IL
VANGELO SECONDO LUCA
Una
dotta disquisizione dottrinale e didattica
sulla
risurrezione di Gesù
e
sulla
natura del Risorto
e
della sua nuova presenza in mezzo ai suoi
(24,1-53)
Commento
esegetico e teologico
a
cura di Giovanni Lonardi
Benché piacevole a leggersi e narrativamente accattivante, il cap.24 non è il racconto della risurrezione di Gesù, come i capp. 22-23 lo sono stati per la sua passione e morte, ma è una riflessione molto densa e profonda su di essa, sulla corporeità del Risorto e sulla sua nuova forma di presenza in mezzo ai credenti e sul nuovo modo di relazionarsi ad essi, rispetto al Gesù della storia.
Un capitolo complesso nel suo dispiegarsi narrativo che si sviluppa su quattro quadri apparentemente giustapposti l'uno accanto all'altro, ma in realtà tutti accomunati tra loro e tra loro intrecciati da un duplice comune denominatore: da un lato la parola di Gesù, che è e deve essere fondativa della propria fede; dall'altro l'aspetto dottrinale che ha il suo fulcro nel collegio apostolico, unico depositario della verità sulla risurrezione.
Nel primo quadro (vv.1-12) si attesta che la tomba e vuota e la spiegazione è che Gesù è risorto e questa è una verità teologica (vv.5b-6a), che ha il suo fondamento nella parola di Gesù (vv.6b-8) e nel collegio apostolico, suo unico depositario (vv.9-12);
Il secondo quadro (vv.13-35) attesta la nuova forma di presenza del Risorto in mezzo ai suoi, sotto forma di Parola e di Pane che si spezza (vv.30-32). E qui il fondamento di questa novità è triplice: vi è un kerigma iniziale, che aggancia il credente all'evento storico Gesù (vv.19-20), su cui va fondata la propria fede; la parola stessa di Gesù (v.26), che si richiama al v.7, così come viene richiamato il primo quadro con i vv.22-24, la cui funzione è legarlo a questo secondo quadro, intrecciandoli tra loro, quasi volendo assommare quella verità a questa, senza disgiungerle tra loro; ed infine le Scritture (vv.25.27.32). Anche qui, depositario ultimo dell'evento risurrezione e della sua verità è il collegio apostolico (v.33-35).
Il terzo quadro, molto più complesso, attesta, da un lato, la nuova corporeità del Risorto (vv.36-43), collocata, anche qui, all'interno della cornice sia scritturistica che della stessa parola di Gesù (vv.44-46), che spiegano il senso del suo patire-morire-risorgere (v.47); dall'altro la costituzione del collegio apostolico quale testimone ufficiale di questi eventi, chiamato ad annunciarli alle genti (vv.47a.48). Il tutto viene accompagnato dall'unzione consacratoria dello Spirito Santo, che accredita ufficialmente il collegio apostolico presso Dio e presso gli uomini come il depositario e testimone unico della Verità sull'evento Gesù (v.49).
Il quarto quadro (vv.50-53) va a completare il concetto di risurrezione e di corporeità del Risorto con l'ascensione di Gesù al cielo: da un lato, il Gesù “in carne e d'ossa” ascende al cielo, vincendo ogni legge fisica; dall'altro attesta che la risurrezione colloca il Gesù risorto nella gloria e nella potenza del Padre, portando a compimento il cammino del ritorno al Padre, iniziatosi con 9,51, allorché Gesù intraprese il suo viaggio verso Gerusalemme. Da un punto di vista narrativo si tratta dell'apoteosi di Gesù, che attraverso l'umiliazione della sua passione e morte è stato collocato nella gloria del Padre (22,69). Un processo che richiama da vicino l'inno cristologico di Fil 2,6-11, caratterizzato da due movimenti: discendente (Fil 2,6-8) e ascendente (Fil 2,9-11).
Tutto quindi molto dottrinale da un lato, e molto catechetico e didattico dall'altro, ravvivato soltanto da qualche nota di emozione (vv.5.17b.32.37.41.52b), ma anche questa finalizzata a sottolineare le attestazioni dottrinali. Perché questa presa di posizione da parte di Luca?
Per poter comprenderne il motivo, e quindi il senso del cap.24 è necessario capire la platea dei destinatari a cui Luca sta rivolgendo il suo racconto. Si tratta, da un lato, di credenti di terza o quarta generazione. Persone, quindi, ormai lontane dagli eventi a cui qui si fa riferimento e che sono qui ricordati soltanto attraverso richiami non di fatti storici, bensì di attestazioni scritturistiche e della parola stessa di Gesù e che hanno come depositario unico il gruppo apostolico; dall'altro, Luca ha davanti a sé degli etnocristiani, convertiti che provenivano dal paganesimo, ma nello specifico la sua opera è indirizzata al mondo greco-ellenistico, la cui cultura aveva notevoli difficoltà nell'accogliere il concetto di risurrezione.
Nel suo “Fedone”, infatti, Platone evidenzia come il corpo sia d'impedimento nell'avvicinarsi alla verità, una sorta di peso morto, corrotto e corruttore, che ci distoglie da tutto ciò che è sublime e spirituale; mentre vede nella morte l'evento che separa l'anima dal corpo, liberandola in piena purezza verso la verità prima ed ultima. Compito del filosofo e dell'uomo saggio, che vogliono raggiungere la verità è, pertanto, cercare di liberarsi sempre più dalle esigenze, dalle pretese e dalla schiavitù del corpo. Viene nel contempo affrontato anche il problema dell'anima, che secondo la maggior parte degli uomini, al momento della morte del corpo, si dissolve nel nulla: “gli uomini restano alquanto scettici, perché pensano che, una volta separatasi dal corpo, essa non abbia più esistenza alcuna, che anzi si dissolva e perisca nell'istante in cui l'uomo muore” (Fed. XIV). Per contro, Platone sostiene che essa non solo era preesistente al corpo, ma proprio per questa sua preesistenza essa è anche immortale e al momento della morte, se non è stata corrotta dal corpo, ponendosi al suo servizio anziché dominarlo e, in qualche modo, respingerlo, essa se ne andrà “verso l'invisibile, verso il divino, l'immortale, l'intelligibile, dove, una volta giunta, sarà felice, libera dall'errore, dalla malvagità, dalla paura, dalle selvagge passioni, da tutti gli altri mali dell'uomo e dove potrà trascorrere tutto il tempo a venire, come si dice a proposito degli iniziati, veramente in compagnia degli dei” (Fed. XXIX).
Questo, dunque, in buona sostanza, il clima che dominava la cultura della società ellenistica: da un lato, il corpo, destinato a perire, è fonte di appesantimento spirituale e di corruzione tale da poter perdere l'uomo. Saggio, quindi, è colui che lo domina e lo rifugge; dall'altro, l'anima, che per i più è mortale e destinata a svanire con il corpo, mentre per altri essa continua a vivere nell'immortalità divina, sopravvivendo al corpo.
