IL VANGELO SECONDO LUCA
Predicazione di Giovanni e preambolo
introduttivo alla missione di Gesù
(Lc
3,1-38)
Commento
esegetico e teologico
a
cura di Giovanni Lonardi
Note generali
Con
i primi due capitoli Luca ha illustrato i centri d'interesse del suo
racconto, fornendone al lettore la chiave di lettura. Da un lato egli
presenta le sue credenziali di storico attendibile, che si allinea
alla Tradizione per rendere solide le basi su cui fonda la fede di
Teofilo (vv.1-4); dall'altro, seguendo lo schema narrativo dei
racconti paralleli, presenta, ponendole tra loro a confronto, le
identità dei suoi due personaggi principali: Giovanni e Gesù. Lo fa
attraverso una galleria di personaggi secondari finalizzati a mettere
in rilievo le due personalità, collocandoli all'interno di un
contesto storico-geografico e topologico molto significativi, tra cui
spiccano Gerusalemme e il suo Tempio. Non è un caso, infatti, se il
racconto lucano si apre a Gerusalemme, nel Tempio, durante la
celebrazione serale dell'offerta dell'incenso e si chiude sempre a
Gerusalemme e sempre nel Tempio, dove sta emergendo e si sta
profilando un nuovo culto, fatto di Parola e di un nuovo ed unico
sacrificio, metaforizzato nella perdita e nel ritrovamento di Gesù
dopo tre giorni.
Ora,
con questo cap.3 l'autore inaugura una nuova sezione, che riguarda la
missione galilaica di Gesù, che si estende da 3,21 a 9,501.
Un capitolo costituito dal racconto dell'attività del Battista
(vv.1-20) e da un prologo all'attività di Gesù che da 3,21 si
amplia fino a 4,13. Il racconto dell'attività del Giovanni lucano è
essenzialmente predicatoria ed è incluso all'interno di due verbi
molto simili tra loro: “khrÚsswn”
(kerísson,
annunciando) al v.3 e “eÙhggel…zeto”
(euenghelízeto,
evangelizzava) al v.18. Due verbi che hanno a che fare con la prima
predicazione, il primo, e con una più diffusa predicazione il
secondo. Con il primo verbo Giovanni si qualifica come un duro
predicatore escatologico (vv.7-9); mentre con il secondo la durezza
del primo annuncio viene attenuata per lasciar spazio ad un messaggio
più morbido, in un certo qual senso, più pastorale, dai toni
catechetici (vv.10-14). Questi due verbi, pertanto, qualificano due
tipologie di predicazione che si ritrovano all'interno di questo
racconto. Il verbo “kerísson”
regge l'annuncio escatologico della pericope vv.7-9.17; il verbo
“euenghelízeto”
inerisce invece ai vv.10-14. Tutto il racconto, pertanto, è
incentrato sulla predicazione, mentre l'attività battezzatoria di
Giovanni viene lasciata sullo sfondo (vv.3.7.16), quasi
impercettibile. Significativo in tal senso è la presentazione
dell'investitura di Giovanni: su di lui si compì la Parola (v.2b). È
dunque la Parola che pervade Giovanni e si compie su di lui. È lei
la protagonista principale in Giovanni, il motore che lo muove. Di
conseguenza egli inizia la sua attività (v.3). La prevalenza
dell'attività predicatoria su quella battezzatoria riflette qui lo
spirito missionario di Luca, che ha come priorità assoluta
l'annuncio della parola. Riecheggia in questo la stessa
preoccupazione missionaria di Paolo, suo compagno di viaggi,
incentrata più che sulla somministrazione del battesimo
sull'annuncio della parola (1Cor 1,14-17). Diversamente, invece,
vanno le cose per gli altri tre evangelisti, che mettono in rilievo
l'attività battezzatoria di Giovanni, lasciando sullo sfondo quella
predicatoria2.
La
struttura del cap.3 è ben articolata e si snoda con una dinamica
narrativa molto scorrevole e avvincente:
L'attività
predicatoria di Giovanni
(vv.1-20)
il contesto storico entro cui si colloca l'investitura profetica di Giovanni (vv.1-2a);
l'investitura di Giovanni (v.2b) e la sua attività predicatoria (v.3);
lettura teologica della figura di Giovanni (vv.4-6);
la predicazione escatologica di Giovanni (vv.7-9);
la risposta alla predicazione escatologica da parte della gente (vv.10-14);
la vera identità di Giovanni: non è lui il Cristo (vv.15-18);
conclusione della sezione: Giovanni incarcerato
(vv.19-20).
Preambolo
all'attività missionaria di Gesù
(vv.3,21-4,13)
l'investitura di Gesù da parte dello Spirito e la sua identità: egli è Figlio del Padre (vv.21-22);
gli inizi dell'attività missionaria di Gesù all'età di circa trent'anni (v.23);
la genealogia di Gesù (vv.24-38), di discendenza umano-divina, in quanto non solo figlio di Giuseppe (v.23b), ma anche figlio di Dio (v.38d);
Gesù, sotto l'azione dello Spirito viene condotto nel
deserto dove dovrà compiere le sue scelte fondamentali sul come
impostare la sua attività missionaria (4,1-13).
Commento a
3,1-38
o
L'attività
predicatoria di Giovanni (vv.1-20)
Questa
sezione, riguardante la figura di Giovanni, si suddivide in quattro
parti: la prima, vv.1-6, è relativa alla cornice
storica (vv.1-2) e teologica (vv.4-6) in cui viene inserita
l'attività predicatoria di Giovanni (v.3); la seconda
(vv.7-14) racconta l'attività predicatoria di Giovanni,
sostanzialmente di due tipi: a) escatologica (vv.7-9) e b)
pastorale/catechetica (vv.10-14); la terza (vv.15-18)
mette a confronto le due identità: quella di Giovanni e quella di
Gesù; la quarta parte (vv.19-20) conclude la sezione
con l'imprigionamento di Giovanni.
La cornice storico-teolgica (vv.1-6)
Testo a
lettura facilitata
La cornice storica e religiosa
1
– Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, governando
Ponzio Pilato la Giudea ed Erode tetrarca della Galilea, inoltre
Filippo, suo fratello, tetrarca della Iturea e della regione della
Traconitide e Lisania tetrarca dell'Abilene,
2a
- sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa,
L'investitura di Giovanni da parte della Parola e la sua attività predicatoria
2b
- si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria,
nel deserto.
3
– E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea annunciando un
battesimo di conversione in remissione dei peccati,
La
cornice teologica
4
– come sta scritto nel libro (delle) parole del profeta Isaia, che
dice: “Voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del
Signore, fatte diritte le sue strade;
5
– ogni dirupo sarà riempito e ogni monte e colle sarà abbassato,
e le cose tortuose saranno in rettitudine e le asperità su
strade piane;
6
– e ogni carne vedrà la salvezza di Dio”
Con
i vv.1-6 viene
contestualizzata (vv.1-2.4-6) e definita (v.3) l'attività di
Giovanni: “E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea
annunciando un battesimo di conversione in remissione dei peccati”
(v.3). L'ultimo ricordo che Luca aveva lasciato di Giovanni era
quello di un fanciullo che “[...] cresceva e si rafforzava in
spirito, ed era nei deserti fino al giorno della sua manifestazione
presso Israele” (1,80). Ora l'autore riprende il suo racconto su
Giovanni da quest'ultima immagine e al v.2b annuncia che “si compì
(la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”.
Giovanni, pertanto, investito dalla parola di Dio e da questa
sospinto, esce dal silenzio del deserto “E venne in tutta (la)
regione intorno alla Giudea”. L'indicazione geografica è alquanto
vaga: si parla della regione intorno alla Giudea, certamente quella
che si snoda nei pressi del fiume Giordano, per consentire l'attività
battezzatoria del Battista. L'evangelista Giovanni in questo si
mostra molto più preciso e definisce in 1,28 e in 3,23 i due poli
dell'attività del Battista: Betania3,
quella posta al di là del Giordano, nel centro della regione della
Perea (v.1,28); e ad Ennon, vicino a Salim (v.3,23), entrambe
collocate a nord-ovest della Decapoli, nei pressi del confine
nord-nord-est della Samaria, disposte lungo il Giordano, dove,
ricorda Giovanni, “vi erano molte acque, e giungevano e si facevano
battezzare” (3,23b). Il tratto geografico dell'attività del
Battista doveva svolgersi, pertanto, all'incirca tra questi due poli.
