IL VANGELO SECONDO LUCA

La missione di Gesù:
predicazione e guarigioni,
in cui è prefigurata quella della Chiesa

   (Lc 8,1-56)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi



Note generali


Dopo aver lasciato Marco in 6,19 per inserirvi i capp.6,20-8,3, composti da materiale proprio e da fonte Q, noto come il piccolo inserto1, Luca riprende ora, con il cap.8, il racconto marciano2, e più precisamente a partire da 8,4 e fino a tutto 9,50. Lo farà liberamente, tralasciando Mc 4,24-34, inserendo al suo posto Mc 3,31-35 e modificando alcune parti redazionali come il contesto topografico del preambolo alla parabola del Seminatore: in riva al lago per Mc 4,1, imprecisato in Lc 8,4.

Per poter comprendere i capp. 8,1-9,17 è necessario fare qualche passo indietro. Con i capp.5 e 6 Luca aveva parlato di primato petrino (5,3-10), di chiamata dei primi discepoli (5,11.27-28), delle incomprensioni e scontri con il Giudaismo3 e dell'incompatibilità della chiesa nascente con questo (5,36-39), così da spingerla al suo distacco, costituendosi come istituzione a se stante attorno al gruppo dei Dodici (6,12-17) e con un proprio statuto, che la configura e le assegna una sua propria identità (6,20-49). Ora, con questo cap.8 Luca continua il suo piccolo trattato di ecclesiologia, in cui viene descritta l'attività missionaria di Gesù, presentata come paradigmatica per la chiesa stessa, che l'autore vede qui come una Chiesa già in cammino, proiettata in tempi post-pasquali (vv.22-26), mentre la sezione 9,1-17 descrive la graduale sostituzione dei Dodici a Gesù stesso, così da divenirne suoi intermediari presso la gente, preparando in tal modo il distacco di Gesù dai suoi, a cui è dedicata la sezione 9,18-50, preparatoria, a sua volta, alla sezione del grande viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28), dove si compiranno i Misteri della passione, morte e risurrezione.

Il cap.8 presenta l'attività di Gesù, la quale si muove su di uno sfondo missionario. Il racconto, infatti, si apre con un significativo rilievo, che incornicia l'intero capitolo, assegnandogli un'impronta squisitamente missionaria: “egli percorreva attraverso (ogni) città e villaggio predicando e annunciando la buona novella del regno di Dio e i Dodici con lui”. Questo è il tratto che caratterizza l'attività di Gesù, che funge da paradigma a quella della chiesa nascente. Un capitolo singolare, questo, perché da un lato parla di attività missionaria di Gesù come annuncio, ma incentrando l'attenzione più che sui contenuti sulla natura di questo annuncio e sulle molteplici ricadute che questo ha sugli ascoltatori. Una sorta di avvertimento, dunque, che Gesù lancia ai suoi, a non pensare all'annuncio della Parola come un fatto scontato e sempre bene accolto dalla gente e sempre fruttuoso; numerose infatti sono le incognite che si frappongono di mezzo vanificandolo, benché Luca ami presentare il diffondersi della Parola come una sorta di inarrestabile marcia trionfale (At 6,7; 12,24; 13,49), anche se per certi aspetti lo fu4. Dall'altro lato, l'autore descrive l'efficacia di questa Parola, raccontando tre particolari eventi di guarigione: esorcistico il primo (vv.27-39), di vera e propria guarigione il secondo o per meglio dire di liberazione da un flusso sanguineo, che aveva ridotto la donna ad una sorta di morta vivente e socialmente ghettizzata, poiché questo flusso la rendeva costantemente impura e inavvicinabile da chiunque, per non esserne contaminato (vv.43-48); di risuscitazione il terzo (vv.40-42.49-56). Vi è, pertanto, in questi tre eventi una gradualità che crea una sorta di classificazione delle stesse attività spirituali della Chiesa: esorcismo, risanamento e rigenerazione spirituale, restituzione della vita a chi è morto a Dio. Attività, che, tuttavia, nella Chiesa hanno assunto anche aspetti corporali, poiché l'interezza dell'uomo sia restituita alla vita.

Il significato di questa duplice attività missionaria di Gesù, annuncio e guarigione o per meglio dire annuncio che si fa guarigione, ha la sua chiave di lettura nel racconto della tempesta sedata, posto al centro di questo cap.8 e quindi, proprio per questo, la parte più importante dell'intero capitolo: vi è una barca, metafora della chiesa, su cui ci sono Gesù e i suoi discepoli; questa prende il largo, intraprende il suo cammino in mezzo alle acque agitate della storia, con a bordo Gesù, che stranamente dorme in mezzo al frastuono di una tempesta, che rischia di mandare a picco l'imbarcazione. Gesù, dunque, c'è, è lì presente, ma dorme e, quindi, è come se non ci fosse. È una sorta di presenza-assenza. Tutto è lasciato in mano ai discepoli, tutta loro è ora la responsabilità della conduzione e del mantenimento a galla di questa barca. Tuttavia egli è sempre presente e costituisce comunque per tutti loro un punto solido di riferimento e di salvezza. Con lui a bordo, pertanto, tutto è reso più sicuro e nessuna forza ostile e minacciosa può arrecare un qualche danno a questa barca, che giunge, infatti, felicemente alla meta.

L'importanza di questo episodio nell'intera economia narrativa del cap.8 sta proprio nel fatto che qui si parla di una presenza-assenza di Gesù su di una barca direttamente condotta dai suoi discepoli e in cui Gesù sembra essere una presenza passiva, quasi indifferente a tutto ciò che accade, ma che in realtà è colui che determina la salvezza della barca stessa. Il racconto, pertanto, proietta il lettore in tempi post-pasquali allorché il Risorto è una presenza certa nella chiesa, ma non più tangibilmente raggiungibile dai suoi, se non nella certezza che proviene dalla fede. L'intero cap.8, pertanto va ricompreso all'interno di questo contesto post-pasquale, mentre l'attività missionaria di Gesù, diventa, proprio per questo contesto, paradigmatica di quella della chiesa. Vedremo, infatti, in 9,1-17 come i discepoli gradualmente prendono il posto di Gesù e fungono da intermediari tra lui e la gente. Il cap.8, pertanto, come meglio si rileva dal secondo capoverso del presente commento, si configura come un nuovo piccolo trattato di ecclesiologia, che si associa a quello dei capp.5-6, formando nell'insieme una vera e propria storia della chiesa, dal suo nascere al suo peregrinare missionario in mezzo alle genti, rivestita dell'autorità e del potere stesso del Risorto (9,1-2), passand attraverso il traumatico distacco dal giuaismo.

La macrostruttura del cap.8 è scandita in quattro parti:

  1. Una Chiesa missionaria strutturata su Gesù, i Dodici e numerose donne che svolgono un servizio di diaconia (vv.1-3), in cui si riflette in qualche modo la struttura della chiesa in atto;

  2. La sezione della Parola, formata dal racconto della parabola del Seminatore (vv.4-8) e la sua spiegazione a parte per i discepoli (vv.11-15). Le due pericopi sono tra loro intervallate da una motivazione discriminante (vv.9-10): i misteri del Regno di Dio, e quindi la capacità di comprensione dello stesso, sono rivelati soltanto ai suoi seguaci, disponibili ad accoglierlo nella propria vita, evitando in tal modo che questi vengano dispersi e dissacrati. Il racconto del Seminatore viene fatto seguire da un'ammonizione formata da quattro sentenze, di cui una (vv.19-21) inquadrata da un brevissimo racconto in cui si evidenzia la vera parentela di Gesù: coloro che ascoltano e praticano la Parola (vv.16-21).

  3. Il racconto della tempesta sedata è la metafora di una Chiesa in cammino in mezzo alle acque agitate della storia, ma che nel contempo preannuncia nel potere di sedare gli elementi avversi della natura (vv.22-26), quello esorcistico (vv.27-39), di guarigione (vv.43-48) e di risuscitazione (vv.40-42.49-56), che seguiranno immediatamente;

  4. La sezione delle guarigioni, formata da tre racconti di guarigioni, in cui si riflette l'attività risanatrice e rigeneratrice della Parola accolta: un caso di esorcismo (vv.27-39); un caso di guarigione (vv.43-48); un caso di risuscitazione (vv.40-42.49-56).

I contenuti di A) + C) si integrano tra loro in quanto descrivono la Chiesa nella sua struttura e nel suo cammino storico. Potremmo definire A) e C) come la sezione storica della Chiesa, che poi proseguirà fino a tutto 9,17; mentre i contenuti di B) + D) riflettono la sua attività di predicazione e di risanamento morale e spirituale dell'uomo attraverso l'annuncio della Parola accolta.


Commento ai vv.1-56


La sezione storica della Chiesa (vv.1-3.22-26)

- La struttura di una Chiesa missionaria (vv.1-3)

- Il racconto della tempesta sedata: una Chiesa in cammino (vv.22-26)

La sezione della Parola (vv.4-21)

- La parabola del Seminatore: la natura dell'annuncio e la sua ricaduta negli ascoltatori (vv.4-15)

- Un'ammonizione agli ascoltatori (vv.16-21)

La sezione dell'attività guaritrice e risanatrice (vv. 27-56)

- Un caso di esorcismo (vv.27-39)

- Un caso di guarigione (vv.43-48)

- Un caso di risuscitazione (vv.40-42.49-56)


La sezione storica della Chiesa (vv.1-3.22-26)


La struttura di una Chiesa missionaria (vv.1-3)


Testo

1 – Ed avvenne in seguito anche (che) egli percorreva attraverso (ogni) città e villaggio predicando e annunciando la buona novella del regno di Dio e i Dodici con lui,
2 – ed alcune donne, che erano state guarite da spiriti malvagi ed infermità, Maria chiamata la Maddalena, dalla quale erano usciti sette demoni,
3 – e Giovanna, moglie di Cusa, sopraintendete di Erode, e Susanna e molte altre, le quali li servivano secondo i loro averi.


Note generali

Con questa breve pericope l'autore completa schematicamente la composizione della Chiesa. Dopo la scelta dei Dodici (6,13-16), Luca dice che Gesù discese dal monte con loro (6,17a) e di fronte ad essi stava “molta folla dei suoi discepoli” frammischiati tra la gente (6,17b). Già qui viene descritta una prima composizione della Chiesa: Gesù è presentato strettamente unito ai Dodici, quasi a fare un tutt'uno con loro. A questi l'evangelista aggiunge i discepoli, quelli che hanno fatto una loro scelta esistenziale a favore di Gesù. Questi sono distinti da Gesù e dai Dodici, benché in qualche modo ne facciano parte, poiché con il discorso delle Beatitudini (6,21-49) Gesù si rivolge esclusivamente a loro (6,20a), fornendo loro una nuova identità, che li qualifica e li distingue tra la gente e dalla gente (Gv 13,35). Ora con 8,1-3 Luca completa questa composizione ecclesiale, presentando nuovamente Gesù e i Dodici assieme tra loro, impegnati in attività missionaria di annuncio della Parola, e strettamente unito a loro un gruppo di donne, certamente discepole di Gesù, ma, a differenza degli altri discepoli frammischiati tra la gente e racchiusi nel loro anonimato (6,17b), queste donne seguono Gesù e i Dodici da vicino, svolgendo a loro favore un servizio di diaconia. Esse, pertanto, sono impegnate, sia pur in termini di supporto e di servizio, nell'attività missionaria e apostolica di annuncio. Viene qui abbozzata per la prima volta la funzione della diaconia, che apparirà più evidente in At 6,2-4 e di cui si troverà traccia in Rm 16,1-2.3-5a, in At 18,26, in Fil 1,1 e in 1Tm 3,11 in cui le donne vengono presentate all'interno di una pericope dove si parla di diaconi e diaconia (1Tm 3,8-13). Luca, quindi, riproduce qui uno schema di Chiesa che era già in atto mentre lui scriveva il suo vangelo, composta da Gesù, una realtà sempre presente anche quando, come vedremo ai vv.22-26, apparentemente assente; a lui sono strettamente associati i Dodici, insigniti del suo stesso potere (9,1-2) e con loro un consistente gruppo di persone, che svolgono attivamente un servizio di diaconia e, infine, la moltitudine dei discepoli, sparsi tra le genti. Una Chiesa che per Luca è marcatamente missionaria e universalmente aperta. Lo si evince in 6,17, dove Gesù scende dal monte con i Dodici e va con loro verso la moltitudine di discepoli e delle genti; qui in 8,1 dove Gesù e i Dodici percorrono città e villaggi predicando e annunciando il Regno di Dio.

Commento ai vv.1-3

La pericope si apre con il consueto “Kaˆ ™gšneto” (Kaì eghéneto, Ed avvenne), caratteristico di Luca, che concepisce la storia della salvezza come un accadere di eventi salvifici, così come la formazione del primo nucleo ecclesiale (Gesù, i Dodici, la diaconia e il discepolato) costituiscono un evento salvifico inserito nel tessuto della storia e che si intreccia con le vicende umane e ne è intimamente parte5. Il v.1 riprende sostanzialmente 4,43-44 in cui Gesù, agli abitanti di Cafarnao che volevano trattenerlo presso di loro, risponde: “Bisogna che io annunci il regno di Dio anche alle altre città, poiché per questo fui mandato”. E conclude l'autore: “E predicava nelle sinagoghe della Giudea ”. Due versetti significativi perché prospettano la missione universale di Gesù, che diventa paradigmatica per quella della Chiesa. Così il v.1 si apre presentando un Gesù che “percorreva attraverso (ogni) città e villaggio predicando e annunciando la buona novella del regno di Dio e i Dodici con lui”, quasi a dire che l'attività di Gesù si accompagna con i Dodici e in essi si riflette: “e i Dodici con lui”. Quel “con lui” non è un semplice complemento di compagnia, ma assume anche un senso di comparazione: come Gesù anche i Dodici con lui o come lui. Questo dice come l'agire dei Dodici è lo stesso di quello di Gesù e come il suo agire si sostanzia in quello dei Dodici. Vi è dunque un profondo connubio che intreccia la vita di Gesù con quella dei Dodici e il loro operare è quello stesso di Gesù.

L'attività di Gesù, paradigmatica per la Chiesa, viene descritta con tre verbi: il primo, posto all'imperfetto indicativo, “percorreva”, dice l'insistente e persistente continuità di questo percorrere, quasi ossessionante, in cui si racchiude il motivo della stessa venuta di Gesù. In 4,43, infatti, è proprio lui, Gesù, in merito al suo peregrinare universale, che dice “per questo fui mandato”. La venuta del Gesù lucano ha, pertanto, una dimensione squisitamente missionaria e universale, come del resto missionario insieme a Paolo fu Luca. Gli altri due verbi che qualificano questo peregrinare missionario di Gesù e dei Dodici con lui è il “predicare” e l' “annunciare” (khrÚsswn, eÙaggelizÒmenoj, kerísson, euanghelizzómenos), due verbi significativi che scandiscono due diversi tempi della chiesa: la prima predicazione, significata dal verbo “kerísso”, annunciava in modo scarno ed essenziale soltanto gli eventi significativi della salvezza, dandone una primitiva interpretazione teologica: la passione, la morte e la risurrezione di Gesù in funzione del perdono dei peccati. Da qui l'appello alla conversione6. Il secondo verbo “euanghelízomai” risente ormai di una predicazione più elaborata e teologicamente più matura, che acquista una dimensione più universalmente missionaria e che richiama più che un semplice annuncio una vera e propria evangelizzazione, cioè una inculturazione del primitivo annuncio della passione, morte e risurrezione di Gesù, e puntava alla conversione e ad abbracciare la fede nel Risorto. Questo secondo tipo di annuncio rassomiglia più ad una sorta di ammaestramento nella Verità, che introduce e rende partecipi del Mistero. Caratteristico di questa seconda tipologia di predicazione è Mt 28,19-20.

Oggetto comune ad entrambe le tipologie di annuncio, predicazione ed evangelizzazione, è il Regno di Dio, cioè il ricostituito potere di Dio in mezzo agli uomini, così come lo fu nei primordi dell'umanità. Con tale annuncio, pertanto, Dio è ritornato in mezzo agli uomini e in Gesù, la via che riconduce al Padre (Gv 14,6), tende loro nuovamente la mano. Un Regno che si contraddistingue per la cacciata di satana e la riaffermazione di Dio: “Se invece io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio” (11,20). I racconti di esorcismo, di guarigioni o di risuscitazioni vanno in questa direzione e raccontano la detronizzazione di satana e la sottrazione dell'uomo al suo potere, di cui il peccato, la sofferenza, il dolore e la morte sono le forme più incisive ed evidenti. La venuta di Gesù, che con la sua morte ha posto fine al vecchio Adamo (Rm 6,6) e con la risurrezione ne ha ricreato uno completamente nuovo, dando inizio ad una nuova umanità secondo lo Spirito (1Cor 15,22.45), ha decretato la fine del potere di satana sul mondo: “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31). Un principe che non ha alcun potere su Gesù (Gv 14,30) e su cui è stato posto un giudizio definitivo (Gv 16,11).

Il v.1, dopo aver presentato l'attività missionaria di Gesù, che percorreva città e villaggi, predicando ed annunciando il Regno di Dio, conclude significativamente precisando: “e i Dodici con lui”. Una conclusione che viene introdotta dalla congiunzione “kaˆ” (kaì, e), che la lega alla precedente attività missionaria di Gesù, quasi a dire che l'attività di Gesù viene trasferita e continuata nei Dodici, mentre quel “con lui” lascia intravvedere come nei Dodici continui in realtà ad operare Gesù.

