IL VANGELO SECONDO LUCA
I
primi discepoli e la vera natura e il senso
dell'attività
missionaria di Gesù
(Lc 5,1-39)
Commento
esegetico e teologico
a
cura di Giovanni Lonardi
Note generali
Con
il cap.4 Luca aveva presentato l'annuncio programmatico della
missione di Gesù (vv.15-21), che aveva causato contrastanti reazioni
e tali da farlo abbandonare Nazareth a beneficio di Cafarnao
(vv.22-31), dove si era rivelata la potenza salvifica della sua
parola, finalizzata a distruggere il regno di satana a favore di
quello di Dio (vv.33-41), lasciando intravvedere l'universalità di
questa sua missione (vv.42-44). Ora qui, nel cap.5, l'autore incentra
l'attenzione del suo lettore su due elementi fondamentali, che si
muovono all'interno di uno scenario squisitamente ecclesiologico: da
un lato la chiamata di un primo gruppo di discepoli (vv.4-11.27-28),
ma in realtà, come vedremo, si tratta di un'affermazione del primato
petrino (vv.4-10), mentre la vera e propria chiamata rimane sullo
sfondo pressoché impercettibile (v.11); dall'altro la vera natura e
la finalità della missione di Gesù, in cui si riflette quella della
chiesa primitiva: a) l'attenzione di Gesù è rivolta ai
peccatori e alla loro conversione (vv.29-32); b) la venuta e
la presenza di Gesù in mezzo ai suoi aprono a delle nuove
prospettive sia nei rapporti con le persone (vv.29-30) sia nella
comprensione delle antiche pratiche giudaiche, come quella del
digiuno (vv.33-35) e in particolare quella del sabato (6,1-11), che
creano contrasti insanabili, poiché vi è una sostanziale
incompatibilità tra il vecchio e il nuovo, che viene raccontata con
tre similitudini (vv.36-39), attraverso le quali si percepisce l'eco
di una contrapposizione tra il giudaismo e il nascente cristianesimo.
A questi due elementi fondamentali, Luca fornisce anche una chiave
interpretativa del senso delle guarigioni di Gesù, che aiutano a
comprendere il significato dell'attività terapeutica della chiesa:
la lebbra (vv.12-16) come la paralisi dell'uomo (vv.17-26) sono la
metafora del degrado spirituale e morale in cui vive l'uomo sotto il
regno di satana; mentre la sua guarigione è da intendersi come la
sua rigenerazione a Dio, attraverso il perdono dei peccati (v.20).
Certo la chiesa non opera miracoli di guarigione fisica, non è il
suo compito, come, del resto, non lo era quello di Gesù1;
ma non di meno essa, continuando l'attività salvifica del Risorto, è
in grado di rigenerare l'uomo a Dio, attraverso il dono della Parola
accolta (1Pt 1,23), che genera nel credente la fede (Rm 10,13-17) e
questa lo colloca fin da subito nella vita eterna, che è vita stessa
di Dio (Gv 3,16).
Con
il cap.5 si apre un'ampia sezione che si estende fino a tutto 6,192.
Qui (6,1-19) compaiono due diatribe sul sabato (6,1-11), che vanno a
completare la consistenza del autorità di Gesù: Gesù ha il potere
di rimettere i peccati (5,20) ed è signore del sabato (v.6,5) e lo
dimostra, assegnandogli un nuovo significato (6,9-10), mentre una
grande forza si sprigiona da lui e guarisce tutti quelli che lo
toccano, cioè ne fanno esperienza (6,19). Il tutto si chiude con la
costituzione del gruppo dei Dodici (6,13-16), che va a completare la
chiamata dei primi discepoli in 5,4-11.27-28 e che forma il nocciolo
duro attorno al quale si andrà consolidando la Chiesa in epoca
postpasquale.
Questa
ampia sezione (5,1-6,19) ne racchiude un'altra (5,29-6,11), che
potremmo definire come la sezione delle diatribe e che ha il suo
fulcro nei vv.5,36-39, i quali forniscono la motivazione
dell'incompatibilità del nuovo insegnamento di Gesù e della Chiesa
con il Giudaismo e che porterà, dapprima, Gesù sulla croce e,
successivamente, la Chiesa ad essere respinta e perseguitata dal
Giudaismo3.
Benché
il cap.5 si estenda narrativamente fino a tutto il cap.6,19, esso,
tuttavia, è strutturato al suo interno a parallelismi concentrici in
C), come di seguito:
Gesù impartisce il suo ammaestramento dalla barca di Simone (vv.1-3)
chiamata dei primi discepoli (vv.4-11);
due racconti di guarigione, dove il secondo (vv.17-26) spiega il primo (vv.12-16): la guarigione fisica è metafora di quella spirituale;
B1. chiamata di Levi (vv.27-28)
A1. natura e senso del nuovo ammaestramento:
a) finalizzato ai peccatori per la loro conversione (vv.
29-32); b) la presenza di Gesù prospetta una
nuova visione delle
pratiche giudaiche, come quella del digiuno (vv.33-35); c) incompatibilità
tra il vecchio e il nuovo insegnamento (vv.36-39).
Le
lettere A) e A1) si completano tra loro, poiché
qualificano l'insegnamento della chiesa, significato
nell'ammaestramento di Gesù somministrato dalla “barca di Pietro”,
come un insegnamento completamente nuovo e incompatibile con quanto
predicato dal Giudaismo; le lettere B) e B1) si integrano
vicendevolmente in quanto entrambe raccontano la chiamata e la
sequela dei primi discepoli; la lettera C) si pone centralmente,
poiché indica come l'attività terapeutica di Gesù vada compresa
più nella sua dimensione spirituale che in quella corporale. La
guarigione corporale diventa, quindi, soltanto una metafora di
quella spirituale (v.24), che trova tuttavia la sua incidenza anche
nella dimensione storica propria dell'uomo. Essa consiste nella
remissione dei peccati, già preannunciata in 1,77, e nella
conseguente rigenerazione dell'uomo ad una vita nuova. Sarà proprio
questo il senso della predicazione e della missione della Chiesa, che
continua l'opera salvifica di Gesù.
Lo sfondo, pertanto, di questo cap.5 è squisitamente ecclesiologico. Lo si arguisce facilmente dalle sue immagini e dalla sua drammatizzazione: la gente non ascolta l'insegnamento di Gesù, ma la Parola di Dio (v.1), espressione questa che definisce la predicazione dei primi predicatori itineranti e della chiesa primitiva; la “barca di Simone” è metafora della chiesa, dove si trova Simone, è da lì e non da altrove che Gesù ammaestra. L'autentica voce di Gesù, dunque, esce dalla “barca di Pietro”. La pesca miracolosa prelude alla feconda attività missionaria della chiesa, fondata sulla Parola di Gesù, qualificato con un linguaggio che è postpasquale: “Maestro”, “Signore” (vv.5.8); la stessa invocazione di Pietro rivolta a Gesù rievoca l'atteggiamento penitenziale del credente, che si affida a Gesù, riconoscendo il suo stato di peccatore (v.8); il raccogliersi dei discepoli attorno a Gesù, costituisce il primo nucleo credente, da cui uscirà, poi, il gruppo dei Dodici (6,13-16), che formerà il nocciolo duro attorno al quale si aggregherà la chiesa in epoca postpasquale; viene significato il senso dell'operare salvifico della chiesa: essa, come il suo Maestro e Signore, attraverso il dono della sua Parola rigenera l'uomo alla vita stessa di Dio (1Pt 1,23).
Luca, pertanto, drammatizza qui l'evento chiesa, già in atto mentre scrive il suo vangelo, riconducendolo, attraverso le immagini, alla persona di Gesù e ai suoi discepoli, quale sua fonte primaria, dai quali è stata generata ed è costituita.
Commento
al cap. 5,1-39
La pesca
miracolosa (vv.1-11)
Testo a
lettura facilitata
Preambolo introduttivo (vv.1-3)
1
– Ora, avvenne (che), nel mentre che la folla lo spingeva e
ascoltava la parola di Dio ed egli stava presso il lago di Genesaret
2
– e vide due barche che stavano presso il lago; i pescatori scesi
da esse, lavavano le reti.
3
– Ora, salito su una delle barche, che era di Simone, lo pregò di
ritrarsi un po' dalla terra; sedutosi, ammaestrava le folle dalla
barca.
La
pesca miracolosa (vv.4-7)
4
– Ora, come finì di parlare, disse verso Simone: <<Conduci(la)
in alto mare e calate le vostre reti per (la) pesca>>.
5
– E rispondendo Simone disse: <<Maestro, (pur) essendoci
affaticati per tutta la notte, non abbiamo preso niente; ma sulla tua
parola calerò le reti>>.
6
– E fatto questo, rinchiusero una grande moltitudine di pesci; ora,
si rompevano le loro reti.
7
– E fecero cenno ai compagni nell'altra barca di venire a
raccogliere insieme a loro; e vennero e riempirono entrambe le barche
così da affondarle.
La reazione di Pietro e dei partecipanti alla pesca (vv.8-10a)
8
– Ora, vedendo (ciò), Simon Pietro si gettò alle ginocchia di
Gesù dicendo: <<Vai fuori da me, poiché sono un uomo
peccatore, Signore>>.
9
– Infatti uno stupore circondava lui e tutti quelli con lui per la
pesca dei pesci, che presero insieme;
10a
– similmente anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano
soci di Simone.
La
missione di Pietro (v.10b)
10b
- E Gesù disse verso Simone: <<Non temere; da ora sarai colui
che cattura (gli) uomini>>.
La
sequela (v.11)
11
– E condotte le barche alla terra, lasciate tutte le cose, lo
seguirono.
Note generali
Se
i racconti della chiamata dei discepoli sia in Mc 1,16-20 e Mt
4,18-22, tra loro paralleli, che in quello di Gv 1,35-42, più
elaborato e più complesso, fanno emergere chiaramente la chiamata
dei discepoli, il racconto di Luca si distacca nettamente dai
precedenti e la chiamata dei discepoli si trasforma in un racconto
ecclesiologico, da cui emerge prepotentemente il primato di Pietro,
mentre la chiamata dei discepoli rimane sullo sfondo ed è lasciata
soltanto intuire dall'autore. Anzi, per la verità, non vi è neppure
una chiamata, che si presuppone, ma soltanto il conferimento di un
incarico esclusivo a Pietro: “Non temere; da ora sarai colui che
cattura (gli) uomini” (v.10b). Perché questa divario di
prospettiva tra Luca e gli altri evangelisti? Perché l'autore
all'interno della chiamata dei discepoli, che egli mutua da Mc
1,16-20, frammischia il racconto della pesca miracolosa? Perché
questo giro tortuoso, quando sarebbe stato più semplice riportare,
sia pur con qualche adattamento, Mc 1,16-20, che ha preso a suo
modello narrativo? Emerge evidente dal racconto lucano della
chiamata dei discepoli una notevole preoccupazione da parte
dell'evangelista riguardante la tenuta delle comunità credenti e la
loro unità, che si esprime non solo nella comunione di fede, ma
anche nel riconoscere in Pietro l'unico vero erede spirituale di
Gesù. Non è un caso, infatti, che il racconto si apra con Gesù che
vede davanti a sé due barche: una è di Pietro e l'altra di altri
anonimi pescatori, che si saprà soltanto dopo essere altri soci e
compagni di pesca di Pietro (v.7). La scelta di Gesù cade sulla
barca di Pietro. Egli sale sulla sua barca, da qui egli ammannisce il
suo insegnamento; soltanto su questa barca si riesce a fare una pesca
abbondante, mentre tutti gli altri sono invitati a confluire nella
barca di Pietro e ad associarsi ad essa. Insomma, sembra dire
l'autore, se vuoi trovare Gesù e il suo autentico insegnamento e la
sua potente Parola liberatrice e risanatrice, devi salire sulla barca
di Pietro. E invita tutti gli altri, che si sono fatti discepoli di
Gesù, a salirvi.
Il
racconto della pesca miracolosa, pertanto, si muove su due livelli:
da un lato Luca racconta i grandi successi della predicazione
apostolica, significati nell'abbondante pesca e che già sono in
qualche modo prelusi nel preambolo introduttivo al racconto (vv.1-3);
dall'altro, l'autore lascia intravedere come, al di là dei successi,
vi siano all'interno delle comunità primitive delle prime divisioni,
che rischiano di far fallire l'annuncio della Parola di Dio.
Divisioni e contrasti che Luca deve aver riscontrato nel suo
peregrinare missionario insieme a Paolo. Probabilmente divisioni che
si creavano per il contrapporsi di personaggi di spicco all'interno
delle stesse comunità credenti, che si attorniavano di discepoli,
vanificando l'annuncio stesso, che invece li doveva accomunare
nell'unica fede. Una situazione simile si era verificata a Corinto e
sta all'origine della prima lettera ai Corinti: “Vi
esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù
Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano
divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e
d'intenti. Mi
è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente
di Cloe, che vi sono discordie tra voi.
Mi
riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: <<Io sono di
Paolo>>, <<Io invece sono di Apollo>>, <<E io
di Cefa>>, <<E io di Cristo!>>. Cristo
è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è
nel nome di Paolo che siete stati battezzati?”
(1Cor 1,10-13). Così Mt 16,18-19 mette al centro la figura di
Pietro, facendone il pilastro fondamentale dell'intera comunità
credente. Solo a lui vengono attribuiti attenzioni e poteri
particolari. Parimenti Luca qui mostra un'attenzione particolare,
quasi preoccupata, a Pietro, che emerge prepotentemente dall'intero
racconto, mentre le altre figure di discepoli scompaiono quasi
completamente. Pietro, infatti, è l'unico personaggio dialogante con
Gesù e soltanto a lui e non agli altri Gesù prefigura la sua
missione, che assume i contorni di un incarico-mandato.
Il
racconto, quindi, assume prevalentemente toni ecclesiologici ed
apologetici nel contempo, lasciando trasparire soltanto sullo sfondo
la sequela dei discepoli.
Il
racconto lucano della pesca miracolosa trova il suo parallelo in Gv
21,1-14. Due racconti sostanzialmente identici benché elaborati
ognuno a modo proprio, a seconda degli intenti dei rispettivi autori.
Varia il contesto: pasquale in Giovanni, prepasquale in Luca. Varia
la dinamica del racconto e la popolazione dei personaggi che lo
animano, ma la sua struttura rimane la stessa: una pesca notturna
infruttuosa, che si risolve in una di pieno successo, fondato sulla
parola di Gesù, che si manifesta come Signore in Luca, come “il
Signore” in Giovanni. Entrambi i racconti si concludono con
l'investitura di Pietro: solenne e ridonante in Giovanni (vv.15-19);
semplice e scarna, ma molto efficace in Luca (v.10b). Viene rilevato
anche quale elemento di differenza tra i due racconti il banchetto
del Risorto con i suoi, a base di pesce arrostito, che non si
riscontra in quello di Luca. In realtà Luca questo particolare del
banchetto a base di pesce arrostito, lo ha posto proprio nel contesto
pasquale del suo cap.24, dove Gesù, in occasione di una sua
apparizione, al fine di provare la sua reale consistenza corporea,
chiede ai suoi di dargli da mangiare e questi gli offrono del pesce
arrostito (24,41-43). Quest'ultimo particolare del banchetto si
sovrappone sostanzialmente a quello di Giovanni, sia come contenuto
narrativo che come contesto, in entrambi i casi pasquale. Vi è,
dunque, tra i due racconti di pesca miracolosa una grande affinità e
tale da chiedersi l'origine di questi due racconti. Sono numerose le
ipotesi, che comunque tali restano, ma tra queste non ne ho
riscontrata una, che a mio avviso, è quella più probabile: Luca si
è inventato il racconto della pesca miracolosa, probabilmente
suggeritogli da Mc 1,16-20: la località del “mare di Galilea”,
che Luca chiama in modo più appropriato lago di Genesaret, le
barche, Simone ed Andrea che gettano le reti in mare, mentre Giacomo
e Giovanni sulla loro barca le rassettano. Questo contesto deve aver
suggerito a Luca il racconto della pesca miracolosa. Successivamente
il racconto lucano deve essere passato tra le mani della scuola
giovannea, che lo ha riprodotto, arricchendolo a modo proprio e
secondo le proprie finalità, peraltro molto simili a quelle di Luca:
affermare il primato petrino. La scuola giovannea, inoltre, ha
coniugato nel contesto della pesca miracolosa il racconto della cena
di Gesù a base di pesce arrostito, che invece in Luca è collocato
separatamente, pur sempre in un contesto pasquale. Giovanni, dunque,
dipende da Luca. Come ciò sia possibile è abbastanza semplice da
spiegare, un po' meno da provare, ma, con un apposito studio, non
impossibile. Innanzitutto il racconto giovanneo del cap.21 è stato
inserito tardivamente, probabilmente intorno al 110/115 d.C.,
allorché, dopo la morte di Giovanni, capo carismatico della elitaria
comunità giovannea, questa ha accettato di unirsi alle comunità
palestinesi, che riconoscevano il primato di Pietro su quello di
Giovanni. Il cap.21 ha proprio questo senso: l'affermazione del
primato petrino, che sigla la pace tra le due comunità4.