Luca con il cap. 24 dovrà dare risposta a questo complesso quadro culturale, che esclude la risurrezione o, se la ammette, la vede soltanto come una mera sopravvivenza dell'anima; mentre per il giudaismo essa è considerata una sorta di riviviscenza, che consente all'uomo di ritornare a vivere sostanzialmente nel modo identico di prima. In questa prospettiva si colloca la diatriba tra Gesù e i Sadducei circa la risurrezione dei morti (Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-38). Nel mondo ellenistico manca, pertanto il concetto di risurrezione, così che quando Paolo cercherà di parlarne si troverà di fronte alla dura e, nel contempo, buffa posizione dei filosofi epicurei e stoici, che non riescono a capire cosa Paolo stia dicendo, credendo che Gesù e risurrezione fossero due nuove divinità: “Anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui e alcuni dicevano: <<Che cosa vorrà mai insegnare questo ciarlatano?>>. E altri: <<Sembra essere un annunciatore di divinità straniere>>; poiché annunciava Gesù e la risurrezione” (At 17,18). Ma allorché spiegò più chiaramente di cosa si trattasse, Paolo venne deriso e lasciato alle sue fantasticherie: “Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: <<Ti sentiremo su questo un'altra volta>>” (At 17,32).
Questo era il quadro culturale in cui Luca si venne a trovare. Come dunque introdurre nel mondo greco il nuovo ed assurdo quanto aborrito concetto di risurrezione, cercando di far capire come essa non sia una risuscitazione, una ripresa della vita precedente, ma una nuova realtà in cui l'uomo nella sua interezza è introdotto e viene a far parte di un nuovo mondo, che proprio la risurrezione di Gesù ha inaugurato; una realtà in cui il corpo non è più come quello di prima, ma trasformato, spiritualizzato; in un certo qual senso assorbito nella dimensione propria dello spirito. Dimostrare tutto ciò sarà compito del cap.24 e da qui la necessità per Luca di fondare e blindare la risurrezione sia all'interno di un quadro dogmatico ed ecclesiologico che didattico nel contempo.
La struttura del cap.24 è suddivisa in quattro quadri delimitati da altrettante inclusioni, date prevalentemente per complementarietà di immagini o di azioni.
Il primo quadro, che ha una duplice chiusura, si apre con le donne che si recano alla tomba (v.1) e si chiude (prima chiusura) con le donne che tornano indietro (v.9) e ancora (seconda chiusura) con Pietro che va e torna dalla tomba (v.12); il secondo quadro, metafora di una chiesa in cammino alla scoperta del Risorto, si apre con i due discepoli che si allontanano sfiduciati da Gerusalemme (v.13) e si chiude con i due che ritornano a Gerusalemme, rianimati dalla speranza (v.33); il terzo quadro si apre con Gesù che si pone in mezzo ai suoi con il dono della pace (v.36), che è l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini, e si chiude con il dono dello Spirito, che aggrega l'uomo riconciliato alla vita stessa di Dio (v.49); il quarto quadro si apre con Gesù che, accomiatandosi dai suoi, li benedice (v.50) e si chiude con i suoi che contraccambiano benedicendo Dio, inaugurando un nuovo ciclo cultuale che ha per oggetto e fondamento il Risorto stesso (v.53).
Il materiale di cui è composto il cap.24, se si esclude il primo quadro, quello della scoperta della tomba vuota e dell'annuncio della risurrezione, mutuato da Mc 16,1-8, ma completamente rielaborato e trasformato da Luca, è di fonte lucana e redazionale propria, che, tuttavia, per diversi aspetti è molto vicino al racconto giovanneo.
Primo quadro: la scoperta della risurrezione (vv.1-12)
Testo a lettura facilitata
Il preannuncio di una nuova era (v.1)
1
– Ora, nel primo giorno della settimana, ai primi albori, vennero
alla tomba portando gli aromi che prepararono.
La scoperta della tomba vuota (vv.2-3)
2
– Ma trovarono la pietra rotolata via dalla tomba.
3
– Ora, entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù.
La
rivelazione divina: Gesù è risorto ed è il Vivente (vv.4-6a)
4
– Ed avvenne che, mentre esse erano in imbarazzo per questo, ed
ecco due uomini si avvicinarono presso di loro in veste sfolgorante.
5
– Ma essendosi esse spaventate e piegando il volto verso la terra,
(quelli) dissero verso di loro: <<Perché cercate il Vivente
tra i morti?
6a
- Non è qui, ma fu risuscitato.
La
risurrezione preannunciata dalla parola di Gesù (vv.6b-8)
6b
- Ricordate come vi parlò quando era ancora in Galilea,
7
– dicendo che il Figlio dell'uomo deve essere consegnato nelle mani
di uomini peccatori ed essere crocifisso e al terzo giorno
risuscitare>>.
8
- E ricordarono le sue parole.
La
testimonianza presso il collegio apostolico, convalidata da Pietro
(vv.9-12)
9
– E ritornate dalla tomba, riferirono tutte queste cose agli Undici
e a tutti gli altri.
10
– Ora, erano Maria Maddalena e Giovanna e Maria di Giacomo e le
altre con loro. Dicevano queste cose agli apostoli,
11
– e queste parole sembrarono al loro cospetto come un
vaneggiamento, e non credevano a loro.
12
– Ma Pietro, levatosi, corse alla tomba e, chinatosi, vede (le)
sole bende e ritornò verso se stesso meravigliandosi dell'accaduto.
Note generali
Per tutti gli evangelisti il racconto della risurrezione inizia con la scoperta della tomba vuota, preannunciata dalla segnalazione della pietra tombale rotolata via, a cui Mt 28,2 e Mc 16,2-3 dedicano una particolare attenzione. Narrativamente tale scoperta crea suspense, curiosità e attesa nel lettore, e costituisce il preambolo all'annuncio che verrà subito dopo, il quale spiega il vuoto della tomba, aprendo il cuore del credente ad una immensa gioia. La tomba vuota, tuttavia, pur essendo un dato storico, non costituisce la prova della risurrezione né tantomeno il fondamento della fede. Tant'è che nessun kerygma la menziona. Anzi crea molte titubanze, interrogativi e il primo pensiero è che il corpo di Gesù sia stato trafugato (Mt 28,13; Gv 20,2.13b.15b). Sarà soltanto l'annuncio dell'angelo a dare la corretta interpretazione di quel vuoto, richiamandosi a quanto Gesù aveva predetto (Mt 28,6a; Lc 24,6-7).
La presenza dell'angelo annunciante la risurrezione è un altro elemento comune a tutti gli evangelisti, che va letto e compreso attentamente. L'angelo, descritto da Mt 28,2a.3, viene presentato come “un angelo del Signore, disceso dal cielo […] Il suo aspetto era come un bagliore e il suo vestito bianco come la neve” e il cui apparire crea un grande sconquasso (Mt 28,2a); per Mc 16,5 era semplicemente “un giovane, seduto sulla destra, vestito d'una veste bianca”; per Lc 24,4b, invece, erano “due uomini (che) si avvicinarono presso di loro in veste sfolgorante”; per Gv 20,12b erano “due angeli in bianche (vesti), seduti uno presso la testa e uno presso i piedi, dove giaceva il corpo di Gesù”. Questi ultimi, tuttavia, non appaiono subito alla Maddalena, come per le altre donne, ma soltanto in un tempo successivo, poiché Giovanni in 20,1-10 preferisce prima lasciare un ampio spazio di indagine razionale e storica ai due capi della comunità credente: Pietro e il Discepolo Prediletto, descrivendo in tal modo le diverse tappe percorse dalle loro comunità per raggiungere la fede nel Risorto. Soltanto dopo anche Giovanni si allinea in qualche modo alla tradizione sinottica, che prevede l'annuncio della risurrezione da parte dell'angelo alle donne che scoprono la tomba vuota, benché gli angeli giovannei non annuncino nessuna risurrezione, ma si limitano a chiedere alla Maddalena il motivo del suo pianto (Gv 20,13). Sarà la Maddalena stessa, invece, metafora della comunità giovannea, a scoprire il Risorto, che si lascia riconoscere da lei (Gv 20,14-16).