Definito il nucleo fondativo e fondamentale della Chiesa, Gesù con i Dodici, Luca dedica ora una particolare attenzione, tutta sua, al gruppo delle donne, che seguivano attivamente Gesù fin dall'inizio della sua attività apostolica (23,49.55a). Oltre a quanto ci segnala Luca non si può andare. Troppo scarne ed incidentali le notizie. Nelle sue informazioni l'autore evidenzia due gruppi di donne: quelle nominate, alle quali ha voluto riservare una particolare menzione, togliendole dall'anonimato in cui, invece, ha relegato le altre. Il motivo probabilmente va ricercato nella loro particolare dedizione a Gesù e alla chiesa nascente. Queste fungevano da supporto logistico e da sostentamento materiale del gruppo, sfruttando la loro posizione sociale e i beni di cui godevano, come sembra ricordare Luca, citando Giovanna, moglie di Cusa, sovraintendente di Erode, e i beni posseduti da queste donne. Questo consentiva loro di fornire a Gesù e ai suoi non solo un sostentamento materiale, ma probabilmente anche una certa protezione sociale. I nomi che qui Luca riporta sono quelli della tradizionale Maria di Magdala, citata dodici volte nei vangeli; Giovanna, moglie di un funzionario di Erode, un tale Cusa; il suo nome verrà nuovamente ricordato in Lc 24,10a. Ed infine una Susanna, di cui, al di là del nome, nulla più conosciamo. Vi è poi un secondo gruppo di donne, che Luca anonimamente definisce con “molte altre”. Questo breve inciso diventa importante per comprendere la posizione della donna nei confronti di Gesù. Erano donne che seguivano Gesù e lo assistevano quotidianamente e che probabilmente ritroviamo anche sulla via dolorosa verso il Calvario (23,27). A differenza dei rabbi suoi contemporanei, Gesù non disdegnava tale seguito, ma per la loro posizione attiva di servizio nei suoi confronti e nei confronti dei suoi le aveva bene accolte e integrate nel gruppo dei suoi fedeli seguaci. Queste sono una sorta di presenza costante ed attiva nell'itinerare di Gesù7. Una posizione che di fatto riflette quella della chiesa nascente, dove vi sono donne che assumono responsabilità all'interno delle comunità (Rm 16,1) o sono dirette collaboratrici di Paolo (Rm 16,3-4) o ammaestrano uomini di rilievo come Apollo, un Giudeo colto e versato nelle Scritture (At 18,24-26). Certo, non sono che piccole tracce che si possono cogliere qua e là nelle Scritture neotestamentarie, ma sufficienti per intuire come la donna all'interno della chiesa nascente avesse dei suoi spazi. Una testimonianza autorevole e significativa in tal senso ci viene comunque dallo stesso concilio di Calcedonia8 (451 d.C.), che al canone XV circa le diaconesse, recita testualmente: “Non si ordini diacono una donna prima dei quarant'anni, e non senza diligente esame. Se per caso dopo avere ricevuto l'imposizione delle mani ed avere vissuto per un certo tempo nel ministero, osasse contrarre matrimonio, disprezzando con ciò la grazia di Dio, sia anatema insieme a colui che si è unito a lei”. Qui si parla di ordinazione, di imposizione delle mani e quindi di consacrazione di queste donne, che, dopo aver superato un apposito esame, dovevano avere un ruolo ufficiale e rappresentativo all'interno della Chiesa. Un ruolo che trova la sua giustificazione negli stessi vangeli e nella prassi della chiesa primitiva.


Il racconto della tempesta sedata: una Chiesa in cammino (vv.22-26)

Testo

22 – Ora accadde in uno dei giorni, ed egli salì su di una barca e i suoi discepoli (con lui) e disse verso di loro: <<Passiamo al di là del lago>>. E presero il largo.
23 – Ora, mentre essi navigavano, (Gesù) si addormentò. E venne giù una bufera di vento sul lago e si riempivano (d'acqua) e erano in pericolo.
24 – Ora, avvicinatisi, lo svegliarono dicendo: <<Maestro, maestro, siamo perduti>>. Egli, svegliatosi, rimproverò il vento e l'agitazione dell'acqua; e si quietarono e divenne bonaccia.
25 – Ora,disse loro: <<Dov' (è) la vostra fede?>>. Ma impauriti, si meravigliarono dicendo gli uni gli altri: <<Chi è dunque costui, poiché comanda ai venti e all'acqua e gli obbediscono?>>.
26 – E approdarono nella regione dei Geraseni, la quale è di fronte alla Galilea.


Note generali

Benché il racconto della tempesta sedata venga posto da Luca successivamente alla parabola del Seminatore (vv.4-15) e subito dopo le considerazioni sulla Parola (vv.16-21), ho preferito accostarlo alla pericope vv.1-3, poiché assieme a questa forma un unico ampio discorso ecclesiologico, che ha avuto inizio con i capp.5-6 e si protrae a tutto questo cap.8 e fino a 9,179. Si tratta di un racconto che all'interno del cap.8 assume una triplice valenza: a) da un lato funge da passaggio tra le due sezioni del cap.8, da quella della Parola (vv.4-21) a quella dell'attività guaritrice e liberatrice (vv.27-56), due tipologie di attività che prospettano quelle della Chiesa, chiamata ad annunciare la Parola e a liberare l'uomo dalla schiavitù del peccato, reintroducendolo nella dimensione di Dio, da cui era drammaticamente uscito (Gen 3,16-24); b) dall'altro, prefigura il cammino della Chiesa in mezzo ai travagli della storia, in cui viene sottolineata sia la presenza-assenza di Gesù che la drammatica preoccupazione dei discepoli, ora soli, alla guida della barca, sballottata da acque tempestose che la stanno per travolgere; c) ed infine, in qualche modo, preannuncia il passaggio di consegne da Gesù ai Dodici (9,1-6.13.16).

Il racconto è incluso dai vv.22.26. Nel v.22 Gesù e i suoi discepoli s'imbarcano per raggiungere la riva opposta del lago; con il v.26 vi è l'approdo. All'interno di questi due versetti è racchiuso il dramma dei discepoli insieme ad un Gesù addormentato nel bel mezzo di una tempesta. Di fatto i discepoli sono soli e il rapporto con Gesù è fondato sulla fede. La questione finale, infatti, che Luca pone è “Dov'è la vostra fede?”, mentre la persona di Gesù qui non è più colta dai discepoli come “didádskalos”, che mette in rilievo il rapporto di discepolato, ma come “epistáta”, che letteralmente significa “colui che sta sopra”. Non si tratta più, quindi, di un semplice maestro che insegna ai suoi discepoli, ma un vero e proprio conduttore, una vera e propria guida, uno che ha potere e che conduce i suoi seguaci10. Il racconto proietta, quindi, il lettore in un tempo postpasquale, dove la presenza di Gesù si può cogliere soltanto attraverso la fede, l'unica ora in grado di risvegliarne la potenza.

Lo sfondo biblico su cui si muove il racconto è quello della creazione primordiale allorché “[...] le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque” (Gen 1,2). Tenebre, abisso, acque primordiali incontrollate e incontrollabili che creano e hanno sempre suscitato nella mente dell'uomo una paura ancestrale per ciò che sta sotto la superficie delle acque, come tenebroso luogo di dimora di mostri marini (Is 27,1)11, che dal nulla emergono, distruggono e divorano all'improvviso e inaspettatamente la vita. Su questo caos primordiale aleggia sovrano lo Spirito di Dio, che proprio per la potenza del suo atto creativo trae la creazione come atto di riordinamento e di assegnazione di senso a ciò che prima non ne aveva, avvolgendo il tutto in una luce divina (Gen 1,3).

Commento ai vv.22-26

Il racconto si apre, come è consuetudine in Luca, con il verbo “eghéneto”, che scandisce l'accadere degli eventi della storia della salvezza. E l'evento che qui viene annunciato è il cogliere un aspetto essenziale della vita della Chiesa nel tempo postpasquale: la presenza-assenza di Gesù in una Chiesa condotta dai discepoli in mezzo alle acque tumultuose della storia e come in tutto ciò la fede giochi un ruolo primario, senza la quale l'apparente assenza di Gesù non potrebbe essere risvegliata e resa attuale attraverso la potenza della sua Parola.

Il v.1 si apre con una nota temporale: “in uno dei giorni”. L'episodio, pertanto, non è collocato in un'epoca precisa, né viene delimitato con accuratezza in un determinato tempo inequivocabile. Tutto, al contrario, si muove nella vaghezza e nell'imprecisione, che non deve far pensare alla negligenza dell'autore, ma questa indeterminatezza è voluta, poiché in tal modo il racconto non è legato ad un periodo storico preciso, quasi fosse un episodio di cronaca realmente accaduto, ma gli attribuisce una universalità temporale, per cui il contenuto di tale racconto è valido per ogni epoca. Ciò che accade qui è ciò che accade e sempre accadrà alla Chiesa di ogni tempo, lungo il cammino dei secoli. Il luogo dell'evento, benché non precisato, lascia intendere chiaramente che ci si trova sulle sponde del lago di Genesaret, considerato che si sale su di una barca con il comando di Gesù di attraversare il lago, benché, come vedremo, il luogo di approdo lasci geograficamente alquanto a desiderare.

Gesù con i suoi sale sulla barca. Già lo si è accennato come la barca, termine che compare 45 volte nei racconti evangelici, sia la metafora della chiesa. È significativo, infatti, come il termine in Luca compaia otto volte e soltanto in quei capitoli, 5 e 8, che si muovono su di uno sfondo ecclesiologico. Su questa barca salgono “Gesù e i suoi discepoli con lui”. Vi è quindi un muoversi parallelo e sincronico tra Gesù e i suoi, che evidenzia il profondo legame, quasi una sorta di identificazione simbiotica, tra loro. Dove c'è Gesù lì ci sono i suoi; e dove ci sono i suoi lì c'è Gesù. È questo un passaggio importante perché in Mc 4,35, che Luca sta seguendo, non viene rilevato il particolare di Gesù che sale in barca e i discepoli con lui. Questa è un'aggiunta tutta lucana. Mt 8,23, invece, predilige evidenziare la sequela dei discepoli, per cui compare nel suo racconto un Gesù che sale in barca e “i suoi discepoli lo seguirono”. Per Luca, invece, c'è Gesù “e i suoi discepoli con lui”, privilegiando più che la sequela, la simbiosi tra Gesù e i suoi, dando in tal modo autorevolezza agli apostoli e a quei discepoli che erano impegnati attivamente nella vita della comunità: essi operano in nome e per conto di Gesù e, come si preciserà in 9,1-2, sono rivestiti del suo potere. I discepoli di cui Luca qui parla sono evidentemente i Dodici, poiché una barca di pescatori non poteva ospitare decine o centinaia di persone. È dal momento in cui questi sono stati designati sul monte da Gesù (6,12-13), che compaiono sempre affiancati a lui12.

Ed ecco il comando di Gesù: “<<Passiamo al di là del lago>>” e l'autore commenta “E presero il largo”. Un comando marinaro apparentemente, ma che lascia intravvedere in realtà un comando missionario, che richiama da vicino quello del Gesù matteano: “E Gesù, avvicinatosi, disse loro: <<Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo>>” (Mt 28,18-20). Ci si trova, in questo contesto matteano, di fronte al Risorto, presentato come un Gesù plenipotenziario, molto simile al Gesù lucano, che qui viene invocato dai suoi come “epistáta”, più che un semplice maestro, un capo supremo, una guida, uno che sta sopra agli altri con autorità e autorevolezza. E come il Gesù matteano impartisce il comando ai suoi di andare per il mondo ad ammaestrare le genti e battezzandole, aprendo l'epoca apostolica e missionaria, così quello lucano qui impartisce ai suoi il comando di salpare e di prendere il largo e attraversare le acque della storia, che si riveleranno ben presto turbolenti e tempestose. E mentre il Gesù matteano assicura la sua presenza in mezzo ai suoi, così quello lucano è presentato nella barca con i suoi.

Il v.23 si apre presentando la barca con Gesù e i suoi “mentre essi navigavano”. L'uso qui dell'imperfetto dice il persistere di un'azione continuativa nel presente, ma che ha avuto inizio nel passato. La Chiesa ha pertanto preso il largo e si trova in cammino lungo i secoli, ma è proprio durante questo cammino che Gesù si addormenta; in qualche modo un'allusione alla sua morte e risurrezione, che di fatto lo tolgono visibilmente e fisicamente ai suoi. Un sonno che lo estranea dai suoi e li lascia da soli. Certo lui è lì, ma adesso sono i suoi che sono chiamati a guidare la barca, ne sono loro i diretti responsabili e tutto dipende da loro. Gesù, dunque, è presente, ma è nel contempo assente. Ed è proprio in questo cammino, in cui Gesù è presente-assente, che si abbatte su di loro una tempesta: “E venne giù una bufera di vento sul lago e si riempivano (d'acqua) e erano in pericolo”. Vento ed acqua che si abbattono sulla barca sono i due elementi che qui formano la tempesta. Se questi due elementi naturali rendono verosimile l'immagine di una travolgente bufera e danno l'idea del dramma in cui si sta dibattendo la barca e i suoi occupanti, dall'altro essi fungono da metafora universale delle persecuzioni a cui la chiesa e i credenti sono sottoposti a motivo della loro fede e della loro testimonianza. Due elementi che sono tra loro concatenati: il vento solleva l'acqua del lago, che sconquassa, travolge e invade la barca non lasciandole speranza. Sovente nella Bibbia il vento è visto come una forza distruttrice e che mette a dura prova la condizione dell'uomo; sovente esso diviene la metafora dell'azione devastatrice di Dio contro i nemici13. Il vento qui, pertanto, può essere ravvisato come la metafora della potenza e della durezza della prova; mentre l'acqua che si abbatte sulla barca dice la natura di questa prova: la persecuzione14.

Il v.24 racchiude l'invocazione disperata dei discepoli e, nel contempo, la soluzione al loro problema. Lo sfondo su cui poggia la costruzione di questo versetto è biblico: l'invocazione ricalca da vicino i Sal 31,6; 68,2 e 143,7; così l'acquietamento del vento e delle acque hanno il loro stretto riferimento ai Sal 28,18; 106,29 e 148,8. Mentre l'episodio della barca travolta dal vento e dalle acque richiama da vicino l'episodio di Giona 1,4: “Ma il Signore scatenò sul mare un forte vento e ne venne in mare una tempesta tale che la nave stava per sfasciarsi”. Gesù, qui, non è più visto come un semplice “didádskalos”, cioè un maestro che insegna, ma come un “epistáta”, un maestro qui colto come guida sicura ed esprime autorità, potere e autorevolezza. Un titolo quello di “epistáta”, anziché di “didádskalos” che colloca l'episodio in epoca postpasquale, dove l'insegnamento diretto di Gesù ormai non c'è più, ma è rimasta la sua autorevole presenza nel ricordo, nelle celebrazioni cultuali e nell'annuncio della sua parola. È proprio in questo contesto che viene posto a confronto il Gesù che dorme e, quindi, in qualche modo assente dal travaglio dei discepoli, che si sentono soli a far fronte alle traversie in cui è posta la barca, con il Gesù risvegliato dall'invocazione, che nuovamente si rende visibile e attivamente presente in mezzo ai suoi. Il rimprovero che ne segue immediatamente, “Dov'è la vostra fede?” (v.25a), non nasce dal fatto che essi siano ricorsi al loro maestro, quale punto fermo della loro salvezza, ma siano giunti a lui sospinti dalla disperazione e non dalla fede in lui: “siamo perduti”. L'atteggiamento di sfiducia, in fondo, nei confronti di Gesù, appare più evidente in Mc 4,38c: “Maestro, non t'importa che moriamo?”. Un duro rimprovero con cui i discepoli marciani aggrediscono il loro maestro, accusandolo quasi di averli abbandonati al loro destino e di disinteressarsi di loro.

Il v.25b chiude il racconto della tempesta con la reazione dei discepoli impauriti e pieni di stupore per quello che è successo. Tale reazione rientra nel normale standard dello schema narrativo delle teofanie: all'irrompere del divino nella storia l'uomo reagisce con sentimenti di paura, timore, meraviglia, stupore, sconcerto. Una reazione che fa sorgere in loro l'interrogativo: “Chi è dunque costui, poiché comanda ai venti e all'acqua e gli obbediscono?”.

La conclusione, qui riportata da Luca e mutuata da Mc 4,41, si evidenzia come una forzatura. I discepoli infatti stupiscono di fronte all'autorità e all'onnipotenza di Gesù e si interrogano su di lui, chi mai fosse quest'uomo, come non l'avessero mai visto prima. In realtà la fama di Gesù riecheggiava ormai ovunque15; già avevano assistito a miracoli che avevano dello strabiliante come la pesca miracolosa (5,4-11), la guarigione di un lebbroso (5,12-16), quella di un paralitico (5,17-26), la guarigione di un uomo dalla mano rattrappita (6,6-11), quella del servo del centurione (7,1-10) e la risuscitazione del figlio della vedova di Nain (7,11-17) a cui si aggiungono moltissime altre guarigioni citate sommariamente (4,40). Chi, dunque fosse quest'uomo, che loro avevano deciso di seguire (5,11.28) e che li aveva scelti come suoi intimi, non doveva essere per loro completamente sconosciuto, poiché avevano assistito ad eventi molto più eclatanti del quietare gli eventi atmosferici. Questa evidente incongruenza trova una duplice spiegazione: da un lato, Luca, che ha ripreso a seguire Marco da 8,4 ha riportato, pari pari, il testo di Mc 4,41 senza accorgersi della forzatura. Il contesto marciano infatti è molto diverso da quello che Luca ha creato. In Marco l'episodio del la tempesta sedata avviene di fronte a molta gente, che lo aveva seguito con le loro barche (4,36b) e quindi la conclusione marciana è congruente con il suo contesto; mentre in Luca compare solo Gesù con i suoi e quindi l'applicazione della conclusione marciana al racconto lucano diviene incongruente. Dall'altro, è possibile che Luca abbia comunque voluto riportare Mc 4,41 per mettere in evidenza al suo lettore la natura divina dell'uomo Gesù e la sua speciale relazione con Dio, da cui traeva il potere. Tale fine, probabilmente, gli ha fatto accettare anche questa forzatura, facendo prevalere l'aspetto teologico e cristologico su quello narrativo.

Il v.26 è un versetto di transizione perché da un lato chiude il racconto della tempesta sedata, dall'altro introduce al racconto dell'indemoniato di Gerasa. Il cambio geografico, dalle sponde del lago della parte di Cafarnao alla regione dei Geraseni, dice che qui non solo si gira pagina, ma si entra in una nuova sezione, quella dei miracoli.


