IL VANGELO SECONDO LUCA


Predicazione di Giovanni e preambolo

introduttivo alla missione di Gesù

(Lc 3,1-38)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi






Note generali

Con i primi due capitoli Luca ha illustrato i centri d'interesse del suo racconto, fornendone al lettore la chiave di lettura. Da un lato egli presenta le sue credenziali di storico attendibile, che si allinea alla Tradizione per rendere solide le basi su cui fonda la fede di Teofilo (vv.1-4); dall'altro, seguendo lo schema narrativo dei racconti paralleli, presenta, ponendole tra loro a confronto, le identità dei suoi due personaggi principali: Giovanni e Gesù. Lo fa attraverso una galleria di personaggi secondari finalizzati a mettere in rilievo le due personalità, collocandoli all'interno di un contesto storico-geografico e topologico molto significativi, tra cui spiccano Gerusalemme e il suo Tempio. Non è un caso, infatti, se il racconto lucano si apre a Gerusalemme, nel Tempio, durante la celebrazione serale dell'offerta dell'incenso e si chiude sempre a Gerusalemme e sempre nel Tempio, dove sta emergendo e si sta profilando un nuovo culto, fatto di Parola e di un nuovo ed unico sacrificio, metaforizzato nella perdita e nel ritrovamento di Gesù dopo tre giorni.

Ora, con questo cap.3 l'autore inaugura una nuova sezione, che riguarda la missione galilaica di Gesù, che si estende da 3,21 a 9,501. Un capitolo costituito dal racconto dell'attività del Battista (vv.1-20) e da un prologo all'attività di Gesù che da 3,21 si amplia fino a 4,13. Il racconto dell'attività del Giovanni lucano è essenzialmente predicatoria ed è incluso all'interno di due verbi molto simili tra loro: “khrÚsswn” (kerísson, annunciando) al v.3 e “eÙhggel…zeto” (euenghelízeto, evangelizzava) al v.18. Due verbi che hanno a che fare con la prima predicazione, il primo, e con una più diffusa predicazione il secondo. Con il primo verbo Giovanni si qualifica come un duro predicatore escatologico (vv.7-9); mentre con il secondo la durezza del primo annuncio viene attenuata per lasciar spazio ad un messaggio più morbido, in un certo qual senso, più pastorale, dai toni catechetici (vv.10-14). Questi due verbi, pertanto, qualificano due tipologie di predicazione che si ritrovano all'interno di questo racconto. Il verbo “kerísson” regge l'annuncio escatologico della pericope vv.7-9.17; il verbo “euenghelízeto” inerisce invece ai vv.10-14. Tutto il racconto, pertanto, è incentrato sulla predicazione, mentre l'attività battezzatoria di Giovanni viene lasciata sullo sfondo (vv.3.7.16), quasi impercettibile. Significativo in tal senso è la presentazione dell'investitura di Giovanni: su di lui si compì la Parola (v.2b). È dunque la Parola che pervade Giovanni e si compie su di lui. È lei la protagonista principale in Giovanni, il motore che lo muove. Di conseguenza egli inizia la sua attività (v.3). La prevalenza dell'attività predicatoria su quella battezzatoria riflette qui lo spirito missionario di Luca, che ha come priorità assoluta l'annuncio della parola. Riecheggia in questo la stessa preoccupazione missionaria di Paolo, suo compagno di viaggi, incentrata più che sulla somministrazione del battesimo sull'annuncio della parola (1Cor 1,14-17). Diversamente, invece, vanno le cose per gli altri tre evangelisti, che mettono in rilievo l'attività battezzatoria di Giovanni, lasciando sullo sfondo quella predicatoria2.

La struttura del cap.3 è ben articolata e si snoda con una dinamica narrativa molto scorrevole e avvincente:

L'attività predicatoria di Giovanni (vv.1-20)

  1. il contesto storico entro cui si colloca l'investitura profetica di Giovanni (vv.1-2a);

  2. l'investitura di Giovanni (v.2b) e la sua attività predicatoria (v.3);

  3. lettura teologica della figura di Giovanni (vv.4-6);

  4. la predicazione escatologica di Giovanni (vv.7-9);

  5. la risposta alla predicazione escatologica da parte della gente (vv.10-14);

  6. la vera identità di Giovanni: non è lui il Cristo (vv.15-18);

  7. conclusione della sezione: Giovanni incarcerato (vv.19-20).

Preambolo all'attività missionaria di Gesù (vv.3,21-4,13)

  1. l'investitura di Gesù da parte dello Spirito e la sua identità: egli è Figlio del Padre (vv.21-22);

  2. gli inizi dell'attività missionaria di Gesù all'età di circa trent'anni (v.23);

  3. la genealogia di Gesù (vv.24-38), di discendenza umano-divina, in quanto non solo figlio di Giuseppe (v.23b), ma anche figlio di Dio (v.38d);

  4. Gesù, sotto l'azione dello Spirito viene condotto nel deserto dove dovrà compiere le sue scelte fondamentali sul come impostare la sua attività missionaria (4,1-13).

Commento a 3,1-38
o

L'attività predicatoria di Giovanni (vv.1-20)

Questa sezione, riguardante la figura di Giovanni, si suddivide in quattro parti: la prima, vv.1-6, è relativa alla cornice storica (vv.1-2) e teologica (vv.4-6) in cui viene inserita l'attività predicatoria di Giovanni (v.3); la seconda (vv.7-14) racconta l'attività predicatoria di Giovanni, sostanzialmente di due tipi: a) escatologica (vv.7-9) e b) pastorale/catechetica (vv.10-14); la terza (vv.15-18) mette a confronto le due identità: quella di Giovanni e quella di Gesù; la quarta parte (vv.19-20) conclude la sezione con l'imprigionamento di Giovanni.

La cornice storico-teolgica (vv.1-6)

Testo a lettura facilitata

La cornice storica e religiosa

1 – Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, governando Ponzio Pilato la Giudea ed Erode tetrarca della Galilea, inoltre Filippo, suo fratello, tetrarca della Iturea e della regione della Traconitide e Lisania tetrarca dell'Abilene,
2a - sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa,

L'investitura di Giovanni da parte della Parola e la sua attività predicatoria

2b - si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto.
3 – E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea annunciando un battesimo di conversione in remissione dei peccati,

La cornice teologica

4 – come sta scritto nel libro (delle) parole del profeta Isaia, che dice: “Voce di colui che grida nel deserto: preparate la via del Signore, fatte diritte le sue strade;
5 – ogni dirupo sarà riempito e ogni monte e colle sarà abbassato, e le cose tortuose saranno in rettitudine e le asperità su strade piane;
6 – e ogni carne vedrà la salvezza di Dio”

