IL VANGELO SECONDO LUCA

La Chiesa, costituita attorno ai Dodici,
va verso le genti
(Lc 6,1-49)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




Note generali


Il cap.6 va a completare il cap.5 e nel loro insieme formano un piccolo trattato di ecclesiologia, scandito in due grandi sezioni. La prima, 5,1-6,17, si apre con l'affermazione del primato petrino (5,1-10) e la chiamata dei primi discepoli (5,11.27-28) e si chiude con la costituzione dei gruppo dei Dodici (6,12-17a), che, insieme a Gesù, si incammina verso le genti, che attendono la sua parola risanatrice e rigeneratrice (6,17b). La seconda sezione, 5,17-6,11, posta all'interno della prima, è caratterizzata da cinque diatribe riguardanti l'identità di Gesù e la sua capacità di rimettere i peccati (5,21.24); una questione di purità o forse è meglio dire di promiscuità, che comunque ha sempre a che vedere con la purità rituale (5,29-32); una sul digiuno (5,33-35); due riguardanti il sabato (6,1-11). Al centro di questa seconda sezione si colloca una piccola raccolta di tre detti di Gesù (5,36-39), che ne costituiscono il cuore, poiché mettono in rilievo le motivazioni profonde delle continue diatribe tra il Giudaismo e Gesù, che lo condurranno sulla croce.

Il cap.6 contiene elementi molto importanti e significativi perché da un punto di vista storico aiutano a comprendere le ragioni per cui si è giunti alla formazione di una nuova chiesa, che, originatasi all'interno del Giudaismo, da questo si è poi distaccata con un'organizzazione propria, una propria identità, qualificata da una nuova comprensione del rapporto tra il credente e Dio; un rapporto non più legato al Tempio e ai continui sacrifici e alle ossessive e ossessionanti ritualità e prescrizioni mosaiche (Mt 23,4a; Gal 5,1), ma un nuovo culto celebrato nel cuore e nella vita di ogni credente (Gv 4,20-24; Rm 12,1-2). Non è un caso, infatti, che Luca, subito dopo le cinque diatribe e la constatazione della definitiva incompatibilità tra il nuovo insegnamento di Gesù e la Tradizione giudaica (5,36-39), inserisca immediatamente il racconto della costituzione dei Dodici, quale contrapposizione alle pretese del Giudaismo: all'antico Israele, generatosi dai dodici figli di Giacobbe, ora viene contrapposto il gruppo dei Dodici, non più generato dalla carne, ma dallo Spirito (v.12) e da cui, a sua volta, verrà generato un nuovo Israele (vv.17-19), non più secondo la carne e definito da asfissianti e interminabili genealogie1, che dovevano comprovare l'appartenenza al popolo dell'Alleanza e, quindi, eredi della Promessa, ma fondato sulla fede e nello Spirito (Rm 8,2.14; Eb 7,3). Un nuovo Israele, dai tratti messianici ed escatologici, destinato ad abbracciare l'intera umanità (vv.17-19) e in qualche modo profetizzato da Is 60,1-22.

L'identità del nuovo Israele, nato dalla costituzione dei Dodici, viene ora fatto seguire da Luca da una sorta di Charta Magna, che ne delinea i tratti salienti. Si tratta di una raccolta di detti sapienziali attribuiti a Gesù (vv.20-49) e classificati per categorie concatenate le une alle altre, dalle quali emerge il profilo della chiesa ai tempi di Luca. Si tratta di una chiesa che è perseguitata e sofferente per la sua fede (vv.20-26) e che deve rispondere ai suoi persecutori con l'amore, che si fa dono senza pretendere il contraccambio e che ha come parametro di confronto lo stesso Padre di tutti, che accoglie in un unico abbraccio sia i buoni che i malvagi (vv.27-35). Un amore che si fa compassione, ben lungi dal giudicare e dal condannare, ma che si traduce in perdono per tutti, divenendo la misura con cui anche il credente verrà misurato (vv.36-38). L'amore, dunque, diviene l'elemento caratterizzante della nuova comunità messianica perseguitata: “In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni verso gli altri2 (Gv 13,35). Vengono poi fatte seguire tre brevi pericopi che delineano alcuni tratti etici del nuovo credente: questi deve sviluppare più che una critica verso gli altri, verso se stesso (vv.41-42); il buono o il malvagio li si riconoscono dai loro frutti, cioè dal loro modo di comportarsi (vv.43-45); il vero discepolo non lo si riconosce dalle parole di lode a Dio, ma dal suo fondare la propria vita sulla Parola (vv.46-49).

La struttura di questo sesto capitolo si presenta, ma solo in apparenza, come una giustapposizione di unità letterarie, abilmente imbastite da Luca. In realtà, esso è una concatenazione di racconti sottesi da un unico pensiero ecclesiologico, che tratteggia, da un punto di vista storico, le cause che provocarono il nascere della chiesa, la sua costituzione e il formarsi della sua identità. Si avrà pertanto il seguente e significativo sviluppo strutturale:


  1. doppia diatriba sul sabato (vv.1-5; 6-11);

  2. costituzione e presentazione del gruppo dei Dodici (vv.12-17a);

  3. preambolo al discorso della pianura ovvero la variegata composizione dei nuovi credenti, risanati e rigenerati dall'ascolto accogliente della Parola (vv.17b-19);

  4. il discorso della pianura in cui viene tracciata l'identità spirituale (vv.20-38) ed etica (vv.39-49) della chiesa nascente (vv.20-49).

A partire da 6,17b e fino a tutto 8,3 Luca non segue più il racconto di Marco, ma con materiale proprio e di fonte Q, inserisce una nuova ed ampia sezione tutta sua, definita “piccolo inserto”, per poi riprendere lo schema narrativo marciano con 8,4 e fino a tutto 9,50. Da 9,51 e fino a tutto 18,14 avrà inizio “il grande inserto”3.


Commento a 6,1-49


Le due diatribe sul sabato (vv.1-5; 6-11)

Testo

1 - Ora avvenne che in un giorno di sabato egli passasse attraverso delle messi, e i suoi discepoli strappavano e mangiavano le spighe sgranando(le) con le mani.
2 – Ma alcuni dei farisei dissero: <<Perché fate ciò che non è permesso nei sabati?>>.
3 – E Gesù rispondendo verso di loro disse: <<Non avete mai letto questo, ciò che fece Davide quando ebbe fame lui e quelli [che erano] con lui?
4 – [Quando] entrò nella casa di Dio e, presi i pani della presentazione, (ne) mangiò e (ne) diede a quelli con lui, che non è permesso di mangiare se non ai soli sacerdoti?>>.
5 – E disse loro: <<Il Figlio dell'uomo è signore del sabato>>.
6 – Ora avvenne che in un altro sabato egli entrò nella sinagoga ed insegnava. E là vi era un uomo e la sua mano destra era arida.
7 – Ora lo osservavano gli scribi e i farisei se nel sabato guarisse, per trovare di (che) accusarlo.
8 – Ma egli conosceva i loro pensieri, ora disse all'uomo, che aveva la mano arida: <<Alzati e stai nel mezzo>>. E alzatosi, stette.
9 – Ora, Gesù disse verso di loro: <<Vi interrogo se di sabato è lecito fare del bene o fare del male, salvare o perdere una vita?>>.
10 – E guardando d'intorno tutti quanti, gli disse: <<Stendi la tua mano>>. Egli (lo) fece e la sua mano fu ristabilita.
11 – Ma quelli furono ripieni di stoltezza e discorrevano gli uni gli altri su che cosa fare a Gesù.


Note generali

Luca presenta ora le ultime due diatribe, la quarta e la quinta, incentrate entrambe sul rispetto del sabato. Due perché due sono le prospettive che l'autore prende qui in considerazione: la preparazione del cibo in giorno di sabato (vv.1-5); la liceità del guarire un infermo in tale giorno (vv.6-11). Benché apparentemente sembrino temi diversi, nutrimento e salute, in realtà entrambi hanno una radice comune, che ha a che vedere con la vita dell'uomo, colta nelle sue diverse espressioni e necessità.

Il sabato ha la sua origine nella necessità di dare una tregua all'uomo dalle sue fatiche quotidiane, dopo sei giorni dedicati ad un duro lavoro. Lo dice lo stesso termine “sabato”, che ha la sua radice nel verbo ebraico “šâbat” usato spesso nel senso di “cessare di lavorare, riposarsi”, ma che nella sua forma originale, “šabbât” significa “cessare, arrestare, porre un limite”4. Il sabato, quindi, è il giorno che pone un limite alle attività per consentire un giusto riposo, una tregua dalle fatiche quotidiane. Un momento di quiete in cui l'uomo, libero da gravosi impegni quotidiani, è chiamato a ritrovare se stesso, evitando di disperdersi nelle cose, banalizzando la propria vita. L'origine del sabato o della sospensione delle fatiche quotidiane ha, pertanto, la sua radice negli stessi ritmi biologici e psicologici dell'uomo, che ha bisogno di uno stacco dalla sua quotidianità per ritemprarsi sia fisicamente che psichicamente. Tale necessità connaturata all'uomo, riportata all'interno dell'Alleanza, viene reinterpretata e caricata di una valenza sacra, che trova la sua motivazione teologica in Es 20,8-11: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro”. La sospensione delle attività umane dopo sei giorni di incessante lavoro non è più motivata qui dalla necessità del naturale bisogno di riposo, ma dal fatto che Dio ha sospeso la sua attività creatrice dopo sei giorni, riposando il settimo, giorno in cui ha portato a compimento la creazione, rendendolo per ciò stesso sacro (Gen 2,1-3). Dio, pertanto, diviene modello e parametro su cui l'uomo è chiamato a confrontarsi e a rimodellarsi, sollecitato in questo anche da Lv 19,2 che esorta Israele ad essere santo perché Lui, Dio, è Santo. Similmente l'uomo in questo settimo giorno trova il compimento e il senso del suo faticare, dando un valore sacrale ai sei giorni di lavoro. Si viene in tal modo a creare un parallelismo tra l'attività creatrice di Dio e quella dell'uomo, chiamato a continuarne l'opera creatrice (Gen 1,26-27; 2,15). Il sabato, pertanto, ricorda all'uomo che la vita è un gravoso impegno e troverà il suo pieno compimento e il suo autentico senso soltanto allorché confluirà in quel ultimo Sabato, che appartiene a Dio, e del quale i sabati intermedi, che scandiscono il suo tempo, divengono tappe intermedie. Si è venuto, pertanto, a creare uno spostamento dall'uomo verso Dio, che poi si riflette nuovamente sull'uomo, ma caricato di una nuova comprensione e di un nuovo significato. Tuttavia la comprensione della Torah scritta come volontà di Dio, che va soltanto eseguita5, ha ricompreso il sabato come il luogo non più riservato all'uomo, ma a Dio, espropriandolo di fatto di questa sua peculiare dimensione. Questo spostamento ha svilito la sacralità del sabato, riducendolo ad una serie di pratiche pedanti6 e di costrizioni normative7, che hanno di fatto imprigionato l'uomo, alienandolo e schiavizzandolo a Dio. Il senso originario, pertanto, del sabato è andato perduto, così che il Gesù marciano dovrà ricordare alle stesse autorità religiose che “Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!” (Mc 2,27). Al centro del sabato viene pertanto ricollocato l'uomo, mentre Dio riserva per se stesso il settimo giorno non per appropriarsene, ma per consacrarlo e santificarlo come luogo della sua presenza, consacrando e santificando in tal modo l'uomo e la sua attività che lo abitano. Dio, pertanto, si pone in funzione dell'uomo e non l'uomo in funzione di Dio. È Lui, infatti, che va verso l'uomo e gli tende la mano e non viceversa (Rm 5,6-8), poiché l'uomo nella sua fragilità ne è sostanzialmente incapace. Il Padre, infatti, ha inviato suo Figlio “per noi uomini e per la nostra salvezza” (Gv 3,16).

Le spighe strappate e sgranate in giorno di sabato (vv.1-5)

L'episodio, che trova i suoi passi paralleli in Mt 12,1-4 e Mc 2,23-28, è costruito attorno ad un detto di Gesù (v.5), con cui si chiude la pericope, per mettere in evidenza la signoria di Gesù anche sul sabato, che di fatto si contrappone all'autorità mosaica. Un racconto artificioso, quindi. È difficile, infatti, che in mezzo a campi di grano vi siano, lì pronti, dei farisei a contestare a Gesù e ai suoi la violazione del sabato. Una contestazione di violazione, che, peraltro, è solo parziale, poiché il camminare in giorno di sabato era permesso, ma soltanto per non più di mille passi, circa 800/900 metri. Ed è difficile pensare che chi passa in mezzo ai campi ne percorra meno. Una restrizione questa che viene menzionata anche da At 1,12 e che trova la sua giustificazione in Es 16,29: “Vedete che il Signore vi ha dato il sabato! Per questo egli vi dà al sesto giorno il pane per due giorni. Restate ciascuno al proprio posto! Nel settimo giorno nessuno esca dal luogo dove si trova8. Dt 23,26, invece, concedeva di raccogliere delle spighe dal campo presso cui si passava: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne spighe con la mano, ma non mettere la falce nella messe del tuo prossimo”. Ma ciò che qui viene esplicitamente contestato sono due movimenti, proibiti in giorno di sabato: “lo strappare le spighe” e “lo sgranarle con le mani”. Due attività queste che rientrano nelle 39 melachot, categorie di attività proibite in giorno di sabato. Tra queste sono previsti i divieti di mietere, trebbiare e vagliare (cfr. nota 6).

La contestazione mossa dagli scribi (v.2) mette a fuoco la questione e prepara la risposta di Gesù, che lascia perplesso il lettore. Qui, infatti, si fa riferimento a 1Sam 21,1-9, in cui Davide con dei suoi compagni sono in fuga da Saul, ed affamati si fermano presso il sacerdote Achimelech, chiedendogli del cibo per sfamare se stesso e i suoi. Non avendo nient'altro, il sacerdote diede il pane posto sull'altare in offerta a Jhwh; pane, quindi, consacrato, di cui potevano cibarsi, per disposizione divina, esclusivamente i sacerdoti (Lv 24,5-9). Benché la risposta sembri non avere alcuna attinenza con il raccogliere qualche spiga di grano, in realtà i due episodi mostrano dei punti in comune: a) in entrambi i racconti ci sono delle persone in uno stato di bisogno: hanno fame. In questo Mt 12,1 è più esplicito: “e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere spighe e le mangiavano”; b) per soddisfare i propri bisogni primari sia Davide, con il beneplacito del sacerdote Achimelech, sia i discepoli, con il tacito consenso di Gesù, violano delle disposizioni divine. Di conseguenza se ne deduce che a fronte di propri bisogni di primaria importanza, che hanno a che vedere con le esigenze della propria vita, anche i comandi divini possono essere superati e, comunque, non possono mai contraddirla, poiché la vita dell'uomo, fatto ad immagine e somiglianza divine, ha le sue radici profonde in quella di Dio. E il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio di Gesù non è Moloch9, che pretende sacrifici umani, ma ama la vita ed è fonte primaria della vita (Sap 11,24-26) e nessuno dei suoi comandi la può in qualche modo contraddire o violare, poiché Dio andrebbe a negare se stesso.

