IL VANGELO SECONDO LUCA

In prospettiva del Golgota

(9,1-62)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





Note generali


Intessuto da una densa cristologia tutta orientata verso il Golgota, il cap.9 costituisce all'interno dell'intero racconto lucano un momento di svolta radicale, quasi una sorta di brusca sterzata che trova il suo vertice nel v.51: “Ora, avvenne che, nel mentre erano compiuti i giorni della sua assunzione, proprio allora egli fortificò il suo volto per andare a Gerusalemme”. Si passa, quindi, dall'attività missionaria galilaica, che occupa la sezione 4,14-9,501, alla sezione del grande viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), dove si compiranno i Misteri della salvezza: passione-morte-risurrezione.

Si tratta di un capitolo molto articolato e complesso, che per semplificazione potremmo suddividere in tre sezioni:

  1. Sezione ecclesiologica (9,1-17), dove l'autore porta a termine il piccolo trattato sulla Chiesa, che, iniziato con il cap.5, si conclude qui con 9,17;

  2. Sezione preparatoria al grande viaggio verso Gerusalemme (9,18-50), dove l'attenzione del lettore viene incentrata sulla natura di Gesù (vv.18-20), che viene legata alla sua passione-morte-risurrezione (vv.28-36). Elemento essenziale questo per poter comprendere il senso e il peso cristologico e teologico del suo patire e del suo morire. Il tema della passione e morte qui si fa più presente e insistente, divenendo modello per tutti i suoi discepoli (vv.21-27). Passione, morte e risurrezione che Luca in qualche modo metaforizza e drammatizza in un esorcismo (vv.37-45), da cui si evince anche il senso della sua missione, che trova nella morte e risurrezione il suo vertice. Si tratta di un “figlio unico” (v.38), di cui uno spirito si impossessa, lo malmena (v.39), lo sconquassa e lo contorce convulsamente (v.42a), ma alla fine viene liberato e restituito a suo padre (v.42b). Una storia molto simile a quella che sta per accadere a Gesù.

  3. Sezione di apertura al grande viaggio verso Gerusalemme (9,51-62), caratterizzata, da un lato, dal rifiuto di Gesù da parte dei pagani, ai quali i Samaritani erano assimilati, a fronte del quale Gesù usa comunque misericordia, rifiutando la proposta di castigo suggerita da Giacomo e Giovanni (vv.51-55); dall'altro, si sviluppa una piccola riflessione sulla radicalità e determinazione della sequela di Gesù, che funge da parametro di confronto per i suoi discepoli.

Sezione ecclesiologica (9,1-17)

Testo a lettura facilitata

Il conferimento dei poteri, l'invio in missione e alcune regole (vv.1-6)

1 – Ora, convocati i Dodici, diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di guarire le infermità
2 – e li inviò ad annunciare il regno di Dio e a guarire [gli infermi],
3 – e disse verso di loro: <<Non prendete niente per la strada, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né abbiate due tuniche [ciascuno].
4 – E in quella casa in cui entrate, là rimanete e da là uscite.
5 – E quanti non vi accolgono, andandovene da quella città scuotete la polvere dai vostri piedi a testimonianza contro di loro>>.
6 – Ora, uscendo, passavano per i villaggi, annunciando la buona notizia e guarendo ovunque.

Intermezzo: primi interrogativi su Gesù (vv.7-9)

7 – Ora, Erode il tetrarca udì tutte le cose che accadevano ed era perplesso per quello che era detto da alcuni che Giovanni fu risuscitato dai morti;
8 – da alcuni, invece, che è apparso Elia; ma da altri che un profeta, un qualcuno degli antichi, è risorto.
9 – Ora, disse Erode: <<Io decapitai Giovanni. Chi è costui del quale sento tali cose?>>. E cercava di vederlo.

Il ritorno dei Dodici e conclusione della loro prima missione (v.10)

10 – E ritornati gli apostoli, gli raccontarono quante cose fecero. E presili (con sé), si ritirò privatamente in una città chiamata Betsaida.

La moltiplicazione dei pani e dei pesci (vv.11-17)

11 – Ora, le folle, saputolo, lo seguirono. E ricevutele, parlava a loro del regno di Dio e guariva quelli che avevano bisogno di guarigione.
12 – Ora il giorno incominciò a declinare. Avvicinatisi i Dodici, gli dissero: <<Congeda la folla, affinché, andando nei villaggi e nei campi d'intorno alloggino e trovino delle provviste, poiché qui siamo in un luogo deserto>>.
13 – Disse Gesù verso di loro: <<Date voi da mangiare a loro>>. Ma quelli dissero: <<Non abbiamo più di cinque pani e due pesci; a meno che, partiti, non comperiamo noi del cibo per tutto questo popolo>>.
14 – Erano, infatti, circa cinquemila uomini. Ora, disse verso i suoi discepoli: <<Fateli sdraiare in crocchi di [circa] cinquanta>>.
15 – E così fecero e sdraiarono tutti quanti.
16 – Ora, presi i cinque pani e i due pesci, levati gli occhi al cielo, li benedisse e (li) spezzò e (li) dava ai suoi discepoli da porgere alla folla.
17 – E mangiarono e furono saziati tutti, e portarono via ciò che era sopravanzato a loro, dodici ceste di pezzi.


Note generali


Con questi primi diciassette versetti del cap.9 Luca conclude il suo lungo trattato di ecclesiologia iniziato con il cap.5 e che si apriva focalizzando l'attenzione del suo lettore sul primato petrino (5,3-10). Il cap.5, infatti, comincia rilevando come Gesù “vide due barche” (5,2a), cioè più di una barca, metafora quest'ultima della comunità credente. Da qui la necessità di aprire il discorso ecclesiologico affermando il primato petrino. Gesù, infatti, sceglie la barca di Pietro e vi sale sopra (5,3a). È quindi sulla barca di Pietro che si trova Gesù, dalla quale si diparte l'autentico insegnamento (5,3b). Solo a Pietro viene dato il carisma di pescatore di uomini (5,10b). Gli altri seguono sia Gesù che Pietro (5,11). Affermato il primato petrino e con questo l'unicità e l'unità della Chiesa (vv.1-10), Luca passa a raccontare la costituzione del primo nucleo di discepoli (5,11.27-28), delle difficili relazioni con il Giudaismo (5,20-21.30.32.33; 6,1-2.6-7.11; 7,30-34) e dell'incompatibilità della chiesa nascente con questo (5,36-39), così da spingerla al suo distacco, costituendosi come istituzione a se stante attorno al gruppo dei Dodici (6,12-17), configurata da un proprio statuto, che le assegna una sua identità (6,20-49). La sua struttura è molto semplice ed essenziale: Gesù, quale paradigma su cui la chiesa deve configurarsi, e i Dodici, che sono associati a lui (6,17a; 8,1b); attorno ad essi si sviluppa un primitivo servizio di diaconia, finalizzato al sostegno dell'attività missionaria dei Dodici (8,2-3; At 6,2-4). L'attività della chiesa è essenzialmente missionaria (8,1) e si sviluppa sul paradigma di quella di Gesù: predicazione e annuncio del Regno (8,1) attraverso due strumenti essenziali: la Parola (vv.8,4-21) e l'attività di guarigione, intesa come liberazione dell'uomo dal potere del Male e l'affermazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini (vv.8,27-56). Ora, Luca, con quest'ultima sezione ecclesiologica (vv.1-17), mette in rilievo un punto essenziale dell'ecclesiologia: la continuità tra Gesù e i Dodici, evidenziando come questi siano configurati a lui attraverso la trasmissione dei suoi stessi poteri, accompagnati dal comando missionario dell'annuncio del Regno e della guarigione degli infermi (vv.1-2), che riassume, quest'ultimo, in qualche modo l'intero cap.8. Un'attività missionaria che ha una sua eco sia al v.52, dove Gesù invia davanti a sé dei suoi messaggeri a preparare la sua venuta; sia in 10,1-2 dove, in considerazione della grande espansione della messe, ne nomina e ne invia altri settantadue, che sono una sorta di estensione del primo invio dei Dodici (9,1-2), dando l'idea di una chiesa in forte espansione, che necessita di continui e numerosi invii. In entrambi i casi (9,1-2; 10,1-2) l'invio con il relativo mandato viene regolamentato da alcune norme essenziali di comportamento (9,3-4; 10,3-11). Ed infine, Luca presenta la sostituzione di Gesù da parte dei Dodici in alcuni passaggi chiave nel racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci: di fronte all'immensa marea di persone che si accalcano attorno a loro non è più Gesù a prendere l'iniziativa, ma i Dodici (v.12b); sono loro che adesso devono dare da mangiare alle folle, loro le devono far sedere a mensa, loro sono quelli che ricevono il pane da Gesù e lo devono distribuire e raccogliere gli avanzi. Gesù sembra scomparire dietro di loro. Una scomparsa che in qualche modo era stata preannunciata dal racconto della tempesta sedata (8,22-26), dove Gesù, pur presente, dormiva sulla barca, che i discepoli dovevano condurre. Una presenza-assenza, dunque, che preludeva al periodo post-pasquale.

La struttura di questa sezione ecclesiologica è scandita essenzialmente in due parti:

  1. la trasmissione dei poteri di Gesù ai Dodici e il loro invio ad annunciare il Regno e a guarire gli infermi (vv.1-2.6), a cui si aggiungono alcune regole di buon comportamento nello svolgere la missione (vv.3-5); il rientro dei Dodici dalla missione conclude la prima parte (v.10).

  2. la sostituzione di Gesù da parte dei Dodici (vv.11-17).

La prima parte (vv.1-10) è intersecata da una breve apparizione di Erode, che si interroga sull'identità di Gesù (vv.7-9). La funzione di questo inatteso intermezzo narrativo è triplice: da un lato, l'apparire di Erode, che avrà un suo ruolo nell'ambito del racconto della passione e morte di Gesù (23,6-12), di fatto in qualche modo qui la richiama, in un contesto che crea una svolta radicale e decisa verso il Golgota (v.51); dall'altro, preannuncia l'interrogativo che Gesù porrà ai Dodici su se stesso (vv.18-20); ed infine, narrativamente, serve a creare uno stacco temporale tra l'invio dei Dodici (vv.2.6) e il loro rientro (v.10).

Commento alla sezione ecclesiologica (vv.1-17)

Prima parte: poteri ai Dodici e loro invio in missione (vv.1-10)

Questa prima parte è scandita in tre momenti sequenziali e logici: dapprima la trasmissione dei poteri (v.1); poi l'invio in missione (v.2); ed infine l'enunciazione di alcune indicazioni sul come svolgere la propria missione (vv.3-5). Il tutto si conclude con il v.6 che conferma l'esecuzione della missione da parte dei Dodici.

Il v.1 si apre con un verbo, “Sugkales£menoj” (sinkalesámenos), che ricorre in tutta la Bibbia soltanto otto volte: una volta in Mc 15,16 e altre sette volte nel solo Luca e Atti. Si tratta di un verbo che significa chiamare a raccolta, convocare e, inserito in questo contesto, acquista un particolare peso e significato, poiché si tratta della convocazione dei Dodici da parte di Gesù, colti qui da Luca, per la prima volta, come il collegio apostolico, sottolineando in tal modo l'aspetto istituzionale della chiesa stessa. Questa convocazione funge da cornice a quanto ora sta per accadere, caricandolo di importanza: “diede loro potere e autorità su tutti i demoni e di guarire le infermità”. All'interno di questa convocazione istituzionale ecclesiale Gesù conferisce ai Dodici i suoi stessi poteri e la sua stessa autorità. Potere e Autorità: qual' è la loro natura, in cosa consistono? Il termine per indicare il potere è reso in greco con “dÚnamij” (dínamis), che si ritrova 37 volte nei vangeli e tra questi soltanto nei Sinottici. Il termine è usato per esprime la potenza di Dio colta nel suo manifestarsi. I miracoli, infatti, sono definiti dai Sinottici come “dun£meij” (dinámeis), cioè come manifestazione della potenza di Dio in mezzo agli uomini; una potenza che è venuta a cambiare le cose. Essa è finalizzata ad affermare il Regno di Dio in mezzo agli uomini, ponendo in tal modo fine al potere di satana. Dio, dunque, è venuto a riprendersi ciò che gli appartiene fin dalla creazione del mondo. In tal senso vanno tutti gli esorcismi e le guarigioni. Un potere, dunque, che contiene in se stesso la stessa potenza di Dio e che si esprime nell'autorità. Entrambi, potere ed autorità, sono esercitati sui demoni e sul guarire gli infermi. Due aspetti fondamentali che qualificano l'operare missionario di Gesù. L'esorcismo opera direttamente sul demonio ed è finalizzato alla sua cacciata; mentre le guarigioni dicono la liberazione dell'uomo dagli effetti del potere di satana su di lui.

Se il v.1 designa i Dodici come un collegio apostolico insignito degli stessi poteri e della stessa autorità di Gesù, il v.2 designa il senso e i contenuti della loro missione: “e li inviò ad annunciare il regno di Dio e a guarire [gli infermi]”. Il v.2 inizia con un “kaˆ” (kaì, e) che funge da congiunzione tra il primo e il secondo versetto, così che il secondo versetto diviene la logica conseguenza del primo. La missione dei Dodici, pertanto, diviene il luogo naturale entro cui esercitare ed affermare il potere e l'autorità di Gesù. Il contenuto di questa missione, il cui intento primario è destituire il potere di satana e affermare quello di Dio, si esprime attraverso due strumenti essenziali: la Parola, quale annuncio del Regno, e le guarigioni, quale conseguenza della Parola accolta. Il v.2 in buona sostanza richiama sinteticamente in sé l'intero cap.8, che metteva in evidenza, proprio attraverso le due grandi sezioni della Parola (8,4-41) e delle guarigioni/esorcismo (8,27-56), l'attività missionaria di Gesù, quale prefigurazione di quella della chiesa e sulla quale la chiesa deve riparametrare la propria.

Conferimento dei poteri (v.1) e missione (v.2) sono fatti seguire ora da alcune regole comportamentali che devono caratterizzare il missionario itinerante. Regole che qui sono soltanto enunciate per titoli, ma che verranno riprese e dettagliate in 10,4-16. Queste investono una triplice area: l'equipaggiamento personale (v.3), l'alloggiamento (v.4) e il comportamento da tenere in caso di rifiuto da parte degli ascoltatori (v.5). Si tratta di regole vincolanti e non di semplici indicazioni o suggerimenti, che denotano una dura radicalità, il cui intento è mettere in rilievo la primarietà dell'annuncio su tutto, senza distrazioni, senza confidare su se stessi, sulla propria attrezzatura, evitando di gozzovigliare di casa in casa, perdendosi in chiacchiere, approfittando dell'ospitalità; né di abbattersi di fronte ad un rifiuto opposto, ponendo sugli oppositori il giudizio di Dio. L'idea che se ne trae è che il lavoro del missionario fosse nei primi tempi della chiesa molto duro, esigente, fondato esclusivamente sulla fede e sulle personali convinzioni e certamente non un impiego che poteva dare potere, onori e ricchezze. La spogliazione di ogni lecito e ragionevole sostentamento era finalizzato a concentrare il missionario sul suo compito di annunciatore e di fondatore del Regno di Dio, confidando non sulle proprie forze, bensì su Dio stesso, nella coscienza di essere il continuatore dell'opera stessa di Gesù.

La prima regola è “non prendere niente per la strada”. Viene qui definito il luogo di lavoro e di annuncio: la strada, qualificando il predicatore come un itinerante, un viaggiatore che si muove di continuo, poiché con lui si muove e cammina per le strade dell'impero la Parola di Dio. In questo modo e in nessun altro essa si diffonde. Il suo “andare” deve essere privo di ogni conforto materiale, poiché le sue sicurezze devono riposare in Dio e non in se stesso. Niente bastone, pertanto, il quale, oltre ad una funzione di aiuto nel cammino, serviva anche come arma di difesa e offesa contro malintenzionati; niente bisacce, niente pane, niente denaro, nessun abito di scorta, poiché se l'operaio ha diritto alla sua mercede, questa gli deve venire dal suo Padrone, che certo non gliela farà mancare seconda la logica di 12,29-31, che sollecita i credenti a non preoccuparsi del mangiare o del vestire, ma soltanto del Regno di Dio. Questo va messo al primo posto in particolar modo per coloro che del Regno di Dio hanno fatto il senso della loro vita e della loro missione.

La seconda regola proposta dal v.4 riguarda l'alloggiamento: “E in quella casa in cui entrate, là rimanete e da là uscite”. Quindi una sola casa di riferimento. L'intento è quello di evitare sia che l'apostolo itinerante abusi dell'ospitalità della comunità, andando un po' qua e un po' là; sia che si perda in chiacchiere e gozzoviglie. L'apostolo itinerante deve mantenersi concentrato sul suo impegno primario, che è quello dell'annuncio e, se ne ricorre il caso, della fondazione di nuove comunità. La Didaché, in merito all'ospitalità di questi predicatori itineranti da parte delle comunità ospitanti, stabilisce delle norme che le devono guidare sul come gestire la loro ospitalità nei loro confronti per evitare abusi da parte di questi.

Tuttavia, la rigidità di queste norme, più che stile di vita imposto agli apostoli e predicatori itineranti, per i quali Paolo, richiamandosi ad un detto del Signore, attesta il loro diritto di vivere del Vangelo che annunciano (1Cor 9,14), sembrano costituire più che altro un parametro di valutazione e di distinzione tra il vero apostolo e chi del proprio apostolato ha fatto un mestiere da cui trarre benefici personali. Il credente, pertanto, nel ricevere un apostolo o un predicatore deve guardare il suo stile di vita e i suoi interessi. La Didaché2 in merito all'accoglienza dell'apostolo, del profeta o del maestro dedica i capp.11-13. Quanto all'apostolo sollecita la comunità che lo accoglie: “[...] comportatevi nel modo seguente, secondo l'ordine del vangelo. Ogni apostolo che viene a voi sia accolto come il Signore, ma rimanga un solo giorno; se ve ne è bisogno, rimanga anche un altro; ma se si ferma tre giorni, è un falso profeta […]. Ogni profeta che, sotto l'ispirazione dello Spirito, dà ordine di preparare una tavola, deve astenersi dal mangiar; se mangia, è un falso profeta […]. Chiunque venga nel nome del Signore, sia accolto; in seguito, quando l'avrete messo alla prova, sarete in grado di conoscerlo, perché avete l'intelligenza per distinguere la destra dalla sinistra. Se l'ospite è un viaggiatore di passaggio, aiutatelo, per quanto potete; rimanga però tra voi solo due o tre giorni al massimo, se necessario. Se vuole fermarsi tra voi, e ha un mestiere, lavori e ne tragga il sostentamento. […]. Se non vuole fare in questo modo, è uno che traffica Cristo: guardatevi da questa genia” (Did. 11,3-6.9; 12,1-3.5).

L'ultima regola (v.5) riguarda il comportamento da tenere in caso di rifiuto dell'apostolo e con lui del suo annuncio: “E quanti non vi accolgono, andandovene da quella città scuotete la polvere dai vostri piedi a testimonianza contro di loro”. Due sono gli elementi di rilievo in questa regola: lo scuotere la polvere dai propri piedi, che va compresa come un atto di testimonianza contro questo rifiuto. Lo scuotere la polvere dai piedi richiama un comportamento caratteristico del giudeo, che provenendo da un territorio pagano, considerato impuro, prima di entrare nella propria terra, considerata sacra, quale dono di Jhwh e santificata dall'Alleanza con lui, scuoteva la polvere dai propri calzari e dai propri piedi al fine di evitare ogni inquinamento. L'apostolo o predicatore itinerante deve fare similmente. Qui tuttavia cambia di significato, poiché non si tratta di scuotersi di dosso delle impurità, ma di un segno di rifiuto. In altri termini: la città che rifiuta Dio è da Dio rifiutata. È questo il presupposto per un giudizio divino che viene posto sulla città stessa. Lo scuotere la polvere dai propri piedi, infatti, è fatta a “testimonianza contro di loro”. L'apostolo, pertanto, diverrà testimone nel giudizio divino contro questo rifiuto.