Sezione della Parola (vv.4-21)


Testo a lettura facilitata

Il contesto (v.4)

4 – Ora, radunandosi molta folla e venendo altri da (ogni) città da lui, disse con una parabola:

Le diverse tipologie di terreni (vv.5-8)

5 - <<Uscì il seminatore a seminare il suo seme. E nel seminarlo, questo cadde presso la strada e fu calpestato, e gli uccelli del cielo lo divorarono.
6 – Dell'altro cadde sulla pietra, e, cresciuto, fu seccato per non avere umidità.
7 – Dell'altro cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute assieme, lo soffocarono.
8 – Dell'altro cadde sulla terra buona e, cresciuto, fece frutto cento volte tanto>>. Dicendo queste cose, gridava: <<Chi ha orecchi per udire, oda.>>.

Intermezzo introduttivo alla spiegazione della parabola (vv.9-10)

9 – Ora, lo interrogavano i suoi discepoli quale parabola fosse questa.
10 – Egli disse: << A voi è dato di conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri in parabole, affinché vedendo non vedano e udendo non comprendano.

La spiegazione della parabola (vv.11-15)

11 – Ora, questa è la parabola: il seme è la parola di Dio.
12 – Quelli che sono presso la strada sono quelli che ascoltarono; in seguito viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, affinché, avendo creduto, non siano salvati.
13 – Quelli sulla pietra, questi allorché ascoltano accolgono con gioia la parola, e questi non hanno radice; questi credono per un (certo) tempo e nel tempo della prova lasciano.
14 – Quello caduto nelle spine, questi sono quelli che hanno ascoltato, e, andando, vengono soffocati da affanni e ricchezza e piaceri della vita e non portano frutti.
15 – Quello nella buona terra, questi sono quelli che, avendo ascoltato, trattengono con persistenza la parola in un cuore virtuoso e buono e portano frutto.>>.

I credenti nel loro rapporto con la Parola (vv.16-18)

16 – <<Ora, nessuno, accesa una lucerna, la copre con un vaso o pone sotto (il) letto, ma (la) pone sul lucerniere, affinché quelli che entrano vedano la luce.
17 – Infatti non vi è cosa nascosta che non sarà manifesta, né cosa occulta che non sia conosciuta e venga palese.
18 – Guardate, pertanto, come ascoltate: chi, infatti, ha, sarà dato a lui; e chi non ha, sarà tolto da lui anche ciò che crede di avere.>>.

La nuova parentela di Gesù (vv.19-21)

19 – Venne da lui la madre e i suoi fratelli e non poterono incontralo a causa della folla.
20 – Ora gli si fece sapere: <<La tua madre e i tuoi fratelli, che vogliono vederti, stanno fuori>>.
21- Rispondendo disse verso di loro: <<Mia madre e i miei fratelli sono questi, che ascoltano la parola di Dio e (la) praticano>>.

Note generali sulla sezione della Parola

Questa sezione (vv.4-21) è dedicata interamente alla parola, colta da diverse angolature:

  1. dapprima ne viene evidenziata l'universalità: il seminatore, infatti, non sceglie accuratamente i terreni, ma getta la semente ovunque. Si tratta, dunque, di una Parola destinata a tutti. Una universalità che viene prospettata fin dall'inizio del racconto, dove ad ascoltare non vi è soltanto la folla lì presente, ma anche altri che accorrono da ogni città (v.4)

  2. vengono delineate diverse tipologie di terreni, sui quali la Parola cade in modo uniforme per tutti, ma diversi sono gli sviluppi (vv.5-8.11-15);

  3. i misteri del Regno racchiusi nella Parola, tuttavia, sono raggiungibili solo dai discepoli, cioè da coloro che hanno fatto una loro scelta esistenziale a favore di Gesù, che in questa Parola li ha raggiunti e da questi è stata accolta e in loro ha portato il suo frutto (vv.9-10).

  4. Viene analizzata la Parola nelle sue diverse prospettive (vv.16-21): essa deve sempre risplendere all'interno della comunità credente, così che chi vi entra ne sia sempre illuminato (v.16); una Parola che tuttavia non deve essere criptata all'interno della comunità, ma la cui luce deve risplendere a tutti, poiché essa ha una sua irrinunciabile dimensione universale (v.17); una Parola che va gelosamente custodita e accresciuta nella propria vita, che sulla Parola deve essere conformata, diversamente essa si perderà; mentre continuerà ad arricchire chi ne ha fatto il centro della propria vita (v.18).

  5. Ed infine viene presentata una Parola capace di generare un nuovo rapporto di parentela con Gesù, basato non più sulla carnalità e sul sangue, ma sull'ascolto (vv.19-21).


La parabola del Seminatore (vv.4-15)


Note generali


È questa l'unica parabola, assieme a quella della zizzania (Mt 13,25-30.36-43), che viene accompagnata dalla sua esegesi, offerta direttamente da Gesù e sulla quale c'è ben poco da dire o da capire, tanto essa è nitida nel suo significato, che diventa perfino imbarazzante commentarla. Queste occupano due terzi dell'intera sezione e già questo dice l'importanza che Luca le attribuisce. È una parabola che presenta la Parola quale strumento di annuncio del Regno e le diverse ricadute che questa può avere sugli ascoltatori, simboleggiati da quattro diverse tipologie di terreni. L'attenzione qui cade non sul seminatore, completamente ignorato nell'esegesi della parabola, ma sulla parola. Un seminatore che spesso viene identificato con Gesù, ma in realtà esso va identificato con il predicatore itinerante e con tutti quelli che, in vario modo e secondo le proprie capacità e condizioni di vita, sono chiamati a diffondere il lieto annuncio del Regno. Lo sfondo, quindi, su cui è collocata questa parabola, è squisitamente missionario, ed è lasciato trasparire fin dall'introduzione, entro cui la parabola è stata inquadrata: vi è numerosa folla lì presente e molti altri accorrono da ogni città (v.4), dando in tal modo all'annuncio una prospettiva universale. La semente, poi, non cade su terreni preselezionati e appositamente trattati, ma cade ovunque in egual modo, benché gli effetti della Parola siano poi condizionati dalla natura stessa dei terreni. Il racconto parabolico, pertanto, costituisce una sorta di avvertimento che l'evangelista, egli stesso missionario assieme a Paolo, lancia a quanti sono chiamati ad annunciare, probabilmente memore dei suoi successi e dei suoi fallimenti. I terreni su cui si semina la Parola sono difficili, ambigui, pieni di insidie e pochi sono quelli veramente disponibili ad accogliere tale semente. Il lavoro del missionario è, quindi, arduo e non sempre appagante e coloro che hanno intrapreso tale strada sono chiamati a tenerne conto.

La parabola del seminatore e la sua spiegazione sono parimenti riportate da tutti i Sinottici16, ma mentre Mt 13,1-9 è molto vicina a Mc 4,1-9, quasi la ricalca, Luca la rielabora profondamente dandole una sua personale prospettiva, molto probabilmente legata alla sua esperienza di missionario. Il racconto lucano si presenta, rispetto agli altri due sinottici, essenziale e va direttamente al cuore della questione senza disperdersi in giri di parole. La narrazione lucana, pertanto, perde in qualche modo il gusto del raccontare, ma diventa molto più nitida, più scorrevole ed incisiva. L'intero racconto lucano della parabola del Seminatore e della sua esegesi è, infatti, racchiuso in soli 12 versetti (vv.4-15), contro i 23 di Matteo (Mt 13,1-23) e i 20 di Marco (Mc 4,1-20). Questo stile essenziale e diretto doveva rispecchiare in qualche modo il linguaggio scarno ed essenziale del predicatore, che con la sua parola doveva rendersi immediatamente raggiungibile dai suoi ascoltatori e penetrare in profondità nei loro cuori e nelle loro menti, togliendo ogni giro di parole che li potesse distrarre dal messaggio. Il missionario, infatti, non era un imbonitore, che cercava di ammaliare con giri di parole il suo ascoltatore, ma un banditore che doveva trasmettere un messaggio non suo. Il verbo caratteristico del primo annuncio, che si riscontra egualmente distribuito nei vangeli17, infatti, è “khrÚssw” (kerísso), che significa bandire, gridare, proclamare come un araldo, notificare, far sapere con pubblico bando, assumendo, poi, nel NT il significato di predicare, annunciare, che rispecchiavano le caratteristiche proprie del bandire. È significativo, infatti, come Luca, dopo i racconti dell'infanzia (1-2), inizi il suo racconto evangelico presentando la predicazione di Giovanni con il verbo “khrÚssw” (3,3); così similmente, all'inizio dell'attività missionaria di Gesù, proclamata nella sinagoga di Nazareth con la citazione del testo di Is 61,1-2, ricompare lo stesso verbo. Ed è ancor più significativo come questo cap.8 si apra presentando un Gesù che “percorreva attraverso (ogni) città e villaggio predicando e annunciando la buona novella del regno di Dio e i Dodici con lui”. Qui compaiono entrambi i verbi “khrÚssw” e “eÙaggelzomai” (euanghelízomai), predicare ed evangelizzare, che, come si è detto sopra (pag.5), scandiscono due diversi tempi della chiesa: il primo annuncio, scarno ed essenziale, seguito, poi, dall'evangelizzazione, che consisteva in un approfondimento teologico e cristologico del primo annuncio, una sorta di sua inculturazione, molto più vicina ad una catechesi. Luca, in quanto missionario più che pastore, è dedito al primo annuncio, per questo anche il suo narrare, per quanto piacevole e molto scorrevole, si presenta essenziale. Rientra nel suo stile di predicatore itinerante.

Commento ai vv. 4-8

Benché il v.4 crei un netto stacco narrativo dalla precedente pericope (vv.1-3), posta a conclusione del grande discorso ecclesiologico sulla nascita, formazione e sulla costituzione del primo gruppo ecclesiale, formato da Gesù, i Dodici, la diaconia delle donne, attorno al quale si consolidano le folle dei discepoli, dando così origine alla Chiesa18, tuttavia esso crea nel contempo una continuità con tale discorso ecclesiologico, delineando ora l'attività della Chiesa, racchiusa nelle due grandi sezioni della Parola (vv.4-21) e delle guarigioni (vv.27-56) e prospettando la continuità di Gesù nei Dodici, nella diaconia e nel discepolato (vv.8,22-26; 9,1-17). Il cap.8, infatti, si apre presentando un Gesù che “percorreva attraverso (ogni) città e villaggio predicando e annunciando la buona novella del regno di Dio e i Dodici con lui”, mentre il v.4 lo completa annunciando che molta folla ed altri, che provenivano da ogni città, si accalcavano attorno a Gesù e ai Dodici per ascoltare la sua parola. Uno scenario che riproduce in qualche modo quello delle beatitudini, dove Gesù e i Dodici con lui si trovavano di fronte a numerose folle di discepoli e di popolo (6,17).

Il contesto presentato dal v.4 funge da cornice introduttiva alla sezione della Parola. Un contesto completamente diverso dagli altri due Sinottici, in cui Gesù si trova in riva al lago, assediato da folle di persone, giunte per ascoltare la sua parola, così che egli è costretto a salire sulla barca, lasciando le folle sulla terraferma. In tal modo si viene a creare uno stacco tra Gesù e la gente accorsa ad ascoltarlo, preannunciando in qualche modo il senso del suo predicare in parabole, che verrà precisato nell'intermezzo tra la parabola e la sua esegesi19. Proprio per evitare questo stacco tra Gesù e la gente, contrario alla logica missionaria di Luca, che tende invece ad includere tutti senza esclusione di nessuno, preannunciando in tal modo la dimensione universale dell'annuncio, Luca tralascia la scena di Gesù che sale in barca per predicare, lasciando la gente a riva. Ne esce una introduzione narrativamente più snella ed efficace, indicando in quel accorrere della gente da ogni città e villaggio l'universalità di un annuncio, che si muove su di uno sfondo missionario.

La pericope vv.5-8, mutuata da Marco, viene profondamente rimaneggiata da Luca, diversamente da Matteo che la riporta quasi pedissequamente: solo quattro versetti per Luca, sette per Matteo e Marco. Una diversità che si rileva fin dal primo versetto della parabola: “Uscì il seminatore a seminare il suo seme”. Contrariamente agli altri due Sinottici, che si limitano a dire che il seminatore uscì a seminare, Luca aggiunge “il suo seme”. Il seme, pertanto, con quel “suo”, viene strettamente legato al seminatore, che ne diventa l'origine da cui fuoriesce. Non si tratta, dunque, di un seme qualsiasi, ma del “suo seme”. Questa semplice aggiunta, che identifica il seme con il seminatore, rendendolo in tal modo esclusivo, lascia intendere, in qualche modo, che tra le comunità credenti girassero semi diversi, che non appartenevano al Seminatore originario, Gesù e i Dodici, ma ad altri. Luca, missionario assieme a Paolo, deve aver vissuto con lui queste esperienze di seminatori estranei alla cerchia; seminatori che con il loro diverso seme creavano confusione e divisioni all'interno delle comunità credenti, vanificando il lavoro dei veri Apostoli. Tracce di questi sedicenti seminatori si riscontrano nelle stesse lettere di Paolo20.

Il v.5, parimenti a Marco e Matteo, inizi con il seminatore che “esce per seminare”, un'espressione questa che nel contesto lucano acquisisce un significato missionario. L' uscire del seminatore dice l'azione del predicatore che esce dalla comunità credente e va verso le genti a seminare. Ed è proprio in questo suo uscire per gettare la sua semente che questa cade in diverse tipologie di terreni. È significativo come Luca non precisi quanta semente viene gettata sulla strada o sul terreno pietroso o infestato dalle spine o sulla terra buona. Nella realtà della semina, la semente che cade fuori dal terreno buono è minima e il suo cadervi è puramente accidentale, poiché il seminatore pone attenzione a dove getta il suo prezioso seme. Ma non è così con il seminatore lucano che sembra quasi indifferente al terreno, accentrando, invece, la sua attenzione non tanto sulla qualità del terreno, quanto sul “gettare il seme”. È questa la primaria preoccupazione del seminatore della parabola: il suo seme deve essere gettato su ogni terreno, poiché ogni terreno deve essere inseminato. È questa la preoccupazione primaria del predicatore itinerante.

La diversa tipologia dei terreni, che vengono inseminati, costituiscono un avvertimento che Luca, quasi certamente ripensando alla sua dura esperienza missionaria di predicatore itinerante assieme a Paolo, lancia ai predicatori: soltanto un quarto dell'intero cade sul terreno buono. In realtà tutti i terreni inseminati accolgono la semente, ma non tutti, per diversi motivi sanno farla fruttificare. Il primo terreno, la strada, riceve il seme, ma questo viene disperso non solo perché gli uccelli lo mangiano, ma, e questa è un'aggiunta tutta lucana, perché viene calpestata, indicando in ciò tutta l'insensibilità, la noncuranza se non il disprezzo per questo seme. Il secondo terreno è quello pietroso, a cui Matteo e Marco dedicano una particolare attenzione descrivendo dettagliatamente il processo di inaridimento di un seme inizialmente accolto e fatto fruttificare, ma successivamente inaridito dal sole. Luca sostituisce la dettagliata descrizione dell'inaridimento semplicemente dicendo che l'incipiente crescita della semente fu stroncata “per non avere umidità”. Non centra niente, dunque, il sole che inaridisce, ma è la mancanza di umidità, di acqua, in ultima analisi, che provoca la morte della pianticella. L'attenzione, quindi, viene spostata dal sole alla mancanza di acqua. Il terreno, dunque, è buono anche se pietroso; il sole con la sua luce e il suo calore può favorire la crescita della pianticella, ma se questa non viene continuamente alimentata dall'acqua è destinata a dissecare. Non il sole, ma la carenza di umidità, dunque, è la causa della morte della pianticella. La descrizione del terzo terreno, ricoperto da rovi, che soffocano la pianticella, è l'unica che viene riportata anche da Luca senza alcuna variazione; mentre in quella del terreno buono viene tolta da Luca la gradualità nella fruttuosità, del trenta, del sessanta e del cento, per sostituirla con l'affermazione, decisamente positiva e ottimistica, “fece frutto cento volte tanto”. Un'espressione per indicare la piena rispondenza. Per Luca, infatti, non sembra ammissibile che il terreno veramente buono risponda in modo mediocre. Se è veramente buono la sua risposta non può che essere piena, il centuplo. E che cosa intenda l'autore per “terreno buono” viene detto chiaramente nell'esegesi: “trattengono con persistenza la parola in un cuore virtuoso e buono e portano frutto”. Qui ci si trova di fronte ad un terreno che è veramente buono e privo di mezze misure. Questo è l'ideale di Luca.

La parabola termina con un grido di Gesù, tutto lucano, che sembra voler rimarcare con forza una sollecitazione all'ascolto: “Chi ha orecchi per udire, oda”. Espressioni simili ricorrono altre sei volte nei Sinottici21 e suonano come un'esortazione ad accentrare la propria attenzione sulle parole appena dette attraverso un ascolto attento e riflessivo, in ultima analisi, accogliente. In un mondo dove la parola scritta non era ancora molto diffusa e la trasmissione orale prevaleva ancora su quella scritta, l'ascolto accogliente della Parola assumeva una rilevante importanza, in particolar modo nel Giudaismo, fondato essenzialmente sulla Parola, da cui trae sussistenza e vita attraverso l'ascolto. Israele è il popolo della Parola e dell'ascolto, al quale Dio stesso richiama sovente il suo popolo: “Ascolta, Israele!”22. Un popolo dove lo “Shemà, Israel” diviene imperativo di vita e fondamento dell'Alleanza.