Non è possibile, quindi, che Luca dipenda da Giovanni, poiché il
suo vangelo è stato redatto tra l'87 e il 97 d.C.5.
Quanto al fatto che la comunità giovannea abbia mutuato da Luca il
racconto della pesca miracolosa, questo non deve stupire poiché, da
un'attenta analisi dei due vangeli, si riscontrano numerosi punti in
comune anche nelle loro teologie e cristologie. Tra i due
evangelisti, quindi, dovevano esserci stati dei contatti e
probabilmente si sono conosciuti nelle escursioni missionarie di
Luca.
L'origine
del racconto della pesca miracolosa è, pertanto, di invenzione
lucana, da cui è dipeso anche quello del cap.21 di Giovanni.
La
struttura del racconto, che già è stata rilevata nella sezione del
“Testo a lettura facilitata”, si snoda in cinque parti:
Preambolo introduttivo con cui si contestualizza il racconto della pesca miracolosa e se ne anticipa in qualche modo la tematica: da un lato la fecondità dell'annuncio della Parola; dall'altro il problema della divisione interna delle comunità, simboleggiate dalle due barche su cui Gesù incentra la sua attenzione, scegliendo quella di Pietro (vv.1-3);
La pesca miracolosa è fondata sulla parola di Gesù (vv.4-7);
La reazione di Pietro e dei partecipanti alla pesca: l'esperienza della Parola apre l'uomo all'esperienza di Dio e gli dà il senso della sua vita ... (vv.8-10a);
L'investitura di Pietro: … e lo trasforma in funzione degli altri … (v.10b);
La sequela:
… e si fa sequela (v.11).
Commento ai vv.1-11
Preambolo introduttivo (vv.1-3)
Il
racconto della pesca miracolosa si apre secondo la consuetudine di
Luca con un “'Egšneto”
(eghéneto,
accadde, avvenne), che solitamente introduce un rilevante evento
salvifico, su cui l'autore intende incentrare l'attenzione del suo
lettore. La scena si svolge in una località imprecisata presso il
lago di Genesaret, fuori comunque da Cafarnao, dove Gesù rientrerà
in 7,1, dopo un'escursione densa di eventi e di predicazione, che
occuperanno i capp.5.6: “Allorché compì tutte le sue parole nelle
orecchie del popolo, entrò a Cafarnao”. Luca è l'unico tra gli
evangelisti che definisce correttamente il lago di Genesaret con il
termine greco appropriato “l…mnh”
(límne),
che ricorre nel suo vangelo altre quattro volte, mentre nel N.T.
compare altre sei volte soltanto nell'Apocalisse6.
Gli altri tre evangelisti, compreso Giovanni, di formazione mentale
semitica, definiscono il lago con il termine generico di “mare”.
Questi
primi tre versetti sono particolarmente densi e formano da
introduzione tematica all'intero racconto della pesca miracolosa. Il
primo versetto è formato da tre momenti fotografici: c'è una grande
folla che spingeva. Il verbo qui usato è “™p…keimai”
(epíkeimai),
molto intenso, che significa star sopra, stringere, incalzare,
sovrastare, sollecitare. Il soggetto qui è la folla e dice la grande
pressione che questa opera su Gesù, che è riuscito a formare
attorno a sé un grande movimento di persone, toccando il loro cuore,
carpendo le loro menti, attraendole tutte a sé e che lo stesso Mt
23,37 metterà in evidenza. Sarà, infatti, proprio questo grande
movimento di seguaci di Gesù che creerà non pochi problemi a Caifa
e al Sinedrio, che, proprio per questo, decideranno di sopprimere
Gesù: “I
capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano:
<<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se
lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani
e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>. Ma uno di loro,
Caifa, che era sommo sacerdote di quell'anno, disse a loro: <<Voi
non capite niente, né
considerate che a voi giova che un uomo muoia in favore del popolo e
non che tutto il popolo perisca>>”7
(Gv 11,47-50). Un movimento e un bisogno che si estrinseca
nell'ascoltare la parola di Dio. Un'espressione quest'ultima che
risente della predicazione missionaria dei primi discepoli e molto
cara a Luca, lui pure missionario di questa Parola. È significativo,
infatti, come essa ricorra 26 volte tra gli evangelisti, di cui una
sola volta in Mt 15,6; Mc 7,13 e in Gv 10,35; mentre in Luca compare
sei volte nel suo vangelo e diciassette volte negli Atti. Entrambi i
verbi, “spingeva” e “ascoltava” dipendono dal verbo
“eghéneto”.
L'evento salvifico che sta pertanto accadendo è proprio questo: il
grande e travolgente desiderio delle folle di accedere alla Parola di
Dio, che l'autore rimarcherà anche in At 6,7: “Intanto la parola
di Dio si diffondeva, e si moltiplicava grandemente il numero dei
discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva
alla fede”. E similmente in At 2,41; 12,24 e 13,49. Il primo
versetto si chiude con un'immagine plastica, scultorea di Gesù:
“egli stava presso il lago di Genesaret”. L'espressione greca è
molto più incisiva della mia traduzione, francamente qui un po'
annacquata, “kaˆ
aÙtÕj Ãn ˜stëj”
(kaì
autòs ên estòs),
letteralmente “ed egli era colui che stava diritto in piedi”, che
imprime alla figura di Gesù fermezza, solidità e autorevolezza, ma
nel contempo lascia trasparire da quest'aura un atteggiamento severo.
Il motivo di tale durezza di Gesù, che qui sembra ergersi quasi a
giudice, è dato dal v.2:
egli vide davanti a sé, da un lato, due barche e, dall'altro, i
pescatori scesi da esse, mentre lavavano le reti. La metafora è
evidente. Le barche rappresentano le comunità credenti: esse sono
due, cioè più di una. Vi erano quindi delle divisioni in esse: da
una parte la barca di Pietro; dall'altra, un'altra barca che si
appaia a quella di Pietro, ma i cui pescatori, avvolti
nell'anonimato, erano scesi. Essi riemergeranno dal loro anonimato
con una loro propria identità soltanto alla fine del racconto,
quando, invitati, confluiranno verso la barca di Pietro e si porranno
assieme a Pietro alla sequela di Gesù (vv.9-11). Ma ora la loro
barca era abbandonata e le loro reti, lo strumento con cui
catturavano i pesci, venivano pulite, poiché non servivano più alla
pesca. In altri termini, queste non catturavano più pesci. La loro
pesca era infruttuosa (v.5a). Con il v.3
Gesù farà la sua scelta, che dovrà condizionare il futuro delle
comunità: egli sale sulla barca di Simone e da lì ammannisce il suo
insegnamento. Dalla barca di Pietro, pertanto, esce la voce autentica
di Gesù e soltanto sulla sua barca vi si può trovare Gesù.
La pesca
miracolosa è fondata sulla parola di Gesù (vv.4-7)
Con
il v.4 avviene un passaggio di consegne. Gesù ha finito di parlare,
ha terminato il tempo della sua predicazione alle folle. Il grande
movimento, che si è creato attorno a lui (v.1), deve ora continuare.
Per questo egli si rivolge a Simone, sulla cui barca sta, invitandolo
a prendere il largo, a buttarsi in mezzo alle genti e a continuare
quel annuncio che egli, con grande successo (v.1), aveva iniziato.
Spetta a lui, ora, condurre la barca in alto mare, poiché lui e
soltanto lui ha ricevuto il comando: “Conduci(la) in alto mare”.
È lui dunque la guida della barca e a lui spetta condurla. Ma ecco
che il verbo dalla seconda persona singolare (“conducila”) si
trasforma in seconda persona plurale: “calate le vostre reti per
(la) pesca”, coinvolgendo, pertanto, tutti quelli che sono presenti
sulla barca sulla barca di Simone. Se, dunque, a Simone spetta la
guida della barca (“conducila”), a tutti quelli che sono nella
sua barca spetta gettare le reti dell'annuncio della Parola nel mare
delle genti. Si noti come Gesù si rivolge a Simone e agli altri che
sono sulla sua barca, invitandoli a gettare “le vostre
reti”. Gesù sembra creare qui uno stacco netto tra la sua
predicazione e quella dei suoi discepoli, spingendoli ad usare i loro
mezzi secondo le loro capacità. Usate, quindi, le
vostre reti.
Come dire: dovete darvi da fare voi, non aspettate che intervenga io.
Io sono sulla barca di Simone, ma ora spetta a voi gettare le reti e
continuare la mia opera. E ciò che sta davanti a Simone e a quelli
con lui è un lavoro immane, pieno di incognite; un lavoro che non ha
risposta certa e le sole forze umane sono del tutto inadeguate a
compierlo. Non sono dei retori, abili manipolatori della Parola; non
hanno loquela convincente; non sono dei capipopolo e tantomeno dei
trascinatori di genti. Con loro hanno soltanto una Parola in cui loro
stessi spesso dubitano8
e che ancora non ne hanno ben compreso il significato9.
E con questo bagaglio di povertà devono affrontare le avversità
dell'annuncio e del condurre la barca in mezzo al tumultuoso mare dei
popoli e delle persecuzioni (Mc 6,45-51; Lc 8,22-25). Ma ora Gesù è
con loro; egli è sulla barca di Simone; lui ha impartito il comando
di gettare le reti ed anche se la logica umana dice che non può che
essere un fallimento, un inutile affaticamento, la rete va gettata
comunque, non secondo calcoli umani, che suggeriscono i tempi e le
tecniche più opportune quanto inutili, di notte, quando i pesci non
vedono le reti, ma sulla Parola di Gesù (v.5). Sarà ciò che Simone
farà: “ma
sulla tua parola calerò le reti”. Significativo è quel “ma”
con cui Simone oppone la potente Parola del Maestro alla sua
consumata esperienza di pescatore. Simone qui si rivolge a Gesù con
l'epiteto di “Maestro”, riconoscendo in lui il parametro con cui
deve confrontarsi e su cui modellare la propria vita, le proprie
decisioni e le proprie imprese missionarie e pastorali, in ultima
analisi, riconoscendo in Gesù una potenza che li sovrasta e che
opera in loro, attraverso la loro debolezza. È significativo,
infatti, il termine che Luca usa per definire Gesù come “Maestro”:
“'Epist£ta”
(epistáta),
che letteralmente significa “colui che sta sopra”, il
soprastante, il capo, il sopraintendente. Non si tratta, quindi, di
un semplice maestro che insegna ai suoi discepoli, ma un vero e
proprio conduttore, una vera e propria guida, uno che ha potere e che
conduce i suoi seguaci. Un termine quello di “epistáta”
che ricorre tra gli evangelisti soltanto in Luca, sette volte, ed è
usato dall'autore con riferimento alla figura di Gesù colta nella
sua sovrana potenza divina, come essere superiore10.
Per designare, invece, Gesù nel suo rapporto con i discepoli gli
evangelisti ricorrono al termine “Did£skaloj”
(didádskalos),
che ricorre 49 volte nei vangeli e 17 volte in Luca. Ma qui il
rapporto non è tra maestro e discepolo, ma tra Signore e servo. Qui
Gesù, infatti, non insegna a Simone una nuova tecnica di pesca, ma
impartisce un ordine, lancia un comando, che è carico della potenza
divina. È questo comando, questa Parola onnipotente, che va contro
ogni logica umana e contro ogni umano buonsenso, che produrrà una
pesca strepitosa: “rinchiusero una grande moltitudine di pesci;
ora, si rompevano le loro reti”. Si noti come la grande pesca, il
grande successo della predicazione è avvenuto soltanto nella barca
di Simone, dove c'è Gesù. L'altra barca rimane alla fonda, vuota e
senza prospettive di un successo, tanto che i pescatori erano scesi a
lavare le reti. Ma ecco l'invito di quelli che sono sulla barca di
Simone, dove c'è Gesù: “E fecero cenno ai compagni nell'altra
barca di venire a raccogliere insieme a loro; e vennero e riempirono
entrambe le barche così da affondarle”. La divisione inaridisce e
non porta a nulla; la pesca abbondante si può fare solo sulla barca
di Simone. Da qui l'invito a cessare ogni divisione e ad unirsi tutti
alla barca di Simone e a raccogliere i frutti della potente Parola di
Gesù insieme a Simone e agli altri che sono nella sua barca.
L'invito è accolto e il successo della pesca ora coinvolge anche
quelli dell'altra barca, confluita in quella di Simone, poiché lì e
soltanto lì c'è la potente Parola di Gesù.
La reazione di
Pietro e dei partecipanti alla pesca (vv.8-10a)
Ciò che ora avviene
lascia perplessi, poiché la reazione sia di Simone che degli altri
partecipanti alla pesca miracolosa è caratteristica delle teofanie.
Ciò non deve stupire. Per l'autore, infatti, è necessario creare
attorno a Gesù una sorta di alone divino, che gli assegni autorità
e autorevolezza nella scelta che egli ha operato fin dall'inizio,
salendo sulla barca di Pietro e caricandolo, poi, di autorità,
affidandogli una missione da compiere (v.10b). Del resto Luca aveva
in qualche modo preavvertito il suo lettore di questa particolare
posizione di Gesù, definendolo “epistáta”, un titolo che
va ben al di là di un semplice “didádskalos”. E che qui
ci si trovi di fronte ad una teofania lo si deduce dalla reazione dei
presenti: Simone si getta ai piedi di Gesù e gli grida di andarsene
da lui poiché è un uomo peccatore, riconoscendo in tal modo tutta
la distanza che lo separa da lui; Gesù qui è invocato come
“Signore”, un titolo che la chiesa primitiva riconosceva al
Risorto, avvolto nella sua onnipotenza gloriosa e nella sua divinità
ora manifesta (Mt 28,17-18); lo stupore, che avvolge tutti i
partecipanti alla pesca miracolosa, compresi anche quelli della
seconda barca, che Luca cita nominalmente, escludendo da questi
Andrea, il fratello di Pietro, che tuttavia verrà menzionato
nell'elenco degli apostoli (6,13-16). A Pietro invece associa Giacomo
e Giovanni, i tre discepoli che hanno beneficiato di una particolare
attenzione da parte di Gesù. Saranno, infatti, proprio loro tre che
presenzieranno alla trasfigurazione di Gesù, che si mostra loro
nella sua reale natura divina (9,28-36). Significativa è poi qui
l'associazione al nome di Simone quello di Pietro, che qui compare
per la prima volta: “Simon Pietro”. Il nome Pietro, in cui la
chiesa primitiva si riconosceva, associato al nome di Simone, diviene
qui una sorta di sigillo di garanzia di unità della chiesa. Luca
anticipa la denominazione ufficiale di Pietro che avverrà, invece,
in 6,14a. Una prolessi qui giustificata dal fatto che l'intero
racconto della pesca miracolosa mette in rilievo lo spinoso problema
delle divisioni intraecclesiali e la necessità di superarle
riconoscendosi tutti in Pietro. Una preoccupazione questa che emerge
ancora una volta nelle espressioni “tutti quelli con lui”,
“presero insieme”, “erano soci di Simone”, “lasciate tutte
le cose, lo seguirono”.