Come si può facilmente rilevare, benché tutti gli evangelisti siano concordi sulla tomba vuota e sulla presenza di angeli che rivelano alle donne, attraverso il loro annuncio, la risurrezione di Gesù, o l'aiutano a scoprirla, tuttavia nessun racconto coincide nei fatti con gli altri. Questo sta a significare che gli evangelisti non sono degli reporters preoccupati a riportare esattamente i fatti accaduti, ma i loro racconti, poiché di racconti si tratta e non di scrupolosi reportage giornalistici e tantomeno storici, che a loro non interessavano, erano finalizzati a mettere in rilievo i contenuti e il senso degli eventi, che qui raccontano con immagini metaforiche o simboliche. Per cui, ecco, come l'apparire di angeli, le cui vesti bianche o sfolgoranti li qualificano come di provenienza divina, dice che l'evento risurrezione non è una realtà raggiungibile umanamente, ma che essa, superandola ampiamente, in quanto realtà spirituale, si sottrae alla sensorialità umana e può essere raggiunta soltanto attraverso una illuminante rivelazione divina, simboleggiata dagli angeli e che ha come punto di riferimento due elementi fondamentali e imprescindibili: la parola stessa di Gesù, che l'aveva preannunciata e alla quale Luca nel suo racconto più volte rimanda1, così come Mt 28,6; e le Scritture, la cui importanza, quale chiave di lettura e comprensione dell'evento Gesù, viene rilevata da tutti gli evangelisti, ma in particolar modo in questo contesto di risurrezione, soltanto da Luca (24,27.32.45) e da Giovanni (Gv 20,9).
La fede nel Risorto, pertanto, non avviene attraverso la facile e discutibile visione di angeli, ma attraverso una laboriosa e sofferta ricerca che ha come fondamento tre elementi: la constatazione che la tomba era vuota e il ritrovamento in essa delle bende e del sudario, che avvolgevano il corpo di Gesù; da questa traccia storica, attraverso un'attenta riflessione sulle fasciature, si è giunti a comprendere che i resti di Gesù non erano stati trafugati, ma che qualcosa di inatteso doveva essere successo. Il secondo elemento è il recupero delle parole di Gesù, il quale più volte deve aver fatto accenno al suo destino di morte e di risurrezione. Il terzo elemento, questo determinante, la ricomprensione delle Scritture, che dovevano in qualche modo aver parlato di questo evento straordinario.
Sarà proprio Gv 20,1-10, nel suo racconto della scoperta della tomba vuota, a parlare dei diversi stadi attraverso i quali è passata la comunità credente prima di giungere alla certezza della risurrezione2: dapprima la scoperta della tomba vuota fu compresa come un trafugamento di cadavere (Gv 20,2b.13b.15b). Il verbo greco usato per indicare il “vedere”, in questa prima fase, è “blšpw” (blépo) (Gv 20,1), che indica un semplice vedere fisico, che non s'interroga e che non va oltre a ciò che vede. È un “vedere” inintelligente. In un secondo momento, con l'intervento di Pietro e del Discepolo Prediletto, si incominciò a riflettere sulla bendatura sparsa per terra e sul sudario, per contro, ben ripiegato e posto a parte. Anche qui compare il verbo “vedere”, ma non è più espresso in greco con “blšpw” (blépo), bensì con “qewršw“(tzesoréo) (Gv 20,6), che indica un vedere attento, che si interroga e riflette su ciò che vede3; un vedere che si fa ricerca e va ben oltre a ciò che semplicemente vede: una tomba vuota con dei panni per terra e un sudario ben ripiegato messo a parte. Infatti, che senso poteva avere tutto questo? E perché se qualcuno ha trafugato il corpo di Gesù lo ha prima sbendato e ha avuto cura di ripiegare per bene il sudario e metterlo a parte, portandosi via un corpo completamente nudo, sanguinolento, scarnificato e sbrindellato dalla flagellazione e dalla crocifissione? Tutto questo non ha alcun senso. Ed ecco quindi il terzo momento, che vede nascere nel Discepolo Prediletto l'intuizione che il corpo di Gesù non è stato trafugato, ma è risorto: “vide e credette” (Gv 20,8). Qui, in questa terza fase, compare ancora il verbo “vedere”, ma questa volta è espresso in greco non più con “blšpw” (blépo) o con “qewršw“(tzesoréo), bensì con “Ðr¡w” (oráo), che dice un vedere superiore, un vedere che va oltre a ciò che si vede o si può immaginare. È, infatti, per Giovanni, il verbo della fede raggiunta. Tuttavia mancava la prova decisiva e determinante, quella soprannaturale contenuta soltanto nelle Scritture, che ancora non avevano compreso appieno: “infatti non avevano ancora compreso la Scrittura che egli deve risorgere dai morti.” (Gv 20,9). Sarà dunque soltanto la Scrittura che darà la piena comprensione dell'evento risurrezione, nonché il ricorso alle parole di Gesù che in qualche modo la preannunciavano.
Sono elementi questi che vanno tenuti presenti, poiché l'impianto e la maturazione della fede all'interno dei credenti e delle rispettive comunità non fanno salti e nulla hanno di miracolistico, ma tutto si gioca sulla disponibilità di chi si accosta al Mistero e sull'evolversi delle cose. Soltanto a questa condizione, poi, il Mistero si disvelerà attraverso l'illuminazione divina che avviene attraverso la Parola. È questo il senso del racconto che stiamo per affrontare. Un racconto basilare, che verrà poi richiamato in quello successivo dei discepoli di Emmaus (vv.22-27) e in cui Luca sviluppa un suo concetto di risurrezione, che vede Gesù costituito come il Vivente (v.5b), approfondendo successivamente tale concetto nell'affrontare la nuova e inedita corporeità del Risorto, prospettando infine la novità dei rapporti che da tutto ciò scaturirà. Quindi Luca tratta una risurrezione in prospettiva ecclesiologica, sottesa da una idea missionaria (At 10,34-35).
La struttura del 1° quadro
(vv.1-12) si articola in cinque parti, che già sono state elaborate
nella sezione del “Testo a lettura facilitata” e che qui si
riportano per un loro sintetico richiamo, che consente la
comprensione immediata degli intenti di Luca:
Il preannuncio di una nuova era (v.1);
La scoperta della tomba vuota (vv.2-3);
La rivelazione divina: Gesù è risorto ed è il Vivente (vv.4-6a);
La risurrezione preannunciata dalla parola di Gesù (vv.6b-8);
La testimonianza
depositata presso il collegio apostolico, convalidata da Pietro
(vv.9-12).
