IL VANGELO SECONDO LUCA

Gesù e Giovanni,
due identità a confronto:
rifiuto e accoglienza
(Lc 7,1-50)

Commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi


Note generali

Dopo l'insuccesso di Nazareth, da dove aveva iniziato la sua missione, presentandone il programma mutuato dal testo di Is 61,1-2, Gesù si era recato a Cafarnao (4,31) dove aveva riscosso un notevole successo (4,32.37.40-41) al punto tale che gli abitanti gli chiesero di rimanere con loro (4,42), ma Gesù prospettò loro il carattere universale della sua missione, che gli impediva di rimanere (4,43-44). A questo punto Luca crea una grande parentesi, una sorta di sospensione all'interno della sua narrazione, inserendo i capp.5-6 a sfondo squisitamente ecclesiologico, dove viene affermato il primato petrino (5,1-10), la formazione del primo gruppo di discepoli (5,11.27-28), la costituzione dei Dodici (6,12-16), le motivazioni che hanno spinto la chiesa primitiva a staccarsi dal giudaismo per formare un'entità a se stante (5,36-39), raccolta attorno ai Dodici, aperta alle genti (6,17-19), e la proclamazione dello statuto che delinea l'identità spirituale, morale ed etica di questa nuova comunità messianica (6,20-49). Terminato questo inciso ecclesiologico, Luca torna, ora, alla sua narrazione ripartendo da Cafarnao (7,1) nei cui dintorni vi rimarrà fino al cap. 9,50, con cui si chiuderà la sezione galilaica (4,14-9,50) e si aprirà con 9,51 la grande sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che durerà fino a tutto 19,28.

Il cap.7 è composto da tre parti:

  1. due racconti, uno di guarigione di un moribondo (vv.2-10) e uno di risuscitazione (vv.11-17), che formano in qualche modo da preambolo alla seconda parte, quella centrale, che inizia con un richiamo a questi due eventi prodigiosi (v.18a);

  2. la presentazione delle due identità: quella di Gesù (vv.18-23) e quella di Giovanni (vv.24-28) e le reazioni positive da parte del popolo e dei pubblicani (v.29); negative quelle da parte dei farisei e dei dottori della Legge (v.30), alle quali segue il giudizio critico di Gesù verso questi ultimi, che di fatto hanno respinto sia Giovanni che Gesù (vv.31-35);

  3. segue, a conclusione del cap.7, il racconto della donna peccatrice e del fariseo (vv.36-50), che drammatizza i vv.29-30 e 31-35: sono proprio loro, i pubblici peccatori, che ricevono il perdono, perché, riconoscendo la propria condizione di peccato, hanno saputo accogliere Gesù; contrariamente ai farisei e dottori della Legge, che invece hanno assunto nei suoi confronti un atteggiamento critico di chiusura e di rifiuto, sentendosi giusti e non bisognosi di giustificazione. A questo atteggiamento di autosufficienza e autogiustificazione da parte dei farisei e dottori Luca dedicherà la parabola dei due uomini saliti al tempio, contrapposti per la loro posizione sociale e per il loro altrettanto contrapposto atteggiamento nei confronti di Dio: fariseo il primo; pubblicano il secondo (18,10-14).

Un capitolo, dunque, semplice nella sua macrostruttura, composto da tre racconti che convergono verso la parte centrale, il vero obiettivo di Luca, e ad essa sono funzionali.


Commento ai vv.1-50

Testo a lettura facilitata

Chiusura del discorso delle beatitudini e transizione al cap.7

1 – Allorché compì tutte le sue parole nelle orecchie del popolo, entrò a Cafarnao.

Guarigione del servo del centurione (vv.2-10)

2 – Ora, un servo di un centurione, che gli era caro, avendo male, stava per morire.
3 – Ora, avendo sentito (parlare) su Gesù, gli inviò degli anziani dei Giudei pregandolo affinché, venuto, salvasse il suo servo.
4 – Giunti quelli da Gesù, lo chiamarono con solerzia dicendo che è meritevole che gli concedi questo;
5 – (egli) infatti ama il nostro popolo ed egli ci costruì la sinagoga.
6 – Ora Gesù andava con loro. Ma già quando egli non era molto lontano dalla casa, il centurione mandò degli amici dicendogli: <<Signore, non darti pena, poiché non sono degno che tu entri sotto il mio tetto;
7 – per questo non mi ritenni degno di venire da te, ma dì una parola e il mio servo sia guarito.
8 – Infatti, anch'io sono un uomo, posto sotto autorità, avendo sotto di me dei soldati; e dico a questo: vieni, e viene; e ad un altro: vai, e va; e al mio servo: fai questo, e fa>>.
9 – Ora, udite queste cose, Gesù si meravigliò di lui e rivolto alla folla che lo seguiva, disse: <<Vi dico che nemmeno in Israele ho trovato una così grande fede>>.
10 – E tornati alla casa quelli che furono mandati trovarono il servo guarito.

Risuscitazione del figlio della vedova di Nain (vv.11-15)

11 – E in seguito avvenne che andò in una città chiamata Nain e andavano con lui i suoi discepoli e una grande folla.
12 – Ora, quando si avvicinò alla porta della città, ed ecco un defunto, figlio unigenito, veniva portato al sepolcro (da) sua madre ed essa era vedova, e una numerosa folla della città era con lei.
13 – E vedendola, il Signore fu mosso a compassione per lei e le disse: <<Non piangere>>.
14 – E avvicinatosi toccò la bara; ora i portatori si fermarono, e disse: <<Giovinetto, dico a te, alzati>>.
15 – E il morto si mise seduto e incominciò a parlare, e lo diede a sua madre.

La reazione della gente alla risuscitazione (vv.16-17)

16 – Ora, un timore prese tutti e glorificavano Dio dicendo che un grande profeta si levò in mezzo a noi e che Dio visitò il suo popolo.
17 – E questa parola su di lui uscì in tutta la Giudea e in tutta la regione circostante.


Note generali

I due racconti provengono da due fonti diverse, il primo, la guarigione del servo del centurione (vv.1-10), da fonte Q e ha i suoi due paralleli in Mt 8,5-13 e in Gv 4,46-53; il secondo, la risuscitazione del figlio della vedova di Nain (vv.11-17), da materiale proprio di Luca. Due racconti all'apparenza, ma solo all'apparenza, diversi tra loro, ma in realtà tra loro sostanzialmente sovrapponibili l'uno all'altro. Molti, infatti i punti in comune: a) un uomo ed una donna; il primo un pagano, ma simpatizzante del giudaismo; la seconda una giudea; b) entrambi sono afflitti per il servo che sta per morire, il primo; per il figlio morto, la seconda; c) entrambi i casi sono disperati e hanno a che vedere con la morte; d) in entrambi i casi si tratta di persone molto care e con legami parentali e/o affettivi molto profondi; e) nel primo racconto protagonista è la fede di un pagano; nel secondo è la potenza della parola; f) nel primo racconto l'iniziativa è del centurione; nel secondo l'iniziativa è di Gesù, stupito per la fede di questo pagano, nel primo caso; mosso a compassione nel secondo. Benché i punti a), e), f) sembrino diversi in realtà sono tra loro complementari e per certi aspetti hanno un unico fondo che li accomuna: in a) c'è un uomo che si completa con un donna ed entrambi hanno a che fare con il giudaismo; in e) pur essendo diversi i modi per ottenere la salvezza, la fede del centurione e la parola di Gesù, unica è tuttavia la potenza che opera sia nell'una che nell'altra, quella di Dio. I due racconti presentano una gradualità di interventi: nel primo caso è sufficiente la fede, poiché il servo è ancora in vita; nel secondo caso si rende necessario l'intervento divino diretto per vincere la morte, poiché contro di essa l'uomo non può fare nulla; in f) benché nel primo l'iniziativa sia del centurione e nel secondo quella di Gesù, tuttavia in entrambi i casi al centro dell'azione ci sta l'ammirazione e la commozione di Gesù per la fede del pagano centurione; la compassione di Gesù per la vedova nel secondo racconto. In entrambi i casi Gesù opera sospinto da uno stato emotivo profondo, provocato da una forza spirituale nel primo caso; da una pietosa condizione umana nel secondo. Anche qui spiritualità e umanità si completano a vicenda.
Questo sostanziale doppione, di per sé qui non necessario all'economia narrativa1, è caratteristico di Luca e lo prova in particolar modo il secondo racconto, che proviene da materiale proprio dell'autore. Questi nella sua connaturata spinta al completamento e all'integrazione, in ultima analisi a creare uno stato di equilibrio armonico narrativo, che si apre ad una prospettiva universale, poiché tende ad abbracciare entrambi gli aspetti di una medesima situazione, come in questo caso i due protagonisti, uomo e donna, gradualità negli interventi, si trova nella necessità di inventarsi un racconto proprio che faccia da eco al primo.

Il cap.7 si apre con un versetto di transizione (v.1), poiché da un lato chiude il grande discorso che funge da proclama costitutivo dell'identità spirituale, morale ed etica della nuova comunità messianica (6,20-49); dall'altro introduce a un nuovi racconti con una nota di tipo geografico: Gesù “entrò a Cafarnao”. In realtà, sarebbe stato meglio dire che Gesù rientrò a Cafarnao, che in 5,43 aveva prospettato di lasciare per annunciare il regno di Dio anche alle altre città, e di fatto lasciò in 5,44.6,12. Un versetto, quindi, che sta dicendo al lettore che qui si sta girando pagina.

Guarigione del servo del centurione (vv.2-10)

Note generali

All'interno di questa nuova cornice geografica, Luca presenta il racconto della guarigione del servo del centurione, che, come si è già accennato sopra, ha i suoi paralleli in Mt 8,5-13 e Gv 4,46-53. Tre racconti che hanno lo stesso copione, ma elaborato in modi molto diversi tra loro dai rispettivi autori al punto tale da far pensare a incroci e fusioni di diversi racconti o tradizioni. Si tratta, a mio avviso, di un unico racconto, la cui fonte primaria è Matteo, da cui dipendono Luca e Giovanni. Tre sostanzialmente i motivi:

  1. il racconto di Matteo è scorrevole, logico e lineare nella sua dinamica, mentre in Luca diventa più difficoltoso e soffre di una forzatura nella doppia delegazione, di Giudei prima, di amici del centurione dopo; mentre in Giovanni del racconto matteano rimane soltanto l'idea, che poi elabora a modo proprio con una forzatura nel v.48, dove Gesù striglia duramente il funzionario del re, che lo invoca per salvare suo figlio. Francamente non se ne comprende la ragione;

  2. Matteo per indicare la persona ammalata usa il termine greco “pa‹j” (paîs), vocabolo equivoco poiché può significare fanciullo, figlio o anche servo. Luca lo interpreta come “servo”, ed usa, in modo più preciso e inequivocabile, il corrispondente greco “doàloj” (dûlos). Giovanni, invece, interpreta quel “paîs” come “figlio” ed usa il corrispettivo greco“uƒÕj” (uiòs). Servo e figlio, pertanto, sono due derivazioni del termine originale “paîs”, l'unico che poteva prestarsi a questa duplice e diversa interpretazione.