Un'attività, quindi, di movimento, come suggerisce qui anche Luca:
“E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea”. L'attività
di Giovanni viene qui sinteticamente così definita: “annunciando
un battesimo di conversione in remissione dei peccati”.
Un'espressione questa mutuata da Mc 1,4b. Si tratta, quindi, in
prevalenza, di un annuncio, quello che richiama l'attività
dell'araldo, che gira per il regno per proclamare il bando regale.
Questo doveva essere essenziale, incisivo e chiaro per essere
immediatamente colto dai sudditi. Il verbo qui usato è pertanto
tecnico e si riferisce all'attività del banditore: “khrÚssw”
(kerísso).
Tale verbo verrà mutuato anche dagli evangelisti e da Paolo per
indicare la prima predicazione, quella degli eventi storici salvifici
riguardanti la persona di Gesù e in particolare la sua morte e
risurrezione. Ciò che qui Giovanni annuncia è “un battesimo di
conversione in remissione dei peccati”. Lo fa con un linguaggio
duro, immediato, essenziale che richiama la predicazione dei
profeti4;
un linguaggio escatologico che possiede in sé la forza e la durezza
di un giudizio finale, in cui viene decisa in modo inappellabile la
sorte di ogni uomo. Questo dice il verbo “khrÚssw”
che si riferisce ai vv.7-9. Si tratta di un battesimo la cui natura è
penitenziale ed è un atto pubblico di conversione in vista della
remissione dei peccati, che verrà soltanto con Gesù (At 19,4),
quello che “battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (v.16b).
Questa
attività predicatoria ha una doppia cornice: storica (vv.1-2) e
teologica (vv.4-6), finalizzate a fornire una chiave di lettura della
missione di Giovanni. L'ampia descrizione del contesto storico, con
cui Luca apre il cap.3, fornisce una dettagliata fotografia della
situazione politica e amministrativa della Palestina nel preciso
momento in cui Giovanni entra in scena. Essa, da un lato, serve a
mettere in rilievo gli eventi salvifici nel loro accadere storico,
lasciando trasparire come la salvezza passa attraverso la storia,
raggiungendo l'uomo nel suo habitat naturale e qui lo interpella,
costringendolo a prendere esistenzialmente posizione; dall'altro, dà
una continuità storica agli eventi salvifici che si sono
progressivamente succeduti, indicando nel loro accadere lo sviluppo
storico del disegno salvifico di Dio: in 1,5 si era ai tempi di Erode
il Grande (37-4 a.C.), allorché la nostra storia ha avuto inizio a
Gerusalemme, nel Tempio; in 2,1 viene annunciato un censimento
universale (8 a.C.) dei cittadini romani decretato (8 a.C.) da
Ottaviano Cesare Augusto (27a.C.-14d.C.), che contestualizza la
nascita di Gesù (6 a.C.); in 2,2 si annuncia un altro censimento in
Siria sotto il governatorato di Quirino (6 d.C.), allorché Gesù
aveva 12 anni e salì a Gerusalemme nel Tempio insieme alla sua
famiglia in occasione del suo bar mitzvah (v.2,42a); ed
infine, qui, in 3,1-2, allorché la Parola di Dio sancisce
l'investitura e la consacrazione di Giovanni a predicatore
escatologico: “Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio
Cesare, governando Ponzio Pilato la Giudea ed Erode tetrarca della
Galilea, inoltre Filippo, suo fratello, tetrarca della Iturea e della
regione della Traconitide e Lisania tetrarca dell'Abilene, sotto il
sommo sacerdote Anna e Caifa, si compì (la) parola di Dio su
Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. L'incorniciatura
storica qui è duplice: da un lato riguarda l'assetto
politico-amministrativo della Palestina (3,1); dall'altro, l'aspetto
religioso e civile della Giudea, significato nei nomi del sommo
sacerdote Anna e di suo genero Caifa (v.3,2). Il v.1 presenta la
situazione storico-politica succedutasi dopo Ottaviano Cesare
Augusto, sotto il quale nacquero Giovanni e Gesù. Alla sua morte (14
d.C.) salì sul trono imperiale Tiberio Cesare (14-37 d.C.), suo
figlio di adozione. Qui siamo al quindicesimo anno del suo impero e
quindi nel 29 d.C. Se la datazione fornitaci da Luca è esatta, come
sembra, avendo anche dei riscontri esterni, qui Gesù ha trentacinque
anni, anche se Luca al v.23 afferma che Gesù iniziò la sua missione
a trent'anni. Un'età che va presa in senso simbolico, come l'età
del vigore, come affermerà poi i Pirqei Avot5.
Una missione che durerà, seguendo le indicazioni giovannee delle tre
pasque6,
tre anni, dopo di che Gesù morirà in croce all'età di trentotto
anni. La diceria che Gesù sia morto all'età di trentatré anni,
nasce dall'erroneo calcolo dei trent'anni in cui Gesù iniziò la sua
missione, riportata qui da Lc 2,23, a cui si sono aggiunti i tre anni
delle tre pasque giovannee.
Segue
ora una galleria di personaggi che formano il quadro storico
dell'epoca entro cui viene posta l'attività di Giovanni e gli inizi
della missione di Gesù (v.23): Ponzio Pilato fu
governatore, dal 26 al 36 d.C. con il titolo di prefetto,
dell'Idumea, della Giudea e della Samaria, territori questi che
formavano la tetrarchia di Erode Archelao (4 a.C.-6 d.C.),
detronizzato da Ottaviano Augusto ed esiliato a Vienne nelle Gallie
nel 6 d.C., per eccessiva crudeltà. In questa occasione la
tetrarchia di Archelao venne ridotta a provincia romana ed affidata a
Quirino. In proposito Matteo ricorda come Giuseppe, di ritorno
dall'Egitto con la sua famiglia dopo la morte di Erode il Grande (4
a.C.), non tornò a Betlemme, in Giudea, ma si rifugiò a Nazareth,
in Galilea, avendo saputo che al padre era succeduto Archelao, che
già allora godeva di cattiva fama (Mt 2,22). Erode Antipa
governa la Galilea e la Perea (4 a.C-34 d.C.); sarà lui che farà
arrestare Giovanni, che stigmatizzava pubblicamente il suo
comportamento immorale (vv.19-20). Erode Filippo
governa (4 a.C.-34 d.C.) la regione nord-est della Palestina
che comprende la Gaulanitide, l'Iturea, la Traconitide, la Batanea e
l'Auranitide, un territorio ampio e difficile, formato da diverse
popolazioni e senza una precisa capitale. Durante il suo governo
ampliò e abbellì la città di Panea, a cui diede il nome di Cesarea
di Filippo, il luogo dove avverrà il riconoscimento di Gesù come il
Cristo da parte di Pietro (Mt 16,13; Mc 8,27). Filippo era sposato
con Erodiade, che lo abbandonò per seguire il cognato Erode Antipa,
portando con sé la figlia Salomè, tristemente nota per aver
chiesto, istigata dalla madre, la testa di Giovanni (Mt 14,3-11). Ed
infine Lisania7,
tetrarca di Abilene, la piccola regione che si distende attorno alla
città di Abila, che ne è capitale e da cui prende il nome. Abilene
era sotto l'amministrazione di Erode il Grande e, a seguito di
rivalità e litigi tra Archelao e Antipa, l'intero regno di Erode il
Grande venne diviso in quattro parti da Ottaviano Augusto. Di queste,
tre andarono ai figli di Erode il Grande: Archelao, Antipa e Filippo;
la quarta parte a Lisania. Chi era dunque questo Lisania? Perché
l'eredità di Erode il Grande venne assegnata per un quarto anche a
Lisania, sia pur questa di modeste dimensioni? Che cosa centrava
questi con Erode il Grande e la sua eredità? A questi toccò
Abilene, ma non per intero, ma soltanto una piccola parte. È da
pensare (ma è soltanto un'ipotesi) che Lisania fosse in qualche modo
strettamente imparentato con Erode il Grande, anche se è difficile
dire a quale livello di parentela si collocasse, comunque tale e
sufficiente per farlo entrare nel coacervo dell'eredità. Non avrebbe
avuto senso, infatti, che Ottaviano avesse diviso il regno di Erode
il Grande in quattro parti assegnandone tre ai figli e la quarta
parte ad un terzo sconosciuto di sua personale nomina. Considerato
che il regno era di Erode era nelle logiche che questi venisse
spartito tra i parenti primi e stretti di Erode. Se compare tra
questi anche il nome di Lisania è da pensare che questi, pur non
comparendo come figlio, certamente doveva essere un parente stretto
e, comunque, molto vicino a Erode il Grande. Per questo Ottaviano
riservò anche a lui un tetrarcato, sia pur di modeste dimensioni.