L'investitura
di Pietro (v.10b)
Il
v. 10b si apre con Gesù che si rivolge esclusivamente a Pietro,
prescindendo dagli altri, che pur sono lì presenti e sono stati
coinvolti in prima persona nell'episodio della pesca miracolosa. Luca
con quel “prÕj tÕn
S…mwna”
(pròs
tòn Símona,
verso Simone) crea una sorta di selezione, un'alea di privilegio che
estrae Pietro dal resto del gruppo, facendolo l'obiettivo primario di
Gesù. Quanto verrà ora detto riguarda soltanto Simon Pietro. Quel
“pròs”
infatti dice l'esclusivo orientamento di Gesù nei suoi confronti.
Sempre nello stile dei racconti di teofania e di vocazione, le parole
dell'investitura di Pietro si aprono con il sollecito di Gesù a non
temere11:
“Non temere; da ora sarai colui che cattura (gli) uomini”. Molto
significativo quel “da ora” (¢pÕ
toà nàn,
apò
tû nîn),
poiché crea uno stacco netto tra il prima e il dopo. L'espressione
temporale, pertanto, apre un nuovo tempo, quello della chiesa, che
sarà caratterizzato dalla missione di Pietro e con lui di tutti
quelli che con lui condividono le fatiche dell'annuncio e della
missione. “Da ora” in poi niente è più come prima. Il verbo al
futuro che segue l'espressione temporale “Da ora sarai”,
apre un nuovo tempo, che si estende nei secoli. Un tempo che
prospetta quello della chiesa. L'investitura viene qui caricata da
Luca di una certa solennità, poiché avviene davanti agli altri
discepoli, lì presenti, quasi come in una sorta di assemblea della
futura chiesa. In mezzo ad essa Gesù assegna l'investitura ufficiale
a Pietro.
La
sequela (v.11)
Il v.11, che chiude il racconto della pesca miracolosa, è scandito in tre parti: a) le barche sono condotte a terra, sono quindi tirate in secca. L'antico mestiere del pescatore viene pertanto abbandonato poiché, ora, insieme a Pietro, si prospetta loro una nuova pesca: “catturare gli uomini”; b) “lasciate tutte le cose” è il secondo passo. In quel generico “p£nta” (pánta, tutte le cose) viene ricompreso tutto il passato di questi discepoli, tutto ciò essi erano prima, tutto ciò che essi possedevano prima, tutto viene lasciato. Essi sono diventati ora uomini nuovi, uomini che assieme a Pietro hanno una missione da compiere: riprendere e proseguire quella di Gesù. Quel “da ora” rivolto a Pietro coinvolge, adesso, anche loro che sono con Pietro; c) “lo seguirono”. Luca qui gioca sull'equivoco. A chi si riferisce, infatti, con quel anonimo pronome? A Gesù o a Pietro? Certo, la risposta è evidente: i discepoli lasciano tutto per seguire Gesù. Tuttavia qui Luca non lo dice, lasciando il suo lettore in sospeso. In realtà Luca con quel anonimo “lo” include sia Gesù che Pietro. Seguire Pietro è, pertanto, seguire Gesù; seguire Gesù significa dover seguire Pietro, investito della stessa autorità e autorevolezza di Gesù e ne possiede il carisma. Una sequela che qui appare univoca, poiché le vecchie divisioni, simboleggiate dalle due barche, ora sono state abbandonate nella secca della terra ferma. Il verbo qui usato da Luca e dagli altri evangelisti per indicare la sequela, “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan), assume un significato particolare, molto intenso: seguire, andare insieme, lasciarsi guidare, aderire, che include in se stesso il senso del servizio. Il sostantivo derivante dal verbo, infatti, “¢kÒlouqoj” (akólutzos) significa “servo”, colui che accompagna e che segue per rendere un servizio.
Due
racconti di guarigione: un lebbroso (vv.12-16) e un paralitico
(vv.17-26)
Note
generali
Nello schema
strutturale a parallelismi concentrici del cap.5, che ho proposto qui
sopra (pag.2), i due racconti si trovano
centralmente e quindi, secondo le logiche della retorica ebraica,
sono i più importanti dell'intero capitolo, poiché mettono in
rilievo sia la potenza rigenerativa e salvifica della Parola, sia il
senso della salvezza, che è venuto a portare Gesù e con lui i suoi
discepoli, che sta raccogliendo attorno a sé (vv.8-10; 27-28) e, in
ultima analisi, il senso stesso della missione della chiesa, che tale
missione erediterà da Gesù. L'autore, inoltre, fornisce qui al suo
lettore la chiave di comprensione del significato delle malattie e le
relative guarigioni operate da Gesù: queste sono la metafora dello
stato di degrado morale e spirituale in cui l'uomo, travolto dalla
colpa originale, si trova e che lo rende infermo, cioè incapace di
rapportarsi efficacemente con il suo Dio; e come la loro guarigione
spieghi lo stato di risanamento e di ristabilimento spirituale
dell'uomo, rigenerato e reinnestato in Dio, da cui era
drammaticamente uscito senza più farvi ritorno.
Due racconti in cui
il primo (vv.12-16) viene spiegato dal secondo (vv.17-26). Luca
presenta qui due infermità, che affliggono l'uomo, molto
significative: la lebbra, che deforma l'immagine corporea dell'uomo e
lo consuma fisicamente, distruggendolo lentamente e riducendolo ad
una sorta di impresentabile larva umana. Una sorta di morto vivente,
escluso e reietto dalla società, e ritualmente impuro, la quale cosa
determina la sua incapacità di relazionarsi con Dio. Questa è la
prima immagine dell'uomo travolto dal peccato e come questo lo ha
ridotto, colpito nella profondità del suo esistere e del suo stesso
essere. La seconda infermità è la paralisi, che rende l'uomo
incapace di muoversi, rinchiuso in un corpo che lo rende prigioniero
di se stesso; incapace di relazionarsi sia con gli altri che con Dio,
venendo relegato ai margini della società e della vita; bisognoso di
tutto e in tutto dipendente dalla pietà degli altri; destinato a
vivere una vita infelice, inchiodato fisicamente ad un corpo che gli
ha tolto ogni possibilità di vita e di speranza. Questo seconda
infermità descrive l'uomo nella sua totale incapacità di riscatto e
come questo non dipenda da lui, poiché egli è prigioniero di se
stesso, incapace di qualsiasi evoluzione spirituale, destinato ad un
immobilismo spirituale e morale che lo porterà alla morte stessa
dello spirito, cioè alla sua definitiva perdizione. La salvezza
dell'uomo, pertanto, non è e non può essere antropocentrica e tanto
meno autoreferenziale. Una guarigione quest'ultima che viene scandita
in due momenti: il primo è una guarigione spirituale: “Uomo, ti
sono rimessi i tuoi peccati”; la seconda guarigione è fisica:
“alzati e, preso il tuo lettuccio, vai a casa tua”. Qui Luca crea
un doppio collegamento tra la malattia spirituale e quella corporea:
da un lato, quest'ultima è metafora dell'altra; dall'altro,
l'infermità spirituale, causata dal peccato, genera un degrado
materiale e corporeo in genere. Viene quindi a crearsi un profondo
nesso tra degrado morale e spirituale e quello umano e sociale.
L'intervento
di Gesù, e conseguentemente della chiesa, ha qui una duplice
funzione: purificare l'uomo, cioè renderlo capace di rapportarsi
nuovamente con Dio, riavviando tra i due un dialogo salvifico, come
era nei primordi dell'umanità; rigenerare e riattivare l'uomo nei
suoi rapporti con Dio e di conseguenza con se stesso e con gli altri,
restituendo l'uomo pienamente a se se stesso. La salvezza dell'uomo,
infatti, è rivolta all'uomo nella sua integrità psico-fisica e
spirituale; all'uomo nella sua interezza, che ha il suo prototipo in
Gesù, “l'uomo
perfetto che ha restituito ai figli di Adamo la somiglianza con Dio,
resa deforme già subito agli inizi a causa del peccato”
(GS, §22), così che “Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto,
diventa anch'egli più uomo” (GS, §41).
Commento
ai vv.12-26
Guarigione di
un lebbroso (vv.12-16)
Testo
12
– Ed avvenne che, mentre egli era in una delle città, ed ecco un
uomo pieno di lebbra. Ora, vedendo Gesù, caduto al suo cospetto, lo
pregò dicendo: <<Signore, se vuoi puoi purificarmi>>.
13
- E stesa la mano, lo toccò dicendo: <<Voglio, sii
purificato>>. E subito la lebbra uscì da lui.
14
– Ed egli gli ordinò di non dir(lo) a nessuno, ma (gli disse)
:<<Dopo essere andato, mostrati al sacerdote e offri per la tua
purificazione come prescrisse Mosè, a testimonianza per loro>>.
15
– Ma la fama su di lui invadeva (sempre) più, e molte folle
venivano insieme ad ascoltare e a farsi guarire dalle loro infermità;
16
– Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava.
Il
racconto della guarigione del lebbroso si apre con il caratteristico
“Kaˆ
™gšneto”
(Kaì
eghéneto,
ed avvenne), con cui l'autore inizia i suoi racconti che hanno una
forte valenza salvifica. Luca, infatti, è l'evangelista
dell'accadere della salvezza qui nella storia o, per meglio dire,
nell'oggi della storia. Una salvezza, pertanto, che non verrà
domani, ma che l'uomo è chiamato ad incontrare nell'oggi della sua
quotidianità12.
Il luogo dove Gesù si trova è “in una delle città”, la cui
genericità si richiama in qualche modo a 4,43, ma nel contempo
l'anonimato del luogo dice l'universalità del luogo, dando allo
stesso racconto di guarigione una dimensione universale. Paolo
riprenderà questo concetto di universalità della colpa in cui
l'intera umanità è coinvolta: “E non c'è distinzione: tutti
hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma
sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della
redenzione realizzata da Cristo Gesù” (Rm 3,22b-24). Il lebbroso,
pertanto, diviene il rappresentante di una umanità gravemente
colpita e deformata dalla lebbra del peccato. Luca, infatti, a
differenza di Marco e Matteo, che si limitano a dire “un lebbroso”,
parla di un “uomo pieno di lebbra” e non usa il termine greco
generico di “¥nqtrwpoj”
(ántzropos),
che significa un uomo qualunque, privo di una sua identità, ma
“¢n¾r”
(anèr),
che indica l'uomo per eccellenza, l'uomo particolare, l'uomo in
quanto tale, lasciando intravvedere in quest'uomo il paradigma
dell'intera umanità. Ciò che accade qui è l'incontrasi di Gesù
con questo uomo pieno di lebbra. Quel “pieno” dice come questa
lebbra pervada interamente questo uomo, fin nella profondità del suo
essere; nulla si salva della sua misera umanità, travolta e
consumata da questo male, incurabile, per lui invincibile e in
qualche modo oscuro. La lebbra di cui si parla qui in realtà non è
proprio quella causata dal “mycobacterium
lepræ”,
l'agente eziologico della lebbra, così come noi la conosciamo. Il
termine ebraico che riscontriamo nel V.T. è “ṣāra'at”,
tradotto poi nella LXX con “lšpra”
(lépra),
che indica una superficie squamosa, rugosa, scabra, aspra, scagliosa.
Il termine “ṣāra'at”esprime sostanzialmente una impurità
rituale o l'essere macchiati dalla comparsa di chiazze colorate, che
potevano intaccare anche la lana, il lino o le pelli o anche i muri
di casa. Lo stesso termine veniva usato per descrivere la comparsa di
macchie sulla pelle umana. Il termine “ṣāra'at”, pertanto,
non doveva indicare propriamente la lebbra in senso medico, anche se
quest'ultima soluzione non era esclusa. La diagnosi di lebbra
spettava al sacerdote che analizzava le macchie che si erano formate
sulla pelle. Tuttavia era difficile stabilire se fosse vera e propria
lebbra in senso medico o una semplice dermatite o eritema o una
qualche infezione della pelle, poiché il processo con cui si
sviluppa la lebbra vera e propria è molto lento e certamente non
diagnosticabile nei sette o quattordici giorni stabiliti da Lv
13,4-613.
La diagnosi a cui era chiamato il sacerdote, comunque, non aveva
finalità mediche, ma soltanto rituali. Egli doveva solo dichiarare
se la persona colpita da macchie fosse o no ritualmente impura. Da
qui l'invocazione del lebbroso, che chiede a Gesù non di guarire, ma
di essere purificato, cioè essere reso nuovamente idoneo a celebrare
il culto a Dio e, quindi, essere riammesso nel ciclo vitale della
salvezza. Il fatto che si insista sulla purificazione e, quindi,
sulla idoneità al culto e al rapportarsi a Dio, lascia intravvedere
come la guarigione che Gesù è venuto a portare non è quella
corporea, ma spirituale, rendendo l'uomo nuovamente capace di
relazionarsi a Dio e di entrare, quindi, nuovamente in comunione con
Lui, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché l'uomo era
ancora immagine e somigliante a Dio. La tipologia della guarigione
apparirà più evidente nel secondo racconto di guarigione, quello
del paralitico. L'atteggiamento del lebbroso nei confronti di Gesù è
scandito in tre momenti, che tracciano il cammino salvifico del
credente: il lebbroso vede Gesù, cade al suo cospetto, lo invoca.
Quel vedere dice l'incentrare la propria attenzione su Gesù,
riconosciuto come possibilità di salvezza per se stessi; il cadere
davanti a lui ne diviene la conseguenza, poiché il lebbroso
riconosce tutta la distanza che lo separa da Gesù, colto come
potenza di Dio che opera in mezzo agli uomini; ed infine
l'invocazione di salvezza, costituisce il vero e proprio atto di fede
finale, che è l'apertura incondizionata a Dio, presupposto per la
propria salvezza.
Il
v.13 si apre con un “kaˆ”
(kaì,
e), che crea un collegamento con il v.12 e ne fa una sua conseguenza:
“E stesa la mano, lo toccò dicendo: <<Voglio, sii
purificato>>. E subito la lebbra uscì da lui.”. Se lo
stendere la mano e toccare l'ammalato era un gesto caratteristico del
guaritore, compiuto dal Gesù lucano acquista un significato del
tutto particolare: lo stendere la mano verso il lebbroso e il
toccarlo esprime tutta l'attenzione e la solidarietà di Gesù per
l'uomo travolto e deformato dalla lebbra del peccato. Un simile
atteggiamento lo ritroviamo nel racconto del Buon Samaritano
(10,30-36), figura di Gesù, che, trovato il malcapitato incappato
nei briganti, “venne presso di lui e, visto(lo), fu mosso a
compassione, e, avvicinatosi, fasciò le sue ferite”. Tuttavia nel
racconto del lebbroso, Luca toglie l'espressione, presente in Mc
1,41a, “mosso a compassione”, probabilmente per lasciare spazio
al solo gesto di Gesù, molto più eloquente ed incisivo. Quello
stendere e toccare crea una sorte di ponte tra Dio e l'uomo,
attraverso cui passa la potenza salvifica di Gesù. Un gesto il cui
significato è spiegato dalle parole di Gesù: “Voglio, sii
purificato”. Quel “voglio” di Gesù non esprime soltanto una
volontà che si impone in modo determinato sul lebbroso, ma il verbo
“Qšlw”
(Tzélo)
dice molto di più: bramare, desiderare, amare, essere disponibile a,
acconsentire. C'è dunque una volontà, che si colloca nella
profondità della persona di Gesù, lo coinvolge totalmente,
costituisce la nervatura della sua stessa missione, che ha le sue
radici nella stessa volontà del Padre, di cui Gesù è
l'incarnazione. La potenza del gesto e della parola di Gesù trovano
la loro manifestazione negli effetti immediati prodotti sul lebbroso:
“E subito la lebbra uscì da lui”. Non è il lebbroso ad essere
guarito, ma la lebbra, questo male oscuro che consuma e distrugge
l'uomo, che lo lascia. Luca ancora una volta personalizza la malattia
e ne fa una sorta di emissario demoniaco. L'avvento della Parola
instaura il Regno di Dio, rigenerando l'uomo a nuova vita e
ricollocandolo in Dio, da dove è drammaticamente uscito (Gen
3,14-24). In ultima analisi, ci troviamo di fronte ad una nuova
guarigione-esorcismo, in cui si sente ancora l'eco della guarigione
dell'indemoniato (4,33-37), della suocera di Pietro (4,38-39) e di
altri numerosi infermi, da cui uscivano molti demoni (4,40-41).