Il racconto si conclude con il detto di Gesù: “Il Figlio dell'uomo è signore del sabato” (v.5). Diversamente da Mc 2,27-28, che a conclusione del racconto riporta due detti di Gesù, Luca ne raccoglie uno soltanto da Marco (Mc 2,28), il secondo, omettendo il primo: “Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato!” (Mc 2,27). La scelta lucana, fatta cadere sul secondo detto, è motivata dallo scarso interesse che Luca mostra verso le problematiche caratteristiche del Giudaismo, riportandole nel suo vangelo per puro dovere, poiché segue lo schema del racconto marciano. Non è un caso, infatti, che Luca salti l'intero cap.7 di Marco, che riporta la questione della purità. Questioni queste, purità e sabato, tutte giudaiche e del tutto incomprensibili non soltanto all'autore, greco, ma anche per il mondo greco-ellenistico, per il quale sta componendo il suo vangelo. Preferisce sottolineare, invece, la figura di Gesù quale “Figlio dell'uomo e signore”, rilevando in tal modo la sua signoria e il suo potere universali. Immagini queste che il suoi lettori, invece, ben comprendono.

La guarigione dell'uomo dalla mano arida (vv.6-11)

Il guarire di Gesù in giorno di sabato torna sovente in Luca10. Forse per la sua professione di medico e di giurista11 si sente in dovere di difendere l'operato di Gesù, che pospone le esigenze del sabato a quelle degli uomini, così come farebbe ogni buon medico per il suo giuramento di Ippocrate: al centro di tutto ci sta l'uomo, ci sta l'affermazione della vita. In tutti tre i racconti il contesto in cui avvengono le guarigioni è la sinagoga dove Gesù ammaestrava (vv. 6-11; 13,10-17) e la casa di un capo dei farisei (14,1-6). Il luogo dunque è quello proprio del giudaismo: sinagoga e, similmente, la casa di un capo dei farisei. Qui Gesù impartisce il suo insegnamento sul rapporto che deve intercorrere tra il sabato e l'uomo; tra le esigenze di Dio e quelle dell'uomo. Entrambe non vanno sacrificate le une alle altre; entrambe non sono incompatibili le une con le altre, ma le une tendono ad affermare le altre e nel loro reciproco riconoscimento e affermazione si crea il giusto contesto perché si realizzi il progetto salvifico di Dio: ricondurre l'uomo in seno a Se stesso; e il sabato è il luogo dove l'uomo è chiamato ad incontrarsi con il suo Dio. Non dunque un luogo di prevaricazione dell'uno sull'altro, ma di incontro reciprocamente accogliente.

Caratteristica comune ai tre racconti di guarigione in giorno di sabato è l'iniziativa di Gesù nei confronti di uomini o donne afflitti dal male che li tormenta, ma nel contempo egli cerca di far riflettere il giudaismo sul senso del sabato. Per cui prima di guarire chiede, come nel presente racconto, se è lecito fare del bene o meno in giorno di sabato; salvare o perdere una vita (v.9); o se è lecito curare o meno di sabato (14,3); ed infine, di fronte allo scandalizzato capo sinagoga per la guarigione in giorno di sabato di una donna inferma da diciotto anni, spinge a riflettere come già si violi il precetto del sabato per sciogliere gli animali e condurli a bere (13,14-16) o per recuperarli qualora siano caduti in un pozzo (14,5). Forse gli uomini, creati ad immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27), valgono meno degli animali? È questo l'insegnamento che Gesù impartisce alle autorità religiose, che in 5,17 erano sedute davanti a lui, nell'ambiguo atteggiamento proprio del maestro, ma altresì caratteristico del discepolo. Per questo Gesù in tutti tre i racconti di guarigione in giorno di sabato non attende l'invocazione dell'infermo, ma agisce indipendentemente da questa: perché il suo è un insegnamento. L'iniziativa, dunque, in quanto maestro, è sua.

Il v.6 si apre con il verbo caratteristico di Luca: “Ora avvenne”, che scandisce il tempo del compiersi della salvezza e indica nell'episodio che segue come essa si realizzi. Si badi bene che qui l'oggetto della salvezza non è l'infermo guarito, ma il sabato, indicato come il luogo in cui si compie la salvezza, allorché l'uomo si incontra con il suo Dio. L'attenzione, infatti, è posta sul sabato non sull'infermo. Non vi è qui, infatti, nessuna richiesta di guarigione, nessuna invocazione. E la presenza degli scribi e dei farisei, che spiano se egli violi il sabato con una qualche guarigione inopportuna per poterlo accusare (v.7), ne è la prova. Gesù capisce ciò che sta per accadere, capisce che quel infermo non è lì per caso, ma che glielo hanno messo lì per provocarlo (v.8). L'infermo, suo malgrado, è soltanto l'esca, che si trova tra due fuochi, tra due contrapposte comprensioni di Dio, tra due opposti modi di relazionarsi a Lui: legalistico, quello del Giudaismo, che antepone la Legge all'uomo; divino, quello di Gesù, che pone l'uomo al centro degli interessi di Dio. Per questo Gesù ordina all'uomo di “stare nel mezzo”, poiché qui ora sta per compiersi un giudizio sul modo di intendere Dio: una Volontà che s'impone all'uomo con la sua Legge o un Amore che lo accoglie, rigenerandolo alla vita. In gioco qui ci sono queste due contrapposte visioni di Dio.

Il v.9 introduce la vera questione: “Ora, Gesù disse verso di loro: <<Vi interrogo se di sabato è lecito fare del bene o fare del male, salvare o perdere una vita?>>”. Si noti come qui Gesù sposta la questione legale, se si può guarire in un giorno di sabato, evitando in tal modo infiniti dibattimenti di casistiche, come era consuetudine tra i i dottori della Legge, su di una questione etica, che regolamenta il comportarsi dell'uomo nei confronti di Dio e del proprio simile. “È lecito fare il bene o il male, perdere o salvare una vita in un giorno di sabato?”. È questa la questione di fondo: il sabato come luogo che Dio si è riservato e nel quale l'uomo è chiamato ad entrarci, quale suo ospite. Ora, in questo luogo sacro a Dio, a Lui consacrato e che gli appartiene (Gen 2,2-3; Es 20,8-11), come deve comportarsi l'uomo: bene o male? Affermare o sopprimere una vita? Di conseguenza, come va ricompresa ed eseguita la Legge? Questa è la questione etica posta da Gesù alle autorità religiose. Qui non si tratta più di eseguire o di violare una volontà espressa nella Legge, ma se questa Legge consente di compiere il bene in un luogo che è consacrato a Dio e dove Dio ha portato a compimento la sua creazione. Operare il bene, dunque, in un giorno di sabato non è contrario alla Legge, ma conforme alla volontà di Dio, che proprio in questo giorno ha portato a compimento la creazione, di cui la guarigione degli infermi è in qualche modo espressione.

Posta la questione etica, Gesù “guardando d'intorno tutti quanti, gli disse: <<Stendi la tua mano>>. Egli (lo) fece e la sua mano fu ristabilita”. Luca qui continua a seguire Marco, ma ne modifica il testo togliendo ogni forma di risentimento di Gesù nei confronti dei farisei (Mc 3,5). Luca presenta qui un Gesù scevro da risentimenti; un Gesù che domina la scena, sottolineando la sua autorevolezza. Questo guardare tutti quelli che gli stavano d'intorno non va inteso come lo sperare di Gesù in qualche risposta di sostegno al suo quesito, ma dice il suo dominare, il suo essere al di sopra di tutti, che già in qualche modo si era intuito al v.8a, allorché Luca commenta come “egli conosceva i loro pensieri”. Del resto già al v.5 il Gesù lucano affermava la sua potere sul sabato: “Il Figlio dell'uomo è signore del sabato”. Gesù, dunque, esprime qui la sua signoria non solo sul sabato, ma anche sull'imperfezione della natura segnata e degradata dal peccato, rigenerandola e portandola a compimento. Dio, infatti, non si è limitato a riposarsi in questo settimo giorno, ma ha portato a termine la sua opera creatrice. Ecco, pertanto, di seguito il comando di stendere la mano; e senza null'altro fare e aggiungere, l'infermo è guarito. L'uomo, dunque, che accoglie la Parola di Dio e ad essa si conforma viene rigenerato ad una nuova vita e la sua natura, profondamente segnata dal peccato, viene portata a compimento, quasi come in una nuova creazione, che avviene proprio qui, nel settimo giorno.

Luca lo aveva già ricordato in 5,39 con una certa amarezza: “E nessuno che beve del vecchio vuole del nuovo; infatti dice: <<il vecchio è buono>>”, con cui denunciava la pervicace chiusura del Giudaismo al nuovo annuncio portato da Gesù. Se ne ha qui un esempio al v.11: “Ma quelli furono ripieni di stoltezza e discorrevano gli uni gli altri su che cosa fare a Gesù”. Il rifiuto è categorico e ha la sua ragion d'essere in quel “furono ripieni di stoltezza”, che non solo si limita a rifiutare, ma diviene qui progetto per togliere di mezzo Gesù. I paralleli di Mt 12,14 e Mc 3,6 più esplicitamente parlano di un riunirsi dei farisei per uccidere Gesù.

Costituzione e presentazione del gruppo dei Dodici (vv.12-17a)


Testo


12 – Ora avvenne che in questi giorni egli uscì per pregare sul monte, e passava la notte in preghiera di Dio.
13 – E quando venne giorno, chiamò i suoi discepoli, ed avendo(ne) scelti tra loro dodici, li denominò anche apostoli:
14 – Simone, che denominò anche Pietro, e Andrea suo fratello, e Giacomo e Giovanni e Filippo e Bartolomeo
15 – e Matteo e Tommaso e Giacomo di Alfeo e Simone, chiamato Zelota,
16 – e Giuda di Giacomo e Giuda di Iscariota, che divenne traditore.
17a – E disceso con loro stette su di un luogo piano


Note generali

Dopo la guarigione dell'uomo con la mano arida (Mc 3,1-6), Marco fa seguire subito una pericope, 3,7-12, in cui presenta i grandi successi di Gesù presso le folle, che lo seguivano dalla Giudea, da Gerusalemme, dall'Idumea, territori questi posti a sud della Palestina; nonché da Tiro e Sidone, posti sulla costa prospiciente sul mar Mediterraneo, a nord della Palestina, in territorio pagano. Diversamente da Marco, Luca, invece, posticipa questa pericope marciana dopo la costituzione dei Dodici (vv.17-19), facendone un preambolo al grande discorso sulle beatitudini. Il motivo di questo spostamento è squisitamente ecclesiologico. Dopo le diatribe con le autorità religiose (5,17-6,11), che mettono in luce l'incompatibilità delle due posizioni (5,36-39), quella di Gesù e del Giudaismo, nasce nel Gesù lucano la coscienza di dover costituire un gruppo di fedelissimi disposti a raccogliere e accogliere il suo messaggio e ad annunciarlo fino alle estreme conseguenze. Si tratta, dunque di una scelta importante, poiché con la costituzione del gruppo dei Dodici viene di fatto fondato il primo nucleo della chiesa, attorno al quale andranno a compattarsi tutti quelli che hanno accolto e fatto proprio l'annuncio e si sono resi disponibili a seguire esistenzialmente l'insegnamento di Gesù e dei Dodici, suoi naturali eredi spirituali. Soltanto dopo aver costituito il gruppo Gesù scende con loro dal monte (v.17a) e si presenta alle folle che sono ai piedi del monte (v.17b), pronte ad accogliere l'annuncio della Parola, proclamata da Gesù assieme ai Dodici (v.18a). Non a caso questa pericope (vv.17-19) funge da preambolo introduttivo a quello che tradizionalmente viene chiamato discorso delle beatitudini, ma in realtà, come vedremo, si tratta del primo proclama costitutivo della chiesa stessa, in cui si delinea la sua identità spirituale, morale ed etica (vv.20-49).

La pericope in analisi, vv.12-17, costituisce un'unità narrativa a se stante, inclusa da due movimenti uguali contrari di Gesù: Gesù sale sul monte al v.12; Gesù scende dal monte al v.17a. Si tratta di una pericope strutturata in modo solenne da Luca e caricata di grande importanza. Lo si arguisce sia dal fatto che Gesù passa la notte a vegliare in preghiera sul monte; sia dal fatto che egli è impegnato in prima persona a scegliersi i Dodici, demandando così a Gesù stesso la costituzione del gruppo fondativo della Chiesa; sia dal fatto che questi vengono presentati nominalmente al collegio di tutti gli altri discepoli, che si suppone siano lì presenti al momento della elezione dei Dodici, visto che i Dodici erano stati presi da in mezzo a loro (v.13a).

Compare qui per la prima volta in Luca il termine apostolo che viene accostato a quello di discepolo (v.13). Il termine discepolo designa la figura del credente che ha deciso la propria vita per Gesù. Si tratta di una scelta personale, dietro la quale non vi è una chiamata esplicita e diretta di Gesù. Mentre con il termine apostolo si designa una persona scelta da Gesù e inviata alle genti nel suo nome. Da qui il termine “apostolo”, che in greco significa “inviato”. L'apostolo, quindi costituisce una sorta di alter ego di Gesù, fornito di un carisma particolare e di un mandato specifico che lo rivestono di autorità e di autorevolezza all'interno della comunità credente. Per questo l'apostolo, cioè l'inviato da Gesù, fonda e garantisce la fede della comunità credente. Luca stesso al v.17a.b pone una distinzione tra apostoli e discepoli: “E disceso con loro stette su di un luogo piano, e (c'era) molta folla dei suoi discepoli”. Gli apostoli, dunque, sono coloro con cui Gesù sta, formando un tutt'uno con il gruppo appena costituito; mentre dall'altra parte ci sta la grande folla dei discepoli, figura dei primi e futuri credenti, posti accanto a Gesù insieme ai Dodici. Essi si costituiscono, pertanto, in comunità credente attorno a Gesù e ai Dodici. Questa è la fotografia lucana della nascita istituzionale della chiesa, che rispecchia, in realtà, la situazione della chiesa già in atto, la quale fa risalire la sua costituzione e l'autorità dei suoi responsabili a Gesù stesso, presentandosi alle genti come la continuazione del suo annuncio e della sua opera. Un Gesù risorto che continua a vivere in mezzo a lei con la sua Parola e il suo Pane (24,13-31), garantendone la Verità attraverso il dono dello Spirito (Gv 16,13).