  3. Matteo non parla mai di servo/figlio che sta per morire, ma soltanto che è “paralitico in casa, terribilmente provato”. Saranno Luca e Giovanni a interpretare l'espressione come lo “star per morire”, forse per accentuarne la drammaticità e per meglio mettere in rilievo la potenza della parola di Gesù. La somiglianza tra Luca e Giovanni in questo punto, come in altre numerose parti dei loro vangeli e delle loro teologie, lascia intendere che probabilmente tra i due ci sia stato un qualche contatto, uno scambio di idee e, forse, anche di materiali. Un esempio si trova in Gv 8,3-11, dove viene riportato il racconto dell'adultera, che esula dalle logiche giovannee e il cui linguaggio è molto simile a quello di Luca. Tutto ciò non deve stupire, poiché Luca era un missionario e per questa sua attività di peregrinazione non è difficile che sia entrato in qualche modo in contatto con la comunità giovannea se non con lo stesso Giovanni, il quale, all'epoca della composizione del suo vangelo, si trovava stanziato ad Efeso.

Il racconto soffre, come si è accennato qui sopra, di una forte tensione nella doppia delegazione: la prima di giudei (v.3), la seconda di amici del centurione (v.6b). Si tratta di una macchinosa forzatura di Luca, probabilmente per rendere omaggio ad una particolare categoria di credenti provenienti dal paganesimo: i timorati di Dio, ai quali forse lo stesso Luca apparteneva. Ad essi, infatti, anche nei suoi Atti, dedica una particolare attenzione2. I timorati di Dio erano, da quanto si può percepire dal racconto degli Atti, numerosi e furono determinanti per la conversione dei pagani al cristianesimo o quanto meno la facilitò. Questi erano pagani, divenuti simpatizzanti del Giudaismo, credevano nel Dio di Israele, osservavano le prescrizioni giudaiche, frequentavano la sinagoga e leggevano la Torah, pur non appartenendo al popolo d'Israele, non essendo circoncisi3. Erano diversi dai proseliti e non vanno confusi con questi, che, invece, intendevano far parte del popolo ebraico e si sottoponevano alla circoncisione, segno distintivo ed elemento determinante di appartenenza al popolo dell'Alleanza, e parimenti eredi delle Promesse. Per i proseliti si trattava di una vera e propria conversione al Giudaismo.

Altro elemento stridente è l'assenza nel racconto lucano di qualsiasi parola o gesto di Gesù, che determini la guarigione del servo, la quale cosa, invece, compare sia nel racconto matteano (8,13) che in quello giovanneo (4,50). Sembra quasi che Gesù, tutto preso dalla fede del centurione, se ne sia scordato. Tuttavia afferma Luca che le due delegazioni, tornate a casa, trovarono il servo guarito. Manca quindi il passaggio di mezzo, tra la richiesta del centurione e la guarigione del servo: la battuta di Gesù che rassicuri il centurione della guarigione del suo servo. Una evidente dimenticanza di Luca, probabilmente tutto preso dalla laboriosa e complessa costruzione di questo racconto. Un'incongruenza, che risulta ancor più evidente se si pensa che il racconto è incentrato sulla potenza della parola di Gesù, messa maggiormente in rilievo dallo stesso centurione, che sviluppa un parallelismo tra l'autorevolezza della sua parola e quella di Gesù, tale da suscitare la meraviglia dello stesso Gesù, ma che alla fine viene a mancare.

Commento ai vv. 2-10

È singolare come, nel solo racconto lucano, il centurione non affronti direttamente Gesù, quasi ne voglia evitare il contatto, ma si serva della mediazione di ben due delegazioni per impetrare la guarigione del suo servo. Il motivo viene spiegato ai vv.6c.7a: il centurione non si sente degno di incontrare Gesù né di riceverlo a casa sua, percependo in qualche modo tutta la distanza che intercorreva tra lui e Gesù. Luca, quindi, rileva qui l'umiltà di questo ufficiale romano, la cui autorità viene messa in evidenza al v.8. Si tratta di un uomo buono, pio e religioso a modo suo, certamente un timorato di Dio, espressione questa con cui i Giudei definivano i simpatizzanti del Giudaismo, che guardavano con benevolenza (v.5) e con il desiderio di parteciparvi sia pur dall'esterno. Quest'uomo, pertanto, possiede già un suo senso del sacro e riconosce in Gesù l'impronta di Dio; ma ha nel contempo la coscienza della sua condizione di povertà e di indegnità: egli è un pagano e un invasore. Il suo atteggiamento di umiltà nei confronti di Gesù rassomiglia molto a quel pubblicano salito al tempio con il fariseo. Egli ha coscienza del suo essere peccatore e non osa neppure alzare gli occhi verso Dio, ma battendosi il petto, ne invoca il perdono, che gli viene largamente concesso (18,10-14).

Ciò che qui Luca descrive è il mondo dei pagani e dei peccatori e lo stato d'animo che devono sviluppare in loro stessi coloro che, desiderosi di aprirsi a Dio, riconoscendolo in Gesù, maturano nella coscienza la loro condizione di vita di peccato, ma come, proprio attraverso la potenza della Parola, questi possono rigenerarsi ad una nuova vita. Non lo possono fare da se stessi, ma sempre attraverso la mediazione di altri. Luca qui ne descrive due: quella del Giudaismo, delineando la figura del timorato di Dio, molto diffusa tra i pagani che avevano a che fare con il mondo del Giudaismo; e quella degli amici, con cui Luca indica quei credenti che si sono fatti vicini ai pagani e, per loro tramite, riescono a condurli a Gesù. Un termine questo, amici, con cui Gesù si rivolge ai suoi discepoli (12,4). Del resto, non si parla di “suoi amici”, cioè amici del centurione, ma semplicemente di “amici”. Questo probabilmente il doppio senso della delegazione, che funge da doppia via per giungere a Gesù, e che rispecchia la realtà della chiesa primitiva, conosciuta da Luca: chiunque desiderasse convertirsi doveva essere accompagnato e garantito da credenti certi. Nessuno poteva autocertificarsi.

Con il v.9 Luca fa pesare il suo apprezzamento per la raggiunta fede dei pagani, poiché se i giudeocristiani provenivano da un plurisecolare cammino di fede e di Tradizione, fondate sulla Promessa, sull'Alleanza, sulla Torah, sui Profeti e sulle attese del Messia, venendo in tal modo favoriti nel loro incontro con Gesù (Rm 9,4-5.30-32), per i pagani, invece, tutto giocava contro la loro fede e, pur tuttavia, essi, a differenza di gran parte di Israele, si sono aperti al messaggio della Verità e l'hanno fatto proprio accogliendolo nella loro vita: “Vi dico che nemmeno in Israele ho trovato una così grande fede”. Proprio per questo la fede degli etnocristiani viene definita “grande”. Un apprezzamento che innesca un confronto diretto tra Israele e il mondo pagano, che suona a condanna per il rifiuto di Israele e che in qualche modo anticipa e prelude il ben più pesante confronto e la ben più grave condanna annunciati in 13,28-30: “Là sarà il pianto e lo stridore dei denti, allorché vedrete Abramo e Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, ma voi gettati fuori. E giungeranno da oriente e occidente e da Settentrione e Mezzogiorno e saranno fatti sedere a mensa nel regno di Dio. Ed ecco sono ultimi quelli che saranno primi e sono primi quelli che saranno ultimi”.

Risuscitazione del figlio della vedova di Nain (vv.11-15)

Note generali

Un racconto singolare questo, che rispecchia lo stile di Luca, che ama i doppioni: al racconto dove protagonista era un uomo, legato da profondo affetto quasi paterno al suo servo, fa seguire, ora, quello di una donna, legata da profondo affetto materno al figlio; innesca, poi, una gradualità complementare tra i due racconti e fa seguire alla guarigione di un moribondo la risuscitazione di un morto4. Un racconto, come già si è detto, non necessario all'economia narrativa di questo cap.7, che trova il suo centro nella presentazione della doppia identità: quella di Gesù e del Battista (vv.18-23; 24-28). Un racconto che proviene da materiale proprio di Luca, ma forse è meglio dire di sua propria invenzione. Il racconto, infatti, è costruito principalmente attorno a due elementi, che lo stesso Luca suggerisce alla fine, facendo intervenire, a mo' di coro delle tragedie greche, la gente: “Ora, un timore prese tutti e glorificavano Dio dicendo che un grande profeta si levò in mezzo a noi e che Dio visitò il suo popolo”, a cui si aggiunge un terzo elemento complementare al v.13: “fu mosso a compassione per lei”. Il primo elemento, “un grande profeta”, rimanda alla fonte, da dove questo racconto è stato mutuato e con il quale ha forti somiglianze: la risuscitazione di un ragazzo, figlio di una vedova, operata dal profeta Elia (1Re 17,17-24); il secondo elemento, unitamente al terzo, rimanda a Lc 1,78, dove si parla di “viscere di misericordia del nostro Dio, nella quale ci visiterà un sorgere di sole dall'alto”. Questo ultimo richiamo fornisce il senso all'intero racconto.

Commento ai vv. 11-17

Il v.11 si apre con l'espressione redazionale: “E in seguito avvenne”, che dà continuità narrativa e temporale al racconto, legandolo in qualche modo a quello precedente. Ricompare qui il verbo caratteristico di Luca, “™gšneto”, con cui l'autore introduce i suoi racconti in cui si narra l'accadere della storia della salvezza nell'oggi dell'uomo. Un verbo questo che compare complessivamente 117 volte nei quattro vangeli, di cui 69 nove volte nel solo Luca. Un verbo, pertanto, significativo per l'autore.

Ciò che accade in seguito è un grande movimento in cui si riflette in qualche modo il cammino della chiesa: Gesù si sta muovendo e “andavano con lui i suoi discepoli e una grande folla”. Attorno a Gesù, dunque, si sta compattando il primo nucleo ecclesiale formato da suoi discepoli, cioè da coloro che hanno compiuto una definitiva scelta esistenziale a favore di Gesù; e da una grande folla, in cui possiamo raffigurare i simpatizzanti di Gesù, coloro che in qualche modo aderivano al suo insegnamento, visto che lo seguivano assieme ai discepoli, ma che forse ancora non avevano maturato la loro scelta definitiva e tale da farli annoverare nel gruppo dei discepoli. È la seconda volta che Luca associa i discepoli alla folla: la prima lo ha fatto nella grande spianata, quella delle beatitudini (6,17b); la seconda volta qui. Luca, pertanto, vede i discepoli come persone che provengono dalla folla e camminano insieme e in mezzo ad essa, ma ciò che li distingue è la loro adesione esistenziale a Gesù.