Gesù ordina al
lebbroso guarito di non parlare con nessuno, ma di recarsi presso i
sacerdoti e sottoporsi ai riti prescritti dalla Legge nel caso di
guarigione ed ottenere, così, la dichiarazione ufficiale di purità
rituale ed essere riammesso nella comunità (Lv 14). Luca conclude il
v.13 con l'espressione “a testimonianza per loro”. La guarigione
così improvvisa e immediata doveva costituire per i sacerdoti motivo
di riflessione e far capire che la guarigione proveniva dalla potenza
di Dio, che opera in Gesù. Essa, quindi, doveva essere una
testimonianza per loro, poiché proprio la guarigione dei lebbrosi
fungeva da segno messianico (7,22) e rientrava nel piano
programmatico annunciato nella sinagoga di Nazareth (4,16-19).
L'intimazione del silenzio, che viene violata nel racconto marciano
da parte del lebbroso guarito (Mc 1,45), viene invece ottemperata in
Luca, che preferisce, come in una sorta di coro delle tragedie
greche, lasciare la testimonianza di quanto accaduto alle folle
(v.15). Il v.15, infatti, incomincia con un “Ma” che si
contrappone al silenzio ordinato da Gesù al lebbroso, fungendo così
da amplificatore e da testimone alle sue gesta e alla sua fama, che
nello stile lucano si diffondeva rapidamente e in modo inarrestabile,
creando un effetto ridondanza, che meglio si rileva negli Atti degli
Apostoli, che celebrano la diffusione della Parola di Dio come una
sorta di inarrestabile marcia trionfale14.
Ma ai trionfi il Gesù lucano contrappone la ricerca di silenzio e la
preghiera: “Ma egli si ritirava nei luoghi deserti e pregava”. Il
verbo all'imperfetto indicativo, “si ritirava”, dice come questo
comportamento di Gesù fosse una costante, una sorta di sua abitudine
di vita15.
Una preghiera che diviene il luogo privilegiato d'incontro con il
Padre16.
Gesù in questo diviene pertanto il paradigma della comunità
credente, che sollecita a pregare sempre17.
La guarigione
del paralitico (vv.17-26)
Testo
a lettura facilitata
Un
preambolo che prelude a un duro confronto
(v.17)
17
– Ed avvenne (che), in uno di quei giorni, egli ammaestrava, e
c'erano seduti i farisei e i dottori della legge, che erano venuti da
ogni villaggio della Galilea e della Giudea e di Gerusalemme; e la
potenza del guarire del Signore era su di lui.
La
guarigione spirituale, paradigma di tutte le guarigioni
(vv.18-20)
18
– Ed ecco degli uomini che portavano su di una barella un uomo che
era paralizzato e cercavano di portarlo dentro e deporlo davanti a
lui.
19
– E non avendo trovato dove introdurlo a motivo della folla, saliti
sulla casa, lo misero giù attraverso le tegole con il lettuccio nel
mezzo davanti a Gesù.
20
– Ed avendo visto la loro fede disse: <<Uomo, ti sono rimessi
i tuoi peccati>>.
La
guarigione spirituale si riflette in quella corporale (vv.21-24)
21
– E incominciarono a discutere gli scribi e i farisei dicendo:
<<Chi è costui che dice bestemmie? Chi può rimettere peccati
se non Dio solo?>>.
22
– Ora, conoscendo Gesù le loro considerazioni, rispondendo disse
verso loro: <<Che cosa considerate nei vostri cuori?
23
– Che cos'è più facile dire: “ti sono rimessi i tuoi peccati”,
o dire: “alzati e cammina”?
24
– Ora, affinché sappiate che il figlio dell'uomo ha potere sulla
terra di rimettere peccati, disse al paralizzato, dico a te: “alzati
e, preso il tuo lettuccio, vai a casa tua”>>.
Gli
effetti della completa guarigione
(v.25)
25
– E subito, levatosi davanti a loro, preso (il lettuccio) su cui
giaceva, andò nella sua casa glorificando Dio.
La celebrazione
corale dell'azione guaritrice di Gesù (v.26)
26 – E un
turbamento prese tutti quanti e glorificavano Dio e furono riempiti
di paura dicendo che oggi abbiamo visto cose straordinarie.
Note
generali
Con il precedente
racconto di guarigione del lebbroso (vv.12-16) Luca aveva lasciato
intuire come il ripristino dell'uomo non fosse di ordine fisico, ma
spirituale. L'autore, infatti, si era soffermato sulla necessità
della sua purificazione (vv.12-13), rendendolo nuovamente idoneo al
rapporto con Dio, configurandolo nuovamente a sua immagine e
somiglianza. La potenza della parola accolta purifica l'uomo che
l'accoglie (Gv 15,3) e lo rigenera a Dio (1Pt 1,23). Che cosa
significhi purificare, rigenerare, riconfigurare e quale sia il
senso dell'operare di Gesù viene ora spiegato con questo secondo
racconto di guarigione del paralitico. Un racconto molto articolato e
dinamico nel suo svolgersi, dove per la prima volta viene coinvolta
l'autorità religiosa giudaica, con cui si profila uno scontro che si
concluderà a Gerusalemme sulla croce e qui richiamato sia dalla
presenza dei dottori della Legge che dei farisei, sia dalla comparsa
del nome stesso della città santa.
Se con la prima
immagine del lebbroso veniva metaforizzata l'inidoneità dell'uomo,
deformato dal peccato nella sua primitiva immagine e somiglianza
divine, di rapportarsi con Dio, qui con la figura del paralitico ne
viene richiamata la sua incapacità. Due immagini che descrivono
efficacemente il pietoso stato di degrado spirituale e morale
dell'uomo travolto dal peccato, che lo ha rinchiuso nella sua
tragedia senza speranze. Una tragedia che lo coinvolge non solo
spiritualmente, ma che ha un suo pesante e drammatico riflesso anche
sul suo stato psico-fisico-sociale, così che il suo risanamento
spirituale trova la sua profonda eco anche in quello storico, a
motivo della profonda unità tra spirito, anima e corpo che forma
l'essere umano. Ecco, dunque, che il perdono dei suoi peccati (v.20b)
trova subito un'eco positiva anche sul piano corporale (v.25). Gesù,
dunque, non è venuto a salvare le anime degli uomini, ma l'uomo
nella sua interezza. Ed è proprio questo principio di profonda e
inscindibile unità e integrità di tutto l'essere umano che sta alla
base della risurrezione della carne. Questa non è un premio per i
buoni, ma una logica conseguenza dell'azione salvifica di Gesù, che
punta alla salvezza dell'uomo nella sua interezza. Fonte di questa
salvezza è la potente parola di Gesù, egli stesso Parola eterna del
Padre (Gv 1,1-3), per cui con il suo parlare ed operare egli
manifesta e dà attuazione alla sua potenza salvifica, rigenerando
l'uomo al suo primitivo stato, quando era ancora incandescente di Dio
(Gen 1,31); ancora conforme alla sua immagine e a Lui somigliante.
La struttura del
racconto è molto articolata e potremmo scandirla in cinque parti,
che già sono state indicate nella sezione del “Testo a lettura
facilitata” e che seguono la dinamica stessa del racconto:
Un preambolo che prelude a un duro confronto (v.17)
La guarigione spirituale, paradigma di tutte le guarigioni (vv.18-20)
La guarigione spirituale si riflette in quella corporale (vv.21-24)
Gli effetti della completa guarigione (v.25)
La celebrazione corale dell'azione guaritrice di Gesù (v.26)
Commento
ai vv.17-26
Un
preambolo che prelude a un duro confronto
(v.17)
Mentre i racconti
paralleli di Mt 9,1-8 e Mc 2,1-12 sono localizzati a Cafarnao e, per
Mc 2,1b, all'interno di una casa, metafora della prima comunità
credente dove si trova Gesù e si radunano molte persone ad ascoltare
la sua parola, Luca qui non precisa la località, ma con la vaga
espressione temporale “in uno di quei giorni” rimanda
probabilmente a “quei giorni” in cui si trovava “in una delle
città” (v.12), dove era avvenuta anche la guarigione del lebbroso,
creando in tal modo una sorta di continuità narrativa e di senso tra
le due guarigioni. Non è dunque definito il luogo né precisato il
tempo. Questa vaghezza e questa imprecisione circostanziali lasciano
intendere che l'azione risanatrice di Gesù si estende ovunque e in
ogni tempo. Anche questo racconto di guarigione si apre con il verbo
caro a Luca: “Ed avvenne” con cui Luca indica l'accadere di un
evento salvifico, di cui il racconto precisa la natura e il senso; un
accadere salvifico che avviene in un tempo indeterminato, ma comunque
sempre nell'oggi dell'uomo, come concluderà il racconto: “oggi
abbiamo visto cose straordinarie” (v.26c). Il tempo della
salvezza, dunque, coincide sempre con il tempo dove si trova l'uomo:
nel suo oggi. Il contesto circostanziale è quello dell'insegnamento:
“mentre ammaestrava”. La comparsa del verbo “did£skw”
(didásko, insegnare, ammaestrare) evidenzia il rapporto che
intercorre tra il discepolo e il maestro, ben diverso dal precedente
“epistáta” con cui Pietro si era rivolto a Gesù (v.5),
definendolo un maestro che sovrasta, che si impone, che è
soprastante. In buona sostanza una guida ferma e sicura. Qui Gesù
non si impone, ma, come suggerisce il verbo all'imperfetto
indicativo, fa continuamente dono della sua parola e del suo
insegnamento a degli ascoltatori d'eccezione: “c'erano seduti i
farisei e i dottori della legge, che erano venuti da ogni villaggio
della Galilea e della Giudea e di Gerusalemme”. Luca li presenta
nella posizione propria del discepolo di fronte o attorno al maestro:
“c'erano seduti”. La tipologia di questi discepoli è
particolare, così come particolare è la loro provenienza: essi sono
farisei e dottori della Legge, provenienti dalla Galilea (nord della
Palestina), Giudea (sud della Palestina) e Gerusalemme, la città
santa, il luogo del culto per eccellenza, dove esercitavano il loro
potere le autorità religiose: lì c'erano il Sinedrio e il Tempio.
Questa molteplice provenienza da tutta la Palestina dice come il
confronto di Gesù avviene con l'intera classe dirigenziale, con
tutta l'autorità religiosa. Luca associa qui ai farisei, una setta,
strettamente osservante della Legge mosaica, i “dottori della
Legge”. Una definizione questa tutta lucana18
con cui l'autore abbraccia non soltanto gli scribi, specialisti delle
Scritture, ma anche i sadducei e la classe sacerdotale, forse anche
gli anziani, che formavano il consiglio nelle sinagoghe e il
Sinedrio, comunque tutte persone esperte delle Scritture. Queste sono
sedute davanti o attorno a Gesù. Questo “essere seduti” assume
qui un significato equivoco. Lo star seduti, infatti, è una
posizione caratteristica dei discepoli che si mettono in ascolto del
maestro; ma è altresì la posizione del maestro che impartisce il
suo insegnamento ai discepoli. Questa ambivalenza di significato
lascia in qualche modo trasparire che qui ci si trova di fronte a due
tipologie di maestri e a due tipologie di insegnamenti: Gesù e le
autorità religiose giudaiche. Sarà dunque un confronto scontro tra
due posizioni religiose: quella che proviene da Mosè e quella che
proviene dal Padre, che si manifesta in Gesù. Su questa doppia
posizione e su questo confronto si giocherà l'intera missione di
Gesù, che causerà, poi, la sua condanna a morte.
Il v.17 termina
evidenziando come “la potenza del guarire del Signore era su di
lui”. Già Luca aveva preannunciato in 2,40 che “il bambino
cresceva e si fortificava, riempito di sapienza, e la grazia di
Dio era su di lui”; un bambino che, divenuto adulto,
ritroviamo al momento del battesimo dove “scese su di lui lo
Spirito Santo” (3,22a) e poco dopo lo sentiamo proclamare
con le parole di Isaia che “Lo Spirito del Signore su di me;
a motivo di questo mi unse perché fosse annunciata la buona
novella ai poveri; mi inviò per proclamare ai prigionieri (la)
liberazione e ai ciechi il recupero della vista, per mandare in
libertà gli oppressi, per proclamare un gradito anno del Signore”
(4,18-19). Ed è proprio questo il senso della potenza del Signore
che “era su di lui”. La potenza dello Spirito Santo, che è forza
creatrice di Dio, dà sostanza alla parola di Gesù rendendola
efficace (Gv 1,3). Se la Parola è forma che manifesta e rivela le
profondità di Dio e il suo Mistero, lo Spirito Santo è colui che
rende efficace la Parola e le fornisce la forza che attua il progetto
salvifico del Padre (11,20; Gv 5,19.30). Lo Spirito, potenza del
Padre, che è su Gesù e su di lui dimora (Gv 1,33), libera,
rigenera, risana, poiché infonde nell'uomo la stessa vita di Dio,
restituendolo alla sua primitiva innocenza. Ed è questa potenza, che
qui Luca definisce “del guarire”, che permea l'essere stesso di
Gesù ed opera in lui, rendendo efficace la sua missione redentrice.
Ma così terminando il v.17 preannuncia anche quanto sta per accadere
al paralitico, lasciando intravvedere in quella remissione dei
peccati, che si rifletterà anche nella guarigione fisica, la potenza
guaritrice e rigeneratrice che opera in Gesù, azione e rivelazione
del Padre, che restituirà l'uomo alla sua integrità originale.
La
guarigione spirituale, paradigma di tutte le guarigioni
(vv.18-20)
Il
racconto si apre on un “kaˆ
„doÝ”
(kaì
idù,
ed ecco), narrativamente molto efficace, perché richiama ed incentra
l'attenzione del lettore sulla scena che sta per svolgersi.
L'espressione è simile al sipario di un palcoscenico che si apre,
dando inizio allo spettacolo. E ciò che il lettore qui vede sono
degli uomini che portano su di una barella un altro uomo paralitico,
e quindi, del tutto incapace di muoversi. Da solo non ce l'avrebbe
mai fatta ad arrivare fino a Gesù, senza l'intervento di questi
uomini. Ma vi è una diversità tra chi trasporta e il trasportato.
Luca definisce i primi con il sostantivo “¥ndrej”
(ándres,
uomini),
uomini non qualsiasi, ma qualificati dalla loro fede in Gesù
(v.20a), dal loro persistente e intraprendente darsi da fare per far
entrare nella casa, dove c'è Gesù, il paralitico, definito con il
sostantivo generico di “¥nqrwpoj”
(ántzropos,
uomo),
un uomo qualsiasi, privo di identità, ben diverso dai primi. Questo
era il non credente. In qualche modo Luca riproduce qui la
consuetudine dei primi credenti, quella di presentare alla comunità
di appartenenza, qui metaforizzata nella casa, i candidati alla fede,
garantendo per loro. Essi, infatti, cercano di portarlo dentro
(v.18b). Una casa che qui l'autore vede con gli occhi di un greco,
con un tetto coperto di tegole, anziché di semplici assi coperte da
fango e paglia, come erano le case palestinesi19.