Definita
con meticolosità la situazione politica e amministrativa della
Palestina, prosegue ora con il v.2 l'accenno a quella religiosa e
civile del popolo giudaico: “sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa,
si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel
deserto”. Luca richiama qui due sommi sacerdoti che espletarono la
loro carica in periodi diversi: Anna (6-15 d.C.) e Caifa (18-36
d.C.). Luca è l'unico tra i sinottici che cita per nome i due sommi
sacerdoti Anna e Caifa. Matteo, più correttamente, cita soltanto
Caifa, il sommo sacerdote in carica all'epoca dei fatti; Marco
menziona soltanto il titolo, ma non il nome; Giovanni, invece,
parimenti a Luca, cita entrambi, ma sa distinguere sia il livello di
parentela che intercorre tra i due (18,13) che la reale titolarità
del sommo sacerdozio di quell'anno (Gv 11,49), lasciando intuire il
tipo di relazione che intercorreva tra i due (Gv 18,13.24). La
citazione di entrambi, appartenenti alla stessa famiglia, lascia
arguire come il sommo sacerdozio fosse legato a delle famiglie. Il
titolo, infatti, secondo At 4,6 e Giuseppe Flavio, veniva attribuito
non solo al sommo sacerdote in carica, ma anche ai componenti delle
famiglie sacerdotali da cui proveniva la maggioranza dei sommi
sacerdoti. Lo stesso Anna, oltre che il genero Caifa, ebbe altri
cinque figli che beneficiarono di questa carica suprema8
e la durata della loro carica dice la loro abilità politica nel
gestire i rapporti con Roma e le autorità locali, da cui dipendeva
la loro sopravvivenza9.
Il sommo sacerdozio, infatti, pur essendo una carica a vita ed
ereditaria, tuttavia, a partire dall'epoca ellenistica e poi romana,
veniva assegnato dai regnanti di turno, che si arrogavano sia la
nomina che la destituzione del sommo sacerdote in carica.
Nell'ambito
di questo complesso quadro politico-religioso Luca colloca l'evento
salvifico, introdotto dal caratteristico verbo “™gšneto”
(eghéneto).
L'accadimento che qui l'autore presenta, contrariamente alle attese,
non è la predicazione di Giovanni, bensì la sua investitura da
parte della parola di Dio: “si compì (la) parola di Dio su
Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. Devo dire che mi è
stato difficile rendere al meglio quel “eghéneto”.
Un verbo che ha una pluralità di significati, come nascere,
diventare o divenire, essere, aver luogo, manifestarsi, avvenire,
accadere, sorgere, compiersi, riuscire, provenire e simili10.
Un verbo qui importante perché dalla sua traduzione dipende il senso
dell'intera frase. Ciò che mi ha spinto verso il “compiersi”11
sono stati due elementi: a)
la traduzione della Vulgata che ha reso quel “™gšneto”
con “factum est”
(si compì, si attuò); b)
l'espressione retta dal verbo che si richiama a “Giovanni, il
figlio di Zaccaria, nel deserto”. Questo richiamo specifico rimanda
il lettore a tutto il contesto precedente dove l'angelo Gabriele
annuncia il concepimento del bambino e la sua futura missione
(1,13-17); annuncio che verrà ripreso dal cantico di Zaccaria in
1,76-79; mentre il riferimento al deserto richiama il luogo dove
Giovanni era stato lasciato in 1,80 e da dove la sua missione ora
parte. Pertanto quel “eghéneto”
dice il compiersi della parola su Giovanni; di quella parola che
racchiude in sé il progetto salvifico, che ora si sta manifestando e
attuando in Giovanni, che ora viene investito dalla Parola. Il suo
annuncio, pertanto, dice il manifestarsi in lui della Parola,
l'attuarsi del progetto salvifico. Tutta la sua predicazione è,
pertanto, conseguente a questa investitura. Il v.3, infatti, inizia
con un “kaˆ”
(kaì,
e) che lega il v.3 e seguenti al v.2b, a questo compiersi della
Parola in Giovanni, che ne diviene manifestazione e attuazione.
Se il v.3 dice il contenuto dell'attività predicatoria di Giovanni, che annuncia un battesimo di conversione in vista della remissione dei peccati, richiamandosi a 1,77, i vv.4-6 dicono in cosa consiste questa conversione, riprendendo le immagini di Is 40,3-4, rivolte al popolo d'Israele esiliato a Babilonia (597-538 a.C.), e lo aprono a tempi messianici, tempi di riscatto, di perdono e di grande consolazione, che vedranno il ritorno di Israele nella ricostituita Terra Promessa, così come già avvenne nel grande esodo, nel suo peregrinare per quarant'anni nel deserto. Ecco quindi il sollecito di Is 40,3-4 a preparare la strada del rimpatrio, a renderla piana e scorrevole per facilitare il ritorno, dopo aver ampiamente scontato con l'esilio l'infedeltà (Is 40,1-2), dando così una prospettiva concreta e imminente alla fine del lungo esilio. Nella rilettura cristiana questi versetti sono diventati una metafora della conversione: togliere ogni asperità nel proprio comportamento, nel proprio modo di vivere e di rapportarsi con Dio, per ritornare in piena comunione con Lui e con gli uomini. Solo così, conclude Is 40,5a, “si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà”, alludendo al ritorno del popolo nella Terra Promessa e alla ricostituzione di Israele nella sua identità di proprietà di Dio, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,4-5), quale manifestazione della potenza gloriosa di Jhwh. Ma qui Luca, al v.6, non termina con Is 40,5, ma con Is 52,10, riportando soltanto la parte finale del versetto: “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”, dando così una dimensione universale alla potenza salvifica di Dio. Qui Luca sostituisce l'espressione isaiana “tutti i confini della terra”, un ebraismo per dire tutte le nazioni o tutti i popoli, con un termine che assume un significato universalistico più accentuato: “e ogni carne vedrà la salvezza di Dio”. Se il riferimento primario è da intendersi all'uomo, l'espressione “ogni carne” abbraccia, in realtà, nella dimensione salvifica ogni essere vivente, passando, quindi, da una dimensione universale ad una cosmica. Paolo in Rm 8,19-21 mette in evidenza un principio di solidarietà che vede uomo e creazione vincolati ad un comune destino di perdizione12 e di riscatto: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”. Non va mai dimenticato come Luca sia stato un fedele compagno di Paolo, non è escluso quindi che ne abbia in qualche modo assimilato il pensiero, pur elaborandolo, poi, a modo proprio.
L'attività predicatoria di Giovanni (vv.7-14)
Testo a lettura facilitata
La predicazione escatologica
7
– Diceva pertanto alle folle che uscivano per essere battezzate da
lui: <<Progenie di vipere, chi vi insegnò a fuggire dall'ira
imminente?
8
– Fate dunque frutti degni della conversione e non incominciate a
dire in voi stessi: abbiamo il padre Abramo. Vi dico infatti che Dio
può far sorgere figli di Abramo da queste pietre.
9
– Ora, già anche la scure è posta alla radice degli alberi;
pertanto ogni albero che non fa un buon frutto viene tagliato e
gettato nel fuoco>>.
La
predicazione catechetica o pastorale
10
– E le folle lo interrogavano dicendo: <<Che cosa dunque
faremo?>>
11
– Ora rispondendo diceva loro: <<Chi ha due tuniche condivida
con chi non ne ha, e chi ha cose da mangiare faccia similmente>>.
12
– Ora vennero anche dei pubblicani per essere battezzati e dissero
verso di lui: <<Maestro, che cosa faremo?>>
13
– Questi disse verso di loro: <<Riscuotete niente di più di
ciò che vi è stato ordinato>>.
