IL VANGELO SECONDO LUCA
Gesù
e Giovanni,
due
identità a confronto:
rifiuto
e accoglienza
(Lc
7,1-50)
Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
Note
generali
Dopo
l'insuccesso di Nazareth, da dove aveva iniziato la sua missione,
presentandone il programma mutuato dal testo di Is 61,1-2, Gesù si
era recato a Cafarnao (4,31) dove aveva riscosso un notevole successo
(4,32.37.40-41) al punto tale che gli abitanti gli chiesero di
rimanere con loro (4,42), ma Gesù prospettò loro il carattere
universale della sua missione, che gli impediva di rimanere
(4,43-44). A questo punto Luca crea una grande parentesi, una sorta
di sospensione all'interno della sua narrazione, inserendo i capp.5-6
a sfondo squisitamente ecclesiologico, dove viene affermato il
primato petrino (5,1-10), la formazione del primo gruppo di discepoli
(5,11.27-28), la costituzione dei Dodici (6,12-16), le motivazioni
che hanno spinto la chiesa primitiva a staccarsi dal giudaismo per
formare un'entità a se stante (5,36-39), raccolta attorno ai Dodici,
aperta alle genti (6,17-19), e la proclamazione dello statuto che
delinea l'identità spirituale, morale ed etica di questa nuova
comunità messianica (6,20-49). Terminato questo inciso
ecclesiologico, Luca torna, ora, alla sua narrazione ripartendo da
Cafarnao (7,1) nei cui dintorni vi rimarrà fino al cap. 9,50, con
cui si chiuderà la sezione galilaica (4,14-9,50) e si aprirà con
9,51 la grande sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che
durerà fino a tutto 19,28.
Il
cap.7 è composto da tre parti:
due racconti, uno di guarigione di un moribondo (vv.2-10) e uno di risuscitazione (vv.11-17), che formano in qualche modo da preambolo alla seconda parte, quella centrale, che inizia con un richiamo a questi due eventi prodigiosi (v.18a);
la presentazione delle due identità: quella di Gesù (vv.18-23) e quella di Giovanni (vv.24-28) e le reazioni positive da parte del popolo e dei pubblicani (v.29); negative quelle da parte dei farisei e dei dottori della Legge (v.30), alle quali segue il giudizio critico di Gesù verso questi ultimi, che di fatto hanno respinto sia Giovanni che Gesù (vv.31-35);
segue,
a conclusione del cap.7, il racconto della donna peccatrice e del
fariseo (vv.36-50), che drammatizza i vv.29-30 e 31-35: sono proprio
loro, i pubblici peccatori, che ricevono il perdono, perché,
riconoscendo la propria condizione di peccato, hanno saputo
accogliere Gesù; contrariamente ai farisei e dottori della Legge,
che invece hanno assunto nei suoi confronti un atteggiamento critico
di chiusura e di rifiuto, sentendosi giusti e non bisognosi di
giustificazione. A questo atteggiamento di autosufficienza e
autogiustificazione da parte dei farisei e dottori Luca dedicherà
la parabola dei due uomini saliti al tempio, contrapposti per la
loro posizione sociale e per il loro altrettanto contrapposto
atteggiamento nei confronti di Dio: fariseo il primo; pubblicano il
secondo (18,10-14).
Un capitolo, dunque, semplice nella sua macrostruttura, composto da tre racconti che convergono verso la parte centrale, il vero obiettivo di Luca, e ad essa sono funzionali.
Commento
ai vv.1-50
Testo a
lettura facilitata
Chiusura
del discorso delle beatitudini e transizione al cap.7
1
– Allorché compì tutte le sue parole nelle orecchie del popolo,
entrò a Cafarnao.
Guarigione
del servo del centurione (vv.2-10)
2
– Ora, un servo di un centurione, che gli era caro, avendo male,
stava per morire.
3
– Ora, avendo sentito (parlare) su Gesù, gli inviò degli anziani
dei Giudei pregandolo affinché, venuto, salvasse il suo servo.
4
– Giunti quelli da Gesù, lo chiamarono con solerzia dicendo che è
meritevole che gli concedi questo;
5
– (egli) infatti ama il nostro popolo ed egli ci costruì la
sinagoga.
6
– Ora Gesù andava con loro. Ma già quando egli non era molto
lontano dalla casa, il centurione mandò degli amici dicendogli:
<<Signore, non darti pena, poiché non sono degno che tu entri
sotto il mio tetto;
7
– per questo non mi ritenni degno di venire da te, ma dì una
parola e il mio servo sia guarito.
8
– Infatti, anch'io sono un uomo, posto sotto autorità, avendo
sotto di me dei soldati; e dico a questo: vieni, e viene; e ad un
altro: vai, e va; e al mio servo: fai questo, e fa>>.
9
– Ora, udite queste cose, Gesù si meravigliò di lui e rivolto
alla folla che lo seguiva, disse: <<Vi dico che nemmeno in
Israele ho trovato una così grande fede>>.
10
– E tornati alla casa quelli che furono mandati trovarono il servo
guarito.
Risuscitazione
del figlio della vedova di Nain (vv.11-15)
11
– E in seguito avvenne che andò in una città chiamata Nain e
andavano con lui i suoi discepoli e una grande folla.
12
– Ora, quando si avvicinò alla porta della città, ed ecco un
defunto, figlio unigenito, veniva portato al sepolcro (da) sua madre
ed essa era vedova, e una numerosa folla della città era con lei.
13
– E vedendola, il Signore fu mosso a compassione per lei e le
disse: <<Non piangere>>.
14
– E avvicinatosi toccò la bara; ora i portatori si fermarono, e
disse: <<Giovinetto, dico a te, alzati>>.
15
– E il morto si mise seduto e incominciò a parlare, e lo diede a
sua madre.
La
reazione della gente alla risuscitazione
(vv.16-17)
16
– Ora, un timore prese tutti e glorificavano Dio dicendo che un
grande profeta si levò in mezzo a noi e che Dio visitò il suo
popolo.
17
– E questa parola su di lui uscì in tutta la Giudea e in tutta la
regione circostante.
Note generali
I
due racconti provengono da due fonti diverse, il primo, la guarigione
del servo del centurione (vv.1-10), da fonte Q e ha i suoi due
paralleli in Mt 8,5-13 e in Gv 4,46-53; il secondo, la risuscitazione
del figlio della vedova di Nain (vv.11-17), da materiale proprio di
Luca. Due racconti all'apparenza, ma solo all'apparenza, diversi tra
loro, ma in realtà tra loro sostanzialmente sovrapponibili l'uno
all'altro. Molti, infatti i punti in comune: a) un uomo ed una
donna; il primo un pagano, ma simpatizzante del giudaismo; la seconda
una giudea; b) entrambi sono afflitti per il servo che sta per
morire, il primo; per il figlio morto, la seconda; c) entrambi
i casi sono disperati e hanno a che vedere con la morte; d) in
entrambi i casi si tratta di persone molto care e con legami
parentali e/o affettivi molto profondi; e) nel primo racconto
protagonista è la fede di un pagano; nel secondo è la potenza della
parola; f) nel primo racconto l'iniziativa è del centurione;
nel secondo l'iniziativa è di Gesù, stupito per la fede di questo
pagano, nel primo caso; mosso a compassione nel secondo. Benché i
punti a), e), f) sembrino diversi in realtà
sono tra loro complementari e per certi aspetti hanno un unico fondo
che li accomuna: in a) c'è un uomo che si completa con un
donna ed entrambi hanno a che fare con il giudaismo; in e) pur
essendo diversi i modi per ottenere la salvezza, la fede del
centurione e la parola di Gesù, unica è tuttavia la potenza che
opera sia nell'una che nell'altra, quella di Dio. I due racconti
presentano una gradualità di interventi: nel primo caso è
sufficiente la fede, poiché il servo è ancora in vita; nel secondo
caso si rende necessario l'intervento divino diretto per vincere la
morte, poiché contro di essa l'uomo non può fare nulla; in f)
benché nel primo l'iniziativa sia del centurione e nel secondo
quella di Gesù, tuttavia in entrambi i casi al centro dell'azione ci
sta l'ammirazione e la commozione di Gesù per la fede del pagano
centurione; la compassione di Gesù per la vedova nel secondo
racconto. In entrambi i casi Gesù opera sospinto da uno stato
emotivo profondo, provocato da una forza spirituale nel primo caso;
da una pietosa condizione umana nel secondo. Anche qui spiritualità
e umanità si completano a vicenda.
Questo
sostanziale doppione, di per sé qui non necessario all'economia
narrativa1,
è caratteristico di Luca e lo prova in particolar modo il secondo
racconto, che proviene da materiale proprio dell'autore. Questi nella
sua connaturata spinta al completamento e all'integrazione, in ultima
analisi a creare uno stato di equilibrio armonico narrativo, che si
apre ad una prospettiva universale, poiché tende ad abbracciare
entrambi gli aspetti di una medesima situazione, come in questo caso
i due protagonisti, uomo e donna, gradualità negli interventi, si
trova nella necessità di inventarsi un racconto proprio che faccia
da eco al primo.
Il
cap.7 si apre con un versetto di transizione (v.1), poiché da un
lato chiude il grande discorso che funge da proclama costitutivo
dell'identità spirituale, morale ed etica della nuova comunità
messianica (6,20-49); dall'altro introduce a un nuovi racconti con
una nota di tipo geografico: Gesù “entrò a Cafarnao”. In
realtà, sarebbe stato meglio dire che Gesù rientrò a Cafarnao, che
in 5,43 aveva prospettato di lasciare per annunciare il regno di Dio
anche alle altre città, e di fatto lasciò in 5,44.6,12. Un
versetto, quindi, che sta dicendo al lettore che qui si sta girando
pagina.
Guarigione
del servo del centurione (vv.2-10)
Note
generali
All'interno
di questa nuova cornice geografica, Luca presenta il racconto della
guarigione del servo del centurione, che, come si è già accennato
sopra, ha i suoi paralleli in Mt 8,5-13 e Gv 4,46-53. Tre racconti
che hanno lo stesso copione, ma elaborato in modi molto diversi tra
loro dai rispettivi autori al punto tale da far pensare a incroci e
fusioni di diversi racconti o tradizioni. Si tratta, a mio avviso, di
un unico racconto, la cui fonte primaria è Matteo, da cui dipendono
Luca e Giovanni. Tre sostanzialmente i motivi:
il racconto di Matteo è scorrevole, logico e lineare nella sua dinamica, mentre in Luca diventa più difficoltoso e soffre di una forzatura nella doppia delegazione, di Giudei prima, di amici del centurione dopo; mentre in Giovanni del racconto matteano rimane soltanto l'idea, che poi elabora a modo proprio con una forzatura nel v.48, dove Gesù striglia duramente il funzionario del re, che lo invoca per salvare suo figlio. Francamente non se ne comprende la ragione;
Matteo per indicare la persona ammalata usa il termine greco “pa‹j” (paîs), vocabolo equivoco poiché può significare fanciullo, figlio o anche servo. Luca lo interpreta come “servo”, ed usa, in modo più preciso e inequivocabile, il corrispondente greco “doàloj” (dûlos). Giovanni, invece, interpreta quel “paîs” come “figlio” ed usa il corrispettivo greco“uƒÕj” (uiòs). Servo e figlio, pertanto, sono due derivazioni del termine originale “paîs”, l'unico che poteva prestarsi a questa duplice e diversa interpretazione.