Intermezzo introduttivo alla spiegazione della parabola (vv.9-10)

Questo intermezzo, molto ampio e articolato in Mt 13,10-17 con precise citazioni di Is 6,9-10 e che suona come una dura condanna del Giudaismo, è molto più contenuto in Mc 4,10-12 con una libera citazione di Is 6,10b, mentre viene liberamente riportato da Luca, che lo mutua da Marco facendo soltanto un breve e sintetico, quasi impercettibile accenno ad Is 6,10b. Un intermezzo che Luca riporta in ossequio a Marco, di cui sta seguendo lo schema narrativo, ma che non sembra interessargli molto a motivo del suo pubblico greco-ellenista, a cui è destinato il suo racconto e che certamente avrebbe qualche problema di comprensione di fronte a questo gioco di parole, che sembra quasi addossare a Dio la colpa dell'inintelligenza di Israele. In realtà Israele si era precluso ogni possibilità di comprensione di Dio e della sua volontà per il suo atteggiamento ostinatamente chiuso e ribelle nei suoi confronti e tale che Dt 32,5 lo definisce come “figli degeneri, generazione tortuosa e perversa”. Ma nonostante ciò Dio insiste con la sua Parola presso un popolo di ribelli23 dalla dura cervice24, inviando loro il profeta Isaia25, ben sapendo che, proprio per la loro pervicace incredulità e chiusura nei suoi confronti, la voce del profeta sarebbe caduta nel vuoto. Gli evangelisti, compreso Gv 12,37-41, se ne sono serviti per stigmatizzare la persistente e resistente incredulità di Israele nei confronti di Gesù e il suo determinato rifiuto. Giovanni, infatti, concluderà l'attività pubblica di Gesù con un'amara constatazione: “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui” (Gv 12,35). Sarà proprio in questo contesto che anch'egli citerà, sia pur liberamente, Is 6,10 (Gv 12,40-41).

Ma se l'incredulità nei confronti di Gesù e il suo conseguente rifiuto costituiscono motivo di inintelligenza della sua parola e, quindi, di incapacità di penetrare il Mistero che in essa viene rivelato, per chi crede, per chi ha fatto la scelta esistenziale di seguire Gesù, per il vero discepolo, per questi le porte del Mistero vengono dischiuse e gli evangelisti offrono qui una chiave di lettura delle parabole, lasciando intendere come queste siano una metafora, che cripta in se stessa realtà superiori, che solo la fede consente di dischiudere e di raggiungere. È significativo, infatti, come il Gesù marciano inizi l'esegesi della parabola del Seminatore con un rimprovero ai suoi discepoli: “Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre parabole?” (Mc 4,13)

La spiegazione della parabola (vv.11-15)


A differenza di Matteo e Marco, che nel preambolo introduttivo della spiegazione della parabola si richiamano al seminatore, Luca entra subito nella sua esegesi tralasciando il richiamo al seminatore e accentrando l'attenzione del suo lettore sulla natura di quel seme egualmente sparso sui diversi terreni. Questi definiscono più che gli atteggiamenti degli ascoltatori, che sono tutti indistintamente accoglienti e disponibili nei confronti della Parola, le diverse situazioni della vita che vengono a crearsi e che mettono a dura prova la validità del loro ascolto accogliente, evidenziando quanto questa Parola abbia saputo realmente cambiare la loro vita e quanto questa si sia lasciata compenetrare e trasformare dalla Parola. Soltanto nell'ultimo terreno l'attenzione viene focalizzata sulla natura dell'ascoltatore, delineando in tal modo il corretto atteggiamento utile per una giusta accoglienza della Parola, affinché questa attecchisca e trasformi la vita del vero ascoltatore.

Con il v.1 Luca entra immediatamente nella questione senza preamboli: la semente è la Parola di Dio. Fin da subito l'autore mette in luce l'attore principale di questa parabola nei confronti del quale ogni terreno è chiamato a misurarsi. È lei la protagonista che interpella ogni terreno e lo vaglia sottoponendolo alla prova della vita. Ed è a tal punto che le risposte si presentano molteplici, ma tutte con un denominatore comune: il fallimento per tre quarti degli ascoltatori provati dalla vita. Soltanto il buon terreno mostra di avere solide attitudini morali e spirituali per poterla fare fruttificare.

Il primo terreno che accoglie la semente è la strada. Sia per Matteo che per Marco la Parola qui caduta non ha alcuna prospettiva neppure di attecchire in qualche modo, poiché satana la porta via immediatamente, non appena seminata. Per Mt 13,19 questo satana è l'incapacità di comprendere la Parola, per cui questa Parola non può in alcun modo sedimentare in quel terreno del tutto incapace di accoglierla perché non la comprende. Per Mc 4,15 la motivazione, considerata la rapidità con cui viene distolta la Parola da costoro, sembra essere la medesima. Soltanto Lc 8,12 distingue due momenti: l'ascolto dalla dispersione della Parola. I due momenti sono distinti tra loro dall'avverbio temporale “eŒta” (eîta, in seguito). L'ascolto dunque è possibile anche per il terreno della strada, ma ciò che lo mina sembra essere qui l'incostanza, l'incapacità di perseverare. Questo è per Luca il diavolo che disperde la Parola caduta sulla strada. Lo si arguisce dalla battuta finale con cui si conclude il v.12: “affinché, dopo aver creduto, non siano salvati”. C'è stato dunque un momento, prima della perdizione finale, in cui la Parola deve aver attecchito nel cuore di questi (“dopo aver creduto”). Ciò che ci sta di mezzo, tra l'aver creduto, dopo aver aderito esistenzialmente alla Parola seminata in loro, e il perdersi è l'incapacità di mantenersi fedeli. I motivi di questa infedeltà, che procura la dispersione della Parola, vengono specificati meglio nei due terreni successivi: il terreno pietroso e le spine.

Il secondo terreno è quello pietroso. Questa seconda tipologia di terreno in Luca diviene una specificazione del primo terreno. Anche qui, infatti, vengono scanditi due tempi: quello dell'accoglienza della Parola e quello dell'abbandono. Un'accoglienza fatta con gioia, entusiasmo, come un qualcosa di nuovo che risuona nell'ascoltatore. Ma, sostiene Luca, questi non hanno radici. Non viene detto il perché non hanno radici. Mc 4,17 attribuisce la mancanza di radici all'incostanza, mentre Mt 13,20-21, come Lc 8,13, non specifica la motivazione di questa mancanza di radici. Probabilmente questa risiede nella superficialità con cui hanno accolta la Parola, non soppesando bene le implicazioni di questa accoglienza. Quel rimarcare di aver accolto inizialmente “con gioia”, probabilmente sottolinea l'aspetto emotivo di questo approccio alla Parola, del tutto inadeguato per farla radicare in profondità nella propria vita. Luca, infatti, parallelamente a Mc 4,17, sottolinea che “questi credono per un (certo) tempo”. Ma sarà la prova a decretare la solidità di questo ascolto accogliente. Con il termine prova Luca sintetizza quanto Mt 13,21 e Mc 4,17 definiscono più chiaramente con “tribolazione e persecuzione”. E mentre Matteo e Marco concludono nel definire la Parola come motivo di scandalo (Mt 13,21) o di abbattimento morale o spirituale (Mc 4,17), Luca in termini più espliciti, ma anche più tristi ed amari, forse ricordando le sue dure esperienze di missionario, dice che questi, sollecitati dalla prova, lasciano, denunciandone la defezione, la quale cosa creerà nella Chiesa del terzo-quarto secolo gravi problemi e conflitti interni, a motivo di questi personaggi definiti “lapsi”.

Il terzo tipo di terreno è quello coperto da spine. Luca qui si accompagna sia con Matteo che con Marco, senza alcuno scostamento significativo. Per tutti tre i Sinottici le spine sono la metafora delle ansie, delle preoccupazioni, degli impegni e degli interessi mondani, come le ricchezze o la loro ricerca, che distolgono l'attenzione del credente dalla Parola, mettendola in second'ordine se non trascurandola completamente. Sia Mt 6,24 che Lc 16,13 ricorderanno questa incompatibilità tra il denaro e Dio, riportando il comune detto di fonte Q: “Nessun servo può servire a due padroni; infatti, o disprezzerà l'uno e amerà l'altro; o si attaccherà ad uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona”. Questo pone il credente di fronte ad una scelta radicale, poiché non vi sono vie di mezzo. Del resto egli aveva già preavvertito i discepoli con quel “Guai” che andava a colpire quelli che erano sazi, ricchi e pienamente soddisfatti se stessi (6,24-26). Condizioni di vita certamente agevoli e per se stesse non negative, ma quando queste si pongono al centro dei propri interessi e della propria vita non c'è più spazio per Dio. Da qui l'ammonizione, anche questa di fonte Q, riportata sia da Mt 6,31-33 che Lc 12,29-31: “E voi non cercate che cosa mangiate e che cosa beviate e non siate inquieti. Queste cose, infatti, cercano i gentili del mondo, ma il Padre vostro sa che abbisognate di queste cose. Tuttavia, cercate il suo regno e queste cose vi saranno aggiunte”. Anteporre, quindi, negli interessi della propria vita Dio e le sue esigenze piuttosto che i nostri effimeri interessi. La vita va spesa per ciò che vale e che poi rimane, premiandone le fatiche. In questo contesto Mt 6,20 sollecita i suoi a guardare in alto: “Accumulate, invece, per voi tesori in cielo dove né il tarlo né la ruggine distruggono e dove i ladri non rovinano né rubano”. Similmente Col 3,1-2 ammonirà: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra”. Diversamente la Parola, benché accolta, non sarà in grado di fruttificare, modificando la nostra vita, orientandola verso Dio.

Il quarto ed ultimo terreno è quello buono. Chi è per i Sinottici il terreno buono? Per Mt 13,23 è colui che ascolta e comprende la Parola. Per il primo evangelista è importante la comprensione della Parola, poiché è proprio la sua inintelligenza da parte dell'ascoltatore che è causa prima della sua dissipazione (Mt 13,19). Per Mc 4,20 il buon terreno è colui che si pone di fronte alla Parola in un atteggiamento di ascolto accogliente. Per il secondo evangelista, infatti, la causa prima della dissipazione della Parola consiste in un semplice ascolto fisico della Parola, un suo semplice udirla, lasciandola cadere nel vuoto (4,15); senza creare dentro se stessi uno spazio accogliente e tale che sappia far fermentare la Parola dentro se stessi, lasciandosi conformare ad essa. Su questa posizione si trova parimenti Gc 1,21-24. Solo il terreno buono è in grado di innescare un processo di ascolto e di accoglienza; un ascolto attento e tale da diventare accogliente. Per Luca il terreno buono, come del resto per Matteo e Marco, come si è visto, è colui che innesca un processo esattamente inverso al primo terreno, quello della strada, dove il seme della Parola, dopo essere stato accolto nell'ascolto, viene disperso nel cuore dell'ascoltatore, incapace di trattenerlo (Lc 8,12). Per il terzo evangelista, infatti, è buon terreno colui che, dopo aver accolto la Parola nel suo ascolto, sa trattenerla con persistenza, denotando in questo una paziente perseveranza, capace di superare tutte le prove che la vita, e in particolar modo quella di credente, gli impone. Questa sua spiccata virtù, quella della perseveranza, frutto della pazienza, quale capacità di sopportare le prove e di resistervi, costituisce per Luca l'elemento fondamentale della salvezza. Non è un caso, infatti, se il terzo evangelista concluderà una pericope tutta dedicata alle persecuzioni a cui il credente è sottoposto (21,12-18), affermando in modo sentenziale: “Nella vostra pazienza guadagnerete le vostre anime” (21,19). Pazienza e perseveranza che si radicano in un cuore “virtuoso e buono”, resi in greco da Luca con due significativi aggettivi qualificativi, che incarnano l'ideale della bellezza e dell'armonia propria degli eroi greci: “kalÒj” (kalós) e “¢gaqÒj” (agatzós) (v.15), ai quali va la corona della vittoria. Similmente ad essi, i credenti che hanno conformato la propria vita alla Parola ed hanno saputo superare la prova a causa della Parola, anche questi riceveranno la corona della vittoria: “Beato l'uomo che sopporta la prova, poiché dopo essere stato provato riceverà la corona della vita che (il Signore) ha promesso a quelli che lo amano” (Gc 1,12).

I credenti nel loro rapporto con la Parola (vv.16-18)

Dopo una lunga considerazione sulla natura missionaria della Parola, quale seme egualmente sparso su tutti i terreni, ma con effetti diversi da terreno a terreno, generati sia dai diversi contesti ambientali in cui questa va a cadere, sia dalle disposizioni interne dei singoli ascoltatori, ora Luca fa seguire una breve pericope contenente tre detti sentenziali dal sapore sapienziale, non facilmente comprensibili, che tratteggiano tre diversi rapporti che intercorrono tra i credenti e la Parola, che qui viene colta da tre diverse angolature: all'interno della comunità; annunciata alle genti e, infine, in rapporto con lo stesso credente.

Anche qui Luca segue pedissequamente Mc 4,21-25, tralasciando tuttavia Mc 4,24. Ma mentre Marco stacca questa pericope dal resto della parabola e dalla sua esegesi, Luca, invece, l'accorpa ad essa, a suo completamento. Infatti se la parabola riguardava gli ascoltatori e i loro destini e assieme a questi quelli della stessa Parola, accolta in loro, qui l'attenzione si accentra su chi non solo ha già accolto la Parola, ma l'ha altresì consolidata nella sua vita.

Il primo detto, v.16, oltre che da Mc 4,21 viene riportato anche da Mt 5,15, che lo colloca all'interno della pericope 5,13-16, riguardante la testimonianza. Le tre sentenze sulla lampada, benché sostanzialmente identiche tra loro, sono comunque viste dai tre Sinottici in prospettive diverse. Mentre per Mt e Mc la lampada è metafora della fede, che va sempre e comunque testimoniata ovunque per Mc; in particolar modo all'interno della comunità credente per Mt; Luca, forse memore dei Sal 17,29 e 118,105, dove la lampada e metafora della Parola di Dio, che illumina il credente, vede nella sua lucerna l'immagine della Parola, che deve rischiarare non tanto quelli che sono in casa, metafora quest'ultima della comunità credente, bensì quelli che vi entrano. La prospettiva qui è missionaria. “Quelli che entrano” sono i neo-convertiti, i catecumeni. Questi entrando a far parte della nuova comunità devono trovarla illuminata dalla Parola e da questa guidata. Una preoccupazione questa che Luca condivide con l'esortazione di Col 3,16: “La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi e ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali”.

Il secondo detto, v.17, mutuato da Mc 4,22, viene riportato anche da Mt 10,26-27. Il contesto matteano in questo caso è quello dell'invio dei Dodici ad annunciare tra le genti la Parola e le reazioni negative che questa incontrerà in particolar modo da parte delle autorità religiose (Mt 10,1-25). Ma nonostante ciò il Gesù matteano solleciterà i suoi a non arrendersi, ma a proclamare comunque la Parola apertamente e senza riserve o timori. Sarà esattamente questa anche la posizione del Gesù lucano in Lc 12,2-3, parole che vengono pronunciate anche qui in un contesto difficile di rifiuto e di persecuzione da parte delle autorità religiose (Lc 12,8-12). Ne consegue che questo v.17 diventa un doppione di Lc 12,2, il quale trova la sua spiegazione in Lc 12,3: “Ora niente è coperto che non sarà manifestato e nascosto che non sarà conosciuto. Al pari di tutte quante le cose delle quali diceste nell'ombra, saranno udite nella luce; e ciò che avete detto all'orecchio nelle stanze, sarà predicato sui tetti” (Lc 12,2-3). Mt 10,27 sarà più chiaro di Lc 12,3: “Ciò che vi dico nell'oscurità, ditelo nella luce; e ciò che udite nell'orecchio, lo proclamerete sui tetti”. Ed è esattamente questo il senso del v.17, che stiamo analizzando, che si richiama ai vv.9-10 dove Gesù riserva la spiegazione della parabola e, quindi, dei Misteri del Regno, solo ai suoi. Ciò, dunque, che viene ora riservato a pochi intimi dovrà essere manifestato a tutti: “Infatti non vi è cosa nascosta che non sarà manifesta, né cosa occulta che non sia conosciuta e venga palese”. Il contrasto tra i due tempi verbali, presente e futuro, e il gioco di parole, “nascosto, manifestato” proietta il lettore in epoca postpasquale, allorché i discepoli saranno chiamati in prima persona a rendere manifesto alle genti l'insegnamento che Gesù ha impartito loro. Riecheggia qui Mt 28,19-20a, dove il Risorto comanda ai suoi: “Andando, dunque, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto quanto quello che vi ho ordinato”. La prospettiva matteana, come quella lucana del v.17 è chiaramente missionaria. Una missione che consiste nell'annuncio alle genti di tutte quelle cose che Gesù ha rivelato ai suoi.

Il terzo detto, v.18, lo ritroviamo parimenti sia in Mc 4,25, da cui proviene, che in Mt 13,12. Tutti tre i versetti si ritrovano nel contesto della parabola del Seminatore e con questa ha a che fare. Molto più evidente questo in Luca e in Matteo, molto meno in Marco, che sembra quasi staccarla da questo contesto. La chiave di lettura di questo versetto piuttosto oscuro viene fornita da Luca nella sua introduzione: “Guardate, pertanto, come ascoltate”. Ciò che segue, quindi, riguarda l'ascolto, al modo di accogliere e di trattenere e gestire la Parola ascoltata e accolta in se stessi, poiché “chi, infatti, ha, sarà dato a lui; e chi non ha, sarà tolto da lui anche ciò che crede di avere”. Si tratta di un'ammonizione che si richiama alla Parola caduta nei diversi terreni: chi, infatti, ha saputo accogliere la Parola in se stesso facendola fruttificare, questa si è resa per lui sovrabbondante, il centuplo; chi invece ha accolto in se stesso la Parola, ma non ha saputo perseverare in essa, di fatto l'ha dissipata ed anche quel poco che aveva inizialmente ricevuto è andato definitivamente perduto.