Con i vv.1-6 viene contestualizzata (vv.1-2.4-6) e definita (v.3) l'attività di Giovanni: “E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea annunciando un battesimo di conversione in remissione dei peccati” (v.3). L'ultimo ricordo che Luca aveva lasciato di Giovanni era quello di un fanciullo che “[...] cresceva e si rafforzava in spirito, ed era nei deserti fino al giorno della sua manifestazione presso Israele” (1,80). Ora l'autore riprende il suo racconto su Giovanni da quest'ultima immagine e al v.2b annuncia che “si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. Giovanni, pertanto, investito dalla parola di Dio e da questa sospinto, esce dal silenzio del deserto “E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea”. L'indicazione geografica è alquanto vaga: si parla della regione intorno alla Giudea, certamente quella che si snoda nei pressi del fiume Giordano, per consentire l'attività battezzatoria del Battista. L'evangelista Giovanni in questo si mostra molto più preciso e definisce in 1,28 e in 3,23 i due poli dell'attività del Battista: Betania3, quella posta al di là del Giordano, nel centro della regione della Perea (v.1,28); e ad Ennon, vicino a Salim (v.3,23), entrambe collocate a nord-ovest della Decapoli, nei pressi del confine nord-nord-est della Samaria, disposte lungo il Giordano, dove, ricorda Giovanni, “vi erano molte acque, e giungevano e si facevano battezzare” (3,23b). Il tratto geografico dell'attività del Battista doveva svolgersi, pertanto, all'incirca tra questi due poli. Un'attività, quindi, di movimento, come suggerisce qui anche Luca: “E venne in tutta (la) regione intorno alla Giudea”. L'attività di Giovanni viene qui sinteticamente così definita: “annunciando un battesimo di conversione in remissione dei peccati”. Un'espressione questa mutuata da Mc 1,4b. Si tratta, quindi, in prevalenza, di un annuncio, quello che richiama l'attività dell'araldo, che gira per il regno per proclamare il bando regale. Questo doveva essere essenziale, incisivo e chiaro per essere immediatamente colto dai sudditi. Il verbo qui usato è pertanto tecnico e si riferisce all'attività del banditore: “khrÚssw” (kerísso). Tale verbo verrà mutuato anche dagli evangelisti e da Paolo per indicare la prima predicazione, quella degli eventi storici salvifici riguardanti la persona di Gesù e in particolare la sua morte e risurrezione. Ciò che qui Giovanni annuncia è “un battesimo di conversione in remissione dei peccati”. Lo fa con un linguaggio duro, immediato, essenziale che richiama la predicazione dei profeti4; un linguaggio escatologico che possiede in sé la forza e la durezza di un giudizio finale, in cui viene decisa in modo inappellabile la sorte di ogni uomo. Questo dice il verbo “khrÚssw” che si riferisce ai vv.7-9. Si tratta di un battesimo la cui natura è penitenziale ed è un atto pubblico di conversione in vista della remissione dei peccati, che verrà soltanto con Gesù (At 19,4), quello che “battezzerà in Spirito Santo e fuoco” (v.16b).

Questa attività predicatoria ha una doppia cornice: storica (vv.1-2) e teologica (vv.4-6), finalizzate a fornire una chiave di lettura della missione di Giovanni. L'ampia descrizione del contesto storico, con cui Luca apre il cap.3, fornisce una dettagliata fotografia della situazione politica e amministrativa della Palestina nel preciso momento in cui Giovanni entra in scena. Essa, da un lato, serve a mettere in rilievo gli eventi salvifici nel loro accadere storico, lasciando trasparire come la salvezza passa attraverso la storia, raggiungendo l'uomo nel suo habitat naturale e qui lo interpella, costringendolo a prendere esistenzialmente posizione; dall'altro, dà una continuità storica agli eventi salvifici che si sono progressivamente succeduti, indicando nel loro accadere lo sviluppo storico del disegno salvifico di Dio: in 1,5 si era ai tempi di Erode il Grande (37-4 a.C.), allorché la nostra storia ha avuto inizio a Gerusalemme, nel Tempio; in 2,1 viene annunciato un censimento universale (8 a.C.) dei cittadini romani decretato (8 a.C.) da Ottaviano Cesare Augusto (27a.C.-14d.C.), che contestualizza la nascita di Gesù (6 a.C.); in 2,2 si annuncia un altro censimento in Siria sotto il governatorato di Quirino (6 d.C.), allorché Gesù aveva 12 anni e salì a Gerusalemme nel Tempio insieme alla sua famiglia in occasione del suo bar mitzvah (v.2,42a); ed infine, qui, in 3,1-2, allorché la Parola di Dio sancisce l'investitura e la consacrazione di Giovanni a predicatore escatologico: “Nell'anno quindicesimo dell'impero di Tiberio Cesare, governando Ponzio Pilato la Giudea ed Erode tetrarca della Galilea, inoltre Filippo, suo fratello, tetrarca della Iturea e della regione della Traconitide e Lisania tetrarca dell'Abilene, sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa, si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. L'incorniciatura storica qui è duplice: da un lato riguarda l'assetto politico-amministrativo della Palestina (3,1); dall'altro, l'aspetto religioso e civile della Giudea, significato nei nomi del sommo sacerdote Anna e di suo genero Caifa (v.3,2). Il v.1 presenta la situazione storico-politica succedutasi dopo Ottaviano Cesare Augusto, sotto il quale nacquero Giovanni e Gesù. Alla sua morte (14 d.C.) salì sul trono imperiale Tiberio Cesare (14-37 d.C.), suo figlio di adozione. Qui siamo al quindicesimo anno del suo impero e quindi nel 29 d.C. Se la datazione fornitaci da Luca è esatta, come sembra, avendo anche dei riscontri esterni, qui Gesù ha trentacinque anni, anche se Luca al v.23 afferma che Gesù iniziò la sua missione a trent'anni. Un'età che va presa in senso simbolico, come l'età del vigore, come affermerà poi i Pirqei Avot5. Una missione che durerà, seguendo le indicazioni giovannee delle tre pasque6, tre anni, dopo di che Gesù morirà in croce all'età di trentotto anni. La diceria che Gesù sia morto all'età di trentatré anni, nasce dall'erroneo calcolo dei trent'anni in cui Gesù iniziò la sua missione, riportata qui da Lc 2,23, a cui si sono aggiunti i tre anni delle tre pasque giovannee.

Segue ora una galleria di personaggi che formano il quadro storico dell'epoca entro cui viene posta l'attività di Giovanni e gli inizi della missione di Gesù (v.23): Ponzio Pilato fu governatore, dal 26 al 36 d.C. con il titolo di prefetto, dell'Idumea, della Giudea e della Samaria, territori questi che formavano la tetrarchia di Erode Archelao (4 a.C.-6 d.C.), detronizzato da Ottaviano Augusto ed esiliato a Vienne nelle Gallie nel 6 d.C., per eccessiva crudeltà. In questa occasione la tetrarchia di Archelao venne ridotta a provincia romana ed affidata a Quirino. In proposito Matteo ricorda come Giuseppe, di ritorno dall'Egitto con la sua famiglia dopo la morte di Erode il Grande (4 a.C.), non tornò a Betlemme, in Giudea, ma si rifugiò a Nazareth, in Galilea, avendo saputo che al padre era succeduto Archelao, che già allora godeva di cattiva fama (Mt 2,22). Erode Antipa governa la Galilea e la Perea (4 a.C-34 d.C.); sarà lui che farà arrestare Giovanni, che stigmatizzava pubblicamente il suo comportamento immorale (vv.19-20). Erode Filippo governa (4 a.C.-34 d.C.) la regione nord-est della Palestina che comprende la Gaulanitide, l'Iturea, la Traconitide, la Batanea e l'Auranitide, un territorio ampio e difficile, formato da diverse popolazioni e senza una precisa capitale. Durante il suo governo ampliò e abbellì la città di Panea, a cui diede il nome di Cesarea di Filippo, il luogo dove avverrà il riconoscimento di Gesù come il Cristo da parte di Pietro (Mt 16,13; Mc 8,27). Filippo era sposato con Erodiade, che lo abbandonò per seguire il cognato Erode Antipa, portando con sé la figlia Salomè, tristemente nota per aver chiesto, istigata dalla madre, la testa di Giovanni (Mt 14,3-11). Ed infine Lisania7, tetrarca di Abilene, la piccola regione che si distende attorno alla città di Abila, che ne è capitale e da cui prende il nome. Abilene era sotto l'amministrazione di Erode il Grande e, a seguito di rivalità e litigi tra Archelao e Antipa, l'intero regno di Erode il Grande venne diviso in quattro parti da Ottaviano Augusto. Di queste, tre andarono ai figli di Erode il Grande: Archelao, Antipa e Filippo; la quarta parte a Lisania. Chi era dunque questo Lisania? Perché l'eredità di Erode il Grande venne assegnata per un quarto anche a Lisania, sia pur questa di modeste dimensioni? Che cosa centrava questi con Erode il Grande e la sua eredità? A questi toccò Abilene, ma non per intero, ma soltanto una piccola parte. È da pensare (ma è soltanto un'ipotesi) che Lisania fosse in qualche modo strettamente imparentato con Erode il Grande, anche se è difficile dire a quale livello di parentela si collocasse, comunque tale e sufficiente per farlo entrare nel coacervo dell'eredità. Non avrebbe avuto senso, infatti, che Ottaviano avesse diviso il regno di Erode il Grande in quattro parti assegnandone tre ai figli e la quarta parte ad un terzo sconosciuto di sua personale nomina. Considerato che il regno era di Erode era nelle logiche che questi venisse spartito tra i parenti primi e stretti di Erode. Se compare tra questi anche il nome di Lisania è da pensare che questi, pur non comparendo come figlio, certamente doveva essere un parente stretto e, comunque, molto vicino a Erode il Grande. Per questo Ottaviano riservò anche a lui un tetrarcato, sia pur di modeste dimensioni.