Il v.6 riprende il v.2 e ne dà attuazione: “Ora, uscendo, passavano per i villaggi, annunciando la buona notizia e guarendo ovunque”. Questo versetto è caratterizzato da tre movimenti che qualificano l'itinerare dei missionari: “uscendo”, “passavano per i villaggi”, “annunciando ovunque”. Il primo atto di questi apostoli è l'uscire dalla loro comunità di provenienza, dalla quale sono inviati. Il missionario, pertanto, non è mai un rappresentante di se stesso, ma della comunità di provenienza, che in qualche modo garantisce la veridicità di questo missionario, poiché è la comunità e non la singola persona che è depositaria della Verità. Si tratta, dunque, di una comunità che è intrinsecamente missionaria e guarda fuori da se stessa. Si tratta di un annuncio che si apre “ovunque”. Il movimento qui è espansivo a 360°, non c'è una meta precisa, non c'è un limite, dando in tal modo un'impronta di universalità sia all'itinerare di questi missionari, sia all'annuncio che essi portano con sé. Se l' “ovunque” sottolinea l'universalità, il passare attraverso i villaggi dice il metodo meticoloso con cui questo itinerare si svolgeva: nessuno veniva trascurato e tutti dovevano poter accedere all'annuncio. Quel verbo all'imperfetto, “passavano”, accentua la meticolosità con cui questi missionari si muovevano sul territorio.

Intermezzo: primi interrogativi su Gesù (vv.7-9)

Il senso di questo intermezzo, da un punto di vista letterario, è quello di creare uno stacco narrativo tra l'invio dei Dodici (v.2) e il loro ritorno (v.10). Si tratta di una sorta di pausa di riflessione che l'autore ha costruito per il suo lettore. Questo intermezzo, infatti, presente in Mc 6,14-29 e in Mt 14,1-12, ma qui completamente manipolato e ricostruito a modo proprio da Luca, riducendolo a soli tre versetti, persegue una triplice finalità: da un lato, facendo apparire qui la figura di Erode, richiama espressamente la passione e morte di Gesù, a cui Erode è legato (23,6-12); dall'altro, gli interrogativi che Erode si pone sull'identità di Gesù, ma senza ottenerne risposta, anticipa in qualche modo il tema dell'identità di Gesù, che comparirà per altre due volte in questo capitolo (vv.18-20.35). Un abbinamento questo, che lascia intendere come questa identità sia legata in qualche modo ai destini del Golgota. Lo si comprenderà meglio al v.22, che segue immediatamente il riconoscimento di Gesù come il Cristo (vv.18-20) e similmente al v.35 posto in un contesto dove si parla dell'esodo di Gesù verso Gerusalemme (v.31), luogo della sua passione, morte e risurrezione. Ed infine il lettore è informato della tragica fine del Battista (v.9a), rinchiuso in prigione da Erode (3,20).

L'Erode di cui si parla qui è il tetrarca Antipa, che governava sulla Galilea e sulla Perea. Questi diviene per Luca pretesto per anticipare le dicerie popolari su Gesù che verranno riprese, pari pari, al v.19. Ma a differenza di là, Erode non ottiene alcuna risposta. Non potrà quindi mai accedere alla vera identità di Gesù, perché il suo interesse per lui era una mera curiosità o forse una possibile preoccupazione per un simile personaggio, che sapeva muovere numerose folle e che poteva, quindi, in qualche modo costituire un pericolo per il suo potere. Una preoccupazione questa che lascia intravvedere Mt 2,1-4 e, per parte delle autorità giudaiche, Gv 11,46-50. Per Erode Gesù rimarrà sempre comunque un enigma anche quando, condotto davanti a lui, non riuscirà ad ottenere nessuna risposta da Gesù, limitandosi a insultarlo e a deriderlo, rimandandolo da Pilato (23,6-12).

L'intermezzo si conclude, da un lato, con un interrogativo, che lascia in sospeso la questione dell'identità di Gesù: “Chi è costui del quale sento tali cose?”; dall'altro Luca mette in rilievo il desiderio di Erode: “E cercava di vederlo”. Quel “cercare Gesù per vederlo” non era certamente mosso da buone intenzioni, ma esprime l'intento di ucciderlo. Luca lo dirà chiaramente in 13,31: “In quel momento si avvicinarono alcuni Farisei, dicendogli: <<Esci e parti da qui, poiché Erode vuole ucciderti>>”. In entrambi i casi Luca sembra avvertire il suo lettore che la partita con Erode non è chiusa, ma che avrà il suo epilogo a tempo opportuno (23,6-12).

Il ritorno dei Dodici e conclusione della loro prima missione (v.10)

Concluso l'intermezzo di Erode, Luca riprende e porta a termine il racconto sulla missione dei Dodici, che nel frattempo sono ritornati. Diversamente da Mc 6,31-32 dove Gesù e i Dodici per sottrarsi al grande afflusso delle folle, che non davano loro tregua, se ne fuggono in barca verso un imprecisato luogo solitario e deserto, quasi nascostamente per non farsi trovare, Luca, forse più realisticamente, racconta come Gesù “si ritirò privatamente in una città chiamata Betsaida”, posta a nord-est sul lago di Genesaret, nei pressi di Cafarnao, da dove Gesù era partito per la sua missione in 4,31 e dove era rientrato in 7,1. La scelta del Gesù lucano di non rifuggire le folle, staccandosi da queste per ripararsi in luoghi deserti e solitari, ma limitandosi a creare attorno a sé e ai suoi soltanto un po' di privacy in Betsaida, rimanendo comunque in buona sostanza sempre in mezzo alla gente, destinataria del messaggio evangelico, è probabilmente dettata dal suo spirito missionario, che non fugge dalla gente, ma va incontro ad essa e in mezzo ad essa vi rimane.



Seconda parte: i Dodici sostituiscono Gesù (vv.11-17)

Note generali

Il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci si trova in tutti quattro gli evangelisti e in Marco e Matteo questo viene doppiato, ambientandone uno in territorio dei Giudei, l'altro in terra pagana. Il messaggio è che anche i pagani, alla pari di Israele, sono chiamati a raccolta attorno allo stesso banchetto dell'unico Pane. Si tratta quasi certamente dello stesso racconto che viene sdoppiato. Luca e Giovanni (Gv 6,1-13), infatti, si limitano al solo racconto della prima moltiplicazione, probabilmente ritenendo la seconda un doppione. Cambia solo la numerologia contenuta nei due racconti, che assume significati che alludono ai diversi contesti a cui fanno riferimento i due racconti: giudaico il primo, pagano il secondo. Nel primo racconto, ambientato in terra di Israele, predomina il numero cinque: cinque pani, gruppi di cinquanta, cinquemila persone, forse alludendo ai cinque libri della Torah; mentre le dodici ceste avanzate alludono alle dodici tribù di Israele o ai dodici apostoli delle quali sono figura. Nel secondo racconto, contestualizzato in ambiente pagano, prevale il numero sette: sette i pani e sette le ceste avanzate forse per indicare i sette paesi pagani confinanti con Israele o ai sette diaconi dedicati al servizio delle mense degli ellenisti (At 6,1-6); mentre il numero di quattromila persone, in cui la presenza del quattro richiama i quattro punti cardinali, allude alla totalità del mondo pagano3. Se da un lato si è reso necessario un breve appunto sul simbolismo di questi numeri, va tuttavia detto che per Luca, greco che sta scrivendo al mondo ellenista e pagano in genere, la numerologia di questo racconto ha ben poco significato. Egli, infatti, riporta da Marco il testo che ha trovato, ma lo modifica secondo la propria prospettiva ecclesiologica.

Lo sfondo biblico, molto più evidente in Giovanni (Gv 6,30-33), si richiama all'evento della manna nel deserto4, che viene fatto riecheggiare in qualche modo nell'espressione “qui siamo in un luogo deserto” (v12c). Un evento quello della manna, come l'esperienza del deserto, che rimase profondamente impresso nella mente e nel cuore di Israele e che viene ricordato dal Sal 77,18-255. Se la manna richiama l'evento del pane che proviene dal cielo, il racconto nel suo insieme ricorda l'episodio di Eliseo: “Da Baal-Salisa venne un individuo, che offrì primizie all'uomo di Dio, venti pani d'orzo e farro che aveva nella bisaccia. Eliseo disse: <<Dallo da mangiare alla gente>>. Ma colui che serviva disse: <<Come posso mettere questo davanti a cento persone?>>. Quegli replicò: <<Dallo da mangiare alla gente. Poiché così dice il Signore: Ne mangeranno e ne avanzerà anche. Lo pose davanti a quelli, che mangiarono, e ne avanzò, secondo la parola del Signore” (2Re 4,42-44). Un racconto di moltiplicazione che ne richiama da vicino un altro, sempre tratto da 2Re 4,1-7 e che vede sempre Eliseo come protagonista, è quello della moltiplicazione dell'olio.

Ma ciò che prevale in questo racconto non è tanto la moltiplicazione dei pani e dei pesci, che forma da cornice narrativa, bensì l'aspetto relazionale e transizionale, che avviene in un contesto eucaristico e che in qualche modo è ad esso legato. Quanto all'aspetto relazionale vengono messi in rilevo i rapporti tra Gesù e i Dodici e tra questi e le folle; quanto all'aspetto transizionale viene messo in rilievo il passaggio di operatività da Gesù ai Dodici, che qui assumono una sorta di posizione vicariale sia nei confronti di Gesù che della gente. Fin dall'inizio del racconto, infatti, sono i Dodici che prendono l'iniziativa nei confronti di Gesù a favore della gente, sentendosene in qualche modo responsabili (v.12); Gesù li sospinge a prendere le decisioni (v.13a), ma egli in tutto il racconto rimane come nelle retrovie, lasciando che siano i Dodici ad esporsi al suo posto. Questi, tuttavia, in tutto ciò che fanno dipendono da Gesù, dalla sua Parola: “Date voi da mangiare a loro”, “Fateli sdraiare”, Gesù consegna loro il pane benedetto perché lo distribuiscano. I Dodici pur operando in prima persona, si fanno tuttavia esecutori della volontà del loro Maestro, che comunque rimane sempre al centro della loro attenzione, quale punto di riferimento costante. È significativo, infatti, che ad ogni parola di Gesù, l'evangelista commenti come i Dodici la eseguano.

Il racconto, tuttavia, soffre di alcune tensioni interne. Si dice che Gesù con i Dodici si erano ritirati a Betsaida, ma poi sembrano trovarsi in un luogo deserto, lontano da Betsaida. Si dice di rimandare le folle nei villaggi d'intorno. Ma quali? Lì c'era solo Betsaida. Quando Gesù li invita a sfamare la gente i Dodici si propongono loro di andare a comperare il cibo per tutte le folle. Comperare? Dove, visto che si trovano in un luogo deserto e visto che ormai era sera? Ma dove andavano a prendere i soldi per comperare quella mastodontica quantità di cibo per cinquemila persone. Quali mezzi avevano, poi, per trasportarlo e quanto tempo avrebbero impiegato per comperarlo e poi distribuirlo? Ci sarebbero stati poi negozi sufficienti a vendere loro quell'enormità di cibo? Neanche i nostri moderni e ben attrezzati supermercati sarebbero in grado di far fronte ad una simile inattesa richiesta. Non va dimenticato che siamo ormai verso sera (v.12a) e non c'era più tempo per organizzare né le compere, né il trasporto, né la distribuzione. Vi era poi un problema di illuminazione, considerato che di lì a poco avrebbe fatto buio pesto. Che cosa ci facevano, poi, lì cinquemila uomini “oltre alle donne e ai bambini”, come ricorda Mt 10,21b? Ma questi non andavano a lavorare? Dove si trovavano tanti uomini, magari capi famiglia, disposti a perdere una giornata di lavoro per sentir parlare un tale sia pur questi un prestigioso rabbi? Molte incongruenze girano attorno a questo racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci per essere realmente accaduto. Un racconto eccessivamente caricato di significati cristologici e teologici, nonché di simbolismi numerici. Forse alla base di questo racconto ci può essere stato un evento reale, ma certamente molto più modesto e sorto in un contesto completamente diverso. È difficile, pertanto, stabilire che cosa sia successo veramente e in quali termini, poiché ci troviamo di fronte ad un evento, qualora accaduto, molto manipolato e trasformato in un qualcosa di completamente diverso.

Commento ai vv. 11-17


La scena precedente il v.11 vede il ritorno dei Dodici dalla loro missione e Gesù, ritiratosi in privato con loro a Betsaida, ascoltarli sulla loro prima esperienza missionaria (vv.2.10). Il v.10, pertanto, chiude l'esperienza missionaria dei Dodici, iniziatasi con la trasmissione dei poteri di ai Dodici (v.1) e il loro invio in missione (v.2). Ora la narrazione fa un ulteriore passo in avanti, incentrando l'attenzione del lettore sulla sostituzione di Gesù da parte dei Dodici. I Dodici, pertanto, non solo rivestiti dei poteri di Gesù (v.1), non solo inviati in missione (v.2), ma ora anche vicari di Gesù. Ci troviamo quindi di fronte ad un passaggio graduale che completa definitivamente l'investitura dei Dodici, con la quale Luca chiude il lungo discorso ecclesiologico iniziato con il cap.5.

Il v.11 si apre ora presentando una scena molto densa, che fornisce la chiave di lettura dell'intero racconto, ponendolo su di uno sfondo missionario: “Ora, le folle, saputolo, lo seguirono. E ricevutele, parlava a loro del regno di Dio e guariva quelli che avevano bisogno di guarigione”. Sono folle che accorrono da Gesù. Non si tratta, tuttavia, di un semplice accorrere a lui, ma di “seguirlo”; un verbo questo che è reso in greco con “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan, lo seguirono), che parla di una sequela che si pone al servizio di Gesù e che i Sinottici usano per definire la sequela dei discepoli. Sono, quindi, folle particolari, che descrivono probabilmente l'ampia schiera dei discepoli, quelli che avevano già accolto la parola di Gesù e già avevano aderito al suo insegnamento. Quella schiera di discepoli che si è trovata anche in 6,17. Di fronte a loro Gesù si rende disponibile e le accoglie tra i suoi discepoli, così come loro lo hanno accolto e si sono poste al suo servizio. Saranno proprio loro, infatti, che saranno invitate a “sdraiarsi” per mangiare il pane benedetto e spezzato, distribuito dai Dodici (vv.14-15), usando un verbo caratteristico, “Katakl…nate” (Kataklínete), che descrive il sedersi alla mensa. Saranno proprio queste folle che verranno organizzate in gruppi di cinquanta attorno alla mensa del pane, alludendo, quasi certamente alle prime comunità credenti. A queste folle Gesù “parlava loro del regno di Dio e guariva quelli che avevano bisogno di guarigione”. Le due espressioni qui riportate sono le stesse che Luca ha usato al v.2 per descrivere i contenuti della missione dei Dodici e queste folle raffigurano in qualche modo il frutto di quella missione, il cui senso è portarle alla sequela di Gesù (v.11a) e farle sedere alla mensa (vv.14-15). I verbi che reggono queste due espressioni, “parlava” e “guariva” sono entrambi posti all'imperfetto indicativo per indicare un annuncio ed una guarigione persistenti e continuativi, che se da un lato devono caratterizzare l'azione missionaria, dall'altro dice come in mezzo alle comunità credenti Parola e guarigione qualificano le stesse comunità. È significativo come Parola e guarigione siano messe tra loro in forma sequenziale, poiché è proprio l'ascolto accogliente di questa Parola che produce la guarigione, cioè la trasformazione dell'uomo in credente e discepolo. Similmente Col 3,16 esorta la comunità a far si che : “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali”. Dalla Parola nasce infatti sia un ammaestramento, che consente di penetrare il Mistero di Cristo, che un ammonimento, cioè una correzione che spinga il credente a conformarsi sempre più alla Parola e in e con essa a Cristo.

Il v.12 si apre con una nota temporale molto significativa che funge da chiave di lettura di quanto segue: “Ora il giorno incominciò a declinare”. Questa nota temporale in Mt 14,15a è presentata come un dato compiuto: “Giunta la sera”; e similmente in Mc 6,35a: “E l'ora già divenuta molto (tarda)”. Completamente diversa è la prospettiva lucana: il giorno, infatti, non è già declinato; non è già giunta la sera, ma “incominciò a declinare”. Il giorno, inteso come lo spazio temporale di luce di circa dodici ore, è il tempo in cui gli uomini svolgono le loro attività, poi, giunta la sera e con questa la notte, ogni attività cessa. Un aspetto questo quanto mai vero soprattutto nell'antichità dove gli uomini seguivano i ritmi biologici della natura. Questo concetto lo ritroviamo sostanzialmente identico in Gv 11,9-10, dove il Gesù giovanneo, rispondendo ai suoi discepoli preoccupati per la sua decisione di ritornare in Giudea, dove poco prima aveva rischiato di essere lapidato (Gv 10,31-33), dirà loro: “Non sono dodici le ore del giorno? Se uno cammina di giorno non inciampa, poiché vede la luce di questo mondo; ma se uno cammina di notte inciampa, poiché la luce non è in lui”. Gesù intendeva dire in buona sostanza che il suo tempo non era ancora compiuto e che pertanto non correva nessun pericolo. Il giorno a cui il Gesù giovanneo qui fa riferimento è il tempo in cui egli deve compiere la sua missione per la quale è venuto. Soltanto dopo verrà l'ora delle tenebre (22,53). Similmente Luca, per molti aspetti molto vicino a Giovanni, vede nel giorno il tempo della missione di Gesù. Un tempo che non è già declinato, ma che incomincia a declinare. Si sta andando quindi verso la fine. Già lo si è detto all'inizio, introducendo il cap.9, come questo costituisca una svolta radicale, una sorta di brusca sterzata verso il Golgota, che trova il suo vertice nel v.51. Quanto si legge in questo capitolo pertanto va compreso in questa prospettiva.

Ma se il Golgota fa da sfondo all'intero capitolo, allora si rende necessario comprendere gli scenari biblici a cui questo giorno, che incomincia a declinare, apre e i contesti che a questo si richiamano. È così che i due discepoli di Emmaus si rivolgono allo sconosciuto, che li aveva riconquistati: “Rimani con noi, poiché è sera e il giorno è già declinato”. Ed è proprio qui che lo sconosciuto si rivelerà come Pane spezzato che si dona a loro (24,29-30). È il medesimo contesto, quello del giorno che sta declinando, sul far della sera, che apre la celebrazione della Pasqua ebraica, in cui Gesù divenne pane spezzato e sangue sparso per tutti (22,19-20) e che fin da subito le prime comunità credenti hanno trasformato in un memoriale, in cui si ricorda proprio questo aspetto temporale del giorno ormai definitivamente declinato (1Cor 11,23-26). Ed è sempre qui, al v.12, che viene richiamato il “luogo deserto” in cui riecheggia l'esperienza di Israele nel deserto dove Jhwh ha fatto piovere il pane dal cielo (Es 16,4; Gv 6,31-33) e che Mosè definirà come il pane del Signore (16,15). La cornice con cui viene inquadrato il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci è pertanto chiaramente eucaristica.

Il v.12, infine, al di là di questi aspetti temporali ed eucaristici, apre anche un nuovo scenario che vede i Dodici, per la prima volta, prendere l'iniziativa a favore delle folle. Se ne sentono in qualche modo responsabili e suggeriscono delle soluzioni, benché del tutto inadeguate: “Congeda la folla, affinché, andando nei villaggi e nei campi d'intorno alloggino e trovino delle provviste”. Ma Gesù li responsabilizza ancor di più, coinvolgendoli nel problema in prima persona: “Date voi da mangiare a loro”. Sono loro, i Dodici, che da questo momento devono provvedere a queste folle, organizzarle e gestirle. Ed ecco il nuovo comando di Gesù: “Fateli sdraiare in crocchi di [circa] cinquanta”. Due gli elementi rilevanti in questo comando di Gesù: suddividere l'enorme massa di persone in piccoli gruppi di circa cinquanta persone e farli “sdraiare”. L'enorme quantità di persone che si apre davanti a loro diviene la figura delle grandi masse di persone che hanno accolto la Parola e hanno deciso la sequela di Gesù (v.11a). Queste enormi folle non possono essere gestite nel loro insieme in modo anonimo e impersonale, ma vanno raggruppate in piccole comunità credenti, dove ogni persona si ritrova più familiarmente con le altre e dove l'una è conosciuta da tutte. E ciò che caratterizza queste piccole comunità e le rende tali e univoche è il loro “sdraiarsi”, un verbo tecnico che definisce il sedersi a mensa, dove verrà loro distribuito il pane spezzato. E queste cibandosi tutte dell'unico Pane sono chiamate tutte a riconoscersi in questo unico Pane, che ne definirà l'identità come comunità dove si ascolta la Parola e si spezza l'unico Pane (At 2,42.46; 20,7a). Un concetto questo che Paolo elaborerà nella sua lettera alla comunità di Corinto, lacerata da divisioni interne: “Parlo come a persone intelligenti; giudicate voi stessi quello che dico: il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane” (1Cor 10,15-17).