Matteo
non parla mai di servo/figlio che sta per morire, ma soltanto che è
“paralitico
in casa, terribilmente
provato”.
Saranno Luca e Giovanni a interpretare l'espressione come lo “star
per morire”, forse per accentuarne la drammaticità e per meglio
mettere in rilievo la potenza della parola di Gesù. La somiglianza
tra Luca e Giovanni in questo punto, come in altre numerose parti
dei loro vangeli e delle loro teologie, lascia intendere che
probabilmente tra i due ci sia stato un qualche contatto, uno
scambio di idee e, forse, anche di materiali. Un esempio si trova in
Gv 8,3-11, dove viene riportato il racconto dell'adultera, che esula
dalle logiche giovannee e il cui linguaggio è molto simile a quello
di Luca. Tutto ciò non deve stupire, poiché Luca era un
missionario e per questa sua attività di peregrinazione non è
difficile che sia entrato in qualche modo in contatto con la
comunità giovannea se non con lo stesso Giovanni, il quale,
all'epoca della composizione del suo vangelo, si trovava stanziato
ad Efeso.
Il
racconto soffre, come si è accennato qui sopra, di una forte
tensione nella doppia delegazione: la prima di giudei (v.3), la
seconda di amici del centurione (v.6b). Si tratta di una macchinosa
forzatura di Luca, probabilmente per rendere omaggio ad una
particolare categoria di credenti provenienti dal paganesimo: i
timorati di Dio, ai quali forse lo stesso Luca apparteneva. Ad essi,
infatti, anche nei suoi Atti, dedica una particolare attenzione2.
I timorati di Dio erano, da quanto si può percepire dal racconto
degli Atti, numerosi e furono determinanti per la conversione dei
pagani al cristianesimo o quanto meno la facilitò. Questi erano
pagani, divenuti simpatizzanti del Giudaismo, credevano nel Dio di
Israele, osservavano le prescrizioni giudaiche, frequentavano la
sinagoga e leggevano la Torah, pur non appartenendo al popolo
d'Israele, non essendo circoncisi3.
Erano diversi dai proseliti e non vanno confusi con questi, che,
invece, intendevano far parte del popolo ebraico e si sottoponevano
alla circoncisione, segno distintivo ed elemento determinante di
appartenenza al popolo dell'Alleanza, e parimenti eredi delle
Promesse. Per i proseliti si trattava di una vera e propria
conversione al Giudaismo.
Altro
elemento stridente è l'assenza nel racconto lucano di qualsiasi
parola o gesto di Gesù, che determini la guarigione del servo, la
quale cosa, invece, compare sia nel racconto matteano (8,13) che in
quello giovanneo (4,50). Sembra quasi che Gesù, tutto preso dalla
fede del centurione, se ne sia scordato. Tuttavia afferma Luca che le
due delegazioni, tornate a casa, trovarono il servo guarito. Manca
quindi il passaggio di mezzo, tra la richiesta del centurione e la
guarigione del servo: la battuta di Gesù che rassicuri il centurione
della guarigione del suo servo. Una evidente dimenticanza di Luca,
probabilmente tutto preso dalla laboriosa e complessa costruzione di
questo racconto. Un'incongruenza, che risulta ancor più evidente se
si pensa che il racconto è incentrato sulla potenza della parola di
Gesù, messa maggiormente in rilievo dallo stesso centurione, che
sviluppa un parallelismo tra l'autorevolezza della sua parola e
quella di Gesù, tale da suscitare la meraviglia dello stesso Gesù,
ma che alla fine viene a mancare.
Commento
ai vv. 2-10
È
singolare come, nel solo racconto lucano, il centurione non affronti
direttamente Gesù, quasi ne voglia evitare il contatto, ma si serva
della mediazione di ben due delegazioni per impetrare la guarigione
del suo servo. Il motivo viene spiegato ai vv.6c.7a: il centurione
non si sente degno di incontrare Gesù né di riceverlo a casa sua,
percependo in qualche modo tutta la distanza che intercorreva tra lui
e Gesù. Luca, quindi, rileva qui l'umiltà di questo ufficiale
romano, la cui autorità viene messa in evidenza al v.8. Si tratta di
un uomo buono, pio e religioso a modo suo, certamente un timorato di
Dio, espressione questa con cui i Giudei definivano i simpatizzanti
del Giudaismo, che guardavano con benevolenza (v.5) e con il
desiderio di parteciparvi sia pur dall'esterno. Quest'uomo, pertanto,
possiede già un suo senso del sacro e riconosce in Gesù l'impronta
di Dio; ma ha nel contempo la coscienza della sua condizione di
povertà e di indegnità: egli è un pagano e un invasore. Il suo
atteggiamento di umiltà nei confronti di Gesù rassomiglia molto a
quel pubblicano salito al tempio con il fariseo. Egli ha coscienza
del suo essere peccatore e non osa neppure alzare gli occhi verso
Dio, ma battendosi il petto, ne invoca il perdono, che gli viene
largamente concesso (18,10-14).
Ciò
che qui Luca descrive è il mondo dei pagani e dei peccatori e lo
stato d'animo che devono sviluppare in loro stessi coloro che,
desiderosi di aprirsi a Dio, riconoscendolo in Gesù, maturano nella
coscienza la loro condizione di vita di peccato, ma come, proprio
attraverso la potenza della Parola, questi possono rigenerarsi ad una
nuova vita. Non lo possono fare da se stessi, ma sempre attraverso la
mediazione di altri. Luca qui ne descrive due: quella del Giudaismo,
delineando la figura del timorato di Dio, molto diffusa tra i pagani
che avevano a che fare con il mondo del Giudaismo; e quella degli
amici, con cui Luca indica quei credenti che si sono fatti vicini ai
pagani e, per loro tramite, riescono a condurli a Gesù. Un termine
questo, amici, con cui Gesù si rivolge ai suoi discepoli (12,4). Del
resto, non si parla di “suoi amici”, cioè amici del centurione,
ma semplicemente di “amici”. Questo probabilmente il doppio senso
della delegazione, che funge da doppia via per giungere a Gesù, e
che rispecchia la realtà della chiesa primitiva, conosciuta da Luca:
chiunque desiderasse convertirsi doveva essere accompagnato e
garantito da credenti certi. Nessuno poteva autocertificarsi.
Con
il v.9 Luca fa pesare il suo apprezzamento per la raggiunta fede dei
pagani, poiché se i giudeocristiani provenivano da un plurisecolare
cammino di fede e di Tradizione, fondate sulla Promessa,
sull'Alleanza, sulla Torah, sui Profeti e sulle attese del Messia,
venendo in tal modo favoriti nel loro incontro con Gesù (Rm
9,4-5.30-32), per i pagani, invece, tutto giocava contro la loro fede
e, pur tuttavia, essi, a differenza di gran parte di Israele, si sono
aperti al messaggio della Verità e l'hanno fatto proprio
accogliendolo nella loro vita: “Vi dico che nemmeno in Israele ho
trovato una così grande fede”. Proprio per questo la fede degli
etnocristiani viene definita “grande”. Un apprezzamento che
innesca un confronto diretto tra Israele e il mondo pagano, che suona
a condanna per il rifiuto di Israele e che in qualche modo anticipa e
prelude il ben più pesante confronto e la ben più grave condanna
annunciati in 13,28-30: “Là sarà il pianto e lo stridore dei
denti, allorché vedrete Abramo e Isacco e Giacobbe e tutti i profeti
nel regno di Dio, ma voi gettati fuori. E giungeranno da oriente e
occidente e da Settentrione e Mezzogiorno e saranno fatti sedere a
mensa nel regno di Dio. Ed ecco sono ultimi quelli che saranno primi
e sono primi quelli che saranno ultimi”.
Risuscitazione
del figlio della vedova di Nain (vv.11-15)
Note
generali
Un
racconto singolare questo, che rispecchia lo stile di Luca, che ama i
doppioni: al racconto dove protagonista era un uomo, legato da
profondo affetto quasi paterno al suo servo, fa seguire, ora, quello
di una donna, legata da profondo affetto materno al figlio; innesca,
poi, una gradualità complementare tra i due racconti e fa seguire
alla guarigione di un moribondo la risuscitazione di un morto4.
Un racconto, come già si è detto, non necessario all'economia
narrativa di questo cap.7, che trova il suo centro nella
presentazione della doppia identità: quella di Gesù e del Battista
(vv.18-23; 24-28). Un racconto che proviene da materiale proprio di
Luca, ma forse è meglio dire di sua propria invenzione. Il racconto,
infatti, è costruito principalmente attorno a due elementi, che lo
stesso Luca suggerisce alla fine, facendo intervenire, a mo' di coro
delle tragedie greche, la gente: “Ora, un timore prese tutti e
glorificavano Dio dicendo che un grande profeta si levò
in mezzo a noi e che Dio visitò il suo popolo”, a
cui si aggiunge un terzo elemento complementare al v.13: “fu
mosso a compassione per lei”. Il primo elemento, “un
grande profeta”, rimanda alla fonte, da dove questo racconto è
stato mutuato e con il quale ha forti somiglianze: la risuscitazione
di un ragazzo, figlio di una vedova, operata dal profeta Elia (1Re
17,17-24); il secondo elemento, unitamente al terzo, rimanda a Lc
1,78, dove si parla di “viscere di misericordia del nostro Dio,
nella quale ci visiterà un sorgere di sole dall'alto”. Questo
ultimo richiamo fornisce il senso all'intero racconto.
Commento
ai vv. 11-17
Il
v.11 si apre con l'espressione redazionale: “E in seguito avvenne”,
che dà continuità narrativa e temporale al racconto, legandolo in
qualche modo a quello precedente. Ricompare qui il verbo
caratteristico di Luca, “™gšneto”,
con cui l'autore introduce i suoi racconti in cui si narra l'accadere
della storia della salvezza nell'oggi dell'uomo. Un verbo questo che
compare complessivamente 117 volte nei quattro vangeli, di cui 69
nove volte nel solo Luca. Un verbo, pertanto, significativo per
l'autore.
Ciò
che accade in seguito è un grande movimento in cui si riflette in
qualche modo il cammino della chiesa: Gesù si sta muovendo e
“andavano con lui i suoi discepoli e una grande folla”. Attorno a
Gesù, dunque, si sta compattando il primo nucleo ecclesiale formato
da suoi discepoli, cioè da coloro che hanno compiuto una definitiva
scelta esistenziale a favore di Gesù; e da una grande folla, in cui
possiamo raffigurare i simpatizzanti di Gesù, coloro che in qualche
modo aderivano al suo insegnamento, visto che lo seguivano assieme ai
discepoli, ma che forse ancora non avevano maturato la loro scelta
definitiva e tale da farli annoverare nel gruppo dei discepoli. È la
seconda volta che Luca associa i discepoli alla folla: la prima lo ha
fatto nella grande spianata, quella delle beatitudini (6,17b); la
seconda volta qui. Luca, pertanto, vede i discepoli come persone che
provengono dalla folla e camminano insieme e in mezzo ad essa, ma ciò
che li distingue è la loro adesione esistenziale a Gesù.