14
– Ora, lo interrogavano anche dei militanti dicendo: <<E noi
che cosa faremo?>>. E disse loro: <<Non estorcerete
nessuno e non opprimerete e accontentatevi delle vostre paghe>>.
vv.7-14:
in 2b Giovanni riceve l'investitura della Parola e in 3b inizia la
sua attività “annunciando”. Ora qui i vv.7-14 espongono i
contenuti della sua predicazione, che si muove su due filoni:
escatologico e profetico il primo (vv.7-9); pastorale o catechetico
il secondo (vv.10-14), che si presenta come una ripresa e una
specificazione del v.8a. Quindi i vv.10-14 vanno ricompresi
all'interno dei vv.7-9, che fungono da loro cornice introduttiva.
Il
testo dei vv.7-9 è identico a quello di Mt 3,7-10, la quale cosa fa
pensare che sia Matteo che Luca abbiano fatto ricorso alla comune
fonte Q, considerando anche che questo modo di esprimersi non fa
parte del linguaggio lucano. L'espressione “Progenie di vipere”
in Luca compare soltanto qui, mentre in Matteo compare anche in 12,34
e in 23,33. Matteo del resto vive in un contesto sociale molto
difficile di forte contrasto sia con il mondo giudaico che con quello
pagano; ben diverso da quello di Luca, che vive il nuovo annuncio in
una prospettiva universale e con le logiche proprie di un missionario
aperto a tutto e a tutti. A differenza di Matteo, Luca non ha una
comunità chiusa in se stessa da difendere dagli attacchi del
giudaismo e del paganesimo, ma soltanto un annuncio da proporre
universalmente. Una differenza che già si rileva in apertura del
discorso escatologico: Matteo si rivolge ai farisei e ai sadducei (Mt
3,7a), gli eterni avversari di sempre (Mt 23); Luca, invece, si
rivolge alle folle che uscivano per farsi battezzare. Quel uscire
delle folle dice l'apertura della gente, indipendentemente dal ceto
di appartenenza e dalla loro configurazione religiosa, giudaica o
pagana. L'atteggiamento della gente qui è positivo. L'uscire delle
folle dice la disponibilità ad uscire dai propri schemi mentali e
dalle proprie visioni di vita per accogliere favorevolmente
l'annuncio sia pur nella sua durezza. Una nota di ottimismo, quindi,
accompagna l'annuncio lucano rispetto a quello di Matteo e che trova
la sua risonanza anche in At 2,41-48.
Strutturalmente
i vv.7b-9 sono disposti parallelamente di modo che il v.7b, dove si
parla di “ira imminente”, che nel linguaggio profetico13
equivale ad un imminente giudizio divino di condanna, trovi la sua
attuazione nel v.9 dove si parla dell'esecuzione del giudizio divino:
la scure posta alla radice taglia l'albero che non dà frutti buoni,
per essere gettato poi nel fuoco. Il v.8 è posto centralmente e in
quanto tale, secondo le logiche della retorica ebraica, è il più
importante. Esso è scandito in due parti: da un lato fornisce la
chiave per sfuggire all'imminente giudizio divino: fare frutti degni
di conversione (v.8a); dall'altro, toglie ogni illusione: “non
incominciate a dire in voi stessi: abbiamo il padre Abramo. Vi dico
infatti che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”.
Presso il giudaismo vigeva la convinzione che solo per il fatto di
appartenere al popolo eletto e di avere per padre Abramo, fosse
questo motivo di salvezza. Una convinzione che diventa quasi
palpabile nel racconto giovanneo, dove l'essere figli di Abramo
costituiva un titolo di orgoglio da opporre ad ogni critica e una
sorta di salvaguardia da ogni forma di giudizio. Questa pretesa
costituirà un elemento di scontro pesante tra il Gesù giovanneo e
il mondo giudaico (Gv 8,33-59). Una convinzione molto radicata che
tranquillizzava gli animi, ma che qui Matteo e Luca distruggono
affermando “[...] che Dio può far sorgere figli di Abramo da
queste pietre”. Come dire che questo titolo non fornisce nessuna
immunità dal giudizio divino che, invece, incombe su di loro. Solo
la conversione del cuore può salvare Israele. Una simile situazione
si era verificata ai tempi del profeta Geremia (650-586 a.C.), che
puntò il dito contro le sicurezze di Israele, convinto che per il
solo fatto di possedere sulla propria terra il Tempio, fosse per lui
garanzia di salvezza dai propri nemici. Geremia distruggerà questa
sua convinzione, appellandosi, invece, ad una sua radicale
conversione. Poco mancò che venisse linciato per queste sue parole
ritenute blasfeme (Ger 7,3-10). Per questa sua insensatezza Israele
verrà travolto dalle armate babilonesi e condotto in esilio dove vi
rimarrà per circa sessantanni (597-538 a.C.). Soltanto il fare
frutti degni della conversione (v.8a) può salvare, pertanto,
dall'ira imminente e dal giudizio di condanna. Sarà questo il tema
dei vv.10-14, che riprende l'esortazione del v.8a e ne dà concreta
attuazione. Tutto si svolge intorno al “fare”. Si tratta dunque
di una conversione che interpella l'uomo a livello esistenziale ed
esige da lui una risposta concreta qui e ora. Per tre volte, infatti,
con insistenza quasi ossessiva, torna l'interrogativo: “Che cosa
dunque faremo?”. Il tono dei vv.10-14 cambia completamente: dalla
durezza dell'annuncio escatologico di un giudizio di condanna
imminente, che sta per travolgere tutti (vv.7-9), si passa ora ad un
tono catechetico-pastorale morbido, quasi materno. Gli insegnamenti
sono concreti, specifici ed hanno a che fare con la vita di tutti i
giorni, quella vita che ciascuno è chiamato a vivere secondo la
condizione esistenziale che gli è propria. Non, dunque, cose
grandiose; non digiuni o flagellazioni; non spogliazioni dei propri
beni o gesti eclatanti, ma soltanto fare bene, in modo corretto, con
fedeltà e sincerità di cuore ciò che si è chiamati ad adempiere.
Seguire, dunque, con correttezza, impegno e serietà, con attenzione
all'altro, le logiche che sono insite nella vita e nelle cose e in
cui si rispecchia la volontà di Dio, che all'interno dell'intera
creazione ha inserito leggi naturali la cui finalità è portare a
compimento la stessa creazione, così che l'antico adagio del “vivere
secondo natura” diviene espressione di massima saggezza. Tre sono
qui le categorie di persone prese in esame da Luca: le folle, i
pubblicani e i soldati14.
La prima categoria, per la sua genericità, dà un tono di
universalità all'appello alla conversione, mentre le due categorie
seguenti appartengono a quelli che hanno una certa autorità sulla
gente e fanno pesare su di essa la loro funzione. Due sono gli
appelli di fondo per queste categorie: per tutti ci deve essere
attenzione all'altro, che deve tradursi in condivisione dei propri
beni e tutto deve svolgersi all'interno dei parametri della
correttezza e della giustizia, evitando angherie e soprusi, abusando
della propria posizione.
Due
identità a confronto
(vv.15-18)
Testo
15
– Ora, mentre il popolo era in attesa e mentre tutti ponderavano
nei loro cuori su Giovanni, se non fosse lui il Cristo,
16
– Giovanni rispose a tutti dicendo: <<Io vi battezzo con
acqua; ma viene il più forte di me, di cui non sono degno di
sciogliere il legaccio dei suoi calzari; egli vi battezzerà in
Spirito Santo e fuoco;
17
– il cui ventilabro nella sua mano per purificare la sua aia e
raccogliere il grano nel suo deposito, ma brucia la pula con fuoco
inestinguibile>>.
18
– Pertanto esortando molte ed altre cose evangelizzava il popolo.
I
vv.15-18
sono finalizzati a mettere in evidenza due identità: quella di
Giovanni e quella di Gesù. Un confronto che è presente in tutta la
tradizione evangelica ed è finalizzato a fare chiarezza tra i due
personaggi, sovente posti in concorrenza tra loro dai rispettivi
discepoli. Una rivalità che ha una sua motivazione, che solo
l'evangelista Giovanni riporta come sua testimonianza storica,
sottesa da un lieve filo polemico. Già nel suo prologo (Gv 1,1-18)
riconosce che Giovanni era un uomo mandato da Dio per dare
testimonianza alla luce (v.7), ma precisa subito che non era lui la
luce (v.8). Una stoccata per i battisti che ritenevano il loro
maestro superiore a Gesù, perché Gesù fu discepolo di Giovanni e
questo lo poneva in una posizione di dipendenza dal loro maestro.