La nuova e vera parentela di Gesù (vv.19-21)

Luca conclude la sezione sulla Parola (vv.4-21) con una breve pericope che definisce l'autentica parentela di Gesù, che si ritrova sia in Mt 12,46-50 che in Mc 3,31-35. I contesti, in cui è inserita questa pericope sia in Mt che in Mc, sono quelli di una soggiacente incredulità, a cui non si sottraevano né la madre né i fratelli di Gesù (Gv 7,5), dai quali era ritenuto fuori di testa (Mc 3,21). Tuttavia, benché Luca mutui il suo breve racconto da Marco, ne prende in qualche modo le distanze, rendendo più morbida l'affermazione di Gesù. Infatti, mentre per Mt e Mc l'accento cade pesantemente sull'incredulità di Maria e dei fratelli nei confronti di Gesù, sottolineando per due volte come questi si trovassero fuori dalla cerchia di coloro che ascoltavano la Parola di Gesù, al punto tale che Gesù li disconosce apertamente, “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”, indicando come sua vera parentela quelli che, invece, ascoltano e praticano la sua Parola, Luca fa cadere l'accento non tanto sull'incredulità, (il contesto lucano infatti non è quello dell'incredulità), quanto sugli effetti che un ascolto fruttuoso della Parola produce nel credente nei rapporti con Gesù. Matteo e Marco sottolineano una certa incomunicabilità tra Gesù e la sua parentela stretta, facendo ricadere su questa la causa della loro incomunicabilità, dovuta ad incredulità. Per Matteo infatti la madre e i fratelli di Gesù cercano di parlargli, ma se ne stanno fuori dalla cerchia dei suoi seguaci; mentre per Marco la madre e i fratelli cercano di raggiungere Gesù per interposta persona, evidenziando in tal modo la difficoltà di rapporto: “stando fuori, lo mandarono a chiamare” (Mc 4,31). Del resto erano venuti a riprendesi Gesù e portarselo via perché lo ritenevano fuori di testa (Mc 3,21). Per Luca, invece, madre e fratelli cercano di raggiungere Gesù, anzi, sottolinea con forza che loro “vogliono vedere” Gesù, ma se ne stanno fuori non per causa loro, ma a motivo delle folle, che impediscono loro di raggiungerlo. Nel terzo evangelista, pertanto, la colpa non viene fatta ricadere su madre e fratelli, ma sulla folla. Luca evita, poi, la domanda accusatoria di disconoscimento della propria parentela da parte di Gesù, presente negli altri due evangelisti (Mt 12,48; Mc 3,33), contrapponendo loro quelli che ascoltano la sua parola e la mettono in pratica. Il Gesù lucano, invece, sa che sua madre e i suoi fratelli “stanno fuori”, ma indica loro la strada per raggiungerlo: quello dell'ascolto e della pratica della Parola di Dio. Solo in tal modo essi continueranno ad essere ancora in un modo nuovo sua madre e suoi fratelli. L'accogliere la Parola di Dio nella propria vita, conformandola ad essa, dunque crea nuovi rapporti con Gesù, che superano gli stessi rapporti carnali, che sono per loro natura escludenti, poiché l'ascolto accogliente crea una linea di comunicazione diretta e di comunione con Gesù e, tramite lui, con il Padre. Tutti, accogliendo nella propria vita la sua Parola e generandola agli altri con l'annuncio e la testimonianza, possono diventare suoi fratelli e sua madre.


Sezione dell'attività guaritrice e risanatrice (vv. 27-56)


Note generali

Dopo la sezione dedicata alla riflessione sulla natura della Parola e dei suoi molteplici e complessi rapporti con il credente (vv.4-21), Luca dedica ora una seconda sezione (vv.27-56), in cui drammatizza gli effetti della Parola annunciata ed accolta. Si tratta di tre guarigioni o, per meglio dire, di tre liberazioni dell'uomo dal potere del male, che lo schiavizza, privandolo di ogni dignità, nel primo racconto di possessione demoniaca (vv.27-39); gli infligge una sofferenza esistenziale che gli impedisce di vivere pienamente la sua vita, trascinandogliela nella penosa ricerca di una qualche inutile soluzione umana, nel secondo racconto della donna afflitta da un inarrestabile flusso di sangue (vv.43-48); gli toglie la vita senza più alcuna speranza, relegandolo nella disperazione della morte, nel terzo racconto della figlia di Giairo (vv.40-42.49-56). Benché siano tre casi diversi tra loro, in realtà essi sono tutti quanti accomunati da un comune denominatore: il peccato, inteso qui come l'elemento che ha reso l'uomo incapace di vivere pienamente la sua vita e ha posto la sua stessa natura sotto il segno del degrado esistenziale, della corruzione e, infine, della morte, di cui sofferenza, dolore e fallimenti sono espressioni tangibili. Su tutto ciò, come nel primordiale caos della creazione, allorché lo spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gen 1,2), si impone ora la Parola con il suo potere ricreativo e rigenerante. Questa, se accolta nella propria vita, ha il potere di rigenerarla alla vera Vita (1Pt 1,23), da cui essa proviene (Gen 1,26-27; 2,8) e dalla quale se ne è drammaticamente uscita (Gen 3,16-24). Questa Parola, infatti, ha la sua origine nell'eternità stessa di Dio (Gv 1,1-3), ne possiede la Vita e il Potere, ed è venuta in mezzo agli uomini (Gv 1,14) perché chiunque crede in Lei non muoia, ma abbia fin d'ora la vita eterna, che è la Vita stessa di Dio (Gv 3,16). Il credere in questa Parola di eternità non solo rigenera l'uomo, restituendogli l'antica e originaria dignità perduta (Gen 1,26-27; Sal 8,6-7), ma lo genera nuovamente a Dio, ricollocandolo in Lui.

Le due sezioni sono tra loro connesse dal racconto della tempesta sedata (vv.22-26), che narrativamente, per la posizione intermedia in cui il racconto è stato posto, funge da passaggio da una sezione all'altra. Si passa così dalla Parola, colta come fattore di potenza rigenerante (vv.8.15), ma anche in tutta la sua fragilità e impotenza (vv.5-7.12-14), alla concreta dimostrazione dei suoi effetti liberatori e rigeneranti, che si sprigionano da essa, quale potenza di Dio, creduta ed accolta nella propria vita.

Il potere della Parola come liberazione dal Male (vv.27-39)


Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione (v.26)

26 – E approdarono nella regione dei Geraseni, la quale è di fronte alla Galilea.

Presentazione dell'indemoniato (v.27)

27 – Ora, mentre usciva sulla terra, gli venne incontro un uomo dalla città, che aveva dei demoni e da molto tempo non indossava un vestito e non rimaneva in casa, ma nelle tombe.

L'incontro-scontro tra Gesù e il mondo degli Inferi (vv.28-34)

28 – Ora, avendo visto Gesù, gridando, si prostrò supplicando e con grande voce disse: <<Che cosa (c'è) tra me e te, Gesù, Figlio del Dio Altissimo? Ti prego non tormentarmi!>>.
29 – Infatti, ingiunse allo spirito impuro di uscire dall'uomo; infatti per molte volte s'impadronì di lui e veniva legato con catene e custodito con ceppi e, spezzando i vincoli, era spinto dal demonio nei deserti.
30 – Ora, Gesù lo interrogò: <<Quale nome hai tu?>>. Egli disse: <<Legione>>, poiché entrarono in lui molti demoni.
31 – E lo supplicavano affinché non comandasse a loro di ritornare nell'abisso.
32 – Vi era là una mandria di molti porci, che pascolava sul monte; e lo pregarono affinché permettesse a loro di entrare in quelli. E permise a loro.
33 – Ora, usciti i demoni dall'uomo, entrarono nei porci e la mandria precipitò giù nel dirupo nel lago e affogò.

La reazione negativa dei Geraseni (vv.34-37)

34 – Avendo visto quelli che pascolavano l'accaduto, fuggirono e riferirono alla città e ai villaggi.
35 – Ora, uscirono a vedere l'accaduto e andarono da Gesù e trovarono l'uomo, dal quale uscirono i demoni, vestito e rinsavito, seduto presso i piedi di Gesù, e furono spaventati.
36 – Ora, quelli che videro riferirono a loro come fu salvato l'indemoniato.
37 – E tutta quanta la moltitudine della circostante regione dei Geraseni lo pregò di andarsene da loro, poiché erano oppressi da grande paura. Egli, salito sulla barca, fece ritorno.

La missione dell'uomo liberato (vv.38-39)

38 – Ora, l'uomo, da cui erano usciti i demoni, gli chiese di stare con lui. Ma lo congedò dicendo:
39 - <<Torna alla tua casa e racconta quanto ti fece Dio>>. E andò per tutta la città annunciando quanto gli fece Gesù.

Note generali

Il racconto dell'indemoniato di Gerasa è riportato da tutti i Sinottici. Tuttavia, mentre Luca segue pressoché pedissequamente Marco, Matteo si discosta notevolmente da entrambi, presentando una versione del racconto molto breve, quasi uno schematico riassunto di quella di Marco, sintetizzando in soli sette versetti i venti di Marco e raddoppiando gli indemoniati. Una simile semplificazioni, che troveremo anche nei racconti della risuscitazione della figlia di Giairo e della guarigione della donna con perdite di sangue, rientra nello stile di Matteo, così come il raddoppiamento dei personaggi.

Luca in buona sostanza segue il racconto marciano, ma gli dà una impostazione più eclatante e più universale, sottolineando in un certo qual modo la sfida titanica tra Gesù e le forze degli Inferi, sulla falsariga dei mitici eroi greci, dalla quale Gesù, come loro, esce vittorioso (v.29). Nel racconto marciano, infatti, il confronto si riduce sempre tra Gesù e il diavolo, presentato sempre al singolare, benché egli alluda con il suo nome, Legione, alla quantità di diavoli che posseggono il poveretto, forse in numero di 2000, quanti sono i maiali precipitati nella scarpata (Mc 5,13). In Marco non si percepisce la lotta, pressoché inesistente, tra satana e Gesù. Contrariamente Luca parla di diavoli (vv.27.30.33) e i verbi che che hanno loro per soggetto sono posti tutti al plurale (vv.30b-33). Soltanto nel dialogo tra Gesù e il diavolo questi è presentato al singolare e Gesù si rivolge a lui con la seconda persona singolare. Ma in realtà, di fronte a Gesù non ci sta soltanto un diavolo di nome Legione, ma un'enorme schiera, che a differenza di Marco egli non quantifica, lasciandola indeterminata e che in qualche modo rappresenta il mondo degli Inferi, che oppone una strenua quanto inutile resistenza a Gesù, ma contro il quale Gesù sembra faticare. Una fatica che allude alla sua passione e morte, da cui uscirà vincitore. Una lotta titanica questa, tra Gesù e gli Inferi, che in qualche modo era stata preannunciata nel racconto della tempesta sedata (vv.22-26), dove Gesù s'impone sulle forze del vento e dell'acqua, che rappresentano il caos primordiale (Gen 1,2), che docilmente gli si sottomette, dando così origine alla prima creazione. Sarà infatti in Gen 1,3 che al caos primordiale si contrappone la Luce divina, dove viene posta la creazione.

Il racconto si presenta articolato nella sua struttura, lasciando trasparire la complessità nella sua formazione:

  1. Versetto di transizione (v.26);

  2. Presentazione dell'indemoniato (v.27);

  3. L'incontro-scontro tra Gesù e il mondo degli Inferi (vv.28-34);

  4. La reazione negativa dei Geraseni (vv.34-37);

  5. La missione dell'uomo liberato (vv.38-39).


Commento ai vv.26-39


Versetto di transizione (v.26)

Il v.26 è un versetto di transizione, poiché dal racconto della tempesta sedata traghetta il lettore non solo ad una nuova sezione, da quella della Parola (vv.4-21) a quella delle guarigioni (vv.27-56), ma, nell'immediato, in un nuovo racconto, quello dell'indemoniato di Gerasa. La transizione è caratterizzata dal cambio sia del contesto ambientale: dall'acqua del lago ora si passa alla terraferma; sia dal cambio geografico: dalle rive del lago, dalle parti di Cafarnao, si passa ora nella “regione dei Geraseni”. Il lettore, pertanto, qui è avvertito: si gira pagina.

Dopo la turbolenta attraversata del lago di Genesaret (vv.22-25), Gesù e i suoi ora approdano “nella regione dei Geraseni, la quale è di fronte alla Galilea”. Luca qui riporta pedissequamente Mc 5,1 e cerca di precisarlo, commettendo un errore geografico. Mc 5,1, infatti afferma che Gesù e i suoi “giunsero all'altra riva del mare, nella regione dei Geraseni”. Marco probabilmente intendeva dire che giunsero all'altra riva del mare e da qui verso la regione dei Geraseni e non che l'altra riva del lago fosse la regione dei Geraseni. Gerasa, infatti, si trova situata a poco meno di metà strada tra il lago di Genesaret e il mar Morto; posta a 30 Km dalla sponda sinistra del Giordano e dista dalla punta sud del lago di Genesaret, dall'estuario del Giordano, circa 57 Km26. Luca, un greco che non conosce la Palestina, ha pensato che la regione dei Geraseni, citata da Marco, si trovasse sulla riva orientale del lago e, quindi, “di fronte alla Galilea”. Ma il problema più complesso non è tanto la localizzazione di Gerasa, ma il nome stesso della regione. Mt 8,28a parla infatti di “territorio dei Gadareni”; Marco e, di conseguenza, Luca, parlano, come s'è visto, di “regione dei Geraseni”. San Girolamo nella sua Vulgata, traducendo Luca, riporta “ad regionem Gergesenorum”, cioè, “nella regione dei Gergeseni”, segno questo che Girolamo doveva avere sotto mano un altro testo greco che riportava “dei Gergeseni” o che seguisse la lezione di Origene, che era giunto alla conclusione che si trattasse non di Gerasa né di Gadara, bensì di Gergesa. Delle tre, soltanto Gergesa, cittadina prospiciente sul lato orientale del lago è, come afferma Luca, “di fronte alla Galilea” e si rende così compatibile con il racconto della mandria dei maiali affogata nel lago. In questa prospettiva il termine “Geraseni” va compreso come una deformazione o una cattiva lettura di “Gergeseni”. Ora, posto che “Geraseni” sia una cattiva lettura di “Gergeseni”, considerato che Gerasa, come s'è visto sopra, è totalmente incompatibile con il racconto dei maiali precipitati nel lago e certamente non si trova “di fronte alla Galilea”, come risolvere l'indicazione di Mt 8,28a dove si parla di “territorio o regione dei Gadareni”? I problemi posti su “Gerasa”, infatti, valgono parimenti anche per Gadara, importante città della Decapoli come Gerasa, benché molto più vicina al lago di Genesaret di quest'ultima, ma comunque pur sempre a 10 Km circa dalla sua punta sud. Si è ipotizzato che il territorio di Gadara avesse uno sbocco sul lago. Ipotesi, questa, che sembrerebbe suggerita in qualche modo da Flavio Giuseppe in Guerra Giudaica, dove, parlando dei confini della Galilea, afferma: “Verso oriente, è delimitata dai territori di Hippos, di Gadara e dalla Gaulanitide, ove sono anche i confini del regno di Agrippa” (BellJud 3,37b). La regione di Gadara doveva, quindi, confinare con la Galilea quasi certamente, considerata la posizione di Gadara città, con il lago di Genesaret. Questa ipotesi sembrerebbe confermata anche da alcune monete di Gadara su cui è raffigurata una nave da combattimento27. Quale senso avrebbe avuto una simile moneta se non quello di celebrare in qualche modo la potenza navale di questa città? Del resto, Mt 8,28a non parla di città dei Gadareni, ma di territorio o regione dei Gadareni, la quale cosa fa pensare che l'estensione territoriale di Gadara andasse oltre la semplice città. Pertanto sembrerebbe giusta la nota di Matteo nel raccontare che Gesù e i suoi sbarcarono nel territorio o nella regione dei Gadareni; e ciò la renderebbe compatibile anche con l'episodio della mandria dei maiali affogati.

Una seconda ipotesi a favore di Gadara, questa volta vista come città e non come regione, è la sua stessa posizione geografica. Gadara è posta a circa 370 mt sul livello del mare, prospiciente sul fiume Iarmuk. Questa si trova a 11 Km dall'estuario del Giordano, sulla punta sud del lago di Genesaret. Quindi la città non è compatibile con il racconto della precipitazione della mandria dei maiali nel “mare”. Tuttavia, ciò di cui bisogna tener conto è che Gadara si trova nei pressi del fiume Iarmuk, a poco meno di 3 Km, uno dei principali affluenti di sinistra del Giordano, lungo circa un'ottantina di Km e in questo sfocia circa 8 Km a sud del lago di Genesaret. Sulle monete di Gadara lo Iarmuk era menzionato come “fiume di Gadara”28. Questo fiume, dai tratti torrenziali, scorre impetuoso in fondo ad una vallata sopra la quale si apriva in posizione dominante Gadara. La posizione della città rispetto al fiume, quindi, è elevata e questo concorda con tutti tre i Sinottici, che parlano della mandria di maiali che si getta giù dal precipizio (Mt 8,28a); Mc 5,13 afferma che il branco “si precipitò dal dirupo nel mare”; similmente Lc 8,33, che da Marco mutua, afferma che “la mandria precipitò giù nel dirupo nel lago e affogò”. Questo “precipitare nel dirupo” giù verso il fiume Iarmuk, richiama anche una battaglia, quella dello Iarmuk, avvenuta nel 636 d.C., allorché l'esercito bizantino dell'imperatore Eraclio, scontratosi con quello mussulmano, fu decimato. Molti soldati bizantini, incalzati dai mussulmani, nel ritirarsi disordinatamente, precipitarono nelle gole dello Iarmuk sfracellandosi al suolo o annegandosi nelle acque dello Iarmuk29. La scena del precipitare dal dirupo raccontata dai Sinottici è pertanto compatibile con la morfologia del terreno tra Gadara e il fiume Iarmuk.

Tuttavia, Matteo e Marco parlano di “mare”, mentre Luca, convinto che Marco stia parlando della regione dei Geraseni come un territorio posto di fronte alla Galilea e prospiciente sulle rive del lago di Genesaret, in modo più appropriato parla di lago. Nessuno comunque accenna ad un fiume. La cosa, tuttavia, non deve stupire. Matteo e Marco, che definiscono le acque con il termine di “mare”, erano degli ebrei e nella loro mente, benché scrivano in greco, qualsiasi estensione di acqua viene da loro concepita e indicata come “yam”, cioè “mare”. Con questo termine, infatti, viene definita talvolta la pluralità dei fiumi che bagnano i territori di una regione (Ger 51,36); oppure viene indicato un fiume importante come il Nilo (Na 3,8); non solo, ma anche i grandi bacini in bronzo, ricolmi d'acqua, che si trovano nel Tempio, erano definiti con il termine “yam”, cioè “”mare” (1Re 7,23; Ger 27,19; 52,17). La lingua ebraica antica, infatti, è una lingua povera di vocaboli e concreta nel suo esprimersi, per cui una parola può avere anche una pluralità di significati. Ora, il fiume Iarmuk, che raccoglieva le acque dei diversi torrenti provenienti dai monti, nei momenti di secca, poteva creare nel suo letto delle ampie sacche di acqua stagnante o scarsamente corrente, alle quali l'ebreo, in assenza di particolari vocaboli specifici, poteva chiamarle “yam”, cioè “mare”; o considerata l'importanza di questo fiume per l'economia del territorio e l'importanza della città che lo ospitava, Gadara, poteva essere definito per la sua portata nei momenti di piena, con il termine di “mare”. Pertanto, il racconto della guarigione dell'indemoniato e la scenografica ecatombe di maiali, precipitati nel dirupo “nel mare”, può ragionevolmente avere come sfondo Gadara, indicata dallo stesso Mt 28a.