Commento ai vv. 12-17a

La pericope si snoda in quattro movimenti sequenziali: a) Gesù esce per vegliare in preghiera tutta la notte sul monte (v.12); b) il mattino convoca i discepoli e tra loro ne sceglie dodici, chiamandoli apostoli (v.13); c) segue l'elenco nominativo dei Dodici (vv.14-16); d) con questo nuovo gruppo scende dal monte e assieme ai Dodici si presenta alla platea dei discepoli e delle folle lì presenti (v.17a), dando inizio ad un nuovo annunzio, che forma l'atto costitutivo della nuova comunità messianica (v.17b e ss).

Il v.12 inizia con un'annotazione temporale significativa: “Ora avvenne che in questi giorni”. Ancora una volta compare il verbo caratteristico di Luca, “avvenne”, che scandisce l'accadere della storia della salvezza nell'oggi dell'uomo. Ciò che accade è che “in questi giorni”. Un'espressione temporale questa che viene quasi sempre tradotta malamente con l'espressione di rito “in quei giorni”, per una sorta di conformismo a cui ci si è abituati. Tuttavia il testo greco qui è inequivocabile: “™n ta‹j ¹mšraij taÚtaij” (en taîs emérais taútais). Si tratta, dunque, di “questi giorni”; giorni che hanno a che vedere con gli eventi recenti o quanto meno resi tali dall'economia narrativa, che presenta di seguito cinque diatribe (5,17-6,11) su tematiche significative, le quali mettono in rilievo l'incompatibilità tra Gesù e il Giudaismo (5,36-39). Ciò che avviene in questo contesto di diatribe è l'uscire di Gesù sul monte per pregare. Si rimane perplessi di fronte a quel “uscire” che dipende dal verbo “avvenne”. Accadde, dunque, che dopo questi giorni di diatribe Gesù “uscì”. Sarebbe forse troppo banale pensare che Luca voglia dire che Gesù uscì da casa sua. Non avrebbe sprecato un verbo, peraltro dipendente da quel accadere, che scandisce il realizzarsi del piano salvifico di Dio in Gesù, per indicare una simile banalità. Il verbo “uscire” (™xelqe‹n, exeltzeîn), posto in questo contesto di continue diatribe, che denunciano l'incompatibilità di Gesù con il Giudaismo, allude all'uscita di Gesù dal Giudaismo. Così come similmente avviene in Mc 1,29 dove “Usciti dalla sinagoga, si recarono subito in casa di Simone e di Andrea, in compagnia di Giacomo e di Giovanni”. Anche qui viene allusa l'uscita di Gesù dalla sinagoga, cioè dal Giudaismo, per entrare nella casa di Simone, cioè la nuova comunità credente, sorta dal suo distacco dal Giudaismo. Con questa sua uscita dal Giudaismo Gesù non rinnega il Giudaismo, ma condanna la sua chiusura ermetica nei confronti dell'annuncio, preferendo il vino vecchio a quello nuovo (5,39) e dichiarando, nel contempo, l'impossibilità di un dialogo che aiuti ad aprirsi ad una nuova visione e comprensione di Dio e che porti ad un nuovo culto spirituale non più legato al Tempio e ai sacrifici, ma celebrato nella propria vita, trasformandola in una liturgia di lode e di ringraziamento a Dio (Gv 4,21-24; Rm 12,1), rinnovando di continuo la propria mente e il proprio cuore per discernere ciò che è giusto, buono e a Dio gradito (Rm 12,2). Una chiusura che provocherà un grande dolore e una sofferenza continua in Paolo (Rm 9,2-3), che non sa capacitarsi come ciò sia potuto accadere e cercherà di darsene una ragione in Rm 9-11. L'uscire dal Giudaismo ha come conseguenza una sorta di suo ritorno al Padre, quasi dovesse prendere nuove disposizione da Lui. Non è per Gesù un optional riferirsi al Padre, né va compresa cpme una sorta di pietà filiale, ma una necessità, perché, lui, il Figlio, dall'eternità rivolto verso al Padre (Gv 1,1), da se stesso non può fare nulla se non ciò che vede fare dal Padre (Gv 5,19.30). Ecco dunque la sua salita al monte, che nell'immaginario degli antichi era il luogo della dimora di Dio. Salire sul monte significa accedere a tale dimora divina; una salita questa che richiama molto da vicino quella di Mosè, che sale sul monte Sinai per ricevere da Jhwh il Codice dell'Alleanza (Es 19,3.18-20). E qui, su questo monte, Gesù passa l'intera notte a pregare il Padre; una preghiera da immaginarsi come un'intima comunione di vita tra i Due (Gv 10,30; 17,21.22), da cui fuoriesce una sorta di nuovo progetto. Una preghiera che, si badi bene, si svolge durante la notte, che, qui, supera i semplici limiti temporali per divenire metafora del momento difficile e buio, che Gesù deve aver passato dopo il suo sostanziale fallimento con il Giudaismo (Gv 12,37), da cui è stato respinto, perseguitato e poi ucciso. Che fare dunque? Da questo incontro con il Padre riceverà la luce per una nuova comprensione della sua missione: il Giudaismo non sarà più l'erede della Promessa, ma lo sarà, invece, un nuovo popolo di credenti, disponibili ad accogliere la Parola e farsene portatori e testimoni (20,10-16; Mt 21,43). Ci saranno, dunque, altri Dodici capostipiti, attorno ai quali si aggregherà il nuovo Israele, non più secondo la carne, bensì secondo la fede e lo Spirito. Gesù, dunque, è chiamato a rifondare Israele. Un passaggio importante questo del v.12, poiché qui Luca vede l'origine divina del nuovo Israele, della nuova comunità messianica, nata dalla mente di Dio e costituita sulla dimora del suo monte.

Con il v.13 si passa dalla notte della preghiera e del travaglio al giorno dove Gesù, ora rinfrancato dal Padre, dà seguito al suo nuovo progetto: “chiamò i suoi discepoli, ed avendo(ne) scelti tra loro dodici, li denominò anche apostoli”. Potremmo definire questo nuovo progetto “da discepoli ad apostoli”. Vi è qui un passaggio importante perché vi è un cambio di nome, che per gli antichi esprimeva l'essenza stessa della persona e delle cose. Cambiare nome, pertanto, significava dare un senso e un significato nuovo. La persona viene ricostituita nel suo essere e la sua vita assume un orientamento nuovo. I Dodici nascono, pertanto, sul monte e sono di elezione divina. Che cosa significhi essere apostoli, lo dice più chiaramente Mc 3,14-15: “Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demoni”. a) Tre gli elementi fondamentali che costituiscono questa nuova figura: l'apostolo è colui che sta con Gesù, beneficia, dunque, di una particolare comunione di vita con lui. Uno schema esistenziale che riproduce in qualche modo lo schema di rapporto tra Gesù e il Padre; b) egli è un inviato per annunciare la Parola. Da qui il termine apostolo. La sua vera natura, pertanto, è quella di essere un inviato e la sua parola è espressa in nome e per conto di Gesù. In lui prosegue la sua missione; c) egli è rivestito di potere divino e quindi il suo agire e il suo dire esprimono autorità e autorevolezza. Tutto questo Luca lo esprimerà in modo più semplice e conciso al v.17a. dove Gesù scende dal monte della dimora divina con i Dodici che sono assieme a lui così da fare un tutt'uno con lui.

Segue ora la presentazione dei nomi dei Dodici, costituiti apostoli (vv.14-16). Quattro sono gli elenchi dei Dodici riportati: tre dai Sinottici (Mt 10,1-4; Mc 3,13-19; Lc 6,12-17) e uno in At 1,13. Tutti sono sostanzialmente identici, benché vari la disposizione di qualche nome nell'elenco e compaia un qualche nome diverso, ma solo in apparenza, poiché, come si vedrà, si tratta sempre della stessa persona chiamata con due nomi diversi a seconda della tradizione di provenienza.
Della persona di Pietro12 e del suo passato si conosce il nome e la paternità, Simone (in ebr. Shime’on, “Dio ha esaudito”), nome molto in uso nel mondo semitico come in quello greco13, ed è figlio di Giovanni (Gv 1,42). La sua provenienza era Betsaida (Gv 1,44), una cittadina posta sul lato nord orientale del lago di Genesaret, ma abitava assieme alla moglie, alla suocera e a suo fratello Andrea, anch’egli originario di Betsaida (Gv 1,44; 6,8), a Cafarnao (Mc 1,21.29-30), in riva al lago. La sua professione era quella di pescatore (Mt 4,18) ed era proprietario di una barca (Lc 5,3) e di reti (Mc 1,16). Era certamente sposato, in quanto che aveva una suocera (Mt 8,14; Mc 1,30; Lc 4,38). Il suo livello culturale non doveva essere particolarmente elevato se in At 4,13, assieme a Giovanni, viene definito “¥nqrwpoi ¢gr£mmato… e„sin kaˆ „diîtai(ántzropoi agrámmatoí eisin kaì idiôtai), cioè “uomini che sono analfabeti e ignoranti”, anche se l’espressione indica, da un lato, come erano considerati dal Sinedrio, che li stava interrogando (At 4,5-7); e, dall’altro, per mettere in rilievo come, nonostante i loro limiti culturali, sapessero far fronte con destrezza alle insidie del Sinedrio, evidenziando la superiorità morale di questi primi testimoni apostolici. Si attuava in tal modo la raccomandazione e la predizione di Gesù: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10,19-20).

Da alcuni racconti evangelici Pietro risulta avere un carattere irruento e passionale (Mt 26,31-35.51; Mc 14,47, Gv 18,10). La data del suo martirio a Roma è incerta (64/67) e, secondo lo scritto apocrifo Atti di Pietro, ritenendosi egli indegno di essere assimilato nella morte al suo Maestro, che aveva tradito, volle essere crocifisso a testa in giù.

In tutto il N.T. il suo nome si riscontra 155 volte come Pietro; 56 volte come Simone; 9 volte come Cefa, quantità queste significative, poiché lasciano intravvedere l'importanza della sua figura all’interno della chiesa primitiva. Significative sono anche le immagini con cui egli è raffigurato nella letteratura neotestamentaria canonica: il pescatore missionario (Mc 4,18-19; Lc 5,10b), beneficiario di una rivelazione particolare (Mt 16,16-17) e di particolari visioni (At 10,10-16), colui che parla con autorità (At 1,15; 2,14; 5,1-11) e compie miracoli con potenza (At 3,2-10; 5,14-15), l’attestatore della messianicità e della divinità di Gesù (Mt 16,16; Mc 8,30; Lc 9,20), il difensore della fede e della corretta interpretazione delle Scritture (2Pt 1,20-21), nonché annunciatore kerigmatico del Regno e testimone della risurrezione (At 2,22-36), il pastore (Gv 21,15-17; 1Pt 5,1-14), il martire (Gv 21,18-19; 1Pt 5,1), il peccatore pentito (Mt 26,75; Mc 14,72; Lc 22,62), l’uomo fragile (Gal 2,11-14). A lui, infine, sono attribuite due lettere (1Pt e 2Pt), benché la critica esegetica ponga dei fondati dubbi sulla loro autenticità, dubbi che personalmente condivido.

A Pietro, Luca fa seguire il nome di Andrea, presentato, fin dal suo primo apparire, come fratello di Pietro (Mt 4,18; Mc 1,16; Lc 6,14), anch’egli originario di Betsaida (Gv 1,44) e pescatore assieme a suo fratello (Mt 4,18). Egli era anche un discepolo del Battista e lo seguiva nella sua predicazione (Gv 1,40). Su indicazione del suo maestro (Gv 1,35-36), si presentò a Gesù e con lui si recò nella sua abitazione (Gv 1,39). Fu lui ad annunciare a suo fratello Simone di aver incontrato Gesù, presentandoglielo come il messia, e a farglielo conoscere (Gv 1,40-42). Secondo la tradizione sinottica, invece, Andrea e suo fratello vennero incontrati da Gesù durante la loro attività di pesca e, qui, vennero scelti da Gesù per la sua futura attività missionaria (Mt 4,18-20; Mc 1,16-18). Luca lo nomina una sola volta nell’elenco degli apostoli (Lc 6,14; At 1,13) e non compare tra i primi seguaci di Gesù (5,10). Il suo nome, Andrea, significa l’uomo valoroso, il virtuoso, l’uomo per eccellenza ed è di derivazione greca, lasciando trasparire in tal modo la profonda ellenizzazione subita dalla Palestina di quel tempo. Egli abitava a Cafarnao insieme a suo fratello sposato e alla suocera di lui (Mc 1,21.29-30), mentre non sembra che avesse moglie. Fu colui che, in una situazione di particolare criticità, indicò a Gesù il ragazzo con cinque pani e due pesci (Gv 6,8-9), da cui poi scaturì il miracolo che sfamò cinquemila persone, dando a Gesù l’occasione di fare il discorso sul pane di vita eterna (Gv 6,26-35). Fu lui, assieme a Filippo, che fece da tramite tra Gesù e alcuni Greci, che desideravano vederlo (Gv 12,20-22). Significativo è che siano proprio due discepoli con nomi greci a fare da mediazione a dei Greci, forse perché ne parlavano la lingua o, forse, perché ne erano culturalmente vicini. Proprio questo discepolo, infatti, viene presentato da Giovanni dapprima come missionario e testimone presso gli ebrei (Gv 1,40.42) e poi, qui, come missionario tra i gentili. Non a caso la tradizione su questo apostolo lo vede morire martire (crocifisso) in Acaia, una regione della Grecia, sulla costa meridionale del golfo di Corinto.

Segue nell’elenco Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo. La coppia dei fratelli viene sempre citata assieme nell’ordine menzionato, con eccezione di Luca, che in alcuni casi inverte l’ordine tradizionale (Giovanni e Giacomo: Lc 8,51; 9,28; At 1,13). Essi erano pescatori e svolgevano la loro attività assieme al padre Zebedeo ed erano soci di Pietro e Andrea (Lc 5,10a). Dovevano essere anche benestanti se si potevano permettere dei garzoni, che li aiutavano nella pesca (Mc 1,20) e, inoltre, dovevano godere di un certo rilievo sociale se la madre tenta di forzare la mano a Gesù perché i suoi due figli primeggiassero nell’ambito del gruppo dei discepoli (Mt 20,20), tra l’indignazione degli altri (Mc 10,41). Essi, insieme a Pietro e ad Andrea furono i primi ad essere chiamati da Gesù nella sequela e Gesù mostrerà sempre nei loro confronti una particolare attenzione. Infatti, sia nel caso della trasfigurazione (Mt 17,1; Mc 9,2; Lc 9,28) che in quello della guarigione della figlia del capo sinagoga (Mc 5,37; Lc 8,51), Gesù li prenderà con sé quali testimoni privilegiati del suo potere e della sua natura divina. Così pure essi saranno presenti in occasione della guarigione della suocera di Pietro (Mc 1,29). E, ancora, saranno sempre e soltanto loro che Gesù sceglierà, tra tutti i discepoli, perché lo accompagnino nel Getsemani e veglino con lui in preghiera (Mt 26,37; Mc 14,33). Saranno loro, infine, assieme a Pietro e ad Andrea che provocheranno il discorso escatologico di Gesù (Mc 13,3). In tutti questi frangenti i due sono sempre associati a Pietro, segno che essi godevano, forse, di una certa preminenza in mezzo al gruppo, sia perché furono i primi seguaci, sia perché forse godevano di un certo rilievo sociale e, forse anche, per il loro carattere focoso e impetuoso, che certo non li spingeva a prediligere gli ultimi posti (Mc 10,35) o indulgere molto alla comprensione e alla misericordia. Saranno, infatti proprio loro che inviteranno Gesù a fulminare un villaggio di Samaritani, che lo avevano rifiutato, ottenendone un rimprovero da parte di Gesù (Lc 9,52b-55). Non a caso Marco rileva che Gesù li soprannominò Boanèrghes, cioè figli del tuono (Mc 3,17). Ma forse sarebbe meglio tradurre con “brontoloni” o “agitatori”14.
Giacomo morì di spada per mano di Erode Agrippa tra il 39 e il 44 d.C.15 (At 12,2). Sua madre, menzionata sempre come madre dei figli di Zebedeo (Mt 20,20; 27,56), fu una seguace di Gesù e si pose al suo servizio. Essa, assieme ad altre donne, presenziò alla morte di Gesù sulla croce (Mt 27,55-56).