L'ampio
corteo si sta dirigendo a Nain, una cittadina che si trova ad una
quarantina di chilometri da Cafarnao e ad una quindicina da Nazareth.
Si trova a Sud della Galilea e confina con la Samaria a sud e con la
Decapoli a est.
Con
il v.12 Luca crea il contesto storico-narrativo in cui porrà l'agire
salvifico di Gesù: alle porte di Nain sta uscendo un corteo funebre
composto da un ragazzino morto, figlio unico di una madre vedova,
dalla stessa madre e da una folla, che lo accompagnava nel suo ultimo
viaggio pieno di dolore e di sofferenza. Una donna profondamente
segnata dalla vita e che le condizioni sociali dell'epoca ponevano
all'ultimo gradino della collettività, priva di un qualsiasi
supporto, di una qualsiasi difesa e alla mercé di sfruttatori e
approfittatori. Non è un caso, infatti, se i profeti si scagliano
nelle loro invettive contro coloro che opprimono l'orfano e la
vedova5,
le due categorie sociali più deboli, mentre nel loro soccorrerle un
atto di conversione gradito a Dio (Is 1,17).
vv.13-14:
Ci troviamo qui di fronte a due cortei: quello capeggiato da Gesù
(v.11) e quello capeggiato da una bara (v.12). Un corteo di vita e
uno di morte; uno sta entrando in città, l'altro ne sta
definitivamente uscendo. Due movimenti uguali contrari; due realtà
contrapposte, vita e morte s'incontrano tra loro come in un
prodigioso duello6,
che prelude in qualche modo all'evento pasquale. Un incontro
destinato a cambiare radicalmente le sorti di quelle persone,
travolte dalla morte, aprendo i loro cuori alla vita, che viene loro
restituita dall'autore della vita stessa. Una triste sorte quella
dell'uomo, che smuove le profondità dell'umanità stessa di Gesù,
che qui da Luca viene indicato come il Signore, un titolo che viene
attribuito a Gesù in epoca postpasquale. Il richiamo di questo
specifico titolo in questo contesto di morte aggancia la
risuscitazione del ragazzo alla stessa risurrezione di Gesù,
riconosciuto qui come il Signore della vita e, capace, quindi, di
rigenerarla, di donarla e di restituirla. A tal punto la scena del
ragazzo morto, immerso nel dolore dei presenti, che sentono in loro
stessi tutto il peso della morte, perde di individualità ed assurge
in qualche modo ad una metafora della condizione di un'umanità
segnata profondamente dalla morte, che ha la ventura di incontrare
sul proprio cammino il Signore della Vita. I vv.13-14, infatti, si
richiamano direttamente al racconto del “Buon Samaritano”
(10,30-35), che è la figura stessa di Gesù, che vede lo stato
drammaticamente pietoso in cui versa quel uomo incappato nei ladroni,
metafora dell'uomo travolto dal peccato. Anche là, come qui, il
Samaritano, passando nei suoi pressi, lo vede e ne prova compassione
e gli si fa vicino e se ne prende cura, restituendolo alla vita. Sono
gli stessi identici verbi; gli stessi identici movimenti che Gesù e
il Buon Samaritano, compiono nei confronti di questa umanità
tragicamente travolta dal peccato. In entrambi i racconti compaiono i
tre verbi fondamentali (vv.13-14a; 10,33-34a), su cui girano entrambi
i racconti: “vedendo” („dën,
idòn),
“provò compassione” (™splagcn…sqh,
esplancníste),
“si fece vicino” (proselqën,
proseltzòn).
Un'attenzione va posta sul verbo “™splagcn…sqh”
che compare tre volte in Luca e sempre in contesti in cui è
coinvolto l'intervento di Dio: qui, in 7,13, il cui soggetto è Gesù,
che prova compassione verso l'uomo travolto dalla morte, che Paolo
definisce come il pungiglione del peccato (1Cor 15,55-56), cioè la
drammatica e tragica realtà, conseguenza del peccato; compare poi in
10,33, nel racconto del Buon Samaritano, dove anche qui Gesù prova
una profonda compassione per quest'uomo ridotto in fin di vita,
metafora di un'umanità travolta dal peccato; ed infine, in 15,20,
nel racconto del Figliol prodigo, dove il Padre, nel vedere il figlio
ritornare è preso da una profonda commozione. Tutti tre i verbi,
quindi, hanno a che vedere con la pietosa quanto drammatica
situazione della condizione umana. Un “™splagcn…sqh”
che dice ben di più di una semplice compassione, poiché il verbo ha
la sua radice in “spl£gcnon”
(spláncnon)
che significa “viscere”. La compassione, quindi, di Gesù,
manifestazione di quella del Padre, non è un suo semplice moto
sentimentale o emotivo, ma lo coinvolge nella profondità della sua
stessa persona e dell'intero suo essere. Ciò che definisce questa
compassione è una visceralità, che richiama qui i vv. 1,77-78: “per
dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei
suoi peccati, per mezzo (delle) viscere di misericordia del nostro
Dio, nella quale ci visiterà un sorgere di sole dall'alto”. Anche
qui la misericordia di Dio, manifestatasi in Gesù, viene espressa
nella sua profondità legandola alle “viscere” (spl£gcna,
spláncna)
stesse di Dio, per indicare come questa misericordia divina nasce e
coinvolge le profondità stesse di Dio.
Il
v.13 si apre con un verbo significativo: “vedendola”. È
l'attenzione di Dio che viene posta sull'uomo e ne coglie la
drammatica situazione di sofferenza e di dolore e decide di
intervenire. Un aspetto questo, del vedere di Dio, da cui parte poi
la storia di salvezza e in cui riecheggia Es 3,17: “Il
Signore disse: <<Ho osservato la miseria del mio popolo in
Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco
infatti le sue sofferenze ...>>”.
La prima reazione è che Gesù “fu mosso a compassione”. Il verbo
qui è posto al passivo per indicare come Gesù subisce l'impatto di
questo dramma sconvolgente e ne rimane coinvolto. Parte da qui il
progetto divino della salvezza: recuperare l'uomo alla sua
primordiale condizione di vita, condivisa con quella di Dio. La
compassione dice il “cum
patire”, cioè il
condividere con l'uomo il suo stesso dramma di sofferenza e di morte.
Dio, dunque, si fa vicino all'uomo. Ed è con questo verbo che si
apre il v.14: “avvicinatosi”. Il verbo greco, qui tradotto con
avvicinatosi, è reso in greco con “proselqën”
(proseltzòn),
che letteralmente significa “andare verso” qualcuno e, quindi,
avvicinarsi. È dunque il Padre, che nel Figlio Gesù, va verso
l'uomo, si avvicina a lui e ne condivide la sua drammatica sorte.
Significativo è il gesto di Gesù, dopo essersi avvicinato, “toccò
la bara”. La bara è il segno più eclatante della morte e Gesù
non si limita ad avvicinarsi a questa, ma la tocca. Quel toccare la
bara dice l'esperienza di morte che Gesù ha condiviso con gli
uomini, rendendosi solidale con loro. Lui, come tutti gli uomini, ha
subito le conseguenze della colpa originale: dolore, sofferenza ed
infine la morte.
Ma
se Gesù ha condiviso con gli uomini l'esperienza della morte, quale
conseguenza del peccato, ora l'uomo è chiamato a condividere con
Gesù l'esperienza della vita. Ecco, dunque, il comando: “Giovinetto,
dico a te, alzati”. Inequivocabile quel “alzati”, reso in greco
con “™gšrqhti”
(eghértzeti),
che con la sua pluralità di significati (destati, svegliati, alzati,
risorgi) richiama da vicino la risurrezione di Gesù. Il verbo
“™ge…rw”
(egheíro),
infatti, è un verbo tecnico con cui la primitiva comunità credente
designava la risurrezione di Gesù. La potenza della parola di Gesù
si manifesta nell'immediata esecuzione del comando, che in qualche
modo richiama il primordiale atto creativo, in cui al “dire” di
Dio risponde il “così fu” della creazione, chiamata alla vita
dalla potenza stessa della Parola: “E il morto si mise seduto e
incominciò a parlare, e lo diede a sua madre” (v.13). Pertanto,
ciò che la morte, quale atto distruttivo della creazione, ha
decomposto, viene ora ricostituito in novità di vita.
Il
v.16, similmente al coro delle tragedie greche, funge da commento
all'evento portentoso; una sorta di cassa di risonanza: “Ora, un
timore prese tutti e glorificavano Dio dicendo che un grande profeta
si levò in mezzo a noi e che Dio visitò il suo popolo”. La
presenza del timore dice che tra la gente vi fu la percezione del
compiersi di un evento divino e, di conseguenza, il timore sfocia
nella glorificazione di Dio. Si innesca, pertanto, attorno a questo
evento portentoso una sorta di liturgia di lode e di ringraziamento,
sia perché “Dio visitò il suo popolo”, sia per la presenza di
“un grande profeta” escatologico. In quel “grande”, infatti,
viene richiamata in qualche modo la figura di Elia, il profeta che
sarebbe dovuto ritornare negli ultimi tempi e di cui Luca qui
riproduce il miracolo della risuscitazione del figlio della
vedova in Sarepta di Sidone. Una figura quella di Elia, associato
alla vedova di Sarepta, che l'evangelista già aveva richiamato in
4,26; così come Gesù verrà talvolta identificato come Elia o ad
esso associato (9,8.19.30.33). Se nell'espressione “grande profeta”
riecheggia, quindi, in qualche modo la figura di Elia, che sarebbe
ritornato alla fine dei tempi, nell'altra espressione, “si levò in
mezzo a noi”, che accompagna la precedente, viene richiamato Dt
18,15.18, dove Dio promette a Mosè e al suo popolo di far sorgere in
mezzo ad esso un profeta pari a Lui: “Il Signore tuo Dio susciterà
per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a
lui darete ascolto” e similmente: “io susciterò loro un profeta
in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli
dirà loro quanto io gli comanderò”. Questo profeta, promesso da
Dio a Mosè e al popolo, venne letto dal giudaismo come la promessa
di un profeta di pari potere a Dio che si sarebbe manifestato negli
ultimi tempi. Luca, pertanto, riconosce in Gesù quel profeta
escatologico, di pari potere a Dio, vedendo in questi il Dio che ha
visitato il suo popolo.
Il v.17 funge da eco amplificatore al v.16, che viene ripreso nell'espressione “E questa parola su di lui” e diffusasi “in tutta la Giudea e in tutta la regione circostante”, espressione questa caratteristica di Luca con la quale definisce l'intera Palestina7.