Per due volte si dice che il paralitico, questo uomo incapace di
avere un qualsiasi rapporto non solo con Dio, ma anche con gli altri
e del tutto insufficiente a se stesso, viene deposto davanti a Gesù
(vv.18b.19b) nel mezzo. Il paralitico, quindi, è posto al centro
della comunità credente, quasi un segno della sua attenzione e del
suo interesse verso di lui. È lì, infatti, nella comunità
credente, che si trova la potenza salvifica che può risanarlo e
riabilitarlo spiritualmente; una rigenerazione che si rifletterà
anche in un nuovo stile di vita, che diviene testimonianza per tutti
(v.26). La comunità credente, pertanto, diviene il luogo
dell'incontro con Gesù e della nuova nascita nello Spirito (Gv
3,3-7).
Luca
riserva l'intero v.20 alla guarigione spirituale del paralitico. Un
versetto scandito in due momenti, l'uno consequenziale all'altro;
l'uno dipendente dall'altro: “Ed avendo visto la loro fede disse:
<<Uomo, ti sono rimessi i tuoi peccati>>”. È dunque la
constatazione della fede non solo della comunità credente, ma in
qualche modo anche del paralitico, ricompreso nell'aggettivo
possessivo “loro”, rende possibile la guarigione. È dunque la
fede, questa disponibilità a Dio, di accoglierlo nella propria vita,
che produce la salvezza. Lo ricorderà Gv 3,15-16: “affinché
ognuno che crede in lui abbia la vita eterna. Così,
infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito,
affinché ognuno che crede in lui
non perisca, ma abbia la vita eterna”20.
Soltanto dopo la constatazione della comune fede, Gesù può compiere
il miracolo della rigenerazione spirituale del paralitico: “Uomo,
ti sono rimessi i tuoi peccati”. Questo è il senso della salvezza,
di cui Luca aveva già fornito la chiave di lettura in 1,77: “per
dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei
suoi peccati”. L'esperienza visibile e concreta della salvezza,
dunque, si ha nella remissione dei peccati. Questo atto di
riconciliazione tra Dio e gli uomini, che viene sancito in e per
Gesù. Un peccato, si badi bene, che non è una semplice
disobbedienza a Dio o una violazione di un qualche suo comandamento,
dettata prevalentemente dalla congenita fragilità dell'uomo. Il
termine “peccato”, che la dottrina morale riduce a qualche azione
che infrange la Legge, è, in realtà, da un punto di vista biblico,
qualcosa di ben più grave: esso indica uno stato di vita, un modo di
vivere lontano da Dio o in opposizione a Lui, che orienta la propria
vita verso se stessi o verso le cose e non più verso di Lui. Il
termine peccato, infatti, ha la sua origine dal verbo greco
“¡mart£nw”
(amartáno),
che significa sbagliare strada, allontanarsi dalla verità, da ciò
che è giusto. Non si tratta, quindi, di una semplice azione compiuta
in violazione della Legge, ma di un orientamento di vita opposto a
Dio, che ci allontana da Lui. Gesù, dunque, non è venuto per
assolverci dai peccati, ma per ripristinarci in Dio, per rigenerarci
a quella vita divina a cui eravamo informati fin dai primordi della
creazione e dell'umanità, allorché Dio decretò di creare l'uomo a
sua immagine e a sua somiglianza e, quindi, a lui assimilato (Gen
1,26-27). Quindi quella remissione dei peccati va intesa come una
ricostituzione dell'uomo in Dio, per cui per il credente non vi è
più nessuna condanna (Rm 8,1). Ecco, dunque, la sentenza di Gesù,
che sottende l'essenza della sua missione: “Uomo, ti sono rimessi i
tuoi peccati”. Una sentenza che è provocatoria, ma che nella sua
provocazione chiarirà la vera natura di Gesù e il senso della sua
missione. Luca, infatti, non dimentica che lì, attorno a Gesù, c'è
l'intero schieramento di farisei e dottori della Legge (v.17).
La
guarigione spirituale si riflette in quella corporale
(vv.21-24)
“Il
Signore passò davanti a lui proclamando: <<Il Signore, il
Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di
grazia e di fedeltà, che
conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa,
la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che
castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla
terza e alla quarta generazione>>”.
Su questo principio di Es 34,6-7, che demanda soltanto a Dio il
perdono o il castigo dei peccati e la capacità di riconciliare
l'uomo a sé, le autorità religiose lì presenti innescano una
polemica, che si incentra su tre momenti: l'identità di Gesù,
un'accusa di blasfemia, da una parte; dall'altra, la constatazione
che solo Dio può rimettere i peccati, lasciando trasparire da questa
la vera identità di Gesù: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi
può rimettere i peccati se non Dio solo?”. Una simile accusa
prevedeva la lapidazione. L'atto di blasfemia è l'arrogarsi di Gesù
di un potere esclusivo di Dio, facendosi in qualche modo un suo pari:
“Chi può rimettere i peccati se non Dio?”. Un'accusa simile
venne mossa anche al Gesù giovanneo in 10,33: “Non ti lapidiamo
per una buona opera,
ma per bestemmia, e perché tu, che sei uomo, fai te stesso Dio”.
Il nocciolo della questione qui è chiaramente la natura di Gesù,
che nel perdono dei peccati manifesta in se stesso un potere divino,
che di fatto solo Dio possiede. Luca lo rileva appositamente per il
suo lettore: “Chi può rimettere i peccati se non Dio?”. Il
messaggio che l'autore passa qui al suo lettore ellenista è che Gesù
rimette i peccati perché è Dio. Il v.22 riecheggia in qualche modo
questo potere di Gesù, che sa leggere nel segreto dei cuori e
conosce le profondità dell'animo umano. La grave accusa mossa dalle
autorità religiose necessita ora di una sua difesa, perché l'accusa
di blasfemia non si traduca rapidamente in una lapidazione. Gesù si
è esposto in modo eccessivo; deve dunque dare ora prova che le sue
parole sono in qualche modo legittimate. È questa la logica
giudaica21,
che lo stesso Paolo stigmatizza in 1Cor 1,22-23: “E mentre i Giudei
chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi
predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i
pagani”.
I vv.23-24 sono dedicati alla prova, che Gesù dà alle autorità
giudaiche del suo potere divino. Con il v.23 Luca crea, da un lato,
un accostamento e un diretto collegamento tra la guarigione
spirituale, “ti sono rimessi i tuoi peccati”, e quella fisica:
“alzati e cammina”, in cui la guarigione spirituale si completa
in quella corporale, andando così a raggiungere l'uomo nella sua
completezza; dall'altro, la guarigione spirituale, che per sua natura
è impercettibile, viene ora provata da quella corporale. Il v.23,
pertanto, prepara il lettore a quanto sta per accadere al v.24,
fornendone una chiave di lettura. La prova che Gesù sta per dare è
finalizzata a provare il suo potere di rimettere i peccati: “Ora,
affinché sappiate che il figlio dell'uomo ha potere sulla terra di
rimettere peccati”. Un versetto all'apparenza semplice, ma molto
complesso e denso nella sua cristologia. Si parla di “figlio
dell'uomo”, del “suo potere sulla terra”, che si estrinseca nel
“rimettere i peccati”. Questa prima parte del v.24 costituisce il
preambolo alla sua seconda parte. Gesù riferisce a se stesso un
titolo messianico, mutuato da Dn 7,13-14, in cui la figura del figlio
dell'uomo è strettamente legata al potere che questi ha ricevuto:
“Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi
del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo
e fu presentato a lui, che
gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo
servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e
il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.
Un potere che esercita sulla terra. Questa precisazione lascia
intuire sullo sfondo, quasi in filigrana, come questo potere abbia
come origine un'altra dimensione, che è contrapposta alla terra: il
cielo, il luogo della dimora divina, da dove proviene Gesù (Gv 3,13;
8,42; 16,27b-30). Questi, per sua natura, ha un suo potere, che ora
esercita sulla terra e si manifesta nel rimettere i peccati, aprendo
in tal modo il tempo della salvezza per l'uomo, consentendogli
l'esperienza di un nuovo rapporto con Dio in e per Cristo, fondato
sulla misericordia, che si fa perdono, che diviene accoglienza,
ricostituendo il credente ad immagine e somiglianza di Dio.
Da qui il comando
“alzati e, preso il tuo lettuccio, vai a casa tua”, che
costituisce la seconda parte del v.24. Non è soltanto un semplice
comando, ma un vero e proprio atto creativo che rigenera l'uomo e lo
restituisce in pienezza a se stesso e alla sua casa, in cui per casa
deve intendersi non soltanto la sua famiglia o la parentela, ma anche
l'intera società, di cui fa parte e alla quale è ora invitato a
ritornare completamente rinnovato e rigenerato. Un atto creativo che
richiama da vicino lo schema narrativo della creazione genesiaca dove
al comando corrisponde la sua attuazione, rilevando così la potenza
creatrice e generatrice della Parola.
Gli
effetti della completa guarigione
(v.25)
Il
v.25 è particolarmente denso. Vi si dice che il paralitico “si
levò subito” dal lettuccio dove prima “giaceva” e se ne andò
“nella sua casa, glorificando Dio”. L'avverbio temporale “subito”
è reso in greco con “paracrÁma”
(paracrêma),
che significa all'istante, immediatamente, senza alcun indugio ed
esprime tutta la potente efficacia della parola di Gesù, che fa
quello che dice e il suo fare avviene nell'istante in cui dice,
poiché la parola di Gesù non è un semplice flatus
vocis,
un suono che si sperde nell'aria, ma ha la stessa efficacia di quella
di Dio, poiché egli è il “Dabar”
del Padre, la Parola che si fa azione e diviene evento rivelativo ed
efficace. Gesù è, di fatto, il Dire-Agire di Dio, che nel suo Dire,
che è Agire, produce salvezza, rigenera, ripristina e ricostituisce
l'uomo investito dal Dire-Agire di Dio. E ciò che produce questa
Parola-Azione è il levarsi del paralitico da dove prima giaceva.
Luca qui accosta due verbi significativi: giacere e levarsi, che
richiamano da vicino la morte e risurrezione di Gesù, a cui viene in
qualche modo associato anche il paralitico. Quel levarsi del
paralitico, infatti, è reso in greco con “¢nast¦j”
(anastàs),
un verbo tecnico con cui le primitive comunità credenti designavano
la risurrezione di Gesù. La rigenerazione e la restituzione alla
vita di questo paralitico lascia intravvedere gli effetti della
stessa risurrezione, che nelle guarigioni vengono in qualche modo
anticipati. Ma se il levarsi del paralitico dice il suo essere
restituito alla sua vita fisica, quel suo “glorificare Dio” dice
che un'altra trasformazione, molto più profonda è avvenuta in lui.
La remissione dei peccati, quale esperienza di salvezza, rende l'uomo
nuovamente idoneo a rapportarsi con Dio e trasforma la sua vita in
una sorta di liturgia di lode e di ringraziamento. E in tal modo egli
entrò nella sua casa; una casa dove egli ora può glorificare Dio e
dove a Lui si cantano lodi e si celebrano culti. Ora egli fa parte
della nuova comunità dei redenti perché divenuto credente.
La
celebrazione corale dell'azione guaritrice di Gesù
(v.26)
La radicale
trasformazione del paralitico e la sua glorificazione di Dio trovano
la loro risonanza qui, al v.26, secondo lo schema del coro nelle
tragedie greche, la cui funzione era riprendere l'azione dell'attore
e commentarla a modo proprio, quasi diventando esso stesso un
protagonista. Turbamento e paura, secondo il linguaggio biblico, sono
la reazione dell'uomo all'irrompere del divino nella storia. La
glorificazione di Dio, che riprende in modo amplificato e comunitario
quella del paralitico guarito, rileva la straordinarietà dell'evento
di salvezza, che si compie nel loro oggi. Una salvezza che si produce
nell'incontro, reciprocamente accogliente, tra Dio e l'uomo e che ha
come spazio temporale del suo accadere l'oggi dell'uomo, divenuto
anche l'oggi di Dio. Turbamento, paura, glorificazione, salvezza
nell'oggi sono tutti elementi che caratterizzano la teologia lucana,
già comparsi nel racconto della nascita di Gesù (2,9-11). Essi
accompagnano il compiersi dell'evento salvifico, colto come un evento
straordinario di salvezza.
La
chiamata di Levi (vv.27-28)
Testo
27 – E dopo queste cose uscì e vide un pubblicano, chiamato Levi, seduto sul banco, e gli disse: <<Seguimi>>.
28 – Ed avendo
lasciato tutte le cose, alzatosi, lo seguiva.
Note
generali
In parallelo al
racconto dell'investitura di Pietro (v.10b) e della sequela di Gesù
da parte dello stesso Pietro e degli altri pescatori, suoi soci
(v.11), Luca completa ora la chiamata dei primi discepoli con quella
di Levi. Questo primo nucleo verrà successivamente integrato da
altri discepoli, i cui nomi compariranno per la prima volta in
6,13-16, nell'elenco dei Dodici, costituiti apostoli22.
Il personaggio, qui, al centro delle attenzioni di Gesù è un certo
Levi, che il primo evangelista chiama con il solo nome di Matteo (Mt
9,9), mentre Mc 2,14 lo definisce con più precisione come “Levi,
figlio di Alfeo”. Il suo nome comparirà nella lista dei Dodici,
riportata da tutti tre gli evangelisti23,
con il solo nome di “Matteo”, che Mt 10,3 scrupolosamente ricorda
che si tratta del pubblicano. Il pubblicano, definito tale con
disprezzo dai giudei, altro non era che un piccolo esattore di tasse,
dipendente dai grandi appaltatori o da subappaltatori locali, e,
visto che era seduto ad un tavolo, fu un doganiere o un daziale,
posto su posizioni strategiche come potevano essere le porte di
entrata in città, su attraversamenti di ponti, su strade di grande
percorrenza o a bivi e incroci. Di ben altra taglia era invece
Zaccheo, che Luca definisce come capo dei pubblicani e ricco (19,2),
la cui entità delle ricchezze è lasciata intuire dal successivo
v.19,8. Fatto il debito raffronto, dunque, Levi doveva essere
soltanto un semplice peone,
uno di bassa manovalanza, che faceva il lavoro sporco, quello di
costringere la gente a pagare. Per questo egli era considerato un
pubblicano24,
considerato pubblico peccatore, odiato dai giudei non solo perché
riscuoteva soldi per gli invasori Romani, ma anche perché
intratteneva rapporti con il mondo dei pagani e, quindi, viveva in
uno stato di costante impurità rituale e in quanto tale escluso
dalla vita religiosa e sociale. Non a caso il titolo di “pubblicani”
nei sinottici compare quasi sempre associato a quello di “peccatori”
e in alcuni casi a quello di “prostitute” (Mt 21,31.32) ed
equiparato sostanzialmente ad un pagano (Mt 18,17)25.
Un personaggio quello di Matteo tutt'altro che esemplare e
raccomandabile. La scelta di Gesù esce da ogni schema logico: non
solo va contro corrente, ma si mette di traverso, creando scandalo.
Proprio per questo essa diviene un forte messaggio per tutti, in
particolare per i benpensanti, che si stracciano le vesti di fronte
alle frequentazioni di Gesù (v.30). Le scelte di Gesù, per quanto
incomprensibili, assurde e scandalose, fanno parte della sua
missione, ne sono espressione. Sono scelte che impongono una
riflessione e una radicale revisione del proprio modo di pensare,
poiché qui ci si trova di fronte a delle scelte che sono sottese da
logiche divine, molto lontane dal modo di pensare dell'uomo e
comprensibili soltanto se questi si pone dalla prospettiva di Dio (Is
58,8-9).