Dopo la morte di Giacomo, Giovanni farà coppia fissa con Pietro nella predicazione e nella vita della comunità di Gerusalemme (At 1,3; 3,3-4.11; 4,13.19; 8,14) e divenne, assieme a lui e a Giacomo, il fratello di Gesù, una figura di grande rilievo all’interno della stessa comunità (Gal 2,9).

In quinta e sesta posizione degli elenchi sinottici compaiono i nomi di Filippo e Bartolomeo16. Di Bartolomeo, il cui nome significa “figlio di Tolomeo”17, conosciamo soltanto il nome, riportatoci nei quattro elenchi neotestamentari. Simile sorte sarebbe toccata a Filippo se non fosse stato per Giovanni, il quale ci fornisce un qualche ragguaglio storico. Filippo, il cui nome greco significa “amico dei cavalli”, era originario, come Pietro e Andrea, di Betsaida (Gv 1,44). Egli incontra Gesù il giorno dopo che questi aveva già incontrato Andrea e Pietro (Gv 1,43a). Dall’incontro con Gesù scaturisce la sua chiamata, a cui Giovanni dedica soltanto mezzo versetto (Gv 1,43b).

Egli si farà immediatamente, presso Natanaele, entusiasta portatore e testimone di Gesù, che definisce come la realizzazione delle attese e delle Scritture (Gv 1,45-46).

In occasione della seconda pasqua18, egli è messo alla prova da Gesù sul come sfamare le migliaia di persone che lo stavano seguendo. Filippo, smarrito per l’enormità della folla, circa cinquemila persone (Gv 6,10b), tenterà di dare una improbabile soluzione economica al problema: “Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo” (Gv 6,5-7). Sarà Andrea a dare la risposta giusta, rivolgendosi soltanto a Gesù, indicandogli un ragazzino, che aveva per sé cinque pani e due pesci (Gv 6,8-9).

Sarà sempre lui, assieme ad Andrea, che si farà intermediario e interprete presso Gesù della richiesta di alcuni Greci (Gv 12,21-22). I loro nomi greci e questo episodio di intermediazione tra il mondo greco e Gesù forse stanno ad indicare il destino missionario presso il mondo pagano di questi due discepoli19.

È sempre Filippo, infine, che interpellerà Gesù sulla questione del Padre, dando a vedere di non aver ancora colto bene la figura di Gesù e il senso della sua missione. Nell’insieme, dai brevi racconti a nostra disposizione (Gv 6,5-7; Gv 14,8-9), sembra di poter arguire come Filippo, al di là dell’entusiastica e iniziale testimonianza su Gesù, data a Natanaele (Gv 1,45-46), abbia poi avuto non poca difficoltà a coglierne la vera natura.

L’elenco prosegue con i nomi di Matteo e Tommaso. Per entrambi le notizie, provenienti da fonti neotestamentarie, sono molto scarne. Molto poco sappiamo su Matteo. Conosciamo la sua professione di piccolo esattore delle imposte e stigmatizzato con l’appellativo di pubblicano (Mt 9,9; 10,3), che lo qualificava come un pubblico peccatore, disprezzato da tutti e, per questo suo stato di vita, tagliato fuori dal ciclo della salvezza. Egli sarà chiamato alla sequela di Gesù (Mt 9,9) e farà parte del gruppo dei Dodici, nel quale compare sempre citato in tutti gli elenchi. Il suo nome, il cui significato è “Dono di Dio” (aramaico Mattaj), non va confuso con l’autore del primo vangelo20, benché Papia21 (70-150 circa), vescovo di Gerapoli, citato da Eusebio di Cesare nella sua opera Historia Ecclesiastica, lo presenti come l’autore di una raccolta di detti di Gesù.

In Mc 2,14 e in Lc 5,27, sempre nell’identico racconto della chiamata, ci viene presentato con il nome di Levi, figlio di Alfeo. Non v’è dubbio, quindi, che Matteo e Levi siano la stessa persona. Marco e Luca, unici a riportarci l’episodio, ricordano che Matteo-Levi, proprio in occasione della sua chiamata alla sequela, festeggiò l'evento con un grande banchetto in onore di Gesù, al quale presero parte anche “una folla di pubblicani e d'altra gente seduta con loro a tavola” (Mc 2,15; Lc 5,29). Probabilmente, letta da una certa prospettiva, una sorta di addio alla sua vita di gabelliere e di pubblicano. Un banchetto, comunque, che richiama il festeggiamento per l’inizio di una vita nuova, dedicata, ora, non più a vessare la gente, ma al loro servizio nel nome di Dio, che egli incontrò in Gesù.

Tommaso compare nelle liste sinottiche sempre associato al nome di Matteo, benché talvolta con ordine invertito (Mt 10,3); mentre in quella di At 1,13 i loro nomi sono intercalati da quello di Bartolomeo. Il suo nome è chiaramente ebraico e deriva dall’aramaico Te 'ōmā, che significa “gemello”; di chi lo fosse non ci è dato di sapere. Nel vangelo di Giovanni il suo nome, Tommaso, viene grecizzato con Didimo (Gv 11,16; 20,24; 21,2), di pari significato. È probabile, quindi, che il suo nome, sia aramaico che greco, sia in realtà soltanto un soprannome. Infatti, secondo diverse tradizioni provenienti dalla Siria e dall’Egitto, il suo vero nome era Giuda. Egli è colui che è pronto ad associarsi al destino di Gesù, quando questi decide di recarsi in Giudea (Gv 11,7) alla notizia della grave malattia di Lazzaro (Gv 11,3), che lo porterà alla tomba (Gv 11,16). È sempre lui che obietta a Gesù di non conoscere la via dove egli vuole andare (Gv 14,5), ottenendo da Gesù la risposta che egli stesso è “[…] la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 11,6). Assente al momento della prima apparizione di Gesù ai suoi discepoli, esprimerà tutti i suoi dubbi sull’annuncio della risurrezione, ma avrà modo di constatarne la veridicità in un secondo momento (Gv 20,24-29). Per questa sua difficoltà a credere all’annuncio egli divenne il simbolo di tutte le generazioni future di credenti, chiamate a fondare la loro fede soltanto sulla parola a loro annunciata. L’ultima volta che il suo nome viene ricordato è nel cap. 21 del vangelo di Giovanni, un capitolo dal sapore tutto ecclesiologico, aggiunto al vangelo giovanneo in tempi successivi. Qui compare assieme ad altri sei discepoli, che associati a Pietro, lo seguono nella pesca (Gv 21,2-3).

Penultima coppia del Gruppo apostolico sono Giacomo, figlio di Alfeo, e Simone, soprannominato lo Zelota. Dei due non sappiamo nulla al di là della semplice citazione. Giacomo, per essere distinto dal Giacomo figlio di Zebedeo, è chiamato figlio di Alfeo. Tuttavia non va imparentato, a nostro avviso, a Levi-Matteo, anch’egli figlio di Alfeo, per una probabile logica interna che muove l’elenco proprio di Matteo, che accoppia gli apostoli per affinità parentali, là dove queste si presentano. Così Pietro viene associato ad Andrea; Giacomo a Giovanni; mentre Giacomo di Alfeo non viene associato a Levi, figlio di Alfeo. Probabilmente Alfeo sono due persone diverse. Per i dati che abbiamo in mano, tentare delle identificazioni con i vari Giacomo che percorrono gli Scritti neotestamentari o gli imparentamenti con una qualche Maria ci sembra piuttosto azzardato e, comunque, non si riesce ad andare al di là di una qualche improbabile ipotesi, tutta da verificare. Meglio ragionare con i dati certi che abbiamo, ben sapendo che certi nomi nell’antichità neotestamentaria erano molto diffusi. Basti pensare al nome Simone, che nei soli Scritti neotestamentari compare 52 volte; e quello stesso di Giacomo, che viene riportato 38 volte o quello di Maria, che compare 53 volte. Con questi numeri, quasi mai supportati da ulteriori precisazioni storiche, ogni ragionamento può concludersi soltanto con delle discutibili ipotesi, riportandoci sempre, a giochi finiti, al punto di partenza.
Il nome Simone22 è una forma contratta e tardiva di Simeone23 ed è soprannominato, dal solo Luca, lo Zelota. L’appellativo “zelota”24 definiva gli estremisti nazionalisti della guerra giudaica (66-70 d.C.), che, come tali, ancora non esistevano ai tempi di Gesù. Esso, pertanto, può indicare, nel nostro caso, un simpatizzante del movimento nazionalista anti-romano, che poi sfocerà nel partito armato degli Zeloti. Questi innescheranno la prima grande guerra giudaica, di cui parla anche Giuseppe Flavio nella sua omonima opera25. Questo Simone, che Luca sia qui che in At 1,13 definisce con l'appellativo di Zelota, è lo stesso che viene citato da Mt 10,4 e Mc 3,18 con l'appellativo di Cananeo. Tale soprannome non indica l'origine geografica di Simone, bensì la sua posizione politica e sociale. L’appellativo “Ð Kanana‹oj” (o Kananaîos), attribuito a Simone, è, infatti, la trascrizione greca del termine aramaico “qannaya”, che significa “zelota”.

L’elenco apostolico si chiude con Giuda di Giacomo e Giuda l’Iscariota. Giuda di Giacomo è così chiamato solo da Luca in entrambe le sue liste, quasi certamente per distinguerlo da l'Iscariota, a cui viene abbinato nel suo elenco (6,16); mentre in quelle di Matteo (10,3) e di Marco (3,18) compare al suo posto il nome di Taddeo. Di costui non conosciamo nulla. Alcuni manoscritti26, in Mt 10,3, leggono Taddeo come “Lebbeo” o “Lebbeo, soprannominato Taddeo”. Il nome Lebbeo contiene la parola ebraica “lēb”, che significa cuore, amore; mentre il nome Taddeo sembra avere la sua radice nel termine aramaico “tad” che indica il seno della donna, alludendo quindi ad un carattere mite, dolce, generoso e disponibile. Due nomi questi, con particolare riferimento al soprannome di Taddeo, che sembrano definire il carattere buono e generoso di questo discepolo. Di lui altro non si può dire. Una certa agiografia, posteriore ai vangeli, tende a identificarlo con Giuda di Giacomo, che comunemente viene ritenuto lo stesso Giuda citato da Giovanni nel suo vangelo al v. 14,22. Secondo Raymond E. Brown si tratta di una semplice congettura, priva di un reale supporto scientifico e/o storico27. Posizione questa che mi trova pienamente consenziente.
Quanto a Giuda, il suo nome compare negli Scritti neotestamentari 23 volte ed è comunemente conosciuto con l’appellativo di “traditore”28. Egli era figlio di un certo Simone Iscariota (Gv 6,71; 13,2.26). Con tale soprannome Giuda verrà citato 10 volte nei vangeli. Iscariota è la forma grecizzata dell’ebraico “is Qeriyyot”, cioè “uomo di Kerioth29”. Questa precisazione geografica è da preferirsi a quella che nel soprannome vede una grecizzazizone del termine latino sicarius, cioè “uomo della sica30”, che spinge a vedere in Giuda un seguace del movimento zelota. Altre interpretazioni recenti31 vedono nel nome una grecizzazizone dell’aramaico sheqar (mentitore, falso, traditore). In ogni caso, rimane, a nostro avviso, sempre più appetibile la soluzione geografica, considerato che Giovanni nel suo vangelo applica, per la prima volta nella sua opera, il soprannome Iscariota non a Giuda, ma a suo padre, Simone (Gv 6,71a), probabilmente per indicarne la provenienza, più che per definirne qualità morali o tendenze politiche. Dal padre, quindi, Giuda erediterà tale soprannome, che indicherà anche per lui la sua origine.

La figura di Giuda, per ovvi motivi, non è ben vista dai vangeli, in particolar modo in quello di Giovanni. Infatti, mentre i Sinottici si limitano a citare il nome di Giuda soltanto negli elenchi apostolici e nei racconti della passione, riportando di lui soltanto la sua appartenenza al Gruppo e il suo misfatto, Giovanni, lungo lo svolgersi del suo racconto, ne traccia gradualmente l’identità. Dapprima lo cita in modo anonimo, precisandone soltanto la natura demoniaca: “Rispose Gesù: […] Eppure uno di voi è un diavolo!" (Gv 6,70). Nel versetto immediatamente seguente ne cita il nome, ne definisce la paternità, l’origine geografica e la sua appartenenza al gruppo dei Dodici, imprimendogli fin da subito il triste marchio di traditore: “Egli parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariota: questi infatti stava per tradirlo, uno dei Dodici” (Gv 6,71); successivamente ne traccia l’identità morale e il ruolo che ricopriva all’interno del Gruppo: “Questo egli disse non perché gl'importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro” (Gv 12,6); precisa poi come il diavolo fosse il suo vero consigliere: “Mentre cenavano, quando già il diavolo aveva messo in cuore a Giuda Iscariota, figlio di Simone, di tradirlo” (Gv 13,2); e, infine, presenta Giuda come un vero e proprio posseduto dal demonio, uno strumento operativo nelle sue mani: “E allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui. […]” (Gv 13,27). Da questo momento Giuda uscirà dal Gruppo dei Dodici ed entrerà nella notte del tradimento e delle potenze del male, a cui egli appartiene per sua natura (Gv 6,70): Preso il boccone, egli subito uscì. Ed era notte” (Gv 13,30). L’ultimo accenno Giovanni glielo riserva nel momento in cui Giuda compare davanti a Gesù, schierato con i suoi nemici: “Vi era là con loro anche Giuda, il traditore” (Gv 18,5b). Da questo momento in poi l’evangelista calerà una cortina di silenzio, lasciando Giuda al suo triste e drammatico destino, avvolto nelle tenebre della notte.