Proprio per questo l'evangelista Giovanni si correggerà in 4,2
precisando che non era Gesù a battezzare, bensì i suoi discepoli.
Gesù, infatti, faceva parte, agli inizi della sua missione, della
setta dei battisti e battezzava insieme a Giovanni (Gv 3,22-23). La
sua stessa predicazione inizialmente risentiva di quella giovannita,
se ne ha una traccia in Mc 1,15, dove, subito dopo l'arresto di
Giovanni, Gesù dà inizio alla sua predicazione annunciando che “Il
tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete
al vangelo”.
Il maggior successo di Gesù, che attorno a sé già raccoglieva dei
discepoli (Gv 3,22; 4,1), causò una certa rivalità tra questi e i
discepoli di Giovanni (Gv 3,25-26). E Gesù, per non alimentare le
polemiche, lascerà la setta e con i suoi discepoli dalla Giudea si
dirige verso la Galilea (Gv 4,1-3), da dove darà inizio alla sua
missione in modo indipendente, anche se questa rivalità verrà
rilevata più volte nei vangeli (Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33; 11,1) e
dei giovanniti se troverà traccia fino al V sec.
I
vv.15.18 formano inclusione tra loro, data dal termine “popolo”
che si ripete in entrambi, delimitando l'unità narrativa in esame.
Essi fungono da cornice ai versetti centrali 16-17, il cuore di
questa pericope, dove vengono messe a confronto le identità dei due
personaggi, Gesù e Giovanni, attraverso una breve riflessione sulla
diversa natura dei loro rispettivi battesimi. Benché nella dinamica
narrativa il v.15 funga da introduzione alla questione ed è di
chiara marca redazionale, finalizzato ad accentrare l'attenzione del
lettore sulle due figure di seguito poste a confronto (vv.16-17),
tuttavia esso contiene due elementi importanti che si agganciano bene
con il v.18, sottolineando l'atteggiamento corretto di fronte
all'annuncio della parola espressa dal verbo “evangelizzava” del
v.18: “il popolo era in attesa” e “tutti ponderavano nei loro
cuori”. Atteggiamento di attesa, che dice la tensione spirituale
verso un evento importante e che spinge a riflettere nel proprio
cuore. Evento che il v.18 rivela essere l'annuncio: “esortando
molte ed altre cose evangelizzava il popolo”. Un'espressione quella
del “ponderare nei loro cuori” caratteristica di Luca e che
l'evangelista già aveva riferita per due volte a Maria (2,19.51b),
definendone l'atteggiamento nei confronti del Mistero nel suo
disvelarsi. Luca qui sta esortando il suo lettore a tenere il
corretto atteggiamento di fronte all'annuncio, che è per sua natura
disvelamento del Mistero di Dio. L'autore non è nuovo a queste
esortazioni che riprende anche in 8,15, dove il suo Gesù spiega la
parabola del seminatore e della semente che cade nei diversi terreni:
“Quello nella buona terra, questi sono quelli che, avendo
ascoltato, trattengono con persistenza la parola in un cuore virtuoso
e buono e portano frutto”. Ecco, dunque, il giusto atteggiamento di
fronte all'annuncio: trattenere con persistenza la parola in un buon
cuore disponibile ad accoglierla. È questo il senso del “conservare
e del ponderare nel proprio cuore”. La questione che qui viene
posta e che costituirà motivo di rivelazione è l'identità di
Giovanni: “se non fosse lui il Cristo”, cioè il Messia atteso da
Israele. La risposta è contenuta nei vv.16.17. Il v.16 pone in
diretto confronto, da un lato, Giovanni con Gesù; dall'altro due
diverse tipologie di battesimi. Gesù è presentato come “il
più forte” di me. Quel articolo determinativo posto davanti
all'attributo “più forte” (Ð
„scurÒterÒj,
o
ischiróterós)
lascia intravvedere come questo “più forte” non sia soltanto un
semplice confronto tra due uomini, ma in qualche modo da questo
confronto traluce una luce divina. Il titolo de “il più Forte”,
infatti, è riconosciuto nell'A.T. a Dio15
e Dt 10,16-18 contestualizza questo titolo nell'ambito di
un'esortazione alla conversione, i cui termini sono dettati dal v.18
e che in qualche modo riproduce lo schema di Lc
8a.10-14.16:
“Circoncidete
dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra
cervice; perché
il Signore vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il
Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta
regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e
gli dà pane e vestito”. Se, dunque, Gesù è definito “il più
Forte” ora Luca quantifica la distanza che intercorre tra Giovanni
e colui che è “il più Forte”, commisurandola con
l'espressione: “non
sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi calzari”.
Un lavoro da schiavi. Ebbene la distanza è tale che, a confronto de
“il più Forte”, Giovanni non è neppure degno di essere
qualificato come schiavo, che nell'antichità era considerato
sostanzialmente un oggetto di cui ci si poteva sbarazzare in
qualsiasi momento, senza necessità di giustificarsi. Da questo
confronto Giovanni ne esce come meno di un nulla16.
Questa è la distanza che separa Giovanni da Gesù, colui che è “il
più Forte”.
Gli
effetti di questo incommensurabile divario tra i due sono significati
dal confronto tra le modalità dei due battesimi: “Io
vi battezzo con acqua […] egli vi battezzerà in Spirito Santo e
fuoco”.
Due espressioni tra loro contrapposte non soltanto come significato,
ma anche nella stessa costruzione del v.16, che è aperto e chiuso da
queste, mentre nel mezzo viene indicato il divario che separa i due
battesimi. Se la debolezza del battesimo di Giovanni è espressa
nella distanza che intercorre tra il suo somministratore e “il più
Forte che viene”, il battesimo di quest'ultimo è espresso con due
elementi significativi: “egli
vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”.
Un'espressione quest'ultima che può essere letta come endiadi: lo
Spirito Santo che è fuoco. E ciò non stonerebbe, poiché il fuoco
nel linguaggio biblico, qualora sia riferito a Dio, ne esprime la sua
possente e onnipotente natura (Es 19,18; 24,17) e ha a che fare con
la sua presenza. Dio appare a Mosè sul monte Oreb sotto forma di
fuoco che non brucia (Es 3,2) e guida il suo popolo nel deserto sotto
forma di una colonna di fuoco che lo illumina e lo protegge dai suoi
nemici (Es 13,21b) e sempre come nube di fuoco sosta sulla sua Dimora
nel deserto (Nm 9,16). La sua parola esce dal fuoco ed è fuoco
bruciante (Dt 4,33.36; 5,24; Ger 20,9; 23,29). Un fuoco che esprime
anche sia l'ira che la giustizia di Dio contro le infedeltà e i
nemici del suo popolo17.
Questo fuoco è accostato allo Spirito Santo e, letto come endiadi, è
lo Spirito Santo ed esprime la forza della sua natura dirompente, ma
nel contempo esso si colloca in mezzo agli uomini come azione di
giudizio divino. Si noti l'uso dei tempi che Luca fa del verbo
battezzare: il battesimo di acqua è retto dal presente indicativo e
dice lo stato attuale delle cose; un battesimo di penitenza e di
preparazione in vista di un altro battesimo, ma in se stesso privo di
ogni forza vitale e rigenerante. Un battesimo, quindi, ancora
imperfetto (At 19,1-7), così come lo era la Legge, incapace di
salvare l'uomo, anzi condannandolo nella sua fragilità (Rm 7) e
simboleggiata nelle sei idre piene d'acqua nel racconto delle nozze
di Cana (Gv 2,1-11), in attesa di essere trasformate nel vino della
rivelazione salvifica e del vero culto a Jhwh, che parte dal cuore e
dalla vita18.
Per contro, il battesimo di Spirito Santo e fuoco è retto dal verbo
al futuro, poiché riguarda i tempi successivi a Giovanni, inaugurati
da “il più Forte” di lui e che ha il suo fulcro nella morte,
dove avvenne la prima emissione dello Spirito Santo (Gv 19,30), e
nella sua risurrezione, dove la potenza dello Spirito ha costituito
Gesù Figlio di Dio (Rm 1,4) e da cui venne, poi, erogato a tutti i
credenti (Gv 7,38-39; 20,22).