L'ampio corteo si sta dirigendo a Nain, una cittadina che si trova ad una quarantina di chilometri da Cafarnao e ad una quindicina da Nazareth. Si trova a Sud della Galilea e confina con la Samaria a sud e con la Decapoli a est.

Con il v.12 Luca crea il contesto storico-narrativo in cui porrà l'agire salvifico di Gesù: alle porte di Nain sta uscendo un corteo funebre composto da un ragazzino morto, figlio unico di una madre vedova, dalla stessa madre e da una folla, che lo accompagnava nel suo ultimo viaggio pieno di dolore e di sofferenza. Una donna profondamente segnata dalla vita e che le condizioni sociali dell'epoca ponevano all'ultimo gradino della collettività, priva di un qualsiasi supporto, di una qualsiasi difesa e alla mercé di sfruttatori e approfittatori. Non è un caso, infatti, se i profeti si scagliano nelle loro invettive contro coloro che opprimono l'orfano e la vedova5, le due categorie sociali più deboli, mentre nel loro soccorrerle un atto di conversione gradito a Dio (Is 1,17).

vv.13-14: Ci troviamo qui di fronte a due cortei: quello capeggiato da Gesù (v.11) e quello capeggiato da una bara (v.12). Un corteo di vita e uno di morte; uno sta entrando in città, l'altro ne sta definitivamente uscendo. Due movimenti uguali contrari; due realtà contrapposte, vita e morte s'incontrano tra loro come in un prodigioso duello6, che prelude in qualche modo all'evento pasquale. Un incontro destinato a cambiare radicalmente le sorti di quelle persone, travolte dalla morte, aprendo i loro cuori alla vita, che viene loro restituita dall'autore della vita stessa. Una triste sorte quella dell'uomo, che smuove le profondità dell'umanità stessa di Gesù, che qui da Luca viene indicato come il Signore, un titolo che viene attribuito a Gesù in epoca postpasquale. Il richiamo di questo specifico titolo in questo contesto di morte aggancia la risuscitazione del ragazzo alla stessa risurrezione di Gesù, riconosciuto qui come il Signore della vita e, capace, quindi, di rigenerarla, di donarla e di restituirla. A tal punto la scena del ragazzo morto, immerso nel dolore dei presenti, che sentono in loro stessi tutto il peso della morte, perde di individualità ed assurge in qualche modo ad una metafora della condizione di un'umanità segnata profondamente dalla morte, che ha la ventura di incontrare sul proprio cammino il Signore della Vita. I vv.13-14, infatti, si richiamano direttamente al racconto del “Buon Samaritano” (10,30-35), che è la figura stessa di Gesù, che vede lo stato drammaticamente pietoso in cui versa quel uomo incappato nei ladroni, metafora dell'uomo travolto dal peccato. Anche là, come qui, il Samaritano, passando nei suoi pressi, lo vede e ne prova compassione e gli si fa vicino e se ne prende cura, restituendolo alla vita. Sono gli stessi identici verbi; gli stessi identici movimenti che Gesù e il Buon Samaritano, compiono nei confronti di questa umanità tragicamente travolta dal peccato. In entrambi i racconti compaiono i tre verbi fondamentali (vv.13-14a; 10,33-34a), su cui girano entrambi i racconti: “vedendo” („dën, idòn), “provò compassione” (™splagcn…sqh, esplancníste), “si fece vicino” (proselqën, proseltzòn). Un'attenzione va posta sul verbo “™splagcn…sqh” che compare tre volte in Luca e sempre in contesti in cui è coinvolto l'intervento di Dio: qui, in 7,13, il cui soggetto è Gesù, che prova compassione verso l'uomo travolto dalla morte, che Paolo definisce come il pungiglione del peccato (1Cor 15,55-56), cioè la drammatica e tragica realtà, conseguenza del peccato; compare poi in 10,33, nel racconto del Buon Samaritano, dove anche qui Gesù prova una profonda compassione per quest'uomo ridotto in fin di vita, metafora di un'umanità travolta dal peccato; ed infine, in 15,20, nel racconto del Figliol prodigo, dove il Padre, nel vedere il figlio ritornare è preso da una profonda commozione. Tutti tre i verbi, quindi, hanno a che vedere con la pietosa quanto drammatica situazione della condizione umana. Un “™splagcn…sqh” che dice ben di più di una semplice compassione, poiché il verbo ha la sua radice in “spl£gcnon” (spláncnon) che significa “viscere”. La compassione, quindi, di Gesù, manifestazione di quella del Padre, non è un suo semplice moto sentimentale o emotivo, ma lo coinvolge nella profondità della sua stessa persona e dell'intero suo essere. Ciò che definisce questa compassione è una visceralità, che richiama qui i vv. 1,77-78: “per dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, per mezzo (delle) viscere di misericordia del nostro Dio, nella quale ci visiterà un sorgere di sole dall'alto”. Anche qui la misericordia di Dio, manifestatasi in Gesù, viene espressa nella sua profondità legandola alle “viscere” (spl£gcna, spláncna) stesse di Dio, per indicare come questa misericordia divina nasce e coinvolge le profondità stesse di Dio.

Il v.13 si apre con un verbo significativo: “vedendola”. È l'attenzione di Dio che viene posta sull'uomo e ne coglie la drammatica situazione di sofferenza e di dolore e decide di intervenire. Un aspetto questo, del vedere di Dio, da cui parte poi la storia di salvezza e in cui riecheggia Es 3,17: “Il Signore disse: <<Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze ...>>”. La prima reazione è che Gesù “fu mosso a compassione”. Il verbo qui è posto al passivo per indicare come Gesù subisce l'impatto di questo dramma sconvolgente e ne rimane coinvolto. Parte da qui il progetto divino della salvezza: recuperare l'uomo alla sua primordiale condizione di vita, condivisa con quella di Dio. La compassione dice il “cum patire”, cioè il condividere con l'uomo il suo stesso dramma di sofferenza e di morte. Dio, dunque, si fa vicino all'uomo. Ed è con questo verbo che si apre il v.14: “avvicinatosi”. Il verbo greco, qui tradotto con avvicinatosi, è reso in greco con “proselqën” (proseltzòn), che letteralmente significa “andare verso” qualcuno e, quindi, avvicinarsi. È dunque il Padre, che nel Figlio Gesù, va verso l'uomo, si avvicina a lui e ne condivide la sua drammatica sorte. Significativo è il gesto di Gesù, dopo essersi avvicinato, “toccò la bara”. La bara è il segno più eclatante della morte e Gesù non si limita ad avvicinarsi a questa, ma la tocca. Quel toccare la bara dice l'esperienza di morte che Gesù ha condiviso con gli uomini, rendendosi solidale con loro. Lui, come tutti gli uomini, ha subito le conseguenze della colpa originale: dolore, sofferenza ed infine la morte.

Ma se Gesù ha condiviso con gli uomini l'esperienza della morte, quale conseguenza del peccato, ora l'uomo è chiamato a condividere con Gesù l'esperienza della vita. Ecco, dunque, il comando: “Giovinetto, dico a te, alzati”. Inequivocabile quel “alzati”, reso in greco con “™gšrqhti” (eghértzeti), che con la sua pluralità di significati (destati, svegliati, alzati, risorgi) richiama da vicino la risurrezione di Gesù. Il verbo “gerw” (egheíro), infatti, è un verbo tecnico con cui la primitiva comunità credente designava la risurrezione di Gesù. La potenza della parola di Gesù si manifesta nell'immediata esecuzione del comando, che in qualche modo richiama il primordiale atto creativo, in cui al “dire” di Dio risponde il “così fu” della creazione, chiamata alla vita dalla potenza stessa della Parola: “E il morto si mise seduto e incominciò a parlare, e lo diede a sua madre” (v.13). Pertanto, ciò che la morte, quale atto distruttivo della creazione, ha decomposto, viene ora ricostituito in novità di vita.

Il v.16, similmente al coro delle tragedie greche, funge da commento all'evento portentoso; una sorta di cassa di risonanza: “Ora, un timore prese tutti e glorificavano Dio dicendo che un grande profeta si levò in mezzo a noi e che Dio visitò il suo popolo”. La presenza del timore dice che tra la gente vi fu la percezione del compiersi di un evento divino e, di conseguenza, il timore sfocia nella glorificazione di Dio. Si innesca, pertanto, attorno a questo evento portentoso una sorta di liturgia di lode e di ringraziamento, sia perché “Dio visitò il suo popolo”, sia per la presenza di “un grande profeta” escatologico. In quel “grande”, infatti, viene richiamata in qualche modo la figura di Elia, il profeta che sarebbe dovuto ritornare negli ultimi tempi e di cui Luca qui riproduce il miracolo della risuscitazione del figlio della vedova in Sarepta di Sidone. Una figura quella di Elia, associato alla vedova di Sarepta, che l'evangelista già aveva richiamato in 4,26; così come Gesù verrà talvolta identificato come Elia o ad esso associato (9,8.19.30.33). Se nell'espressione “grande profeta” riecheggia, quindi, in qualche modo la figura di Elia, che sarebbe ritornato alla fine dei tempi, nell'altra espressione, “si levò in mezzo a noi”, che accompagna la precedente, viene richiamato Dt 18,15.18, dove Dio promette a Mosè e al suo popolo di far sorgere in mezzo ad esso un profeta pari a Lui: “Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto” e similmente: “io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò”. Questo profeta, promesso da Dio a Mosè e al popolo, venne letto dal giudaismo come la promessa di un profeta di pari potere a Dio che si sarebbe manifestato negli ultimi tempi. Luca, pertanto, riconosce in Gesù quel profeta escatologico, di pari potere a Dio, vedendo in questi il Dio che ha visitato il suo popolo.

Il v.17 funge da eco amplificatore al v.16, che viene ripreso nell'espressione “E questa parola su di lui” e diffusasi “in tutta la Giudea e in tutta la regione circostante”, espressione questa caratteristica di Luca con la quale definisce l'intera Palestina7.