Commento ai
vv.27-28
L'episodio
della chiamata di Levi si riduce in tutto a due versetti: il primo
dedicato all'incontro di Gesù con il gabelliere, il secondo riguarda
la sua risposta al comando di Gesù. Il v.27 si apre con un “E dopo
queste cose”, di marca redazionale. Un'espressione questa che forma
una successione temporale e narrativa, creando una continuità logica
nel racconto. Il riferimento qui sono ai due miracoli di guarigione e
in particolare al secondo, quello del paralitico, compiuto mentre
Gesù era in casa, metafora, come più volte si è ricordato, della
comunità credente, dove si trova la potenza salvifica di Gesù, che
viene sollecitata dalla fede (v.20a). I due verbi che seguono
immediatamente descrivono due importanti movimenti di Gesù: “uscì
e vide un pubblicano”. L'uscire di Gesù fa riferimento al suo
uscire dalla “casa-comunità credente” e nel suo uscire “vide
un pubblicano”. Quindi Gesù non rimane all'interno di questa casa,
ma esce e “vede”, cioè incentra la sua attenzione e il suo
interesse, nonché la sua predilezione ed elezione su di un
pubblicano, su quello che si può definire l'ultimo nella scala
sociale dei benpensanti. L'uscire e il vedere sottendono, pertanto,
un movimento missionario, che caratterizza il pensiero lucano. Un
pressante sollecito, dunque, rivolto alle stesse comunità credenti,
ad uscire dal chiuso della loro fede e andare verso un mondo fatto di
poveri, di reietti, di ghettizzati e di rifiutati; un mondo, dunque,
di peccatori e di anatemizzati, poiché sono queste le persone più
bisognose di salvezza e di riscatto non soltanto spirituale, ma anche
morale ed umano (vv.31-32). Ciò che quindi Luca produce con questo
“uscire e vedere” è una sferzata alle comunità credenti perché
diventino comunità aperte a tutti e attente agli ultimi, anche a
quelli che sono posti fuori dal popolo della promessa e di cui lo
stesso Luca fa parte e da cui egli stesso proviene. Anche questi sono
chiamati a far parte del nuovo popolo messianico. Paolo, l'apostolo
dei pagani, considera questo un “mistero
nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi
santi”
(Col 1,26): “Questo mistero non è stato manifestato agli uomini
delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai
suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che
i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla
stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi
della promessa per mezzo del vangelo”
(Ef 3,5-6).
Ciò
che Gesù vede e ciò su cui incentra la sua attenzione elettiva è
un personaggio che Luca definisce con tre tocchi: è un pubblicano,
seduto al suo banco di gabelliere, intento quindi al suo lavoro di
riscossione, ma non di rado di estorsione e di prepotenze (3,12-13;
19,8), e il suo nome è Levi. Un appartenente, quindi, al popolo
eletto, erede della promessa, ma estromesso da questo per la sua
posizione sociale e religiosa. Un personaggio pure traditore, che si
è posto al servizio del Romano invasore, svolgendo un lavoro di
repressione e di estorsione nei confronti dei suoi concittadini, che
lo ricambiano odiandolo. A questo “maledetto”, posto all'ultimo
gradino della scala sociale e religiosa, Gesù si rivolge e gli
impartisce un comando: “Seguimi”. Non si tratta di un benevolo
invito o di un morbido sollecito, ma di un vero e proprio comando: “
'AkoloÚqei
moi”
(Akolútzei
moi).
Quello stesso comando, che è risuonato nei confronti dell'uomo
“pieno di lebbra” e che lo ha purificato: “Lo voglio, sii
purificato”; lo stesso rivolto al paralitico, che lo ha rimesso in
piedi e restituito integro a se stesso e alla società civile e
religiosa: “Alzati, e preso il tuo lettuccio, vai a casa tua”. È
la stessa potente parola rigeneratrice e creatrice, che trasforma
quel reietto e disprezzato in un seguace, che diverrà apostolo, un
alter
ego
di Gesù. Ciò che Gesù ha comandato a quest'uomo non è soltanto di
seguirlo, ma il verbo greco usato (akolutzéo)
dice ben più di una semplice sequela: si tratta di porsi dietro a
Gesù, di lasciarsi guidare da lui, di aderire esistenzialmente a
lui; in ultima analisi, di porsi al suo servizio.
Il
v.28 dà la misura dell'autorevolezza di questo comando e della
potenza efficace di questa parola, così come è avvenuto per il
lebbroso e il paralitico: “Ed avendo lasciato tutte le cose,
alzatosi, lo seguiva”. Luca fa, dunque, seguire al comando la sua
diretta esecuzione, così come avvenne nell'atto creativo di Dio, al
cui “disse” corrisponde in modo immediato ed efficace il
contenuto del suo dire; poiché non vi è distinzione tra il dire e
il fare di Dio. La sua parola infatti è un “dabar”,
che produce ciò che dice. Il versetto scandisce in tre movimenti la
risposta esistenziale di Levi. Nessuna parola, infatti, è da lui
pronunciata, ma qui viene descritto solo un comportamento, che denota
il cambiamento di 180 gradi della vita di quest'uomo. Un cambiamento
che avviene in tre momenti, che che delineano un percorso di
conversione. La prima annotazione è l'aver lasciato tutte le cose.
L'aver chiuso, dunque, con il suo passato. Levi non appartiene più
al suo passato. Un passaggio questo essenziale, poiché soltanto dopo
aver lasciato tutte le cose, Luca dice che Levi si è alzato. Anche
qui ricorre lo stesso identico verbo del paralitico (v.25a):
“¢nast¦j”
(anastàs,
levatosi, alzatosi); un verbo tecnico, che nelle prime comunità
credenti indicava la risurrezione di Gesù. Ciò che è avvenuto in
Levi è quindi assimilabile alla risurrezione di Gesù, quasi una
anticipazione dei suoi effetti in lui e, come in lui, anche in ogni
credente. Levi, quindi, è stato rigenerato ad una nuova vita da
questa potente parola creatrice; è stato reso un uomo nuovo. Solo
ora egli è pronto alla sequela, resa qui con il verbo “akolutzéo”,
posto qui all'imperfetto indicativo (“lo seguiva”), che in greco
indica un persistere dell'azione nel tempo ed equivale a “continuava
a seguirlo”. La sequela di Levi, pertanto, è definitiva, così
come la sua trasformazione e il suo riorientamento esistenziale.
La
natura del nuovo insegnamento (vv.29-39)
Testo
a lettura facilitata
Il
senso della missione di Gesù
29
– E Levi gli fece un grande banchetto nella sua casa, e vi era una
grande folla di pubblicani e di altri, che erano sdraiati (a tavola)
con loro.
30
– E i farisei e i loro scribi mormoravano contro i suoi discepoli
dicendo: <<Per che cosa mangiate e bevete con i pubblicani e i
peccatori?>>.
31
– E rispondendo Gesù disse verso di loro: <<Non
quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma quelli che stanno
male.
32 – Non sono venuto a chiamare (i) giusti, ma (i)
peccatori per (la) conversione>>.
Il
tempo di Gesù e quelli della Chiesa
33
– Ma quelli dissero verso di lui: <<I discepoli di Giovanni
digiunano con frequenza e facendo preghiere; similmente anche quelli
dei farisei, ma i tuoi mangiano e bevono>>.
34
– Ma Gesù disse verso di loro: <<Forse
che potete far digiunare gli invitati alle nozze, allorché lo sposo
è con loro?
35
– Ma verranno giorni, quando anche lo sposo sarà tolto da loro,
allora digiuneranno in quei giorni>>.
L'incompatibilità
dell'insegnamento di Gesù con quello degli scribi e farisei
36
– Ora diceva una similitudine verso di loro: <<Nessuno mette
una copertura strappata da un vestito nuovo su di un vestito vecchio;
se no di certo il nuovo si lacererà e al vecchio non converrà la
copertura (tolta) dal nuovo.
37
– E nessuno mette vino nuovo in otri vecchi; se no di certo il vino
nuovo romperà gli otri ed esso sarà sparso e gli otri si
distruggeranno;
38
– ma vino nuovo in otri nuovi deve essere messo.
39 – E nessuno che
beve del vecchio vuole del nuovo; infatti dice: “il vecchio è
buono”.
Note
generali
Con il v.5,29 si
apre una sezione che si estende a tutto 6,11. Il tema di fondo che
caratterizza tale sezione è la novità dell'insegnamento di Gesù,
che si discosta notevolmente da quello degli scribi e dei farisei e
che di fatto reinterpreta il modo di intendere le disposizioni della
Torah sulle questioni della purità (5,29-32), del digiuno (5,33-35)
e del sabato (6,1-11). La pericope 5,36-39 si pone centralmente alla
sezione, formata da cinque pericopi, ed è una piccola raccolta di
tre detti di Gesù, che mettono in evidenza l'incompatibilità
dell'insegnamento di Gesù con quello degli scribi e dei farisei.
Questa sezione si
richiama in qualche modo a 5,17 e lo completa. In 5,17, infatti, sono
presentati per la prima volta gli attori principali di questa ampia
diatriba (5,29-6,11): da una parte Gesù, che ammaestrava, dall'altra
l'intero corpo delle autorità religiose, che Luca presenta in un
atteggiamento equivoco nei confronti di Gesù: “c'erano seduti”.
Tale posizione è caratteristica sia dei discepoli nei confronti del
maestro, ma è propria anche del maestro, che impartisce il suo
insegnamento. È evidente che qui Gesù non sta ammaestrando i
farisei e i dottori della Legge, ma Luca si limita ad evidenziarne
la presenza e la loro posizione di maestri, ponendoli gli uni di
fronte all'altro e lasciando preludere ad uno scontro che porterà,
poi, Gesù sulla croce. Di fatto l'evangelista mette qui a confronto
due tipologie di insegnamenti: quella di Gesù e quella degli scribi
e dei farisei, i maestri della Torah, che rilevano due diverse e
contrapposte posizioni nei confronti della Legge. In che cosa
consista questo confronto e il diverso modo di intendere la Legge,
sarà la sezione 5,29-6,11 a precisarlo.
Come sopra
accennato, l'ampia sezione 5,29-6,11 si struttura su cinque pericopi,
che formano altrettante diatribe:
Il senso della missione di Gesù (5,29-32);
Il tempo di Gesù e quello della Chiesa (5,33-35);
Viene qui fornita la chiave di lettura dell'incompatibilità dell'insegnamento di Gesù con quello degli scribi e farisei (5,36-39) e di conseguenza le continue diatribe che caratterizzano e accompagnano la missione di Gesù, aprendogli la strada verso la croce;
Gesù, signore anche del sabato (6,1-5);
Il senso del sabato
(6,6-11).
Commento
a 5,29-39
Questa breve sezione
(5,29-39) è caratterizzata da sei detti di Gesù, di cui i primi tre
sono inquadrati all'interno di due racconti26,
mentre i restanti tre formano un'unica piccola raccolta che conclude
il cap.5. Essi pongono in evidenza il nocciolo della questione:
l'insegnamento di Gesù è incompatibile con quello delle autorità
giudaiche e in alcun modo vi può essere ricondotto. Nessuna
possibilità di conciliazione, dunque, tra le due posizioni:
innovativa e quasi irriverente l'una; rigorosamente e rigidamente
tradizionalista l'altra.
Al solo fine di
rendere più facilmente raggiungibile la struttura di questa prima
parte della sezione (vv.29-39) al nostro paziente lettore, pongo qui
di seguito la dinamica narrativa in cui questi sei detti di Gesù
sono stati dislocati da Luca:
primo e secondo detto (vv.31.32) sono inquadrati all'interno del racconto del banchetto di Levi (vv.29-32);
il terzo detto (vv.34-35) è inquadrato nel racconto della diatriba sul digiuno (vv.33-35);
i restanti tre
detti, cuore dell'intera sezione (5,29-6,11), formano una piccola
raccolta a se stante con il seguente dispiego: quarto detto: v.36;
quinto detto: vv.37-38; sesto detto: v.39.
Il senso della
missione di Gesù (vv.29-32)
La pericope è
scandita in due parti:
la descrizione della scena del banchetto indetto da Levi, affollato da pubblicani (v.29), in cui si intuisce, dall'accusa dei farisei e degli scribi, la presenza di Gesù e dei suoi discepoli (v.30). Oggetto del grande scandalo per le autorità religiose e dei benpensanti in genere è questo frammischiarsi di Gesù e dei suoi con questa gente spregevole. Questo breve raccontino costituisce la cornice entro cui sono collocati i due detti di Gesù.
La risposta di Gesù
articolata in due sentenze, da cui si evince il senso della sua
venuta e, di conseguenza, della sua missione.
Il
v.29
si apre con l'espressione “E Levi” con cui Luca dà continuità
narrativa tra la chiamata di Levi e il banchetto di festeggiamenti,
che in qualche modo costituisce l'eco e il completamento della
chiamata stessa (vv,27-28), facendo di Levi il prototipo della
chiamata al mondo dei peccatori e dei pagani, a cui questa tipologia
di peccatori, i pubblicani, era assimilata. Si tratta di un banchetto
che viene allestito nella stessa casa di Luca, anche questa nuova
metafora di una chiesa aperta a tutti indistintamente e
indipendentemente dalla loro posizione nei confronti di Dio. Un
banchetto fatto in onore a Gesù (“gli fece”), al quale Gesù era
presente con i suoi, come si evince dall'accusa delle autorità
religiose (v.30). La presenza di Gesù con i suoi dà al banchetto un
taglio nettamente messianico ed escatologico nel contempo, che meglio
apparirà al v.34 dove Gesù è lo sposo e il banchetto quello di
nozze. A questo banchetto assieme a Gesù vi era anche “una grande
folla di pubblicani e di altri”. Vi erano, pertanto, due grandi
categorie di persone: i pubblicani, appartenenti al mondo del
giudaismo; e gli altri. Con quest'ultima vaga ed anonima indicazione
Luca intende abbracciare l'intero mondo dei pagani, da cui egli
stesso proveniva. Gli “altri” che festeggiavano attorno a Gesù
certamente non potevano essere giudei ligi alla Torah, poiché la
presenza di numerosi pubblicani li avrebbe squalificati, posti
socialmente e religiosamente in cattiva luce ed esposti alle critiche
dei benpensanti (v.30), nonché li avrebbe resi ritualmente impuri.
“Gli altri”, pertanto, non possono essere che persone assimilate
ai pubblicani e a cui questi erano assimilati: i pagani. Luca usa qui
un'iperbole per definire le due tipologie di invitati: “vi era una
grande folla”. Non va trascurata questa espressione, che se presa
letteralmente, squalificherebbe Luca come un ingenuo narratore, che
manca del senso delle proporzioni. Nessuna casa palestinese poteva
contenere una grande folla di persone né, tantomeno, Levi possedeva
le ricchezze di Zaccheo (19,8), tali da poter intrattenere una simile
quantità di ospiti. Perché dunque Luca si è esposto in tal modo?
Si è detto che si tratta di un banchetto dai tratti messianici ed
escatologici dove affluisce molta gente proveniente da ogni dove e
tutti si siedono a tavola con Gesù, condividendo con lui le loro
presenze e, in qualche modo, le loro vite. Tutti si frammischiano e
si ritrovano tra loro in questo particolare banchetto. Tutti elementi
questi che richiamano da vicino diverse immagini di Isaia, che
l'autore assomma assieme, lasciandole riecheggiare sullo sfondo. È
un banchetto che evoca Is 25,6: “Preparerà
il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un
banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi
succulenti, di vini raffinati”.