Definita con meticolosità la situazione politica e amministrativa della Palestina, prosegue ora con il v.2 l'accenno a quella religiosa e civile del popolo giudaico: “sotto il sommo sacerdote Anna e Caifa, si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. Luca richiama qui due sommi sacerdoti che espletarono la loro carica in periodi diversi: Anna (6-15 d.C.) e Caifa (18-36 d.C.). Luca è l'unico tra i sinottici che cita per nome i due sommi sacerdoti Anna e Caifa. Matteo, più correttamente, cita soltanto Caifa, il sommo sacerdote in carica all'epoca dei fatti; Marco menziona soltanto il titolo, ma non il nome; Giovanni, invece, parimenti a Luca, cita entrambi, ma sa distinguere sia il livello di parentela che intercorre tra i due (18,13) che la reale titolarità del sommo sacerdozio di quell'anno (Gv 11,49), lasciando intuire il tipo di relazione che intercorreva tra i due (Gv 18,13.24). La citazione di entrambi, appartenenti alla stessa famiglia, lascia arguire come il sommo sacerdozio fosse legato a delle famiglie. Il titolo, infatti, secondo At 4,6 e Giuseppe Flavio, veniva attribuito non solo al sommo sacerdote in carica, ma anche ai componenti delle famiglie sacerdotali da cui proveniva la maggioranza dei sommi sacerdoti. Lo stesso Anna, oltre che il genero Caifa, ebbe altri cinque figli che beneficiarono di questa carica suprema8 e la durata della loro carica dice la loro abilità politica nel gestire i rapporti con Roma e le autorità locali, da cui dipendeva la loro sopravvivenza9. Il sommo sacerdozio, infatti, pur essendo una carica a vita ed ereditaria, tuttavia, a partire dall'epoca ellenistica e poi romana, veniva assegnato dai regnanti di turno, che si arrogavano sia la nomina che la destituzione del sommo sacerdote in carica.

Nell'ambito di questo complesso quadro politico-religioso Luca colloca l'evento salvifico, introdotto dal caratteristico verbo “™gšneto” (eghéneto). L'accadimento che qui l'autore presenta, contrariamente alle attese, non è la predicazione di Giovanni, bensì la sua investitura da parte della parola di Dio: “si compì (la) parola di Dio su Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. Devo dire che mi è stato difficile rendere al meglio quel “eghéneto”. Un verbo che ha una pluralità di significati, come nascere, diventare o divenire, essere, aver luogo, manifestarsi, avvenire, accadere, sorgere, compiersi, riuscire, provenire e simili10. Un verbo qui importante perché dalla sua traduzione dipende il senso dell'intera frase. Ciò che mi ha spinto verso il “compiersi”11 sono stati due elementi: a) la traduzione della Vulgata che ha reso quel “™gšneto” con “factum est” (si compì, si attuò); b) l'espressione retta dal verbo che si richiama a “Giovanni, il figlio di Zaccaria, nel deserto”. Questo richiamo specifico rimanda il lettore a tutto il contesto precedente dove l'angelo Gabriele annuncia il concepimento del bambino e la sua futura missione (1,13-17); annuncio che verrà ripreso dal cantico di Zaccaria in 1,76-79; mentre il riferimento al deserto richiama il luogo dove Giovanni era stato lasciato in 1,80 e da dove la sua missione ora parte. Pertanto quel “eghéneto” dice il compiersi della parola su Giovanni; di quella parola che racchiude in sé il progetto salvifico, che ora si sta manifestando e attuando in Giovanni, che ora viene investito dalla Parola. Il suo annuncio, pertanto, dice il manifestarsi in lui della Parola, l'attuarsi del progetto salvifico. Tutta la sua predicazione è, pertanto, conseguente a questa investitura. Il v.3, infatti, inizia con un “kaˆ” (kaì, e) che lega il v.3 e seguenti al v.2b, a questo compiersi della Parola in Giovanni, che ne diviene manifestazione e attuazione.

Se il v.3 dice il contenuto dell'attività predicatoria di Giovanni, che annuncia un battesimo di conversione in vista della remissione dei peccati, richiamandosi a 1,77, i vv.4-6 dicono in cosa consiste questa conversione, riprendendo le immagini di Is 40,3-4, rivolte al popolo d'Israele esiliato a Babilonia (597-538 a.C.), e lo aprono a tempi messianici, tempi di riscatto, di perdono e di grande consolazione, che vedranno il ritorno di Israele nella ricostituita Terra Promessa, così come già avvenne nel grande esodo, nel suo peregrinare per quarant'anni nel deserto. Ecco quindi il sollecito di Is 40,3-4 a preparare la strada del rimpatrio, a renderla piana e scorrevole per facilitare il ritorno, dopo aver ampiamente scontato con l'esilio l'infedeltà (Is 40,1-2), dando così una prospettiva concreta e imminente alla fine del lungo esilio. Nella rilettura cristiana questi versetti sono diventati una metafora della conversione: togliere ogni asperità nel proprio comportamento, nel proprio modo di vivere e di rapportarsi con Dio, per ritornare in piena comunione con Lui e con gli uomini. Solo così, conclude Is 40,5a, “si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà”, alludendo al ritorno del popolo nella Terra Promessa e alla ricostituzione di Israele nella sua identità di proprietà di Dio, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,4-5), quale manifestazione della potenza gloriosa di Jhwh. Ma qui Luca, al v.6, non termina con Is 40,5, ma con Is 52,10, riportando soltanto la parte finale del versetto: “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”, dando così una dimensione universale alla potenza salvifica di Dio. Qui Luca sostituisce l'espressione isaiana “tutti i confini della terra”, un ebraismo per dire tutte le nazioni o tutti i popoli, con un termine che assume un significato universalistico più accentuato: “e ogni carne vedrà la salvezza di Dio”. Se il riferimento primario è da intendersi all'uomo, l'espressione “ogni carne” abbraccia, in realtà, nella dimensione salvifica ogni essere vivente, passando, quindi, da una dimensione universale ad una cosmica. Paolo in Rm 8,19-21 mette in evidenza un principio di solidarietà che vede uomo e creazione vincolati ad un comune destino di perdizione12 e di riscatto: “La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio”. Non va mai dimenticato come Luca sia stato un fedele compagno di Paolo, non è escluso quindi che ne abbia in qualche modo assimilato il pensiero, pur elaborandolo, poi, a modo proprio.

L'attività predicatoria di Giovanni (vv.7-14)

Testo a lettura facilitata

La predicazione escatologica

7 – Diceva pertanto alle folle che uscivano per essere battezzate da lui: <<Progenie di vipere, chi vi insegnò a fuggire dall'ira imminente?
8 – Fate dunque frutti degni della conversione e non incominciate a dire in voi stessi: abbiamo il padre Abramo. Vi dico infatti che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre.
9 – Ora, già anche la scure è posta alla radice degli alberi; pertanto ogni albero che non fa un buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco>>.