Le due identità: quella di Gesù (vv.18-23) e quella di Giovanni (vv.24-28)

Testo a lettura facilitata

Gesù delinea la sua identità (vv.18-23)

18 – E i suoi discepoli riferirono a Giovanni su tutte queste cose. E Giovanni, chiamati due dei suoi discepoli,
19 - inviò questi al Signore, dicendo: <<Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?>>.
20 – Ora giunti gli uomini da lui dissero: <<Giovanni Battista ci inviò a te dicendo: “Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?”>>.
21 – In quel momento guarì molti da infermità ed afflizioni e spiriti malvagi e gratificò molti ciechi con il vedere.
22 – E rispondendo, disse loro: <<Andando, annunciate a Giovanni le cose che vedeste e udiste: “I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati e i sordi odono, i morti risorgono, i poveri ricevono l'annuncio della buona notizia”.
23 – E beato colui che non è stato scandalizzato in me>>.

L'identità del Battista secondo Gesù (vv.24-28)

24 – Ora, andati via i messaggeri di Giovanni, incominciò a dire alle folle su Giovanni: <<Che cosa usciste a vedere nel deserto? Una canna scossa dal vento?
25 – Ma che cosa usciste a vedere? Un uomo vestito con morbidi vesti? Ecco quelli che sono in un abito pregiato e (in) mollezza, sono nei palazzi reali.
26 – Ma che cosa usciste a vedere? Un profeta? Si, vi dico, anche molto di più di un profeta.
27 – questi è colui di cui è scritto: “Ecco mando il mio messaggero davanti al tuo volto, il quale preparerà la tua via davanti a te”.
28 – Vi dico: nessuno è più grande di Giovanni tra i nati di donne; ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui>>.

La contrapposta reazione alle due identità (vv.29-30)

29 – E tutto il popolo che ascoltò e i pubblicani dichiararono giusto Dio, facendosi battezzare il battesimo di Giovanni;
30 – ma i farisei e i dottori della legge rifiutarono la volontà di Dio non facendosi battezzare da lui.

Il duro rimprovero di Gesù per la pervicace incredulità dei Giudei (vv.31-35)

31 – <<A chi, dunque, paragonerò gli uomini di questa generazione e a chi sono simili?
32 – Sono simili a dei fanciulli seduti in piazza e che dicono gli uni agli altri quelle cose che (il proverbio) dice: “Vi suonammo il flauto e non danzaste, ci lamentammo e non piangeste”.
33 – È venuto, infatti, Giovanni il Battista, che non mangia pane e non beve vino, e dite: “ha un demonio”.
34 - È venuto il figlio dell'uomo che mangia e beve, e dite: “ecco un uomo vorace e bevitore di vino, amico dei pubblicani e dei peccatori”.
35 – E la sapienza fu giustificata da tutti i suoi figli>>


Note generali

Questa ampia sezione (vv.18-35) costituisce il cuore del cap.7. Luca presenta qui le due identità: quella di Gesù, indicato come il messia che viene; e quella di Giovanni, il suo precursore. Due identità che vengono descritte con richiami scritturistici; Gesù con una miscellanea di citazioni tratte da Isaia, tutte poste in contesti messianici: 26,19; 29,18; 35,5-6 e 61,1. Un versetto quest'ultimo che già era stato ripreso da Gesù in 4,18, allorché, nella sinagoga di Nazareth, aveva presentato il proclama programmatico della sua missione; e Giovanni con Ml 3,1. Il riferimento alle Scritture dice come queste abbiano trovato il loro compimento sia in Gesù e che in Giovanni, fornendo in tal modo a questi due personaggi una solido titolo di veridicità e di credibilità. Questo servirà a Luca per giustificare il duro rimprovero di Gesù contro l'incredulità dei Giudei (vv.31-35), che hanno rifiutato sia lui che Giovanni, e che seguirà immediatamente la presentazione delle due identità.

La struttura di questa ampia sezione si snoda su quattro passaggi, già rilevati nella sezione “Testo a lettura facilitata”:

  1. L'identità di Gesù: è l'atteso messia che deve venire (vv.18-23);

  2. identità di Giovanni: è il messaggero inviato da Dio per preparare la venuta di Gesù (vv.24-28);

  3. la contrastante reazione alla presentazione di Gesù e di Giovanni (vv.29-30) costituisce il preambolo introduttivo alla pericope successiva (vv.31-35) e al racconto del fariseo e la peccatrice (vv.36-50);

  4. il duro rimprovero di Gesù per la pervicace incredulità dei Giudei (vv.31-35), che troverà poi il suo sviluppo narrativo nel racconto del fariseo e della peccatrice (vv.36-50).

Commento ai vv. 18-35

L'identità di Gesù: è l'atteso messia che deve venire (vv.18-23)

Il v.18a si apre creando una continuità narrativa e logica con i due racconti precedenti: “E i suoi discepoli riferirono a Giovanni su tutte queste cose”. Le cose che i discepoli di Giovanni riferiscono al loro maestro, tuttavia, vanno ben oltre ai due racconti, che fanno da riferimento immediato. L'espressione “tutte queste cose”, infatti, è una sorta di formula riassuntiva dell'intera attività di Gesù fin qui compiuta e si riferisce sia ai due racconti che a tutti gli eventi simili, come gli esorcismi, le numerose altre guarigioni, il perdonare i peccati, il sedersi a mensa con i pubblicani, le discussioni sul digiuno, le violazioni del sabato sia ad opera dei discepoli di Gesù che di Gesù stesso. Sono “tutte queste cose” che i discepoli riferiscono al loro maestro, che si trova prigioniero nella fortezza erodiana di Macheronte, nel sud della Perea, a circa 10-12 Km dal Mar Morto, per aver duramente e pubblicamente redarguito Erode Antipa sia perché questi conviveva con Erodiade, la moglie legittima di suo fratello Filippo, sia per altri suoi misfatti (3,19-20; Mt 14,3-4).

I vv.18b-20 lasciano intendere che Giovanni, pur rinchiuso nella fortezza erodiana, avesse, tuttavia possibilità di comunicare con i propri discepoli. La cosa è verosimile perché sappiamo da Mc 6,20 che Erode stimava molto Giovanni e nutriva per lui una sorta di sacro timore, non molto lontano dalla venerazione: “Erode temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri”. Non è escluso, pertanto, che Erode concedesse a Giovanni una prigionia mitigata, consentendogli la possibilità di incontrarsi con i suoi discepoli. Giovanni, pertanto, dà mandato a due suoi discepoli di interpellare Gesù se “Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?”. Questi ricevono quindi da Giovanni una investitura ufficiale (vv.18b.20): essi sono chiamati a dare testimonianza su di un evento che potremmo definire epocale, ma sul quale gravano dei dubbi, che vanno dipanati. Per questo, sottolinea Luca, Giovanni dette mandato a due suoi discepoli, poiché, secondo Dt 19,15, servono almeno due testimoni perché una testimonianza abbia valore legale. Questo particolare del “due” dice tutta l'importanza di questa delegazione e come la testimonianza di Gesù su se stesso abbia una valenza pubblica e, quindi, da prendersi in seria considerazione.

La questione che il Battista pone a Gesù rivela i dubbi che questi nutriva su di lui. Dubbi che nascono dalla diversa comprensione del Messia e della sua missione. La predicazione escatologica di Giovanni, infatti, differisce notevolmente dalla predicazione e dal comportamento di Gesù. Per Giovanni il Messia praticava un battesimo di Spirito Santo e fuoco (3,16); un battesimo carico della stessa potenza di Dio; capace di trasformare il credente e di ricollocarlo in Dio stesso. Ma il Dio che Giovanni annunciava era anche un Dio che portava con sé il suo terribile giudizio finale, poiché “Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile” (3,17). Un Dio che stava venendo, scosso da un'ira vendicatrice, a cui nessuno poteva sottrarsi e nessun titolo di merito poteva salvare, poiché già una scure era stata posta alle radici, pronta a giustiziare chi non si converte (3,7-9). Contrariamente alla predicazione di Giovanni, Gesù porta in mezzo agli uomini la stessa misericordia di Dio, che si manifesta nel perdono incondizionato dei peccati; nessuna condanna (Gv 3,17), ma siede a mensa con pubblicani e peccatori, prefigurando in questo il nuovo banchetto messianico; dichiara di essere venuto per questi; si lascia avvicinare e toccare dalle prostitute; dà un nuovo senso alla legge della purità, del digiuno e del sabato, ponendo al centro dell'attenzione l'uomo e non più Dio; predica amore e perdono per i nemici. Tutto questo per Giovanni è sconvolgente e inconcepibile, ben lontano dal Dio che egli aveva annunciato. Da qui il suo dubbio legittimo: “Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?”. L'espressione “colui che viene”, resa in greco con “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos) ricorre soltanto due volte in tutto l'A.T. e in entrambi i casi i contesti sono messianici (Sal 117,26; Ab 2,3). Un termine che potremmo definire fortunato poiché nel N.T., che l'ha mutuato dall'A.T., ricorrerà ben 26 volte e quasi sempre il riferimento è messianico. Giovanni, accanto all'uso tradizionale, ne farà anche un uso tutto suo particolare, riferendolo a Gesù come “colui che viene” dall'alto o dal Padre. Il termine messianico, quindi, trova nel quarto vangelo talvolta una sua trasformazione che va a precisare l'origine o la provenienza di Gesù8. Così, similmente, attribuisce l'espressione a Gesù, “il Profeta, colui che viene nel mondo” (Gv 6,14).

vv.21-23: La risposta di Gesù si articola in tre parti:

    1. dapprima egli fa parlare i fatti (v.21), beneficiando in quel momento numerose persone afflitte da diverse infermità, tra le quali quelle tormentate da spiriti malvagi. Una componente questa che ritorna quasi sempre nell'operare di Gesù, poiché essa dice come la venuta di Gesù sia finalizzata a scalzare il regno del Maligno per instaurare quello di Dio (11,20). Dio, pertanto, nel suo Figlio Gesù, è venuto a riprendersi ciò che gli apparteneva fin dai primordi dell'umanità e che Satana gli ha sottratto con l'inganno. Accanto agli indemoniati viene associata una seconda categoria significativa, quella dei ciechi, che fa parte del corredo messianico, come meglio verrà specificato al versetto successivo. Gesù si rivela in questa prima risposta quale Dabar del Padre, Parola che è Azione di Dio in mezzo agli uomini: “In quel momento guarì molti da infermità ed afflizioni e spiriti malvagi e gratificò molti ciechi con il vedere”. L'agire rigenerante e salvifico di Gesù, pertanto, si qualifica come un nuovo atto creativo tendente a ripristinare l'uomo nella sua originaria immagine e somiglianza di Dio, riportandolo in seno a Lui. Significativa è la contestualizzazione temporale “In quel momento”, che radica l'agire salvifico di Dio in Gesù nell'oggi dell'uomo.