Il luogo del banchetto è il monte Sion, il monte di Gerusalemme e
del suo Tempio, che Is 2,2-3 vede come il luogo dell'affluire di
tutti i popoli: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del
Signore sarà eretto sulla cima dei monti e sarà più alto dei
colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno
molti popoli e diranno: <<Venite, saliamo sul monte del
Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci indichi le sue vie
e possiamo camminare per i suoi sentieri.>>”;
mentre i cibi succulenti di questo banchetto messianico sono
costituiti dalla stessa Parola di Jhwh, che in quel tempo verrà
somministrata in abbondanza a tutti quelli che si sono seduti a
questo banchetto, accettandone l'invito (Mt 22,2-13) e che, con
sincerità di cuore l'hanno accolta nella loro vita: “O voi tutti
assetati venite all'acqua, chi non ha denaro venga ugualmente;
comprate e mangiate senza denaro e, senza spesa, vino e latte. Perché
spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro patrimonio per
ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e
gusterete cibi succulenti. Porgete l'orecchio e venite a me,
ascoltate e voi vivrete. Io stabilirò per voi un'alleanza eterna, i
favori assicurati a Davide”
(Is 55,1-3). Sono proprio queste categorie di persone, i pubblicani,
le prostitute e tutti gli altri a loro assimilati, che hanno saputo
accogliere questa parola nelle loro vite, che accederanno per primi
nel Regno dei cieli (Mt 21,31-32). Luca riprenderà questo concetto
di fondo con due parabole: quella dei due uomini che salgono al
tempio a pregare (18,10-14) e quella del figliol prodigo (15,11-32).
v.30:
a differenza di Mc 2,16 e Mt 9,11, i quali raccontano come gli scribi
e i farisei si siano rivolti direttamente ai discepoli contestando
come il loro maestro mangiasse con i pubblicani e i peccatori, Luca
rileva soltanto come scribi e farisei mormoravano non contro Gesù,
ma contro i suoi discepoli, ma senza interpellarli direttamente. E
mentre Marco e Matteo precisano che Gesù li udì e pertanto rispose
lui al posto dei suoi discepoli (Mc 2,17; Mt 9,12), Luca non dice
nulla in merito al fatto che Gesù udì le critiche degli scribi e
dei farisei, ma il terzo evangelista fa intervenire Gesù con
autorevolezza, quasi come un deus
ex machina,
con due sentenze a tacitazione delle critiche (vv.31-32); anzi Gesù
sembra quasi non esserci lì presente o quanto meno la sua presenza
non è fatta rilevare in modo netto e chiaro come in Marco e Matteo,
ma appare sullo sfondo, in modo sfumato e quasi impercettibile. Il
motivo di tale differenza tra Luca e gli altri due sinottici va
ricercata nel diverso modo di sentire degli evangelisti: Matteo sta
scrivendo a comunità formate da giudeocristiani, certamente molto
coinvolte in queste diatribe nel loro interno; Marco scrive a
comunità miste, formate sia da giudeocristiani che da etnocristiani
e, quindi, a maggior ragione, considerata la promiscuità di queste
comunità, direttamente coinvolte. Luca, contrariamente agli altri
due sinottici, sta scrivendo soltanto per comunità etnocristiane, di
origine greco-ellenistica e quindi la questione della promiscuità si
muove soltanto sullo sfondo e l'autore riporta la controversia in
modo più sfumato entro la generica cornice del “si sentono dire
anche queste mormorazioni”. L'evangelista, comunque, qui sembra più
che altro interessato a fornire agli etnocristiani una chiave di
lettura della missione di Gesù, finalizzata a superare la spinosa
questione (vv.32-33).
Il
v.30 riporta, pertanto, la reazione da parte delle autorità
religiose ad un simile banchetto blasfemo: “E i farisei e i loro
scribi mormoravano contro i suoi discepoli dicendo: <<Per che
cosa mangiate e bevete con i pubblicani e i peccatori?”. Una
mormorazione ed un'accusa che verrà riportata anche da 7,34 dove
Gesù è accusato di essere “un uomo vorace e bevitore di vino,
amico dei pubblicani e dei peccatori”. A differenza dei paralleli
di Mc 2,16 e Mt 9,11, che usano il verbo generico “dire” per
muovere l'accusa a Gesù, Luca qui si serve di un verbo molto
significativo per indicare la contestazione delle autorità, si badi
bene, non contro Gesù, bensì nei confronti dei discepoli:
“™gÒgguzon”
(egónghizon).
Un verbo che, ma solo sotto forma di sostantivo, compare 11 volte in
tutto l'A.T.27
ed esprime prevalentemente un atto di contestazione, di opposizione e
di rivolta contro Dio o ai suoi rappresentanti. Usando questo verbo
particolare l'autore sembra voler creare una sorta di parallelismo
tra il comportamento dell'Israele nel deserto e gli eredi di quel
Israele nei confronti di Gesù. Un popolo, quindi, sempre in rivolta:
allora contro Mosè ed Aronne; ora contro Gesù, ma in ultima analisi
sempre contro Dio. Luca qui accentua questo comportamento di rivolta
mettendo il verbo all'imperfetto indicativo, che dice il protrarsi
persistente nel tempo di questa mormorazione, di questa nuova quanto
antica opposizione a Dio.
L'oggetto
della mormorazione, che scandalizza gli scribi e i farisei, è il
condividere la propria mensa con pubblicani e peccatori, termine
quest'ultimo con cui ci si riferiva ai pagani (Gal 2,15). Ciò che
sta alla base di questa profonda discriminazione, che divide l'intera
umanità in due categorie di persone, i circoncisi e i non
circoncisi, è la stessa Torah, fatta di decreti e prescrizioni, che
regolamentano il rapporto dell'uomo con Jhwh. Chi non è circonciso o
chi, pur essendolo, pratica un tipo di vita e di lavoro che lo pone
di fatto fuori dalle rigide esigenze della Legge, costui è escluso
dall'Alleanza, di cui la Torah è espressione storica. Di conseguenza
queste persone sono considerate tutte impure e peccatrici, fonte di
contaminazione per i Giudei osservanti. Non era pensabile che un
Giudeo entrasse in rapporti con un non giudeo o ne frequentasse la
casa (At 10,28). Un esempio in tal senso viene da Gv 18,28 dove i
Giudei non vogliono entrare nel pretorio per non contaminarsi e
non poter così mangiare la pasqua. Similmente in At 11,2-3 dove i
circoncisi rimproverano a Pietro di essere entrato in casa di non
circoncisi, sia pur essi convertiti al cristianesimo, e di aver
mangiato con loro. Paolo in Gal 2,12 ricorda un simile episodio
occorso sempre a Pietro: “Infatti,
prima che giungessero alcuni da parte di Giacomo, egli prendeva cibo
insieme ai pagani; ma dopo la loro venuta, cominciò a evitarli e a
tenersi in disparte, per timore dei circoncisi”.
Questa profonda divisione che separava i due mondi rendendoli tra
loro inconciliabili viene testimoniata da Ef 2,13-16,
che vede nel sangue di Cristo il superamento del muro di separazione
tra pagani e Giudei: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo
eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di
Cristo. Egli
infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè
l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta
di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un
solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con
Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se
stesso l'inimicizia”.
Tutto questo sta alla base del v.30.
I
vv.31-32
sono due detti attribuiti a Gesù e posti a giustificazione di questo
comportamento che Gesù e i suoi hanno tenuto a riguardo di questa
loro promiscuità con i pubblicani e i peccatori. I due detti, da un
lato, sottendono il senso della missione di Gesù, anzi il senso
della sua stessa venuta nel mondo; dall'altro tendono a superare
questa stessa separazione e contrapposizione tra circoncisi e non
circoncisi, ormai tutti giustificati dalla venuta di Gesù.
Il
v.31 si apre con un Gesù che dice “verso di loro”. Quest'ultima
espressione è resa in greco con “prÕj
aÙtoÚj”
(pròs
autús),
in cui la particella “pròs”
contiene in se stessa un senso avversativo e, quindi, quel “verso
di loro” assume nel contesto il senso di “contro di loro”. I
due detti qui riportati sono caricati quindi anche di una valenza di
contestazione e di condanna nei confronti di queste mormorazioni e
critiche mosse dal giudaismo nei confronti dei nuovi credenti.
La
prima sentenza, quella dei sani che non abbisognano di cure mediche,
ma gli ammalati (v.31), costituisce una metafora, che viene risolta
con la seconda sentenza (v.32), a cui aggiunge anche il senso
dell'esserci di Gesù qui nella storia: “Non sono venuto a chiamare
(i) giusti, ma (i) peccatori per (la) conversione”, in cui
l'espressione “per la conversione” è resa in greco con “e„j
met£noian”
(eis
metánoian),
lasciando intuire nella particella di moto verso luogo “eis”
come la conversione sia un cammino di ritorno verso il Padre; una
sorta di riorientamento esistenziale. Concetto questo che apparirà
più evidente nella magistrale parabola del “Figliol prodigo”
(15,11-32). Una sentenza quest'ultima che costituisce, unitamente al
contesto del banchetto promiscuo promosso da Levi, una sorta di
anticipo del cap.15, che si apre ricreando il contesto dei vv.29-30 e
in qualche modo riprendendoli: “Ora, tutti i pubblicani e i
peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo. E mormoravano i
Farisei e gli scribi dicendo che costui accoglie i peccatori e mangia
con loro” (15,1-2). Un capitolo, il 15, che raccoglie tre parabole
incentrate, in una sorta di crescendo continuo, attorno allo spiccato
interesse che Dio mostra nei confronti dei peccatori, e della sua
grande gioia quando questi rientrano nella casa del Padre.
Il
tempo di Gesù e quelli della Chiesa
(vv.33-35)
Dopo l'accusa di
promiscuità con i pubblicani e i peccatori mossa a Gesù e ai suoi
discepoli da parte degli scribi e dei farisei (v.30), Mc 2,18-20 e Mt
9,14-15 creano uno stacco netto tra questo confronto e quello
successivo tra i discepoli di Giovanni e quelli di Gesù, riguardante
questa volta la questione sul digiuno; così come creano uno stacco
netto tra questa e i successivi detti di Gesù (Mc 2,21-22; Mt
9,16-17), soltanto giustapposti alla diatriba sul digiuno.
Contrariamente ai due sinottici, Luca crea, invece, un'unica
continuità narrativa logica e tematica che abbraccia l'intera
pericope 5,29-39, frammischiando in essa molti elementi comuni e
creando uno sfondo messianico entro cui poggia la pericope stessa.
Da un punto di vista narrativo, i personaggi che si muovono in
5,29-39 sono sempre gli stessi: da una parte gli scribi e i farisei;
dall'altra Gesù e i suoi discepoli. Tutti tre i racconti (vv.29-32;
33-35; 36-39) sono narrativamente legati tra loro dal
v.33 e dal successivo v.36. Da un punto di vista messianico, nei
primi due i racconti (vv.29-32; 33-35) compare il tema del banchetto
in cui è sempre presente Gesù con i suoi e a cui partecipano
pubblicani e peccatori; un banchetto che nel secondo racconto assume
la configurazione di un banchetto di nozze, dove Gesù è indicato
come lo sposo. Un'immagine quest'ultima che va a integrare quella
precedente, dando in tal modo un quadro completo di che cosa è la
chiesa: il luogo dove tutti si riuniscono attorno all'unico banchetto
messianico, dove si trova Gesù, che si fa pane che si spezza e vino
che viene versato per tutti e dove tutti, soprattutto i peccatori,
sono chiamati a parteciparvi. Una casa e un banchetto dunque aperti a
tutti, indipendentemente dalla posizione in cui ognuno si trova nei
confronti di Dio. Nei tre detti finali (vv.36-39), infine, compare
per due volte il vino, che assieme al grano e all'olio, sono il
simbolo dell'abbondanza, la cui presenza caratterizza i tempi
messianici28.
Il racconto lucano (vv.29-39) diventa pertanto più omogeneo sia narrativamente che tematicamente, mentre la polemica rimane quasi sullo sfondo e viene di molto attutita. A differenza degli altri due sinottici che creano, invece, uno scontro diretto tra i discepoli di Gesù e quelli di Giovanni, i quali in Mc 2,18 vengono polemicamente associati ai farisei, facendone un mazzo comune, lasciando in tal modo intravvedere quanto fosse caldo il fronte della chiesa palestinese, diversamente in Luca lo scontro è quasi impercettibile. Il terzo evangelista, infatti, è un greco che scrive per il mondo dei pagani, del tutto estranei, come lui, alle problematiche interne alla chiesa palestinese. Di conseguenza qui, in Luca, la controversia è di molto attenuata e il racconto di queste diatribe, tutte palestinesi, sono riportate solo per dovere, poiché l'autore qui sta seguendo il vangelo di Marco, ma cerca di smorzarne i toni, che diversamente i suoi lettori non capirebbero. Qui, pertanto, si evita il confronto diretto e la polemica che nasce intorno alla questione del digiuno con i giovanniti. All'interno del giudaismo, infatti, non vi erano soltanto le autorità religiose, scribi, farisei, anziani, che Luca chiama sommariamente dottori della Legge, ma anche i discepoli di Giovanni, che pretendevano che il loro maestro, il Battista, fosse superiore a Gesù e come questi dipendesse da lui, poiché Gesù, agli inizi della sua missione, fu discepolo di Giovanni e fece parte del gruppo battista. Assieme a loro Gesù non solo battezzava, ma probabilmente ne condivideva inizialmente anche la predicazione escatologica29. Di conseguenza erano loro la vera luce che Dio aveva mandato agli uomini e, quindi, loro gli eredi della Verità. Una pretesa questa che aveva scatenato un duro confronto con seguito di polemiche. Al riguardo del Battista l'evangelista Giovanni riconoscerà che questi era un uomo che proveniva da Dio, ma egli era soltanto un testimone della luce, che doveva venire, ma non era lui la vera luce (Gv 1,6-8). Il quarto evangelista, pertanto, inquadra correttamente la figura del Battista, lasciando intravvedere in quel “non era lui la luce, ma solo un suo testimone”, la polemica e le rivalità tra il gruppo dei giovanniti e le prime comunità credenti, che qui ritroviamo anche sulla questione del digiuno.
Commento
ai vv.33-35
Il v.33 imposta la
questione sul digiuno. Sono sempre gli stessi scribi e farisei che
oppongono in modo indiretto, a mo' di esempio, i discepoli di
Giovanni e degli stessi farisei a quelli di Gesù. Similmente a
Marco, Luca qui associa Giovanni ai farisei, ma togliendo l'asprezza
della polemica; tuttavia, nel contempo, lascia intendere come questi
appartengano entrambi al mondo veterotestamentario, quel mondo che
verrà stigmatizzato come ormai obsoleto e inconciliabile con la
nuova visione teologica portata da Gesù (vv.36-39), che sarà motivo
di continui scontri e diatribe. Si parla qui di digiuni frequenti e,
aggiunta tutta lucana, di preghiere. Quando si parla di digiuno
nell'A.T. si intende l'astensione dal cibo e dalle bevande e,
talvolta, anche dai rapporti coniugali, in genere per la durata di un
solo giorno. I motivi per cui si digiunava erano molteplici: il
digiuno era espressione di lutto o di dolore per una sventura
occorsa; era strumento con cui ci si preparava a ricevere una
rivelazione o implorare una particolare attenzione da parte di Dio
(At 13,2); un atto penitenziale e di umiliazione davanti a Dio in
occasione di sventure nazionali o per impetrare da Dio il soccorso e
la salvezza. Il digiuno, pertanto, pone l'uomo davanti a Dio in una
condizione di povertà e di totale dipendenza da Lui. Per questo
motivo spesso il digiuno era unito anche alla preghiera30.
Quanto alla Legge, questa prescriveva obbligatoriamente il digiuno
una sola volta all'anno, nel giorno dell'Espiazione31.
Col tempo si aggiunsero altri digiuni nazionali in occasione di
anniversari di grandi sventure. Individualmente, le persone pie
praticavano il digiuno due volte la settimana, il lunedì e il
giovedì (Lc 18,12), venendo questo considerato un'opera pia
meritevole, di cui ci si vantava (Mt 6,16-18;). A questa categoria
appartenevano i discepoli di Giovanni e i farisei e attorno a questo
verte la questi qui posta. Lo stesso Paolo si sottoponeva a questa
pratica (2Cor 6,5; 11,27). Una pratica che prese piede anche nella
chiesa primitiva, in cui si digiunava due volte la settimana il
mercoledì e il venerdì. Un digiuno che non di rado si poneva in
netto contrasto con il proprio modo di vivere disordinato e in
opposizione a Dio, diventando così soltanto una pratica priva di
ogni significato morale e di ogni valore spirituale. Contro questo
modo di digiunare si scaglierà il terzo Isaia, rilevando l'ipocrisia
di questo digiuno (Is 58,1-7)32.