Il v.16 riporta i tratti salienti del rituale eucaristico: il pane, il levare gli occhi al cielo, il benedirlo, lo spezzarlo e, infine, il distribuirlo ai presenti. Il cibo presentato a Gesù e da lui benedetto è composto da cinque pani e due pesci. Cinque più due, cioè sette pezzi. Un numero, il sette, che nel linguaggio biblico dice compiutezza e perfezione. Si tratta dunque di un cibo in se stesso perfetto e benché sia da pensare che pani e pesci siano stati in egual modo distribuiti, tuttavia l'attenzione va a cadere soltanto sul pane. Soltanto questo, infatti, può essere spezzato e raccolto a pezzi in ceste. Difficilmente lo spezzare e i pezzi possono riferirsi ai pesci. E che l'attenzione sia incentrata sul solo pane ne è prova che Luca, che qui sta riportando Marco, tralascia la doppia precisazione marciana: “portarono via dodici ceste piene di pezzi di pane e anche dei pesci”, limitandosi a sottolineare che furono portate via “dodici ceste di pezzi”, con riferimento, qui, al solo pane.

Il v.17 chiude il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci sottolineando la sovrabbondanza di questo cibo perfetto che non solo ha avuto il potere di saziare questa folla immensa, ma ne fu anche sopravanzato nella misura di dodici ceste. Una sovrabbondanza che caratterizza i tempi messianici in cui il dodici sottolinea l'efficacia dell'azione apostolica in mezzo alle genti: un'azione capace di saziare con un Pane perfetto e compiutosi nella persona stessa di Gesù, il vero Pane disceso dal cielo e capace di dare la vita stessa di Dio, coinvolgendo e assimilando a sé chiunque ne mangi (Gv 6,32-35).


Sezione preparatoria al grande viaggio verso Gerusalemme (9,18-50)


Testo a lettura facilitata

L'identità di Gesù, disvelata da Pietro, è legata alla passione-morte-risurrezione

18 – Ed avvenne che mentre egli stava pregando da solo, i discepoli erano con lui, e li interrogava dicendo: <<Chi dicono le folle che io sia?>>.
19 – Questi rispondendo dissero: <<Giovanni il Battista; altri, invece, Elia; altri ancora, invece, che un profeta, qualcuno degli antichi, è risuscitato>>.
20 – Ma egli disse loro: <<Ma voi, chi dite che io sia?>>. Ora Pietro rispondendo disse: <<Il Cristo di Dio>>.
21 – Ma egli, dopo averli redarguiti, ordinò di non dire questo a nessuno,
22 – dicendo che bisogna che il figlio dell'uomo soffra molte cose e che sia rigettato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi e che sia ucciso e al terzo giorno sia risuscitato.

Intermezzo: l'identità del vero discepolo è legata a quella del suo Maestro

23 – Ora, diceva verso tutti: <<Se qualcuno vuole venire dietro di me, neghi se stesso e prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
24 – Chi, infatti, volesse salvare la sua vita, la perderà; ma chi perdesse la sua vita a causa mia, questi la salverà.
25 – Infatti, di che cosa si avvantaggia un uomo, avendo guadagnato tutto il mondo, ma avendo perso se stesso o avendone ricevuto danno?
26 – Poiché chi si è vergognato di me e delle mie parole, di questi il figlio dell'uomo si vergognerà, allorché sia venuto nella sua gloria e del Padre e dei santi angeli.
27 – Vi parlo con verità, vi sono alcuni di quelli che stanno qui, che non sperimenteranno (la) morte finché (non) abbiano visto il regno di Dio.

L'identità di Gesù, rivelata dal Padre, è legata alla sua passione-morte-risurrezione

28 – Ora avvenne che, circa otto giorni dopo questi discorsi,[e] presi Pietro e Giovanni e Giacomo, salì sul monte a pregare.
29 – E nel mentre che egli stava pregando, l'aspetto del suo volto divenne diverso e la sua veste lucente lampeggiante.
30 – Ed ecco due uomini parlavano con lui; questi erano Mosè ed Elia,
31 – che, visti in gloria, parlavano del suo esodo, che stava per compiere in Gerusalemme.
32 – Ora Pietro e quelli con lui erano oppressi dal sonno; ma svegliatisi videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
33 – Ed avvenne che, mentre essi si separavano da lui, disse Pietro verso Gesù: <<Maestro, è bello che noi siamo qui, anzi facciamo tre tende, una per te e una per Mosè e una per Elia>>, non sapendo ciò che dice.
34 – Ora, mentre egli diceva queste cose, venne una nube e li adombrava; ma furono spaventati nell'entrare essi nella nube.
35 – E dalla nube venne una voce che dice: <<Questi è il mio Figlio, l'eletto, ascoltatelo>>.
36 – E nel mentre avveniva la voce, Gesù fu trovato solo. Ed essi tacquero e in quei giorni non riferirono niente a nessuno di ciò che avevano visto.

Un esorcismo che preannuncia la passione-morte-risurrezione di Gesù

37 – Ora avvenne che, nel giorno dopo, discesi essi dal monte, molta folla gli andò incontro.
38 – Ed ecco un uomo dalla folla gridò dicendo: <<Maestro, ti prego volgi lo sguardo su mio figlio, poiché mi è unico.
39 - Ed ecco, uno spirito lo prende e subito grida e lo malmena con schiuma e con fatica si allontana da lui, dopo averlo fiaccato.
40 – E pregai i tuoi discepoli affinché lo scacciassero, e non poterono>>.
41 – Rispondendo Gesù disse: <<O generazione incredula e depravata, fino a quando sarò presso di voi e vi sopporterò? Porta qui il tuo figlio>>.
42 – Ora, avvicinandosi egli, il demonio lo sconquassò e (lo) contorse convulsamente. Ma Gesù rimproverò lo spirito impuro e guarì il fanciullo e lo rese a suo padre.
43 – Ora, tutti sbalordivano per la grandezza di Dio. Ora meravigliandosi tutti per tutte le cose che faceva, disse verso i suoi discepoli:
44 - <<Deponete voi nelle vostre orecchie queste parole: che il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini>>.
45 – Ma questi non riconoscevano questa parola ed era nascosta a loro, sicché non la comprendevano, e temevano di interrogarlo su questa parola.

La vita non come affermazione di se stessi, ma come servizio aperto a tutti

46 – Ora, entrò una disputa in loro, chi fosse il più grande di loro.
47 – Ora, Gesù, sapendo il pensiero del loro cuore, preso un bambino, lo pose presso se stesso
48 - e disse loro: <<Chi accoglierà questo bambino nel mio nome, accoglie me; e chi accoglierà me, accoglie colui che mi ha mandato; poiché il più piccolo tra tutti voi, questi è grande>>.
49 – Ora, rispondendo Giovanni disse: <<Maestro, abbiamo visto uno che caccia i demoni nel tuo nome e lo impedivamo, poiché non segue con noi>>.
50 – Ma disse verso di lui Gesù: <<Non impedite; poiché chi non è contro di voi, è per voi>>.


Note generali


Se con la sezione ecclesiologica (vv.1-17) si completa e si chiude il lungo discorso ecclesiologico iniziato con il cap.5, mettendo in evidenza il “passaggio di consegne” tra Gesù e i Dodici (vv.1.2.13a) in prospettiva del viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28) e la sua conclusione sul Golgota, per dare continuità alla sua missione e alla sua opera, con questa seconda sezione (vv.18-50) l'autore si preoccupa di mettere in rilievo l'identità di Gesù che qui viene strettamente legata alla sua passione-morte-risurrezione. Questa stretto legame tra identità ed eventi dolorosi e gloriosi serve a Luca per far comprendere il senso del patire, morire e risorgere di questo uomo e, quindi, di conseguenza, il significato, la valenza di questo suo patire, morire e risorgere non solo in rapporto alla persona stessa di Gesù, ma anche all'intera umanità e, in particolare, ai credenti. In altri termini, gli eventi del Golgota hanno sancito la fine di un sedicente messia e impostore, come altri, prima e dopo di lui si sono dichiarati; o, invece, questi eventi compiutisi in Gerusalemme hanno un intrinseco valore e un loro proprio significato? Un significato e un senso che, proprio per la verità contenuta in Gesù e negli eventi da lui stesso vissuti, hanno operato e inciso su tutti gli uomini di ogni tempo e di ogni latitudine, interpellandoli individualmente e spingendoli ad una scelta esistenziale che sarà per sempre determinante nella loro vita, ponendosi, quindi, come elementi di discriminazione e di giudizio escatologico su ciascun uomo, credente o meno che sia. Più semplicemente: se Gesù fosse stato un falso profeta, un messia impostore il suo patire e il suo morire sarebbero stati la logica conclusione di un povero illuso e una giusta ricompensa per questa sua menzogna di vita. Ma se Gesù è veramente il “Cristo di Dio”, allora tutto cambia e tutto assume un significato e un senso completamente diverso e tutto e tutti sono coinvolti e interpellati da questi eventi di morte e di risurrezione.

Luca, quindi, con questa sezione sta preparando il suo lettore a comprendere chi sia veramente Gesù e, di conseguenza il significato e il senso del suo patire-morire-risorgere. Per questo l'autore lega strettamente tra loro identità di Gesù e gli eventi dolorosi del Golgota, perché è l'identità di Gesù che dà significato e senso a questi. E tutto ciò l'autore lo fa a ridosso dell'inizio del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme (v.51) e, da qui, al Golgota. In tal modo, il lettore lucano è preavvertito ed è chiamato a comprendere questo viaggio in questa prospettiva. Per questo motivo ho ritenuto di titolare questa sezione come elemento letterario preparatorio al grande viaggio verso Gerusalemme.

La struttura di questa sezione (vv.18-50) è scandita in cinque parti preannunciate nella sezione del “Testo a lettura facilitata”, da cui si rileva lo stretto legame tra identità di Gesù ed eventi compiutisi in Gerusalemme: 

  1. L'identità di Gesù, disvelata da Pietro, è legata alla passione-morte-risurrezione (vv.18-22);

  2. Intermezzo: l'identità del vero discepolo è legata a quella del suo Maestro (vv.23-27);

  3. L'identità di Gesù, rivelata dal Padre, è legata alla sua passione-morte-risurrezione (vv.28-36);

  4. Un esorcismo che preannuncia la passione-morte-risurrezione di Gesù (vv.37-45);

  5. La vita non come affermazione di se stessi, ma come servizio (vv.46-50).


Commento alla sezione preparatoria al grande viaggio verso Gerusalemme (9,18-50)


L'identità di Gesù, disvelata da Pietro, è legata alla passione-morte-risurrezione (vv.18-22)


Il tema dell'identità di Gesù si è posta più volte nel vangelo lucano a partire dai racconti dell'infanzia, dove vi è un notevole concentrato di titoli cristologici a partire dallo stesso nome imposto al bambino: Gesù, “Dio salva”, in cui si prospetta la sua stessa missione (1,31); egli è “Figlio dell'Altissimo” (1,32a) della regale discendenza davidica (1,32b), quindi colui che realizza le promesse messianiche fatte da Natan al re Davide (2Sam 7,12-16); “Santo e Figlio di Dio” (1,35); egli è definito “mio Signore” da Elisabetta (1,43); “Salvatore” e “Cristo Signore” in 2,11.30; “luce per le genti e gloria di Israele” (2,32); i demoni incontrando Gesù lo apostrofano come “Figlio di Dio” (4,41; 8,28); viene accusato di essere “Cristo re” davanti ai sommi sacerdoti (23,2); lo stesso Gesù davanti al Sinedrio attesta di essere Figlio di Dio (22,70). Perché, dunque, Luca sente il bisogno di precisare ulteriormente l'identità di Gesù? Per tre semplici motivi: il primo letterario, in quanto qui Luca sta seguendo il racconto marciano, che riprende proprio da qui, dalla professione di Pietro (Mc 8,27ss), dopo la grande omissione (Mc 6,45-8,26); il secondo, perché in termini più specifici accentra l'attenzione del suo lettore sull'identità e la natura di Gesù, definendola in termini ufficiali e inequivocabili, e la sua importanza nasce dal fatto che è Gesù stesso a porre la questione della sua identità; ed infine, perché associa il titolo di “Cristo di Dio” alla passione e morte di Gesù, dando una nuova prospettiva al titolo di Cristo.

Il v.18 apre la questione sull'identità di Gesù e funge da preambolo alla questione stessa: “Ed avvenne che mentre egli stava pregando da solo, i discepoli erano con lui, e li interrogava dicendo: <<Chi dicono le folle che io sia?>>”. Come è caratteristico di Luca, il racconto si apre con un verbo a lui caro, “™gšneto” (eghéneto, avvenne, accadde), che ricorre nei vangeli 117 volte, di cui ben 69 nel solo Luca. Un verbo che scandisce l'accadere degli eventi salvifici nella storia della salvezza. La sua apparizione qui, pertanto, attribuisce al racconto sull'identità di Gesù una valenza salvifica, poiché ciò che qui accade è il disvelarsi della vera natura di Gesù, colta qui nella prospettiva del Golgota. Tale disvelamento assume qui un aspetto ufficiale, il cui significato e la cui dimensione reale verranno poi rivelati nel racconto della Trasfigurazione (vv.28-36).

Il contesto entro cui avviene questa dichiarazione di identità è la preghiera: “mentre egli stava pregando da solo, i discepoli erano con lui, e li interrogava dicendo: <<Chi dicono le folle che io sia?>>”. Questa espressione risente di una certa tensione interna, poiché si attesta che Gesù pregava da solo, ma in realtà si dice che i discepoli erano con lui; e mentre pregava chiede loro che cosa pensa la gente di lui. C'è quindi un accavallarsi di situazioni che lascia perplesso il lettore: ma allora Gesù era da solo oppure no? Come definire, poi, il pregare di Gesù, il quale proprio mentre prega chiede ai suoi che cosa la gente pensa di lui? Si tratta di una distrazione di Gesù durante la sua preghiera? Questo insieme di apparenti contraddizioni trovano la loro univoca soluzione nel senso e nel modo di pregare di Gesù. Che cos'è per Gesù il pregare? Che cosa avviene nella preghiera di Gesù? Per nove volte nel racconto lucano Gesù è presentato in preghiera6, che scandisce i momenti più significativi della sua missione, sottolineando la sua necessità di intrattenersi con il Padre (5,16): in occasione del suo battesimo, che sancisce l'inizio della sua missione (3,21); prima della scelta dei Dodici (6,12ss); nel mentre che sta per rivelare la sua identità di Cristo di Dio (9,18ss); in occasione della trasfigurazione (9,28.29), in cui rivela la sua identità divina, quale Figlio generato dal Padre; nel momento cruciale della sua passione nell'orto del Getsemani (22,42-45). La natura di questa preghiera, come si evince dai passi citati, si evidenzia come una intima comunione di vita con il Padre; momenti che dicono il suo costante orientamento verso di Lui, da cui attinge la sua volontà, che dà forma, consistenza e senso alla sua stessa vita. Significative in tal senso sono le affermazioni del Gesù giovanneo: “In verità, in verità vi dico, il Figlio non può fare da se stesso niente, se non ciò che vede fare il Padre; infatti, quelle cose che quello fa anche il Figlio ugualmente queste fa. Il Padre, infatti, vuole bene al Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, e gli mostrerà opere maggiori di queste, affinché voi stupiate” (Gv 5,19-20); e similmente in 5,30: “Io non posso fare niente da me stesso; come ascolto giudico, e il mio giudizio è giusto, poiché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato”. Da qui la necessità di Gesù di ritirarsi in luoghi deserti e pregare: “Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava” (Lc 5,16). I due verbi posti all'imperfetto indicativo dicono come questo suo ritirarsi in luoghi deserti e il suo pregare fossero una sua costante di vita. In altri termini, Gesù e il Padre sono una cosa sola (Gv 10,30; 17,21); e un canale di profonda, intima ed esclusiva comunione lega i Due, così che il fare di Gesù è il fare del Padre, divenendo in tal modo Gesù il luogo storico della manifestazione del Padre. Tutto ciò definisce l'essenza del pregare di Gesù, strettamente legato alla sua stessa natura, anzi ne è espressione viva. In questo contesto di costante e profonda comunione con il Padre, che fa parte della sua stessa natura, egli pone la questione rivelativa della sua identità. La pone perché Gesù qui si sta muovendosi secondo un preordinato disegno del Padre. Da qui l'importanza della questione, che viene posta su di un duplice livello: popolare e personale: “Chi dicono le folle che io sia? […] Ma voi, chi dite che io sia?”. Una doppia domanda che presuppone una doppia risposta che interpella un duplice livello di comprensione: quello secondo la tradizione e quello secondo la fede.

La risposta di primo livello riporta ciò che la Tradizione giudaica aveva elaborato: “Giovanni il Battista; altri, invece, Elia; altri ancora, invece, che un profeta, qualcuno degli antichi, è risuscitato” (v.19). È la stessa che già abbiamo trovato in 7b-8 e che anche Erode conosceva. Quel Erode che riteneva Gesù una sorta di saltimbanco con cui divertirsi un po' (23,8), ma questo Gesù non gli dirà niente e rimarrà per Erode impenetrabile, un enigma (23,9), perché Erode si muoveva secondo logiche umane di potere. Ed è ciò che è capitato anche alla Tradizione giudaica, che si attendeva il ritorno di Elia (Ml 3,23) o che apparisse finalmente il profeta promesso da Dio a Mosé (Dt 18,15) o comunque uno degli antichi profeti, che ancora in qualche modo parlasse al popolo con la stessa voce di Dio. Tutto era preordinato e tutto era già atteso dalla gente. Ma quando venne il Verbo incarnato (Gv 1,14) tra i suoi, questi non lo accolsero (Gv 1,11), perché la sua persona non corrispondeva ai loro schemi dottrinali e alla loro Tradizione. Nessuno si aspettava un qualcosa di diverso da quello che loro avevano elaborato, un qualcosa di nuovo che uscisse da questi schemi dottrinali, predisposti dall'uomo, ma non da Dio (Mt 15,9; Mc 7,7), così che quando Gesù venne, lo rifiutarono e lo uccisero, per le sue blasfeme pretese (Gv 10,33). E tutto ciò costituirà anche il dramma interiore di Paolo (Rm 9,1-2), che alla questione dedicherà ben tre capitoli della sua lettera ai Romani (Rm 9-11). Egli non riusciva a capacitarsi come un popolo che aveva avuto tutto: i Patriarchi, la Torah, l'Alleanza, i Profeti che lo stavano preparando all'incontro con il suo Dio, una volta che questi è giunto tra loro, lo abbiano rifiutato, perseguitato e infine ucciso (Rm 9,3-5). Paolo cercherà in questo rifiuto un motivo teologico, che lo potesse aprire alla speranza nel giudizio finale: “Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,15).