    2. Il secondo livello di risposta (v.22) è verbale e rimanda direttamente all'autorevole testimonianza scritturistica. Si tratta di una miscellanea di citazioni tratte, in modo sparso, da Is 26,19; 29,18; 35,5-6 e 61,1 e il cui contesto di estrazione è messianico. Con queste citazioni si tende, pertanto, a inquadrare la figura di Gesù nell'ambito delle Scritture, assegnandogli la stessa autorità di Dio, che si è compiuta in lui. La persona di Gesù nonché la sua stessa missione, dunque, vengono radicate nelle Scritture e poste sotto la loro autorità.

    3. Il terzo livello di risposta è dato da una beatitudine dal sapore sentenziale e sapienziale, che sancisce la veridicità della Parola nel suo manifestarsi sia quale Azione del Padre che quale suo Verbo: “E beato colui che non è stato scandalizzato in me” (v.23). Beato e, quindi, appartenete alla sfera di Dio, l'unico vero Beato, è definito colui che non ha trovato in Gesù motivo di inciampo alla propria fede. Per comprendere il senso di questo detto è necessario contestualizzarlo all'interno delle richieste dei due discepoli di Giovanni, inviati dal loro maestro, dopo che gli furono riferite “tutte queste cose”, a motivo delle quali nel Battista sorgono dei dubbi sull'autentica identità di Gesù, così difforme dalla sua dura predicazione escatologica e così inaspettato. Tale detto, pertanto, suona come un rimprovero a Giovanni, che non ha saputo cogliere ed accogliere la novità di Dio manifestatasi in Gesù. Un rimprovero che si completerà al v.28, dove la figura di Giovanni, posta a confronto con il più piccolo del regno di Dio, che ha saputo invece accogliere Gesù, ne uscirà perdente.


L'identità del Battista secondo Gesù (vv.24-28)


Dopo aver presentato fattivamente (v.21) la propria identità di Messia inviato da Dio e preannunciato dalle Scritture (v.22), Gesù ora presenta quella del Battista. Lo fa attraverso una triplice doppia domanda dai toni retorici, che, presentando, di volta in volta, un'immagine metaforica, richiama per il suo contrario quella vera del Battista. Si tratta, dunque, di un gioco di contrasti con cui viene delineata la statura morale e spirituale di questo personaggio, nonché il senso della sua missione. Tre domande che sono sempre introdotte da una medesima domanda che interpella direttamente gli ascoltatori, quasi a voler risvegliare la loro attenzione e la loro coscienza: “Ma che cosa usciste a vedere?”. Quel “usciste a vedere” dice l'interesse che la gente provava per la figura del Battista. Ora Gesù interpella proprio questo interesse, perché la gente verifichi la sua sincerità: è semplice curiosità o un sincero richiamo alla conversione? L'ascoltatore, quindi, è chiamato a focalizzare interiormente ciò che lo spinge ad uscire fuori di sé. A questa domanda seguono tre precise domande su Giovanni, che si richiamano in qualche modo ad episodi noti nei racconti di Luca e della Tradizione evangelica circa la sua figura. Egli non è una canna scossa dal vento, una banderuola che segue l'onda del proprio tornaconto o la posizione che più gli si conviene, ma sfida apertamente e pubblicamente lo stesso Erode Antipa, che convive con Erodiade, la moglie di suo fratello Filippo, violando ogni principio morale e disposizione della stessa Torah (Lv 18,16), non risparmiandogli accuse per altre nefandezze (3,19-20); non è uno adagiato nelle mollezze della corte regale pronto all'adulazione, ma uno che vive nell'austerità e nella durezza del deserto, vestendo di pelle di cammello e nutrendosi di cavallette e miele selvatico (Mc 1,6; Mt 3,4). Tratti che delineano l'essenzialità della sua vita, tutta incentrata sulla sua missione di precursore di un Dio che sta per venire nella persona di un uomo, a cui egli non è degno neppure di slacciare i suoi calzari e che battezzerà con Spirito santo e fuoco (3,16), cioè con la stessa potenza di Dio, in cui il fuoco rappresenta il giudizio escatologico posto da Dio sull'intera umanità, prospettando nella venuta di questo uomo, venuto da Dio, l'inaugurazione dei tempi escatologici, in cui si instaura, già fin d'ora, il giudizio divino. Non è, infine, neppure un semplice profeta, come tanti ce ne furono in passato, ma un uomo inviato da Dio (Gv 1,6); un uomo la cui figura e missione Luca definisce ricorrendo a Ml 3,1, già fatto riecheggiare in 1,76 e in 1,14, dove il Precursore era stato paragonato ad Elia, richiamandosi a Ml 3,23-24, che così va a completare la citazione di Ml 3,1. Anche per Giovanni l'autore ricorre a citazioni scritturistiche, per radicarne la figura e la missione nelle Scritture, che in qualche modo lo avevano preannunciato. Tutto dunque, sia per Gesù che per Giovanni, si muove secondo un piano salvifico, la cui trama era già intessuta nelle Scritture stesse.

Il v.28 chiude la presentazione della figura del Battista e della sua missione, innescando un confronto tra Giovanni e il più piccolo nel regno di Dio. Non si tratta soltanto di un confronto tra due persone, ma prevalentemente di due tempi completamente diversi tra loro, a cui loro appartengono. Giovanni apparteneva al mondo di profeti, un mondo che stava preparando la venuta del Messia e Giovanni fu il più grande di tutti quelli che appartenevano a questo mondo, poiché egli è stato il prescelto da Dio per annunciare la venuta di suo Figlio. L'ultimo profeta, il più grande, perché la sua figura traccia il confine tra l'Antico e il nuovo Testamento. Lo ricorderà lo stesso Luca in 16,16: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora il regno di Dio è annunciato e ognuno si sforza per esso”. Due tempi, benché unici e continuativi tra loro, hanno tuttavia una valenza completamente diversa. E quanto sia diversa lo dimostra l'altro termine di paragone: “ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui”. La seconda parte del v.28 si apre con la particella avversativa “ma”, che contrappone il Battista e il suo tempo, quello della Promessa e della preparazione, al nuovo tempo, in cui questa Promessa è stata compiuta ed è caratterizzato dalla presenza del regno di Dio. Per questo il più piccolo che vi appartiene è anche il più grande.

Le diverse e contrastanti reazioni di fronte alle due identità (vv.29-30)

Fin qui Luca e Matteo hanno seguito sostanzialmente la comune fonte Q. Ora, Mt 11,12-15, riporta in un'unica pericope tutti quei detti che Luca ha diversamente dislocato all'interno del suo vangelo, così che Mt 11,12-13 si trova sintetizzato in Lc 16,16, mentre Mt 11,14 è ripreso da Lc 1,17, che riporta per intero Ml 3,23-24, soltanto menzionato da Matteo, forse perché per i suoi ascoltatori giudei non era necessaria l'intera citazione di Ml 3,23-24, che ben conoscevano, contrariamente a quelli lucani, di provenienza pagana. Quanto a Mt 11,15, “Chi ha orecchi ascolti”, Luca non lo riporta espressamente, ma forse è proprio questo detto che gli suggerisce come iniziare la pericope in esame: “E tutto il popolo che ascoltò”.

I vv.29-30 sono entrambi di esclusiva redazione lucana e introducono sia la pericope del rimprovero di Gesù (vv.31-35) che il successivo racconto del fariseo e la peccatrice (vv.36-50), che funge da esemplificazione alla pericope del rimprovero. Due versetti che contrappongono due diverse reazioni di fronte all'apparire dell'evento salvifico preannunciato in Giovanni e attuatosi in Gesù: da un lato c'è chi lo accoglie; dall'altro chi lo respinge. Risuonano qui le parole che Simeone aveva indirizzato a Maria a riguardo del bambino Gesù: “Ecco questi è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e a segno contraddicente” (2,34).

Il v.29 è scandito in tre parti consequenziali l'una all'altra e tracciano di fatto lo sviluppo del cammino della salvezza: si parte dall'elemento fondamentale per ogni conversione: l'ascolto accogliente della Parola; si giunge a riconoscere la giustizia e la fedeltà di Dio, per poi accettare il battesimo, qui, di Giovanni, quale atto penitenziale e momento di inizio di un cammino di conversione, che porterà poi ad accogliere la Parola di Gesù e quindi giungere alla pienezza della salvezza. Due sono i protagonisti del v.29: il popolo e i pubblicani. Le due categorie che abbracciano l'intera umanità. Il popolo, qui, è quello di Israele, quella parte, almeno, che decise apertamente o nel proprio cuore di aderire a Gesù, come accadde per Nicodemo, che Gv 19,39-40, verso il termine del suo racconto, associa a Giuseppe d'Arimatea, membro autorevole del Sinedrio (Mc 15,43a; Lc 23,50), divenuto discepolo di Gesù, ma di nascosto per paura dei Giudei (Gv 19,38a); mentre i pubblicani, da un lato, sono quella parte reietta di Israele che invece qui accoglie Gesù; dall'altro, in quanto peccatori, sono i rappresentanti del mondo pagano, a cui erano assimilati dai benpensanti del Giudaismo.

Il v.30 presenta la seconda categoria di persone, che, invece, non si limita a contrastare l'evento di salvezza compiutosi in Giovanni e in Gesù, ma lo rifiutò. Luca usa qui parole molto dure, inusuali per lui, un greco, che non ha mai mostrato il dente avvelenato contro il Giudaismo, proprio perché non ne era membro. Ma qui sembra fare un'eccezione: “ma i farisei e i dottori della legge rifiutarono la volontà di Dio non facendosi battezzare da Giovanni”. Perché questo accanimento? Un giudizio molto pesante se si pensa che questi versetti provengono da Luca stesso. Lo sitz-im-leben probabilmente è quel mondo pagano, a cui è rivolto il vangelo lucano, e che, come i Giudei, rifiutava di convertirsi. Un rifiuto, dice qui Luca, che è rivolto contro la volontà di Dio, pregiudicando in tal modo la propria salvezza.

Il rimprovero di Gesù per la pervicace incredulità del mondo giudaico (vv.31-35)

Il rifiuto di Gesù e di Giovanni da parte delle autorità religiose giudaiche denunciato al v.30, provoca ora il duro rimprovero di Gesù (vv.31-35), che mette allo scoperto la loro pervicace incredulità e quella di “tutti gli uomini di questa generazione”, che come loro si ostinano a non credere. Il rimprovero, pertanto, assume toni universali.