La predicazione catechetica o pastorale

10 – E le folle lo interrogavano dicendo: <<Che cosa dunque faremo?>>
11 – Ora rispondendo diceva loro: <<Chi ha due tuniche condivida con chi non ne ha, e chi ha cose da mangiare faccia similmente>>.
12 – Ora vennero anche dei pubblicani per essere battezzati e dissero verso di lui: <<Maestro, che cosa faremo?>>
13 – Questi disse verso di loro: <<Riscuotete niente di più di ciò che vi è stato ordinato>>.
14 – Ora, lo interrogavano anche dei militanti dicendo: <<E noi che cosa faremo?>>. E disse loro: <<Non estorcerete nessuno e non opprimerete e accontentatevi delle vostre paghe>>.

vv.7-14: in 2b Giovanni riceve l'investitura della Parola e in 3b inizia la sua attività “annunciando”. Ora qui i vv.7-14 espongono i contenuti della sua predicazione, che si muove su due filoni: escatologico e profetico il primo (vv.7-9); pastorale o catechetico il secondo (vv.10-14), che si presenta come una ripresa e una specificazione del v.8a. Quindi i vv.10-14 vanno ricompresi all'interno dei vv.7-9, che fungono da loro cornice introduttiva.

Il testo dei vv.7-9 è identico a quello di Mt 3,7-10, la quale cosa fa pensare che sia Matteo che Luca abbiano fatto ricorso alla comune fonte Q, considerando anche che questo modo di esprimersi non fa parte del linguaggio lucano. L'espressione “Progenie di vipere” in Luca compare soltanto qui, mentre in Matteo compare anche in 12,34 e in 23,33. Matteo del resto vive in un contesto sociale molto difficile di forte contrasto sia con il mondo giudaico che con quello pagano; ben diverso da quello di Luca, che vive il nuovo annuncio in una prospettiva universale e con le logiche proprie di un missionario aperto a tutto e a tutti. A differenza di Matteo, Luca non ha una comunità chiusa in se stessa da difendere dagli attacchi del giudaismo e del paganesimo, ma soltanto un annuncio da proporre universalmente. Una differenza che già si rileva in apertura del discorso escatologico: Matteo si rivolge ai farisei e ai sadducei (Mt 3,7a), gli eterni avversari di sempre (Mt 23); Luca, invece, si rivolge alle folle che uscivano per farsi battezzare. Quel uscire delle folle dice l'apertura della gente, indipendentemente dal ceto di appartenenza e dalla loro configurazione religiosa, giudaica o pagana. L'atteggiamento della gente qui è positivo. L'uscire delle folle dice la disponibilità ad uscire dai propri schemi mentali e dalle proprie visioni di vita per accogliere favorevolmente l'annuncio sia pur nella sua durezza. Una nota di ottimismo, quindi, accompagna l'annuncio lucano rispetto a quello di Matteo e che trova la sua risonanza anche in At 2,41-48.

Strutturalmente i vv.7b-9 sono disposti parallelamente di modo che il v.7b, dove si parla di “ira imminente”, che nel linguaggio profetico13 equivale ad un imminente giudizio divino di condanna, trovi la sua attuazione nel v.9 dove si parla dell'esecuzione del giudizio divino: la scure posta alla radice taglia l'albero che non dà frutti buoni, per essere gettato poi nel fuoco. Il v.8 è posto centralmente e in quanto tale, secondo le logiche della retorica ebraica, è il più importante. Esso è scandito in due parti: da un lato fornisce la chiave per sfuggire all'imminente giudizio divino: fare frutti degni di conversione (v.8a); dall'altro, toglie ogni illusione: “non incominciate a dire in voi stessi: abbiamo il padre Abramo. Vi dico infatti che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”. Presso il giudaismo vigeva la convinzione che solo per il fatto di appartenere al popolo eletto e di avere per padre Abramo, fosse questo motivo di salvezza. Una convinzione che diventa quasi palpabile nel racconto giovanneo, dove l'essere figli di Abramo costituiva un titolo di orgoglio da opporre ad ogni critica e una sorta di salvaguardia da ogni forma di giudizio. Questa pretesa costituirà un elemento di scontro pesante tra il Gesù giovanneo e il mondo giudaico (Gv 8,33-59). Una convinzione molto radicata che tranquillizzava gli animi, ma che qui Matteo e Luca distruggono affermando “[...] che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre”. Come dire che questo titolo non fornisce nessuna immunità dal giudizio divino che, invece, incombe su di loro. Solo la conversione del cuore può salvare Israele. Una simile situazione si era verificata ai tempi del profeta Geremia (650-586 a.C.), che puntò il dito contro le sicurezze di Israele, convinto che per il solo fatto di possedere sulla propria terra il Tempio, fosse per lui garanzia di salvezza dai propri nemici. Geremia distruggerà questa sua convinzione, appellandosi, invece, ad una sua radicale conversione. Poco mancò che venisse linciato per queste sue parole ritenute blasfeme (Ger 7,3-10). Per questa sua insensatezza Israele verrà travolto dalle armate babilonesi e condotto in esilio dove vi rimarrà per circa sessantanni (597-538 a.C.). Soltanto il fare frutti degni della conversione (v.8a) può salvare, pertanto, dall'ira imminente e dal giudizio di condanna. Sarà questo il tema dei vv.10-14, che riprende l'esortazione del v.8a e ne dà concreta attuazione. Tutto si svolge intorno al “fare”. Si tratta dunque di una conversione che interpella l'uomo a livello esistenziale ed esige da lui una risposta concreta qui e ora. Per tre volte, infatti, con insistenza quasi ossessiva, torna l'interrogativo: “Che cosa dunque faremo?”. Il tono dei vv.10-14 cambia completamente: dalla durezza dell'annuncio escatologico di un giudizio di condanna imminente, che sta per travolgere tutti (vv.7-9), si passa ora ad un tono catechetico-pastorale morbido, quasi materno. Gli insegnamenti sono concreti, specifici ed hanno a che fare con la vita di tutti i giorni, quella vita che ciascuno è chiamato a vivere secondo la condizione esistenziale che gli è propria. Non, dunque, cose grandiose; non digiuni o flagellazioni; non spogliazioni dei propri beni o gesti eclatanti, ma soltanto fare bene, in modo corretto, con fedeltà e sincerità di cuore ciò che si è chiamati ad adempiere. Seguire, dunque, con correttezza, impegno e serietà, con attenzione all'altro, le logiche che sono insite nella vita e nelle cose e in cui si rispecchia la volontà di Dio, che all'interno dell'intera creazione ha inserito leggi naturali la cui finalità è portare a compimento la stessa creazione, così che l'antico adagio del “vivere secondo natura” diviene espressione di massima saggezza. Tre sono qui le categorie di persone prese in esame da Luca: le folle, i pubblicani e i soldati14. La prima categoria, per la sua genericità, dà un tono di universalità all'appello alla conversione, mentre le due categorie seguenti appartengono a quelli che hanno una certa autorità sulla gente e fanno pesare su di essa la loro funzione. Due sono gli appelli di fondo per queste categorie: per tutti ci deve essere attenzione all'altro, che deve tradursi in condivisione dei propri beni e tutto deve svolgersi all'interno dei parametri della correttezza e della giustizia, evitando angherie e soprusi, abusando della propria posizione.

Due identità a confronto (vv.15-18)

Testo

15 – Ora, mentre il popolo era in attesa e mentre tutti ponderavano nei loro cuori su Giovanni, se non fosse lui il Cristo,
16 – Giovanni rispose a tutti dicendo: <<Io vi battezzo con acqua; ma viene il più forte di me, di cui non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi calzari; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco;
17 – il cui ventilabro nella sua mano per purificare la sua aia e raccogliere il grano nel suo deposito, ma brucia la pula con fuoco inestinguibile>>.
18 – Pertanto esortando molte ed altre cose evangelizzava il popolo.