Già da questo breve schema
si può rilevare come la scoperta della risurrezione in realtà si
riduce ad una scoperta della tomba vuota (b). Quanto a capire il
senso di questo vuoto si rende necessario un duplice intervento: una
rivelazione divina (c) e il ricorso alla parola di Gesù, che ha
preannunciato il suo destino di morte e risurrezione (d); ed infine,
la conferma della collegialità apostolica, guidata da Pietro, che ne
attesti la veridicità (e).
Commento
ai vv.1-12
Il
preannuncio di una nuova era
(v.1)
Con 23,56b si era venuta a creare una sospensione del tempo e dell'azione. Tutto con la morte di Gesù si era fermato; mentre le donne, che erano venute dalla Galilea (23,55a), tornarono indietro, quasi a dire che la morte di Gesù era un limite invalicabile: “Ora, tornate indietro, prepararono aromi e profumi. E il sabato riposarono secondo il comandamento”.
Ora il v.1 riapre i giochi e, quasi a creare una continuità di azione tra il prima e il dopo, racconta come “vennero alla tomba portando gli aromi che prepararono”. Non viene qui esplicitato il soggetto, che rimane sottinteso, poiché si riferisce alle donne che tornarono indietro e prepararono gli aromi, quelle del precedente v.23,56. Azione quest'ultima che viene richiamata dal v.1b rafforzando in tal modo la continuità tra il prima e il dopo, quasi che il racconto della risurrezione fosse una sorta di appendice della morte di Gesù. Tutto quindi sembra essere come prima. Ma se il v.1b crea una continuità tra il prima e il dopo, una continuità che servirà, poi, all'autore al v.39, allorché il Risorto si mostrerà ai suoi come quello di prima, il v.1a, invece, aprendo con una significativa nota temporale, crea una profonda discontinuità tra il prima e il dopo, tra il passato e il presente: “Ora, nel primo giorno della settimana, ai primi albori”. Un versetto questo che richiama e in qualche modo riprende da vicino Gv 20,1: “Ora, il primo giorno della settimana […] quando c'era ancora buio […]”. Per entrambi gli evangelisti si è “nel primo giorno della settimana”, ma mentre per Giovanni si era ancora nel “buio”, alludendo allo stato di confusione e di smarrimento in cui brancolavano le comunità credenti di fronte alla morte di Gesù, Luca, per contro, attesta che si era “ai primi albori”. È forte qui il richiamo alla settimana genesiaca della creazione, dove nel primo giorno della settimana creativa Dio crea la luce: “Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu. […] E fu sera e fu mattina: primo giorno” (Gen 1,3.5b). Non si tratta della luce astrale, che verrà creata nel quarto giorno (Gen 1,14-19), bensì della luce divina, che è l'identità e la vita stessa di Dio entro la quale viene collocata l'intera creazione, così che tutta la creazione era avvolta e rilucente di Dio e Dio si rifletteva (Rm 1,20) e si riconosceva in qualche modo in essa : “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a). E Rm 1,20 riprenderà questo aspetto della creazione: “Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità”.
Il v.1a, a modo suo, fa, quindi, il primo annuncio della risurrezione e ne tratteggia simbolicamente l'identità: si tratta di una nuova creazione, in cui la luce della risurrezione, preannunciata in quei “primi albori”, è la luce stessa di Dio, in cui risplende la sua stessa vita. Ecco perché le donne, entrate nella tomba, non trovarono il corpo di Gesù. Quello che loro cercavano era il corpo del vecchio Adamo, quello corrotto dal peccato. Ebbene, questo corpo ora non c'è più. Con la tomba vuota si chiude, quindi, il ciclo della prima creazione e se ne inaugura ora una nuova. E gli angeli rimprovereranno proprio questo alle donne smarrite: “perché cercate il Vivente tra i morti” (v.5b), in cui riecheggia in qualche modo il rimprovero di Is 43,19, rivolto al popolo oppresso dall'esilio babilonese, sollecitandolo a guardare avanti: “Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa” (Is 43,19); mentre Giovanni dalla sua Apocalisse gli fa il verso: “E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>” (Ap 21,5a).
La
risurrezione, quindi, segna l'inizio di una nuova creazione, che
viene evidenziata da Luca proprio in quelle insistenti espressioni:
“nel primo
giorno”,
“nei primi
albori”,
che riportano il lettore alle origini, facendo della risurrezione
l'origine originante di tutte le cose, di quei cieli nuovi e di
quella nuova terra vaticinati da Is 65,17 e testimoniati da Giovanni
in Ap 21,1.
La
scoperta della tomba vuota
(vv.2-3)
Se il v.1 crea continuità e discontinuità nel contempo tra il prima e il dopo, i vv.2-3 testimoniano di questa discontinuità, poiché ciò che c'era prima ora non c'è più. Significativo è quel “ma” con cui si apre il v.2, che si contrappone al comportamento delle donne, che dopo la morte di Gesù tornarono indietro per preparare i loro aromi ed ora con quella stessa logica di prima riprendono il cammino verso la tomba, quella che per loro era la nuova dimora di Gesù e vanno a rendere culto ad un morto. Ed è proprio quel “ma” iniziale che interrompe bruscamente il loro modo di pensare Gesù. Un'interruzione che viene scandita in due momenti uno successivo all'altro: dapprima “trovarono” la pietra rotolata via dalla tomba. A differenza degli altri evangelisti i quali raccontano come le donne “videro” la pietra rotolata via, Luca preferisce il verbo “trovare”, che racchiude in se stesso il concetto di un cercare che è giunto ad una determinata conclusione, che diviene esperienza di vita. Di fronte alla morte di Gesù, similmente ai due discepoli di Emmaus (v.13), esse tornarono indietro (23,56a). Ora hanno deciso di ripercorre il loro cammino verso Gesù, cercando di creare intorno a lui, morto e sepolto, una sorta di culto, con aromi e profumi. Ma è proprio in quel loro andare verso Gesù che si imbattono in una nuova realtà, testimoniata dal preannuncio di una tomba aperta e dal loro “entrare” in questa tomba, dove sperimentano la scomparsa di ciò che esse pensavano ancora di trovare: il corpo di Gesù. Luca è l'unico tra gli evangelisti che racconta come le donne sono entrate nella tomba, cosa che Giovanni riserva soltanto a Pietro e successivamente al Discepolo prediletto, poiché l'entrare nella tomba e constatarne il vuoto significa in qualche modo entrare e sperimentare in quel vuoto il Mistero di Dio stesso, che preannuncia in quel “vuoto” il suo progetto di salvezza: il vecchio Adamo non c'è più, ma ne sta per comparire uno nuovo, da cui l'intera umanità credente viene rigenerata alla vita stessa di Dio.
Un
preannuncio questo che in qualche modo l'evangelista racchiude in
quel “corpo del Signore
Gesù”.
Gesù non è più qui concepito come l'uomo Gesù, quello della
storia, ma come il “Signore Gesù”, cioè come il Gesù che è
diventato il “Signore”. Un titolo quest'ultimo che le prime
comunità credenti riservavano al Risorto, esaltandone la sua
Signoria universale. La prospettiva, quindi, qui comincia ad
allargarsi e Luca tratteggia un nuovo aspetto della risurrezione:
essa non è soltanto l'origine originante di una nuova creazione, ma
l'affermazione cosmica del Risorto, che riecheggerà anche in Mt
28,18b: “Mi
è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”.