Giuda, presente in tutte le liste sinottiche, è sempre posto alla fine dell’elenco, contrariamente a Pietro, che invece è posto in cima a tutte le liste. Su di lui Matteo e Marco fanno pesare una sorta di maledizione divina, mettendo sulle labbra di Gesù la comune espressione: “Il Figlio dell'uomo se ne va, come sta scritto di lui, ma guai a quell'uomo dal quale il Figlio dell'uomo è tradito! Meglio per quell'uomo se non fosse mai nato!” (Mc 14,21; Mt 26,24). Quanto questa espressione sia vera o una mera inserzione redazionale non ci è dato di sapere. Va tuttavia ricordato che Gesù ebbe parole di perdono per tutti quelli che avevano contribuito alla sua morte (Lc 23,34). Lo stesso Giuda, che lo aveva tradito, di certo non si aspettava una simile conclusione del suo tradimento. In tal senso è significativo quanto riporta Matteo in proposito: “Allora Giuda, il traditore, vedendo che Gesù era stato condannato, si pentì e riportò le trenta monete d'argento ai sommi sacerdoti e agli anziani dicendo: <<Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente>>. Ma quelli dissero: <<Che ci riguarda? Veditela tu!>>. Ed egli, gettate le monete d'argento nel tempio, si allontanò e andò ad impiccarsi” (Mt 27,3-5). Ci fu, dunque, da parte di Giuda un pentimento e un atroce e insopportabile rimorso per il suo gesto, che lo porterà al suicidio. Benché l’episodio si trovi soltanto in Matteo, tuttavia esso deve essere verosimile, se anche Luca nei suo Atti ne fa accenno: “Giuda comprò un pezzo di terra con i proventi del suo delitto e poi precipitando in avanti si squarciò in mezzo e si sparsero fuori tutte le sue viscere. La cosa è divenuta così nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, che quel terreno è stato chiamato nella loro lingua Akeldamà, cioè “Campo di sangue” (At 1,18-19).

Se c’è stata una salvezza per gli uomini, forse c'è stata anche per Giuda, poiché in lui ci furono tutti i segni del pentimento e della conversione. Non fu da meno, su di un piano morale, Pietro che rinnegò ripetutamente il suo Maestro (Mt 26,34.75), a cui aveva giurato, poco prima, fedeltà fino alla morte assieme a quelli del Gruppo (Mt 26,33.35); non furono da meno gli altri discepoli, che non hanno saputo vegliare con il loro Maestro (Mt 26,40) e di fronte al pericolo lo hanno abbandonato a se stesso (Mt 26,56; Mc14,50); non lo furono da meno, ancora una volta, sempre loro, i discepoli, che di fronte al Risorto, persistevano nella loro incredulità (Mt 28,17; Lc 24,25; Gv 20,25.27). Eppure Gesù era stato molto chiaro su questo punto, in tema di testimonianza: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10,33-34; Lc 12,8-9; 2Tm 2,12). Giuda, in ultima analisi, si riscatta nel dare la sua testimonianza a favore di Gesù davanti ai sacerdoti: “Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente". Con ciò dichiara l’innocenza di Gesù e la pienezza della sua colpa. E la sincerità della sua testimonianza è confermata dallo spargimento del proprio sangue. Così, similmente, tutti i discepoli di Gesù avranno modo di riscattare la loro fragilità umana, di quella notte disgraziata e drammatica, con una testimonianza tale che li porterà a versare il loro sangue per lui. Tuttavia, ciò che inquieta molto e pone un grave punto interrogativo sul riscatto morale e spirituale di questo apostolo non è tanto il tradimento di Gesù, dettato dalla sua fragilità umana, ma l'aver scelto il suicidio quale fuga dalle sue responsabilità e quale forma di autopunizione, e soprattutto nel non aver creduto ad una possibilità di perdono e di riscatto per lui e, in ultima analisi, l'averlo di fatto rifiutato.

Terminato l'elenco degli apostoli, Luca presenta Gesù che discende dal monte, v.17a. Un movimento quest'ultimo con cui si chiude l'unità narrativa iniziata al v.12 con Gesù salito sul monte. Questo discendere di Gesù dal monte insieme ai Dodici dice come la nuova comunità messianica, in cui si trova e sta Gesù, ha origini divine. Essa ha avuto il suo inizio sul monte, la dimora di Dio, ed è il frutto di una veglia di preghiera e di intima comunione con il Padre di Gesù. Essa obbedisce ad un suo nuovo progetto, che sposta l'attenzione dall'antico Israele al nuovo Israele, raffigurato nei Dodici, che richiamano i dodici capostipiti, figli di Giacobbe, da cui discese l'Israele secondo la carne. Ma questo discendere dal monte e stabilirsi su di un luogo piano dice anche che questa nuova comunità è destinata ad andare verso le genti e a diffondersi in mezzo ad esse. Essa, quindi, diviene il sacramento d'incontro tra Dio e gli uomini.

Preambolo al discorso della pianura (vv.17b-19)

Testo

17b - ... e (c'era) molta folla dei suoi discepoli, e una grande moltitudine del popolo da tutta la Giudea e Gerusalemme e dalla costa di Tiro e Sidone,
18 – che vennero ad ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; e quelli che erano disturbati dagli spiriti immondi venivano guariti;
19 – e tutta la folla cercava di toccarlo, poiché una forza usciva da lui e guariva tutti.


Commento ai vv.17b-19

Gesù e i Dodici si trovano ora di fronte ad uno variegato insieme di persone che riflette la vasta e complessa società verso la quale è destinata la missione della nuova comunità messianica: vi è “molta folla dei suoi discepoli” che qui Luca distingue dai Dodici, che invece sono assieme a Gesù e si trovano in una posizione che è di fronte e non insieme ai discepoli. Questi raffigurano i nuovi e futuri credenti, che vedono in Gesù e nei Dodici il punto di riferimento e di garanzia della loro fede. Segue, poi, “una grande moltitudine di popolo”. Una definizione questa che abbraccia l'intera umanità, suddivisa, secondo le logiche ebraiche, in due grandi categorie: i circoncisi e i non circoncisi. L'autore presenta qui le provenienze di questa grande e composita moltitudine: da tutta la Giudea e Gerusalemme, cioè dall'intera Palestina, secondo la visione lucana, che non sempre distingue le varie regioni che la compongono; e dalla costa di Tiro e Sidone, vale a dire dalla regione della Fenicia, prospiciente sul mar Mediterraneo, territorio pagano. Ci sono, dunque, proprio tutti: discepoli, giudei e pagani. Tutti convergono verso un unico punto comune: Gesù e i Dodici. Ci si trova di fronte come ad una sorta di grande assemblea liturgica convocata dalla Parola e dove chi ascolta guarisce. Il v.18, infatti, presenta la motivazione di questo grande afflusso di persone: esse sono giunte lì per ascoltare e per essere guariti. È significativo questo abbinamento che l'autore pone tra l'ascolto della Parola e la guarigione, quasi a dire che dall'ascolto accogliente della Parola sgorga la guarigione e la rigenerazione del credente ad una vita nuova (1Pt 1,23; Eb 4,12), di cui la guarigione fisica di viene metafora e segno. Accanto agli infermi Luca aggiunge anche quelli che “erano disturbati dagli spiriti immondi”. Già lo si è detto32 come l'azione di Gesù sia finalizzata non soltanto all'annuncio del Regno, ma anche a scalzare il potere di satana per riprendersi ciò che apparteneva a Dio fin dall'origine della creazione.

Il v.19 mette in rilievo il significato e il senso vero di questo ascolto, da cui scaturisce la guarigione spirituale dell'uomo e con questa la rigenerazione della sua stessa persona, che si esprime poi nei rapporti con se stessa e con gli altri: “tutta la folla cercava di toccarlo, poiché una forza usciva da lui e guariva tutti”. Non si tratta di certo del toccare fisicamente Gesù, anche perché, se sono vere queste enormi masse di persone che si accalcavano attorno a lui33, soltanto pochi avevano speranza di poterlo toccare. Il toccare Gesù dice più che altro il fare esperienza di lui nell'ascolto della Parola, da cui esce una forza che guarisce e rigenera tutti. È la stessa esperienza della donna che soffriva di perdite di sangue da dodici anni (8,43-48). Ciò che ha salvato questa donna non fu l'aver toccato Gesù, ma l'essersi accostata a lui con fede. Molti, infatti, si accalcavano attorno a Gesù e lo travolgevano, ma soltanto una ne fu beneficiata, colei che si è accostata a Gesù con fede: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va in pace” (8,48).

Il discorso della pianura: l'identità spirituale (vv.20-38) ed etica (vv.39-49) della chiesa nascente

Testo a lettura facilitata

I destinatari, la loro estrazione sociale e il contesto di persecuzione in cui vivono (vv.20-26)

20 – Ed egli levati i suoi occhi verso i suoi discepoli, disse: <<Beati i poveri, poiché vostro è il regno di Dio.
21 – Beati coloro che ora hanno fame, poiché sarete saziati. Beati coloro che piangono, perché riderete.
22 – Beati siete quando gli uomini vi disprezzeranno e vi segregheranno e vi scherniranno e rigetteranno il vostro nome come malvagio per causa del Figlio dell'uomo.
23 – Gioite in quel giorno e danzate, poiché, ecco, grande (sarà) la vostra mercede nel cielo; infatti i loro padri facevano ai profeti conformemente a queste cose.
24 – Nondimeno guai a voi ricchi, poiché ricevete (già) la vostra consolazione.
25 – Guai a voi, che ora siete pieni, poiché avrete fame. Guai (a voi) che ora ridete, poiché vi lamenterete e piangerete.
26 – Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi; similmente, infatti, facevano i loro padri ai falsi profeti>>.

Aspetti spirituali e morali della comunità credente (vv.27-38)

27 – <<Ma dico a voi che ascoltate: amate i vostri nemici; fate del bene a coloro che vi disprezzano,
28 – benedite quelli che vi maledicono, pregate per quelli che vi oltraggiano.
29 – A chi ti colpisce sulla guancia porgi anche l'altra; e a chi ti prende il mantello non impedir(gli) anche la tunica.
30 – A chi ti chiede dà e a chi ti prende le tue cose non reclamar(le).
31 – E come volete che gli uomini facciano a voi, fate a loro ugualmente.
32 – E se amate coloro che vi amano, quale merito avete? Anche i peccatori, infatti, amano quelli che li amano.
33 – Se, infatti, fate del bene a coloro che vi fanno del bene, quale merito avete? Anche i peccatori fanno lo stesso.
34 – E se prestate a coloro dai quali sperate di prendere, quale merito avete? Anche (i) peccatori prestano (ai) peccatori per ricevere l'eguale.
35 – Pertanto amate i vostri nemici e fate del bene e prestate non sperando niente (in contraccambio). E grande sarà la vostra ricompensa e sarete figli dell'Altissimo, poiché egli è buono verso gli ingrati e verso i malvagi.
36 – Siate compassionevoli come [anche] il Padre vostro è compassionevole.
37 – E non giudicate e non sarete giudicati; e non condannate e non sarete condannati. Prosciogliete e sarete prosciolti.
38 – Date e vi sarà dato: una buona misura, premuta, scossa, traboccante daranno nel vostro grembo; infatti con (la) misura con cui misurate, sarà in contraccambio misurato a voi>>.

Pausa di riflessione: guida per il discepolo è il suo maestro a cui deve conformarsi (vv.39-40)

39 – Ora, disse a loro anche una parabola: <<Può forse un cieco guidare un cieco? Non cadranno entrambi in una buca?
40 – Non c'è discepolo sopra il maestro; ma ognuno preparato sarà come il suo maestro.

Aspetti etici all'interno della comunità credente (vv.41-49)

41 – Ora, perché tu vedi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, ma non scorgi la trave nel tuo proprio occhio?
42 – Come potrai dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza, quella nel tuo occhio”, proprio tu che non vedi la trave nel tuo occhio? Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio, e allora vedrai chiaramente per togliere la pagliuzza, quella nell'occhio del tuo fratello.
43 – Non vi è, infatti, un albero buono che faccia un frutto cattivo; né, di contro, (vi è) un albero cattivo che faccia un frutto buono.
44 – Infatti, ciascun albero si conosce dal proprio frutto; infatti, non dalle spine raccolgono fichi, né vendemmiano uva dal rovo.
45 – L'uomo buono porta fuori dal buon tesoro del cuore il bene; e il malvagio porta fuori (dal cuore) malvagio la malvagità; la sua bocca, infatti, parla dalla sovrabbondanza del cuore.
46 – Ma perché mi chiamate: “Signore, Signore” e non fate quelle cose che dico?
47 – Ognuno che viene a me e ascolta le mie parole e le fa, vi mostrerò a chi è simile:
48 – è simile ad un uomo che costruisce una casa, che scavò e scavò profondo e pose le fondamenta sulla pietra; venuto lo straripamento, il fiume colpì quella casa e non fu capace di scuoterla perché essa era stata ben costruita.
49 – Ma chi ha ascoltato e non ha fatto è simile ad un uomo che ha costruito una casa sulla terra senza fondamenta, contro la quale colpì il fiume e subito cadde e la rovina di quella casa fu grande>>.


Note generali

Per poter comprendere questa seconda grande sezione del cap.6 (vv.20-49), dal tono parenetico e sapienziale, è importante comprendere il contesto entro cui essa è stata collocata e di cui è parte integrante e fondamentale, poiché essa costituisce il proclama con cui viene delineata l'identità spirituale, morale ed etica della nuova comunità credente, che Luca comprende come messianica ed escatologica. Già lo si è ricordato all'inizio di questo capitolo come l'autore, unitamente al cap.5, qui stia facendo un discorso squisitamente storico ed ecclesiologico insieme. Viene, infatti, affermato il primato petrino (5,4-10), raccontato il formarsi del primo nucleo di discepoli (5,11.27-28), le continue diatribe tra Gesù e il Giudaismo, causate dall'incompatibilità tra le due contrapposte posizioni, dovute alla diversa visione e comprensione di Dio e delle sue esigenze, così da rendersi necessario il distacco dal Giudaismo, al cui interno i seguaci di Gesù e Gesù stesso erano nati (5,17-6,11). Questi, usciti, si costituiscono in una comunità credente a se stante, concepita come di origine divina (v.12), e che ha come primo nucleo strutturale fondante Gesù e i Dodici (vv.13.17a), attorno ai quali si consolidano i discepoli e, assieme a loro, genti di diversa provenienza, giudei e pagani (v.17b). Una chiesa, dunque, non chiusa in se stessa, ma che va verso le genti e fa proseliti (At 2,41; 6,7), e il cui senso della propria missione è l'annuncio della Parola e, attraverso questa, la guarigione e la rigenerazione spirituali dell'uomo a Dio. Chi vi entra fa esperienza risanatrice di Gesù (vv.18-19). Lo si arguisce dalle motivazioni che hanno spinto le folle di discepoli e di genti a radunarsi attorno a Gesù e ai Dodici: per ascoltare la Parola e per trarre da questo ascolto, che è incontro con Gesù ed esperienza di lui, la propria guarigione (vv.18-19).