La risposta di secondo livello è posta da tutti tre i Sinottici sulle labbra di Pietro, il riconosciuto capo della nascente Chiesa (Mt 16,17-19; Gv 21,15-17), imprimendo in tal modo sulla dichiarazione di identità una sorta di veridicità dottrinale indiscutibile, alla quale il Gesù matteano legherà lo stesso primato petrino (Mt 16,16-19). Mt 16,16 riporta: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”; Mc 8,29b attesta: “Tu sei il Cristo”, mentre Lc 9,20b dichiara: “Il Cristo di Dio”. Per tutti Gesù è il Cristo, cioè l'unto, il Messia7 atteso. Quali fossero le loro attese circa questo messia lo lascia intendere la reazione di Pietro all'annuncio di un Messia sofferente (Mt 16,22; Mc 8,32). La storia delle attese messianiche in Israele è molto lunga e complessa e parte con la profezia di Natan a Davide (2Sam 7,12-16) e con la promessa di Dio di far sorgere in mezzo al suo popolo un profeta (Dt 18,15). Nel corso dell'intero A.T. questa figura dai contorni sempre molto sfumati e indefiniti, a cui si attribuivano poteri di redenzione e di riscatto di tipo politico o religioso a favore del popolo, animando le sue speranze e le sue attese (At 1,6), assume, di volta in volta, i contorni del Servo di Jhwh8, di un re giusto che governa con giustizia e rettitudine9; di un germoglio, promesso da Jhwh, che accenderà le speranze di Israele. Un tema questo del Germoglio che attraverserà numerose profezie10. Appare ancora come un principe dominatore che ristabilirà le sorti di Israele e pascerà il popolo con la forza di Jhwh (Mi 5,1-4a). Un messia che ha dimensioni umane e la sua nascita è strettamente legata ad una donna, che viene posta al centro dell'attenzione, come Is 7,14-15; o è visto come un bambino, la cui nascita è colta come un dono divino ed è destinato a grandi imprese sotto l'egida di Jhwh (Is 9,5-6); egli è chiamato da Jhwh fin dal seno materno e su di lui è posto il sigillo di Dio e la sua gloria (Is 49,1-3). Compare, poi, la figura enigmatica di un “Figli di uomo” a cui Jhwh darà ogni potere e tutte le nazioni gli saranno assoggettate e il suo regno non avrà mai fine:Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto” (Dn 7,13-14). Queste apparizioni di personaggi messianici hanno il loro parallelo anche in scenari messianici, dai tratti idilliaci11. È, dunque in questo contesto religioso, sociale e politico che viene collocata la dichiarazione di Pietro, che identifica Gesù come il “Cristo”, cioè l'Unto, il consacrato di Jhwh, il Messia atteso. Matteo assegnerà a questo Messia una natura divina, definendolo “Figlio del Dio vivente”; Marco si limiterà a definire Gesù come “il Cristo”, riservandosi di attribuire la sua figliolanza divina sotto la croce (Mc 15,39); un “Cristo, Figlio di Dio” che formerà da titolatura al suo stesso racconto evangelico (Mc 1,1). Quanto a Luca, in modo più confacente al suo pubblico ellenistico, definirà Gesù come “il Cristo di Dio” nel senso che appartiene a Dio, alla sua alea divina; quel “di Dio”, infatti, ne specifica non solo l'appartenenza, ma anche la natura e in qualche modo la provenienza. Un accostamento di titoli, questo, che è caratteristico di Luca: “Cristo Signore” in 2,11; “Cristo re” in 23,2; “Cristo di Dio” in 9,20 e 23,35. Ma l'autore presenta anche formule più elaborate in cui accanto al titolo di Cristo compare anche quello di “Figlio di Dio” (4,41) e di “Figlio di Davide” (30,41).

Non manca una simile dichiarazione neppure in Giovanni dove, in un contesto molto diverso, ma nel contempo molto vicino a quello sinottico, il Gesù giovanneo pone ai suoi una scelta radicale: se rimanere con lui o andarsene (Gv 6,67), a fronte della quale sempre Pietro, prendendo la parola a nome di tutti, attesta: “Signore, da chi andremo? (Tu) hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio” (Gv 6,68-69).

La dichiarazione petrina di “Cristo di Dio” non è casuale, poiché essa ricomparirà in 23,35 nel contesto della passione e morte. Già fin d'ora, quindi, il titolo viene legato da Luca agli eventi del Golgota. E che così sia lo suggerisce anche il v.22, dove Gesù prospetta per la prima volta il suo destino di sofferenza e di morte, posto immediatamente dopo l'attestazione di Pietro.

In tutti tre i Sinottici la dichiarazione di Pietro viene fatta seguire dall'ordine di Gesù di non parlarne con nessuno. Il motivo più probabile per tale divieto è il clima di attese messianiche molto diffuso tra la gente, indirizzate ad un messia politico, militare o religioso. Questo avrebbe causato dei pericolosi fraintendimenti con rischio di rivolte o sommosse, che Roma non avrebbe esitato a reprimere nel sangue12. Quale fosse il clima diffuso tra la gente nel momento in cui gli evangelisti scrivono (65-110 circa) traspare in qualche modo dagli stessi racconti evangelici. In merito Luca lascia intravvedere lo spirito di attesa che albergava nell'animo di ogni israelita: “Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele” (Lc 2,25); così similmente, parlando di Anna, la profetessa, sottolinea come essa “Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Anche Giovanni, da parte sua, lascia trapelare dalla bocca della Samaritana questa attesa del Messia: “So che deve venire il Messia [cioè il Cristo]: quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa” (Gv 4,25). I discepoli di Giovanni si rivolgono a Gesù chiedendogli se fosse lui colui che doveva venire o se dovevano aspettarne un altro (Mt 11,3). Il timore di rivolte capeggiate da sedicenti messia era sempre presente e molto temuto anche fra le stesse autorità religiose, allorché decisero di sopprimere Gesù: “I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>” (Gv 11,47-48).

Il v.22 conclude il breve racconto sull'identità di Gesù specificando la vera natura di questo suo messianismo, togliendo in tal modo ogni illusione da parte dei suoi, molto dura a morire a quanto ci racconta lo stesso Lc 24,21a, dove i due discepoli di Emmaus, rammaricati, esternavano allo sconosciuto compagno di viaggio tutta la loro delusione per i drammatici eventi di Gerusalemme: “Ora, noi speravamo che egli fosse colui che stesse per liberare Israele”; e similmente in At 1,6 i discepoli chiedono al Risorto se questo fosse il tempo in cui egli avrebbe ricostituito Israele: “Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: <<Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?>>”.

Era dunque necessaria la dura ed amara precisazione di Gesù: “[...] bisogna che il figlio dell'uomo soffra molte cose e che sia rigettato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi e che sia ucciso e al terzo giorno sia risuscitato”. Un versetto molto importante perché si ripeterà per tre volte13: qui, in 9,22, alle soglie del lungo viaggio verso Gerusalemme; in 18,31-33 in prossimità di Gerusalemme e, infine, in 24,7 immediatamente dopo la risurrezione. Viene così a crearsi una sorta di inclusione tra 9,22 e 24,7, dove è esplicitamente richiamato il v.9,22: “[...] Ricordate come vi parlò quando era ancora in Galilea, dicendo che il Figlio dell'uomo deve essere consegnato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso e al terzo giorno risuscitare>>. E ricordarono le sue parole” (24,6-8). Da 9,22 in poi è, dunque, l'intero racconto lucano che è posto sotto l'egida della passione, morte e risurrezione e attraverso questo filtro va letto e compreso.

Il v.22 si apre con un verbo molto significativo: “De‹” (Deî, deve, bisogna), che ricorre dodici volte in Luca. Esso compare per la prima volta in 2,49, in apertura del racconto evangelico: “E disse verso di loro: <<Che cosa (c'è), perché mi cercavate? Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?>>”; compare, poi, un'ultima volta in 24,47 a conclusione del racconto: “Ora, disse verso di loro: <<Queste le mie parole, che dissi a voi quando ancora ero con voi, poiché bisogna che siano compiute tutte le cose scritte nella Legge di Mosè e nei profeti e nei salmi su di me>>”. Gesù, dunque, deve essere nelle cose del Padre suo, quelle cose che si trovano nelle Scritture, in cui Gesù ritrova la volontà di suo Padre. E quale che sia questa volontà del Padre su di lui, viene specificata in 24,45-47: la sua passione, morte e risurrezione finalizzate alla universale remissione dei peccati. Quel “Deî”, pertanto, crea un'ulteriore inclusione, che pone l'intera esistenza di Gesù, dalla sua nascita alla sua morte-risurrezione, al servizio del Padre per la salvezza dell'intera umanità.

Il soggetto di quel “Deî” è “il figlio dell'uomo”, che dopo la dichiarazione petrina va letto necessariamente in una prospettiva messianica, la cui origine è Dn 7,13-14. Tutti i verbi che gli si riferiscono sono posti al passivo teologico o divino, che rimanda l'azione a Dio stesso, benché il soggetto del dell'uccidere siano gli anziani, i sommi sacerdoti e gli scribi, le tre autorevoli categorie che formavano il Sinedrio. Il v.22 si chiude con l'espressione temporale “al terzo giorno”, che seppur nel linguaggio biblico veterotestamentario indichi un breve spazio temporale, ha, per contro, assunto nel N.T. un significato squisitamente tecnico per indicare lo spazio intercorso tra la sepoltura di Gesù e la sua risurrezione14.

Intermezzo: l'identità del vero discepolo è legata a quella del suo Maestro (vv.23-27)

Dopo la dichiarazione di Pietro circa l'identità messianica di Gesù, di provenienza divina, e il conseguente ordine di Gesù di non divulgare la cosa al fine di evitare fraintendimenti, facili entusiasmi o intenzioni sovversive da parte degli ascoltatori, di potenziali discepoli e degli stessi discepoli, di cui Pietro ne è stato un esempio, rifiutandosi di accettare un messia sofferente (Mc 8,32-33; Mt 16,22-23), Gesù fa seguire una sua dichiarazione-precisazione rivolta indistintamente a tutti e che per questo e per la sua stessa formulazione assume i toni dell'ufficialità e dell'universalità. Ma nel contempo viene tracciata l'identità del vero discepolo e le condizioni della sua sequela. Si tratta di una breve riflessione dai tratti sentenziali e sapienziali, scandita in cinque versetti, legati tra loro da uno sviluppo logico di approfondimento in cui il v.23 funge da tema introduttivo e i successivi tre da svolgimento. Fa eccezione il conclusivo v.27, riportato da tutti i Sinottici, ma che lascia alquanto perplessi per la sua enigmatica enunciazione.

Cominciano a risuonare qui i primi echi dell'ormai imminente grande viaggio verso Gerusalemme, che avrà inizio con 9,51 e si concluderà in 19,28, caratterizzato, come qui, da lunghe riflessioni di tipo sentenziale e sapienziali e dai contenuti legati in qualche modo alla sofferenza e alla morte.

Il v.23 si apre introducendo il discorso di Gesù: “Ora, diceva verso tutti”. Il verbo, posto all'imperfetto indicativo, attesta la persistenza di tali affermazioni e, quindi, la loro validità nel tempo. Quel “diceva”, pertanto, potrebbe essere tradotto con “continuava a dire”. Asserzioni che sono rivolte a tutti e l'uso dei pronomi impersonali, “se qualcuno”, “chi”, imprimono loro un tono di universalità e di imperatività. “Se qualcuno vuole”, si tratta, quindi, di una libera scelta esistenziale, operata in risposta alla proposta salvifica di Gesù. Una salvezza che non è imposta, ma proposta e che interpella la coscienza di ogni singola persona. Il contenuto di questa scelta comporta un triplice livello: “andare dietro a Gesù”, “negare se stessi e prendere la propria croce ogni giorno”, “seguire Gesù”.

Il primo livello comporta una sequela di tipo fisico: “l'andare dietro a lui”, che sta per iniziare il suo viaggio verso Gerusalemme. Un invito, quasi, a calcare le sue orme. Questa fisicità della sequela dice che questa deve essere appariscente, manifesta a tutti. Non si tratta, quindi, di una semplice ed intima scelta interiore, ma di una pubblica testimonianza. Il secondo livello fornisce i contenuti di questa sequela, che ha come parametro di raffronto lo stesso Gesù sofferente e che comporta, proprio per questo, un radicale cambio di mentalità: “negare se stessi e prendere la propria croce ogni giorno”. Quel “negare o rinnegare se stessi” non si riferisce ad un processo di spersonalizzazione, che fa rima con disumanizzazione, ma sollecita un radicale cambio di mentalità per poter incominciare a vedere le cose dalla prospettiva di Dio, che di Gesù ha fatto il capostipite di una nuova umanità, così che “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo”15. Il rinnegare se stessi prelude pertanto ad un processo di una nuova umanizzazione, non più secondo i parametri umani, quelli dell'uomo vecchio, che è stato crocifisso con Cristo, perché si potesse camminare in novità di vita (Rm 6,4-6). Questo processo di riumanizzazione secondo il progetto di Dio, manifestatosi e attuatosi in Gesù, comporta il morire al proprio uomo vecchio per poter camminare in novità di vita. Da qui la necessità che ciascuno prenda la “sua croce”, come Gesù ha preso la propria, crocifiggendo su di essa la vecchia e decaduta umanità adamitica per poi ricostituirla in Dio con la risurrezione, che di fatto è una nuova creazione. L'aggettivo possessivo “sua” croce lascia intendere che ognuno è chiamato a rispondere personalmente alla sofferenza, di cui è disseminata la vita per la triste condizione esistenziale in cui è posto l'uomo da dopo la sua caduta (Gen 3,16-24), poiché proprio nell'accettarla l'uomo trova in essa il proprio riscatto. Una sofferenza che, iniziata come condanna posta su di lui, diviene redentrice proprio a motivo della sequela, poiché in questa sequela il credente viene associato al patire e al morire redentivi del suo Maestro e Signore. Una associazione solidale che fa dei due, Maestro e discepolo, una cosa sola. Paolo in Gal 2,20a affermerà questo principio di solidarietà in cui è coinvolta la sua vita: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me”; mentre, rinchiuso probabilmente nel carcere ad Efeso, nell'attesa della sentenza che prevede capitale16, rivolto alla comunità di Filippi, parla della sua partecipazione alle sofferenze di Cristo, diventandogli conforme nella morte (Fil 3,10). Ma la croce di cui parla qui Luca non si riferisce alle persecuzioni, ai gesti eroici, alla testimonianza estrema, a cui possono essere sottoposti i credenti, ma alla sofferenza di cui è quotidianamente disseminata la vita e che la interpella in ogni istante in vari modi e sotto diverse forme. Si parla, infatti, di una croce quotidiana, di “ogni giorno”, un'espressione temporale tutta lucana, dando in tal modo un taglio completamente diverso da Marco e Matteo, che probabilmente stavano parlando a comunità sottoposte a persecuzioni. In altri termini, l'abbracciare la sequela di Gesù con tutto ciò che questo comporta deve trovare il suo riscontro nella quotidianità del proprio vivere. Il credente, pertanto, deve qualificarsi sempre come tale. Il terzo livello, che conclude il v.23, dice la natura e il senso di quel “andare dietro a Gesù”: “e mi segua”. L'esortazione conclusiva si apre con la congiunzione “e”, che la lega a quanto precede e ne diviene la logica conseguenza. Il verbo qui usato è “¢kolouqe…tw” (akolutzeíto), il verbo che negli evangelisti è usato per indicare la vera sequela, poiché esso va oltre alla sequela fisica, per farsi una sequela che si pone a servizio di Gesù, una sequela che implica l'intera vita del credente, consacrata al suo Maestro. Il verbo infatti che indica il seguire dei servi i propri padroni.

Se con il v.23 Luca introduce il concetto del vivere come sequela di Gesù, caratterizzata da una sofferenza redentiva, in quanto unita alla sua e in virtù della sequela stessa; una sofferenza che scaturisce dal morire a se stessi, al proprio uomo vecchio per generarsi ad una nuova vita secondo le prospettive e gli intenti di Dio, con i vv.24-25 l'autore riprende il concetto del soffrire e del morire ponendo a confronto le conseguenze di due possibili e contrapposte scelte: chi vuole salvare la propria vita e chi, invece, decide di perderla per Gesù. Gli esiti e i destini di queste persone saranno diametralmente opposte in modo paradossale: chi vuole salvare la propria vita, in altri termini, chi non intende rinunciare al proprio modo di vivere in prospettiva di uno completamente nuovo rivelatosi in Gesù, questi in realtà la perde, non avrà parte, cioè, al Regno di Dio, non condividerà la vita di Dio, perché ha scelto di vivere con e per se stesso, in opposizione alla proposta di salvezza offertagli in Gesù. Esattamente opposta la scelta per Gesù. Ciò che sta all'origine delle due contrapposte scelte è ciò che si è deciso di porre al centro dei propri interessi e della propria vita: le cose di questo mondo o Gesù. Sono l'adesione a queste due realtà che creano l'orientamento esistenziale pro o contro Dio. Da qui l'esortazione dell'autore della lettera ai Colossesi alla propria comunità: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Mortificate dunque quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avarizia insaziabile che è idolatria” (Col 3,1-5).

Il v.25 compie un ulteriore passo in avanti accentrando l'attenzione del lettore sul senso delle proprie scelte, che devono tenere sempre conto dell'esito finale. La formulazione interrogativa di questo versetto non è casuale, ma intende spingere l'ascoltatore ad interrogarsi sulla valenza e sul significato delle proprie scelte, poiché queste incidono sul suo orientamento esistenziale e di conseguenza sull'esito finale della sua stessa vita, che può fallire o avere successo. In quest'ultimo caso essa vedrà la sua piena affermazione in quella di Dio, di cui è divenuta parte integrante in, con e per Cristo. E che il senso di questo v.25 riguardasse le cose ultime lo dice il seguente v.26 dove si prospetta il giudizio finale significato nella venuta ultima di Gesù, avvolto nella sua onnipotenza divina, quella stessa del Padre, rivelandosi così suo figlio; una gloria divina che gli stessi angeli condividono, creando con indubbia maestria un grandioso scenario escatologico ed apocalittico insieme. L'oggetto di tale giudizio sarà la testimonianza che il credente è chiamato a dare circa la sua adesione esistenziale a Gesù, che si esprime nella sequela non solo nei momenti difficili della persecuzione, ma anche nella sua quotidianità, “ogni giorno”.

Il v.27 conclude la breve quanto intensa riflessione sulle condizioni della sequela di un Gesù sofferente e tutte le sue implicazioni per il vero discepolo, che viene interpellato sia esistenzialmente che nell'intimo della sua coscienza. Si tratta di un versetto enigmatico nella sua formulazione, ma semplice nella sua soluzione. Esso ha a che fare con il “vedere” e, quindi, con il conoscere il Regno di Dio, inteso come il potere di Dio, che si rivela e si attua in Gesù, finalizzato a riprendersi quello che satana gli aveva sottratto ingannevolmente agli inizi dell'umanità, ristabilendo così nuovamente tutte le cose in Lui (1Cor 15,23-28). Tutti i racconti di esorcismo vanno in questo senso. Beneficiari di questa visione-conoscenza sono “alcuni di quelli che stanno qui”, e quindi non persone che verranno, ma che sono contemporanei a Gesù, anzi sono lì, lo stanno ascoltando; e ciò avverrà mentre questi sono ancora in vita e quindi viene esclusa ogni diversa comprensione di questa visione-conoscenza. Si tratta soltanto di alcuni e non di folle o quantitativi di persone consistenti. Un simile beneficio era toccato in sorte a Simeone, “un uomo giusto e pio, che attendeva (la) consolazione d'Israele, e lo Spirito santo era su di lui. Ed aveva avuto una rivelazione dallo Spirito Santo (che) non avrebbe visto la morte prima di aver visto l'unto del Signore” (2,25b-26); parimenti a Simeone, anche ai discepoli di Gesù viene dato di conoscere i misteri del Regno: “A voi è dato di conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri in parabole, affinché vedendo non vedano e udendo non comprendano” (8,10). Si tratta, dunque, di persone privilegiate per la loro fede, per la loro scelta esistenziale e, in ultima analisi, per la loro disponibilità a comprendere e ad accogliere i Misteri del Regno, che si attuano in Gesù. Il v.27, pertanto, individua una particolare categoria di persone a cui è riservata la visione-comprensione del Mistero racchiuso in Gesù, che ha a che fare con il Regno di Dio. Posto in questi termini, il v.27 costituisce anche una sorta di breve preambolo al racconto immediatamente successivo, quello della Trasfigurazione, in cui viene disvelato a persone prescelte il Mistero del Verbo incarnato, che, da un lato, appare nella verità della sua luce divina; dall'altro esso viene legato alla sua passione, morte e risurrezione, che vanno colte come le azioni che ricostituiranno il Regno di Dio in mezzo agli uomini e su di loro.