Il
v.17, agganciandosi al termine “fuoco”, con cui si chiude il
v.16, ne specifica il significato. Il fuoco non simboleggia soltanto
la natura di Dio, ma manifesta anche il giudizio divino che viene
posto sugli uomini. Ecco, pertanto, che “il più Forte che viene”
ha il “ventilabro
nella sua mano per purificare la sua aia e raccogliere il grano nel
suo deposito, ma brucia la pula con fuoco inestinguibile”.
L'immagine qui è mutuata dal mondo agricolo: il contadino dopo la
mietitura ammassava il grano sull'aia, posta in genere in un luogo
ventoso, e qui con il ventilabro, una specie di pala in legno,
gettava in alto il grano, mentre il vento, un'altra immagine dello
Spirito, espresso in greco con il termine “pneàma”
(pneûma)
che significa sia vento che spirito, libera il grano dalle sue
scorie, che vengono poi raccolte e gettate nel fuoco a bruciare. Se,
pertanto, l'essere battezzati, cioè immersi nello Spirito, significa
essere resi partecipi della stessa vita divina; per contro, il suo
rifiuto comporta una inevitabile condanna.
Giovanni incarcerato (vv.19-20)
Testo
19
– Ora, Erode il tetrarca, biasimato da lui circa Erodiade, moglie
di suo fratello, e circa tutte le cose malvagie che fece Erode,
20 – commise anche questo su tutte (le malvagità) e
rinchiuse Giovanni in carcere.
Luca
chiude il ciclo su Giovanni Battista con la sua incarcerazione da
parte di Erode Antipa, liberando la scena da questa figura
ingombrante per accentrare ora l'intera attenzione su Gesù, il vero
protagonista del suo racconto, benché la figura del Battista
continuerà ad essere rievocata in varie circostanze lungo l'intero
racconto evangelico19.
Con l'incarcerazione di Giovanni si chiude il ciclo
veterotestamentario, fatto di attese e popolato di profeti, di cui
Giovanni è l'ultimo; mentre con Gesù se ne apre un altro, quello
dell'annuncio del Regno e della Rivelazione, che segna un diretto
intervento di Dio nella storia degli uomini (1Gv 1-4).
L'incarcerazione di Giovanni, pertanto, definisce una netta linea di
demarcazione tra i due Testamenti: il tempo della preparazione e
delle attese e quello del suo compimento (Mt 5,17). Una demarcazione
che ricorderà lo stesso Luca: “La Legge e i Profeti fino a
Giovanni; da allora il regno di Dio è annunciato e ognuno si sforza
per esso” (16,16). L'autore qui non si sofferma sulle circostanze
della tragica fine di questo grande personaggio, a cui, invece, Mc
6,14-29 e Mt 14,1-12 dedicano un'ampia pericope. Tuttavia ne farà un
brevissimo accenno in 9,9. Nel chiudere il ciclo su Giovanni Luca
ricorda ancora la grandezza di questo personaggio, che non teme di
denunciare pubblicamente e duramente i crimini di Erode Antipa, non
da ultimo quello di essersi unito con Erodiade, la moglie di suo
fratello Filippo. Un personaggio, dunque, duro e inflessibile, che
non scende a compromessi con il potere e ben lontano dai servilismi
di corte. Gesù ne tesserà un elogio pubblico in 7,24-28.
Preambolo
all'attività missionaria di Gesù (vv.3,21-4,13)
Testo a
lettura facilitata
La
preghiera quale premessa e contesto della rivelazione
21
– Ora avvenne (che) nel mentre che tutto quanto il popolo era
battezzato e battezzato Gesù e mentre stava pregando il cielo fu
aperto
L'investitura
di Gesù e il suo riconoscimento quale Figlio del Padre
22
- e scese su di lui lo Spirito Santo con aspetto corporeo come di
colomba, ed avvenne una voce dal cielo: <<Tu sei il figlio mio
amato, in te mi compiacqui>>.
L'inizio
dell'attività di Gesù e la presentazione della sua discendenza umana
23
– Ed egli era Gesù, che incominciava (la sua missione) a circa
trent'anni, essendo figlio, come si credeva, di Giuseppe di Eli,
24
– di Mattat, di Levi, di Melchi, di Iannai, di Giuseppe,
25
- di Mattatia, di Amos, di Naum, di Esli, di Naggai
26
– di Maat, di Mattatia, di Semein, di Iosech, di Ioda,
27
– di Ionan, di Resa, di Zorobabel, di Salatiel, di Neri,
28
– di Melchi, di Addi, di Kosam, di Elmadam, di Er,
29
– di Gesù, di Eliezer, di Iorim, di Mattat, di Levi,
30
– di Simeone, di Giuda, di Giuseppe, di Ionam, di Eliacim,
31
– di Melea, di Menna, di Mattata, di Natam, di Davide,
32
– di Iesse, di Obed, di Boos, di Sala, di Naasson,
33
– di Aminadab, di Admin, di Arni, di Esrom, di Fares, di Giuda,
34
– di Giacobbe, di isacco, di Abramo, di Tara, di Nachor,
35
– di Seruch, di Ragau, di Falec, di Eber, di Sala,
36
– di Cainam, di Arfaxad, di Sem, di Noè, di Lamech,
37
– di Matusala, di Enoch, di Iaret, di Maleleel, di Cainam,
38
– di Enos, di Set, di Adamo, di Dio.
Con
il v.21 si apre un nuovo ciclo, quello su Gesù, che inizia con un
preambolo alla sua attività missionaria, scandito in tre momenti
fondamentali:
l'investitura di Gesù per mezzo dello Spirito Santo e il suo riconoscimento quale Figlio del Padre, che, da un lato, rivela la sua natura divina; dall'altro lo correda della stessa autorità e della stessa potenza di Dio nell'espletare la sua missione (vv.21-22);
Gesù viene corredato anche di una identità umana attraverso una lunga genealogia, che lo radica nella storia di Israele, che è essenzialmente storia della salvezza, da cui emergono, in forma ascendente, nomi importanti come Davide, Abramo, Adamo e Dio, che ne formano i capisaldi (vv.23-38);
il preambolo prosegue con il racconto delle tentazioni
nel deserto, dove Gesù è chiamato a compiere delle scelte
fondamentali su come impostare la sua missione e le priorità da
assegnarle prima di iniziarla (4,1-13).
Il
nuovo ciclo viene introdotto dal verbo caratteristico di Luca
“'Egšneto”
(eghéneto),
che segna l'accadere di un evento significativo che ha a che fare con
il compiersi della salvezza. Un verbo importante che qui regge ben
sei eventi concentrati nei vv.21-22. Esso enuncia l'accadere del
battesimo del popolo, quello di Gesù, il pregare di Gesù, l'aprirsi
del cielo, la discesa dello Spirito Santo su Gesù, la voce dal cielo
che ne rivela la filiazione divina. Una concatenazione di eventi che
creano nel loro insieme un contesto escatologico e apocalittico in
cui viene collocato Gesù e la sua missione, fornendo in tal modo la
chiave di lettura della sua persona e del suo operare. La venuta di
Gesù e l'inizio della sua missione aprono, pertanto, i tempi
escatologici, segnati dall'azione dello Spirito; e quelli
apocalittici, caratterizzati dalla rivelazione del progetto salvifico
di Dio a favore dell'umanità e con essa dell'intera creazione. Il
Gesù giovanneo sintetizzerà questi due aspetti affermando che la
venuta dello Spirito porterà alla pienezza della rivelazione (Gv
16,12-14), poiché la sua azione completerà la rivelazione iniziata
con e in Gesù, così che tempi escatologici ed apocalittici
coincidono.
Il
racconto lucano del battesimo di Gesù riproduce sostanzialmente
quello di Marco (1,9-11), ma Luca apporta le necessarie modifiche che
lo adattino alla sua visione universale e missionaria: mentre Marco
incentra l'attenzione solo su Gesù, che viene da Nazareth di Galilea
e si fa battezzare da Giovanni, Luca colloca il battesimo di Gesù
nello scenario più ampio del popolo: “tutto quanto il popolo era
battezzato e battezzato Gesù”. Gesù, dunque, nei suoi inizi
partecipa al movimento penitenziale di Giovanni e lo fa all'interno
del popolo e con il popolo, quasi ad esprimergli la sua solidarietà.