Le due identità:
quella di Gesù (vv.18-23) e quella di Giovanni (vv.24-28)
Testo a
lettura facilitata
Gesù
delinea la sua identità
(vv.18-23)
18
– E i suoi discepoli riferirono a Giovanni su tutte queste cose. E
Giovanni, chiamati due dei suoi discepoli,
19
- inviò questi al Signore, dicendo: <<Sei tu colui che viene o
aspettiamo un altro?>>.
20
– Ora giunti gli uomini da lui dissero: <<Giovanni Battista
ci inviò a te dicendo: “Sei tu colui che viene o aspettiamo un
altro?”>>.
21
– In quel momento guarì molti da infermità ed afflizioni e
spiriti malvagi e gratificò molti ciechi con il vedere.
22
– E rispondendo, disse loro: <<Andando, annunciate a Giovanni
le cose che vedeste e udiste: “I ciechi riacquistano la vista, gli
zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati e i sordi odono, i morti
risorgono, i poveri ricevono l'annuncio della buona notizia”.
23
– E beato colui che non è stato scandalizzato in me>>.
L'identità
del Battista secondo Gesù
(vv.24-28)
24
– Ora, andati via i messaggeri di Giovanni, incominciò a dire alle
folle su Giovanni: <<Che cosa usciste a vedere nel deserto? Una
canna scossa dal vento?
25
– Ma che cosa usciste a vedere? Un uomo vestito con morbidi vesti?
Ecco quelli che sono in un abito pregiato e (in) mollezza, sono nei
palazzi reali.
26
– Ma che cosa usciste a vedere? Un profeta? Si, vi dico, anche
molto di più di un profeta.
27
– questi è colui di cui è scritto: “Ecco mando il mio
messaggero davanti al tuo volto, il quale preparerà la tua via
davanti a te”.
28
– Vi dico: nessuno è più grande di Giovanni tra i nati di donne;
ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui>>.
La
contrapposta reazione alle due identità (vv.29-30)
29
– E tutto il popolo che ascoltò e i pubblicani dichiararono giusto
Dio, facendosi battezzare il battesimo di Giovanni;
30
– ma i farisei e i dottori della legge rifiutarono la volontà di
Dio non facendosi battezzare da lui.
Il
duro rimprovero di Gesù per la pervicace incredulità dei Giudei
(vv.31-35)
31
– <<A chi, dunque, paragonerò gli uomini di questa
generazione e a chi sono simili?
32
– Sono simili a dei fanciulli seduti in piazza e che dicono gli uni
agli altri quelle cose che (il proverbio) dice: “Vi suonammo il
flauto e non danzaste, ci lamentammo e non piangeste”.
33
– È venuto, infatti, Giovanni il Battista, che non mangia pane e
non beve vino, e dite: “ha un demonio”.
34
- È venuto il figlio dell'uomo che mangia e beve, e dite: “ecco
un uomo vorace e bevitore di vino, amico dei pubblicani e dei
peccatori”.
35
– E la sapienza fu giustificata da tutti i suoi figli>>
Note
generali
Questa
ampia sezione (vv.18-35) costituisce il cuore del cap.7. Luca
presenta qui le due identità: quella di Gesù, indicato come il
messia che viene; e quella di Giovanni, il suo precursore. Due
identità che vengono descritte con richiami scritturistici; Gesù
con una miscellanea di citazioni tratte da Isaia, tutte poste in
contesti messianici: 26,19; 29,18; 35,5-6 e 61,1. Un versetto
quest'ultimo che già era stato ripreso da Gesù in 4,18, allorché,
nella sinagoga di Nazareth, aveva presentato il proclama
programmatico della sua missione; e Giovanni con Ml 3,1. Il
riferimento alle Scritture dice come queste abbiano trovato il loro
compimento sia in Gesù e che in Giovanni, fornendo in tal modo a
questi due personaggi una solido titolo di veridicità e di
credibilità. Questo servirà a Luca per giustificare il duro
rimprovero di Gesù contro l'incredulità dei Giudei (vv.31-35), che
hanno rifiutato sia lui che Giovanni, e che seguirà immediatamente
la presentazione delle due identità.
La
struttura di questa ampia sezione si snoda su quattro passaggi, già
rilevati nella sezione “Testo a lettura facilitata”:
L'identità di Gesù: è l'atteso messia che deve venire (vv.18-23);
identità di Giovanni: è il messaggero inviato da Dio per preparare la venuta di Gesù (vv.24-28);
la contrastante reazione alla presentazione di Gesù e di Giovanni (vv.29-30) costituisce il preambolo introduttivo alla pericope successiva (vv.31-35) e al racconto del fariseo e la peccatrice (vv.36-50);
il duro rimprovero di Gesù per la pervicace incredulità dei Giudei (vv.31-35), che troverà poi il suo sviluppo narrativo nel racconto del fariseo e della peccatrice (vv.36-50).
Commento ai vv. 18-35
L'identità
di Gesù: è l'atteso messia che deve venire (vv.18-23)
Il
v.18a si apre creando una continuità narrativa e logica con i due
racconti precedenti: “E i suoi discepoli riferirono a Giovanni su
tutte queste cose”. Le cose che i discepoli di Giovanni
riferiscono al loro maestro, tuttavia, vanno ben oltre ai due
racconti, che fanno da riferimento immediato. L'espressione “tutte
queste cose”, infatti, è una sorta di formula riassuntiva
dell'intera attività di Gesù fin qui compiuta e si riferisce sia ai
due racconti che a tutti gli eventi simili, come gli esorcismi, le
numerose altre guarigioni, il perdonare i peccati, il sedersi a mensa
con i pubblicani, le discussioni sul digiuno, le violazioni del
sabato sia ad opera dei discepoli di Gesù che di Gesù stesso. Sono
“tutte queste cose” che i discepoli riferiscono al loro maestro,
che si trova prigioniero nella fortezza erodiana di Macheronte, nel
sud della Perea, a circa 10-12 Km dal Mar Morto, per aver duramente e
pubblicamente redarguito Erode Antipa sia perché questi conviveva
con Erodiade, la moglie legittima di suo fratello Filippo, sia per
altri suoi misfatti (3,19-20; Mt 14,3-4).
I
vv.18b-20 lasciano intendere che Giovanni, pur rinchiuso nella
fortezza erodiana, avesse, tuttavia possibilità di comunicare con i
propri discepoli. La cosa è verosimile perché sappiamo da Mc 6,20
che Erode stimava molto Giovanni e nutriva per lui una sorta di sacro
timore, non molto lontano dalla venerazione: “Erode
temeva Giovanni, sapendolo giusto e santo, e vigilava su di lui; e
anche se nell'ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo
ascoltava volentieri”.
Non è escluso, pertanto, che Erode concedesse a Giovanni una
prigionia mitigata, consentendogli la possibilità di incontrarsi con
i suoi discepoli. Giovanni, pertanto, dà mandato a due suoi
discepoli di interpellare Gesù se “Sei tu colui che viene o
aspettiamo un altro?”. Questi ricevono quindi da Giovanni una
investitura ufficiale (vv.18b.20): essi sono chiamati a dare
testimonianza su di un evento che potremmo definire epocale, ma sul
quale gravano dei dubbi, che vanno dipanati. Per questo, sottolinea
Luca, Giovanni dette mandato a due suoi discepoli, poiché, secondo
Dt 19,15, servono almeno due testimoni perché una testimonianza
abbia valore legale. Questo particolare del “due” dice tutta
l'importanza di questa delegazione e come la testimonianza di Gesù
su se stesso abbia una valenza pubblica e, quindi, da prendersi in
seria considerazione.
La
questione che il Battista pone a Gesù rivela i dubbi che questi
nutriva su di lui. Dubbi che nascono dalla diversa comprensione del
Messia e della sua missione. La predicazione escatologica di
Giovanni, infatti, differisce notevolmente dalla predicazione e dal
comportamento di Gesù. Per Giovanni il Messia praticava un battesimo
di Spirito Santo e fuoco (3,16); un battesimo carico della stessa
potenza di Dio; capace di trasformare il credente e di ricollocarlo
in Dio stesso. Ma il Dio che Giovanni annunciava era anche un Dio che
portava con sé il suo terribile giudizio finale, poiché “Egli
ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il
frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco
inestinguibile”
(3,17). Un Dio che stava venendo, scosso da un'ira vendicatrice, a
cui nessuno poteva sottrarsi e nessun titolo di merito poteva
salvare, poiché già una scure era stata posta alle radici, pronta a
giustiziare chi non si converte (3,7-9). Contrariamente alla
predicazione di Giovanni, Gesù porta in mezzo agli uomini la stessa
misericordia di Dio, che si manifesta nel perdono incondizionato dei
peccati; nessuna condanna (Gv 3,17), ma siede a mensa con pubblicani
e peccatori, prefigurando in questo il nuovo banchetto messianico;
dichiara di essere venuto per questi; si lascia avvicinare e toccare
dalle prostitute; dà un nuovo senso alla legge della purità, del
digiuno e del sabato, ponendo al centro dell'attenzione l'uomo e non
più Dio; predica amore e perdono per i nemici. Tutto questo per
Giovanni è sconvolgente e inconcepibile, ben lontano dal Dio che
egli aveva annunciato. Da qui il suo dubbio legittimo: “Sei tu
colui che viene o aspettiamo un altro?”. L'espressione “colui che
viene”, resa in greco con “Ð
™rcÒmenoj”
(o
ercómenos)
ricorre soltanto due volte in tutto l'A.T. e in entrambi i casi i
contesti sono messianici (Sal 117,26; Ab 2,3). Un termine che
potremmo definire fortunato poiché nel N.T., che l'ha mutuato
dall'A.T., ricorrerà ben 26 volte e quasi sempre il riferimento è
messianico. Giovanni, accanto all'uso tradizionale, ne farà anche un
uso tutto suo particolare, riferendolo a Gesù come “colui che
viene” dall'alto o dal Padre. Il termine messianico, quindi, trova
nel quarto vangelo talvolta una sua trasformazione che va a precisare
l'origine o la provenienza di Gesù8.
Così, similmente, attribuisce l'espressione a Gesù, “il Profeta,
colui che viene nel mondo” (Gv 6,14).
vv.21-23: La risposta di Gesù si articola in tre parti:
dapprima egli fa parlare i fatti (v.21), beneficiando in quel momento numerose persone afflitte da diverse infermità, tra le quali quelle tormentate da spiriti malvagi. Una componente questa che ritorna quasi sempre nell'operare di Gesù, poiché essa dice come la venuta di Gesù sia finalizzata a scalzare il regno del Maligno per instaurare quello di Dio (11,20). Dio, pertanto, nel suo Figlio Gesù, è venuto a riprendersi ciò che gli apparteneva fin dai primordi dell'umanità e che Satana gli ha sottratto con l'inganno. Accanto agli indemoniati viene associata una seconda categoria significativa, quella dei ciechi, che fa parte del corredo messianico, come meglio verrà specificato al versetto successivo. Gesù si rivela in questa prima risposta quale Dabar del Padre, Parola che è Azione di Dio in mezzo agli uomini: “In quel momento guarì molti da infermità ed afflizioni e spiriti malvagi e gratificò molti ciechi con il vedere”. L'agire rigenerante e salvifico di Gesù, pertanto, si qualifica come un nuovo atto creativo tendente a ripristinare l'uomo nella sua originaria immagine e somiglianza di Dio, riportandolo in seno a Lui. Significativa è la contestualizzazione temporale “In quel momento”, che radica l'agire salvifico di Dio in Gesù nell'oggi dell'uomo.