Ora Luca deve dare a questa nuova comunità una sorta di Charta Magna che la definisca anche come entità da un punto di vista spirituale, morale ed etico. E che tale sia il senso di questo seconda sezione del cap.6 lo si intuisce da come inizia questa sezione: “Ed egli levati i suoi occhi verso i suoi discepoli, disse”. Il proclama, dunque, non è rivolto a tutti, ma a chi ha già fatto una sua scelta esistenziale ed è già entrato a far parte di questa comunità: i discepoli, qui distinti dal gruppo dei Dodici, che invece Luca vede assieme a Gesù (v.17a). Discepoli che si trovano in mezzo alle genti e da queste provengono.

Da una semplice analisi della la struttura di questa sezione ci si rende subito conto come il suo contenuto assuma la forma di una vera e propria carta costituzionale, mettendo allo scoperto le intenzioni di Luca:

  1. I destinatari, la loro estrazione sociale e il contesto di persecuzione in cui vivono (vv.20-26).

  2. Aspetti spirituali e morali: la regola fondamentale dell'amore (vv.27-38):

    a) Enunciazione: amare i propri nemici (v.27a)
    b) Specificazione: far loro del bene, benedirli e pregare per loro (vv.27b-28);
    c) Principio della non resistenza: porgere l'altra guancia, dare anche la tunica, dare senza reclamare (vv.29-30)
    d) Conclusione: fai agli altri quello che tu vuoi gli altri facciano a te (v.31).
    e) La natura di questo amore: deve essere disinteressato e gratuito (vv.32-35c)
    f) Il parametro di confronto: Dio stesso che è comunque buono verso ingrati e malvagi (v.35d)
    g) Altro aspetto della natura dell'amore: generosità nella compassione e nella misericordia sul modello del Padre (vv.36-38).


Cesura o pausa di riflessione: l'esempio non viene dagli uomini, per loro natura ciechi, ma dal maestro a cui il discepolo deve conformarsi ed eguagliarsi (vv.39-40).


  1. Aspetti etici all'interno della comunità credente (vv.41-49)

a) Autocritica prima di criticare: levare la trave dal proprio occhio prima di togliere la pagliuzza dall'occhio del proprio fratello (vv.41-42);
b) Criterio per valutare l'attendibilità delle persone: guardare il loro modo di comportarsi (vv.43-45);
c) Criterio per valutare l'autenticità della fede: vero discepolo non è colui che compie continue pratiche di pietà e religiose, ma colui che conforma la propria vita alla Parola (vv.46-49).

Questa seconda sezione ha un suo sostanziale riscontro con il primo grande discorso di Matteo, che comprende i capp.5-734, la quale cosa lascia supporre che entrambi gli evangelisti abbiano attinto alla medesima fonte Q, ma abbiano comunque gestito il materiale secondo le loro esigenze, i loro intenti e, in particolare, tenendo presente le comunità di destinazione: composte da giudeocristiani quelle di Matteo; da etnocristiani quelle di Luca, il quale scrive più che per una specifica comunità, Luca è un missionario, al mondo greco-ellenistico e pagano in genere, da cui egli stesso proviene. Un altro elemento che distingue i due destinatari ed è rilevante per comprendere le notevoli differenze nelle beatitudini di Matteo e quelle di Luca, è la composizione sociale delle comunità mattane e di quelle lucane. Le prime sono formate da persone ricche, latifondisti, commercianti, banchieri e, comunque, da gente benestante35; le seconde da gente povera, indigente, soggetta alle angherie della prepotenza dei ricchi. Gente che soffre per la loro condizione di miseria materiale, a cui, probabilmente, si va ad aggiungere anche quella morale. Questa diversa composizione sociale e i diversi intenti teologici dei due evangelisti sono all'origine della diversa composizione di questa sezione e delle stesse beatitudini. Matteo presenta otto beatitudini, che si muovono su di un profilo spirituale, contrariamente a Luca che considera l'aspetto materiale della povertà e dell'indigenza. Per Matteo sono beati i poveri in spirito, così come sono beati coloro che hanno fame e sete di giustizia (Mt 5,3.6); esalta la mitezza, la misericordia, la purezza di cuore, l'operare la pace e la concordia, dichiarando beati coloro che le praticano (Mt 5,4-5.7-9), poiché sono questi i punti deboli di chi è ricco e potente nei confronti dei meno fortunati. Evita la condanna dei ricchi e del loro stato di benessere e agevolatezza, come invece fa Lc 6,24-26. Matteo non può, come Luca, permettersi di puntare il dito contro le ricchezze e il benessere che ne deriva, ma cerca di creare atteggiamenti corretti nei confronti di questi beni, cercando di far capire come l'essenziale nella vita non è procurarsi il cibo, begli abiti, ricchezze e benessere, ma cercare il Regno di Dio e la sua giustizia. Tutto il resto è un sovrappiù (Mt 6,25-34). Sollecita con fermezza queste sue esortazioni, mettendo la sua comunità di ricchi e benestanti di fronte ad una scelta radicale, poiché: “Nessuno può servire a due padroni; infatti o disprezzerà l'uno e amerà l'altro, o si attaccherà a uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e il denaro” (Mt 6,24), sospingendola, invece, a non accumulare “per voi tesori sulla terra, dove il tarlo e la ruggine distruggono e ladri rovinano e rubano. Accumulate, invece, per voi tesori in cielo dove né il tarlo né la ruggine distruggono e dove i ladri non rovinano né rubano; infatti, dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore” (Mt 6,19-21).

Con questa sezione Luca abbandona Marco fino a 8,3 e attingerà assieme a Matteo dalla comune fonte Q e da materiale proprio. Oltre a quanto già indicato nella nota n.33, Luca avrà dei paralleli nel cap.7 con Mt 8,5-13 (la fede del centurione); Mt 11,2-6 (il Battista si interroga su Gesù); Mt 11,7-11 (panegirico di Gesù sul Battista); Mt 11,16-19 (reazioni della gente sul Battista e su Gesù). Fa parte, invece, del materiale proprio di Luca 7,11-17 (risurrezione del figlio della vedova di Nain); 7,36-50 (Gesù, Simone il fariseo e la peccatrice); 8,1-3 (Gesù e i discepoli).

Commento ai vv.20-49

I destinatari, la loro estrazione sociale e il contesto di persecuzione in cui vivono (vv.20-26)

La pericope vv.20-26 è composta da otto enunciazioni sullo stile sapienziale, che riflettono la caratteristica impronta lucana, che ama i doppioni: quattro “beati” seguiti da quattro “guai” che, parola per parola, sono antitetici all'enunciazione della beatitudine corrispondente, creando un elemento di forte contrasto tra due componenti sociali: i poveri e i ricchi; chi soffre e chi ride; chi ha fame e chi è sazio; chi perseguita e chi è perseguitato. Viene generato in tal modo un contesto sociale dai forti toni escatologici, in cui si sta per compiere un giudizio divino: i beati si contrappongono a quelli colpiti dal “Guai”, discriminati tra loro da un giudizio divino che non si è ancora definitivamente compiuto, ma che ha le sue radici già qui nel presente. Lo attestano i verbi al presente indicativo che vengono accostati a quelli al futuro, che prospettano un presente completamente rovesciato. È, dunque, qui, nell'oggi che Luca vede compiersi non soltanto la salvezza, ma anche la condanna, quasi in una sorta di escatologia presenziale sull'onda di quella giovannea. È significativa quella interiezione di minaccia: “Guai!”, resa in greco in modo molto più espressivo con “oÙaˆ” (uaì), che nella sua pronuncia sembra un latrato, un guaito di sofferenza e di dolore. Esso, dunque, pesa come una promessa di una minaccia incombente, che contrasta notevolmente con la proclamazione di beatitudine, a cui, invece, appartiene l'altra categoria di persone. Questa è una comunità messianica, che pur vivendo nell'indigenza vede aprirsi proprio al suo interno un futuro che Luca si raffigura, sullo stile apocalittico-sapienziale, come completamente capovolto. Riecheggia qui la grande visione apocalittica di un messianismo ormai definitivamente compiuto, ma che deve passare attraverso la tribolazione, che associa il discepolo al Maestro. Non è un caso, infatti, se la scoperta del messianismo di Gesù è associato alla croce, indicata come l'unica via percorribile per il discepolo36: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell'Agnello. Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo santuario; e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro. Non avranno più fame, né avranno più sete, né li colpirà il sole, né arsura di sorta, perché l'Agnello che sta in mezzo al trono sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 7,14-17). E similmente Ap 21,3-5 riprende il tema di una beatitudine compiuta: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il "Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate. E Colui che sedeva sul trono disse: "Ecco, io faccio nuove tutte le cose"; e soggiunse: <<Scrivi, perché queste parole sono certe e veraci>>”. Citazioni queste che riecheggiano a loro volta Is 25,8-9: “Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese, poiché il Signore ha parlato. E si dirà in quel giorno: <<Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse; questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza>>”. Viene qui descritto un mondo in cui le speranze messianiche sono già pienamente e definitivamente compiute; dove il Regno di Dio è pienezza di compimento, poiché esso altro non è che la vita stessa di Dio, dove lo stato delle cose terrene con il loro carico di sofferenza e di morte sono scomparse per lasciar spazio ad una nuova creazione, che ha la sua radice nella risurrezione di Gesù, primizia e promessa di coloro che risorgeranno (1Cor 15,23).

Da queste brevi citazioni possiamo concludere come la beatitudine descriva lo stato della stessa vita di Dio; mentre il beato è colui che partecipa alla pienezza della sua vita. Il macarismo non è nuovo nella Bibbia. Il termine “mak£rioj” (makários, beato) ricorre 57 volte nell'A.T. prevalentemente nei testi sapienziali e definisce, in genere, il beato come l'uomo posto in stretta relazione con Dio e conformato al suo insegnamento, mosso dal desiderio di Dio; similmente nel N.T. il termine ricorre 52 volte con pari significato. Il macarismo, pertanto, definisce una condizione stabile e definitiva di vita, che nulla ha che vedere con la beatitudine o la felicità umana, ma che, invece, la prospetta, al di là dello spazio e del tempo, nella dimensione stessa di Dio e dice la condivisione della sua vita, che è vita di pienezza e, per questo, priva di ogni bisogno e di ogni necessità e, di conseguenza, priva di ogni forma ed espressione di sofferenza, che nasce sempre da un bisogno non soddisfatto.

Il grande discorso di Gesù si apre indicando i suoi destinatari: “Ed egli levati i suoi occhi verso i suoi discepoli, disse”. Quel “levare gli occhi verso” definisce i soggetti a cui il discorso è diretto e riservato. Si crea quasi una sorta di canale di comunicazione diretta tra Gesù e i suoi. Si tratta dei discepoli, persone che già hanno operato la loro scelta esistenziale a favore di Gesù, consacrandogli la loro vita. Sono persone che ora, con questo atto istitutivo, si costituiscono in una comunità credente, che ha una sua nuova identità delineata da questo proclama. Si noti la rilevanza di questo grande discorso, poiché è l'unico esistente nei primi nove capitoli del vangelo lucano. A partire da 9,51 e fino a tutto il cap.19,28 sarà, invece, un continuo susseguirsi di discorsi parenetici a sfondo sapienziale, quasi una sorta di riflessione che accompagna il cammino di Gesù verso la croce. Questa eccezione dice l'importanza di questo discorso finalizzato alla costituzione della comunità credente, tratteggiandone il carattere fondamentale, distintivo e qualificante. Gv 13,34-35, più semplicemente, dirà: “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate gli uni gli altri; come (io) vi amai affinché anche voi vi amiate gli uni gli altri. In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni verso gli altri37.

Il testo delle beatitudini lucane si apre con un'intestazione: “Beati i poveri, poiché vostro è il regno di Dio”, che ha la sua contropartita al negativo nei ricchi, che già stanno ricevendo la loro consolazione. Si viene a creare in tal modo un parallelismo di contrasti, in cui si rileva come in realtà la vera ricchezza è quella del povero, poiché questi possiede fin d'ora il regno di Dio. Il verbo qui è al presente indicativo, contrariamente a quanto avverrà nelle successive beatitudini, che è posto al futuro. Essi, pertanto, fanno già parte per la loro condizione di indigenza e di ristrettezze, che causano una condizione di vita di sofferenze, a questa nuova dimensione che Gesù è venuto ad inaugurare con il suo proclama di inizio missione: “Lo Spirito del Signore su di me; a motivo di questo mi unse perché fosse annunciata la buona novella ai poveri; mi inviò per proclamare ai prigionieri (la) liberazione e ai ciechi il recupero della vista, per mandare in libertà gli oppressi” (4,18). Per contro, al regno di Dio si contrappone la consolazione dei ricchi: i soldi e tutto ciò che essi promettono. Due realtà che si escludono reciprocamente e sono irriducibili l'una all'altra per la loro stessa natura. Sarà proprio questo l'ammonimento che Lc 16,13, che ha il suo parallelo in Mt 6,24, invierà ai suoi: “Nessun servo può servire a due padroni; infatti, o disprezzerà l'uno e amerà l'altro; o si attaccherà ad uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona”.

Chi siano questi poveri viene meglio specificato nelle successive beatitudini. Questi sono coloro che hanno fame, che piangono, che sono ghettizzati, disprezzati, derisi e perseguitati a motivo della loro fede. Una condizione di vita che qui Luca assimila a quella stessa dei Profeti, coloro che costituivano la voce della coscienza di Israele e quella stessa di Dio in mezzo al suo popolo. Tali sono i poveri, che proprio per la loro essenzialità di vita, causata da un'indigenza imposta e iniqua, sono diventati i veri testimoni del Regno di Dio, che “non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini. Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole” (Rm 14,17-19). La loro spogliazione materiale, benché ingiusta, diviene pertanto voce profetica in mezzo agli uomini, lasciando intravvedere come al di là di questa loro povertà materiale vi sia una diversa ricchezza, quella delle realtà spirituali, per la quale hanno consacrato la loro vita e in in questa essi trovano il loro riscatto.

Se, da un lato, l'accostamento delle quattro beatitudini con i quattro antitetici “Guai” creano, da un punto di vista letterario, un gioco di chiaroscuri che mette meglio in rilievo la figura dei beati e il senso della loro beatitudine, dall'altro, questa giustapposizione genera un contesto escatologico in cui viene paventato una sorta di giudizio finale, che in qualche modo è già scritto nella condizione di vita propria di ogni persona, poiché se per Luca la salvezza è nell'oggi dell'uomo, tale lo è anche la sua condanna. Tutto dipende dalla risposta esistenziale che l'uomo dà alla proposta salvifica di Gesù, che si colloca come elemento di discriminazione in mezzo agli uomini, così che chi non è con lui è contro di lui e chi con lui non raccoglie di fatto disperde (11,23).