La figura di Giovanni, tuttavia, qui nel racconto lucano del
battesimo è scomparsa, poiché per Luca il ciclo di Giovanni è già
concluso con la sua incarcerazione (v.20), lasciando quindi qui nel
racconto del battesimo tutto lo spazio a Gesù. Una nota tutta lucana
è legare, poi, l'apertura del cielo non mentre Gesù esce
dall'acqua, come in Mt 3,16 e Mc 1,10, ma “mentre Gesù stava
pregando”. Le prospettive sono completamente diverse: mentre per
Marco e Matteo l'apertura del cielo e la discesa dello Spirito Santo
nonché la teofania avvengono immediatamente dopo il battesimo, che
nel gergo delle primitive comunità credenti era definito come
l'illuminazione e i battezzati gli illuminati; per Luca il dono dello
Spirito e la rivelazione sono strettamente legati alla preghiera. Lo
ricorderà anche in 11,13: “Se
dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri
figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a
coloro che glielo chiedono!”
e in At 4,31: “Quando
ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò
e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio
con franchezza”.
E così similmente anche per la rivelazione: “E nel mentre che egli
stava pregando, l'aspetto del suo volto divenne diverso e la sua
veste lucente lampeggiante” (9,29). Nei tempi
escatologico-apocalittici, quindi, per Luca rileva non tanto l'essere
battezzati, ma la preghiera, intesa come particolare momento di
rapporto con Dio. Una preghiera che funge da canale di comunicazione
e di comunione con Dio, sostenuta dallo Spirito. È qui che avviene
l'azione dello Spirito, che mette in comunione il credente con Dio e
lo apre ai suoi Misteri, a quella Verità tutta intera, che il Gesù
giovanneo aveva preannunciato come azione qualificante dello Spirito
(Gv 16,13). E Paolo, proprio in merito a questa azione dello Spirito,
che sostiene il rapporto del credente con Dio nella sua preghiera
attesta: “Allo
stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza,
perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo
Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti
inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri
dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i
disegni di Dio”
(Rm 8,26-27).
Uno
Spirito Santo che tutti gli evangelisti descrivono con riferimento
alla colomba, ma mentre Matteo, Marco e Giovanni riferiscono lo
scendere dello Spirito su Gesù come quello di una colomba, Luca
soltanto precisa che lo Spirito aveva forma corporea di una colomba.
Il motivo va ricercato nelle diverse platee a cui i vangeli sono
indirizzati: per i primi tre esse sono costituite da comunità
giudeo-cristiane o comunque, come quella marciana, miste; queste non
ammettevano la corporeizzazione della divinità (Es 20,420);
contrariamente per i greci, a cui è destinato il vangelo lucano, che
invece non concepiscono una divinità come puro spirito e priva di
una qualsiasi forma corporea. Il richiamo, comunque, alla colomba per
tutti quattro gli evangelisti è alquanto singolare, poiché in
nessuna parte della Bibbia Dio viene riferito alla colomba o a
qualche altro volatile. Soltanto in Dt 32,11 Dio paragona il suo
comportamento verso Israele come a quello di un'aquila: “Come
un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli
spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali”.
La scelta della colomba probabilmente nasce da due immagini bibliche:
da Gen 1,2c in cui si dice che “
lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”;
e nel racconto del diluvio universale, dove si narra che Noè liberò
una colomba per verificare se la terra fosse ancora coperta dalle
acque (Gen 8,8-12). In entrambi i casi l'aleggiare e l'immagine della
colomba noatica hanno a che fare con l'acqua, così come lo Spirito
ha a che fare con le acque battesimali, quelle del Giordano.
Se
il v.21 con l'aprirsi del cielo, forma da cornice apocalittica entro
cui vengono collocati gli eventi del v.22, questo presenta
l'investitura pubblica di Gesù, un sorta di unzione profetica nello
Spirito, fornendogli tutta l'autorità e il potere divini, di cui è
rivestito non solo per mandato, ma anche per sua natura. Gesù
ricorderà questo momento in 4,18-19 citando Is 61,1-2. Luca, come
gli altri evangelisti, forniscono qui la chiave di lettura non solo
della persona di Gesù, ma anche della sua stessa missione: Gesù non
opera per conto proprio, ma in forma trinitaria. Vi è infatti qui la
presenza sia del Padre, sotto forma di voce, che riconosce in Gesù
suo Figlio: “Tu sei il figlio mio amato, in te mi compiacqui”.
Parole queste che richiamano da vicino il primo cantico del servo di
Jhwh (Is 42,1-4): “Ecco
il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho
posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle
nazioni” (Is
42,1); vi è dunque lo Spirito Santo che scende su Gesù e vi rimane
(Gv 1,32-33); e infine, vi è Gesù stesso, il Figlio del Padre.
Padre e Spirito Santo, pertanto, operano in e con Gesù, che è
azione del Padre, lo spazio storico dove il Padre opera con la
potenza del suo Spirito (Lc 11,20). L'intera missione di Gesù
acquista pertanto una valenza marcatamente trinitaria.
Se
con i vv.21-22 Gesù è stato fornito della sua identità di uomo
proveniente da Dio, anzi da Lui stesso generato (1,35; 3,22b) e
rivestito della sua stessa autorità con la potenza dello Spirito
Santo (3,22a; 11,20), con i vv.23-38 Gesù è dotato anche di una
identità storica e umana, contestualizzata all'interno della stessa
storia di Israele. Gesù dunque se da un lato è vero Dio ed opera
con la sua stessa potenza, dall'altro egli è anche un uomo
autentico, che ha una sua storia ed è radicato sia in quella più
ampia di Israele che in quella universale posta in capo ad Adamo.
Luca
esordisce in questa seconda parte del preambolo (vv.23-38)
all'attività missionaria di Gesù, affermando: “Ed egli era Gesù,
che incominciava (la sua missione) a circa trent'anni, essendo
figlio, come si credeva, di Giuseppe di Eli” (v.23). Il v.23 si
apre con un'espressione rilevante, poiché coniuga la natura divina
di Gesù con quella umana: “Ed egli era Gesù”. Questa
espressione si aggancia al v.22 rimarcando che quel tale che è stato
rivestito di Spirito Santo e dichiarato Figlio del Padre e, quindi,
da lui generato, questo tale è proprio lui: Gesù, di cui adesso si
fornisce l'identità umana (vv.23b-38). Chi opera in questa missione,
pertanto, non è un semplice profeta inviato da Dio, ma egli stesso è
uomo-Dio, cioè un Dio che opera in sembianze umane o, viceversa, un
uomo che opera da Dio, poiché lo è, e, quindi, agisce con la sua
stessa potenza ed autorità.
Gli
inizi dell'attività di Gesù viene posta da Luca all'età di
trent'anni. Un elemento in più che circostanzia l'umanità e la
storicità di questo Gesù e che dice il suo inizio qui nella storia
in quanto vero uomo. L'età di Gesù, qui menzionata, è meramente
simbolica ed ha riferimenti biblici. Essa si richiama all'età del
vigore, l'età in cui si genera figli (Gen 11,14.18.22); l'età in
cui Giuseppe viene nominato viceré d'Egitto (Gen 41,46); in cui si
inizia il servizio militare permanente (Nm 4,3); in cui Saul e Davide
incominciarono a regnare su Israele (1Sam 13,1; 2Sam 5,4); in cui i
leviti prendevano servizio (1Cr 23,3). In realtà Gesù inizia la sua
attività all'età di trentacinque anni e morirà in croce a
trentotto anni21.
La sua attività, quindi, inizia nella pienezza del suo vigore, il
punto più elevato di quella crescita senza posa, di cui l'autore ci
ha già resi edotti in 2,40.52: “Ora, il bambino cresceva e si
fortificava, riempito di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui
[…] E Gesù progrediva (nella) sapienza e (in) età e grazia presso
Dio e gli uomini”.
La
sua capacità giuridica di predicare e di insegnare e, quindi, di
divenire rabbi gli viene fornita ora dall'ampia genealogia che lo
radica profondamente nella storia e nella Tradizione di Israele; una
sorta di carta di identità che lo abilita alla missione presso
Israele: “essendo figlio di”. Da qui segue una lista di
settantasette nomi, che percorrono tutta la storia della salvezza a
ritroso, passando attraverso i capisaldi della promessa e degli
eventi più significativi, che tali nomi richiamano: Davide ed
Abramo, che legano Gesù alla promessa e ne fanno il punto di
confluenza e di piena realizzazione (Mt 5,17); poi, ancora, Adamo e
Dio da cui Gesù, a loro legato per figliolanza e discendenza, riceve
un'investitura di universalità. In tal modo la missione di Gesù non
va compresa come un affare privato tra Dio ed Israele, ma essa è
aperta a tutti gli uomini di buona volontà (2,14b).