Una Signoria che è stata codificata in una lapidaria formula di
fede, la più breve e la più antica giunta a noi, trasmessaci da
Paolo e qui parafrasata da Luca, “Gesù è il Signore”: “Poiché
se confesserai con la tua bocca che Gesù
è il Signore,
e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti,
sarai salvo”
(Rm 10,9). Un titolo, dunque, quello di “Gesù Signore”
strettamente legato alla risurrezione.
La
rivelazione divina: Gesù è risorto ed è il Vivente
(vv.4-6a)
Dopo un lungo preambolo sulla definizione della risurrezione, quale origine originante di una nuova creazione, che crea uno stacco netto tra il prima e il dopo, attribuendo al Risorto il titolo di Signore, che gli assegna la Signoria universale, ora Luca, con due passaggi fondamentali, l'uno successivo all'altro e tra loro complementari, vv.4-6a e 6b-8, dà l'annuncio della risurrezione.
Con i vv.4-5 l'autore crea il contesto soprannaturale in cui colloca l'annuncio della risurrezione (vv.5b-6a) e lo fa con due movimenti: da un lato, descrive la situazione di imbarazzo in cui si trovano le donne di fronte ad un evento inatteso, quello della pietra rimossa e la tomba vuota, ma che nel contempo preannuncia un ulteriore e maggiore imbarazzo, dato dall'apparizione angelica (v.4); dall'altro, la reazione delle donne di fronte all'apparizione dei due angeli, caratteristica questa dell'irrompere del mondo divino in quello umano (v.5a).
Il v.4 si apre con un verbo caratteristico di Luca con cui l'evangelista introduce i suoi racconti che annunciano l'accadere di un evento salvifico: “kaˆ ™gšneto”4 (kaì eghéneto), “ed avvenne”. Un verbo interessante anche da un punto di vista narrativo, perché tende ad accentrare l'attenzione del lettore su ciò che sta per accadere. E ciò che sta per accadere qui è l'apparire, quasi dal nulla, di due uomini, contraddistinti dalle loro vesti sfolgoranti, che qualificano fin da subito la loro provenienza divina, poiché la veste o l'abito nel linguaggio biblico e in particolare in quello evangelico definisce l'identità e la natura della persona che lo indossa5. Un'apparizione che si contrappone, ma nel contempo viene in aiuto all'imbarazzo in cui si trovano le donne per la loro inattesa scoperta. Il verbo che qui Luca usa per definire lo stato di imbarazzo in cui si trovano le donne è particolarmente significativo: “¢pore‹sqai” (aporeîstai), che letteralmente significa essere in difficoltà, a disagio, in incertezza, essere senza mezzi, senza risorse, senza aiuti, mancare di qualche cosa. Ma che nel contempo esprime anche dubbi e interrogativi. Non ci si trova quindi di fronte a delle donne semplicemente meravigliate, ma completamente smarrite e stravolte dall'evento in cui si sono imbattute. Il verbo, infatti, è qui posto anche al passivo teologico o divino, che nel linguaggio evangelico chiama in causa Dio e rimanda l'azione a Lui. Quindi questo smarrimento delle donne nasce da un'esperienza del divino, presente in quella pietra rimossa e in quella tomba vuota. Mt 28,2, in modo più diretto, afferma che la pietra è stata rimossa dall'angelo a seguito di un terremoto, elemento quest'ultimo teofanico, che attesta l'origine divina di quella rimozione e quindi l'intervento di Dio stesso su Gesù.
Uno smarrimento ed uno stravolgimento che ora si accentua ancor di più con l'angelofania: “Ma essendosi esse spaventate e piegando il volto verso la terra”. Luca qui descrive la reazione dell'uomo all'irrompere di Dio nel suo habitat.
Luca sta qui creando lentamente, pezzo per pezzo, non solo il contesto rivelativo della risurrezione di Gesù, ma anche la sua origine divina. Qui si sta parlando della risurrezione come una sorta di atto generativo di Dio nei confronti di Gesù e che Rm 1,3-4 attesta, presentando Gesù nella sua duplice origine, umana prima, divina poi: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”.
L'evento risurrezione, pertanto, non è una realtà umanamente e storicamente raggiungibile, ma necessita di un intervento rivelativo di Dio. Questo il quadro che Luca sta costruendo per i suoi lettori e nel quale pone ora l'annuncio: “<<Perché cercate il Vivente tra i morti? Non è qui, ma fu risuscitato” (vv.5b-6a). Gli angeli pongono alle donne una domanda, con un tocco di rimprovero, il cui motivo verrà reso noto alla pericope successiva, in quanto esse dovevano essere preparate alla risurrezione sul fondamento delle stesse parole di Gesù, alle quali gli angeli rimandano (vv.6b-9), la quale cosa significa che la certezza della risurrezione e la sua esperienza non va attinta da ricerche storiche e sensoriali in genere, ma va fondata sulla Parola stessa di Gesù, che va soltanto accolta e creduta.
La domanda-rimprovero che gli angeli rivolgono alle donne è accentrata attorno a due elementi il “cercare” e la definizione del Risorto come il “Vivente”. Un “cercare” che dice come la comprensione di Gesù quale Risorto non è stata una cosa semplice e immediata, ma come ogni ricerca è disseminata da incertezze, dubbi, fallimenti e tentativi finché non si giunge alla meta oggetto della ricerca. Luca qui sta parlando ai suoi lettori greco-ellenisti e li sta spingendo ad elevare i livelli della loro ricerca e delle loro comprensioni, che devono superare i limiti dei ragionamenti umani: non cercare quindi tra i morti, cioè attraverso strumentazioni umane, poiché lì non si troverà niente. È necessaria la fede. L'altro elemento è la definizione del nuovo stato esistenziale di Gesù quale “Vivente” (“zînta”, zônta), che qui viene contrapposto ai “morti”, per metterne meglio in rilievo la natura. Ci si trova di fronte al participio presente del verbo “z£w” (záo), che Giovanni usa nel suo vangelo per indicare la vita stessa di Dio, che si contrappone al “biÒw” (bióo), che indica un vivere a livello biologico, fisico. L'uso qui del participio presente dice il perpetuarsi di questo vivere, ma nel contempo ne definisce la natura: Gesù non solo continua a vivere, ma è il Vivente, cioè possiede in se stesso la vita eterna, che è vita stessa di Dio. Un titolo che richiama da vicino Ap 1,7b-8, che lo definisce nella sua vera natura, spiegandone il senso: “Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”.
Il
v.6a definisce lo stato del “Vivente”: “Non è qui, ma fu
risuscitato”. Con l'espressione “Non è qui” Luca non dice
soltanto che Gesù non è tra i morti, ma che non appartiene più
neppure a questa dimensione spazio-temporale, che è propria della
storia. Una posizione questa che l'evangelista preciserà meglio al
termine di questo cap.24, là dove parla dell'ascensione di Gesù in
cielo (vv.50-53), che già era stata preannunciata durante il
processo giudaico davanti al Sinedrio, allorché Gesù in 22,69
attestava che “da adesso il Figlio dell'uomo sarà seduto alla
destra della potenza di Dio”. Significativo è qui il verbo
risuscitare posto al passivo teologico o divino (ºgšrqh,
eghértze),
che rimanda l'azione del risuscitare a Dio stesso. La risurrezione,
pertanto, risiede nel Padre che opera su Gesù attraverso la potenza
dello Spirito (Rm 1,4).