Il secondo livello di risposta (v.22) è verbale e rimanda direttamente all'autorevole testimonianza scritturistica. Si tratta di una miscellanea di citazioni tratte, in modo sparso, da Is 26,19; 29,18; 35,5-6 e 61,1 e il cui contesto di estrazione è messianico. Con queste citazioni si tende, pertanto, a inquadrare la figura di Gesù nell'ambito delle Scritture, assegnandogli la stessa autorità di Dio, che si è compiuta in lui. La persona di Gesù nonché la sua stessa missione, dunque, vengono radicate nelle Scritture e poste sotto la loro autorità.
Il terzo livello di risposta è dato da una beatitudine dal sapore sentenziale e sapienziale, che sancisce la veridicità della Parola nel suo manifestarsi sia quale Azione del Padre che quale suo Verbo: “E beato colui che non è stato scandalizzato in me” (v.23). Beato e, quindi, appartenete alla sfera di Dio, l'unico vero Beato, è definito colui che non ha trovato in Gesù motivo di inciampo alla propria fede. Per comprendere il senso di questo detto è necessario contestualizzarlo all'interno delle richieste dei due discepoli di Giovanni, inviati dal loro maestro, dopo che gli furono riferite “tutte queste cose”, a motivo delle quali nel Battista sorgono dei dubbi sull'autentica identità di Gesù, così difforme dalla sua dura predicazione escatologica e così inaspettato. Tale detto, pertanto, suona come un rimprovero a Giovanni, che non ha saputo cogliere ed accogliere la novità di Dio manifestatasi in Gesù. Un rimprovero che si completerà al v.28, dove la figura di Giovanni, posta a confronto con il più piccolo del regno di Dio, che ha saputo invece accogliere Gesù, ne uscirà perdente.
L'identità del Battista secondo Gesù (vv.24-28)
Dopo
aver presentato fattivamente (v.21) la propria identità di Messia
inviato da Dio e preannunciato dalle Scritture (v.22), Gesù ora
presenta quella del Battista. Lo fa attraverso una triplice doppia
domanda dai toni retorici, che, presentando, di volta in volta,
un'immagine metaforica, richiama per il suo contrario quella vera del
Battista. Si tratta, dunque, di un gioco di contrasti con cui viene
delineata la statura morale e spirituale di questo personaggio,
nonché il senso della sua missione. Tre domande che sono sempre
introdotte da una medesima domanda che interpella direttamente gli
ascoltatori, quasi a voler risvegliare la loro attenzione e la loro
coscienza: “Ma che cosa usciste a vedere?”. Quel “usciste a
vedere” dice l'interesse che la gente provava per la figura del
Battista. Ora Gesù interpella proprio questo interesse, perché la
gente verifichi la sua sincerità: è semplice curiosità o un
sincero richiamo alla conversione? L'ascoltatore, quindi, è chiamato
a focalizzare interiormente ciò che lo spinge ad uscire fuori di sé.
A questa domanda seguono tre precise domande su Giovanni, che si
richiamano in qualche modo ad episodi noti nei racconti di Luca e
della Tradizione evangelica circa la sua figura. Egli non è una
canna scossa dal vento, una banderuola che segue l'onda del proprio
tornaconto o la posizione che più gli si conviene, ma sfida
apertamente e pubblicamente lo stesso Erode Antipa, che convive con
Erodiade, la moglie di suo fratello Filippo, violando ogni principio
morale e disposizione della stessa Torah (Lv 18,16), non
risparmiandogli accuse per altre nefandezze (3,19-20); non è uno
adagiato nelle mollezze della corte regale pronto all'adulazione, ma
uno che vive nell'austerità e nella durezza del deserto, vestendo di
pelle di cammello e nutrendosi di cavallette e miele selvatico (Mc
1,6; Mt 3,4). Tratti che delineano l'essenzialità della sua vita,
tutta incentrata sulla sua missione di precursore di un Dio che sta
per venire nella persona di un uomo, a cui egli non è degno neppure
di slacciare i suoi calzari e che battezzerà con Spirito santo e
fuoco (3,16), cioè con la stessa potenza di Dio, in cui il fuoco
rappresenta il giudizio escatologico posto da Dio sull'intera
umanità, prospettando nella venuta di questo uomo, venuto da Dio,
l'inaugurazione dei tempi escatologici, in cui si instaura, già fin
d'ora, il giudizio divino. Non è, infine, neppure un semplice
profeta, come tanti ce ne furono in passato, ma un uomo inviato da
Dio (Gv 1,6); un uomo la cui figura e missione Luca definisce
ricorrendo a Ml 3,1, già fatto riecheggiare in 1,76 e in 1,14, dove
il Precursore era stato paragonato ad Elia, richiamandosi a Ml
3,23-24, che così va a completare la citazione di Ml 3,1. Anche per
Giovanni l'autore ricorre a citazioni scritturistiche, per radicarne
la figura e la missione nelle Scritture, che in qualche modo lo
avevano preannunciato. Tutto dunque, sia per Gesù che per Giovanni,
si muove secondo un piano salvifico, la cui trama era già intessuta
nelle Scritture stesse.
Il
v.28 chiude la presentazione della figura del Battista e della sua
missione, innescando un confronto tra Giovanni e il più piccolo nel
regno di Dio. Non si tratta soltanto di un confronto tra due persone,
ma prevalentemente di due tempi completamente diversi tra loro, a cui
loro appartengono. Giovanni apparteneva al mondo di profeti, un mondo
che stava preparando la venuta del Messia e Giovanni fu il più
grande di tutti quelli che appartenevano a questo mondo, poiché egli
è stato il prescelto da Dio per annunciare la venuta di suo Figlio.
L'ultimo profeta, il più grande, perché la sua figura traccia il
confine tra l'Antico e il nuovo Testamento. Lo ricorderà lo stesso
Luca in 16,16: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora il
regno di Dio è annunciato e ognuno si sforza per esso”. Due tempi,
benché unici e continuativi tra loro, hanno tuttavia una valenza
completamente diversa. E quanto sia diversa lo dimostra l'altro
termine di paragone: “ma il più piccolo nel regno di Dio è più
grande di lui”. La seconda parte del v.28 si apre con la particella
avversativa “ma”, che contrappone il Battista e il suo tempo,
quello della Promessa e della preparazione, al nuovo tempo, in cui
questa Promessa è stata compiuta ed è caratterizzato dalla presenza
del regno di Dio. Per questo il più piccolo che vi appartiene è
anche il più grande.
Le
diverse e contrastanti reazioni di fronte alle due identità
(vv.29-30)
Fin
qui Luca e Matteo hanno seguito sostanzialmente la comune fonte Q.
Ora, Mt 11,12-15, riporta in un'unica pericope tutti quei detti che
Luca ha diversamente dislocato all'interno del suo vangelo, così che
Mt 11,12-13 si trova sintetizzato in Lc 16,16, mentre Mt 11,14 è
ripreso da Lc 1,17, che riporta per intero Ml 3,23-24, soltanto
menzionato da Matteo, forse perché per i suoi ascoltatori giudei non
era necessaria l'intera citazione di Ml 3,23-24, che ben conoscevano,
contrariamente a quelli lucani, di provenienza pagana. Quanto a Mt
11,15, “Chi ha orecchi ascolti”, Luca non lo riporta
espressamente, ma forse è proprio questo detto che gli suggerisce
come iniziare la pericope in esame: “E tutto il popolo che
ascoltò”.
I
vv.29-30 sono entrambi di esclusiva redazione lucana e introducono
sia la pericope del rimprovero di Gesù (vv.31-35) che il successivo
racconto del fariseo e la peccatrice (vv.36-50), che funge da
esemplificazione alla pericope del rimprovero. Due versetti che
contrappongono due diverse reazioni di fronte all'apparire
dell'evento salvifico preannunciato in Giovanni e attuatosi in Gesù:
da un lato c'è chi lo accoglie; dall'altro chi lo respinge.
Risuonano qui le parole che Simeone aveva indirizzato a Maria a
riguardo del bambino Gesù: “Ecco questi è posto a rovina e
risurrezione di molti in Israele e a segno contraddicente” (2,34).
Il
v.29 è scandito in tre parti consequenziali l'una all'altra e
tracciano di fatto lo sviluppo del cammino della salvezza: si parte
dall'elemento fondamentale per ogni conversione: l'ascolto
accogliente della Parola; si giunge a riconoscere la giustizia e la
fedeltà di Dio, per poi accettare il battesimo, qui, di Giovanni,
quale atto penitenziale e momento di inizio di un cammino di
conversione, che porterà poi ad accogliere la Parola di Gesù e
quindi giungere alla pienezza della salvezza. Due sono i protagonisti
del v.29: il popolo e i pubblicani. Le due categorie che abbracciano
l'intera umanità. Il popolo, qui, è quello di Israele, quella
parte, almeno, che decise apertamente o nel proprio cuore di aderire
a Gesù, come accadde per Nicodemo, che Gv 19,39-40, verso il termine
del suo racconto, associa a Giuseppe d'Arimatea, membro autorevole
del Sinedrio (Mc 15,43a; Lc 23,50), divenuto discepolo di Gesù, ma
di nascosto per paura dei Giudei (Gv 19,38a); mentre i pubblicani, da
un lato, sono quella parte reietta di Israele che invece qui accoglie
Gesù; dall'altro, in quanto peccatori, sono i rappresentanti del
mondo pagano, a cui erano assimilati dai benpensanti del Giudaismo.
Il
v.30 presenta la seconda categoria di persone, che, invece, non si
limita a contrastare l'evento di salvezza compiutosi in Giovanni e in
Gesù, ma lo rifiutò. Luca usa qui parole molto dure, inusuali per
lui, un greco, che non ha mai mostrato il dente avvelenato contro il
Giudaismo, proprio perché non ne era membro. Ma qui sembra fare
un'eccezione: “ma i farisei e i dottori della legge rifiutarono la
volontà di Dio non facendosi battezzare da Giovanni”. Perché
questo accanimento? Un giudizio molto pesante se si pensa che questi
versetti provengono da Luca stesso. Lo sitz-im-leben
probabilmente è quel mondo pagano, a cui è rivolto il vangelo
lucano, e che, come i Giudei, rifiutava di convertirsi. Un rifiuto,
dice qui Luca, che è rivolto contro la volontà di Dio,
pregiudicando in tal modo la propria salvezza.