Il v.31 si apre con un’esclamazione rivolta alle folle, alle quali Gesù sta parlando (v.24): “A chi, dunque, paragonerò gli uomini di questa generazione e a chi sono simili?”. L’espressione “questa generazione” o “quella generazione” o semplicemente “generazione” si trova negli scritti neotestamentari 30 volte e assume quasi sempre connotazioni negative riferite all’incredulità. Essa viene mutuata dall’A.T., in cui, con senso negativo e sempre con riferimento all’incredulità e all’infedeltà dell’Alleanza, compare 7 volte9. Tale espressione, pertanto, esprime un giudizio negativo che, prima Jhwh, e ora Gesù pongono sull'incredulità.

Preceduto da questo preambolo negativo, viene ora denunciato il comportamento incoerente dei giudei: “Sono simili a dei fanciulli seduti in piazza e che dicono gli uni agli altri quelle cose che (il proverbio) dice: “Vi suonammo il flauto e non danzaste, ci lamentammo e non piangeste”. L’allegoria è presa da un gioco di bambini, probabilmente molto conosciuto all’epoca, considerato che qui ne viene riportata la citazione senza alcuna spiegazione. Si trattava, probabilmente, di una sorta di mimo, mutuato dal contesto dei matrimoni o delle feste, in cui al suono del flauto si danzava; o dai funerali in cui si elevavano pianti e grida di dolore. Pertanto, un gruppo di bambini si divideva in due parti, la prima mimava il suono dei flauti o il canto funebre; la seconda parte doveva indovinare che cosa stessero interpretando i primi e, a loro volta, dovevano rispondere mimando le danze o il pianto funebre. Non sempre veniva indovinata la recita mimata dai primi, per cui questi si prendevano gioco dei secondi dicendo loro che avevano suonato il flauto, ma loro non avevano danzato; oppure, avevano cantato un canto funebre, ma loro non avevano risposto piangendo. Ed ecco ora il riferimento alla realtà: Giovanni e Gesù fanno parte del primo gruppo dei bambini che cantano, ora, il canto funebre, in cui si ravvisa il comportamento ascetico e la dura predicazione escatologica del Battista, ma i giudei, facenti parte del secondo gruppo di bambini, anziché conformarsi ad una vita di penitenza, hanno preferito definire Giovanni come un indemoniato, cioè uno fuori di testa10; ora, suonano il flauto, in cui viene raffigurato Gesù, che mangia e beve con i peccatori (Lc 5,29-30; Mt 9,9-11), espressioni queste che raffigurano la gioia messianica del banchetto, ma i giudei anziché associarsi a tale gioia, hanno preferito definire Gesù un crapulone, frequentatore di gente di bassa lega, quali erano i peccatori e i pubblicani. In entrambi i casi il secondo gruppo di bambini, i giudei, hanno sempre dato delle risposte sbagliate.

A tal punto, mentre il racconto di Matteo prosegue ancora per altri cinque versetti con una veemente invettiva contro l'incredulità dei giudei, che viene posta sotto un giudizio di condanna (Mt 11,20-24), Luca preferisce chiudere il suo racconto con una visione più positiva e conforme alla sensibilità greco-ellenista, per la quale la chiusura matteana sarebbe stata del tutto incomprensibile: “E la sapienza fu giustificata da tutti i suoi figli”. Questa sentenza, che ha il suo parallelo in Mt 11,19b, si ricollega con quel “kaˆ” (kaì, e) ai vv.33-34 e si contrappone ad essi, per cui mentre i giudei, chiusi nella loro incredulità e impermeabili ad ogni annuncio e ad ogni segno, hanno rifiutato sia Giovanni che Gesù, coloro che invece li hanno accolti ne danno testimonianza. Viene in tal modo a crearsi una sorta di inclusione cristologica con il v.29, dove popolo e pubblicani accolgono in Giovanni l'evento salvifico da lui annunciato e si convertono. Questi sono diventati i figli della sapienza, cioè generati dal disegno di Dio manifestatosi in Gesù (1Cor 1,24.30), di cui, con la loro accoglienza, danno testimonianza; anzi la loro scelta esistenziale a favore della sapienza manifestatasi in Gesù, loro stessi sono divenuti testimonianza di questo evento salvifico. Significativa è l'espressione “tutti i suoi figli”, dove in quel “tutti” sono ricompresi non solo i giudeocristiani, ma anche gli etnocristiani, assegnando pertanto all'intera sentenza una valenza universale.

Una sentenza questa lucana che si discosta leggermente da quella matteana, rilevando una diversa prospettiva tra i due. Mentre Matteo afferma che “la sapienza fu giustificata dalle sue opere” (11,19b), Luca modifica in “la sapienza fu giustificata da tutti i suoi figli”. La prospettiva di Luca è chiaramente ecclesiologica, poiché vede nei figli di questa sapienza coloro che hanno aderito al progetto salvifico del Padre rivelatosi in Gesù; Matteo, invece, rivolge il suo invito ai Giudei a considerare l'evento Gesù secondo la sua parola e i suoi segni, che danno testimonianza sia del suo messianismo che della sua origine divina. Dalle opere di Gesù, attraverso le quali egli si manifesta quale inviato del Padre, quindi, i Giudei dovrebbero trarre le loro conclusioni.

Il fariseo e la donna peccatrice (vv.36-50)

Testo a lettura facilitata

Il contesto narrativo (v.36)

36 – Ora, uno dei farisei lo pregava affinché mangiasse con lui; ed entrato nella casa del fariseo, si coricò.

Presentazione di due contrapposti personaggi (vv.37-39)

37 – Ed ecco una donna che era una peccatrice nella città, e accortasi che (Gesù) stava a tavola nella casa del fariseo, avendo portato una vaso di alabastro di profumo
38 – e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo incominciò a bagnare con le lacrime i suoi piedi e con i capelli della sua testa (li) asciugò e baciava i suoi piedi e (li) ungeva con il profumo.
39 – Ora, avendo visto il Fariseo, che lo aveva chiamato, disse in se stesso, dicendo: <<Se questi fosse un profeta, saprebbe chi e di che razza (è) questa donna, che lo tocca, poiché è una peccatrice>>.


Preambolo metaforico ai vv.44-50

40 – E rispondendo disse Gesù verso di lui: <<Simone ho qualcosa da dirti>>. Egli: <<Maestro, parla>>, affermò.
41 - <<Uno, creditore, aveva due debitori: uno era debitore di cinquecento denari, l'altro di cinquanta.
42 – Non avendo loro da restituire, ad entrambi fu condonato. Chi di loro, dunque, lo amerà di più?>>.
43 – Rispondendo Simone disse: <<Penso che (sia colui) al quale fu condonato di più>>. Egli gli disse: <<Giudicasti rettamente>>.

Due comportamenti a confronto (vv.44-47)

44 – E voltatosi verso la donna, disse a Simone: <<Vedi questa donna? Entrai nella tua casa, non mi desti l'acqua per (i) miei piedi, ma lei con le lacrime bagnò i miei piedi e (li) asciugò con i suoi capelli.
45 – Non mi desti (il) bacio; lei, invece, dacché entrai non cessò di baciare (i) miei piedi.
46 – Non ungesti il mio capo con olio; essa, invece, unse i miei piedi con profumo.
47 – A motivo di ciò, ti dico: le sono rimessi i suoi molti peccati, poiché molto amò; a colui che, invece, è rimesso poco, poco ama>>.

Il perdono dei peccati (vv.48-50)

48 – A lei, invece, disse: <<Sono rimessi i tuoi peccati>>.
49 – E i commensali incominciarono a dire tra loro: <<Chi è costui che rimette anche i peccati?>>.
50 – Ma rivolto verso la donna, disse: <<La tua fede ti ha salvato; va in pace>>.


Note generali

Un racconto, quello del fariseo e della peccatrice perdonata, alquanto complesso, frutto dell'inventiva dell'autore, che ha fatto un laborioso collage di materiali già esistente nella tradizione evangelica e lo ha riadattato al suo racconto, corredandolo con frasi fatte, già presenti nel suo vangelo. Almeno tre gli elementi più evidenti, che Luca ha attinto da diverse fonti e attorno ai quali a costruito il suo racconto:

  1. il racconto della donna che unge Gesù con olio profumato, riportato in Mt 26,6-13, Mc 14,3-9 e Gv 12,1-8 nel contesto della passione. È significativo, infatti, come Luca, che segue molto da vicino Marco, non l'abbia riportato in tale contesto, derogando dalla Tradizione evangelica. Non si è trattato di una semplice svista né di una diversa visione cristologica, ma semplicemente per non creare un doppione. Luca, dunque, sapeva che quel racconto lì era collocato tradizionalmente alla vigilia della passione, ma ha preferito giocarselo altrove. La prima parte del racconto del fariseo e della donna, pertanto, è stato mutuato da Luca dagli altri tre evangelisti, dandogli una diversa collocazione. Che si tratti dello stesso racconto è evidente dal contesto comune a tutti in cui è stato posto: quello della cena; stesso è il nome del padrone di casa, Simone, che Mc 14,3a e Mt 26,6 definiscono come “il lebbroso”, ma che Luca, per esigenze di copione, definisce come “il fariseo”; diverso, invece, per Gv 12,3a, Gesù si trova presso la casa di Lazzaro, e la donna che unge Gesù è Maria, sorella di Marta e Lazzaro; mentre per Matteo e Marco il nome e la fama della donna sono anonimi; per Luca, sempre per esigenze di copione, questa assume l'identità di una pubblica peccatrice. Per tutti si tratta di un unguento profumato, contenuto per tutti tre i sinottici in un vasetto di alabastro. Per Marco e Matteo la donna versa l'olio profumato sul capo di Gesù, Luca si associa qui a Giovanni, in cui Maria unge i piedi di Gesù. Perché questa scelta? Probabilmente sia perché la donna lucana è ripresa presso i piedi di Gesù, che stava bagnando con le sue lacrime, asciugando con i suoi capelli e baciandoli; sia perché glielo suggeriva e consentiva lo stesso racconto giovanneo, che Luca doveva conoscere. Non v'è dubbio quindi, che il racconto della donna che unge Gesù sia lo stesso per tutti gli evangelisti.

  2. Il secondo elemento che Luca ha attinto per comporre il suo racconto è la parabola del creditore, che aveva due debitori (vv.41-42). Una simile parabola si ritrova in Mt 18,23-34, dove compaiono due debitori con debiti enormemente sproporzionati tra loro, diecimila talenti il primo, cento denari il secondo. In entrambi i casi vi era una incapacità di saldare il proprio debito; in entrambi i casi il contesto è quello del perdono. Luca deve essersene imbattuto nella comune fonte Q ed averla completamente rimaneggiata, mutuandone soltanto l'idea. Sono infatti le uniche due parabole, molto simili tra loro, che si ritrovano in tutta la tradizione evangelica. Difficile farle risalire ad una pura casualità.