La risurrezione
preannunciata dalla parola di Gesù (vv.6b-8)
Se i vv.4-6a definiscono la risurrezione come un evento rivelativo e, pertanto, dottrinale, che non va dubitato, ma creduto, questa breve pericope in esame dice dove questa rivelazione è avvenuta e a che cosa è legata: la Parola di Gesù: “Ricordate come vi parlò quando era ancora in Galilea”.
La pericope è molto elaborata, rilevandone in tal modo l'importanza. Essa è delimitata da un'inclusione, data dal verbo ricordare (vv.6a.8), e si sviluppa sotto forma di breve parallelismo concentrico in B, dato per complementarietà d'azione: in A) c'è l'esortazione-comando a ricordare (v.6b) e in A1) il ricordo che avviene (v.8),). Al centro, in B), la posizione più importante secondo le logiche della retorica ebraica, si colloca la Parola che annuncia e rivela l'evento della nostra salvezza: passione-morte-risurrezione.
Il ricordo così sollecitato e comandato (v.6b) e così compiuto (v.8) non ha soltanto una funzione di richiamare alla memoria le Parole di Gesù, su cui fonda la rivelazione della risurrezione e la vita propria di ogni credente, ma il comando a ricordare (v.8) allude anche al “fare memoria” di questo evento annunciato, cioè attuarlo nell'oggi salvifico dell'uomo attraverso la Parola che si fa rito e che diviene culto. Un ricordo che l'autore meglio specificherà nel racconto dei due discepoli di Emmaus dove la Parola viene coniugata con lo spezzare del Pane.
E ciò che qui è comandato
di “ricordare e viene ricordato”, così da farne poi memoria, è
il Mistero compiuto della salvezza, colto come un unico atto:
passione-morte-risurrezione, che proprio in questo “ricordare” in
modo rituale si perpetua tra gli uomini di ogni tempo e latitudine.
Un annuncio che si ripeterà lungo il viaggio di Gesù verso
Gerusalemme (9,22; 18,32-33), ma che continuerà a risuonare, quasi
in modo ossessivo, anche dopo l'evento della risurrezione (vv.7;
19-20; 26; 46), indicandone la centralità.
La testimonianza presso il collegio apostolico,
convalidata da Pietro (vv.9-12)
Il
racconto della scoperta della tomba vuota e dell'annuncio della
risurrezione si conclude con il ritorno delle donne dalla tomba agli
Undici, presso i quali esse depositano la loro testimonianza.
La
pericope in esame (vv.9-12) si snoda su due momenti rilevanti: il v.9
che conclude il racconto del ritrovamento della tomba vuota e che
forma inclusione con il v.1, data da movimenti uguali-contrari: le
donne vanno alla tomba (v.1) e sempre le stesse ritornano dalla
tomba. Viene in tal modo delimitata un'unità letteraria il cui
contenuto è caratterizzato dall'esperienza della tomba trovata vuota
da parte delle donne.
Il
racconto, pertanto, del ritrovamento della tomba vuota è, in sé e
per sé, completo e narrativamente non ha bisogno di aggiunte, poiché
il v.9 già di per se stesso è esaustivo: “E ritornate dalla
tomba, riferirono tutte queste cose agli Undici e a tutti gli altri”.
Tuttavia, Luca riprende il v.9 e lo amplia e lo approfondisce con i vv.10-12, che costituiscono il secondo momento di questa pericope molto densa. Perché Luca sente questa necessità. Il motivo è semplice: ci si trova di fronte ad una testimonianza sconvolgente fatta da donne (v.22a), considerate giuridicamente incapaci di testimonianza. La reazione dei presenti, infatti, non lascia dubbi nel merito: “e queste parole sembrarono al loro cospetto come un vaneggiamento, e non credevano a loro” (v.11). Si rende necessaria, pertanto, un'autorevole conferma ad una simile sconcertante testimonianza. Ed è a questo punto che Luca fa intervenire Pietro, il quale “[...] corse alla tomba e, chinatosi, vede (le) sole bende e ritornò verso se stesso meravigliandosi dell'accaduto” (v.12). Un versetto questo che, similmente al primo con cui si apre il racconto (v.1), è stato in qualche modo mutuato dal racconto giovanneo (Gv 20,3-6). Il racconto si conclude con Pietro che “ritornò verso se stesso meravigliandosi dell'accaduto”. Significativo è quel “rientrare in se stesso” di Pietro. L'espressione greca è “¢pÁlqen prÕj ˜autÕn” (apêltzen pròs eautòn) letteralmente significa “tornò indietro verso/presso se stesso” lasciando aperta l'espressione ad una duplice interpretazione, nel senso che Pietro ritornò a casa sua; ma anche, così posta, può significare che “Pietro rientrò in se stesso” e, quindi, ciò che Pietro ha visto e che ha causato in lui meraviglia è diventato anche per lui oggetto di riflessione, la quale cosa corrisponde all'atteggiamento del Pietro giovanneo che, entrato nella tomba, vide per terra le bende e il sudario. Un vedere quello di Pietro, che Giovanni esprime con il verbo “qewršw” (tzeoréo), che significa osservare, meditare, riflettere, esaminare. Luca, pertanto, sulla falsariga di Giovanni, abbozza un'espressione probabilmente volutamente equivoca, aperta ad un doppio senso. Caratteristica letteraria questa propria di Giovanni.
Un'ultima
osservazione va posta sul v.10 dove Luca, contrariamente a quanto ha
fatto fin qui, cita i nomi delle donne, che appaiono soltanto ora e
in 8,2-3. Di quelle riprende soltanto Maria di Magdala e Giovanna,
tralasciando Susanna, probabilmente fatta rientrare nel gruppo
anonimo delle “altre con loro” (v.10a) o comunque di non
particolare interesse per l'evangelista. Vi aggiunge, invece,
mutuandola da Mc 16,1, Maria di Giacomo. Il motivo per cui Luca svela
soltanto ora il nome delle donne è perché esse, pur giuridicamente
incapaci di testimonianza, sono tuttavia delle testimoni, la cui
testimonianza verrà poi validata da Pietro (v.12). Per questo Luca
ora dà loro un volto, facendole emergere dal loro anonimato. E
questo persistente silenzio su di esse a partire da 8,2-3 fino a
questo momento, a differenza degli altri evangelisti che le nominano
sia al termine del racconto della passione e morte che all'inizio del
racconto della risurrezione, è dovuto probabilmente al fatto che
Luca voglia accentrare l'attenzione del lettore su di loro,
sottolineando la loro importanza come testimoni.
Secondo
quadro: i due discepoli di Emmaus ovvero la scoperta della
nuova presenza di Gesù in mezzo ai suoi (vv.13-35)
Testo a
lettura facilitata
Il
preambolo (vv.13-14)
13
– Ed ecco due di loro in quel giorno andavano in un villaggio che
era distante sessanta stadi da Gerusalemme, che (aveva) nome Emmaus;
14
– ed essi conversavano l'un l'altro circa tutte queste cose
accadute.
