [e] al di là del Giordano” (10,1a). Essa è dunque propedeutica alla Terza Parte. La Terza Area” (11,1-15,47) riguarda l'ultima attività di Gesù a Gerusalemme, che si muove e si consuma attorno al Tempio, e la sua passione e morte. Cfr. pagg. 22-23: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20Vangelo%20secondo%20Marco%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

2Cfr. 1Sam 31,9; 2Sam 1,20; 4,10; 18,19.20.26.31; 1Re 1,42; 1Cr 10,9; Sal 39,10; 67,12; 95,2; Is 40,9; 52,7; 66,1; 61,1; Ger 20,15; Gl 3,5; Na 21,1

3Cfr. Mc 1,11; 3,11; 5,7; 9,7; 14,61; 15,39

4Cfr. La regola della comunità, 8,14; 9,19-20, in L. Moraldi, I Manoscritti di Qumran, ed. Editori Associati, prima edizione TEA, Milano 1994.

5Cfr. Os 1,9; Rm 9,25; 1Pt 2,10

6Cfr. Mt 16,14; Mc 6,15; 8,28; Lc 9,8.19;

7Cfr. Mc 9,11-13; Mt 11,11-14; 17,10-13; Lc 1,17

8Significativo è il ricorrere per ben 49 volte il termine acqua e 35 volte il verbo lavarsi o lavare nel Levitico.

9L'espressione “Ñp…sw mou” (opíso mu) compare nei vangeli con il senso di sequela complessivamente 14 volte.

10Per un maggiore approfondimento cfr. le pagg 9-22 del mio commento al cap.15 di Luca: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20vangelo%20secondo%20Luca%20-%20Cap.%2015.pdf

11L'espressione “™n ta‹j ¹mšraij ™ke…naij” (en tais emérais ekeínais, in quei giorni), ricorre 17 volte nei libri dei profeti.

12Cfr. Sal 7,2-3; 9,30; 16,11-12; 21,13-14; 34,17; 56,5; 57,7; 90,13

13Cfr. Gv 8,42; 16,28; 16,30; 17,8

14Ben 44 sono i movimenti che si possono contare in tutto il racconto marciano, di cui 33 si riscontrano all'interno dell'attività galilaica e i restanti, meno significativi, in quella giudaica.

15Il lago di Galilea ha una lunghezza di 21 km e la larghezza massima è di 12 km; la sua superficie misura 170 km2, mentre la sua profondità tocca i 42-48 mt – Cfr. la voce “Genezaret, Lago di G.” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, Nuova edizione rivista ed integrata 2005.

16Il nome Galilea definisce la regione che Is 8,23 chiamerà Galilea delle genti, gĕlil ha-gōyīm, cioè territorio dei pagani. La regione, assieme alla Perea, era governata dal tetrarca Erode Antipa (4 a.C.-34 d.C.).

17L'espressione avverbiale di tipo temporale ,“eÙqÝj” (eutzìs, subito), ricorre nei vangeli complessivamente 47 volte, di cui 41 solo in Marco.

18Cfr. il termine “Sinagoga” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005

19Cfr. Mc 1,23-28.32-34.39; 3,11-12; 5,1-20; 7,25-30; 9,14-29

20Cfr. Es 26,33; 2Re 19,22; Gb 6,10; Sal 77,41; Sir 23,9

21Cfr. Lv 19,2; 2Mac 14,36

22Cfr. Es 26,33; 28,29.35; 1Re 8,8; 2Cr 5,11;

23Qui il “Santo” è il cortile antistante al “Santo dei santi”, dove avvenivano i sacrifici, ed era separato dal “Santo dei santi”, luogo della presenza di Jhwh, da un velo.

24Cfr. la voce “Quattro” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, ed. Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

25Cfr. 1,14b-15; 1,32-34; 1,39; 3,7-12; 6,12-13.30; 6,53-56

26Le annotazioni sono complessivamente tredici: 1,21-22; 2,1-2.13; 4,1-2.33-34; 5,1.21; 6,1; 7,24.31; 8,10.27; 10,1.-

27Cfr. Gv 6,46; 8,42; 13,3; 16,27.28.30; 17,8

28Sulla questione della lebbra cfr. la voce “Malattia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005

29Cfr. Nestle-Aland, Nuovo Testamento Greco-Italiano, ed. Società Biblica Britannica & Foresteria, Roma 1996, 27^ edizione.

30Il Verbo “proskunšw” (proskinéo) ricorre tra gli evangelisti 29 volte, ma una sola volta in Marco in 5,6, dove l'indemoniato si prostra davanti a Gesù, riconoscendolo come “Figlio del Dio altissimo”. Un atto questo che può essere considerato come una sorta di adorazione e di prostrazione di fronte alla sublimità riconosciuta di Gesù.