Territorio, dunque, dei Geraseni o dei Gergeseni o dei Gadareni. Tre diverse indicazioni che hanno tutte un valido supporto testuale. È, pertanto, difficile sulla sola base testuale determinare quale sia la lezione corretta e dove Gesù effettivamente abbia compiuto la liberazione dell'indemoniato e dove sia avvenuta la conseguente strage dei porci. Anche da un punto di vista geografico ed archeologico le cose non vanno meglio: su entrambi i siti di Gadara-Iarmuk e Gergesa30 sorgono rispettivamente rovine di due basiliche che attestano entrambe come quello fosse il luogo in cui è avvenuto la liberazione dell'indemoniato e la strage dei maiali31.

Se a queste discrepanze testuali e contraddizioni storico-archeologiche aggiungiamo come il racconto di Mc 5,1-20 e di conseguenza quello di Lc 8,26-39, che da Marco ha mutuato il suo racconto, sia molto caricato e appesantito da particolari più o meno raccapriccianti, quasi da sembrare un racconto popolare finalizzato a creare stupore, paura e comunque forti emozioni nell'ascoltatore, sorge il sospetto che l'intero racconto dell'indemoniato liberato e della strage dei maiali più che radici storiche abbiano radici nella fantasia del suo autore o quanto meno Marco l'abbia modificato notevolmente, appesantendolo con elementi popolari. Del resto i vangeli non sono testi di storia, né tanto meno di cronaca dell'epoca, né la biografia di Gesù. La corretta posizione di fronte al racconto evangelico è chiedersi non se sia storicamente vero e realmente accaduto, bensì che cosa l'autore abbia voluto trasmettere al suo lettore con quel racconto, vero o inventato che sia. Nello specifico sia Mc 5,1-20 che Lc 8,26-39 hanno voluto testimoniare al credente come la venuta di Gesù abbia determinato la fine dell'egemonia di satana sull'uomo e sulla creazione e ricacciato nell'abisso infernale satana e i suoi accoliti, dei quali, maiali e acque del lago sono la metafora. In modo più evidente, come vedremo, qui Luca sottolineerà la dura e vittoriosa lotta sostenuta da Gesù contro le forze degli Inferi (v.29), anticipando fin d'ora quella che si svolgerà nel momento della sua passione-morte-risurrezione, che l'autore aveva già prospettato in 4,13: “E compiuta ogni prova, il diavolo se ne andò da lui fino a tempo (opportuno)”.

Presentazione dell'indemoniato (v.27)

Fin da subito l'autore presenta quest'uomo come posseduto da più demoni, preparando in tal modo il suo lettore al dialogo tra Gesù e Legione (vv.28-34), che si scoprirà essere non uno ma moltissimi demoni. Ciò che sta di fronte a Gesù, dunque, non è soltanto un povero disgraziato posseduto da un demone, ma le stesse potenze degli Inferi, che intrecceranno con Gesù una lotta molto gravosa e impegnativa, simboleggiata dal dialogo tra i due. L'uomo, quindi, diventa qui in qualche modo il simbolo dell'intera umanità decaduta, sotto il potere di satana, e privata di ogni sua dignità. Luca, infatti, precisa che questo uomo “da molto tempo non indossava un vestito”. Quel “da molto tempo” lascia intendere che ci fu un tempo in cui, invece, indossava un abito, simbolo della sua dignità32. E questo fu il tempo in cui egli viveva nella stessa dimensione di Dio, fatto a sua immagine e somiglianza, finché non si accorse di essere nudo (Gen 3,7a) e Dio lo rivestì non più del suo stesso spirito di vita, ma di pelli di animali, cacciandolo dalla sua stessa dimensione divina a cui non apparteneva più. Il salmista ricorderà come Dio avesse ricoperto l'uomo di gloria e di onore: “Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8,6-7). Un uomo, quindi, rivestito di Dio e del suo stesso potere. Ma se il salmista ricorda la condizione originaria dell'uomo, Paolo in Rm 3,23 ricorda il momento del suo dramma, in cui l'uomo non solo fu privato della gloria di Dio, ma da quel momento ne rimase privo per sempre: “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”. Luca, infatti, dice come questo uomo “da molto tempo non indossava un vestito” e la sua dimora non era più tra i viventi, ma tra i morti, poiché quella era la sua condizione attuale. Era un uomo che proveniva dalla città, il luogo dei viventi, dove egli un tempo dimorava, ma non “rimaneva in casa”, cioè non apparteneva al mondo dei credenti, né tantomeno a quello di Dio. Più volte si è detto, infatti, come la casa fosse la metafora della comunità dei credenti33.

L'incontro-scontro tra Gesù e il mondo degli Inferi (vv.28-33)

Questo serrato dialogo tra Gesù e il posseduto non dà l'esatta idea di cosa sia effettivamente avvenuto. Tutto sembra rientrare in un normale esorcismo in cui Gesù con molta facilità ha la meglio sul diavolo. Qui, invece, le cose cambiano completamente. Benché dalle schermaglie tra Gesù e il posseduto si possa trarre l'ingannevole idea di una facile sconfitta del demonio, in realtà questo dialogo, che si conclude con il precipitare della mandria dei porci nelle acque del lago, è una dura lotta che si instaura tra Gesù e gli Inferi. Non si tratta, dunque, di un semplice esorcismo. Forse anche per questo Marco e Luca hanno voluto dargli un particolare rilievo, caricandolo di immagini e di particolari drammatici.

Già con il v.28 l'incontro tra Gesù e il diavolo lascia intendere la distanza, che è contrapposizione, che intercorre tra i due e si intuisce subito la superiorità di Gesù sul suo avversario, che di fronte a lui cade supplichevole al suolo. Quel “si prostrò” non ha da intendersi come un atto di adorazione, per il quale gli evangelisti usano di norma il verbo “proskunšw” (proskinéo). Qui il verbo è “prospptw” (prospípto) che significa un cadere davanti a qualcuno in modo supplichevole. Già da qui si evince la debolezza del demonio di fronte a Gesù, invocato e riconosciuto come “Figlio del Dio Altissimo”. Da qui il terrore, da parte di satana, di essere respinto nell'abisso da cui proveniva (v.31). Tutto ciò, tuttavia, non deve trarre in inganno, poiché sempre lo stesso verbo “prospípto” significa anche “gettarsi addosso a qualcuno, assaltare, piombare su qualcuno”. Un verbo, quindi, dalla doppia faccia: da un lato indica la fragilità del diavolo di fronte a Gesù, per cui il diavolo sa che non può averla vinta contro di lui; dall'altro esprime una forte aggressività nei suoi confronti. Insomma, gli Inferi non vogliono dargliela vinta facilmente, ma cercano di opporgli una forte resistenza. Una resistenza che verrà ricordata anche in Lc 9,37-40.

L'invocazione del diavolo si conclude con la supplica a Gesù affinché non lo tormenti. Una richiesta che lascia perplessi poiché Gesù, fin qui, non sembra essersi mosso contro satana e quindi non si riesce a capire questa richiesta del diavolo: “Ti prego non tormentarmi!”. Per questo si rende necessaria una spiegazione da parte dell'autore, che con il v.29 sospende il racconto. Un versetto questo fondamentale per capire il senso dell'intero racconto e per comprendere che cosa sia realmente accaduto: “Infatti, ingiunse allo spirito impuro di uscire dall'uomo; infatti per molte volte s'impadronì di lui e veniva legato con catene e custodito con ceppi e, spezzando i vincoli, era spinto dal demonio nei deserti”. L'espressione “ingiunse allo spirito” è resa in greco con il verbo “par»ggeilen” (paréngheilen), il quale, benché sia un aoristo, viene quasi sempre tradotto con un imperfetto indicativo, perdendo in parte il senso molto denso di questo aoristo, che qui assume un duplice significato: ingressivo o incipiente e iterativo. Per cui sarebbe più corretto tradurre che Gesù “incominciò e continuò ad ingiungere”, lasciando in tal modo intravvedere come l'azione di Gesù nei confronti del diavolo non sia stata per niente facile e scontata. Gesù ha qui innescato una dura lotta contro questi diavoli, di cui l'evangelista sottolinea la loro potenza e la loro capacità di resistenza nei confronti di Gesù: “infatti per molte volte s'impadronì di lui e veniva legato con catene e custodito con ceppi e, spezzando i vincoli, era spinto dal demonio nei deserti”. Nonostante i reiterati tentativi di Gesù, Satana non si rassegna facilmente alla sconfitta e torna nuovamente alla carica. Sa che non potrà mai prevalere su Dio, ma cerca in ogni modo di contrastarlo e di non dargliela vinta facilmente, creandogli il maggior danno possibile, facendo precipitare con lui il maggior numero di uomini, per i quali Gesù è venuto per salvarli, inficiando in tal modo il piano di Dio34.

Il v.30 lascia, anche questo, perplessi poiché mentre il diavolo conosce bene chi ha davanti e lo apostrofa in modo inequivocabile come “Figlio del Dio Altissimo”, qui Gesù, che conosce i pensieri più reconditi del cuore umano (6,8; 9,47; 11,17), sembra non conoscere chi gli sta davanti ed è costretto a chiederglielo e, bontà sua, il diavolo glielo rivela: “Ora, Gesù lo interrogò: <<Quale nome hai tu?>>. Egli disse: <<Legione>>, poiché entrarono in lui molti demoni”. Non ci si lasci trarre in inganno. Il verbo qui usato “™phrèthsen” (eperótesen) dice che qui ci troviamo di fronte ad un giudice, che sta interrogando l'imputato e lo costringe a venire allo scoperto, rivelando il suo nome. Il nome per gli antichi esprimeva l'essenza della persona che lo portava; e rivelare il proprio nome significava perdere in qualche modo il potere su se stessi, consegnandosi in balia degli altri. Per questo Jhwh non rivela il proprio nome a Mosè, ma lo parafrasa affermando “Io sono colui che sono” (Es 3,13-14) o definendosi come “il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,15). Il v.30, pertanto, lascia intendere che la venuta di Gesù ha innescato un processo di condanna contro il potere demoniaco, segnandone la fine. Una lotta tra Gesù e gli Inferi che traspare in modo più evidente e più diretto in Gv 16,11: “quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato”; mentre in Gv 12,31 attesta che “Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori”. Un principe che non ha alcun potere su Gesù (Gv 14,30). Uno scontro che appare insito nel nome stesso del diavolo: “<<Legione>>, poiché entrarono in lui molti demoni”. Il confronto con Gesù, dunque, non avviene con qualche diavolo, ma con una legione. Mc 5,13c racconta che erano duemila i porci, probabilmente un diavolo per ogni maiale; mentre la legione romana contava seimila uomini in armi. Non ha importanza sapere quanti fossero, ma la consistenza del numero dice che qui il confronto avviene tra Gesù e le potenze degli Inferi. Non si tratta più, dunque, di un semplice esorcismo, ma di un confronto-scontro che avrà il suo epilogo sul Golgota.

I vv.31-33 riguardano la sentenza finale posta sugli Inferi; finale ma non ancora definitiva. I diavoli, infatti, chiedono a Gesù di non essere rinchiusi nell'abisso, concepito come la dimora-prigione degli Inferi35. Non è ancora giunto il loro tempo, quello del Golgota, dove il vecchio Adamo, l'uomo vecchio, sotto il potere di satana, verrà distrutto sulla croce (Rm 6,6). Gesù concede loro di entrare in una mandria di porci, che “precipitò giù nel dirupo nel lago e affogò”. L'episodio dei porci lascia intravvedere come i diavoli siano associati di fatto all'animale impuro per eccellenza e quel loro precipitare giù nel dirupo, affogando nelle acque del lago, lascia presagire la loro triste quanto drammatica sorte finale e definitiva, che in qualche modo viene qui anticipata. Ap 20,10.14 ricorderà in qualche modo questo evento: “E il diavolo, che li aveva sedotti, fu gettato nel lago di fuoco e zolfo, dove sono anche la bestia e il falso profeta: saranno tormentati giorno e notte per i secoli dei secoli. […] Poi la morte e gli inferi furono gettati nel lago di fuoco. Questa è la seconda morte, il lago di fuoco”.

La reazione negativa dei Geraseni (vv.34-37)

Il problema dei Geraseni, che rifiutarono Gesù non dipese dal danno economico che la sua azione risanatrice aveva causato alla città, ma dall'evento in se stesso. I vv.35c.37 forniscono la motivazione del loro rifiuto: “poiché erano oppressi da grande paura”. È questa la risposta dell'uomo all'irrompere della potenza di Dio nella storia. L'evento testimoniato in prima battuta dai mandriani (v.34) e constatato successivamente da quelli che erano accorsi (v.35) era per loro incomprensibile. Hanno visto, hanno toccato con mano, ma non hanno compreso ciò che sottendeva l'evento salvifico. Il loro avvicinarsi a Gesù (v.35) e il loro constatare la completa guarigione dell'uomo, ora vestito e rinsavito, quindi, ricostituito nella sua originaria dignità, non ha spiegazioni. Di conseguenza tutti gli eventi sconosciuti sono anche enigmatici, ingenerando inquietudine. Per questo si infuse in loro un senso di spavento. Gesù non era da loro conosciuto; non avevano mai fatto l'esperienza di questo uomo. La loro testimonianza si limita ad una mera descrizione superficiale degli eventi, ma senza comprenderne il senso (v.36). Significativo invece è l'atteggiamento in cui è stato colto dai suoi concittadini l'indemoniato liberato: “seduto presso i piedi di Gesù”. È l'atteggiamento del discepolo, quello stesso che si trova in Lc 10,39, dove Maria, seduta ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. L'incontro con Gesù e l'esperienza della salvezza trasforma l'uomo, gli restituisce la sua dignità e lo reinserisce proficuamente nel contesto sociale, da cui prima era respinto. Serve, quindi, una lettura più approfondita della persona di Gesù, che vada al di là delle semplici apparenze, ma soprattutto serve l'esperienza di un incontro salvifico. E i Geraseni, abitanti della Decapoli, una regione pagana, non erano ancora pronti per tale incontro. Sarà proprio l'indemoniato guarito a farsi testimone in mezzo a loro. Il primo vero apostolo delle genti, inviato da Gesù stesso.

La missione dell'uomo liberato (vv.38-39)

Già lo si è ben capito, in quel uomo posseduto e risanato è avvenuta non una semplice guarigione, ma una profonda trasformazione esistenziale. Al v.27 viene presentato come un uomo posseduto, privo di ogni dignità e la cui dimora era il regno dei morti. Al v.35 quest'uomo non solo non è più prigioniero degli Inferi, ma ha riavuto, grazie al suo incontro con Gesù, la sua dignità e con questa la piena coscienza dell'evento salvifico, scoprendo in Gesù la potenza di Dio che lo ha liberato. Luca, infatti, non si limita a dire che fu liberato dai diavoli e ricostituito nella sua dignità, ma anche che quest'uomo fu rinsavito, cioè è diventato saggio. Tale è anche il senso del verbo “swfronšw” (sofronéo). Ed è proprio questa nuova saggezza, l'aver scoperto un nuovo senso della propria vita che lo spinge a farsi discepolo di Gesù. Ed è in questa posizione di discepolato che lo trovano i Geraseni accorsi a vedere l'evento: “seduto presso i piedi di Gesù”.

L'uomo risanato e rigenerato alla vita ora vuole rimanere con Gesù. Lui è già suo discepolo, ma ne vuole anche la sequela. Gesù va oltre al suo desiderio, lo costituisce suo inviato in mezzo ai pagani: “Torna alla tua casa e racconta quanto ti fece Dio” (v.39a). Ne fa il primo apostolo delle genti. Che cosa significhi tornare alla propria casa e raccontare quanto fece Dio, lo dice il v.39b: “E andò per tutta la città annunciando quanto gli fece Gesù”. Qui si vede un uomo che percorre la città annunciando. Non è un uomo che racconta, ma che annuncia e il verbo “khrÚsswn” (kerísson) non lascia spazio a dubbi. Un verbo tecnico che nella chiesa primitiva designa il primo annuncio portato alle genti. Un verbo che è accompagnato da un movimento caratteristico dei missionari, che percorrevano per città e villaggi ad annunciare gli eventi salvifici. Luca vede in questo uomo probabilmente la sua storia: da pagano a missionario in mezzo alle genti annunciando quanto Dio ha fatto non solo a lui, ma anche a tutti quelli che ascoltano e accolgono in loro stessi la Parola di Vita eterna.

La Parola generatrice e rigeneratrice di vita (vv.40-56)


Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione (v.40)

40 – Ora, nel tornare indietro Gesù, la folla lo accolse; infatti erano tutti in attesa di lui.

La risuscitazione della figlia di Giairo, prima parte (vv.41-43)

41 – Ed ecco venne un uomo, che (aveva) nome Giairo, e questi era capo della sinagoga; e caduto ai piedi di Gesù, lo supplicava di entrare nella sua casa,
42 - poiché aveva una figlia unigenita di circa dodici anni ed essa stava morendo. E nel condurlo, le folle lo soffocavano.