L'incontro
con un nuovo e sconosciuto Gesù (15-21)
15
– Ed avvenne che nel mentre essi stavano conversando e discutendo,
anch'egli, Gesù, avvicinatosi, camminava con loro,
16
– ma i loro occhi erano impediti (così) da non riconoscerlo.
17
– Ora, disse verso di loro: <<Che cosa sono questi discorsi
che scambiate l'un l'altro camminando?>>. E si fermarono
tristi.
18
– Ma rispondendo uno, di nome Cleopa, disse verso di lui: <<Tu
solo sei straniero a Gerusalemme e non hai conosciuto le cose che
sono accadute in essa in questi giorni?>>.
19
– E disse loro: <<Quali cose?>>. Ma questi gli dissero:
<<Quelle su Gesù Nazareno, che fu un uomo profeta, potente in
opera e parola davanti a Dio e a tutto il popolo;
20
– così che i sommi sacerdoti e i nostri capi lo consegnarono ad
una condanna di morte e lo crocifissero.
21
– Ora, noi speravamo che egli fosse colui che stesse per liberare
Israele; ma già anche con tutte queste cose, si passa questo terzo
giorno da quando queste cose sono accadute.
Il richiamo alla testimonianza delle donne validata da Pietro (vv.22-24)
22
– Ma anche alcune donne delle nostre ci hanno sconvolto, essendo
state di buon mattino sulla tomba,
23
– e non trovando il suo corpo andarono dicendo anche di aver visto
una visione di angeli, che dicono che egli vive.
24
– Ed alcuni di quelli (che erano) con noi andarono sulla tomba e
trovarono così come anche le donne dissero, ma non lo videro>>.
Il Risorto svelato dalle Scritture … (vv.25-27)
25
– Ed egli disse verso di loro: <<O stolti e tardi di cuore
nel credere in tutte le cose che dissero i profeti.
26
– Non bisognava che il Cristo soffrisse queste cose ed entrasse
nella sua gloria?>>.
27
– E incominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava a loro in
tutte le Scritture le cose su di lui stesso.
…. e dallo spezzare il pane (vv.28-32)
28
– E si avvicinarono al villaggio dove andavano, ed egli finse di
andare più lontano.
29
– E lo forzarono dicendo: <<Rimani con noi, poiché è sera e
il giorno è già declinato>>. Ed entrò per rimanere con loro.
30
– Ed avvenne che nel coricarsi con loro, preso il pane, (lo)
benedisse, e spezzato(lo) (lo) diede a loro,
31
– furono aperti i loro occhi e lo riconobbero ed egli divenne
invisibile a loro.
32
– E dissero l'un l'altro: <<Non ardeva il nostro cuore [in
noi] quando ci parlava sulla strada, quando ci spiegava le
Scritture?>>.
La
testimonianza depositata presso gli Undici (vv.33-35)
33
– E alzatisi in quella (stessa) ora, ritornarono a Gerusalemme e
trovarono gli undici riuniti e quelli con loro,
34
– dicendo che il Signore fu veramente risuscitato e apparve a
Simone.
35
– Ed essi raccontavano le cose (che avvennero) sulla strada e come
si fece conoscere a loro nella frazione del pane.
Note
generali
Il
racconto con cui si apre il cap.24 assume in tale contesto una
valenza fondativa della fede nella risurrezione, poiché vengono
tratteggiati in esso gli elementi fondamentali e imperativi e,
quindi, dottrinali, sulla risurrezione e il Risorto:
si attesta che il corpo di Gesù non è stato trovato nella tomba, che è risultata aperta (vv.2-3); elemento storico non determinante per la fede, ma ne costituisce la necessaria premessa. Non si può parlare, infatti, di risurrezione né tantomeno di Risorto se il suo cadavere giace nella tomba;
si presenta il corpo di Gesù come quello del “Signore Gesù”, che può essere letto e compreso come una sorta di endiadi: il corpo di Gesù che è il Signore (v.3), trasformando il titolo in una formula di fede, riportataci in Rm 10,9, collocata all'interno di un contesto di fede nella risurrezione: “Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo”;
Gesù, dichiarato risorto (v.6a), è titolato e compreso come il Vivente (v.5b), e così attestato anche in Ap 1,17b-18. Anche in questo caso sempre in un contesto di morte e risurrezione: “Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi”
la certezza della sua risurrezione è fondata sulla stessa parola di Gesù (v.7); un elemento questo che percorrerà l'intero cap.24 e verrà coniugato con le Scritture, anche queste fondative della fede nella risurrezione;
l'evento risurrezione viene caricato di un memoriale, innescando in tal modo un culto al Risorto (vv.6.8);
viene indicato il collegio
apostolico, con a capo Pietro, quale depositario della testimonianza
della risurrezione (vv.9-12).
Al racconto della scoperta della tomba vuota, accompagnata dall'annuncio della risurrezione, l'autore aggiunge ora il racconto dei due discepoli di Emmaus, che costituisce, solo in apparenza, un racconto a se stante, ma in realtà viene intrecciato da Luca con quello precedente (vv.22-24), dandogli un suo sviluppo e una sua comprensione ulteriori. Se Gesù, infatti, è il “Vivente” e, quindi, continua a vivere, in quale modo egli si rende ancora presente in mezzo ai suoi? In quale modo egli è ancora storicamente raggiungibile? Se, poi, c'è un'esortazione imperativa a “ricordare”, cioè a farne “memoria”, quali sono i termini per farlo? Sarà appunto il racconto dei due discepoli di Emmaus che darà risposta a queste tre fondamentali domande, che attengono al vivere del singolo credente come a quello dell'intera comunità, poiché determinano i nuovo rapporti che vengono ad instaurarsi tra il Risorto e i suoi.
Il racconto, di esclusiva provenienza lucana, è circoscritto da un'inclusione, che lo definisce come un'unità narrativa a se stante, data dal movimento uguale-contrario dei due discepoli: in vv.13-14 i due discepoli si allontanano da Gerusalemme; e in vv.33-35 i due discepoli tornano a Gerusalemme.
La struttura distribuisce il racconto, per aree narrative, in parallelismi concentrici in C) (vv.22-24). Per cui si avrà che in A) i discepoli si allontanano da Gerusalemme (vv.13-14) e in A1) i discepoli rientrano a Gerusalemme (vv.33-35); in B) i due discepoli incontrano Gesù e gli spiegano gli eventi accaduti in Gerusalemme (vv.15-21) e in B1) Gesù spiega ai discepoli il senso di quegli eventi attraverso la Parola delle Scritture (vv.25-27) e lo spezzare del Pane (vv.28-32), che richiama l'ultima cena, associata alla sua passione e morte; in C) viene richiamata l'esperienza fondamentale e fondante della fede nella risurrezione (vv.22-24), riportando sommariamente il primo episodio (vv.1-12).