I vv.15-18 sono finalizzati a mettere in evidenza due identità: quella di Giovanni e quella di Gesù. Un confronto che è presente in tutta la tradizione evangelica ed è finalizzato a fare chiarezza tra i due personaggi, sovente posti in concorrenza tra loro dai rispettivi discepoli. Una rivalità che ha una sua motivazione, che solo l'evangelista Giovanni riporta come sua testimonianza storica, sottesa da un lieve filo polemico. Già nel suo prologo (Gv 1,1-18) riconosce che Giovanni era un uomo mandato da Dio per dare testimonianza alla luce (v.7), ma precisa subito che non era lui la luce (v.8). Una stoccata per i battisti che ritenevano il loro maestro superiore a Gesù, perché Gesù fu discepolo di Giovanni e questo lo poneva in una posizione di dipendenza dal loro maestro. Proprio per questo l'evangelista Giovanni si correggerà in 4,2 precisando che non era Gesù a battezzare, bensì i suoi discepoli. Gesù, infatti, faceva parte, agli inizi della sua missione, della setta dei battisti e battezzava insieme a Giovanni (Gv 3,22-23). La sua stessa predicazione inizialmente risentiva di quella giovannita, se ne ha una traccia in Mc 1,15, dove, subito dopo l'arresto di Giovanni, Gesù dà inizio alla sua predicazione annunciando che Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. Il maggior successo di Gesù, che attorno a sé già raccoglieva dei discepoli (Gv 3,22; 4,1), causò una certa rivalità tra questi e i discepoli di Giovanni (Gv 3,25-26). E Gesù, per non alimentare le polemiche, lascerà la setta e con i suoi discepoli dalla Giudea si dirige verso la Galilea (Gv 4,1-3), da dove darà inizio alla sua missione in modo indipendente, anche se questa rivalità verrà rilevata più volte nei vangeli (Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33; 11,1) e dei giovanniti se troverà traccia fino al V sec.

I vv.15.18 formano inclusione tra loro, data dal termine “popolo” che si ripete in entrambi, delimitando l'unità narrativa in esame. Essi fungono da cornice ai versetti centrali 16-17, il cuore di questa pericope, dove vengono messe a confronto le identità dei due personaggi, Gesù e Giovanni, attraverso una breve riflessione sulla diversa natura dei loro rispettivi battesimi. Benché nella dinamica narrativa il v.15 funga da introduzione alla questione ed è di chiara marca redazionale, finalizzato ad accentrare l'attenzione del lettore sulle due figure di seguito poste a confronto (vv.16-17), tuttavia esso contiene due elementi importanti che si agganciano bene con il v.18, sottolineando l'atteggiamento corretto di fronte all'annuncio della parola espressa dal verbo “evangelizzava” del v.18: “il popolo era in attesa” e “tutti ponderavano nei loro cuori”. Atteggiamento di attesa, che dice la tensione spirituale verso un evento importante e che spinge a riflettere nel proprio cuore. Evento che il v.18 rivela essere l'annuncio: “esortando molte ed altre cose evangelizzava il popolo”. Un'espressione quella del “ponderare nei loro cuori” caratteristica di Luca e che l'evangelista già aveva riferita per due volte a Maria (2,19.51b), definendone l'atteggiamento nei confronti del Mistero nel suo disvelarsi. Luca qui sta esortando il suo lettore a tenere il corretto atteggiamento di fronte all'annuncio, che è per sua natura disvelamento del Mistero di Dio. L'autore non è nuovo a queste esortazioni che riprende anche in 8,15, dove il suo Gesù spiega la parabola del seminatore e della semente che cade nei diversi terreni: “Quello nella buona terra, questi sono quelli che, avendo ascoltato, trattengono con persistenza la parola in un cuore virtuoso e buono e portano frutto”. Ecco, dunque, il giusto atteggiamento di fronte all'annuncio: trattenere con persistenza la parola in un buon cuore disponibile ad accoglierla. È questo il senso del “conservare e del ponderare nel proprio cuore”. La questione che qui viene posta e che costituirà motivo di rivelazione è l'identità di Giovanni: “se non fosse lui il Cristo”, cioè il Messia atteso da Israele. La risposta è contenuta nei vv.16.17. Il v.16 pone in diretto confronto, da un lato, Giovanni con Gesù; dall'altro due diverse tipologie di battesimi. Gesù è presentato come “il più forte” di me. Quel articolo determinativo posto davanti all'attributo “più forte” (Ð „scurÒterÒj, o ischiróterós) lascia intravvedere come questo “più forte” non sia soltanto un semplice confronto tra due uomini, ma in qualche modo da questo confronto traluce una luce divina. Il titolo de “il più Forte”, infatti, è riconosciuto nell'A.T. a Dio15 e Dt 10,16-18 contestualizza questo titolo nell'ambito di un'esortazione alla conversione, i cui termini sono dettati dal v.18 e che in qualche modo riproduce lo schema di Lc 8a.10-14.16: “Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato e non indurite più la vostra cervice; perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito”. Se, dunque, Gesù è definito “il più Forte” ora Luca quantifica la distanza che intercorre tra Giovanni e colui che è “il più Forte”, commisurandola con l'espressione: “non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi calzari”. Un lavoro da schiavi. Ebbene la distanza è tale che, a confronto de “il più Forte”, Giovanni non è neppure degno di essere qualificato come schiavo, che nell'antichità era considerato sostanzialmente un oggetto di cui ci si poteva sbarazzare in qualsiasi momento, senza necessità di giustificarsi. Da questo confronto Giovanni ne esce come meno di un nulla16. Questa è la distanza che separa Giovanni da Gesù, colui che è “il più Forte”.

Gli effetti di questo incommensurabile divario tra i due sono significati dal confronto tra le modalità dei due battesimi: “Io vi battezzo con acqua […] egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Due espressioni tra loro contrapposte non soltanto come significato, ma anche nella stessa costruzione del v.16, che è aperto e chiuso da queste, mentre nel mezzo viene indicato il divario che separa i due battesimi. Se la debolezza del battesimo di Giovanni è espressa nella distanza che intercorre tra il suo somministratore e “il più Forte che viene”, il battesimo di quest'ultimo è espresso con due elementi significativi: “egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Un'espressione quest'ultima che può essere letta come endiadi: lo Spirito Santo che è fuoco. E ciò non stonerebbe, poiché il fuoco nel linguaggio biblico, qualora sia riferito a Dio, ne esprime la sua possente e onnipotente natura (Es 19,18; 24,17) e ha a che fare con la sua presenza. Dio appare a Mosè sul monte Oreb sotto forma di fuoco che non brucia (Es 3,2) e guida il suo popolo nel deserto sotto forma di una colonna di fuoco che lo illumina e lo protegge dai suoi nemici (Es 13,21b) e sempre come nube di fuoco sosta sulla sua Dimora nel deserto (Nm 9,16). La sua parola esce dal fuoco ed è fuoco bruciante (Dt 4,33.36; 5,24; Ger 20,9; 23,29). Un fuoco che esprime anche sia l'ira che la giustizia di Dio contro le infedeltà e i nemici del suo popolo17. Questo fuoco è accostato allo Spirito Santo e, letto come endiadi, è lo Spirito Santo ed esprime la forza della sua natura dirompente, ma nel contempo esso si colloca in mezzo agli uomini come azione di giudizio divino. Si noti l'uso dei tempi che Luca fa del verbo battezzare: il battesimo di acqua è retto dal presente indicativo e dice lo stato attuale delle cose; un battesimo di penitenza e di preparazione in vista di un altro battesimo, ma in se stesso privo di ogni forza vitale e rigenerante. Un battesimo, quindi, ancora imperfetto (At 19,1-7), così come lo era la Legge, incapace di salvare l'uomo, anzi condannandolo nella sua fragilità (Rm 7) e simboleggiata nelle sei idre piene d'acqua nel racconto delle nozze di Cana (Gv 2,1-11), in attesa di essere trasformate nel vino della rivelazione salvifica e del vero culto a Jhwh, che parte dal cuore e dalla vita18. Per contro, il battesimo di Spirito Santo e fuoco è retto dal verbo al futuro, poiché riguarda i tempi successivi a Giovanni, inaugurati da “il più Forte” di lui e che ha il suo fulcro nella morte, dove avvenne la prima emissione dello Spirito Santo (Gv 19,30), e nella sua risurrezione, dove la potenza dello Spirito ha costituito Gesù Figlio di Dio (Rm 1,4) e da cui venne, poi, erogato a tutti i credenti (Gv 7,38-39; 20,22).