Aspetti spirituali e morali: la regola fondamentale dell'amore (vv.27-38)

In un contesto escatologico dove è presente il confronto tra il bene e il male e dove s'impone il giudizio divino su quest'ultimo, prospettando, invece, per i fedeli la ricompensa della felicità eterna, che è partecipazione alla stessa vita di Dio, si rende necessario assegnare alla nuova comunità messianica, impegnata nello scontro dell'oggi, una sua identità in cui tutti i suoi componenti devono riconoscersi, configurandosi ad essa. Un'identità che deve radicarsi innanzitutto nel modus vivendi dei suoi membri, diventando in tal modo segno distintivo e testimonianza per quelli che si pongono al suo esterno, in particolar modo i suoi nemici. La lotta non si fonderà sull'odio reciproco e sul tentativo della reciproca distruzione, ma su di un elemento scioccante e destabilizzante, perché va contro le regole e contro le logiche umane, ma comunque vincente perché questa è la logica di Dio: l'amore per il nemico.

Il v.27 si apre con una particella avversativa “Ma dico a voi che mi ascoltate”. Ed è proprio quel “Ma” che avverte i discepoli che quanto segue, fino a tutto il v.49, andrà contro le loro aspettative e il loro normale modo di ragionare, perché ciò che qui viene prospettato ha l'impronta di Dio, i cui pensieri non sono i nostri pensieri e le sue vie non sono le nostre vie e la distanza che separa Dio dagli uomini è pari alla distanza che separa il cielo dalla terra (Is 55,8-9). Il “Ma” è rivolto ai discepoli, che qui sono definiti come coloro che ascoltano Gesù. Si apre qui un'inclusione con il v.47 che definisce a chi assomigliano coloro che ascoltano la sua parola e fondano la loro vita su di essa.

L'enunciato, da cui deriverà tutto il resto e su cui tutto è imperniato, è sconvolgente: “amate i vostri nemici”. Da qui segue ora una catena di conseguenze, che investiranno per intero la vita di ogni credente. Tutti i versetti seguenti, fino all'ultimo, il v.49, saranno dedicati a specificare il senso di questo amore così nuovo e così sconcertante, sondandone i vari aspetti, che regolamentano i rapporti dei membri di questa nuova comunità credente con il mondo e, al proprio interno, nei confronti degli altri membri.

Che cosa significhi “amare i propri nemici” viene ora esemplificato dai vv.27b-34: fare del bene, benedire e pregare per quelli che disprezzano, maledicono e oltraggiano il discepolo. È qui tracciato un profilo spirituale molto elevato, che troverà la sua giustificazione nel fatto che il discepolo è figlio dell'Altissimo, il quale per primo si mostra benevolo nei confronti di ingrati e malvagi. La figliolanza divina del discepolo trova pertanto riscontro in questo atteggiamento di benevolenza verso chi gli è ostile.

Con i vv.29-31 viene presentato un nuovo aspetto dell'amore, quale suo derivato: il principio della non resistenza, forse meglio conosciuto come il principio della non violenza. Un principio che sembra innocuo e perdente, ma è proprio quello che ha scalzato l'impero inglese dall'India. Questa seconda specificazione dell'amore per propri nemici si conclude con una regola che potremmo definire d'oro: “E come volete che gli uomini facciano a voi, fate a loro ugualmente” (v.31). Una regola questa che non è scontata e pacifica, poiché va a colpire le profondità stesse dell'uomo, le sue esperienze, la sua educazione, la sua storia e le mette tutte in discussione. Essa è molto simile al dettato di Lv 19,18: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore”. Amare l'altro impone innanzitutto che noi abbiamo imparato ad amare noi stessi, a rispettarci, ad accettarci, superando i nostri conflitti interiori, evitando così che questi si riversino sugli altri. Esige che noi siamo diventati veramente adulti, in cui l'io ha imparato ad andare verso il tu e in questo trovi la propria realizzazione e la propria affermazione, altrimenti l'amare gli altri come se stessi rischia di diventare un depredare gli altri per il proprio autosoddisfacimento. L'amore credente, pertanto, è un amore che va ad interpellare l'uomo nella sua interezza ed ha come parametro Gesù stesso, che ha donato se stesso fino alla morte di croce, dove ha saputo perdonare i suoi nemici, che sghignazzavano di lui, mentre egli stava morendo per loro. La Gadium et Spes ne fa un parametro di raffronto per tutti, su cui rimodellare la propria vita, così che “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo” (GS § 41).

Con i vv.32-34 Luca delinea la natura di questo amore: esso deve essere disinteressato e gratuito. Privo di questo atteggiamento donativo, l'amore diventa solo un calcolo di opportunità, che pone al centro se stessi e i propri interessi spesi a danno degli altri. Questo tipo di amore può essere tutto, fuorché vero amore, la cui natura si qualifica come la totale apertura di se stessi all'altro, la totale donazione di sé all'altro, la piena accoglienza dell'altro in se stessi.

Con il v.35 si chiude una certa tipologia di amore, che potremmo definire relazionale. Viene qui presentata una sintesi dei vv.27-34, che riprende per sommi capi le tematiche fin qui trattate. Esso è scandito in due parti: la prima funge da sintetico promemoria per il credente: “Pertanto amate i vostri nemici e fate del bene e prestate non sperando niente (in contraccambio)” (v.35a). La seconda parte (v.35b) riguarda la ricompensa e la figliolanza divina del credente, che trova proprio nel Padre, di cui egli possiede il DNA spirituale, la fonte della benevolenza verso ingrati e malvagi. Proprio per la sua natura di Amore (1Gv 4,8.16) Dio è incapace di odio verso chi gli è ostile, poiché egli si qualifica come un Padre accogliente. Qui i verbi, come nelle beatitudini, sono posti al futuro proiettando in tal modo il presente del credente verso il mondo della pienezza di Dio, verso il quale è fin d'ora incamminato e la cui presenza grava sul suo cammino e gli impone continue scelte.

La breve pericope, vv.36-38, si apre con una enunciazione, che è una sorta di continuazione e di completamento di quella del v.35b e funge da principio, che giustifica le disposizioni dei vv.37-38: “Siate compassionevoli come [anche] il Padre vostro è compassionevole”. Compassione ha la sua etimologia in “cum + patior”, che significa soffrire insieme, sentire insieme e, quindi, condividere gli stessi sentimenti. Risuona qui in qualche modo l'esortazione di Rm 12,14-16a: “Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri”. Compassione, dunque, significa togliere ogni barriera tra se stessi e l'altro, ponendosi in un atteggiamento di apertura accogliente, compassionevole, misericordiosa e perdonativa, che si esplicita nel non giudicare, non condannare, ma nel prosciogliere, nel perdonare, nel creare, quindi comportamenti di condivisione e di riconciliazione anche verso i nemici, poiché il comportamento che si adotterà verso gli altri si rifletterà, nel bene come nel male, su su se stessi.

Il v.37 trova ora la sua esplicitazione al positivo e il suo sviluppo complementare nel v.38: “Date e vi sarà dato: una buona misura, premuta, scossa, traboccante daranno nel vostro grembo; infatti con (la) misura con cui misurate, sarà in contraccambio misurato a voi”. È qui sottolineato l'atteggiamento di positività che il discepolo deve assumere nei confronti degli altri in genere e dei propri nemici in particolare, nella coscienza che il suo atteggiamento nei loro confronti si rifletterà parimenti su di lui. Pertanto, il non condannare, il non giudicare e il saper perdonare nel v.38 vanno oltre e spingono il discepolo a farsi dono a tutti.

Il v.38 si apre con un esortazione perentoria: “Date e vi sarà dato”. Uno stesso verbo posto sotto due tempi verbali diversi e giustapposti l'uno all'altro, conseguenti l'uno all'altro: uno al presente indicativo; l'altro posto al futuro. Come dire che ciò che si compie nel proprio oggi ha una sua inevitabile ripercussione sul proprio futuro. È nel proprio oggi che si determina il proprio futuro. Lo ricorda Lc 11,4a nella sua formula breve del Padre nostro: “e rimetti a noi i nostri peccati, perché anche (noi) stessi (li) rimettiamo a ognuno che ci è debitore”. Da qui l'esortazione a dare senza misura poiché con la misura con cui si misura sarà misurato a se stessi. Come dire che siamo noi stessi i fautori del nostro futuro e del nostro stesso giudizio su di noi. È qui nell'oggi che ci costruiamo il nostro futuro di eternità verso la quale, consci o inconsci, siamo incamminati.

La cesura o pausa di riflessione (vv.39-40)

Dopo un lungo e articolato discorso sull'amore, sulla sua natura, sulle modalità del suo manifestarsi, che detta le linee identitarie della comunità credente e dei suoi membri nel loro relazionarsi con il mondo, percepito come un'entità persecutrice, ora l'autore, prima di passare agli aspetti etici che regolano le relazioni intracomunitarie, crea una cesura, uno stacco che costituisce un momento di riflessione, che è preparatorio alla pericope che segue (vv.41-49). Si tratta di una brevissima parabola dai toni sapienziali e sentenziali (v.39), seguita subito da un'altra sentenza, che va a completare la prima: “Ora, disse a loro anche una parabola: <<Può forse un cieco guidare un cieco? Non cadranno entrambi in una buca? Non c'è discepolo sopra il maestro; ma ognuno preparato sarà come il suo maestro”. Il cieco è una persona che non è illuminata dalla luce del sole e per questo non vede. Questo tale non può farsi guida di un'altra persona suo pari, poiché sicuramente andranno a sbattere contro qualcosa o, peggio ancora, cadranno in qualche buca rovinandosi entrambi. In altre parole, nessuno all'interno della comunità credente può ergersi a guida e maestro di altri, poiché alla pari degli altri egli non è una persona illuminata. Per divenirne guida egli deve avere una opportuna preparazione, un'adeguata formazione che ha come parametro di confronto, su cui conformarsi, lo stesso Gesù, che funge da limite invalicabile, cioè nessuno può sentirsi superiore a lui, migliore di lui, per cui “Non c'è discepolo sopra il maestro; ma ognuno preparato sarà come il suo maestro”. L'insegnamento di Gesù, a cui tutti i membri della comunità credente sono sollecitati ad adeguarsi e a conformarsi esistenzialmente, costituisce la base etica del comportamento intracomunitario. Solo Gesù, il vero ed unico illuminato del Padre, può essere autentica guida del credente così che ogni comunità è chiamata a modellare i propri rapporti interni sul suo insegnamento.

Aspetti etici all'interno della comunità credente (vv.41-49)

Dopo l'ammonizione dei vv.39-40, l'autore passa ora a dettare alcune regole comportamentali alle quali i discepoli, destinatari dell'intero discorso (v.20a), devono attenersi. Si tratta di tre piccole pericopi tematicamente diverse e giustapposte l'una accanto all'altra, sia pur con un tenue legame tra le prime due e che quasi certamente andavano a colpire alcuni problemi presenti all'interno delle comunità stesse, dando loro regole comportamentali. Queste potremmo intitolarle come:


a)Autocritica prima di criticare” (vv.41-42)
b)Il criterio per valutare l'attendibilità delle persone” (vv.43-45)
c)Criterio per valutare l'autenticità della fede” (vv.46-49

La prima pericope (vv.41-42) gioca tutto sull'enorme sproporzione che intercorre tra la pagliuzza, che definisce l'esiguità della mancanza nell'altro, e la trave, che invece acceca chi si preoccupa di togliere la pagliuzza. Ma ciò che colpisce nella persona con la trave è l'atteggiamento di ricerca che la muove per trovare nell'altro la pagliuzza; un atteggiamento sotteso dalla pignoleria, dalla meticolosità e dalla voglia di perfezionismo di una persona che si sente integra e perfetta. Ed è proprio questo suo stato di coscienza appannata che la condanna, poiché avendo un alto concetto di se stessa e di perfezione raggiunta non sente neppure più il bisogno di cambiare, tarpando le ali a qualsiasi suo processo di evoluzione spirituale. Questa è la trave che la rende cieca e sfalsa il suo rapporto con gli altri, rendendola colpevole nei confronti di se stessa, della comunità e di Dio. È lo stesso atteggiamento di autosufficienza che il fariseo, salito al tempio con il pubblicano, tenne nei confronti di Dio, dal quale non ricevette il perdono (18,10-14), rimanendo così chiuso nella sua aridità spirituale. Contrariamente al figlio prodigo che, rientrato in se stesso e presa coscienza del miserevole stato di vita in cui era caduto, si rialza e riprende il cammino di ritorno verso il Padre (15,17-20).

La seconda pericope (vv.43-45) fornisce il criterio per valutare l'attendibilità delle persone e in qualche modo è legata alla precedente pericope della pagliuzza e della trave, sia perché aiuta a comprendere ciò che si annida nel cuore di chi ha la trave; sia perché è a questa legata da un “g¦r” (gàr, infatti, poiché) esplicativo con cui si apre. Per questo intrecciarsi tra le due pericopi, la sua struttura è complessa e questa complessità dice l'importanza che l'autore le attribuisce. Essa si sviluppa in tre passaggi progressivi:

  1. il v.43 parte con un'affermazione generica: nessun albero buono fa frutti cattivi e viceversa;

  2. il v.44 si apre riprendendo il v.43 ed è scandito in due parti: la prima conclude l'affermazione del precedente v.43, a cui si aggancia con un “g¦r” (gàr, infatti, poiché), questa volta di tipo dichiarativo: ciascun albero si conosce dal proprio frutto, completando così la precedente sentenza (v.43). La seconda parte del v.44 esemplifica la prima parte del v.44, arricchendola con un'immagine, che fissa la sentenza meglio delle parole: “infatti, non dalle spine raccolgono fichi, né vendemmiano uva dal rovo”. Anche questa seconda parte è agganciata alla prima con un altro “gàr” esplicativo.

  3. Il v.45, preceduto e preparato dai primi due, illustra il terzo passaggio, il vero obiettivo che l'autore si era proposto: il comportamento dell'uomo, buono o cattivo che sia, si radica nel suo cuore, considerato dagli antichi il centro della volontà e dei sentimenti della persona, la sua parte più intima ed essenziale nel contempo. Di conseguenza le azioni che questa persona compie, sia nel bene che nel male, sono rivelatrici dell'intimità e, quindi, della verità di quella persona.