  3. Ed infine, i vv.48-49 sono sostanzialmente identici a 5,20-21, mentre il v.50 lo si ritrova praticamente identico in 8,48; 17,19 e 18,42.

Un racconto, quindi, che è stato costruito a tavolino pezzo per pezzo e che, proprio per questo, soffre di qualche tensione interna. Non si comprende come nel bel mezzo di un pranzo privato possa capitare all'improvviso nella casa di un fariseo una nota prostituta. La presenza di una simile donna, pubblica peccatrice, avrebbe resi ritualmente impuri tutti i presenti e la stessa abitazione, senza contare lo scandalo che ne sarebbe seguito: una prostituta nella casa di un fariseo! Nessuno ha saputo fermarla prima? Eppure Simone, il fariseo, nel vederla non batte ciglio, ma si limita a porre in dubbio la natura profetica di Gesù, mentre la prostituta viene completamente ignorata. Gesù, poi, accusa il fariseo di non aver espletato il rituale di accoglienza nei confronti dell'ospite, come il bacio della pace, il lavargli i piedi o il profumargli il capo. Rituale, si badi bene, che non era obbligatorio, ma soltanto un gesto di cortesia e di riguardo nei confronti di un ospite di rilievo o particolarmente gradito. Non si capisce perché Gesù lo debba accusare di non aver fatto un qualcosa che il fariseo non era tenuto a fare, anche se questa accusa serviva a Luca per creare un confronto tra il benpensante puro e ligio fariseo con la donna peccatrice. Ma è inutile chiedere a Luca del perché di queste piccole incongruenze, poiché non si tratta di un reportage cronachistico dell'epoca, ma di un racconto che Luca ha creato dal nulla con un laborioso assemblaggio di unità letterarie, mutuate da diverse fonti, per meglio mettere in evidenza i suoi intenti squisitamente cristologici.

Una nota va poi spesa su di un'altra incongruenza, che mette in rilievo una manipolazione tardiva del testo lucano da parte di terzi sconosciuti o forse dallo stesso Luca: la peccatrice viene perdonata dei suoi peccati, perché ha molto amato (v.47), ma il racconto conclude invece che è la fede che l'ha salvata. È probabile che il racconto originale di Luca si chiudesse con il v.47, sia perché questo concorda bene con la parabola del creditore e i due debitori (vv.41-42), mentre nulla hanno a che vedere con questi i vv.48-50; sia perché la chiusura della parabola regge bene anche senza questi ultimi versetti, i quali, come si è sopra rilevato alla lettera “c”, sono stati costruiti mutuandoli da testi lucani; sia perché questi ultimi tre versetti creano una stonatura con il resto del racconto. Perché, dunque, sono stati aggiunti? Probabilmente perché la peccatrice, protagonista di questo racconto, che già era stata perdonata al v.47, era stata lasciata dall'autore ai vv.37-38. Trattandosi di un perdono di peccati e della misericordia di Dio riversata su questa donna, probabilmente è sembrato opportuno chiudere il racconto con l'attenzione perdonativa di Gesù rivolta a lei. Non va escluso inoltre che l'aggiunta sia stata fatta per armonizzare la chiusura di questo racconto con quella di altri racconti lucani simili, come quello della donna che soffriva di perdite di sangue (8,43-48) o dei dieci lebbrosi (17,12-19) o del cieco di Gerico (18,35-42).

La struttura del racconto, molto elaborata, è scandita in cinque parti, che possono essere rilevate nella sezione del “Testo a lettura facilitata”:

    1. Il contesto narrativo (v.36)

    2. Presentazione di due contrapposti personaggi (vv.37-39)

    3. Preambolo metaforico ai vv.44-50 (vv.40-43)

    4. Due comportamenti a confronto (vv.44-47)

    5. Il perdono dei peccati (vv.48-50)


Commento ai vv.36-50


Il contesto narrativo (v.36)

Il contesto in cui Luca colloca questo racconto è un pranzo, dove un fariseo ed una peccatrice, assieme a Gesù, saranno gli attori principali. Non era inconsueto che un qualche rabbi venisse invitato a mensa da persone che lo ammiravano, per ricavarne qualche consiglio o un qualche chiarimento o per un approfondimento, dopo averlo sentito parlare, o più semplicemente per averne prestigio11 (11,37). Il banchetto era il luogo preferito degli incontri e, passo dopo passo, Luca lascia intendere come questo banchettare di Gesù insieme a pubblicani e peccatori (5,29; 15,2), ma anche con farisei (7,36; 11,37; 14,1), prefigurava in qualche modo un altro banchetto, quello messianico, dove tutti indistintamente, riconciliati tra loro in Gesù (Ef 2,14-16), farisei o peccatori che fossero, sono chiamati a sedersi a tavola con lui a condividere con lui la vita divina12. Il banchetto diviene pertanto il luogo dell'incontro e del confronto con Gesù, il luogo della riflessione e del ripensamento, il luogo della riconciliazione e della condivisione, che prefigura quello definitivo (22,29-30). Gesù stesso si farà pane e vino; lui stesso si farà banchetto per tutti, dove Dio e gli uomini si ritrovano nuovamente riconciliati tra di loro, così che Dio torna ad essere nuovamente tutto in tutti, com'era nei primordi della creazione e dell'umanità (1Cor 15,28). Ed è proprio ciò che avviene in questo racconto, contestualizzato all'interno di un banchetto: esso diviene il luogo della riflessione e del ripensamento per il puro fariseo (vv.40-47) e nel contempo il luogo del perdono e della riconciliazione per la peccatrice (vv.48-50); un banchetto dove tutti, fariseo e peccatrice, convergono e si ritrovano in Gesù.

Presentazione di due contrapposti personaggi (vv.37-39)

Il racconto si apre con un “kaˆ „doÝ” (kaì idù, ed ecco), narrativamente molto efficacie, poiché incentra l'attenzione del lettore su ciò che sta per accadere. Stranamente il racconto qui non comincia con il verbo molto caro a Luca “™gšneto” (eghéneto, avvenne), che ricorre ben 69 volte nel suo vangelo e scandisce l'accadere dei tempi della salvezza. È probabile che qui l'autore, considerata la laboriosità della costruzione di questo racconto, così complesso e composito, se ne sia soltanto dimenticato.

La pericope presenta, ben caratterizzate, due contrapposte figure: da un lato una pubblica peccatrice, conosciuta nella città, dove Gesù era ospite in casa del fariseo; dall'altro il fariseo, che osserva ciò che sta facendo la donna entrata in casa sua, ma stranamente non interviene e il suo moto è soltanto interiore, non rivolto alla peccatrice, forse una prostituta, ma a Gesù, di cui mette in dubbio la sua vera natura di profeta. Nessuno dei due parla: la prima agisce, il secondo pensa; la prima, pentita e commossa, abbraccia i piedi di Gesù, bagnandoli con le sue lacrime, asciugandoli con i suoi capelli, baciandoli e profumandoli con olio; vede in lui una sorta di ancora di salvezza e di ritrovato senso della vita e, ancor prima, della propria dignità; il secondo, per contro, assume un atteggiamento critico nei confronti di Gesù, sminuendolo nella sua dignità. Due personaggi rivolti entrambi verso Gesù, ma vanno in contrapposte direzioni. La donna accoglie in se stessa Gesù, abbracciandolo con la sua vita, di cui lacrime, capelli e baci sono una metafora. Il fariseo, chiuso nelle sue sicurezze ne prende le distanze. Una donna che Luca, sia pur in modo velato e quasi impercettibile, la presenta come una discepola di Gesù. Il v.38, infatti, inizia in modo enigmatico, ma significativo, con l'espressione “st©sa Ñp…sw par¦ toÝj pÒdaj aÙtoà” (stâsa opíso parà tùs pódas autû, stando di dietro presso i suoi piedi). Un'espressione questa che definisce la posizione della donna nei confronti di Gesù: essa è colei che sta dietro a Gesù, presso i suoi piedi. La posizione questa caratteristica dei servi nei confronti dei loro padroni: “Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona, così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi” (Sal 122,2). L'idea che ne nasce è quello dei servi che stanno accovacciati ai piedi dei propri padroni, guardando le loro mani e pronti ad eseguine gli ordini ed esprime un atteggiamento di fedeltà, di fiducia e di sottomissione. La donna, tuttavia, non sta solo presso i piedi di Gesù, ma anche dietro di lui. Posizione questa espressa dall'avverbio Ñp…sw, che ricorre 26 volte nei vangeli ed indica la posizione del discepolo nei confronti del maestro: egli sta dietro al suo maestro. Un avverbio che definisce, quindi, la sequela del discepolo. È la prima volta che questo avverbio compare nel vangelo di Luca e appare proprio qui, riferito ad una donna di malaffare, per indicarne una sequela caratterizzata, con quel “presso i suoi piedi”, dal servizio, dal suo rendersi disponibile a Gesù; così come per la prima volta nel racconto lucano compare, similmente, una chiamata diretta di Gesù, rivolta a Levi, anche questi pubblico peccatore, anche questa caratterizzata dal servizio (5,27-28). Il verbo “¢kolouqšw” (akolutzéo), con cui Gesù chiama Levi, parla di una sequela che si fa servizio. Esso significa seguire, andare assieme, accompagnare, lasciarsi guidare, e come sostantivo, “¢kÒlouqoj” (akólutzos) significa servo, schiavo, inteso come colui che segue il suo padrone per servirlo. Luca, pertanto, vede in quella donna peccatrice, che abbraccia con la sua vita Gesù, con profondo slancio pieno di emozioni, una discepola che si pone al suo servizio, così come lo fu per Levi. Non è un caso, infatti, che il racconto venga fatto immediatamente seguire da Luca da 8,1-3 dove viene presentato un Gesù che sta annunciando la buona novella del Regno di Dio accompagnato dai Dodici e assieme a loro diverse donne che gli avevano dedicato la vita per servirlo.