Il v.17, agganciandosi al termine “fuoco”, con cui si chiude il v.16, ne specifica il significato. Il fuoco non simboleggia soltanto la natura di Dio, ma manifesta anche il giudizio divino che viene posto sugli uomini. Ecco, pertanto, che “il più Forte che viene” ha il “ventilabro nella sua mano per purificare la sua aia e raccogliere il grano nel suo deposito, ma brucia la pula con fuoco inestinguibile”. L'immagine qui è mutuata dal mondo agricolo: il contadino dopo la mietitura ammassava il grano sull'aia, posta in genere in un luogo ventoso, e qui con il ventilabro, una specie di pala in legno, gettava in alto il grano, mentre il vento, un'altra immagine dello Spirito, espresso in greco con il termine “pneàma” (pneûma) che significa sia vento che spirito, libera il grano dalle sue scorie, che vengono poi raccolte e gettate nel fuoco a bruciare. Se, pertanto, l'essere battezzati, cioè immersi nello Spirito, significa essere resi partecipi della stessa vita divina; per contro, il suo rifiuto comporta una inevitabile condanna.

Giovanni incarcerato (vv.19-20)

Testo

19 – Ora, Erode il tetrarca, biasimato da lui circa Erodiade, moglie di suo fratello, e circa tutte le cose malvagie che fece Erode,
20 – commise anche questo su tutte (le malvagità) e rinchiuse Giovanni in carcere.

Luca chiude il ciclo su Giovanni Battista con la sua incarcerazione da parte di Erode Antipa, liberando la scena da questa figura ingombrante per accentrare ora l'intera attenzione su Gesù, il vero protagonista del suo racconto, benché la figura del Battista continuerà ad essere rievocata in varie circostanze lungo l'intero racconto evangelico19. Con l'incarcerazione di Giovanni si chiude il ciclo veterotestamentario, fatto di attese e popolato di profeti, di cui Giovanni è l'ultimo; mentre con Gesù se ne apre un altro, quello dell'annuncio del Regno e della Rivelazione, che segna un diretto intervento di Dio nella storia degli uomini (1Gv 1-4). L'incarcerazione di Giovanni, pertanto, definisce una netta linea di demarcazione tra i due Testamenti: il tempo della preparazione e delle attese e quello del suo compimento (Mt 5,17). Una demarcazione che ricorderà lo stesso Luca: “La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora il regno di Dio è annunciato e ognuno si sforza per esso” (16,16). L'autore qui non si sofferma sulle circostanze della tragica fine di questo grande personaggio, a cui, invece, Mc 6,14-29 e Mt 14,1-12 dedicano un'ampia pericope. Tuttavia ne farà un brevissimo accenno in 9,9. Nel chiudere il ciclo su Giovanni Luca ricorda ancora la grandezza di questo personaggio, che non teme di denunciare pubblicamente e duramente i crimini di Erode Antipa, non da ultimo quello di essersi unito con Erodiade, la moglie di suo fratello Filippo. Un personaggio, dunque, duro e inflessibile, che non scende a compromessi con il potere e ben lontano dai servilismi di corte. Gesù ne tesserà un elogio pubblico in 7,24-28.

Preambolo all'attività missionaria di Gesù (vv.3,21-4,13)

Testo a lettura facilitata

La preghiera quale premessa e contesto della rivelazione

21 – Ora avvenne (che) nel mentre che tutto quanto il popolo era battezzato e battezzato Gesù e mentre stava pregando il cielo fu aperto

L'investitura di Gesù e il suo riconoscimento quale Figlio del Padre

22 - e scese su di lui lo Spirito Santo con aspetto corporeo come di colomba, ed avvenne una voce dal cielo: <<Tu sei il figlio mio amato, in te mi compiacqui>>.

L'inizio dell'attività di Gesù e la presentazione della sua discendenza umana

23 – Ed egli era Gesù, che incominciava (la sua missione) a circa trent'anni, essendo figlio, come si credeva, di Giuseppe di Eli,
24 – di Mattat, di Levi, di Melchi, di Iannai, di Giuseppe,
25 - di Mattatia, di Amos, di Naum, di Esli, di Naggai
26 – di Maat, di Mattatia, di Semein, di Iosech, di Ioda,
27 – di Ionan, di Resa, di Zorobabel, di Salatiel, di Neri,
28 – di Melchi, di Addi, di Kosam, di Elmadam, di Er,
29 – di Gesù, di Eliezer, di Iorim, di Mattat, di Levi,
30 – di Simeone, di Giuda, di Giuseppe, di Ionam, di Eliacim,
31 – di Melea, di Menna, di Mattata, di Natam, di Davide,
32 – di Iesse, di Obed, di Boos, di Sala, di Naasson,
33 – di Aminadab, di Admin, di Arni, di Esrom, di Fares, di Giuda,
34 – di Giacobbe, di isacco, di Abramo, di Tara, di Nachor,
35 – di Seruch, di Ragau, di Falec, di Eber, di Sala,
36 – di Cainam, di Arfaxad, di Sem, di Noè, di Lamech,
37 – di Matusala, di Enoch, di Iaret, di Maleleel, di Cainam,
38 – di Enos, di Set, di Adamo, di Dio.

Con il v.21 si apre un nuovo ciclo, quello su Gesù, che inizia con un preambolo alla sua attività missionaria, scandito in tre momenti fondamentali:

  1. l'investitura di Gesù per mezzo dello Spirito Santo e il suo riconoscimento quale Figlio del Padre, che, da un lato, rivela la sua natura divina; dall'altro lo correda della stessa autorità e della stessa potenza di Dio nell'espletare la sua missione (vv.21-22);

  2. Gesù viene corredato anche di una identità umana attraverso una lunga genealogia, che lo radica nella storia di Israele, che è essenzialmente storia della salvezza, da cui emergono, in forma ascendente, nomi importanti come Davide, Abramo, Adamo e Dio, che ne formano i capisaldi (vv.23-38);

  3. il preambolo prosegue con il racconto delle tentazioni nel deserto, dove Gesù è chiamato a compiere delle scelte fondamentali su come impostare la sua missione e le priorità da assegnarle prima di iniziarla (4,1-13).

Il nuovo ciclo viene introdotto dal verbo caratteristico di Luca “'Egšneto” (eghéneto), che segna l'accadere di un evento significativo che ha a che fare con il compiersi della salvezza. Un verbo importante che qui regge ben sei eventi concentrati nei vv.21-22. Esso enuncia l'accadere del battesimo del popolo, quello di Gesù, il pregare di Gesù, l'aprirsi del cielo, la discesa dello Spirito Santo su Gesù, la voce dal cielo che ne rivela la filiazione divina. Una concatenazione di eventi che creano nel loro insieme un contesto escatologico e apocalittico in cui viene collocato Gesù e la sua missione, fornendo in tal modo la chiave di lettura della sua persona e del suo operare. La venuta di Gesù e l'inizio della sua missione aprono, pertanto, i tempi escatologici, segnati dall'azione dello Spirito; e quelli apocalittici, caratterizzati dalla rivelazione del progetto salvifico di Dio a favore dell'umanità e con essa dell'intera creazione. Il Gesù giovanneo sintetizzerà questi due aspetti affermando che la venuta dello Spirito porterà alla pienezza della rivelazione (Gv 16,12-14), poiché la sua azione completerà la rivelazione iniziata con e in Gesù, così che tempi escatologici ed apocalittici coincidono.