La guarigione della donna con perdite di sangue (vv.43-48)

43 – Ed una donna, che era in un flusso di sangue da dodici anni, la quale aveva speso tutte le sostanze in medici, non era capace di essere guarita da nessuno.
44 – Accostatasi da dietro, toccò l'estremità del suo mantello e subito il flusso del suo sangue si arrestò.
45 – E Gesù disse: <<Chi (è) colui che mi ha toccato?>>. Ma negando tutti, disse Pietro: <<Maestro, le folle ti stringono e (ti) comprimono>>.
46 – Ma Gesù disse: <<Qualcuno mi ha toccato, poiché ho appreso che una forza è uscita da me>>.
47 – Ora, avendo visto la donna che non poté rimanere occulta, agitata andò e, prostratasi davanti a lui, riferì davanti a tutto il popolo per quale motivo lo toccò e come fu immediatamente guarita.
48 – Ma egli le disse: <<Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace>>.

Ripresa del racconto della risuscitazione della figlia di Giairo (vv.49-56)

49 – Mentre ancora parlava, viene uno da(lla casa) del capo sinagoga, dicendo che tua figlia è morta; non infastidire oltre il maestro.
50 – Ma Gesù, avendo udito, gli rispose: <<Non temere, soltanto credi, e sarà salvata>>.
51 – Ora, giunto alla casa, non permise a qualcuno di entrare con lui, se non Pietro e Giovanni e Giacomo e il padre della fanciulla e la madre.
52 – Ora, tutti piangevano e si percuotevano (il petto) per lei. Ma egli disse: <<Non piangete, poiché non è morta, ma dorme>>.
53 – E ridevano di lui, sapendo che era morta.
54 – Ma egli, presa la sua mano, gridò dicendo: <<Fanciulla, svegliati>>.
55 – E ritornò il suo spirito e subito si alzò e ordinò che le fosse dato da mangiare.
56 – E i suoi genitori furono colti da stupore; ma egli ordinò a loro di non dire a nessuno ciò che è accaduto.

Note generali

I due racconti, uno di risuscitazione e l'altro di guarigione, sono intrecciati tra loro secondo un modo particolare di raccontare di Marco, che ritroviamo sia in Mc 3,21-31 che in Mc 5,21-43, definito a sandwich o ad incastro, per cui un racconto viene inserito in un altro. Racconti e schema narrativo che qui vengono mutuati da Luca, benché il terzo evangelista ne dia una prospettiva completamente diversa. In Marco, infatti, la prospettiva è quella di un cammino attraverso il quale la fede non solo viene messa a dura prova, ma questa diviene anche l'elemento discriminante per la sequela di Gesù, così che giunti alla fine del racconto Gesù caccia tutti ed entra in casa, metafora della comunità credente, dove si rivelerà la sua potenza salvifica, alla presenza di poche persone selezionate per la loro fede: tre discepoli e i due genitori della fanciulla. In Luca, il tema è sempre la fede, ma non più vista come elemento selettivo ed escludente, ma come fede testimoniata apertamente davanti a tutti; una fede che va annunciata. L'impronta in Luca è chiaramente missionaria e tale si rileva fin dall'inizio del racconto (v.40) dove l'autore usa verbi che sono tutti suoi, che non si ritrovano negli altri evangelisti e che alludono, così come la scena descritta dal v.40, al ritorno dei missionari dalla loro missione e all'accoglienza che era riservata a loro da parte della comunità credente.

Diversa impronta ancora viene data da Matteo (Mt 9,18-26), che, come Luca, mutua racconti e schema narrativo da Marco, ma riducendoli all'essenziale, così come è nel suo stile, per adattarle al suo pubblico di ascoltatori ebrei che amano gli aneddoti, brevi ed essenziali nel loro narrare così che il messaggio traspaia immediatamente. L'accento in Matteo cade sulla fede nel Risorto, facendo esperienza del quale si è rigenerati ad una nuova vita. Entrambi i racconti in Matteo, infatti, sono inclusi dallo stesso verbo (Mt 9,19.25), “gerw” (egheíro), un verbo tecnico che nelle prime comunità credenti alludeva alla risurrezione di Gesù; mentre il toccare dell'emorroissa e il toccare di Gesù la mano della fanciulla dicono l'esperienza salvifica rigeneratrice del credente nel suo incontro con il Risorto.

Benché apparentemente diversi, i due racconti sono molto simili e accomunati tra loro: si tratta di due donne, la prima, ancor giovanissima, e la seconda di età imprecisata; la prima è in fase terminale della propria vita, mentre la seconda vede questa sua vita defluire inarrestabilmente con il suo sangue, in cui gli antichi vedevano la sede della vita; in entrambi i casi la situazione è disperata e l'intervento dell'uomo è risultato del tutto inefficace. Ogni speranza è stata loro tolta. In entrambi i casi Gesù risulta essere l'unica soluzione efficace; in entrambi i casi la fede in lui costituisce l'elemento decisivo che rigenera entrambe alla vita. Entrambe sono legate dal numero dodici, l'età della fanciulla; gli anni di sofferenza e di una vita senza speranza per la seconda donna. Entrambi i racconti hanno come contesto comune un cammino, metafora della vita, sul quale gli uomini hanno la possibilità di incontrarsi con Gesù; ma solo un rapporto autentico con lui, fondato sulla fede, diventa salvifico e li rigenera alla vita. Gesù infatti è circondato e oppresso dalle folle, Luca dice che “lo soffocavano”, ma soltanto una donna ha saputo trarre vantaggio da questo incontro. In entrambi i casi il rapporto di fede con Gesù non è mai segreto o strettamente riservato, ma reso palese a tutti. Una fede, dunque, che si fa pubblica testimonianza.

La risuscitazione della figlia di Giairo (vv.41-42.49-56)


Note generali

Il racconto della risuscitazione della figlia di Giairo si sviluppa in modo parallelo a quello del servo del centurione (7,1-10) nella prima parte e assomma in sé anche quello della vedova di Nain nella seconda parte (7,11-15). Là vi è un pagano, capo di una centuria, che supplica Gesù, sia pur per interposta persona, perché guarisca il suo servo, che sta per morire, a lui molto caro; qui vi è un giudeo, capo di una sinagoga, che ha la sua unica figlia che sta per morire. Segue, là, la risuscitazione di un giovinetto, anche lui, come la figlia di Giairo, figlio unigenito. In entrambi i casi Gesù opera la risuscitazione, là toccando la bara, qui prendendo la mano alla fanciulla. In entrambi i casi Gesù impartisce un identico ordine, usando il medesimo verbo: “gerw” (egheíro, svegliare, destare, alzare), verbo che allude alla risurrezione di Gesù. Il tema centrale rimane comunque quello della pubblica testimonianza della fede in Gesù. Nel caso del centurione, sarà Gesù a proclamare pubblicamente la fede di questo pagano, che non ha paragoni in Israele (7,9); nel caso del capo sinagoga la fede si manifesta sia nel suo prostrarsi davanti a Gesù di fronte alle folle, sia nel suo perseverare nella fede anche di fronte ad una folla che stava deridendo Gesù. Questo lo porterà, alla fine, a contemplare la potenza di Dio operante in Gesù (v.56). Le somiglianze dei tre racconti, tuttavia, non si fermano qui, ma troveranno anche un altro punto di convergenza molto significativo: nel fatto che tutti tre i personaggi, che Gesù ha risuscitato o salvato da morte incombente, erano un servo amato dal suo padrone, il primo, e figli unigeniti i secondi due. Avremo modo di approfondire questo aspetto nel commento del v.42

Il racconto si suddivide in quattro scene:

  1. L'incontro di Giairo con Gesù e la sua prima attestazione di fede (vv.41-42);

  2. lungo il cammino viene annunciata a Giairo la morte della figlia; Gesù sollecita Giairo a perseverare nella fede (vv.49-50);

  3. la schernevole incredulità della folla le impedisce di conoscere la potenza salvifica di Gesù (vv.51-53);

  4. la potenza salvifica di Gesù si manifesta ai credenti, ma è resa irraggiungibile a chi la rifiuta (vv.54-56).

Commento ai vv.40-42.49-56

Versetto di transizione (v.40)

Il v.40 funge da transizione tra l'episodio dell'indemoniato di Gerasa, compiutosi nel territorio pagano della Decapoli, che in qualche modo preannuncia la futura evangelizzazione in mezzo ai pagani, prefigurata dall'indemoniato risanato (v.39), e i due racconti, ad incastro, della risuscitazione della figlia i Giairo, inframezzato da quello della rigenerazione alla vita della donna, dando così continuità narrativa a questa seconda sezione, quella delle guarigioni (vv.27-56). Il v.40, tuttavia, svolge anche una funzione introduttiva ai due racconti, che si muovono sullo sfondo di un viaggio, che potremmo definire come il viaggio di una fede provata e pubblicamente testimoniata. Un versetto che risente dello spirito missionario di Luca, poiché riproduce in qualche modo la scena che le comunità credenti riservavano ai propri missionari al loro rientro dalla missione: “Ora, nel tornare indietro Gesù, la folla lo accolse; infatti erano tutti in attesa di lui”. Luca qui usa tre verbi particolari36 che descrivono da un lato il ritornare dei missionari dalla loro missione37 (“Øpostršfein38, ipostréfein, ritornare); dall'altro, la loro accoglienza39 (“¢pedšxato40, apodéxato, accolse) e la loro attesa festosa da parte delle comunità credenti (“prosdokîntej41, prosdokôntes, erano in attesa). Il lettore, pertanto è avvertito: quanto segue va letto nell'ottica missionaria. Tutto, infatti, come già si è detto, si muove all'interno di un viaggio dove Gesù è attorniato da folle che lo seguono, e incontra persone, che uscendo dal loro anonimato, testimoniano pubblicamente la loro fede nella potenza salvifica di Gesù (vv.4.47), fede che non sempre è bene accolta se non derisa (v.53). A questi non viene dato accesso al Mistero di Dio.


L'incontro di Giairo con Gesù (vv.41-42)

Il v.41 si apre con un “kaˆ „doÝ” (kaì idù, ed ecco), molto efficace poiché fa l'effetto di un sipario che si apre su di una scena e, narrativamente, accentra l'attenzione del lettore su quanto ora sta per accadere. Ciò che qui appare sulla scena è uomo, un notabile della città, un capo sinagoga, il cui compito si espletava in particolar modo durante il servizio liturgico nella sinagoga, mantenendone l'ordine, scegliendo coloro che guidavano la preghiera, accertandosi del minjan, il numero legale di dieci persone perché la preghiera pubblica fosse condotta validamente; sceglieva quelli che leggevano le Scritture e quelli che predicavano. Il suo nome, Giairo, è la forma grecizzata di quello ebraico Yair, letteralmente “Dio fa splendere, brillare”, quasi a preludere la luce della risurrezione, che investirà quest'uomo alla ricerca di Gesù e di una fede in lui. Questi, racconta Luca, riportando lo stesso verbo di Mc 5,22, cade ai piedi di Gesù. Il verbo qui riportato è “pptw” (pípto), che significa cadere, dando l'idea di un cadere pesantemente. Non si tratta, pertanto, di un atto di adorazione davanti a Gesù, ma descrive lo stato di prostrazione di quest'uomo, svuotato della sua vita, che ormai se ne sta andando insieme a quella della propria figlia; ma dice nel contempo anche tutta la sua fiducia in Gesù, rimettendosi completamente nelle sue mani. Gesù, infatti, ha rilevato la profondità della fede di quest'uomo e la sosterrà nel momento in cui essa sarà messa a dura prova dalla notizia della morte della figlia (vv.49-50). Matteo, contrariamente agli altri due sinottici, qui usa il verbo “proskunšw” (proskunéo), che sottolinea l'atto di adorazione di questo capo, di cui Matteo non riporta il nome, vedendo forse in questo anonimato tutti quei notabili giudei che hanno riconosciuto e accolto Gesù divenendone discepoli, come Nicodemo o Giuseppe d'Arimatea (Gv 19,38-40). L'uso dell'imperfetto indicativo che Matteo fa di questo verbo dice come questa “adorazione” di Gesù non fosse stata soltanto occasionale o di interesse, ma che questa continuava ne tempo, evidenziando una scelta esistenziale di questo uomo.

Con la perdita di sua figlia, Giairo sta perdendo il senso della propria vita; è un uomo disperato e “supplicava Gesù di entrare nella sua casa”. Luca è l'unico dei tre sinottici a presentare il capo sinagoga che supplica Gesù non di guarire sua figlia, ma di entrare nella sua casa. È questa la prima richiesta di Giairo. Certo, lì, nella sua casa, c'è lui, c'è sua moglie, c'è sua figlia. In ultima analisi c'è tutta la sua vita, che ormai si sta svuotando di ogni speranza e di ogni senso. Quel afflosciarsi davanti a Gesù esprime proprio questo senso di svuotamento. Ma se Gesù entra nella sua casa, nella sua vita, tutto può avvenire, tutto si rigenera, tutto acquista un altro senso e la vita si apre a nuovi orizzonti. I dodici anni di sua figlia dicono proprio questo. È per l'ebreo, questa, un'età importante, in cui si entra a far parte della vita adulta: è l'età del bar mitzvah, in cui il ragazzo e la ragazza assumono un ruolo importante nella vita religiosa della comunità; è l'età in cui la donna è pronta per formare una sua famiglia. Ma tutto questo, ora, non è più possibile, poiché la fanciulla “stava morendo”. Per questo Giairo si mette alla ricerca di Gesù e gli chiede di entrare nella sua casa, nella sua vita, che sta morendo, metafora, forse, di un giudaismo che non sa andare oltre ad una Legge, che sa imporre soltanto pesanti vincoli ingestibili e che opprimono la vita del vivere quotidiano (Mt 23,4). Luca precisa che questa fanciulla è “unigenita”, così come lo era il figlio della vedova di Nain (7,12), così come unico era quel figlio duramente provato dal demonio (9,38-43) e come lo era anche il Figlio del proprietario della vigna, che lo ha inviato ai contadini, nella speranza che i vignaioli avessero almeno rispetto di lui, ma senza alcun esito positivo, perché questi, portatolo fuori dalla vigna, lo uccisero (20,13-15a). È significativo questo insistere di Luca sul figlio unigenito, che viene duramente percosso dal diavolo e che muore, ma al quale viene poi ridata la vita. Un'insistenza che lascia trasparire da questo figlio unigenito, quasi in filigrana, la figura stessa di Gesù, che non solo è Figlio unigenito del Padre, ma è colto, nel racconto del centurione, come il Servo amato dal suo padrone, che richiama in qualche modo quel altro Servo, quello di Jhwh. Sarà, infatti, proprio con questa immagine del Servo sofferente di Jhwh, che inizierà il racconto lucano del lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51).

Il v.42 termina informando il lettore che Gesù ha intrapreso il cammino verso la casa di Giairo, intrappolato in mezzo ad una folla soffocante. Una semplice informazione che contrasta fortemente con la drammatica urgenza della situazione, in cui versava la figlia del capo sinagoga, che “stava morendo”. Il cammino di Gesù, pertanto, non poteva essere spedito, e la sua interruzione a motivo dell'emorroissa, che si era posta di traverso, creando un ulteriore inciampo, aveva aggravato la lo stato delle cose. Così la notizia della morte della fanciulla arrivò prima che Gesù giungesse presso la casa del capo sinagoga, rendendo vano qualsiasi intervento, per cui viene suggerito al padre di “non infastidire oltre il maestro”. Il non casuale rallentamento interposto tra la supplica di Giairo e la morte di sua figlia costituisce la dura prova a cui la fede de capo sinagoga è stata sottoposta, provocando da parte di Gesù il sollecito rivolto a Giairo: “Non temere, soltanto credi, e sarà salvata”. L'esortazione di Gesù punta a soppiantare i timori del nuovo cammino di fede intrapreso da Giairo, disseminato da molte incertezze e difficoltà, con la sola fede, libera da ogni timore, poiché ora egli sta camminando con Gesù. La meta di questo cammino è la salvezza, che consiste nella generazione di una nuova vita.

Al termine di questo lungo e difficile cammino di fede, in mezzo ad una folla che sembra renderlo difficoltoso e tale da fargli fallire la meta, Gesù opera un drastica selezione (v.51a): nella casa di Giairo non vi entreranno le folle che hanno intralciato questo cammino (v.42b); non vi entrerà chi deride la fede in Gesù, il suo potere di dare la vita (v.53); non vi entreranno neppure i discepoli, che in questo cammino di fede l'evangelista ha completamente oscurato, ma soltanto quelli prescelti da Gesù; quelli che si sono resi interiormente disponibili a lui, nonostante tutto: Pietro, Giacomo e Giovanni, i tre discepoli che Luca associa tra loro fin dall'inizio della loro sequela (5,10a) e che Gesù ha in qualche modo associato a sé nella manifestazione della sua gloria (9,28-36), così come ora li associa a sé nella manifestazione della sua potenza divina. Ed assieme a loro i genitori della fanciulla e con loro Gesù. Qui, in questa nuova comunità credente, fondata sulla fede nel Risorto, in questa nuova vita rigenerata dallo Spirito e nello Spirito, si manifesterà la potenza salvifica del Risorto, che ha vinto la morte, per questo essa non è che un sonno in attesa del risveglio, allorché la potenza dello Spirito rivestirà il credente di una nuova vita, rigenerandolo a Dio.

L'allusione qui alla risurrezione di Gesù è evidente. Compaiono, infatti, associati tra loro i due verbi che la richiamano; sono due verbi tecnici in uso presso le prime comunità credenti con cui ci si riferiva alla risurrezione di Gesù: “œgeire” (égheire, svegliati) e “¢nšsth” (anéste, si alzò); ma Luca qui aggiunge un altro richiamo alla risurrezione di Gesù. A riprova che essa è veramente tornata a vivere, “egli ordinò che le fosse dato da mangiare” (v.55b). Un aggiunta significativa quest'ultima, poiché si trova solo in Luca. Il terzo evangelista anticipa qui, in qualche modo, la scena di 24,41 dove di fronte a dei discepoli sbalorditi, impauriti e increduli, che lo avevano scambiato per un fantasma (24,37), ordina loro di dargli da mangiare, provando in tal modo la verità della sua risurrezione. Una realtà che non è eterea, inconsistente o evanescente, frutto di fantasie, ma concreta: “Vedete le mie mani e i miei piedi, poiché sono io stesso. Palpatemi e vedete, poiché uno spirito non ha carne ed ossa come vedete che io ho” (24,39). Il rimando, quindi, è storico, ad una corporeità vera.