L'identità di Gesù, rivelata dal Padre, è legata alla sua passione-morte-risurrezione (vv.28-36)

Vi sono quattro momenti fondamentali nei racconti dei Sinottici in cui viene apertamente proclamata l'identità di Gesù. Dichiarazioni che assumono un tono ufficiale e dottrinale nel contempo e che sono altrettante chiavi di lettura, che aiutano a comprendere la vera natura di Gesù e il senso della sua missione. Non a caso queste sono collocate in momenti strategici della vita di Gesù e precedono sempre fasi importanti della sua missione. Il primo momento è il battesimo, dove il Padre rivela Gesù come suo figlio amato, in cui si è compiaciuto. Una dichiarazione che avviene in un contesto trinitario, dove sono presenti il Padre, come voce dal cielo; il Figlio nella persona di Gesù e lo Spirito Santo in forma di colomba. Essa è posta a ridosso della missione di Gesù. Il secondo momento è la dichiarazione di Pietro che definisce Gesù come il Cristo, con la variante di “Figlio di Dio” in Matteo e “di Dio” in Luca. In quest'ultimo essa acquista un peso significativo perché viene posta quasi immediatamente dopo la chiusura del lungo trattato ecclesiologico iniziato con 5,1 e terminato con 9,17; ma nel contempo è posto a ridosso del lungo viaggio verso Gerusalemme, che ha come meta finale il Golgota (9,51-19,28). Viene quindi definita la natura del Messia sofferente, che richiama da vicino quella del sofferente servo di Jhwh, a cui l'autore si richiama in 9,51, all'inizio del grande viaggio. Il terzo momento, posto in un contesto escatologico ed apocalittico, che precede anche questo il viaggio verso Gerusalemme, è la Trasfigurazione, dove Gesù è definito il Figlio eletto del Padre. Ed infine il quarto ed ultimo momento, contestualizzato sotto la croce, nel momento della morte di Gesù, dove il centurione definisce “giusto” Gesù, con un richiamo a Is 53,10-12 in cui, da un lato, si prospetta il senso del patire e del morire del Giusto di Jhwh; dall'altro la sua vittoria finale. Una morte, dunque, che ha come epilogo la pienezza della vita.

Benché il racconto della Trasfigurazione sia sostanzialmente identico nei tre Sinottici, tuttavia Luca apporta delle notevoli e significative modifiche che puntano a sottolineare l'aspetto della passione, morte e risurrezione, anticipando qui in qualche modo sia il dramma del Getsemani che lo stupore dell'evento risurrezione vissuto dai discepoli. Il tutto è collocato in una prospettiva postpasquale.

Quanto alla storicità della Trasfigurazione è difficile stabilirne la veridicità poiché il racconto dà l'idea di una costruzione a tavolino e se qualche evento storico vi stia alla base questo è stato ampiamente manipolato e trasformato così da renderlo irraggiungibile. Sono troppi gli elementi simbolici, troppa la teologia e la cristologia che pervade l'intero racconto per essere un semplice reportage cronachistico, sia pur reso compatibile con la narrativa evangelica. Forse è meglio pensare ad una costruzione letteraria dei Sinottici per rendere più facilmente raggiungibile da parte dei loro ascoltatori il senso della natura divina di Gesù, il suo rapporto con le Scritture e con il Padre; ma nel contempo aiutandoli a capire come la passione e la morte di Gesù siano eventi finalizzati alla risurrezione, che ha alla base di tutto il suo appartenere e il suo essere egli stesso Dio.

Il racconto, più che su di una struttura letteraria, si sviluppa su diversi livelli narrativi:

  1. i vv.28.36 aprono e chiudono il racconto;

  2. il v.29 crea il contesto entro cui avviene la trasfigurazione di Gesù;

  3. i vv.30-33 assieme ai vv.34-35 costituiscono il cuore dell'intero racconto, poiché da un lato si mette in relazione Gesù con il mondo scritturistico; dall'altro si relazione Gesù con il Padre, rivelando la sua filiazione divina, che viene posta, a differenza degli altri due Sinottici, su di uno sfondo di elezione, intesa come missione di servizio al Padre per la realizzazione del suo progetto.

Il v.28 si apre con il verbo caratteristico di Luca, “'Egšneto” (Eghéneto, avvenne, accadde), che scandisce l'accadere degli eventi salvifici nella storia degli uomini, che diviene in tal modo una storia di salvezza. E ciò che accadde è che “circa otto giorni dopo questi discorsi”. Altra caratteristica di Luca è quello di anteporre ai numeri l'avverbio “circa” (æseˆ, oseì), che indica l'approssimazione di quantità. Un avverbio che compare tredici volte nei vangeli, di cui nove volte nel solo Luca, che in quel “circa” forse vuole trasfondere la sua precisione di storico, che non ama i numeri offerti come se fossero dati certi e rispondenti alla realtà delle cose. Quel “circa” , dunque, serve a Luca per mitigare una precisione non verificabile. E circa “otto” sono i giorni che sono passati dai discorsi che Gesù ha fatto, con riferimento ai vv.21-27, riguardanti sia il suo destino di sofferenza e di morte in prospettiva della sua risurrezione, sia l'identità del vero discepolo che a questo destino è associato. L'anteporre al racconto della Trasfigurazione questo richiamo fornisce al lettore una chiave di lettura di questo evento straordinario. Esso, pertanto, va compreso in questa prospettiva. Un evento che accade “otto giorni dopo”, diversamente da Marco e Matteo per i quali l'evento è accaduto “sei giorni dopo”. Il cambio di numeri da “sei” a “otto” è chiaramente intenzionale e indica la diversa prospettiva con cui i Sinottici guardano a questo evento. Per Marco e Matteo l'evento accade “sei giorni dopo” e quindi nel “settimo” giorno, che è quello in cui Dio ha portato a compimento la sua creazione, manifestandola nella sua compiutezza e perfezione (Gen 2,1-3). In questo caso la Trasfigurazione manifesta in Gesù trasfigurato non solo la sua divinità, ma anche l'uomo nuovo, l'uomo compiuto, che è stato nuovamente portato a perfezione alla pari di quello della prima creazione. In Gesù morto e risorto è stato dunque distrutto il vecchio Adamo e ricreato un nuovo e definitivo Adamo, posto a capo di una nuova umanità secondo il progetto di Dio. Per Luca, che pone l'evento della Trasfigurazione “otto giorni dopo” la prospettiva non è più quella del settimo giorno, ma quella pasquale e postpasquale. La risurrezione, infatti, è avvenuta nell'ottavo giorno, cioè oltre la settimana ebraica o veterotestamentaria, e ne inizia una completamente nuova e tutta sua, in cui si colloca non solo la sua nuova umanità, ma anche quella della chiesa, formata dai nuovi credenti, quelli che non solo hanno accolto il Risorto nella propria vita, ma in essa lo celebrano nell'ottavo giorno.

E in questo frangente dell'ottavo giorno Gesù sale sul monte a pregare. Salire sul monte e pregare sono due aspetti di un'unica realtà, che esprime la profonda e intima comunione di vita tra Gesù e il Padre. Il “salire sul monte”, luogo che nell'antichità era visto come la dimora di Dio, dice il salire di Gesù verso il Padre, che prelude in qualche modo al suo ritorno al Padre attraverso gli eventi di Gerusalemme. Non è un caso, infatti, che il v.51, che inaugura il suo il grande viaggio verso Gerusalemme, parli proprio di questa sua “assunzione”, di questa sua “salita verso il Padre”, che viene qui in qualche modo drammatizzata. Una salita finalizzata alla preghiera, che in Luca dice l'intima comunione di vita di Gesù con il Padre verso il quale è sempre rivolto17. In ultima analisi questo “salire sul monte a pregare” prelude in qualche modo al suo ritorno al Padre. Lo sfondo biblico richiama da vicino il racconto di Mosè che sale sul Sinai dove “il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uomo parla con un altro” (Es 33,11a) e da dove discendeva con un volto trasfigurato e sfolgorante di luce (Es 34,35).

La salita di Gesù al monte per pregare è accompagnata da tre discepoli, per renderli in qualche modo testimoni non solo della sua natura divina, ma anche del suo intimo rapporto con il Padre: Pietro, Giovanni e Giacomo. Similmente a ciò che fece Mosè che, salendo sul monte per incontrare Dio, portò con sé Aronne, i suoi due figli e i settanta anziani di Israele, che furono tutti testimoni della potenza di Jhwh (Es 24,1.9-11). Luca qui riporta i tre nomi secondo la tradizione sinottica, ma inverte il secondo e il terzo tra loro: Pietro, Giovanni e Giacomo. Non si tratta di una svista o di un errore del copista, ma di una scelta di Luca, il quale anche nei suoi Atti presenterà sempre l'accoppiata Pietro-Giovanni18, mentre tralascia Giacomo. La preferenza per questa accoppiata compare anche in occasione della preparazione della pasqua, allorché Gesù darà l'incarico a Pietro e a Giovanni (22,8); similmente nel racconto della risuscitazione della figlia di Giairo torna nuovamente l'accoppiata Pietro-Giovanni, mentre Giacomo è collocato all'ultimo posto (8,51). Significativo, infine, come nell'elenco dei Dodici nel cenacolo, Pietro e Giovanni compaiono assieme nella lista ai primi due posti, mentre Giacomo e Andrea, rispettivamente fratelli di Giovanni e di Pietro, compaiono accoppiati tra loro in seconda posizione (At 1,13). Che dire di questa particolarità tutta lucana? È probabile che Luca abbia accoppiati tra loro Pietro e Giovanni riconoscendoli come i capi o responsabili della Chiesa di Gerusalemme, mentre il Giacomo citato insieme a loro (Gal 2,9) probabilmente non è il fratello di Giovanni, ma un altro Giacomo che viene indicato da Paolo come il “fratello del Signore”19 (Gal 1,19; Mt 13,55; Mc 6,3).

Se il v.28 è introduttivo al racconto della Trasfigurazione, creandone il contesto storico, il v.29 lo si può considerare di transizione: dal contesto storico a quello apocalittico (vv.30-35), di cui è il preambolo. Esso si apre riprendendo il tema della preghiera con cui terminava il v.28. Questa diviene lo scenario entro il quale avviene la trasfigurazione. Già lo si è sopra accennato come la preghiera per Gesù esprima la sua intima comunione con il Padre verso il quale è costantemente rivolto. E l'uso dell'imperfetto indicativo, “mentre stava”, dice il costante stato di preghiera o di comunione con il Padre, che caratterizzava la vita di Gesù. Che cosa questo significhi traspare ora nella trasfigurazione di Gesù: “l'aspetto del suo volto divenne diverso e la sua veste lucente lampeggiante”. Due elementi vengono qui presi in considerazione: il volto, che definisce l'identità di una persona; e la veste, che nel linguaggio biblico e simbolico esprime lo stato, la condizione di vita di chi la indossa20. A differenza di Marco, che non evidenzia la trasformazione del volto, e di Matteo che, invece, presenta il volto e le vesti di Gesù risplendenti di luce, Luca sottolinea soltanto come il volto di Gesù abbia assunto fattezze diverse rispetto a quelle che doveva presentare in un contesto storico normale: “il suo volto divenne diverso”. Ed è proprio a motivo di questa diversità che i due discepoli di Emmaus non riconoscono Gesù (24,16); così similmente in Gv 20,14 e 21,4. Luca presenta qui un elemento fondamentale della risurrezione, che di fatto è una trasfigurazione delle sembianze fisiche, conseguente ad una trasformazione della persona nella sua interezza. La trasfigurazione, pertanto, rende diverso il volto della persona; vi è un cambiamento di aspetto corporeo; un cambiamento che dice come quella persona non appartenga più alla dimensione spazio-temporale, ma ad una diversa dimensione significata nella “sua veste lucente lampeggiante”. Il verbo “™xastr£ptw” (exastrápto, lampeggiare) è composto da “ex – astrápto”, in cui la particella “ex o ek” dice moto da luogo e qui definisce il movimento di questo lampeggiare che dall'interno va verso l'esterno, lasciando intravvedere in questa luce abbagliante la vera ed intima natura di questo essere fatto di luce, che il lampeggiare presenta come una luce dinamica. Il verbo “exastrápto” ricorre in questa forma nel N.T una volta soltanto in Luca; mentre nell'A.T. ricorre complessivamente quattro volte: tre in un contesto apocalittico21 e una in un contesto di giudizio di condanna22. Considerata la singolarità di questo verbo e l'ottima conoscenza che Luca ha della LXX, è da pensare che l'uso che Luca ne fa qui non sia casuale, poiché in questa trasfigurazione-trasformazione l'autore mette in evidenza non soltanto la vera natura dell'uomo Gesù, la sua onnipotenza divina, sottolineandone l'aspetto rivelativo, ma racchiude in essa anche un motivo di giudizio per chi non lo ha accolto nella sua umanità (v.26).

Preceduta dal v.29, che ha creato la cornice apocalittica entro cui è collocata, viene ora introdotta la pericope vv.30-35, scandita in due momenti intermezzati tra loro dal v.33. La prima parte prelude alla missione di Gesù, che sconcerta i discepoli per la loro inintelligenza (vv.30-32); la seconda parte delinea l'identità di Gesù in rapporto alla missione che deve compiere. Gesù, infatti è qui presentato come il Figlio del Padre e più precisamente come l'eletto, cioè il designato a compiere una precisa missione che ha a che vedere con il suo viaggio verso Gerusalemme (vv.33-34).

Con il v.30 si apre la prima scena: “Ed ecco due uomini parlavano con lui; questi erano Mosè ed Elia”. Il linguaggio di Luca qui si fa apocalittico, caratteristico dell'apparire di visioni rivelatrici23; un modo di esprimersi che si ritrova anche in 24,4 e in At 1,10, sempre in un contesto di apparizioni riguardanti la risurrezione il primo e l'ascensione al cielo il secondo. I due uomini, Mosè ed Elia, sono posti da Luca in relazione a Gesù non solo perché stanno parlando con lui, ma anche perché sono avvolti dalla sua stessa gloria. I due sono colti da Luca da una diversa prospettiva rispetto a Mt 17,3 e a Mc 9,4. Mentre i due Sinottici dicono soltanto che Mosè ed Elia stanno parlando con Gesù, senza nient'altro aggiungere, Luca, invece, non solo li colloca in un contesto apocalittico e avvolti nella gloria divina, ma precisa anche l'oggetto del loro dialogare: “parlavano del suo esodo, che stava per compiere in Gerusalemme”. Quel “stava per compiere” da un lato si riferisce al grande viaggio verso Gerusalemme che avrà inizio proprio qui in 9,51; dall'altro parla del passaggio di Gesù verso il Padre attraverso la passione-morte-risurrezione-ascensione. Un esodo che richiama da vicino Gv 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”. La scelta dei due personaggi non è casuale, poiché entrambi hanno a che vedere con un loro esodo, che in qualche modo descrive e interpreta quello di Gesù. Con Mosè viene richiamato l'esodo di Israele da una terra di schiavitù e di sofferenza ad una terra dove scorre latte e miele (Es 3,8.17) attraverso la prova del deserto, che in qualche modo allude al passaggio di Gesù dalla sua condizione di uomo a quella di Dio attraverso la prova della sofferenza e della morte; ma nel contempo Gesù si qualifica anche come il nuovo Mosè, che dopo aver sperimentato in se stesso l'esperienza del deserto della condizione umana, della sofferenza e della morte, conduce il nuovo Israele, il nuovo popolo dei credenti, verso il Padre (Eb 2,9-10.18). Quanto ad Elia, anche questi ha compiuto il suo esodo verso Dio attraverso il carro di fuoco e un turbine di tempesta (2Re 2,11). Due immagini che parlano della potenza di Jhwh, che ha attratto nel suo mondo di vita il suo profeta, sottraendolo alla morte. Così come Gesù, il profeta atteso (Dt 18,15; Lc 7,16; 24,19), viene sottratto al potere della morte attraverso la potenza di Dio, mediante la risurrezione e costituito suo Figlio (Rm 1,3-4; At 2,24-31).

Il v.32 descrive in modo ambivalente e contrapposto la reazione dei tre discepoli di fronte al dispiegarsi del Mistero presente in Gesù e nello stesso disegno del Padre, che si sta compiendo in lui: “Ora Pietro e quelli con lui erano oppressi dal sonno; ma svegliatisi videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui”. Questo “oppressione da sonno” e il loro “svegliarsi e il loro vedere la gloria di Gesù” scandisce due tempi in cui fa da spartiacque la risurrezione di Gesù. Dapprima, durante la vita terrena di Gesù, le loro menti erano oppresse dal sonno della loro inintelligenza di fronte al Mistero che si stava attuando in Gesù; un sonno che richiama da vicino la scena del Getsemani, dove Gesù, che sta per essere consegnato ai suoi avversari, trova i suoi discepoli addormentati (22,45) e quindi incapaci di comprendere ciò che sta per accadere; successivamente, dopo l'evento della risurrezione e la rivisitazione delle Scritture, le loro menti si aprono al Mistero, ricomprendendo gli eventi salienti della missione del loro Maestro, così che “svegliatisi videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui”, cioè scoprirono il senso delle Scritture che da Mosè in poi parlavano di lui (24,27).

Il v.33 chiude la prima parte del racconto della Trasfigurazione, in cui viene presentato il senso della missione di Gesù, racchiusa nel Mistero della sua persona, con l'attestazione dell'intelligenza di Pietro e dei discepoli con lui. Un Mistero che Pietro tende a cristallizzare in un contesto veterotestamentario: “Maestro, è bello che noi siamo qui, anzi facciamo tre tende, una per te e una per Mosè e una per Elia”. Le tende richiamano il tempo in cui Israele aveva dimorato nel deserto; un tempo che aveva segnato profondamente Israele, che lo aveva, poi, istituzionalizzato nella celebrazione della pasqua. Una richiesta quella di Pietro che dice tutta la sua inintelligenza di fronte alla vera identità di Gesù e al Mistero di cui era pervaso. Pietro pensava probabilmente a Gesù come a quel profeta di Dt 18,15, che Dio aveva promesso a Mosè e al suo popolo: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto […] io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole, che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto” (Dt 18,15.18-19). Un profeta, dunque, legato a Mosè; certo il messia promesso, quel cristo, che aveva confessato pochi giorni prima (v.20b), da cui ci si aspettava in qualche modo la ricostituzione di Israele, una sorta di suo rinnovamento religioso e politico (24,21; At 1,6; ). Gesù compiva quella promessa di Jhwh e per questo andava ascoltato. Ma dopo di lui ce ne sarebbe stato un altro e poi un altro ancora, poiché nelle logiche ebraiche il messia atteso è sempre legato alla temporalità degli eventi storici ed è considerato come una sorta di “deus ex machina”, che Dio manda, di volta in volta, per risolvere le questioni del momento. Non si è mai pensato ad un messia unico, definitivo e irripetibile. Una chiara testimonianza dell'intelligenza di Pietro e con lui dei suoi discepoli. Il v.33, infatti, si chiude significativamente attestando che Pietro non sapeva quello che diceva. Mancava ancora la luce della risurrezione confortata dalla comprensione delle Scritture (24,25-27; Gv 20,9-10).