Il racconto lucano del battesimo di Gesù riproduce sostanzialmente quello di Marco (1,9-11), ma Luca apporta le necessarie modifiche che lo adattino alla sua visione universale e missionaria: mentre Marco incentra l'attenzione solo su Gesù, che viene da Nazareth di Galilea e si fa battezzare da Giovanni, Luca colloca il battesimo di Gesù nello scenario più ampio del popolo: “tutto quanto il popolo era battezzato e battezzato Gesù”. Gesù, dunque, nei suoi inizi partecipa al movimento penitenziale di Giovanni e lo fa all'interno del popolo e con il popolo, quasi ad esprimergli la sua solidarietà. La figura di Giovanni, tuttavia, qui nel racconto lucano del battesimo è scomparsa, poiché per Luca il ciclo di Giovanni è già concluso con la sua incarcerazione (v.20), lasciando quindi qui nel racconto del battesimo tutto lo spazio a Gesù. Una nota tutta lucana è legare, poi, l'apertura del cielo non mentre Gesù esce dall'acqua, come in Mt 3,16 e Mc 1,10, ma “mentre Gesù stava pregando”. Le prospettive sono completamente diverse: mentre per Marco e Matteo l'apertura del cielo e la discesa dello Spirito Santo nonché la teofania avvengono immediatamente dopo il battesimo, che nel gergo delle primitive comunità credenti era definito come l'illuminazione e i battezzati gli illuminati; per Luca il dono dello Spirito e la rivelazione sono strettamente legati alla preghiera. Lo ricorderà anche in 11,13: “Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” e in At 4,31: “Quando ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la parola di Dio con franchezza”. E così similmente anche per la rivelazione: “E nel mentre che egli stava pregando, l'aspetto del suo volto divenne diverso e la sua veste lucente lampeggiante” (9,29). Nei tempi escatologico-apocalittici, quindi, per Luca rileva non tanto l'essere battezzati, ma la preghiera, intesa come particolare momento di rapporto con Dio. Una preghiera che funge da canale di comunicazione e di comunione con Dio, sostenuta dallo Spirito. È qui che avviene l'azione dello Spirito, che mette in comunione il credente con Dio e lo apre ai suoi Misteri, a quella Verità tutta intera, che il Gesù giovanneo aveva preannunciato come azione qualificante dello Spirito (Gv 16,13). E Paolo, proprio in merito a questa azione dello Spirito, che sostiene il rapporto del credente con Dio nella sua preghiera attesta: “Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,26-27).

Uno Spirito Santo che tutti gli evangelisti descrivono con riferimento alla colomba, ma mentre Matteo, Marco e Giovanni riferiscono lo scendere dello Spirito su Gesù come quello di una colomba, Luca soltanto precisa che lo Spirito aveva forma corporea di una colomba. Il motivo va ricercato nelle diverse platee a cui i vangeli sono indirizzati: per i primi tre esse sono costituite da comunità giudeo-cristiane o comunque, come quella marciana, miste; queste non ammettevano la corporeizzazione della divinità (Es 20,420); contrariamente per i greci, a cui è destinato il vangelo lucano, che invece non concepiscono una divinità come puro spirito e priva di una qualsiasi forma corporea. Il richiamo, comunque, alla colomba per tutti quattro gli evangelisti è alquanto singolare, poiché in nessuna parte della Bibbia Dio viene riferito alla colomba o a qualche altro volatile. Soltanto in Dt 32,11 Dio paragona il suo comportamento verso Israele come a quello di un'aquila: “Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali”. La scelta della colomba probabilmente nasce da due immagini bibliche: da Gen 1,2c in cui si dice che “ lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”; e nel racconto del diluvio universale, dove si narra che Noè liberò una colomba per verificare se la terra fosse ancora coperta dalle acque (Gen 8,8-12). In entrambi i casi l'aleggiare e l'immagine della colomba noatica hanno a che fare con l'acqua, così come lo Spirito ha a che fare con le acque battesimali, quelle del Giordano.

Se il v.21 con l'aprirsi del cielo, forma da cornice apocalittica entro cui vengono collocati gli eventi del v.22, questo presenta l'investitura pubblica di Gesù, un sorta di unzione profetica nello Spirito, fornendogli tutta l'autorità e il potere divini, di cui è rivestito non solo per mandato, ma anche per sua natura. Gesù ricorderà questo momento in 4,18-19 citando Is 61,1-2. Luca, come gli altri evangelisti, forniscono qui la chiave di lettura non solo della persona di Gesù, ma anche della sua stessa missione: Gesù non opera per conto proprio, ma in forma trinitaria. Vi è infatti qui la presenza sia del Padre, sotto forma di voce, che riconosce in Gesù suo Figlio: “Tu sei il figlio mio amato, in te mi compiacqui”. Parole queste che richiamano da vicino il primo cantico del servo di Jhwh (Is 42,1-4): “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni” (Is 42,1); vi è dunque lo Spirito Santo che scende su Gesù e vi rimane (Gv 1,32-33); e infine, vi è Gesù stesso, il Figlio del Padre. Padre e Spirito Santo, pertanto, operano in e con Gesù, che è azione del Padre, lo spazio storico dove il Padre opera con la potenza del suo Spirito (Lc 11,20). L'intera missione di Gesù acquista pertanto una valenza marcatamente trinitaria.

Se con i vv.21-22 Gesù è stato fornito della sua identità di uomo proveniente da Dio, anzi da Lui stesso generato (1,35; 3,22b) e rivestito della sua stessa autorità con la potenza dello Spirito Santo (3,22a; 11,20), con i vv.23-38 Gesù è dotato anche di una identità storica e umana, contestualizzata all'interno della stessa storia di Israele. Gesù dunque se da un lato è vero Dio ed opera con la sua stessa potenza, dall'altro egli è anche un uomo autentico, che ha una sua storia ed è radicato sia in quella più ampia di Israele che in quella universale posta in capo ad Adamo.

Luca esordisce in questa seconda parte del preambolo (vv.23-38) all'attività missionaria di Gesù, affermando: “Ed egli era Gesù, che incominciava (la sua missione) a circa trent'anni, essendo figlio, come si credeva, di Giuseppe di Eli” (v.23). Il v.23 si apre con un'espressione rilevante, poiché coniuga la natura divina di Gesù con quella umana: “Ed egli era Gesù”. Questa espressione si aggancia al v.22 rimarcando che quel tale che è stato rivestito di Spirito Santo e dichiarato Figlio del Padre e, quindi, da lui generato, questo tale è proprio lui: Gesù, di cui adesso si fornisce l'identità umana (vv.23b-38). Chi opera in questa missione, pertanto, non è un semplice profeta inviato da Dio, ma egli stesso è uomo-Dio, cioè un Dio che opera in sembianze umane o, viceversa, un uomo che opera da Dio, poiché lo è, e, quindi, agisce con la sua stessa potenza ed autorità.

Gli inizi dell'attività di Gesù viene posta da Luca all'età di trent'anni. Un elemento in più che circostanzia l'umanità e la storicità di questo Gesù e che dice il suo inizio qui nella storia in quanto vero uomo. L'età di Gesù, qui menzionata, è meramente simbolica ed ha riferimenti biblici. Essa si richiama all'età del vigore, l'età in cui si genera figli (Gen 11,14.18.22); l'età in cui Giuseppe viene nominato viceré d'Egitto (Gen 41,46); in cui si inizia il servizio militare permanente (Nm 4,3); in cui Saul e Davide incominciarono a regnare su Israele (1Sam 13,1; 2Sam 5,4); in cui i leviti prendevano servizio (1Cr 23,3). In realtà Gesù inizia la sua attività all'età di trentacinque anni e morirà in croce a trentotto anni21. La sua attività, quindi, inizia nella pienezza del suo vigore, il punto più elevato di quella crescita senza posa, di cui l'autore ci ha già resi edotti in 2,40.52: “Ora, il bambino cresceva e si fortificava, riempito di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui […] E Gesù progrediva (nella) sapienza e (in) età e grazia presso Dio e gli uomini”.

La sua capacità giuridica di predicare e di insegnare e, quindi, di divenire rabbi gli viene fornita ora dall'ampia genealogia che lo radica profondamente nella storia e nella Tradizione di Israele; una sorta di carta di identità che lo abilita alla missione presso Israele: “essendo figlio di”. Da qui segue una lista di settantasette nomi, che percorrono tutta la storia della salvezza a ritroso, passando attraverso i capisaldi della promessa e degli eventi più significativi, che tali nomi richiamano: Davide ed Abramo, che legano Gesù alla promessa e ne fanno il punto di confluenza e di piena realizzazione (Mt 5,17); poi, ancora, Adamo e Dio da cui Gesù, a loro legato per figliolanza e discendenza, riceve un'investitura di universalità. In tal modo la missione di Gesù non va compresa come un affare privato tra Dio ed Israele, ma essa è aperta a tutti gli uomini di buona volontà (2,14b).