Il
rimprovero di Gesù per la pervicace incredulità del mondo giudaico
(vv.31-35)
Il
rifiuto di Gesù e di Giovanni da parte delle autorità religiose
giudaiche denunciato al v.30, provoca ora il duro rimprovero di Gesù
(vv.31-35), che mette allo scoperto la loro pervicace incredulità e
quella di “tutti gli uomini di questa generazione”, che come loro
si ostinano a non credere. Il rimprovero, pertanto, assume toni
universali.
Il
v.31 si apre con un’esclamazione rivolta alle folle, alle quali
Gesù sta parlando (v.24): “A chi, dunque, paragonerò gli uomini
di questa generazione e a chi sono simili?”. L’espressione
“questa generazione” o “quella generazione” o semplicemente
“generazione” si trova negli scritti neotestamentari 30 volte e
assume quasi sempre connotazioni negative riferite all’incredulità.
Essa viene mutuata dall’A.T., in cui, con senso negativo e sempre
con riferimento all’incredulità e all’infedeltà dell’Alleanza,
compare 7 volte9.
Tale espressione, pertanto, esprime un giudizio negativo che, prima
Jhwh, e ora Gesù pongono sull'incredulità.
Preceduto da questo preambolo negativo, viene ora denunciato il comportamento incoerente dei giudei: “Sono simili a dei fanciulli seduti in piazza e che dicono gli uni agli altri quelle cose che (il proverbio) dice: “Vi suonammo il flauto e non danzaste, ci lamentammo e non piangeste”. L’allegoria è presa da un gioco di bambini, probabilmente molto conosciuto all’epoca, considerato che qui ne viene riportata la citazione senza alcuna spiegazione. Si trattava, probabilmente, di una sorta di mimo, mutuato dal contesto dei matrimoni o delle feste, in cui al suono del flauto si danzava; o dai funerali in cui si elevavano pianti e grida di dolore. Pertanto, un gruppo di bambini si divideva in due parti, la prima mimava il suono dei flauti o il canto funebre; la seconda parte doveva indovinare che cosa stessero interpretando i primi e, a loro volta, dovevano rispondere mimando le danze o il pianto funebre. Non sempre veniva indovinata la recita mimata dai primi, per cui questi si prendevano gioco dei secondi dicendo loro che avevano suonato il flauto, ma loro non avevano danzato; oppure, avevano cantato un canto funebre, ma loro non avevano risposto piangendo. Ed ecco ora il riferimento alla realtà: Giovanni e Gesù fanno parte del primo gruppo dei bambini che cantano, ora, il canto funebre, in cui si ravvisa il comportamento ascetico e la dura predicazione escatologica del Battista, ma i giudei, facenti parte del secondo gruppo di bambini, anziché conformarsi ad una vita di penitenza, hanno preferito definire Giovanni come un indemoniato, cioè uno fuori di testa10; ora, suonano il flauto, in cui viene raffigurato Gesù, che mangia e beve con i peccatori (Lc 5,29-30; Mt 9,9-11), espressioni queste che raffigurano la gioia messianica del banchetto, ma i giudei anziché associarsi a tale gioia, hanno preferito definire Gesù un crapulone, frequentatore di gente di bassa lega, quali erano i peccatori e i pubblicani. In entrambi i casi il secondo gruppo di bambini, i giudei, hanno sempre dato delle risposte sbagliate.
A tal punto, mentre il racconto di Matteo prosegue ancora per altri cinque versetti con una veemente invettiva contro l'incredulità dei giudei, che viene posta sotto un giudizio di condanna (Mt 11,20-24), Luca preferisce chiudere il suo racconto con una visione più positiva e conforme alla sensibilità greco-ellenista, per la quale la chiusura matteana sarebbe stata del tutto incomprensibile: “E la sapienza fu giustificata da tutti i suoi figli”. Questa sentenza, che ha il suo parallelo in Mt 11,19b, si ricollega con quel “kaˆ” (kaì, e) ai vv.33-34 e si contrappone ad essi, per cui mentre i giudei, chiusi nella loro incredulità e impermeabili ad ogni annuncio e ad ogni segno, hanno rifiutato sia Giovanni che Gesù, coloro che invece li hanno accolti ne danno testimonianza. Viene in tal modo a crearsi una sorta di inclusione cristologica con il v.29, dove popolo e pubblicani accolgono in Giovanni l'evento salvifico da lui annunciato e si convertono. Questi sono diventati i figli della sapienza, cioè generati dal disegno di Dio manifestatosi in Gesù (1Cor 1,24.30), di cui, con la loro accoglienza, danno testimonianza; anzi la loro scelta esistenziale a favore della sapienza manifestatasi in Gesù, loro stessi sono divenuti testimonianza di questo evento salvifico. Significativa è l'espressione “tutti i suoi figli”, dove in quel “tutti” sono ricompresi non solo i giudeocristiani, ma anche gli etnocristiani, assegnando pertanto all'intera sentenza una valenza universale.
Una
sentenza questa lucana che si discosta leggermente da quella
matteana, rilevando una diversa prospettiva tra i due. Mentre Matteo
afferma che “la
sapienza fu giustificata dalle sue opere”
(11,19b), Luca modifica in “la
sapienza fu giustificata da tutti i suoi figli”.
La prospettiva di Luca è chiaramente ecclesiologica, poiché vede
nei figli di questa sapienza coloro che hanno aderito al progetto
salvifico del Padre rivelatosi in Gesù; Matteo, invece, rivolge il
suo invito ai Giudei a considerare l'evento Gesù secondo la sua
parola e i suoi segni, che danno testimonianza sia del suo
messianismo che della sua origine divina. Dalle opere di Gesù,
attraverso le quali egli si manifesta quale inviato del Padre,
quindi, i Giudei dovrebbero trarre le loro conclusioni.
Il
fariseo e la donna peccatrice
(vv.36-50)
Testo a
lettura facilitata
Il contesto narrativo (v.36)
36
– Ora, uno dei farisei lo pregava affinché mangiasse con lui; ed
entrato nella casa del fariseo, si coricò.
Presentazione
di due contrapposti personaggi (vv.37-39)
37
– Ed ecco una donna che era una peccatrice nella città, e
accortasi che (Gesù) stava a tavola nella casa del fariseo, avendo
portato una vaso di alabastro di profumo
38
– e stando dietro, presso i suoi piedi, piangendo incominciò a
bagnare con le lacrime i suoi piedi e con i capelli della sua testa
(li) asciugò e baciava i suoi piedi e (li) ungeva con il profumo.
39
– Ora, avendo visto il Fariseo, che lo aveva chiamato, disse in se
stesso, dicendo: <<Se questi fosse un profeta, saprebbe chi e
di che razza (è) questa donna, che lo tocca, poiché è una
peccatrice>>.
Preambolo
metaforico ai vv.44-50
40
– E rispondendo disse Gesù verso di lui: <<Simone ho
qualcosa da dirti>>. Egli: <<Maestro, parla>>,
affermò.
41
- <<Uno, creditore, aveva due debitori: uno era debitore di
cinquecento denari, l'altro di cinquanta.
42
– Non avendo loro da restituire, ad entrambi fu condonato. Chi di
loro, dunque, lo amerà di più?>>.
43
– Rispondendo Simone disse: <<Penso che (sia colui) al quale
fu condonato di più>>. Egli gli disse: <<Giudicasti
rettamente>>.
Due
comportamenti a confronto (vv.44-47)
44
– E voltatosi verso la donna, disse a Simone: <<Vedi questa
donna? Entrai nella tua casa, non mi desti l'acqua per (i) miei
piedi, ma lei con le lacrime bagnò i miei piedi e (li) asciugò con
i suoi capelli.
45
– Non mi desti (il) bacio; lei, invece, dacché entrai non cessò
di baciare (i) miei piedi.
46
– Non ungesti il mio capo con olio; essa, invece, unse i miei piedi
con profumo.
47
– A motivo di ciò, ti dico: le sono rimessi i suoi molti peccati,
poiché molto amò; a colui che, invece, è rimesso poco, poco ama>>.
Il
perdono dei peccati (vv.48-50)
48
– A lei, invece, disse: <<Sono rimessi i tuoi peccati>>.
49
– E i commensali incominciarono a dire tra loro: <<Chi è
costui che rimette anche i peccati?>>.
50
– Ma rivolto verso la donna, disse: <<La tua fede ti ha
salvato; va in pace>>.
Note
generali
Un
racconto, quello del fariseo e della peccatrice perdonata, alquanto
complesso, frutto dell'inventiva dell'autore, che ha fatto un
laborioso collage di materiali già esistente nella tradizione
evangelica e lo ha riadattato al suo racconto, corredandolo con frasi
fatte, già presenti nel suo vangelo. Almeno tre gli elementi più
evidenti, che Luca ha attinto da diverse fonti e attorno ai quali a
costruito il suo racconto:
il racconto della donna che unge Gesù con olio profumato, riportato in Mt 26,6-13, Mc 14,3-9 e Gv 12,1-8 nel contesto della passione. È significativo, infatti, come Luca, che segue molto da vicino Marco, non l'abbia riportato in tale contesto, derogando dalla Tradizione evangelica. Non si è trattato di una semplice svista né di una diversa visione cristologica, ma semplicemente per non creare un doppione. Luca, dunque, sapeva che quel racconto lì era collocato tradizionalmente alla vigilia della passione, ma ha preferito giocarselo altrove. La prima parte del racconto del fariseo e della donna, pertanto, è stato mutuato da Luca dagli altri tre evangelisti, dandogli una diversa collocazione. Che si tratti dello stesso racconto è evidente dal contesto comune a tutti in cui è stato posto: quello della cena; stesso è il nome del padrone di casa, Simone, che Mc 14,3a e Mt 26,6 definiscono come “il lebbroso”, ma che Luca, per esigenze di copione, definisce come “il fariseo”; diverso, invece, per Gv 12,3a, Gesù si trova presso la casa di Lazzaro, e la donna che unge Gesù è Maria, sorella di Marta e Lazzaro; mentre per Matteo e Marco il nome e la fama della donna sono anonimi; per Luca, sempre per esigenze di copione, questa assume l'identità di una pubblica peccatrice. Per tutti si tratta di un unguento profumato, contenuto per tutti tre i sinottici in un vasetto di alabastro. Per Marco e Matteo la donna versa l'olio profumato sul capo di Gesù, Luca si associa qui a Giovanni, in cui Maria unge i piedi di Gesù. Perché questa scelta? Probabilmente sia perché la donna lucana è ripresa presso i piedi di Gesù, che stava bagnando con le sue lacrime, asciugando con i suoi capelli e baciandoli; sia perché glielo suggeriva e consentiva lo stesso racconto giovanneo, che Luca doveva conoscere. Non v'è dubbio quindi, che il racconto della donna che unge Gesù sia lo stesso per tutti gli evangelisti.
Il secondo elemento che Luca ha attinto per comporre il suo racconto è la parabola del creditore, che aveva due debitori (vv.41-42). Una simile parabola si ritrova in Mt 18,23-34, dove compaiono due debitori con debiti enormemente sproporzionati tra loro, diecimila talenti il primo, cento denari il secondo. In entrambi i casi vi era una incapacità di saldare il proprio debito; in entrambi i casi il contesto è quello del perdono. Luca deve essersene imbattuto nella comune fonte Q ed averla completamente rimaneggiata, mutuandone soltanto l'idea. Sono infatti le uniche due parabole, molto simili tra loro, che si ritrovano in tutta la tradizione evangelica. Difficile farle risalire ad una pura casualità.