Preambolo metaforico ai vv.44-50 (vv.40-43)

La pericope contiene, da un lato, la risposta alla critica del fariseo nei confronti di Gesù, introdotta dall'espressione “E rispondendo disse Gesù verso di lui”. Ciò che sorprende non è tanto il fatto che Gesù si rivolga a Simone, ma la sottolineatura di quel “rispondendo”, quasi che il fariseo l'avesse criticato apertamente davanti a tutti, anziché nel segreto del suo animo. Gesù, dunque, sa leggere nei pensieri e nell'animo degli uomini, dimostrando in tal modo al fariseo non solo l'erroneità della sua valutazione, cioè che Gesù non fosse un profeta, ma anche come egli ben sapesse chi fosse quella donna e come sapesse leggere nel suo cuore così come ha saputo leggere nel cuore e nel pensiero del fariseo. Dall'altro, questa pericope prepara il materiale per la controcritica di Gesù nei confronti del fariseo e lo fa chiamandolo in causa in prima persona e incitandolo a decidere lui, a sua insaputa imputato, su di un caso che lo vede coinvolto nella metafora, e il giudizio che egli emetterà gli si torcerà contro. Un procedimento che richiama da vicino quello del profeta Natan contro la prepotenza omicida di Davide, che fece uccidere Uria l'Hittita per appropriarsi di Betsabea, sua moglie (2Sam 12,1-10). Gesù si rivolge al fariseo chiamandolo per nome: “Simone, ho qualcosa da dirti”. Si tratta di una sorta di convocazione a giudizio e la chiamata per nome dice fin da subito come il fariseo sia implicato in tale giudizio, che non emetterà Gesù, ma lo stesso imputato. Gesù qui si limiterà a fornire i termini della causa da sottoporre a Simone.

I vv.41-42 presentano una parabola, come si è detto sopra (pag.17), per diversi aspetti molto simile a quella di Mt 18,23-35, ma la prospettiva è completamente diversa: la morale di Matteo è che per chi è stato perdonato è d'obbligo perdonare, poiché ciascuno subirà da Dio la stessa sorte che questi avrà fatto subire a suo fratello. Un concetto questo che ritornerà anche nella formula del Padre nostro: “rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12). Il perdono sarà concesso nella misura in cui si sarà dato. Per Luca, invece, qui è importante la risposta che proviene a livello esistenziale da parte dei due perdonati nei confronti dell'unico creditore: l'amore, che sarà più o meno intenso in proporzione al proprio debito condonato o forse è meglio dire dell'esperienza di perdono fatta.

Vi sono, quindi, due debitori con debiti diversi, anche se non così vistosamente diversi ed enormemente sproporzionati come in quelli del racconto matteano: solo 500 denari l'uno e 50 l'altro. Un denaro equivaleva all'incirca ad una giornata di lavoro di un operaio (Mt 20,2). Il rapporto qui è di uno a dieci, incalcolabile in quello di Matteo. Unico è il creditore per entrambi. Il creditore qui è Dio, i debitori sono la peccatrice, rappresentata dal debito di 500 denari, e lo stesso fariseo, che nonostante si ritenesse giusto aveva anche lui il suo debito, sia pur inferiore a quello della peccatrice, definito in 50 denari, poiché di fronte a Dio nessuno può ritenersi giusto, ma tutti sono bisognosi di giustificazione (Rm 3,23). Benché questo non fosse l'insegnamento principale, tuttavia, rientra anche questo nel paniere della parabola. Ciò che qui interessa a Gesù è la risposta dei due debitori: entrambi rispondono in modo corretto al loro creditore, amandolo con riconoscenza, ma diversa sarà la profondità di questo loro amore, poiché diverso è il debito condonato. Su questo verrà incentrata l'attenzione di Simone e dello stesso lettore di Luca, implicitamente chiamato anche lui a dare il suo giudizio. È questo, infatti, il senso delle parabole, coinvolgere il lettore e, in qualche modo, costringerlo a prendere posizione: “Chi di loro, dunque, lo amerà di più?”. Il verbo qui usato dall'autore per indicare l'amore è “¢gap£w” (agapései), un verbo alquanto appropriato, esso significa accogliere con amore, trattare amorevolmente e con affetto, aver caro. Un verbo che definisce il rapporto che si instaura tra i due debitori con il proprio creditore; un rapporto che affonda le proprie radici nella vita stessa dei due creditori, benché ben diversa ne sia la profondità. Un verbo questo che in Giovanni definisce il reciproco rapporto tra il Padre e Gesù e tra Gesù e i suoi discepoli. Agapáo, pertanto, acquista qui una valenza particolarmente spirituale e definisce rapporti superiori e molto diversi da quelli che intercorrono tra gli uomini. Qui ci si pone su di un livello divino-umano, in cui l'umano perdonato fa l'esperienza del divino perdonante. In greco, infatti, vi sono altri due verbi che definiscono l'amare, quale particolare rapporto tra persone: eráo, che ha attinenza con l'amore fisico; e filéo, più elevato, che ha a che vedere con il sentimento e le emozioni e definisce un rapporto di amicizia; agapáo, invece, interpella lo spirito e dice come in questa esperienza di perdono la peccatrice faccia la sua esperienza di Dio, sconvolgente e tale da dedicargli poi tutta la sua vita in una sequela di servizio e di amore.

Due comportamenti a confronto (vv.44-47)

L'attenzione di Gesù passa ora da Simone alla donna e dà inizio ad un serrato confronto tra il fariseo e la donna: il fariseo nei confronti di Gesù ha mancato di alcune regole della buona accoglienza nei confronti dell'ospite. Il Gesù lucano qui ne elenca tre: all'ospite veniva offerta dell'acqua per lavarsi i piedi. Una norma più igienica che di cortesia. Le strade all'epoca erano polverose e quando pioveva ci si infangava. Non vi erano scarponcini che proteggevano il piede, ma soltanto sandali. I piedi pertanto erano molto esposti. Era, poi, buona norma accogliere l'ospite nella propria casa con il bacio della pace, che gli diceva come egli fosse il benvenuto tra i suoi abitanti; mentre l'olio profumato, che talvolta veniva cosparso sul suo capo, era solo un gesto per dirgli quanto egli fosse particolarmente gradito. Non è pensabile che il fariseo avesse ignorato tutte quante queste forme di cortese accoglienza nei confronti di Gesù, la cui fama doveva essere ormai ben conosciuta e affermata, anche se controversa13. Tuttavia, esigenze di copione dovevano presentare queste mancanze del fariseo, che esce perdente dal confronto con la peccatrice, che riversa sui piedi di Gesù, senza formalità alcuna, tutta se stessa: lacrime, capelli, baci e profumo, esprimendo con ciò il suo grande amore per lui e ponendosi al suo servizio. Ed è proprio questo suo amore (“A motivo di ciò” v.47a), espresso con questi gesti di dedizione di se stessa, che le merita il perdono per una vita passata nel peccato.

Il v.47 chiude il racconto in modo sentenziale: “le sono rimessi i suoi molti peccati, poiché molto amò; a colui che, invece, è rimesso poco, poco ama”. Una sentenza che qui assume toni universali ed ha un occhio di riguardo nei confronti dei peccatori, termine questo che designa il mondo dei pubblicani, delle prostitute, ma anche dei pagani; mentre denuncia la freddezza del mondo giudaico nei confronti di Gesù, poiché era un mondo che si riteneva giusto (18,10-14) e per questo Dio non aveva molto spazio. L'amore di cui qui il Gesù lucano parla non riguarda sentimenti od emozioni, ma l'atteggiamento di apertura e accoglienza nei suoi confronti, cosa che invece non ha saputo fare il giudaismo Per questo il Gesù matteano accuserà, rivolto alle autorità religiose giudaiche: “vi dico che i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio. Venne a voi Giovanni nella via della giustizia, e non gli credeste; i pubblicani e le prostitute , invece, gli credettero. Ma voi, pur avendo visto, non vi siete pentiti per poi credergli.” (Mt 21,31b-32)

Il perdono dei peccati (vv.48-50

Era sufficiente il v.47 per chiudere il laborioso racconto del fariseo e la peccatrice. Già lì veniva detto che la peccatrice era stata perdonata per l'amore dimostrato a Gesù. Non erano necessari questi ulteriori tre versetti, che sono una stonatura e stridono con il v.47. Qui infatti si parla di perdono per l'amore profuso dalla peccatrice; in 48-50 si parla di perdono che invece essa ha ottenuto per fede. Certamente sono versetti aggiunti successivamente e suonano qui come una forzatura, ma consentono alla redazione finale di chiudere questo racconto con un ultimo sguardo e un'ultima parola rivolti alla peccatrice. Dalle parole di rimprovero rivolte al fariseo, ora Gesù passa a quelle di perdono, che confermano di fatto un perdono già concesso al v.47, là ottenuto per amore, qui per fede. In entrambi i casi si sottolinea l'apertura esistenziale della peccatrice a Gesù. Una remissione di peccati che crea stupore scandalizzato, come è avvenuto nel racconto del paralitico (5,20-21) e che ha come movente unico la fede, la piena fiducia e abbandono del peccatore nei confronti di Gesù.


N O T E

1I due racconti sono finalizzati a scuotere i discepoli di Giovanni, che vanno a riferire al loro maestro quanto stava accadendo (v.18a). Era sufficiente il primo, avvenuto a Cafarnao, peraltro riportato sia da Matteo che da Giovanni, per giustificare la reazione dei giovannei; anche perché il secondo intervento di Gesù avviene a Nain, che dista da Cafarnao circa una quarantina di Km, per cui è da pensare che i discepoli di Giovanni o erano ovunque o stavano seguendo Gesù. Il secondo racconto, quindi, crea in un certo qual modo una forzatura narrativa, anche perché Luca ha dovuto reperirlo da materiale proprio o comunque crearlo con propria inventiva.

2Cfr. At 10,1-2.22; 13,16.26; 16,14-15; 18,7

3Sulla questione dei timorati di Dio cfr. la voce “Timorati di Dio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

4Cfr. in merito al doppione pag.3 del commento al presente cap.7

5Cfr. Is 1,17.23 10,2; Ger 5,28;7,6; 22,3; 49,11; Bar 6,37; Ez 22,7;

6L'immagine del duello tra vita e morte è stata tratta dalla seconda strofa della sequenza pasquale: “Morte e vita si sono battute in prodigioso duello il Signore della vita, morto, vivo trionfa”.

7In tal senso cfr. anche Lc 4,44; 6,17; 7,17; At 2,9; 10,37; 15,1; 21,10

8Gv 3,31; 6,46; 11,27

9Cfr. Nm 32,13; Dt 32,5.20; Sal 77,8; 94,10; Ger 2,31; 7,29;

10L’espressione “DaimÒnion œcei” (Daimónion échei, ha un demonio), riferita a Giovanni, non va intesa in termini di possessione demoniaca, ma corrisponde al nostro “essere fuori di sé”, con riferimento ad         un comportamento che si distacca dalla normalità o dalle nostre attese

11Cfr. 5,25; 11,37; 14,1. Cfr. anche O. da Spinetoli, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi 1999.

12Cfr. 13,29; 14,15-24; 22,28-30

13Cfr. Lc 4,14.37; 5,15; 7,17