Quel “essendo figlio di” con cui inizia la genealogia, crea qui inclusione con l'ultimo nome della stessa: Dio. Gesù, dunque, inizia la sua attività missionaria “essendo figlio di […] Dio”. Gesù, pertanto, viene dichiarato con questa genealogia di discendenza umana, che si radica in Adamo, ma nel contempo anche di discendenza divina, poiché rimanda la sua figliolanza a Dio stesso. Egli, pertanto, riassume in se stesso l'intera storia della salvezza e realizza in sé le promesse e le alleanze da cui essa è sorretta e animata. Egli è lo spazio storico dell'agire salvifico del Padre; egli è azione e parola del Padre. Questa lunga lista di nomi, pertanto, crea una sorta di ponte diretto che lega il presente momento storico di Gesù con l'eternità stessa di Dio, che fin dall'eternità ha progettato questo piano salvifico che ora si attua nel suo Cristo. Viene qui richiamato in qualche modo Ef 1,4-6: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà”.

La discendenza umana di Gesù inizia con chi gli è più vicino e più diretto: Giuseppe, che Luca, con nota sua redazionale, precisa “come si credeva” e che richiamerà in 4,22, in cui la gente attribuirà la paternità di Gesù a Giuseppe.

Non vale qui la pena di scervellarsi per far quadrare i conti di questa genealogia, cercando di farla collimare con quella matteana (1,1-16). Non c'è niente che quadra, neppure il nome del padre di Giuseppe, che Matteo presenta come Giacobbe, mentre Luca afferma che è Eli. Sono genealogie che non hanno valore legale, ma soltanto creano titolo di appartenenza. Una sorta di carta d'identità, che serviva soltanto per dire che quel tale lì apparteneva ad Israele per discendenza e che, pertanto, era figlio dell'Alleanza ed erede della promessa. Nel mondo ebraico la genealogia dava, quindi, da un lato, la certezza dell'appartenenza al popolo di elezione; dall'altro, definiva la linea di discendenza familiare e tribale, individuando la posizione di ogni singolo ebreo all'interno della sua comunità; e certamente l'uso delle genealogia doveva imperversare anche ai tempi di Matteo e di Luca se l'autore della prima lettera a Timoteo, composta tra 63-67 per alcuni o intorno agli anni 80 per altri, si sente in dovere di sollecitare Timoteo ad invitare alcuni “a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede” (1Tm 1,4). Nel mondo veterotestamentario l'uso delle geneaologie era invalso prevalentemente al tempo di Neemia ed Esdra (V sec. a.C.), al rientro dall'esilio babilonese, durato dal 597, epoca della prima deportazione, al 538 a.C. Durante questo sessantennio il popolo ebraico esiliato si era integrato con il tessuto sociale e culturale dei babilonesi, sposandosi tra di loro; e così pure la parte di popolo che, invece, rimase in patria, si imparentò e si integrò con i popoli limitrofi, assumendone la cultura e i culti loro propri, inquinando il vero culto di Jhwh. Un grande guazzabuglio, quindi, che rischiò di cancellare per sempre il popolo di Israele. Neemia ed Esdra, proprio tramite la genealogia, che ogni ebreo doveva saper dimostrare, per essere identificato come tale e riprendere il suo posto all'interno della comunità (Esd 2,59.62; Ne 7,61), ricostruirono l'identità di Israele.

Termina qui il secondo preambolo all'attività missionaria di Gesù. Il terzo preambolo occuperà i primi 13 versetti del cap.4 e porrà Gesù di fronte a delle prove che lo spingono a confrontarsi con se stesso e con la missione affidatagli dal Padre, operando in tal modo delle scelte sul come svolgere la sua missione. Prevarrà in Gesù la scelta che fu del Servo sofferente di Jhwh, che verrà richiamata in 9,51, all'inizio del suo lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme.

N O T E

1Per un dettaglio su questa sezione e sull'attività galilaica di Gesù cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 24-25

2In tal senso cfr. Mt 3,6-7.11.13-14; Mc 1,4-5.8-9; Gv 1,25-26.28.31.33; 3,22-23.26; 4,1-2; 10,40

3La Betania qui indicata da Gv 1,28 non è quella più nota, legata agli ultimi giorni giorni di Gesù prima della sua passione e morte, che si trova nei pressi di Gerusalemme e dove Gesù pernottava durante il suo soggiorno a Gerusalemme.

4Cfr. Is 5,24; 9,18; 29,6; Ger 4,4; 5,14; 15,14; 17,27; 44,6; Ez 22,31;

5Cfr. il commento al cap.2, pag.35

6Giovanni imposta il suo racconto evangelico sulle festività ebraiche tra le quali figurano tre pasque: la prima è ricordata in 2,13.23; la seconda in 6,4; la terza pasqua, quella fatale, in 11,55.

7La tetrarchia di Lisania è testimoniata da un'epigrafe trovata in un tempio di Abila, databile tra il 14 e 20 d.C. riferita ad un liberto del “tetrarca Lisania”. Cfr. la voce “Lisania” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato, Nuova Edizione rivista e integrata 2005

8I cinque figli che ricoprirono la carica furono: Eleazar ben Anano (16-17 d.C.); Jonathan ben Anano (36-37); Theofilo ben Anano (37-41); Mattia ben Anano (41); Anano ben Anano (63). Fonte Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/Anna_%28sommo_sacerdote%29

9Cfr. la voce “Anna” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 1997.

10Tutti i significati sono stati tratti dalla voce “ggnomai” (ghígnomai), L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ed. Società editrice Dante Alighieri, Roma 1993.

11Altri autori traducono con “scese su Giovanni” (CEI 1974); “venne su Giovanni” (CEI 2008); “fu su Giovanni” (A.Poppi, Sinossi Quadriforme, greco-italiano, 1999); “avvenne la parola di Dio” (G. Rossé, il Vangelo di Luca); “La Parola di Dio fu rivolta a Giovanni” (R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2001). Questi sono soltanto alcuni esempi che dicono come quel “eghéneto” non sia di così facile e immediata soluzione.

12In Gen 6,5-7.11-13 Dio decide la distruzione dell'umanità e insieme a lei della terra abitata, poiché questa è stata inquinata e corrotta dalle azioni malvagie degli uomini. Un unico destino le accomunerà, dunque, nella distruzione, come in Rm 8,18-23 umanità e creazione saranno tra loro associate nella gloria, così come lo erano nei loro primordi.

13Cfr. Is 13,9.13; 30,27.30; 42,25; 66,15; Ger 4,4; 15,14; 44,6; Ez 13,13; 20,8; 22,31; Sof 1,15; 2,2-3; 3,8;

14Nella mia traduzione ho preferito tradurre “i militanti” per indicare tutti quelli che svolgono un servizio non soltanto in armi, ma anche funzioni di ordine pubblico, di controllo o di servizio pubblico in genere. Quindi una funzione ben più ampia del semplice soldato.

15Cfr. Dt 10,17; Sal 23,8; 88,14; Is 49,26; 60,16; Ger 32,18

16Sulla condizione dello schiavo nell'antichità cfr. la voce “Schiavo, Schiavitù” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997. Nuova edizione rivista e integrata 2005.

17Cfr. Gen 19,24; Nm 11,1; 16,35; Dt 4,24; 32,22; Sal 10,6; Is 66,15.16; Ger 44,6.

18Sul significato delle nozze di Cana cfr. il mio commento al cap.2 di Giovanni all'indirizzo http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%202.html

19Cfr. Lc 5,33; 7,18-20.24-29.33; 9,7.9.19; 11,1; 16,16; 20,4-6.

20Cfr. anche i paralleli in Dt 4,16.23; 5,8; 27,15

21Per una più dettagliata spiegazione sull'età di Gesù si cfr. pag.4 del presente commento al cap.3