Il v.56 conclude il racconto della figlia di Giairo in modo incongruente e incomprensibile. Se la prima parte del versetto riporta l'ormai nota reazione dell'uomo di fronte all'irrompere della potenza di Dio nella storia, così che “i suoi genitori furono colti da stupore”, la seconda parte del versetto lascia perplessi per l'ordine impartito da Gesù ai due genitori: “ma egli ordinò a loro di non dire a nessuno ciò che è accaduto”. Quale senso poteva avere un comando simile, considerato che lì, appena fuori casa, a soli pochi metri di distanza stazionava una folla, che si era raccolta per piangere la morte della fanciulla e deridere Gesù. La notizia si sarebbe risaputa immediatamente e si sarebbe diffusa per tutto il paese e la regione in un battibaleno. Quale senso dunque ordinare di non dire niente a nessuno. Ciò che qui il Gesù lucano intendeva dire non era quello di nascondere la risuscitazione della fanciulla, innascondibile, ma di non rivelare quella potenza divina che, da lui uscita, aveva investito la fanciulla restituendole la vita, svelando così solo a loro cinque la gloria della sua divinità, così come nel cap.9, quello immediatamente successivo a questo, egli manifesterà nuovamente la sua gloria proprio ai tre discepoli, qui presenti assieme ai genitori, Pietro, Giacomo e Giovanni. Anche là, come qui, Gesù opererà una selezione, rendendo partecipi del suo Mistero solo chi crede in lui. Solo la fede, dunque, aprirà il credente al Mistero di Dio rivelatosi in Gesù, gli altri ne verranno lasciati fuori. Una logica questa strettamente selettiva ed escludente, che regolamentava la vita dei credenti all'interno delle comunità primitive, per evitare che il Mistero fosse reso accessibile ai pagani, venendo deriso, calpestato, banalizzato e dissacrato. Il Gesù matteano detterà proprio questa regola ai suoi: “Non date ciò che è santo ai cani, né gettate le vostre perle davanti ai porci, affinché non le calpestino sotto i loro piedi e, rivoltandosi, vi squarceranno” (Mt 7,6).

La guarigione della donna con perdite di sangue (vv.43-48)

Note generali

Il racconto della donna colpita da continue emorragie si intreccia con quello di Giairo. Entrambi parlano di fede, ma da prospettive diverse: per il capo sinagoga la fede è un duro cammino di vita in cui la fede è continuamente provata ed ostacolata, così da essere sollecitato da Gesù a continuare a credere in lui, nonostante tutto, finché non giungerà a contemplare la gloria di Dio che rigenera a vita nuova sua figlia e con lei l'intera sua vita; per la donna emorragica, invece, la fede è incontro ed esperienza della potenza salvifica di Gesù; ed è il modo di accostarsi a lui che determina o meno la salvezza. Comunque sia questa fede, non deve mai rimanere ad un livello personale, ma risplendere e testimoniata davanti a tutti.

Il racconto si sviluppa in parallelismi concentrici in C), che costituisce la parte centrale del racconto dove si pone la questione fondamentale: la fede come esperienza salvifica di Gesù. Pertanto si avrà il seguente sviluppo:

  1. Presentazione di una donna disperata, per la quale ogni tentativo umano ha fallito (v43);

  2. l'occulto incontro con Gesù, guarisce e salva la donna (v.44);

  3. qual è il modo giusto per approcciarsi a Gesù e farne un'esperienza salvifica (vv.45-46);

   B1. la donna esce dal suo anonimato e rende pubblica la sua fede (v.47);

           A1. la fede salva la donna, prospettandole una vita nuova e rigenerata (v.48)

A) e A1) sono tra loro paralleli per contrapposizione, perché in A) viene presentata una donna gravemente ammalata, mentre in A1) la donna è risanata grazie alla sua fede; similmente, B) e B1) sono tra loro paralleli per contrapposizione, perché in B) il rapporto di fede della donna con Gesù è accuratamente nascosto nell'anonimato delle folle, mentre in B1) la donna è chiamata ad uscire dal suo anonimato e dare pubblica testimonianza alla sua fede. La lettera C) è posta centralmente ed è il punto convergente dell'intero racconto: per ottenere la salvezza è necessario rapportarsi con fede a Gesù.

Narrativamente il racconto si sviluppa in cinque quadri. Si tratta di cinque pennellate essenziali, sei versetti in tutto, per dipingere un dramma che si trasforma in salvezza, passando attraverso la fede:

Commento ai vv.43-48

Con il v.43 Luca introduce il racconto della donna affetta da continue emorragie e ne fornisce una sorta di quadro clinico deprimente. Si tratta di una donna che sta soffrendo di continue perdite di sangue da dodici anni e che aveva esperito diverse cure mediche, ma senza alcun risultato utile. Marco definirà significativamente la disgrazia che ha colpito questa povera donna con il termine “m£stix” (mástix), che significa frusta, flagello, sferza; uno strumento di tortura che, colpo dopo colpo, distrugge lentamente, ma inesorabilmente il corpo e la vita di quella donna. Ma la dolorosa condizione di questa donna non è soltanto fisica. Questa donna, infatti, non è affetta da un semplice flusso di sangue, ma il testo greco afferma letteralmente che “era in un flusso di sangue”. È, dunque, l'intera sua vita, sotto ogni aspetto, che è travolta da questa inarrestabile ondata di sangue: una vita posta sotto il segno di una impurità permanente (Lv 15,19-30), che la rendeva ritualmente impura, mentre la sua vita di relazione, a motivo di questa impurità contaminante, era inesistente. Ci si trova, dunque, di fronte ad una donna religiosamente e socialmente morta, in un corpo che, giorno dopo giorno, si andava distruggendo, mentre il suo patrimonio era completamente depauperato e quindi privata di ogni altra possibilità di cura. Ed è questa grave e drammatica condizione di vita, che le aveva precluso ogni futuro, che spingerà la donna ad intercettare Gesù sul suo cammino.

Il v.44 presenta una donna in azione, determinata a dare una svolta alla sua non-vita. L'apparizione della donna sul cammino di Gesù, diretto alla casa di Giairo, non è improvvisa o inaspettata, ma Luca lascia intendere in qualche modo che la donna si era già inframmischiata in mezzo a quella folla che stava soffocando Gesù (v.42b), per cui gli si avvicinerà da dietro alle spalle, di nascosto, cercando di estorcergli una guarigione a sua insaputa. Benché in mezzo alla folla come Giairo, l'altro suo compagno di sventura, rimane nascosta e cerca di dissimulare lo il suo rapporto con Gesù in mezzo alla calca, che lo stava opprimendo. Tutti lo stavano toccando e pigiando da ogni lato (v.45b) e di un tocco in più nessuno si sarebbe accorto, neppure lui. Due tipologie di fede a confronto: quella di Giairo pubblica: il suo è un camminare apertamente con Gesù, in mezzo a tutti, anche a quelli che lo deridevano; quella della donna, invece, è una fede nascosta, ridotta ad un mero fatto personale. Gli effetti di questo “toccare”, che dice l'esperienza salvifica di Gesù, sono comunque efficaci, poiché di autentica fede si tratta. Ma qui ciò che interessa all'evangelista, un missionario, un testimone per vocazione e di professione, non è tanto la fede, che viene data per scontata, visti gli esiti finali, ma la sua aperta testimonianza davanti a tutti e in mezzo alle genti. L'esperienza di fede, infatti, per quanto vada a toccare le corde più intime e profonde di una persona, non è mai soltanto un fatto privato, uno sbrigarsela tra se stessi e Dio, ma è un evento che non può rimanere nascosto, poiché in quella fede opera Dio e la tua vita è rigenerata, trasformata e tutti devono vedere che tu sei opera di Dio, poiché Dio non è soltanto il tuo Dio, ma il Dio e Padre di tutti. C'è, dunque, insita nella fede una componente missionaria ed apostolica, che non va mai nascosta, altrimenti la fede ne verrebbe in qualche modo sminuita se non inficiata. Il credo delle primitive comunità credenti, racchiuso in una formula di fede riportataci da Rm 10,9, evidenzia proprio questa duplice natura, pubblica e personale, della fede: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo”. La salvezza, pertanto, si ottiene soltanto se vi è un annuncio accompagnato da un'adesione di vita. La fede per produrre salvezza, pertanto, abbisogna non solo di una personale adesione esistenziale a Gesù, ma anche di un pubblico annuncio. Solo così “sarai salvo”.

Con i vv.45-46 si è giunti nel cuore del racconto, in cui viene messo a fuoco il tipo di rapporto che il credente deve avere con Gesù, perché questo sia efficace. Il toccare Gesù dice l'entrare in relazione con lui, il farne esperienza. Il toccare delle folle che seguono Gesù, figura di un discepolato ancora acerbo e avvolto nel suo anonimato, che vede in Gesù un semplice taumaturgo da cui spillare all'occorrenza un qualche tornaconto, è ben lontano dalla vera fede. È un toccare che soffoca Gesù (v.42b) e che lo infastidisce (v.45b), ma non crea nessun rapporto di comunione con lui. Una fede che il Gesù giovanneo detestava. Anche là, infatti, vi erano molte persone che seguivano e osannavano Gesù per i suoi miracoli, ma l'evangelista commenterà che “Gesù però non si fidava di loro” (Gv 2,23-25), per la loro superficialità. Diversamente, la donna non vede in Gesù un saltimbanco od un prestigiatore, ma l'unica via di salvezza per la sua vita. Lei no cerca di accaparrarsi i posti più vicini a Gesù, in prima fila, per vederlo meglio all'opera, ma si avvicina nascostamente, alle sue spalle; lo vuole ad ogni costo toccare perché è interiormente convinta che solo lui, dopo un lungo quanto inutile e dispendioso peregrinare tra uomini dotti e sapienti, può salvarla. Lo vede come un essere onnipotente; non serve neanche che lo supplichi o che ottenga la sua attenzione od approvazione. Lei crede fermamente in lui e lo tocca a sua insaputa. Ma il suo non era un tocco come quello degli altri, era il tocco della fede, quello che va diretto al cuore di Dio e non gli dà scampo. Il suo toccare Gesù, il suo incontrarlo, il suo farne esperienza salvifica per se stessa rientrava in un suo segreto piano, studiato nel suo cuore e Gesù ne rimane folgorato. Inizia qui un dialogo che mette in evidenza la vera natura della sequela e del vero credente. Come toccare Gesù, come farne esperienza, come entrare in comunione con lui. Gesù rileva che qualcuno lo ha toccato, un tocco che gli ha sottratto una potente energia. Tra la donna e Gesù si è venuta a creare un'immediata comunione generata dalla fede; i due sono diventati tra loro come una sorta di vasi comunicanti: da Gesù alla donna e da questa a Gesù. Si è stabilito un profondo legame, una comunione di vite. Questo è ciò che avviene nella fede, quando questa si fa esperienza di Gesù.

Il v.47 potremmo definirlo come il risveglio di una coscienza coscienza: “Ora, avendo visto la donna che non poté rimanere occulta”. Vi è qui una presa di coscienza da parte della donna. Quel suo toccare Gesù, quel suo entrare in comunione con lui e il venir rigenerata alla vita da lui; quella sua profonda esperienza di vita e di salvezza sente ora che non può più rimanere un fatto privato e personale. Con quel “chi mi ha toccato?” Gesù la stava interpellando e la sospingeva ad uscire dal suo anonimato, da una fede comoda e introspettiva e che era giunto il momento di staccarsi dalla folla e di dare pubblica testimonianza della sua fede e in qualche modo farsi discepola di Gesù. Si trattava per la donna di fare un salto di qualità ed ecco, tra titubanze, incertezze e timori,: “riferì davanti a tutto il popolo per quale motivo lo toccò e come fu immediatamente guarita”.

Con il v.48 si è giunti al termine del cammino spirituale e di fede di questa donna, portata a piena maturità da Gesù: da una fede personale e riservata ad una fede apertamente testimoniata davanti a tutti, che ha in se stessa il tratto missionario caratteristico di Luca.

Note

1Sulla composizione del racconto lucano cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 22-23

2Questo cap.8 di Luca è composto da Mc 4,1-23.35-41 e Mc 5,1-43 con un'aggiunta di Mc 3,31-35

3Cfr. 5,20-21.30.32.33; 6,1-2.6-7.11

4Grazie all'ampia rete viaria che facilitava gli spostamenti all'interno dell'Impero romano, alla comune lingua greca, la koinè, che unificava i popoli conquistati, e alla profonda crisi in cui versava il politeismo, la predicazione di una nuova religione, che si distingueva da tutte le altre per le nuove regole di vita fondate sull'amore e sul rispetto della persona, ha avuto rapidamente la meglio su di un sistema religioso ormai decotto. Si calcola, infatti che intorno al 300 d.C. la popolazione dell'Impero romano si aggirasse intorno ai 50 milioni di abitanti, di cui ben 10 milioni fossero cristiani, molti dei quali erano penetrati anche alla corte imperiale e rivestivano posti di responsabilità e di comando.

5La costituzione pastorale “Gaudium et Spes”, che offre una visione della Chiesa e della sua missione nel mondo e i suoi rapporti con questo, si apre con un titolo particolarmente significativo: “Intima unione della Chiesa con l'intera famiglia umana”, fatto seguire da un testo che sembra programmatico: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”.

6Esempi di questa primitiva predicazione si trovano in At 2,22-38; 3,12-19; 4,8-12.

7Cfr. Lc 8,2; 23,27.49.55; 24,5,22.24

8Il concilio di Calcedonia fu il quarto grande concilio della storia della Chiesa, che si tenne tra l' 8 di ottobre e il primo di novembre del 451 e fu convocato dall'imperatore Marciano (450-457 d.C.), sotto papa Leone Magno (440-461 d.C.). Ebbe diciassette sessioni, in cui si affermò la doppia natura, umana e divina, dell'unica persona di Gesù, condannando il monofisismo, sostenuto, invece, da Eutiche (378-451 d.C.), archimandrita di un convento a Costantinopoli. Questi affermava che in Cristo ci fosse la sola natura divina, in cui venne assorbita quella umana.

9Per un quadro più preciso di questo discorso ecclesiologico di Luca se ne veda il quadro sintetico del secondo capoverso del presente commento al cap.8.

10Sulla differenza tra i due termini, cfr. il commento al cap.5, pag.8 della presente opera.

11Cfr. anche Gb 40,25-41-26; Sal 73,14; 123,6

12Cfr. Lc 6,17a; 8,2

13Cfr. Sal 1,4; 10,6; 47,8; 102,16; 106,25; 148,8; Is 41,16; 57,13; Ger 4,11.1; 49,36; 51,1; Ez 5,10.12; 19,12; Dn 2,35; Os 4,19;13,15; Gn 1,4; 4,8;

14Cfr. Sal 31,6; 64,8.12; 65,12; 68,3.15-16; 87,18; 123,4-5; 143,7; Is 8,7; 17,13; 28,2; 30,20; 43,2; Ger 51,42; Ez 26,3; Ap 12,15-16;

15Cfr. Lc 4,14.37; 5,15; 7,17

16Cfr. Mc 4,1-9.14-20; Mt 13,1-9.18-23

17Il verbo khrÚssw” (kerísso) compare nove volte in Mt; quattordici volte in Mc e nove volte in Luca.

18Cfr. il secondo capoverso del presente commento, pag. 1.

19Cfr. Mt 13,10-17; Mc 4,10-12.33-34

20Cfr. 1Cor 1,10-13; 2Cor 11,4-5.13; Gal 1,6-7.9; 1Gv 2,18.22; 4,3; 2Gv 1,7

21Cfr. Mt 11,15; 13,9; 13,43; Mc 4,9.23; Lc 14,35

22Cfr. Es 23,21 Dt 4,1; 5,1.27; 6,3.4.; 9,1; 12,28; 20,3; 27,9; Sal 49,7; 77,1; 80,9;

23L'attributo “ribelli” o “ribelle” con riferimento all'ostinata opposizione di Israele al suo Dio, ricorre una settantina volte.

24L'espressione “dura cervice” riferito ad Israele ricorre nell'A.T. 11 volte e allude alla pervicace resistenza del popolo nei confronti di Jhwh

25Il passo citato, Is 6,9-10, è stato tratto dal racconto della chiamata di Isaia, che Dio voleva inviare al suo popolo, per scuoterlo dalla sua idolatria.

26Le distanze sono state rilevate da E.R. Galbiati – A. Aletti, Atlante storico della Bibbia e dell'Antico Oriente, ed. Editrice Massimo, Milano prima edizione 1983, pag.187

27Cfr. la voce “Gadara” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005

28Cfr. il termine Iarmuk in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005

29Cfr. F. Mayer – G.Ravasi, Il Giordano, un fiume tra i due Testamenti, Edizioni Paoline-Editrice SAIE, Cinisello Balsamo, 1989; pag. 220.

30Gadara oggi è chiamata Umm-Qeis, mentre Gergesa è indicata come Kursi. Il nome del fiume Iarmuk è rimasto sostanzialmente invariato: Yarmuk.

31Cfr. Cfr. F. Mayer – G.Ravasi, Il Giordano, un fiume tra i due Testamenti, Edizioni Paoline-Editrice SAIE, Cinisello Balsamo, 1989; pag. 221.

32Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici,Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

33Cfr. J. Mateos – F.Camacho, Vangelo : figure e simboli,ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1997, seconda edizione, pag.32

34Sulla resistenza di satana si cfr anche Mt 12,43-45; Lc 9,38-40; 11,24-26

35Cfr. Ap 9,1-2.11; 11,7; 17,8; 20,1-2

36Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992; III edizione 2001; pag. 305

37Cfr. At 8,25; 12,25; 14,21;

38Il verbo ricorre 35 volte nel N.T. di cui 32 nel solo Luca e soltanto altre volte in Gal 1,17; Eb 7,1; 2Pt 2,21

39Cfr. At 18,27; 21,17;

40Il verbo ricorre 14 volte nel N.T. di cui 7 volte in Luca e altre 7 volte in Rm 8,19.23.25; 1Cor 1,7; Gal 5,5; Fil 3,20; Eb 9,28

41Il verbo ricorre nel N.T. 16 volte di cui 11 in Luca e 2 volte in Mt 11,3; 24,50; 3 volte in 2Pt 3,12.13.14