Ed infine, i vv.48-49 sono sostanzialmente identici a 5,20-21, mentre il v.50 lo si ritrova praticamente identico in 8,48; 17,19 e 18,42.
Un
racconto, quindi, che è stato costruito a tavolino pezzo per pezzo e
che, proprio per questo, soffre di qualche tensione interna. Non si
comprende come nel bel mezzo di un pranzo privato possa capitare
all'improvviso nella casa di un fariseo una nota prostituta. La
presenza di una simile donna, pubblica peccatrice, avrebbe resi
ritualmente impuri tutti i presenti e la stessa abitazione, senza
contare lo scandalo che ne sarebbe seguito: una prostituta nella casa
di un fariseo! Nessuno ha saputo fermarla prima? Eppure Simone, il
fariseo, nel vederla non batte ciglio, ma si limita a porre in dubbio
la natura profetica di Gesù, mentre la prostituta viene
completamente ignorata. Gesù, poi, accusa il fariseo di non aver
espletato il rituale di accoglienza nei confronti dell'ospite, come
il bacio della pace, il lavargli i piedi o il profumargli il capo.
Rituale, si badi bene, che non era obbligatorio, ma soltanto un gesto
di cortesia e di riguardo nei confronti di un ospite di rilievo o
particolarmente gradito. Non si capisce perché Gesù lo debba
accusare di non aver fatto un qualcosa che il fariseo non era tenuto
a fare, anche se questa accusa serviva a Luca per creare un confronto
tra il benpensante puro e ligio fariseo con la donna peccatrice. Ma è
inutile chiedere a Luca del perché di queste piccole incongruenze,
poiché non si tratta di un reportage cronachistico
dell'epoca, ma di un racconto che Luca ha creato dal nulla con un
laborioso assemblaggio di unità letterarie, mutuate da diverse
fonti, per meglio mettere in evidenza i suoi intenti squisitamente
cristologici.
Una nota va poi spesa su di un'altra incongruenza, che mette in rilievo una manipolazione tardiva del testo lucano da parte di terzi sconosciuti o forse dallo stesso Luca: la peccatrice viene perdonata dei suoi peccati, perché ha molto amato (v.47), ma il racconto conclude invece che è la fede che l'ha salvata. È probabile che il racconto originale di Luca si chiudesse con il v.47, sia perché questo concorda bene con la parabola del creditore e i due debitori (vv.41-42), mentre nulla hanno a che vedere con questi i vv.48-50; sia perché la chiusura della parabola regge bene anche senza questi ultimi versetti, i quali, come si è sopra rilevato alla lettera “c”, sono stati costruiti mutuandoli da testi lucani; sia perché questi ultimi tre versetti creano una stonatura con il resto del racconto. Perché, dunque, sono stati aggiunti? Probabilmente perché la peccatrice, protagonista di questo racconto, che già era stata perdonata al v.47, era stata lasciata dall'autore ai vv.37-38. Trattandosi di un perdono di peccati e della misericordia di Dio riversata su questa donna, probabilmente è sembrato opportuno chiudere il racconto con l'attenzione perdonativa di Gesù rivolta a lei. Non va escluso inoltre che l'aggiunta sia stata fatta per armonizzare la chiusura di questo racconto con quella di altri racconti lucani simili, come quello della donna che soffriva di perdite di sangue (8,43-48) o dei dieci lebbrosi (17,12-19) o del cieco di Gerico (18,35-42).
La
struttura del racconto, molto elaborata, è scandita in cinque parti,
che possono essere rilevate nella sezione del “Testo a lettura
facilitata”:
Il contesto narrativo (v.36)
Presentazione di due contrapposti personaggi (vv.37-39)
Preambolo metaforico ai vv.44-50 (vv.40-43)
Due comportamenti a confronto (vv.44-47)
Il perdono dei peccati (vv.48-50)
Commento ai vv.36-50
Il contesto narrativo (v.36)
Il
contesto in cui Luca colloca questo racconto è un pranzo, dove un
fariseo ed una peccatrice, assieme a Gesù, saranno gli attori
principali. Non era inconsueto che un qualche rabbi venisse invitato
a mensa da persone che lo ammiravano, per ricavarne qualche consiglio
o un qualche chiarimento o per un approfondimento, dopo averlo
sentito parlare, o più semplicemente per averne prestigio11
(11,37). Il banchetto era il luogo preferito degli incontri e, passo
dopo passo, Luca lascia intendere come questo banchettare di Gesù
insieme a pubblicani e peccatori (5,29; 15,2), ma anche con farisei
(7,36; 11,37; 14,1), prefigurava in qualche modo un altro banchetto,
quello messianico, dove tutti indistintamente, riconciliati tra loro
in Gesù (Ef 2,14-16), farisei o peccatori che fossero, sono chiamati
a sedersi a tavola con lui a condividere con lui la vita divina12.
Il banchetto diviene pertanto il luogo dell'incontro e del confronto
con Gesù, il luogo della riflessione e del ripensamento, il luogo
della riconciliazione e della condivisione, che prefigura quello
definitivo (22,29-30). Gesù stesso si farà pane e vino; lui stesso
si farà banchetto per tutti, dove Dio e gli uomini si ritrovano
nuovamente riconciliati tra di loro, così che Dio torna ad essere
nuovamente tutto in tutti, com'era nei primordi della creazione e
dell'umanità (1Cor 15,28). Ed è proprio ciò che avviene in questo
racconto, contestualizzato all'interno di un banchetto: esso diviene
il luogo della riflessione e del ripensamento per il puro fariseo
(vv.40-47) e nel contempo il luogo del perdono e della
riconciliazione per la peccatrice (vv.48-50); un banchetto dove
tutti, fariseo e peccatrice, convergono e si ritrovano in Gesù.
Presentazione
di due contrapposti personaggi
(vv.37-39)
Il
racconto si apre con un “kaˆ
„doÝ”
(kaì
idù,
ed ecco), narrativamente molto efficacie, poiché incentra
l'attenzione del lettore su ciò che sta per accadere. Stranamente il
racconto qui non comincia con il verbo molto caro a Luca “™gšneto”
(eghéneto,
avvenne), che ricorre ben 69 volte nel suo vangelo e scandisce
l'accadere dei tempi della salvezza. È probabile che qui l'autore,
considerata la laboriosità della costruzione di questo racconto,
così complesso e composito, se ne sia soltanto dimenticato.
La
pericope presenta, ben caratterizzate, due contrapposte figure: da un
lato una pubblica peccatrice, conosciuta nella città, dove Gesù era
ospite in casa del fariseo; dall'altro il fariseo, che osserva ciò
che sta facendo la donna entrata in casa sua, ma stranamente non
interviene e il suo moto è soltanto interiore, non rivolto alla
peccatrice, forse una prostituta, ma a Gesù, di cui mette in dubbio
la sua vera natura di profeta. Nessuno dei due parla: la prima
agisce, il secondo pensa; la prima, pentita e commossa, abbraccia i
piedi di Gesù, bagnandoli con le sue lacrime, asciugandoli con i
suoi capelli, baciandoli e profumandoli con olio; vede in lui una
sorta di ancora di salvezza e di ritrovato senso della vita e, ancor
prima, della propria dignità; il secondo, per contro, assume un
atteggiamento critico nei confronti di Gesù, sminuendolo nella sua
dignità. Due personaggi rivolti entrambi verso Gesù, ma vanno in
contrapposte direzioni. La donna accoglie in se stessa Gesù,
abbracciandolo con la sua vita, di cui lacrime, capelli e baci sono
una metafora. Il fariseo, chiuso nelle sue sicurezze ne prende le
distanze. Una donna che Luca, sia pur in modo velato e quasi
impercettibile, la presenta come una discepola di Gesù. Il v.38,
infatti, inizia in modo enigmatico, ma significativo, con
l'espressione “st©sa
Ñp…sw par¦ toÝj pÒdaj aÙtoà”
(stâsa
opíso parà tùs pódas autû,
stando di dietro presso i suoi piedi). Un'espressione questa che
definisce la posizione della donna nei confronti di Gesù: essa è
colei che sta dietro a Gesù, presso i suoi piedi. La posizione
questa caratteristica dei servi nei confronti dei loro padroni:
“Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come
gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona, così i nostri
occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di
noi” (Sal 122,2). L'idea che ne nasce è quello dei servi che
stanno accovacciati ai piedi dei propri padroni, guardando le loro
mani e pronti ad eseguine gli ordini ed esprime un atteggiamento di
fedeltà, di fiducia e di sottomissione. La donna, tuttavia, non sta
solo presso i piedi di Gesù, ma anche dietro di lui. Posizione
questa espressa dall'avverbio Ñp…sw,
che ricorre 26 volte nei vangeli ed indica la posizione del discepolo
nei confronti del maestro: egli sta dietro al suo maestro. Un
avverbio che definisce, quindi, la sequela del discepolo. È la prima
volta che questo avverbio compare nel vangelo di Luca e appare
proprio qui, riferito ad una donna di malaffare, per indicarne una
sequela caratterizzata, con quel “presso i suoi piedi”, dal
servizio, dal suo rendersi disponibile a Gesù; così come per la
prima volta nel racconto lucano compare, similmente, una chiamata
diretta di Gesù, rivolta a Levi, anche questi pubblico peccatore,
anche questa caratterizzata dal servizio (5,27-28). Il verbo
“¢kolouqšw”
(akolutzéo),
con cui Gesù chiama Levi, parla di una sequela che si fa servizio.
Esso significa seguire, andare assieme, accompagnare, lasciarsi
guidare, e come sostantivo, “¢kÒlouqoj”
(akólutzos)
significa servo, schiavo, inteso come colui che segue il suo padrone
per servirlo. Luca, pertanto, vede in quella donna peccatrice, che
abbraccia con la sua vita Gesù, con profondo slancio pieno di
emozioni, una discepola che si pone al suo servizio, così come lo fu
per Levi. Non è un caso, infatti, che il racconto venga fatto
immediatamente seguire da Luca da 8,1-3 dove viene presentato un Gesù
che sta annunciando la buona novella del Regno di Dio accompagnato
dai Dodici e assieme a loro diverse donne che gli avevano dedicato la
vita per servirlo.
Preambolo
metaforico ai vv.44-50
(vv.40-43)
La pericope
contiene, da un lato, la risposta alla critica del fariseo nei
confronti di Gesù, introdotta dall'espressione “E rispondendo
disse Gesù verso di lui”. Ciò che sorprende non è tanto il fatto
che Gesù si rivolga a Simone, ma la sottolineatura di quel
“rispondendo”, quasi che il fariseo l'avesse criticato
apertamente davanti a tutti, anziché nel segreto del suo animo.