Se con i vv.29-33 si presenta la missione di Gesù legata in qualche modo a quella di Mosè e di Elia, ad un esodo che egli doveva compiere verso Gerusalemme, colta non solo come la porta di ritorno al Padre, ma anche come il luogo del compimento dei Misteri della salvezza, con i vv.34-35 si presenta il mandante di tale missione e il rapporto che intercorre tra questi e Gesù. Il contesto è sempre apocalittico o, per meglio dire, teofanico e in qualche modo ricrea lo scenario del monte Sinai (Es 19,16-20): si è anche qui su di un monte (v.28) dove viene una nube che avvolge i discepoli e da questa esce una voce: “Questi è il mio Figlio, l'eletto, ascoltatelo”. La presenza della nube è ricorrente nell'A.T. ed indica la presenza di Jhwh. La si trova sul Sinai, dove Mosè ne viene avvolto (Es 24,15-18); essa accompagna Israele nel deserto, illuminando la notte e fungendo da riparo durante il giorno, difendendolo dai suoi nemici (Es 13,21-22; 14,20); è espressione della gloria del Signore (16,10) e dimora sulla Tenda del convegno (Es 40,34-35); essa ricomparirà in Ez 10,4, nella visione del nuovo tempio: “La gloria del Signore si alzò sopra il cherubino verso la soglia del tempio e il tempio fu riempito dalla nube e il cortile fu pieno dello splendore della gloria del Signore”. La nube era il luogo della presenza di Jhwh (Es 34,5; Nm 11,25), luogo della sua dimora (2Cr 6,1). Una nube che manifesta l'onnipotenza di Dio “adombrando” i tre discepoli, sovrastandoli con la sua presenza. La risposta dei tre rientra nello schema delle teofanie: “furono spaventati”. È la normale reazione dell'uomo all'irrompere del divino nella storia. Tutto questo apparato teofanico ed evocativo funge da cornice alla voce del Padre, rilevandone tutta la potenza e l'autorità; una voce che va a completare, ma nel contempo la supera di gran lunga, l'attestazione sull'identità messianica di Gesù da parte di Pietro (v.20b): “Questi è il mio Figlio, l'eletto, ascoltatelo”. Gesù, pertanto, non è soltanto un messia inviato da Dio, ma la sua natura è divina. Dio stesso si è fatto, dunque, Messia, portatore di un lieto annuncio: egli è venuto per cambiare radicalmente le sorti dell'umanità. Significativo il cambio, tutto lucano, da “prediletto” a “l'eletto”, legando il messianismo di Gesù alla figura del Servo sofferente di Jhwh: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni” (Is 42,1). E sarà proprio con l'allusione al Servo di Jhwh che avrà inizio il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (v.51). Una elezione, che definisce una scelta fatta cadere su di un personaggio, al quale viene associata una missione da compiere in nome e per conto di Dio.

Il v. 36, nel chiudere il racconto della Trasfigurazione, accentra l'attenzione del lettore sugli effetti della voce su Gesù e sui discepoli: “Gesù fu trovato solo”. Non più Mosè né Elia, ma solo Gesù, per indicarne sia l'unicità che la centralità. L'A.T. in lui non solo viene superato, ma in lui trova il suo compimento. Ma nel contempo quel “Gesù solo” dice che tutto lo splendore e la magnificenza della divinità non traspariva più dall'uomo Gesù e solo la fede viene qui interpellata e messa a dura prova. Splendore della divinità e umanità un binomio che ritroviamo nello stesso prologo giovanneo, dove l'evangelista, dopo aver contemplato lo splendore eterno del Logos rivolto verso il Padre, lo contempla poi nel suo dispiegarsi storico (1,1-4.14). Similmente, e ancor prima, si ritrova questo connubio nell'inno cristologico di Fil 2,6-8 dove il Figlio della stessa natura divina del Padre non disdegna di svuotarsi dello splendore dell'eternità divina per assumere una natura umana degradata e distrutta dal peccato per compiere un servizio di salvezza a favore dell'umanità, per riportarla in seno al Padre da dove ne era drammaticamente uscita ancora nei suoi primordi.

La seconda parte del v.36 presenta l'ammutolimento dei tre discepoli. L'impatto dell'uomo con il soprannaturale lo annichilisce e gli toglie ogni possibilità di comunicare l'incomunicabile, poiché ciò di cui sono stato testimoni esula da ogni loro esperienza, per questo lo rende incomunicabile. È ciò che che accadde alle donne nel racconto marciano della scoperta della tomba vuota: “Ed esse, uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura” (Mc 16,8). Termina così il vangelo di Marco lasciando il suo lettore in sospeso tra cielo e terra, nella contemplazione di un Mistero di cui non si può dire nulla, perché il Mistero è offerto all'uomo per la sua contemplazione e non per la sua manipolazione teologica e filosofica. Similmente l'esperienza trascendente di Paolo, rapito al terzo cielo, lo rende muto poiché ciò che ha visto e udito non è traducibile con concetti e parole umane (2Co 12,1-4), che hanno la loro radice nella limitata e limitante esperienza stessa dell'uomo.


Un esorcismo che preannuncia la passione-morte-risurrezione di Gesù (vv.37-45)


Note generali

Leggendo attentamente il cap.9, che imprime una netta sterzata verso il Golgota e dove tutto parla della passione, morte e risurrezione di Gesù; dove la sua stessa identità, quale Cristo (v.20b) e Figlio di Dio (v.35) è strettamente legata a queste (vv.21-27.31); un capitolo dove ha inizio anche il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme (v.51), la prima domanda che può sorgere è che cosa ci sta a fare il racconto di un esorcismo all'interno di questo contesto. Sembra apparentemente una stonatura. Ma in realtà Luca, pur seguendo lo svolgersi narrativo di Marco, imprime ai singoli racconti, come in questo caso, delle diverse prospettive, tagliando e modificando notevolmente il testo marciano. Così che mentre Marco fa seguire alla discesa dal monte la disputa sulla venuta di Elia (Mc 9,11-13), interrompendo in tal modo la continuità tra il racconto della Trasfigurazione e quello dell'esorcismo, Luca tralascia tale disputa, che riguardava l'escatologia giudaica, del tutto priva di interesse per il suo lettore ellenista, dando, invece, una continuità temporale ai due eventi, legandoli strettamente tra loro. Quindi il tema della gloria e della passione e morte trattato nella Trasfigurazione trova una sorta di suo continuum narrativo in quello dell'esorcismo. Questo racconto, inoltre, termina in Marco con un rimprovero ai discepoli (Mc 9,28-29), molto più evidente questo in Mt 17,19-21, per la loro poca fede e per la loro scadente spiritualità, che non è alimentata né da preghiere né da digiuni. Tutto cambia completamente in Luca, che tralascia Mc 9,28-29, discostandosi dallo stesso Mt 17,19-21, incentrando, invece, nuovamente l'attenzione del suo lettore sul tema della passione e morte di Gesù (vv.43b-45). In tal modo il racconto dell'esorcismo viene incluso all'interno di questo tema. Di conseguenza questo va letto e compreso in tale prospettiva. Lo stesso racconto di questo esorcismo è stato notevolmente manipolato da Luca rispetto a quello marciano, per spiegare il senso del patire, del morire e del risorgere di Gesù. In altri termini: che cosa è avvenuto in questa sofferenza di morte e in questa risurrezione di Gesù? Come va compreso tutto questo? La risposta viene data da questo racconto di esorcismo di stampo tutto lucano: il patire, il morire e il risorgere di Gesù vanno compresi nell'ottica di una lotta all'ultimo sangue tra Gesù e il mondo degli Inferi; una lotta da cui Gesù uscirà definitivamente vittorioso, segnando la fine del potere di satana sul mondo e sull'uomo. Per poter comprendere questa lettura che Luca dà alla passione, morte e risurrezione di Gesù, qui metaforizzata nel racconto di esorcismo, è necessario rifarsi alla conclusione del racconto delle Tentazioni, dove l'evangelista commenta: “E compiuta ogni prova, il diavolo se ne andò da lui fino a tempo (opportuno)” (4,13). Quale sia il tempo opportuno è ricordato ai vv.22,3.31: “Ora, Satana entrò in Giuda, chiamato Iscariota, che era dal numero dei Dodici […] Simone, Simone, ecco Satana vi ha provati per vagliar(vi) come il grano”. Quindi il rapporto tra Gesù e il mondo degli Inferi è una continua sfida, una continua ed estenuante lotta24 (8,28-31), di cui gli esorcismi, disseminati qua e là nel racconto lucano, sono solo degli spaccati narrativi che preludono alla lotta finale, che ha il suo epilogo sul Golgota. Lo stesso Giovanni, alla pari di Luca, prospetta la passione e morte di Gesù come una lotta tra Gesù e il principe di questo mondo, da cui sta per essere gettato fuori e su cui è già stato posto il giudizio di condanna; un principe che comunque non ha alcun potere su Gesù (Gv 12,31; 14,30; 16,11).

In tale prospettiva vanno compresi, in questo racconto, alcuni passaggi narrativi significativi, di esclusiva marca lucana: si parla di un figlio unico, di cui satana s'impossessa e lo malmena e non lo vuole lasciare; lo sconquassa e lo contorce convulsamente; e su tutto ciò i discepoli non possono farci nulla. In breve, qui si parla della passione e morte di Gesù e della sua risurrezione, là dove il figlio unico, risanato e rigenerato a vita nuova, viene riconsegnato al Padre. Si narra quindi proprio di quel esodo di cui si era parlato nel racconto della Trasfigurazione, a cui, questo racconto di esorcismo, è strettamente legato.

Si tratta, pertanto, di un racconto di esorcismo significativo non solo perché allude ai contenuti del patire, morire e risorgere di Gesù, fornendone la chiave di comprensione, ma anche perché questo è l'ultimo esorcismo dell'intero vangelo lucano, se si esclude quello del tutto marginale e narrativamente strumentale, della durata di un solo breve versetto (11,14), che funge da introduzione all'ampia diatriba sul potere esorcistico di Gesù (11,15-26). Quindi l'attenzione non viene accentrata sull'esorcismo, bensì sulla capacità esorcistica di Gesù. Vi è, poi, un altro esorcismo in 13,10-17, ma in realtà è soltanto apparente, sia perché Gesù stesso parla di guarigione della donna dalla sua malattia; sia perché mancano tutti i tratti caratteristici dell'esorcismo: non vi è lo scontro con il diavolo; non vi sono i maltrattanti che il diavolo infligge al malcapitato prima di lasciarlo; non vi è la sua cacciata dalla donna posseduta. Vi è soltanto una imposizione delle mani sulla donna ammalata, un gesto caratteristico di guarigione e non di esorcismo. Quindi, il racconto di esorcismo che stiamo per affrontare è tecnicamente parlando l'ultimo del vangelo lucano e, posto in questo contesto, anche il più significativo.

Commento ai vv. 37-45

Il racconto si apre con il consueto verbo caratteristico di Luca, “avvenne, accadde”, che introduce racconti che hanno una particolare rilevanza in relazione all'accadere della storia della salvezza; un verbo che ne scandisce il compiersi. Segue una nota temporale: “nel giorno dopo, discesi dal monte”. Una nota che produce un doppio effetto: da un lato dà una continuità narrativa tra il racconti, quello della Trasfigurazione e quello dell'esorcismo; dall'altro lega il primo al secondo, dove centrale è la figura di Gesù, che in qualche modo si riflette in quella del figlio unico sul quale satana sfoga il suo livore, che prefigura la passione e morte di Gesù. Una centralità che viene preannunciata dal movimento della folla, che converge su Gesù.

Il v.37 si chiude con il termine folla, che il v.38 riprende, creando in tal modo una continuità narrativa. Una folla che diviene il luogo di una nuova scena, che si apre con un “kaˆ „doÝ” (kaì idù, ed ecco), narrativamente molto efficacie, perché accentra l'attenzione del lettore su ciò che sta per accadere. All'interno dell'anonimato della folla quel “kaì idù” apre uno squarcio e appare un “uomo”. Ma non è un uomo qualsiasi, poiché Luca lo presenta definendolo con il termine “¢n¾r” (anèr, uomo), che indica un uomo particolare, su cui l'autore accentra la sua attenzione. Diversamente Mt 17,14 definisce quest'uomo con il termine “¥nqrwpoj” (ántzropos), che significa un uomo qualunque, uno tra tanti; mentre Mc 9,17 si limita a definirlo con un'espressione più anonima ancora: “eŒj” (eîs, uno). L'importanza di quest'uomo, per Luca, è data dal fatto che egli è un padre, la cui paternità è qualificata da un figlio che egli definisce come “mio figlio, poiché mi è unico”. Un'espressione che lascia trasparire non soltanto la posizione del figlio all'interno del nucleo familiare, “unico”, ma con quel “poiché mi è unico” dice l'amore che il padre riversa su questo suo figlio per il quale chiede a Gesù di volgere su di lui il suo sguardo, di accentrare, quindi, la sua attenzione su questo suo figlio unico e nel contempo prediletto. Questa espressione posta sulle labbra del padre, Luca l'ha costruita parafrasando in qualche modo quella di un altro Padre, che nel contesto della Trasfigurazione indicava Gesù come suo Figlio, il suo eletto, che nel momento del battesimo aveva definito come il prediletto, sollecitando i discepoli ad ascoltarlo. Questo padre e questo figlio unico e prediletto, allude alla figura stessa di Gesù, così come quella di questo padre, quella del Padre, al quale questo unico e prediletto figlio verrà riconsegnato risanato e rigenerato a vita nuova, dopo essere passato al vaglio di satana (v.42).

I vv.39.42a sono dedicati alla descrizione della manifestazione di questa possessione demoniaca, che Luca, quale medico, sa descrivere con una certa precisione: grida, schiuma alla bocca, sconquasso del corpo, che potremmo definire come un'agitazione e un tremore incontrollabili, che lo pervadono completamente, in cui quelle convulse contorsioni costituiscono un'aggravante generale. Sono scariche elettriche anomali che si producono nel cervello e si diffondono in tutto il corpo tramite il sistema nervoso centrale, le cui cause non sono ancora ben chiare. Simili fenomeni impressionanti, così come del resto la semplice malattia, erano attribuiti a spiriti maligni o al mondo demoniaco in genere. Ma ciò che qui più interessa è la descrizione di questo corpo sconquassato da una sofferenza incontrollata e incontrollabile, che richiama da vicino gli spasimi della flagellazione e della crocifissione, che accompagnano una morte atroce. A fronte di tutto ciò, precisa Luca: “E pregai i tuoi discepoli affinché lo scacciassero, e non poterono” (v.40). A differenza di Mt 17,16 che afferma chiaramente che i discepoli “non poterono guarirlo”; e di Mc 9,18, che attesta come i discepoli “non ne furono capaci”, Luca si limita a dire che non “poterono”. Qui Luca usa lo stesso verbo di Mt 17,16, “oÙk ºdun»qhsan” (uk edinétzesan, non poterono), ma rispetto a questo non aggiunge il verbo “aÙtÕn qerapeàsai” (autòn tzerapeûsai, guarirlo), incentrando l'attenzione del suo lettore sul solo verbo “uk edinétzesan”, “non poterono”, sottolineando l'incapacità dei discepoli di poter in qualche modo influire su questo destino di sofferenza che sconquassa questo “figlio unico del padre”, richiamando da vicino la scena del Getsemani, dove i discepoli furono gravati da un sonno invincibile e dove tentarono inutilmente di opporsi con le armi, seguendo Gesù da lontano e rinnegandolo all'occorrenza. Quel “non poterono“ lascia intravvedere un disegno superiore che non dipende da interventi umani, ma che farà esclamare Gesù: “O generazione incredula e depravata, fino a quando sarò presso di voi e vi sopporterò? [...]”. L'esclamazione di Gesù, richiamandosi a Dt 32,5, si scaglia contro l'incapacità di accettare e di accogliere il destino del sofferente Servo di Jhwh. Si parla, infatti, non di una generazione dalla poca fede, ma “incredula”, cioè incapace di credere (¥pistoj, ápistos) e non disponibile a farlo, poiché le loro aspettative messianiche erano di tipo storico e politico (24,21; At 1,6). E che questo ne sia il senso lo prova il fatto che i discepoli in Luca non vengono redarguiti da Gesù per il loro fallimento, come accade, invece, in Mt 17,19-21 e Mc 9,28-29, dove viene posta sotto accusa la loro poca fede e il basso livello di spiritualità (preghiera e digiuno).

Il v.42 costituisce il vertice dell'intero racconto, dove Gesù e le forze degli Inferi si affrontano in una sorta di duello finale. Il confronto finale, quello del Golgota, prevede lo sconquasso e convulse contorsioni di un corpo martoriato. L'unica vittoria concessa satana su quel corpo mortale. Ma l'ultima parola aspetta al Padre: il rimprovero, quello che il Gesù giovanneo definisce il giudizio di condanna posto sul principe di questo mondo, da cui viene gettato fuori. E il segno della sua vittoria sarà proprio questo “mio figlio, poiché mi è unico”, che viene restituito al padre-Padre, completamente risanato e rigenerato ad una nuova vita. E con lui l'intera umanità, non più ora sotto il potere di satana.

Diversamente da Mc 9,30, che crea uno stacco netto tra il racconto dell'esorcismo e il secondo annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, Luca rimane all'interno del contesto dell'esorcismo, dando una continuità narrativa tra questo e l'evento della sua passione e morte.

Il v.43 potremmo definirlo di transizione, perché concludendo il racconto dell'esorcismo con lo sbalordimento per il manifestarsi della grandezza di Dio, introduce nella sua seconda parte il preambolo al breve annuncio di Gesù sulla sua passione e morte (v.44). Sia nella prima che nella seconda parte si parla dello sbalordimento e della meraviglia che suscita l'opera e l'operare di Gesù, ma la duplice reazione ha motivazioni diametralmente opposte. Nella prima parte del v.43 il riferimento riguarda lo stupore di fronte alla grandezza di Dio nel suo manifestarsi in un'opera unica nel suo genere: la restituzione del “figlio unico” risanato e rigenerato ad una nuova vita al padre-Padre, con una evidente allusione alla risurrezione di Gesù, che Luca richiamerà anche in At 2,11, parlando delle grandi opere di Dio, compiutesi in Gesù. Opere che verranno richiamate in At 2,22-24. La seconda parte del versetto riguarda la meraviglia che l'operare di Gesù ha provocato nei discepoli, ma a giudicare dai vv.44-45, questa meraviglia affonda le sue radici nelle attese di un messianismo di tipo politico, militare o religioso, che puntava al ristabilimento del regno di Israele (24,21; At 1,6). Per questo Gesù invita i suoi discepoli in modo categorico: “Deponete voi nelle vostre orecchie queste parole: che il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini”. Un modo di esprimersi caratteristico della LXX, molto familiare a Luca25. Come dire: mettetevi bene in testa che le vostre attese messianiche non si realizzeranno mai secondo i vostri schemi umani, ma secondo il progetto di Dio, che si attua in un messia sofferente. Un duro richiamo che ricorda in qualche modo il Gesù giovanneo, che di fronte alle moltitudini che credevano in lui perché avevano visto i segni che faceva, “non si fidava di loro” per la superficialità della loro fede, fondata sul visibile e sulla ricerca dell'eclatante (Gv 2,23-25). Quel “sta per essere consegnato” dice tutta l'imminenza dell'evento annunciato per la seconda volta, offrendo in tal modo una chiave di lettura all'ormai incombente viaggio verso Gerusalemme (v.51). Il viaggio sarà dunque un cammino di Gesù verso la consegna di se stesso agli uomini, che ha avuto inizio con la sua nascita e terminerà sul Golgota, e che Gv 3,16 leggerà come un dono di amore del Padre all'intera umanità, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.

Il v.45 sottolinea questa tenace chiusura e incapacità di comprendere da parte dei discepoli, che sottende di fatto un sostanziale rifiuto di un messianismo sofferente e apparentemente perdente, che verrà espresso molto bene dai due discepoli di Emmaus con quel “noi speravamo che egli fosse colui che stesse per liberare Israele” (24,21a). Anche per costoro Luca sottolinea che “i loro occhi erano impediti (così) da non riconoscerlo”. Soltanto la Parola e il Pane spezzato scioglierà la loro cecità, così come avvenne per Pietro e Giovanni, nel racconto giovanneo della scoperta della tomba vuota, i quali se ne tornarono alle loro case ammutoliti dalla scomparsa del corpo di Gesù (Gv 20,10), perché, racconta l'evangelista: “infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti ” (Gv 20,9). Saranno, dunque, le Scritture, la Parola, a sciogliere le riserve e i dubbi sulla risurrezione di Gesù e sulla comprensione del suo Mistero. Neppure le apparizioni riusciranno a mostrarsi convincenti sull'evento risurrezione (Mt 28,17).