Questo, dunque, era
il contesto entro cui si poneva la controversia sul digiuno e sulla
cui questione sono chiamati a rispondere Gesù e i suoi discepoli. Un
confronto tra un modo di pensare ed un altro; due scuole contrapposte
di pensiero, che già erano state in qualche modo preluse in 5,17,
dove Gesù e i dottori della Legge sedevano l'uno di fronte agli
altri in un insanabile confronto-scontro. La risposta di Gesù è
scandita in due momenti, che a loro volta segnano una demarcazione
tra due tempi: quello in cui è presente Gesù (v.34) e quello in cui
Gesù verrà sottratto ai suoi (v.35); un tempo questo che sarà
segnato dalla tristezza, dalla sofferenza e dal dolore, simboleggiati
nel digiuno, espressione fisica della privazione della gioia che è,
invece, simboleggiata nel banchetto. Una chiara allusione qui alla
passione e morte in quel “Ma verranno giorni […] in quei giorni”
(v.35). Saranno questi ultimi i tempi della chiesa, che
l'accompagneranno sempre lungo il cammino della storia. Due momenti,
tuttavia, solo apparentemente disgiunti tra loro e successivi l'uno
all'altro, ma, in realtà, essi coesistono all'interno della chiesa,
dove la presenza di Gesù, lo sposo, è garantita dalla sua Parola e
dal Sacramento, che è Acqua battesimale, che è Pane di Vita, che è
Spirito vivificatore. Un dramma ed una gioia quelli della chiesa che
sono metaforizzati nel racconto dei due discepoli di Emmaus
(24,13-33), che delusi, frustrati e profondamente addolorati si
stavano allontanando da quel Gesù in cui avevano tanto sperato, ma
che li ha di fatto abbandonati e in qualche modo traditi. Ma si
accorgeranno ben presto che l'assenza corporea del loro Maestro, su
cui tanto contavano, è stata sostituita dalla Parola e dal Pane. Una
nuova gioia quindi riaccende in loro le speranze, che ora sono
diventate certezze: lui ora è con loro fino alla fine dei tempi. E
pieni di gioia vanno ad annunciare la loro scoperta agli altri.
Certo, la presenza di Gesù si pone ora in un modo nuovo, ma non per
questo meno vero e meno efficace. Attorno a questa nuova presenza di
Gesù tutti indistintamente sono chiamati a sedersi a questo
banchetto di nozze, che è di festa e di gioia e che in qualche modo
era già stato preannunciato in quel banchetto, anche questo di gioia
e di festa, promosso da Levi, attorno al quale si sono seduti
pubblicani e peccatori (v.29). E lì c'era Gesù con loro a dare un
nuovo significato a quel banchetto di comunione e di festa, dove
l'uomo s'incontra con il suo Dio e in quel banchetto ne condivide la
vita. Un banchetto che è di nozze, dove Gesù è lo sposo. Una
figura insolita questa attribuita a Gesù, poiché essa veniva
solitamente riferita a Dio e indicava il tipo di rapporto che
intercorreva tra Jhwh e il suo popolo33:
Jhwh era lo sposo; Israele la sposa. Un rapporto sancito
dall'Alleanza, che si concludeva, anche questa, con un banchetto
comune o forse è meglio dire di comunione34,
dove entrambi i contraenti sedevano assieme, condividendo la stessa
mensa, lo stesso cibo, la stessa gioia, gli stessi impegni. In ultima
analisi la loro stessa vita era impegnata in quel banchetto, creando
in tal modo un inscindibile vincolo di comunione. Luca qui, definendo
Gesù come lo sposo, riproduce gli stessi criteri di rapporto che
intercorrevano tra Jhwh e il suo popolo; criteri che ora egli sposta
su Gesù e quel nuovo popolo che, chiamato nell'annuncio della Parola
e nella testimonianza dei credenti, ha scelto di sedersi a mensa con
lui, condividendo il nuovo banchetto escatologico, che è la vita
stessa di Dio, significata in quel pane e in quel vino, segno della
nuova ed eterna alleanza sancita tra Dio e il suo popolo in Cristo35.
Benché l'immagine della relazione sponsale tra Dio e Israele fosse
propria dell'A.T., tuttavia la chiesa fin dalle sue origini adottò
tale immagine riferendola al suo rapporto tra Gesù e se stessa36.
Luca, quindi, qui sta parlando dei tempi della Chiesa, segnati dalla
sofferenza per il silenzio del suo Maestro e Signore, che sembra
averla lasciata sola alla sua mercé; ma ravvivati nel contempo dalla
gioia per la sua nuova presenza nella Parola e nel Pane e dalla
promessa che egli sarà sempre con lei fino alla fine dei tempi (Mt
28,20b).
L'incompatibilità
dell'insegnamento di Gesù con quello degli scribi e farisei
(vv.36-39)
Con la pericope
vv.36-39 si è giunti al cuore della sezione riguardante le diatribe
(vv.5,29-6,11). Essa fornisce la chiave di lettura non solo delle
diatribe contenute in questa sezione, ma dell'intera contrapposizione
che caratterizzerà i rapporti tra Gesù e le autorità giudaiche e
che si concluderà tragicamente sulla croce. Si tratta di tre detti
monotematici attribuiti a Gesù: due, vv.36-38, che trovano il loro
parallelo in Mc 2,21-22 e in Mt 9,16-17, a cui Luca aggiunge un terzo
detto, v.39, tratto da materiale proprio e che suona come un duro
rimprovero al giudaismo.
L'introduzione
ai tre detti è di marca redazionale (v.36a) e crea una continuità
narrativa con le precedenti due diatribe riguardanti la promiscuità
del banchetto con pubblicani e peccatori (vv.29-32) e sulla questione
del digiuno (vv.33-35). I detti sono rivolti “verso di loro”,
cioè verso “i farisei e i loro scribi” (v.30a), in cui quel
“verso”, reso in greco con “prÕj”
(pròs)
+ accusativo, assume anche un senso di ostilità, per cui quel
“verso” indica non soltanto “rivolto a loro”, ma anche
“contro di loro”. I tre detti, pertanto, assumono il significato
di un'accusa rivolta contro il giudaismo, non solo incompatibile con
il nuovo insegnamento (vv.36-38), ma restio se non impermeabile ad
esso.
I primi due detti
(vv.36-38) stabiliscono un rapporto tra vestito nuovo e vestito
vecchio; tra vino nuovo ed otri vecchi. L'intento qui è di mettere
in rilievo come nuovo e vecchio siano tra loro decisamente
incompatibili e irriducibili l'uno all'altro. Tuttavia le prospettive
che questi due detti aprono sono ben diverse e rispecchiano in
qualche modo due tentativi di accordare la nuova fede con il
giudaismo. Il primo detto (v.36) esclude che ci possa essere un
qualche adattamento del nuovo con il vecchio; una sorta di
compromesso, tale da non rendere le due fedi così incompatibili tra
loro. Ma se ciò avvenisse, entrambe verrebbero snaturate nella loro
essenza. Insomma, ne verrebbe fuori una patacca. Il secondo detto,
invece, nega la possibilità che il nuovo venga recepito totalmente
nel vecchio, poiché entrambi si muovono su logiche diametralmente
opposte: rigida e rigorosa osservanza della Torah, creando un
complicato rapporto legalistico tra il credente e Dio (18,11-12; Mt
23) per il giudaismo; il superamento di tale soffocante legalità
religiosa, che svilisce il rapporto del credente con Dio, da parte
della nuova fede, che, invece, fonda il suo rapporto con Dio sulla
sincerità del cuore e della vita, al di là delle prescrizioni
mosaiche, che di fatto intrappolano l'uomo in una ridda di “devi o
non devi fare”, che lo rendono incapace di muoversi in piena
libertà con il suo Dio. Due prospettive che partono da due logiche
completamente diverse, anzi opposte: un rapporto fondato sulla
lettera per il giudaismo; uno fondato, invece, sullo Spirito per il
nuovo credente (Rm 7-8). Questo secondo detto, in particolare, sembra
rispondere, stigmatizzandolo, al giudeocristianesimo giudaizzante,
che in buona sostanza riteneva che la salvezza portata da Gesù si
potesse ottenere soltanto dopo essere passati attraverso le
prescrizioni mosaiche, a partire dalla circoncisione e da tutto ciò
che questa comportava: sottomissione piena alla Torah, togliendo in
tal modo ogni capacità salvifica a Cristo. La novità portata da
Gesù, che in tal modo veniva negata, non poteva in nessun modo né
accettare un qualche compromesso, né, tantomeno, accettare di
divenire soltanto una branca del giudaismo.
Il v.39, tutto lucano, sembra riportare una sorta di amaro sfogo personale di Luca, che nel suo impegno missionario ha avuto sicuramente modo di incontrarsi e scontrarsi con i giudei della diaspora: “E nessuno che beve del vecchio vuole del nuovo; infatti dice: <<il vecchio è buono>>”. Un detto da cui traspare la resistenza opponente dei giudei di fronte alla proposta del nuovo annuncio. Coloro che, infatti, bevono il vecchio vino, cioè vivono in conformità alla Torah, sono i Giudei. Questi, afferma Luca, non vogliono il vino nuovo, cioè non solo non ricercano il nuovo insegnamento, ma vi si oppongono fermamente, sostenendo la bontà del “vino vecchio”, cioè dell'insegnamento mosaico, che qui in qualche modo viene opposto alla nuova fede.
1Gesù, infatti, non è venuto a sopperire le deficienze umane con la sua onnipotenza, ma tramite i miracoli ha voluto significare sostanzialmente due cose: a) Dio è ritornato in mezzo agli uomini a riprendersi quello che è sempre stato suo fin dai primordi della creazione, per ricondurlo in sé (Lc 11,20); b) le guarigioni miracolose dicono la rigenerazione spirituale operata dalla potenza di Dio in e per mezzo di Gesù. Le malattie nei racconti evangelici sono la metafora del degrado spirituale e morale in cui si trova l'uomo decaduto. La loro guarigione racconta la rigenerazione dell'uomo alla vita stessa di Dio e la sua ricostituzione in Lui, così com'era nei primordi dell'umanità, anticipando in questo gli effetti della risurrezione, quale inizio di una nuova creazione.
2Cfr. G. Rossé, Il Vangelo d Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma 2001, III edizione, pag.169
3Cfr. Gv 9,22; 12,42; At 8,1; 9,1-2; 12,1-3; 22,3-5.
4Cfr. il commento al cap.21 della mia opera il “Vangelo secondo Giovanni”: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%2021.html
5Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, alla voce “Luogo e data di composizione”, pagg.18-21
6Cfr. Ap 19,20; 20,10.14.15; 21,8. Il termine “l…mnh” ricorre nell'A.T. soltanto cinque volte in 1Mac 11,35; 2Mac 12,16; Sal 106,35; 113,8; Ct 7,5
7Traduzione letterale da testo graco.
8Cfr. Mt 14,28-31; 28,17; Lc 24,37-38;
9Cfr. Mc 9,32; Lc 2,50; 9,45; 18,34; Gv 8,43; 12,16a; 16,12-13; 1Cor 2,14
10Lc 5,5; 8,24.45; 9,33.49; 17,13
11Cfr. anche Gen 15,1; 26,24; 46,3; Mt 17,7;28,5.10; Mc 6,50; 16,6; Lc 1,13.30; 2,10; Gv 6,19-20
12Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.32
13Sulla questione della lebbra cfr. la voce “Malattia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005
14Cfr. At 2,41-48; 6,7; 8,4; 11,1; 12,24; 13,48.49
15Cfr. Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,18.28-29; 11,1; 22,32.41.45; 23,34.46
16Cfr. Lc 10,21; 22,42; 23,34.46
17Cfr. Lc 18,1; 21,36; 22,40.46
18L'espressione “dottori della Legge” compare una sola volta ancora in 1Tm 1,7 con un'accezione negativa e una sola volta in Mt 22,35 al singolare “un dottore della Legge”
19Il tetto delle case palestinesi era costituito da travi portanti che andavano da parete a parete, coperte trasversalmente o da assi o da altri pali e poi il tutto ricoperto da paglia e fango, così da costituire una terrazza leggermente spiovente per consentire all'acqua di scorrere a terra. Dt 22,8 ricorda questa particolarità dei tetti delle case: “Quando costruirai una casa nuova, farai un parapetto intorno alla tua terrazza, per non attirare sulla tua casa la vendetta del sangue, qualora uno cada di là”. A lato delle case, poi, vi erano delle scale che consentivano di accedere al tetto-terrazzo.
20La traduzione dal testo greco di Gv 3,15-16 è personale ed è strettamente fedele al testo greco originale.
21Cfr. Mt 12,38; 16,1; 24,3; Mc 8,11; 13,4; Lc 11,16; 21,7; Gv 2,18; 6,30; 12,18;
22In realtà i discepoli di Gesù furono ben più di dodici. Lc 10,1.17 parla di “altri 72 discepoli”; Gv 6,60.66 parla di “molti discepoli”; 1Cor 15,6 quantifica in più di “cinquecento fratelli” che beneficiarono contemporaneamente dell'apparizione del Risorto. Le folle che costantemente e persistentemente seguivano Gesù non erano dei semplici curiosi occasionali, ma persone che credevano in lui e si erano poste alla sua sequela in modo anonimo. Erano queste folle che le autorità giudaiche temevano (Mc 11,32; Lc 22,2 Gv 11,47-48). Tra questi discepoli compare anche Nicodemo, citato numerose volte da Giovanni lungo tutto il suo vangelo e presentato sempre come persona favorevole a Gesù fino a contribuire personalmente alla sua sepoltura (Gv 19,39) e Giuseppe d'Arimatea (Mt 27,57; Mc 15,43; Lc 23,50-51; Gv 19,38). Assieme a queste persone che seguivano con costanza Gesù compaiono anche molte donne, che come attesta Lc 8,2-3 sostenevano Gesù e i suoi intimi con i loro beni (Mt 27,55; Lc 8,2-3; 23,27-28.49.55).
23Cfr. Mt 10,2-4; Mc 3,16-19; Lc 6,13-16.
24Il termine “pubblicano” tecnicamente era colui che riscuoteva le tasse per l'erario pubblico romano.
25Sul sistema di tassazione romano cfr. J.S, Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004. - pagg.192-202. Cfr. anche la voce “Tassazione” e “Pubblicano” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005
26Questa tecnica narrativa, denominata “sentenza inquadrata”, ha la funzione di mettere in rilievo alcuni detti attribuiti a Gesù, inserendoli dentro (inquadrandoli) ad un piccolo racconto di tipo aneddotico, dando loro un senso più compiuto e più facilmente memorizzabile dall'ascoltatore. Aspetto quest'ultimo non trascurabile, considerato che nel I sec. i libri non avevano ampia diffusione e la gente non sapeva né leggere né tantomeno scrivere e tutto si mandava a memoria attraverso l'ascolto. Chi ha scritto i vangeli ha tenuto conto di questi aspetti, usando tecniche che aiutassero gli ascoltatori a meglio capire e memorizzare. L'inclusione e i parallelismi concentrici sono altre tecniche che vanno in questo senso.
27Cfr. Es 16,7.8.9.12; Nm 17,20.25; Sap 1,10.11; Sir46,7; Is 58,9
28Cfr. Os 2,20-25; Gl 2,19; Zc 9,16-17
29Cfr. Gv 1,28; 3,22.26; 4,1.
30Cfr. Mt 17,21; Lc 2,37; At 13,3; 14,23.
31Cfr. Lv 16,29; 23,27; Nm 29,7. In questo contesto sia Levitico che Numeri definiscono il digiuno come un umiliarsi e un mortificarsi davanti a Dio.
32Sulla questine del digiuno cfr. la voce “Digiuno” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005
33Cfr. Is 62,3-5; Ger 3,1; Os 1,1-9; 2,4-6
34Cfr. Gen 18,8-12; 26,26-30; 31,51-54; Es 24,8-11; 2Sam 3,17-20
35Cfr Eb 7,22; 8,6-10
36Cfr. Mt 22,2-4; 25,1-12; Gv 3,29; 2Cor 11,2; Ef 5,21-33; Ap 18,23; 19,7; 21,2.9; 22,17