Quel
“essendo figlio di” con cui inizia la genealogia, crea qui
inclusione con l'ultimo nome della stessa: Dio. Gesù, dunque, inizia
la sua attività missionaria “essendo figlio di […] Dio”. Gesù,
pertanto, viene dichiarato con questa genealogia di discendenza
umana, che si radica in Adamo, ma nel contempo anche di discendenza
divina, poiché rimanda la sua figliolanza a Dio stesso. Egli,
pertanto, riassume in se stesso l'intera storia della salvezza e
realizza in sé le promesse e le alleanze da cui essa è sorretta e
animata. Egli è lo spazio storico dell'agire salvifico del Padre;
egli è azione e parola del Padre. Questa lunga lista di nomi,
pertanto, crea una sorta di ponte diretto che lega il presente
momento storico di Gesù con l'eternità stessa di Dio, che fin
dall'eternità ha progettato questo piano salvifico che ora si attua
nel suo Cristo. Viene qui richiamato in qualche modo Ef 1,4-6: “In
lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e
immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci
a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il
beneplacito della sua volontà”.
La
discendenza umana di Gesù inizia con chi gli è più vicino e più
diretto: Giuseppe, che Luca, con nota sua redazionale, precisa “come
si credeva” e che richiamerà in 4,22, in cui la gente attribuirà
la paternità di Gesù a Giuseppe.
Non
vale qui la pena di scervellarsi per far quadrare i conti di questa
genealogia, cercando di farla collimare con quella matteana (1,1-16).
Non c'è niente che quadra, neppure il nome del padre di Giuseppe,
che Matteo presenta come Giacobbe, mentre Luca afferma che è Eli.
Sono genealogie che non hanno valore legale, ma soltanto creano
titolo di appartenenza. Una sorta di carta d'identità, che serviva
soltanto per dire che quel tale lì apparteneva ad Israele per
discendenza e che, pertanto, era figlio dell'Alleanza ed erede della
promessa. Nel mondo ebraico la genealogia dava, quindi, da un lato,
la certezza dell'appartenenza al popolo di elezione; dall'altro,
definiva la linea di discendenza familiare e tribale, individuando la
posizione di ogni singolo ebreo all'interno della sua comunità; e
certamente l'uso delle genealogia doveva imperversare anche ai tempi
di Matteo e di Luca se l'autore della prima lettera a Timoteo,
composta tra 63-67 per alcuni o intorno agli anni 80 per altri, si
sente in dovere di sollecitare Timoteo ad invitare alcuni “a non
badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a
vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede” (1Tm
1,4). Nel mondo veterotestamentario l'uso delle geneaologie era
invalso prevalentemente al tempo di Neemia ed Esdra (V sec. a.C.), al
rientro dall'esilio babilonese, durato dal 597, epoca della prima
deportazione, al 538 a.C. Durante questo sessantennio il popolo
ebraico esiliato si era integrato con il tessuto sociale e culturale
dei babilonesi, sposandosi tra di loro; e così pure la parte di
popolo che, invece, rimase in patria, si imparentò e si integrò con
i popoli limitrofi, assumendone la cultura e i culti loro propri,
inquinando il vero culto di Jhwh. Un grande guazzabuglio, quindi, che
rischiò di cancellare per sempre il popolo di Israele. Neemia ed
Esdra, proprio tramite la genealogia, che ogni ebreo doveva saper
dimostrare, per essere identificato come tale e riprendere il suo
posto all'interno della comunità (Esd 2,59.62; Ne 7,61),
ricostruirono l'identità di Israele.
Termina
qui il secondo preambolo all'attività missionaria di Gesù. Il terzo
preambolo occuperà i primi 13 versetti del cap.4 e porrà Gesù di
fronte a delle prove che lo spingono a confrontarsi con se stesso e
con la missione affidatagli dal Padre, operando in tal modo delle
scelte sul come svolgere la sua missione. Prevarrà in Gesù la
scelta che fu del Servo sofferente di Jhwh, che verrà richiamata in
9,51, all'inizio del suo lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme.
N O T E
1Per un dettaglio su questa sezione e sull'attività galilaica di Gesù cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 24-25
2In tal senso cfr. Mt 3,6-7.11.13-14; Mc 1,4-5.8-9; Gv 1,25-26.28.31.33; 3,22-23.26; 4,1-2; 10,40
3La Betania qui indicata da Gv 1,28 non è quella più nota, legata agli ultimi giorni giorni di Gesù prima della sua passione e morte, che si trova nei pressi di Gerusalemme e dove Gesù pernottava durante il suo soggiorno a Gerusalemme.
4Cfr. Is 5,24; 9,18; 29,6; Ger 4,4; 5,14; 15,14; 17,27; 44,6; Ez 22,31;
5Cfr. il commento al cap.2, pag.35
6Giovanni imposta il suo racconto evangelico sulle festività ebraiche tra le quali figurano tre pasque: la prima è ricordata in 2,13.23; la seconda in 6,4; la terza pasqua, quella fatale, in 11,55.
7La tetrarchia di Lisania è testimoniata da un'epigrafe trovata in un tempio di Abila, databile tra il 14 e 20 d.C. riferita ad un liberto del “tetrarca Lisania”. Cfr. la voce “Lisania” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato, Nuova Edizione rivista e integrata 2005
8I cinque figli che ricoprirono la carica furono: Eleazar ben Anano (16-17 d.C.); Jonathan ben Anano (36-37); Theofilo ben Anano (37-41); Mattia ben Anano (41); Anano ben Anano (63). Fonte Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Anna_%28sommo_sacerdote%29
9Cfr. la voce “Anna” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 1997.
10Tutti i significati sono stati tratti dalla voce “g…gnomai” (ghígnomai), L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ed. Società editrice Dante Alighieri, Roma 1993.
11Altri autori traducono con “scese su Giovanni” (CEI 1974); “venne su Giovanni” (CEI 2008); “fu su Giovanni” (A.Poppi, Sinossi Quadriforme, greco-italiano, 1999); “avvenne la parola di Dio” (G. Rossé, il Vangelo di Luca); “La Parola di Dio fu rivolta a Giovanni” (R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2001). Questi sono soltanto alcuni esempi che dicono come quel “eghéneto” non sia di così facile e immediata soluzione.
12In Gen 6,5-7.11-13 Dio decide la distruzione dell'umanità e insieme a lei della terra abitata, poiché questa è stata inquinata e corrotta dalle azioni malvagie degli uomini. Un unico destino le accomunerà, dunque, nella distruzione, come in Rm 8,18-23 umanità e creazione saranno tra loro associate nella gloria, così come lo erano nei loro primordi.
13Cfr. Is 13,9.13; 30,27.30; 42,25; 66,15; Ger 4,4; 15,14; 44,6; Ez 13,13; 20,8; 22,31; Sof 1,15; 2,2-3; 3,8;
14Nella mia traduzione ho preferito tradurre “i militanti” per indicare tutti quelli che svolgono un servizio non soltanto in armi, ma anche funzioni di ordine pubblico, di controllo o di servizio pubblico in genere. Quindi una funzione ben più ampia del semplice soldato.
15Cfr. Dt 10,17; Sal 23,8; 88,14; Is 49,26; 60,16; Ger 32,18
16Sulla condizione dello schiavo nell'antichità cfr. la voce “Schiavo, Schiavitù” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997. Nuova edizione rivista e integrata 2005.
17Cfr. Gen 19,24; Nm 11,1; 16,35; Dt 4,24; 32,22; Sal 10,6; Is 66,15.16; Ger 44,6.
18Sul significato delle nozze di Cana cfr. il mio commento al cap.2 di Giovanni all'indirizzo http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%202.html
19Cfr. Lc 5,33; 7,18-20.24-29.33; 9,7.9.19; 11,1; 16,16; 20,4-6.
20Cfr. anche i paralleli in Dt 4,16.23; 5,8; 27,15
21Per una più dettagliata spiegazione sull'età di Gesù si cfr. pag.4 del presente commento al cap.3