La vita non come affermazione di se stessi, ma come servizio aperto a tutti (vv.46-50)

In un contesto dove in vari modi e sotto diverse forme si annuncia la passione, morte e risurrezione di Gesù; dove si parla di un Gesù che si consegna agli uomini e in loro favore svuota se stesso fino alla morte di croce, sorge tra i discepoli una disputa che ha un doppio risvolto, interno al discepolato (vv.46-48) ed esterno (vv.49-50), ma con un unico comune denominatore: l'affermazione e la tutela del proprio potere. La prospettiva qui è chiaramente postpasquale e richiama da vicino l'inno cristologico di Fil 2,5-8, dove Paolo sollecita i Filippesi a conformarsi a Cristo Gesù, che rinunciò alla sua condizione divina, assumendo una condizione di servo, umiliandosi fino alla morte e ad una morte di croce. La missione di Gesù, pertanto, che trova il suo apice nella morte-risurrezione, fu dunque una missione di servizio di redenzione spesa a beneficio degli uomini.

Il v.46 funge da introduzione tematica: “Ora, entrò una disputa in loro, chi fosse il più grande di loro”. La questione qui riguarda i rapporti interni al gruppo apostolico e quindi, al gruppo di potere, succedutosi alla morte di Gesù. Un'attenzione va posta sul modo di esprimersi di Luca, il quale non dice che è sorta una disputa tra di loro, ma che una disputa “entrò in loro”. Si tratta, dunque, di un qualcosa che è profondamente compenetrato e radicato nell'animo dei Dodici e del loro entourage; un qualcosa che agita profondamente il loro cuore e la loro mente. Non è un caso, infatti, se l'evangelista apre il suo discorso ecclesiologico affermando sia il primato petrino che l'unicità di una stessa barca, quella di Pietro (5,1-10). Segno questo che Luca, nel suo peregrinare missionario doveva aver rilevato non poche divisioni, contrasti ed arrivismi all'interno delle comunità credenti26. Un accenno alle rivalità all'interno del gruppo dei Dodici viene fornito da Mt 20,21-24, dove i due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, sponsorizzati dalla madre, tentano di assicurarsi i posti più prestigiosi all'interno della futura organizzazione del Regno di Israele, tra lo sdegno degli altri, che in qualche modo si erano sentiti scavalcati come in una sorta di congiura di corte. Saranno sempre loro due, che, subito lo smacco del rifiuto da parte dei Samaritani, invocano la vendetta dal cielo (v.53-54), non sopportando di essere così maltrattati pubblicamente, loro, un gruppo ormai affermato e la cui fama era ormai nota a tutti.

A fronte di queste rivalità interne alla comunità dei suoi discepoli, che albergano ancor prima nel loro animo, Gesù fornisce il parametro della vera grandezza: “preso un bambino, lo pose presso se stesso”, creando in tal modo una sorta di associazione tra il bambino e Gesù, che viene poi indicato come “questo bambino”, cioè come l'elemento base con cui ci si deve confrontare; un criterio fondamentale che va accolto, cioè assimilato nel proprio modo di vivere, poiché così facendo, si accoglierà Gesù e con lui lo stesso Padre, poiché ciò che questo bambino rappresenta sono esattamente le logiche e il modo di condurre la storia della salvezza da parte del Padre, che si manifesta in Gesù, che qui appare come un Gesù che non s'impone distruggendo i suoi avversari e nemici, ma consegnandosi nelle loro mani (v.44), quale dono di amore del Padre alla stessa umanità. L'accostamento del bambino a Gesù dice proprio questo: Gesù ha scelto la strada che il bambino rappresenta. E per comprendere ciò che rappresenta questo bambino, che deve diventare modo di vivere del vero discepolo, poiché in lui si prospetta il modus operandi del Padre in Gesù, è necessario porsi nella prospettiva di Luca, che sta scrivendo agli ellenisti, al mondo greco-romano. Chi era il bambino per questo mondo? L'infanzia era un periodo della vita umana ad alto rischio. Il bambino fin dal suo nascere era esposto senza alcuna tutela alla patria potestas. Dipendeva dal padre accogliere il neonato in seno alla famiglia o rigettarlo. In questo secondo caso il bambino veniva ucciso o venduto. Nel mercato degli schiavi, infatti, vi era un settore dedicato alla compravendita di bambini. Spesso i bambini venivano costretti alla prostituzione o mutilati per impietosire la gente ed usati per mendicare. Nella migliore delle ipotesi, i bambini venivano destinati alle famiglie benestanti o nobili dove servivano come giocattoli viventi per i figli di queste famiglie27. L'idea che ne esce da questo piccolo quadro è quella di un'assoluta fragilità e impotenza del bambino, dove la sua vita, alla totale mercé degli altri, dipendeva esclusivamente da questi. Ed è esattamente questa la logica con cui il Padre intende condurre la storia della salvezza: attraverso la fragilità e la povertà dei suoi servi. Lo aveva capito Paolo, che scrivendo ai Corinti circa la sua insistenza presso Dio per un aiuto nella sua missione, si sente rispondere “<<Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza>>. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10). Ma, nondimeno, lo stesso Mosè viene chiamato da Dio per liberare il suo popolo non nel momento della sua maggiore influenza presso il faraone, ma soltanto dopo che egli era caduto in disgrazia per l'uccisione di un egiziano e fu costretto alla fuga e all'oblio. Lo stesso Gesù, prima di iniziare la sua missione, fu sottoposto a delle prove (4,1-13), che lo spingevano a condurre la sua missione con la potenza folgorante di Dio; ma non era questo il disegno del Padre. Egli ha scelto la via dell'umiltà, del nascondimento, della fragilità, della debolezza, della povertà, perché l'intento del Padre non è quello di stordire gli uomini con la sua onnipotenza, costringendoli a convertirsi a Lui, ma è quello di proporsi a loro, lasciandoli liberi nella loro scelta ed accettando anche il loro rifiuto e, quindi, il fallimento stesso del suo progetto di salvezza. Per questo motivo Gesù redarguirà duramente Giacomo e Giovanni, allorché, respinti dai Samaritani, volevano invocare un fuoco distruttivo su di loro (vv.52-55). “Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Gv 3,17).

Non dunque la prevaricazione, la prepotenza o gli sgambetti o le furberie di corte, ma la semplicità, la fragilità e la debolezza assunte quale logica di vita del vero discepolo, perché da queste traspaia la potenza di Dio. Vengono, pertanto, rovesciati i parametri di valutazione umana: “il più piccolo tra tutti voi, questi è grande”.

Se i vv.46-48 riguardavano la questione del potere all'interno del gruppo apostolico e del suo entourage, i vv.49-50 riguardano la questione del potere del gruppo apostolico posto in concorrenza con un potere esterno, che opera in egual modo e con pari efficacia, che sembra rivaleggiare e in qualche modo insidiare quello dei Dodici, che si ritenevano i detentori esclusivi di tale potere (vv.1-2). Chi sia questo tale non ci è dato di sapere, ma è presumibile che si tratti di un giudeo. L'esorcismo, infatti, era praticato dai giudei, se ne ha traccia in At 19,13 e in Mt 12,27 e nello stesso Lc 11,19. Si trattava di esorcismi che probabilmente confinavano con le pratiche magiche (At 8,9; 19,18-19) e visti gli esiti eclatanti ottenuti dagli apostoli, alcuni di questi maghi cercavano di accodarsi in proprio agli apostoli per trarne un qualche vantaggio personale o per aumentare la propria notorietà e il proprio prestigio. Questi, del resto, non erano gli unici ad imitare i Dodici, ma dalla testimonianza dello stesso Paolo veniamo a sapere che anche altre persone, benché non autorizzate o comunque mosse da invidie e rivalità, prendevano l'iniziativa dell'annuncio sulla falsariga dei missionari ed apostoli. Paolo non si scaglierà contro questi perché non era in discussione la Verità del Vangelo di Cristo e, quindi, non ne fa un caso personale, perché per Paolo era importante che Cristo venisse annunciato (Fil 1,12-18). Ed è proprio su quest'ultima logica che si muove il richiamo di Gesù: “Non impedite; poiché chi non è contro di voi, è per voi”. Il richiamo si muove su di una logica non esclusivista e costituisce un invito a guardare la sostanza delle cose: chi opera in nome di Gesù si pone nella giusta condizione perché Gesù operi per mezzo suo. Se i Dodici sono stati scelti (6,13), configurati a Gesù e rivestiti della sua autorità e del suo potere (v.1), costituendo il nucleo fondante e istituzionale della Chiesa, questo non significa che tutti gli altri ne siano esclusi. Annunciare e testimoniare Gesù e operare nel suo nome, in quanto rivestiti di Cristo nell'acqua e nello Spirito, non è una “roba da preti”, ma è proprio di ogni credente, che proprio per la sua dignità sacerdotale, regale e profetica è chiamato anche ad una adeguata preparazione. Il Gesù lucano, pertanto, vede in questo non un disordine istituzionale, ma una chiesa in espansione, la cui responsabilità è affidata ad ogni credente, sia pur per diverso grado e livello all'interno dell'istituzione. È significativo come, a differenza di Mc 9,40, che usa il “noi”, comprensivo di Gesù e dei discepoli, Luca usi, invece, il “voi”, comprensivo dei soli discepoli ed escludente Gesù: “Non impedite; poiché chi non è contro di voi, è per voi”. La visione qui è chiaramente postpasquale.


Sezione di apertura al grande viaggio verso Gerusalemme (9,51-62)


Testo a lettura facilitata

Il Viaggio in riferimento a Gesù

51 – Ora, avvenne che, nel mentre erano compiuti i giorni della sua assunzione, proprio allora egli fortificò il suo volto per andare a Gerusalemme.

In riferimento agli apostoli

52 – E inviò dei messaggeri davanti (alla) sua persona. E andati, entrarono in un villaggio dei Samaritani così da preparare per lui.
53 – E non lo ricevettero, poiché la sua persona era incamminata verso Gerusalemme.
54 – Ora, avendo visto (ciò), i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: <<Signore, vuoi che comandiamo che un fuoco discenda dal cielo e li distrugga?>>.
55 – Ma giratosi, li rimprovero.
56 – E partirono verso un altro villaggio.

In riferimento ai discepoli

57 – E camminando essi sulla strada, disse uno verso di lui: <<Ti seguirò ovunque (tu) vada>>.
58 – E gli disse Gesù: <<Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo>>.
59 – Ma verso un altro disse: <<Seguimi>>. Ma questi disse: <<[Signore], permettimi prima che io vada a seppellire mio padre>>.
60 – Ma gli disse: <<Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu, invece, partito, annuncia il regno di Dio>>.
61 – Ora disse anche un altro: <<Ti seguirò, Signore, ma prima permettimi di salutare quelli nella mia casa>>.
62 – Ma disse [verso di lui] Gesù: <<Nessuno, che mette la mano sull'aratro e che guarda le cose di dietro, è adatto per il regno di Dio>>.


Note generali

Inserito nel contesto del cap.9 che segna una radicale svolta verso il Golgota, il v.51 apre il grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della salvezza. Un viaggio che è ben più di un semplice viaggio, poiché il v.51 parla della “sua assunzione”, un termine questo che, in greco, apre ad una molteplicità di significati, che imprimono un profondo significato a questo viaggio rivolto verso Gerusalemme. Un viaggio che ha ben poco di viaggio, poiché non vi è nessuna descrizione di come e dove si compie e là, in 17,11, dove Luca cerca di dargli una sorta di connotazione geografica, l'unica in tutta la sezione 9,51-19,2828, commette un doppio errore: “Ed avvenne che nel mentre che andava a Gerusalemme, egli passava tra la Samaria e Galilea”. Il primo errore consiste nell'aver invertito i nomi delle due regioni, poiché per andare a Gerusalemme si parte dalla Galilea, dove Gesù si trovava, passando attraverso la Samaria, per poi scendere giù in Giudea, verso Gerico (18,35; 19,1) e da qui si sale a Gerusalemme; il secondo errore consiste nella tempistica, poiché il suo andare a Gerusalemme passando dalla Samaria, già era stato detto in 9,52-53, all'inizio del viaggio, ma dopo ben otto capitoli, Luca rileva che sono ancora alle soglie della Samaria, dimenticandosi che già l'avevano superata fin dall'inizio. Non si tratta, dunque, di un viaggio geograficamente rilevabile, ma semplicemente teologico. Un viaggio che si svolge all'interno del suo “andare a Gerusalemme”, che funge da cornice, e il cui significato è spiegato da Gesù stesso in 13,33: “[...] poiché non è possibile che un profeta perisca fuori Gerusalemme”. In tal modo Gesù si associa alla storia del profetismo in Israele, alludendo probabilmente all'atteso profeta messianico, che doveva venire dopo Mosè (Dt 18,15.18).

Si tratta, quindi, di un viaggio di assunzione o meglio di ascensione verso Gerusalemme e da qui verso il Padre (24,50-51). Un cammino che rassomiglia molto a quel movimento pendolare descritto da Gv 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”29. Un viaggio, quindi, che mette in rilievo la forte tensione di Gesù verso il Padre, passando attraverso Gerusalemme e il Golgota, che fungono da porta di ritorno al Padre.

Si tratta di una finzione letteraria, costruita attorno al ripetersi, quasi ossessionante, ben otto volte30, dell' “andare di Gesù verso Gerusalemme”, e delimitata dalla doppia inclusione con cui si apre e si chiude la sezione del viaggio. Questa si apre con 9,51 dove si attesta che Gesù si indirizzò con fermezza verso Gerusalemme; mentre in 19,28 si attesta che “[...] camminava davanti, salendo a Gerusalemme”. Quindi vi è un inizio ed una fine. Ma vi è anche un altra inclusione che va a rafforzare la prima. In 9,52 si dice che Gesù inviò davanti a sé dei messaggeri perché preparassero la sua venuta in Samaria; in 19,29, parimenti, Gesù invia davanti a sé due discepoli perché preparassero la sua venuta in Gerusalemme. Questa doppia inclusione, percorsa al suo interno dal martellante ricordo che Gesù sta andando verso Gerusalemme, caratterizza questa sezione 9,51-19,28, come la sezione tradizionalmente definita del “viaggio” verso il Padre, passando necessariamente attraverso Gerusalemme.

Con questa sezione (9,51-19,28), definita come il grande inserto (9,51-18,14), Luca abbandona Marco, che riprenderà con 18,15, senza più lasciarlo, a partire da Mc 10,13.

Si tratta di una sezione il cui contenuto si pone in netta contrapposizione alla sezione galilaica (4,14-9,50), dove prevale l'azione missionaria delle guarigioni e degli esorcismi e dove viene inserito anche un piccolo trattato ecclesiologico, accompagnato dal discorso della montagna (5,1-9,17). Diversamente, in questa sezione prevale quasi esclusivamente materiale di tipo sentenziale e sapienziale con numerose parabole, proveniente da fonte Q e propria di Luca (SLc), mentre qui esorcismi e guarigioni si riducono soltanto a quattro31. L'intera sezione è pertanto improntata alla riflessione e alla parenesi e i toni sono didascalici. Essa costituisce nel suo insieme un tesoro di sapienza cristiana, una sorta di testamento spirituale che Gesù lascia ai suoi, mentre è incamminato verso il luogo della sua assunzione, attraverso un triplo passaggio: a Gerusalemme, sulla croce e al Padre.

Leggendo attentamente questa ampia sezione, 9,51-19,28, è difficile trovarvi una qualche struttura, per quante ipotesi si possano fare. L'idea che ne esce è che l'autore abbia semplicemente voluto raccogliere un ampio patrimonio di sapienza e di saggezza cristiana, che in qualche modo viene fatta risalire a Gesù, e porlo all'interno di un contenitore, quello del fittizio viaggio verso Gerusalemme, quasi a ricordare che tutto il sapere credente deve accompagnare e caratterizzare il cammino del discepolo verso il Padre, nella coscienza che su tale cammino è profondamente incisa l'ombra della croce. Non è un caso, infatti, che in apertura della sezione del viaggio l'autore presenti tre detti sapienziali inquadrati (vv.57-62), tutti tre riguardanti la sequela di Gesù, che rievocano in qualche modo il v.23 e ne divengono una sorta di specificazione. Se un qualche ordine, ma francamente abbastanza aleatorio, si volesse trovare all'interno di questa sezione, questo è, a mio avviso, soltanto tematico, poiché leggendo i singoli capitoli, questi sembrano sottesi da uno o più temi. Oltre a questo non credo si possa andare. Del resto, presentandosi il materiale come una raccolta di detti sapienziali più o meno inquadrati in brevi racconti e in parabole è difficile creare una vera e propria struttura narrativa, proprio perché manca qualsiasi narrazione.

Ci troviamo di fronte ad un viaggio che parla dell'assunzione di Gesù e che richiama da vicino quella di Mosè (Dt 34,1), che, morente sul monte Nebo, ormai giunto alla Terra Promessa, che vede in lontananza, ma non vi entrerà (Dt 34,2-4), lascia il suo testamento spirituale, raccolto nel Deuteronomio, i cui toni, come qui, sono esortativi, e costituisce una sorta di riflessione sull'avventura dell'Esodo (Dt 1,1). Un parallelismo che viene suggerito dallo stesso racconto della Trasfigurazione dove Mosè ed Elia parlano dell'imminente esodo di Gesù a Gerusalemme (vv.30-31). Come Mosè, infatti, che compie la sua assunzione sul monte Nebo dove detta il suo testamento spirituale agli Israeliti, similmente Gesù compie la sua ascensione a Gerusalemme, dove morirà, ma lungo il cammino lascia il suo testamento spirituale ai suoi discepoli e, in loro, a tutta la Chiesa; e similmente a Mosè, posto a capo del grande esodo di Israele verso la Terra Promessa, anche Gesù è venuto per porsi a capo di un altro grande esodo di Israele verso un'altra Terra Promessa, di cui la prima, quella antica, era figura, e lo ricorderà in 13,34: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono stati inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli nel modo con cui una gallina (raccoglie) la sua nidiata sotto le ali, e non avete voluto”. Ma egli in questa sua venuta e in questo suo esodo verso il Padre ha assunto su di sé anche la missione di Elia, il profeta che, contro l'idolatria imposta da Gezabele e favorita dal re Acab (1Re 16,31-33; 19,1-2), affermerà i diritti di Dio sul popolo (1Re 18,19-40). Il suo stesso nome dice il senso della sua missione: Elia significa infatti “Dio è Dio ” o “ Dio è il Signore” (1Re 18,39). E sarà anche questa la missione e il motivo dell'esodo di Gesù a Gerusalemme: quella di riaffermare la signoria di Dio in mezzo agli uomini. E gli esorcismi e le guarigioni vanno in questo senso.

Commento ai vv.51-62


I vv.51-62 sono introduttivi al viaggio di Gesù verso Gerusalemme e ne delineano i tratti salienti in riferimento a Gesù stesso (v.51), agli apostoli (vv.52-56) e ai discepoli (vv.57-62).

Il v.51 imprime una svolta radicale all'intero cap.9 ed apre con un tono solenne e carico di significati la sezione del Viaggio.

L'apertura è segnata dal caratteristico verbo caro a Luca: “'Egšneto” (Eghéneto, avvenne, accadde), che scandisce il realizzarsi degli eventi salvifici nella storia, avvertendo che quanto qui segue ed è retto da questo verbo appartiene a tali accadimenti. In quest'ottica, quindi, l'autore prospetta il viaggio verso Gerusalemme. Luca apre questa sezione con una nota temporale: “nel mentre erano compiuti i giorni della sua assunzione”. Il tempo per Gesù dunque si è compiuto e tale compimento rimanda al progetto del Padre, che scandisce la vita di Gesù, ma che nel contempo trova in Gesù la sua realizzazione e manifestazione. Di quale tempo si tratta? È un tempo che riguarda la “sua assunzione”, “¢nal»myewj” (analémpseos), un termine tutto lucano e che ricorre in tutta la Bibbia soltanto qui. Il sostantivo deriva dal verbo “¢nalamb£nw” (analambáno), che letteralmente significa “sollevare, prendere tra le braccia, prendere su di sé, intraprendere, salire su”; mentre il sostantivo indica “ascensione, l'incaricarsi di qualcosa, lo ristabilire, la ristorazione o riparazione di un fallo”32. Il compiersi del tempo, dunque, per Gesù riguarda il suo salire a Gerusalemme, il suo salire sulla croce, il suo salire dalla morte alla vita e il suo salire al Padre. È giunto il tempo per Gesù di farsi carico di questo disegno del Padre ideato per la riparazione del fallo primordiale, della colpa originale, che ha proiettato l'intera umanità fuori dalla dimensione divina. Questa pluralità di significati risuona nel sostantivo greco “analémpseos”, consentendo al lettore di cogliere il senso di questa ascensione di Gesù verso Gerusalemme; mentre il compiersi del tempo per questa ascensione lascia intravvedere come dietro a questa si muova il progetto salvifico del Padre.