Gesù, dunque, sa leggere nei pensieri e nell'animo degli uomini,
dimostrando in tal modo al fariseo non solo l'erroneità della sua
valutazione, cioè che Gesù non fosse un profeta, ma anche come egli
ben sapesse chi fosse quella donna e come sapesse leggere nel suo
cuore così come ha saputo leggere nel cuore e nel pensiero del
fariseo. Dall'altro, questa pericope prepara il materiale per la
controcritica di Gesù nei confronti del fariseo e lo fa chiamandolo
in causa in prima persona e incitandolo a decidere lui, a sua
insaputa imputato, su di un caso che lo vede coinvolto nella
metafora, e il giudizio che egli emetterà gli si torcerà contro. Un
procedimento che richiama da vicino quello del profeta Natan contro
la prepotenza omicida di Davide, che fece uccidere Uria l'Hittita per
appropriarsi di Betsabea, sua moglie (2Sam 12,1-10). Gesù si rivolge
al fariseo chiamandolo per nome: “Simone, ho qualcosa da dirti”.
Si tratta di una sorta di convocazione a giudizio e la chiamata per
nome dice fin da subito come il fariseo sia implicato in tale
giudizio, che non emetterà Gesù, ma lo stesso imputato. Gesù qui
si limiterà a fornire i termini della causa da sottoporre a Simone.
I vv.41-42
presentano una parabola, come si è detto sopra (pag.17),
per diversi aspetti molto simile a quella di Mt 18,23-35, ma la
prospettiva è completamente diversa: la morale di Matteo è che per
chi è stato perdonato è d'obbligo perdonare, poiché ciascuno
subirà da Dio la stessa sorte che questi avrà fatto subire a suo
fratello. Un concetto questo che ritornerà anche nella formula del
Padre nostro: “rimetti
a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri
debitori” (Mt 6,12). Il perdono sarà concesso nella
misura in cui si sarà dato. Per Luca, invece, qui è importante la
risposta che proviene a livello esistenziale da parte dei due
perdonati nei confronti dell'unico creditore: l'amore, che sarà più
o meno intenso in proporzione al proprio debito condonato o forse è
meglio dire dell'esperienza di perdono fatta.
Vi
sono, quindi, due debitori con debiti diversi, anche se non così
vistosamente diversi ed enormemente sproporzionati come in quelli del
racconto matteano: solo 500 denari l'uno e 50 l'altro. Un denaro
equivaleva all'incirca ad una giornata di lavoro di un operaio (Mt
20,2). Il rapporto qui è di uno a dieci, incalcolabile in quello di
Matteo. Unico è il creditore per entrambi. Il creditore qui è Dio,
i debitori sono la peccatrice, rappresentata dal debito di 500
denari, e lo stesso fariseo, che nonostante si ritenesse giusto aveva
anche lui il suo debito, sia pur inferiore a quello della peccatrice,
definito in 50 denari, poiché di fronte a Dio nessuno può ritenersi
giusto, ma tutti sono bisognosi di giustificazione (Rm 3,23). Benché
questo non fosse l'insegnamento principale, tuttavia, rientra anche
questo nel paniere della parabola. Ciò che qui interessa a Gesù è
la risposta dei due debitori: entrambi rispondono in modo corretto al
loro creditore, amandolo con riconoscenza, ma diversa sarà la
profondità di questo loro amore, poiché diverso è il debito
condonato. Su questo verrà incentrata l'attenzione di Simone e dello
stesso lettore di Luca, implicitamente chiamato anche lui a dare il
suo giudizio. È questo, infatti, il senso delle parabole,
coinvolgere il lettore e, in qualche modo, costringerlo a prendere
posizione: “Chi
di loro, dunque, lo amerà di più?”.
Il verbo qui usato dall'autore per indicare l'amore è “¢gap£w”
(agapései),
un verbo alquanto appropriato, esso significa accogliere con amore,
trattare amorevolmente e con affetto, aver caro. Un verbo che
definisce il rapporto che si instaura tra i due debitori con il
proprio creditore; un rapporto che affonda le proprie radici nella
vita stessa dei due creditori, benché ben diversa ne sia la
profondità. Un verbo questo che in Giovanni definisce il reciproco
rapporto tra il Padre e Gesù e tra Gesù e i suoi discepoli. Agapáo,
pertanto, acquista qui una valenza particolarmente spirituale e
definisce rapporti superiori e molto diversi da quelli che
intercorrono tra gli uomini. Qui ci si pone su di un livello
divino-umano, in cui l'umano perdonato fa l'esperienza del divino
perdonante. In greco, infatti, vi sono altri due verbi che
definiscono l'amare, quale particolare rapporto tra persone: eráo,
che ha attinenza con l'amore fisico; e filéo,
più elevato, che ha a che vedere con il sentimento e le emozioni e
definisce un rapporto di amicizia; agapáo,
invece,
interpella lo spirito e dice come in questa esperienza di perdono la
peccatrice faccia la sua esperienza di Dio, sconvolgente e tale da
dedicargli poi tutta la sua vita in una sequela di servizio e di
amore.
Due comportamenti
a confronto (vv.44-47)
L'attenzione
di Gesù passa ora da Simone alla donna e dà inizio ad un serrato
confronto tra il fariseo e la donna: il fariseo nei confronti di Gesù
ha mancato di alcune regole della buona accoglienza nei confronti
dell'ospite. Il Gesù lucano qui ne elenca tre: all'ospite veniva
offerta dell'acqua per lavarsi i piedi. Una norma più igienica che
di cortesia. Le strade all'epoca erano polverose e quando pioveva ci
si infangava. Non vi erano scarponcini che proteggevano il piede, ma
soltanto sandali. I piedi pertanto erano molto esposti. Era, poi,
buona norma accogliere l'ospite nella propria casa con il bacio della
pace, che gli diceva come egli fosse il benvenuto tra i suoi
abitanti; mentre l'olio profumato, che talvolta veniva cosparso sul
suo capo, era solo un gesto per dirgli quanto egli fosse
particolarmente gradito. Non è pensabile che il fariseo avesse
ignorato tutte quante queste forme di cortese accoglienza nei
confronti di Gesù, la cui fama doveva essere ormai ben conosciuta e
affermata, anche se controversa13.
Tuttavia, esigenze di copione dovevano presentare queste mancanze del
fariseo, che esce perdente dal confronto con la peccatrice, che
riversa sui piedi di Gesù, senza formalità alcuna, tutta se stessa:
lacrime, capelli, baci e profumo, esprimendo con ciò il suo grande
amore per lui e ponendosi al suo servizio. Ed è proprio questo suo
amore (“A motivo di ciò”
v.47a), espresso con questi gesti di dedizione di se stessa, che le
merita il perdono per una vita passata nel peccato.
Il
v.47 chiude il racconto in modo sentenziale: “le
sono rimessi i suoi molti peccati, poiché molto amò; a colui che,
invece, è rimesso poco, poco ama”. Una sentenza che qui
assume toni universali ed ha un occhio di riguardo nei confronti dei
peccatori, termine questo che designa il mondo dei pubblicani, delle
prostitute, ma anche dei pagani; mentre denuncia la freddezza del
mondo giudaico nei confronti di Gesù, poiché era un mondo che si
riteneva giusto (18,10-14) e per questo Dio non aveva molto spazio.
L'amore di cui qui il Gesù lucano parla non riguarda sentimenti od
emozioni, ma l'atteggiamento di apertura e accoglienza nei suoi
confronti, cosa che invece non ha saputo fare il giudaismo Per questo
il Gesù matteano accuserà, rivolto alle autorità religiose
giudaiche: “vi dico che i
pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio. Venne a voi
Giovanni nella via della giustizia, e non gli credeste; i pubblicani
e le prostitute , invece, gli credettero. Ma voi, pur avendo visto,
non vi siete pentiti per poi credergli.” (Mt 21,31b-32)
Il perdono dei peccati (vv.48-50
Era sufficiente il v.47 per chiudere il laborioso racconto del fariseo e la peccatrice. Già lì veniva detto che la peccatrice era stata perdonata per l'amore dimostrato a Gesù. Non erano necessari questi ulteriori tre versetti, che sono una stonatura e stridono con il v.47. Qui infatti si parla di perdono per l'amore profuso dalla peccatrice; in 48-50 si parla di perdono che invece essa ha ottenuto per fede. Certamente sono versetti aggiunti successivamente e suonano qui come una forzatura, ma consentono alla redazione finale di chiudere questo racconto con un ultimo sguardo e un'ultima parola rivolti alla peccatrice. Dalle parole di rimprovero rivolte al fariseo, ora Gesù passa a quelle di perdono, che confermano di fatto un perdono già concesso al v.47, là ottenuto per amore, qui per fede. In entrambi i casi si sottolinea l'apertura esistenziale della peccatrice a Gesù. Una remissione di peccati che crea stupore scandalizzato, come è avvenuto nel racconto del paralitico (5,20-21) e che ha come movente unico la fede, la piena fiducia e abbandono del peccatore nei confronti di Gesù.
N O T E
1I due racconti sono finalizzati a scuotere i discepoli di Giovanni, che vanno a riferire al loro maestro quanto stava accadendo (v.18a). Era sufficiente il primo, avvenuto a Cafarnao, peraltro riportato sia da Matteo che da Giovanni, per giustificare la reazione dei giovannei; anche perché il secondo intervento di Gesù avviene a Nain, che dista da Cafarnao circa una quarantina di Km, per cui è da pensare che i discepoli di Giovanni o erano ovunque o stavano seguendo Gesù. Il secondo racconto, quindi, crea in un certo qual modo una forzatura narrativa, anche perché Luca ha dovuto reperirlo da materiale proprio o comunque crearlo con propria inventiva.
2Cfr. At 10,1-2.22; 13,16.26; 16,14-15; 18,7
3Sulla questione dei timorati di Dio cfr. la voce “Timorati di Dio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.
4Cfr. in merito al doppione pag.3 del commento al presente cap.7
5Cfr. Is 1,17.23 10,2; Ger 5,28;7,6; 22,3; 49,11; Bar 6,37; Ez 22,7;
6L'immagine del duello tra vita e morte è stata tratta dalla seconda strofa della sequenza pasquale: “Morte e vita si sono battute in prodigioso duello il Signore della vita, morto, vivo trionfa”.
7In tal senso cfr. anche Lc 4,44; 6,17; 7,17; At 2,9; 10,37; 15,1; 21,10
8Gv 3,31; 6,46; 11,27
9Cfr. Nm 32,13; Dt 32,5.20; Sal 77,8; 94,10; Ger 2,31; 7,29;
10L’espressione “DaimÒnion œcei” (Daimónion échei, ha un demonio), riferita a Giovanni, non va intesa in termini di possessione demoniaca, ma corrisponde al nostro “essere fuori di sé”, con riferimento ad un comportamento che si distacca dalla normalità o dalle nostre attese
11Cfr. 5,25; 11,37; 14,1. Cfr. anche O. da Spinetoli, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi 1999.
12Cfr. 13,29; 14,15-24; 22,28-30
13Cfr. Lc 4,14.37; 5,15; 7,17