La terza pericope (vv.46-49), con cui Luca conclude il suo cap.6 riprendendo l'identica parabola che conclude il primo grande discorso di Matteo, getta una luce tagliente sulla natura dell'autentica sequela, che identifica e definisce il vero discepolo. Benché la similitudine sia sostanzialmente identica nei due evangelisti, ben diverso è il taglio che questi le danno: Matteo pone quale condizione per entrare nel regno dei cieli il fare la volontà del Padre (Mt 7,21), alla quale non si sottraggono neppure i discepoli (Mt 7,22-23). L'accento qui cade sulla salvezza. A Luca, invece, come si è sopra accennato, interessa la condizione per accedere alla sequela e, di conseguenza, ciò che qualifica il vero discepolo. Significativo infatti è il v.47a: “Ognuno che viene a me” con cui l'autore evidenzia un movimento di sequela. L'accento, infatti, qui cade sull'andare a Gesù e, quindi, il seguirlo. Per entrambi gli evangelisti, comunque, viene messa in evidenza, sia pur con diverse prospettive, l'importanza dell'ascolto accogliente della Parola, definita quale roccia sicura, che rende invincibile quella comunità che l'ha posta a suo fondamento contro le persecuzioni e le gravi avversità della vita e della storia, significate nello straripamento del fiume, che va a colpire direttamente la casa, metafora della comunità credente, ma anche del singolo discepolo che la abita.


NOTE

1Cfr. 1Cr 4,33; 5,7; 9,1; Esd 2,62; 8,1; 1Tm 1,4; Tt 3,9.

2Traduzione personale e letterale dal testo greco originale.

3Per un confronto tra schemi marciani seguiti da Luca e sezioni lucane inserite negli schemi marciani cfr. la Parte Introduttiva della presente opera; pagg.22-23

4Sulle questioni riguardanti l'origine del sabato e la sua evoluzione nel tempo cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; pagg.458-465. Cfr. anche la voce “Sabato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005

5Cfr. Es 19,8; 24,3.7; Dt 5,27

6In tal senso cfr. Mc 7,1-5

7Mentre la Torah afferma che nel giorno di sabato non deve essere prodotta alcuna attività lavorativa, il cui intento era quello di aiutare l'uomo, libero dalle sue fatiche quotidiane, a ritrovarsi con il suo Dio e a pensare al suo destino eterno, di cui il sabato era figura, i Dottori della Legge hanno sviluppato un intero trattato talmudico, lo Shabbath, incentrato su ciò che costituisce violazione o meno del sabato. Insomma, un abbaglio: si sono dedicati a curare meticolosamente la forma dell'osservanza sabbatica, trascurandone completamente la sostanza, cioè il senso per cui Dio aveva dato questa prescrizione sabbatica del riposo. Essi, pertanto, hanno individuato trentanove melachot, le quali, più che attività, sono categorie di attività vietate in giorno di sabato, dando così seguito a innumerevoli discussioni se un determinato atto rientrava o meno in uno di questi divieti. Questi sono: “Seminare, arare, mietere, legare i covoni, trebbiare, vagliare, sceglie, ventilare, macinare, impastare, cuocere; tosare la lana, imbiancarla, cardarla, tingerla, tessere, ordire, fare due fili, intrecciare due fili, separare due fili (di una corda), annodare; sciogliere, cucire due punti; cacciare il cervo, ucciderlo, scuoiarlo, salare (la carne), conciare la pelle, raschiare (il pelo), tagliarlo a pezzi; scrivere due lettere dell'alfabeto; cancellare per scrivere due lettere dell'alfabeto; costruire, demolire;accendere un fuoco, spegnerlo; battere con il martello; portare un oggetto da un dominio ad un altro” (Shab., VII, 2). Sullo Sabbath e le sue prescrizioni cfr. A. Cohen, Il Talmud, edizione Editori Laterza, Bari, 1999.

8In At 1,12 viene richiamata questa limitazione di movimento in giorno di sabato: “Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato

9Moloch era una divinità cananea a cui si attribuivano sacrifici umani. Le vittime venivano sgozzate e poi bruciate in suo onore. Esso compare più volte citato in Lv 18,21; 20,2.3.4.5; 2Re 23,10; Ger 32,35.

10Cfr. Lc 6,6-11; 13,10-17; 14,1-6

11Sulla figura professionale di Luca cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg .11-12

12Tutte le informazioni sui singoli nomi degli apostoli sono state tratte da mie personali ricerche bibliche e dai seguenti testi: Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.; Gérard Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Città Nuova Editrice, Roma, 1992; O. Spinetoli, Matteo, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 6^ edizione 1998; R. Fabris, Matteo, edizioni Borla, Roma, 1996.

13Luca cita sei diverse persone che portano tale nome: Simone, detto Pietro (6,14), Simone lo Zelota (6,15), Simone il fariseo (7,36.40ss) e Simone, il Cireneo (23,26); personaggi questi che sono riportati anche dagli altri due Sinottici. Mentre in Giovanni 6,71e 13,2.26 si conosce con tale nome anche il padre di Giuda: Simone Iscariota. In Atti 8,9 compare un altro Simone, dedito alla magia; in At 9,43 e 10,6 vi è anche un Simone il conciatore.


14Il termine greco “Boanhrgšj” è un composto di due parole “BÒama” (grido) + “erg£thj” (autore, operatore). Quindi, letteralmente sarebbe “operatori o autori di grida”, che potremmo tradurre, pertanto, con il nostro “brontoloni” o anche “agitatori”. La traduzione “figli del tuono” è molto liberale e, a mio avviso, non rispetta l’etimologia. Tuono in greco è bront» (bronté), mentre figlio è Ù…oj o tšknon (uìos - téknos). Siamo, quindi, lontani, comunque la si voglia vedere, dall’etimologia del termine. Va rilevato, tuttavia, che Lorenzo Rocci nel suo “Vocabolario Greco - Italiano”, riportando il termine Boanhrgšj traduce, tout-court, con “figli del tuono”, conformandosi alla tradizionale traduzione e cita il N.T. più che al senso letterale.

15Erode Agrippa fu figlio di Aristobulo e nipote di Erode il Grande. Da Caligola ricevette il titolo di re assieme ai territori nord occidentali della Palestina. Nel 41 d.C., divenuto imperatore Claudio, ricevette da questi anche i territori della Giudea e della Samaria, dopo diversi intrighi a Roma. La sua politica fu favorevole al giudaismo farisaico e fu ben visto dai giudei. Morì improvvisamente all’età di 54 anni (44 d.C.). La sua morte è menzionata dallo stesso Luca in At 12,20 e da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, 19,343 ss. Egli lasciò un figlio, Agrippa II, e due figlie: Berenice, nata nel 28 d.C. e menzionata da Luca in At 25,13; e Drusilla, nata nel 38 d.C. e divenuta la terza moglie del procuratore romano Felice. Anche questo particolare è citato da Luca in At 24,24. – Cfr. la voce Erode in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005

16Nell’elenco degli Atti i nomi di Filippo e di Bartolomeo sono inframmezzati da quello di Tommaso (At 1,13).

17Il nome Bartolomeo, per il suo significato, sembra essere soltanto un patronimico. Quale, dunque, il suo nome reale? Non ci è dato di conoscerlo, benché si sia avanzata l’ipotesi, a mio avviso alquanto disperata, che esso sia il Natanaele giovanneo (Gv 1,45-49; 21,2). Secondo Eusebio di Cesarea Bartolomeo diffuse il vangelo di Matteo in India.


18A differenza dei Sinottici, che nei loro racconti citano una sola pasqua, quella fatale in cui Gesù morì, Giovanni narra di tre pasque vissute da Gesù durante la sua vita pubblica: la prima in 2,13, caratterizzata dall’episodio della purificazione del Tempio, che i Sinottici pongono alla fine dei loro racconti, mentre Giovanni la pone all’inizio della sua opera; la seconda in 6,4 predomina la moltiplicazione dei pani, che in Giovanni è considerata fondativa dell’eucaristia; la terza in 11,55, nella quale viene narrata la risurrezione di Lazzaro, che nel racconto giovanneo prelude a quella di Gesù. È proprio questo particolare della triplice pasqua che spinge gli esegeti a ritenere che la missione pubblica di Gesù sia durata tre anni circa.

19Sulla questione, vedasi il nome di Andrea.

20Sull’autore del vangelo di Matteo, vedasi il titolo “Autore” nella Parte Introduttiva dell'opera “Il vangelo di Matteo”, presente sul mio sito http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.htm

21Sulla figura di Papia si veda la nota 5 nella Parte Introduttiva dell'opera “Il vangelo di Matteo”, presente sul mio sito http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.htm

22Gli Scritti neotestamentari ricordano nove Simone, nell’ordine: Simone detto Pietro (Mt 10,2); Simone il Cananeo (Mt 10,4) o lo Zelota (Lc 6,15; At 1,13); Simone, uno dei fratelli di Gesù (Mt 13,55); Simone il lebbroso (Mt 26,6); Simone di Cirene, che aiutò Gesù a portare la croce (Mt 27,32); Simone, il fariseo che ospitò Gesù nella sua casa (Lc 7,44); Simone l’Iscariota, il padre di Giuda il traditore (Gv 6,41); Simone il mago (At 8,9); Simone il conciatore, di Giaffa. Questi aveva una casa in riva al mare (mar Mediterraneo) ed ospitò Pietro (At 10,6).

23Il nome Simeone significa “colui che ascolta”. In ebraico è Shim’ ōn ed ha probabilmente la sua radice in shāma’, che significa “ascoltare”.

24Dai dati storici a nostra disposizione e con la dovuta precauzione, possiamo dire che gli Zeloti furono fondati dal fariseo Zadok nell’anno 6 d.C. e da un certo Giuda il galileo, originario di Gamala, figlio di Ezechia. Questi scatenò una ribellione contro il censimento, a fine fiscali, voluto dal governatore romano Quirino (At 5,37). In tale occasione gli Zeloti vennero reclutati, in gran parte, dal gruppo dei Farisei, a cui rimasero sempre profondamente legati dottrinalmente. Essi svilupparono un atteggiamento ostile verso Roma, poiché ritenevano che non si dovesse aspettare passivamente il cambiamento messianico. Mossi da un ideale teocratico, ritenevano che solo Dio dovesse essere il vero re d’Israele e che la presenza di Roma impedisse la realizzazione di tale disegno divino. A tele ideale religioso essi associarono anche un impegno civile, denunciando apertamente lo sfruttamento della Palestina da parte dei romani. Un po’ alla volta riscossero sempre maggiori consensi, provocando numerosi disordini in un crescendo continuo fino alla rivolta che sfociò nel 66 d.C. nella prima guerra giudaica, che portò alla distruzione di Gerusalemme e del Tempio. È probabile che Gesù con la sua predicazione del Regno di Dio e la sua attenzione verso i poveri e i sofferenti avesse esercitato una certa attrattiva sul movimento. La presenza di Simone e dello stesso Giuda, probabilmente anch’egli zelota, lo stanno a testimoniare. La convinzione, infatti, da parte dei discepoli di Gesù che lui fosse il messia politico e militare che tutti attendevano ci è testimoniata anche dal racconto dei due figli di Zebedeo, che chiedono a Gesù posti di privilegio nella costituzione del suo Regno (Mt 20,20-21; Mc 10,35-36) e dall’interrogativo che i suoi discepoli gli posero sul quando egli lo avrebbe inaugurato ufficialmente (At 1,6). Gesù tuttavia ha sempre rifuggito una simile interpretazione del suo messianismo, presentandosi invece come il sofferente servo di Jhwh (Mc 8,31-32; 9,31-32; 10,32-34; Gv 6,15). Sul tema degli Zeloti cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit..

25La seconda grande guerra giudaica si svolse tra il 132 e il 135 d.C. e portò alla definitiva distruzione di Gerusalemme, in parte ricostruita dai Romani con il nome di Aelia Capitolina, in onore a Giove Capitolino. Gli ebrei vennero espulsi dalla città e fu fatto divieto di entrarvi a tutti i circoncisi. La rivolta fu capeggiata da Shimo’ on ben Kossiba, che rabbi Aqiba, il più importante maestro del suo tempo, salutò come il messia liberatore e lo soprannominò Shim’on bar Kokhba, il figlio delle stelle. Altri, invece, denigrandolo lo definirono come “bar Koziba”, il figlio della menzogna. Fu una guerra sanguinosa che provocò circa 850.000 morti. Fonti: Luca Mazzinghi, Storia d’Israele, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato,1991; Hans Küng, Ebraismo, passato, presente, futuro, Editrice BUR – Roma 1999.

26Si tratta del codice D o Codice di Beza, detto anche Cantabrigense, proveniente dalla Francia meridionale e venuto in possesso di Teodoro di Beza, discepolo e amico di Calvino. Contiene i Vangeli e gli Atti degli Apostoli. Databile intorno al V sec. In merito cfr. Nestle-Aland, Nuovo Testamento, Greco - Italiano, XXVII edizione, Società Biblica Britannica & Forestiera, Roma 1996

27Cfr. R.E. Brown, Giovanni, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1999 – pagg. 771-772

28Cfr. Mt 10,4; 26,5; 27,3; Mc 3,19; Lc 6,16; Gv 6,71; 12,4; 18,2.5.

29Keriot è una cittadina citata in tutto l’A.T. solo tre volte: in Gs 15,25 chiamata Keriot-Chezron o Cazor, posta verso il confine di Edom nel Negheb; in Ger 48,24 e in Am 2,2, che la pongono nella regione di Moab.

30Il termine sicario deriva dal latino "sica", che indica un pugnale dalla lama ricurva, usato in genere dai Traci, considerati dai romani dei briganti. Era, quindi, un’arma privilegiata da assassini e rivoltosi, che usavano l’omicidio come azione di terrorismo.

31Cfr. O. Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1998; G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova Editrice, Roma – 2001.


32Cfr. commento al cap.4 della presente opera.

33Gli evangelisti indicano il numero delle persone che accompagnano Gesù in numero di quattro/cinquemila e più poiché da tali numeri vengono esclusi le donne e i bambini (Mt 14,21; 15,38; Mc 6,44; 8,9; Lc 9,14; Gv 6,10). La veridicità di questi numeri sembra in qualche modo essere confermata dalle preoccupazione del sommo sacerdote Caifa: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>”. Lc 6,17b parla di “molta folla di discepoli”; Gv 6,66 parla di “molti dei suoi discepoli”; mentre Paolo in 1Cor 15,6 attesta che Gesù apparve a più di cinquecento fratelli. Sono queste indicazioni che lasciano tralucere il grande seguito di popolo di cui Gesù godeva.

34I testi di Lc 6,20-49 hanno il loro corrispondente in Mt 5,1-11.39-48; 7,1-5.16-29. Luca ha pertanto estratto dal lungo discorso di Mt 5-7 soltanto quelle parti utili per il suo pubblico e per gli intenti della sua teologia, saltando tutto quel materiale che era di interesse per il mondo giudaico, ma certamente estraneo e incomprensibile al mondo greco-ellenistico, a cui l'autore si sta indirizzando.

35Sulla composizione sociale delle comunità mattane cfr. la Parte Introduttiva al Vangelo di Matteo, presente sul mio sito: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf pagg.7-10

36Cfr. Mt 16,16.21.24; Mc 8,29.31.34; Lc 9,20-23; Rm 6,3-8

37Traduzione personale dal testo greco originale.