Se la prima parte del v.51 avverte che è giunto il tempo del compiersi dei Misteri della salvezza, la seconda parte presenta un Gesù determinato a compierli: “proprio allora egli fortificò il suo volto per andare a Gerusalemme”. L'espressione “tÕ prÒswpon ™st»risen” (to prósopon estérisen, fortificò il suo volto), che nel N.T. si trova soltanto qui, fa parte del linguaggio profetico33 e compare sempre in un contesto di giudizio contro le infedeltà di Israele. Il verbo qui usato da Luca è “sthrzw” (sterízo) ed è posto all'aoristo di tipo ingressivo, che dice come da questo momento Gesù ha preso con determinazione la sua ferma decisione, orientando se stesso verso Gerusalemme, la porta di ritorno al Padre, imprimendo una svolta radicale alla sua vita, ma anche alla vita dell'intera umanità e con questa dell'intera creazione, profondamente legata all'uomo. Tutto ciò che verrà dopo questo v.51, pertanto, va letto e compreso all'interno di tale cammino, su cui si riflette l'ombra della croce e della gloria, ma nel contempo la morte e risurrezione di Gesù apre il tempo escatologico, l'ultimo tempo che Dio concede all'uomo perché compia la sua scelta se con Lui o contro di Lui (11,23). Si apre, dunque, il tempo del giudizio escatologico.

Sovente questa seconda parte del v.51 viene letta con riferimento a Is 50,7, con riguardo al sofferente Servo di Jhwh: “e il Signore divenne mio soccorso, per questo non mi preoccupo, ma ho reso il mio volto come dura pietra, sapendo che non sarei stato disonorato”34. Non è escluso che questa figura fosse stata presente in Luca, ma ciò che egli intendeva mettere in evidenza qui era la fermezza con cui Gesù ha intrapreso il cammino della croce, conformandosi alla volontà del Padre (22,42). Quella fermezza che poi egli chiederà ai suoi discepoli, quale elemento costitutivo della sequela (vv.59-62). Il verbo infatti qui usato è “sterízo” che sottolinea la determinazione con cui Gesù ha intrapreso questo viaggio. Se avesse voluto associare la figura di Gesù a quella del Servo sofferente di Jhwh avrebbe usato il verbo “stereÒw” (steréoo), che significa “rendere solido, indurire, fortificare”, richiamando in tal modo direttamente l'espressione di Is 50,7 “æj stere¦n pštran” (os stereàn pétran, come pietra dura). Invece, l'autore ha preferito usare il verbo “sterízo”, lasciando così sullo sfondo il tema del sofferente Servo di Jhwh, preferendo evidenziare la determinazione di Gesù nel suo conformarsi alla volontà del Padre fino in fondo, piuttosto che il suo fiducioso e coraggioso abbandono in Lui, che comunque riserverà sulla croce (23,46).

Il secondo aspetto di questo viaggio verso Gerusalemme riguarda gli “apostoli”, intesi qui come “messaggeri” inviati “davanti alla sua persona” (vv.52-56). Già in apertura di questo cap.9, nell'ultimare il suo lungo discorso ecclesiologico (5,1-9,17), Gesù aveva inviato i Dodici, investiti dei suoi poteri, ad annunciare il Regno di Dio (vv.1-2); similmente, in apertura del cap.10 invia altri settantadue discepoli “davanti alla sua persona” (10,1). Questi discepoli sono qui definiti non più apostoli né discepoli, ma soltanto “messaggeri” inviati a precedere la venuta di Gesù, con un richiamo a 1,76-78, che traspare sullo sfondo, in cui si delinea la missione del Battista, chiamato a precedere la venuta del Messia e annunciare il tempo del perdono e della misericordia divina e che a sua volta riecheggia Ml 3,1. La prospettiva qui non è solo postpasquale, ma escatologica, in cui si prospetta già la seconda venuta di Gesù, che questi messaggeri, alla stregua del Battista, precedono. Il senso della missione di questi messaggeri escatologici sarà, pertanto, quello di una chiamata generale alla conversione verso tutti gli uomini, facendo conoscere l'annuncio della misericordia divina per mezzo del perdono dei peccati35.

Il primo annuncio viene offerto ai Samaritani, figura del mondo pagano, al quale erano equiparati; o forse anche metafora dell'Israele infedele, quello che respinse Gesù. Questi si rifiutano di far passare Gesù dal loro territorio, perché Gesù “era incamminato verso Gerusalemme”. Il motivo di questo loro rifiuto è legato ad antichi rancori che dividevano i Samaritani dai Giudei e, quindi, non potevano permettere che un Giudeo attraversasse il loro territorio per recarsi verso l'odiata Gerusalemme. Lo stesso Gv 4,9 rileverà questa profonda idiosincrasia tra Samaritani e Giudei36. Benché Luca avesse appena ricordato al v.51 che Gesù “fortificò il suo volto per andare a Gerusalemme”, tuttavia sottolinea nuovamente, al v.53, che egli sta andando verso Gerusalemme. La doppia evidenziazione del suo “andare verso Gerusalemme” non è una inutile ripetizione, poiché la prima enunciazione riguarda la decisione di Gesù; la seconda dice come tale decisione abbia trovato la sua attuazione. Un viaggio che è iniziato proprio dalla Samaria, territorio considerato pagano, per sottolineare come l'annuncio della misericordia e del perdono dei peccati, comincia proprio dal mondo dei peccatori per il quale Gesù è venuto (5,32; 15,2); ma nel contempo viene prospettata la motivazione e il senso di questo viaggio che lo porterà sul Golgota: si tratta di un viaggio della misericordia divina, fatta di perdono e di accoglienza anche di fronte alla chiusura e il rifiuto. L'intervento di Giacomo e Giovanni, che invocano un fuoco dal cielo che bruci questi peccatori, e al quale Gesù si oppone con un rimprovero, serve a Luca per sottolineare come questo di Gesù sia un viaggio volto alla misericordia e al perdono e non alla condanna. Dio, infatti, come ricorda Gv 3,17: “non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Questo episodio di Giacomo e Giovanni che in territorio di Samaria invocano un fuoco che consumi questi peccatori che si oppongono a Gesù, si rifà probabilmente al racconto di 2Re 1,9-12, dove per due volte due comandanti con il loro drappello di cinquanta uomini ciascuno, furono successivamente inviati dal re Acazia (853-852 a.C.), gravemente infortunatosi proprio nel suo palazzo a Samaria, per imprigionare il profeta Elia, che lo aveva duramente rimproverato per la sua idolatria. Ma questi, furono inceneriti da un fuoco dal cielo invocato da Elia. Ora, però, la venuta di Gesù cambia le prospettive: dal giudizio divino si passa alla misericordia e al perdono. E su questa logica deve conformarsi la chiesa nascente.

Il racconto termina con il commento dell'autore: “E partirono verso un altro villaggio”. Sarà questo il criterio missionario che deve animare la Chiesa: non vendetta o maledizioni, ma perdono, misericordia, affidando a Dio chi si rifiuta di accoglierne l'annuncio di perdono e il richiamo alla conversione. L'importante è che l'annuncio del Regno venga fatto. Vedremo come questa logica verrà ripresa in10,10-12 e codificata come regola di comportamento per i predicatori itineranti.

Il terzo aspetto di questo viaggio verso Gerusalemme riguarda il discepolato, quelle persone che si sono decise per la sequela di Gesù (vv.57-62). Si tratta di tre sentenze inquadrate all'interno di un breve racconto appena accennato e tematicamente univoche, riguardanti le condizioni della sequela. Tre sentenze che potremmo considerare come una sorta di sviluppo tematico e di approfondimento del v.23.

Il v.57 si apre riprendendo il tema del viaggio: “E camminando essi sulla strada”. Si tratta della strada che conduce verso Gerusalemme e verso il Golgota; una strada che è segnata dall'ombra della croce. È dunque sufficiente questo breve cenno introduttivo alla pericope vv.57-62 per comprendere su quale sfondo si muoveranno le tre sentenze e che cosa si deve aspettare il lettore. Gli interlocutori non sono precisati se non per le loro richieste a Gesù o per l'invito alla sequela da parte di Gesù. Questo anonimato in cui sono avvolti i tre personaggi, attribuisce loro, e di conseguenza alle tre sentenze, una valenza universale.

La prima sentenza (vv.57-58) riguarda la condizione di estrema povertà e spogliazione di chi segue Gesù: tutti hanno un riparo nella propria vita, perfino gli animali, ma Gesù e il suo discepolo sono privi anche del necessario: non hanno dove posare il capo. Questa esposizione del discepolo già era stata in qualche modo preannunciata ai vv.3-4 dove Gesù sollecitava gli inviati ad annunciare il Regno: “Non prendete niente per la strada, né bastone, né bisaccia, né pane, né denaro, né abbiate due tuniche [ciascuno]”. La sequela, pertanto, comporta una radicale scelta di vita. La finalità di questa spogliazione esistenziale quale condizione primaria per la sequela è quella di lasciare spazio a Dio nella vita del discepolo. I beni, la loro organizzazione e la loro gestione, non possono diventare il fondamento delle sicurezze del discepolato; né pensare che siano questi, unitamente alle abilità degli uomini, a costruire il Regno di Dio. Ed è proprio questa esposizione del discepolo, questa sua fragilità costitutiva che funge da canale attraverso il quale si manifesta la potenza di Dio.

Se i vv.57-58 hanno evidenziato la necessità della spogliazione esistenziale quale condizione primaria per la sequela, i vv.59-60, per ciò che riguarda la chiamata, e i vv. 61-62 per quanto riguarda la scelta per la sequela, mettono in rilievo in entrambi i casi la ferma determinazione nella risposta, senza tentennamenti di sorta. Un comportamento questo che Gesù stesso ha assunto su di sé nell'intraprendere questo viaggio: “proprio allora egli fortificò il suo volto per andare a Gerusalemme”.

Le risposte di Gesù lasciano alquanto perplessi per la loro durezza quasi draconiana. Alla richiesta del discepolo di poter seppellire il padre, un atto di pietà riconosciuto in tutta l'antichità, Gesù risponde: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu, invece, partito, annuncia il regno di Dio”. Il v.60 è scandito in due parti tra loro contrapposte; due parti che segnano due aree del prima e del dopo. Ciò che c'è prima è lo spazio dei “morti” che devono occuparsi dei loro morti. I morti di cui qui si parla sono coloro che pur avendo ricevuto l'annuncio del Regno lo hanno rifiutato. Questi sono spiritualmente morti. Dunque questi continueranno ad occuparsi delle cose di questo mondo senza alcuna nuova prospettiva, senza alcuna speranza di vita nuova. Questi morti continueranno ad occuparsi di altri morti come loro, muovendosi in una dimensione vecchia, chiusa ad ogni evoluzione spirituale, la cui destinazione è la terra stessa, una terra di morte, sui quali pesa la condanna genesiaca: “Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!” (Gen 3,19). La seconda parte del v.60 crea uno stacco netto e contrapposto a quello recedente: “tu, invece, partito, annuncia il regno di Dio”. L'espressione “tu, invece” colloca il chiamato in una posizione completamente diversa e contrapposta agli altri, aprendolo a nuove prospettive; mentre quel “partito”, da un lato, va ad accentuare lo stacco da quel mondo da cui egli stesso proviene e al quale non appartiene più; dall'altro, dice l'accoglienza di questa chiamata che lo fa un uomo nuovo, chiamato a collaborare con Dio per la fondazione del suo Regno in mezzo agli uomini. Ma nel contempo dice tutta le determinazione che il chiamato deve mettere nella sua risposta, per dare una sterzata alla sua vita, così come ha fatto il suo Maestro, che “fortificò il suo volto per andare a Gerusalemme”.

Il terzo detto (vv.61-62), tutto lucano, sembra avere come sfondo biblico la chiamata di Eliseo da parte di Elia. Al momento della chiamata Eliseo stava arando un campo con dodici paia di buoi e, chiamato, chiede ad Elia il permesso di salutare i suoi genitori, che gli viene concesso (1Re 19,19-21). Ma se la chiamata di Eliseo è ammorbidita dall'atteggiamento umano di Elia, che consente ad Eliseo l'affettuoso saluto del distacco, la lettura che ne fa qui Luca è molto più intransigente legge in questo frapporre il desiderio di un saluto alla decisione di seguire Gesù un inammissibile tentennamento, che pregiudica la stessa sequela. Quel “Ti seguirò, ma prima” sembra dettare la condizione personale del discepolo per la sua sequela. Ma il seguire Gesù deve essere incondizionato. La strada, infatti, che Gesù sta percorrendo è quella della croce e su questa strada egli incontra i candidati alla sequela. È, dunque, una strada dura e difficile, che non ammette esitazioni. Chi veramente vuole intraprendere il cammino della sequela deve, dunque, “fortificare il proprio volto”, sull'esempio del suo Maestro e Signore.



NOTE

1Per un maggior approfondimento cfr. la Premessa al commento del cap.4 della presente opera.

2“Διδαχὴ τῶν δώδεκα ἀποστόλων” (Didachè tôn dódeka apostólon, Insegnamento dei dodici apostoli) è un testo scoperto dal metropolita Filoteo Bryennios a Costantinopoli nel 1873 e da lui pubblicato nel 1883. Benché attribuita, secondo il titolo stesso, ai Dodici apostoli, in realtà l'operetta fu scritta da un autore sconosciuto, probabilmente da uno o più apostoli itineranti. In essa vi si trovano le tracce del primitivo cristianesimo, ancora legato alla mentalità e agli usi giudaico, ma che andava sviluppando le prime istituzioni liturgiche e ministeriali: gerarchia itinerante e carismatica, amministrazione locale scelta dalla comunità, predicazione a carattere morale, assenza di dogmi e di regole di fede. La data di composizione varia notevolmente a seconda degli studiosi e comunque localizzata tra la fine del I sec. e il II sec. Secondo Jean-Pierre Audet, domenicano canadese, la Didaché è databile tra il 50 e il 70 d.C. Datazione su cui personalmente sono d'accordo, benché preferisca tenermi più vicino al 70 che al 50. - Per questa nota cfr. Didaché, Dottrina dei Dodici Apostoli, a cura di S. Cives e F. Moscatelli, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999.

3Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992; III edizione 2001

4Cfr. Es 16,14-17.35; Dt 8,3

5Altri testi che ricordano l'esperienza della manna oltre a quelli citati alla nota 4 sono 16,15-35; Nm 11,1-9; Gs 5,12; Ne 9,20. Nel N.T. essa viene ricordata in Gv 6,31.49; Eb 9,4; Ap 2,17

6Cfr. Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18; 9,28.29; 11,1.2; 22,41-45

7Il termine “Messia” deriva dalla parola ebraica “Mashiah”, che significa “unto” ed ha il suo corrispondente greco in “KristÒj” (Kristós. Unto)

8Cfr. Is 42,1-4; 49,-6; 50,4-9; 52,13-53,12

9Cfr. Is 32,1; 33,17

10Cfr. Is 4,2; 11,1-16; Ger 23,5; 33,15; Zc 3,8; 6,12;.

11Cfr. Is 2,2-5; 9,1-3; 11,6-9; 60,1-6

12Sulla questione del clima storico in cui visse Gesù e in cui furono scritti i vangeli cfr. la Parte Introduttiva della mia opera Il Vangelo secondo Giovanni, pagg.3-7: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

13Il tema del patire, del morire e del risorgere verrà ripetuto per una quarta ed ultima volta in 24,47, ma soltanto come citazione scritturistica, giustificando in tal modo il senso di quel “De‹”: Gesù non solo è l'atteso, ma è anche colui che è venuto per dare compimento alle Scritture, conformando la sua vita al disegno salvifico in esse contenuto.

14Cfr. At 10,40; 1 Cor 15,4

15Cfr. §41 della Gaudium et Spes

16Cfr. Fil 1,13.19-25

17Sul tema della preghiera di Gesù in Luca cfr. pag.15 del presente commento.

18Cfr. At 1,13; 3,1.3.4.11; 4,13.19; 8,14;

19Sulla questione cfr. G. Barbaglio, Le lettere di Paolo, Edizioni Borla, Roma; II vol. pag.67, nota 28

20Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

21Cfr. Ez 1,4.7; Dn 10,6

22Cfr. Na 3,3

23Cfr Dn 7,2.7.13; 10,5.16; Ap 1,7; 4,2; 6,2; 14,1.14; 19,11.

24Sulla questione cfr. commento al cap.8, pagg.22.25-27.

25Solo a titolo esemplificativo, cfr. Gen 4,23; Es 15,26; Nm 23,18; 2Re 19,16; 2Cr 20,15; Ne 8,3; Sal 101,3; 115,2.

26Sulla questione cfr. il commento al cap.5 pagg.4-9 della presente opera.

27Sulla questione dell'infanzia nel mondo greco-romano cfr. la voce “Bambini, Infanzia, Figliolanza” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

28In 18,35 e 19,1 pone un altro riferimento geografico con riguardo a Gerico, la porta d'entrata a Gerusalemme, ma ormai siamo giunti alla fine di questo viaggio. Gerico dista da Gerusalemme in linea d'aria circa 25 Km, pari, approssimativamente, a un giorno e mezzo di cammino. Cafarnao da Gerusalemme dista in linea d'aria circa 150 Km.

29Cfr. pag.24 del presente studio

30Cfr. 9,51.53; 13,22.33; 17,11; 18,31; 19,11.28

31Un esorcismo in 11,14; guarigione di una donna ricurva in giorno di sabato in 13.10-13. Questi primi due interventi di Gesù pongo l'accento più che sul suo operare sul dibattito che ne è seguito, diventando questi funzionali al dibattito stesso. Diversa finalità le altre due guarigioni: quella di un idropico in 14,1-6 e di dieci lebbrosi in 17,11-19.

32Tutti i significati sia del verbo ¢nalamb£nw che del sostantivo “¢nal»myewj” sono stati desunti da L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, edizioni Società Editrice Dante Alighieri, Roma, 1993

33Cfr. Ger 3,12; 21,10; Ez 6,2; 13,17; 14,8; 15,7; 21,2.7; 25,2; 28,21; 29,2; 38,2.

34Traduzione personale e letterale dal greco della LXX.

35Cfr. Lc 1,77; 3,3; 5,20.24; 7,47-49; 24,47; At 2,38; 3,19; 5,31; 10,43; 10,38; 22,16; 26,18

36Una tale idiosincrasia ha la sua origine sul finire del sec. VIII a.C. allorché, dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista, ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche (2Re 17,24-29). Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, a seguito della sua distruzione nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione sia del Tempio che di Gerusalemme (Esd 4,1-5). La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah scritta, disconoscendo i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra le due popolazioni si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim. I Samaritani, quindi, erano originari di due diversi ceppi etnici: quello ebraico, che non fu deportato alla caduta del Regno del nord, e quello formato dai coloni provenienti da Babilonia e dalla Media. Erano, dunque, una razza imbastardita non solo etnicamente, ma soprattutto religiosamente. Erano per questo considerati eretici e impuri. Passare per il territorio dei Samaritani ed entrare in contatto con loro significava rimanere contaminati. È significativo e rivelativo della mentalità giudaica nei confronti dei Samaritani quanto dice la Mishnah in loro proposito: “Le figlie dei samaritani sono in stato di mestruazione fin dalla loro culla […] Inoltre le figlie dei samaritani restano nell'impurità per sette giorni a causa di ogni genere di flusso di sangue”. Un'espressione questa per sottolineare il profondo stato di impurità in cui vivevano costantemente gli abitanti della Samaria; un'impurità congenita. Ma non è tutto, poiché si riteneva non valida la testimonianza di un samaritano, eccetto che per il documento di divorzio. Il samaritano, infatti, era assimilato ad un pagano e considerato alla pari di un 'am ha-haretz, cioè un ignorante, un peccatore e trasgressore.