Quanto
alla struttura dinamica del racconto, propongo una distribuzione in
sei momenti narrativi:
il preambolo (vv-13-14), che presenta i due discepoli e introduce il racconto, inquadrandolo in un contesto di viaggio, che richiama il cammino della comunità credente da dopo la morte-risurrezione di Gesù;
L'incontro con un nuovo e sconosciuto Gesù (15-21), storicamente non più riconoscibile e raggiungibile, se non attraverso la Parola e il Pane spezzato;
Il richiamo alla testimonianza delle donne validata da Pietro (vv.22-24); viene riportato qui sinteticamente l'annuncio primitivo e fondante la fede nella risurrezione;
La risurrezione rivelata dalle Scritture (vv.25-27);
Il riconoscimento di Gesù nello spezzare il pane (vv.28-32);
La testimonianza depositata presso gli Undici (vv.33-35)
Commento ai vv. 13-35
Il
preambolo (vv.13-14)
I vv.13-14 formano la cornice introduttiva entro cui verrà collocato e qualificato l'intero racconto. Ci troviamo di fronte a “due di loro”, in cui quel “loro” indica quei discepoli che, a differenza dei due, sono rimasti a Gerusalemme assieme al collegio apostolico (v.33b), dai quali si sono staccati, delusi dagli eventi degli ultimi giorni (v.21), e ai quali si riuniranno dopo l'esperienza del Risorto (v.33).
La loro destinazione è Emmaus, un villaggio della Giudea, posto a nord-ovest di Gerusalemme6, che da questa dista 60 stadi, circa 11 Km, considerato che uno stadio corrisponde a poco meno di 185 mt7.
Significativo quel “andavano” che crea il contesto entro cui si svolge l'incontro con Gesù. Ci si trova, pertanto, durante un cammino di allontanamento da Gerusalemme verso Emmaus, forse il villaggio residenziale dei due discepoli. I due, quindi, se ne stavano tornando a casa loro. Probabilmente Luca vede in questi due discepoli quella parte di chiesa che, delusa dalle aspettative o dalle attese di un ritorno del Signore, se ne stava allontanando, raffreddandosi nella sua fede; o più semplicemente vuole indicare le nuove modalità di presenza del Risorto alle nuove generazioni di credenti, che si formano lungo il cammino della storia e dell'attività missionaria della chiesa nascente.
Il v.14 specifica, in modo generico, i contenuti della conversazione che intercorre tra i due, senza, però, entrare nei particolari. Una tecnica narrativa, questa, che tende a stimolare la curiosità dei lettori, risvegliandone l'attenzione, preparandoli in tal modo a quanto verrà detto successivamente ai vv.18-24. Anche questi, a loro volta, introdotti da un breve scambio di battute preparatorie tra i due e lo Sconosciuto viaggiatore, la cui finalità è accentrare maggiormente l'attenzione sul racconto dei due, espresso in forma kerigmatica (vv.19-20) e di testimonianza collegiale validata da Pietro (vv.22-24).
L'incontro
con un nuovo e sconosciuto Gesù (vv.15-21)
Se i vv.13-14 fungono da preambolo all'intero racconto dei due discepoli di Emmaus, i vv.15-16, agganciandosi al v.14, dandone continuità, introducono a loro volta la pericope vv.17-21. Un preambolo quest'ultimo che rompe la cerchia di tristezza (v.17b) e di delusione (v.21a), in cui si erano chiusi i due discepoli, introducendovi un terzo personaggio, che l'onnisciente narratore e con lui i suoi lettori, sanno essere Gesù.
La pericope viene introdotta con il solito verbo caro a Luca, “™gšneto” (egheneto, accadde, avvenne), il quale, allorché appare, avverte il lettore che quanto segue attiene al Mistero di una salvezza che si compie nell'oggi e che qui ha come protagonisti Gesù e i suoi due interlocutori, simbolo di una chiesa in cammino e che ormai si sta allontanando dagli eventi storici. È significativo come Gesù appaia, quasi dal nulla, ai due, affiancandosi a loro, nel bel mezzo della loro discussione. È dunque la riflessione sugli umanamente incomprensibili Misteri che si sono compiuti a Gerusalemme, sul senso del patire, del morire e del risorgere, che fanno emergere un po' alla volta la sconosciuta nuova identità e nuova presenza di Gesù, che affianca i suoi discepoli in questo nuovo cammino di comprensione e ricomprensione della sua persona: egli, infatti, “camminava con loro”. Qui non si tratta, infatti, di una semplice conversazione, di quattro chicchere tra amici, ma di una discussione, la quale cosa lascia intravvedere l'impegno di una ricerca sofferta e senza risposta. Il verbo “suzhtšw” (sizetéo), infatti, è un composto da “sun” (sin, con, insieme) + “zhtšw” (zetéo, cercare, investigare), che significa “cercare insieme”. Esso, pertanto, non significa soltanto discutere, ma, ancor prima, cercare insieme, investigare insieme, scrutare insieme, sottolineando in quel “insieme” la collegialità di quel cercare. Luca ricalca qui in qualche modo la corsa al sepolcro di Pietro e Giovanni del racconto giovanneo. Quel correre insieme (Gv 20,3.4), quel entrare insieme nella tomba, quel valutare insieme lo stato delle cose porta, alla fine, il Discepolo prediletto a credere: “vide e credette” (Gv 20,3-8). La scoperta della risurrezione e la fede che l'accompagna non è mai una conquista individuale, ma essa poggia primariamente all'interno del collegio apostolico, all'interno della comunità credente, che la condivide, la vive e la celebra con ogni suo singolo membro.
Se, da un lato, il v.13 attesta l'impegno comunitario di una sofferta ricerca che faccia emergere di nuovo Gesù; dall'altro, il v.15 racconta la frustrazione di tale ricerca, che sembra portare verso il nulla: “ma i loro occhi erano impediti (così) da non riconoscerlo”. Quel “oƒ de” (oi de, ma i), con cui si apre il v.16, contrappone fortemente il loro modo di cercare Gesù con gli esiti della loro inutile ricerca. Perché tale ricerca è inutile? La risposta la darà il v.21a: “noi speravamo che egli fosse colui che stesse per liberare Israele”, che ricalca le aspettative di At 1,6b: “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?”. I due discepoli stavano cercando il Gesù della storia; un Gesù che pensavano come un messia militare o politico, che cacciasse i romani dalla Palestina e instaurasse il nuovo regno messianico. Per questo i loro occhi erano “impediti (così) da non riconoscerlo”. Il Risorto ora non fa più parte della storia e non si muove più secondo logiche umane. Serve, quindi, rinnovare la propria mente, pensare in modo nuovo il Risorto. È necessario relazionarsi a lui in modo nuovo, poiché quel Gesù della storia ora non c'è più. Anche le donne, infatti, che cercavano il corpo d Gesù, non l'hanno più trovato, perché si muovevano ancora secondo logiche storiche; secondo un vecchio e obsoleto modo di pensare di Gesù. Lo stavano cercando nella storia e secondo parametri storici. I rapporti con il Risorto, pertanto, chiedono un rinnovamento interiore, un nuovo modo di pensarlo e di relazionarsi a lui, altrimenti non lo riconosci e non lo trovi più.
Il v.17 ha una doppia funzione narrativa: da un lato consente a Gesù di entrare in gioco con i due (v.17a); dall'altro mette un punto fermo a quel vuoto macinare dei discepoli (v.17b), dando al racconto una svolta inattesa.
L'intervento di Gesù pone un interrogativo sul vacuo discutere tra i due, il cui intento è quello di interromperlo, da un lato, e di spingerli a riflettere, dall'altro. Il risultato è che i due si fermarono tristi, per l'inconsistenza della loro stessa discussione che non approdava a nulla. Da dove dunque partire per far si che quella tristezza si tramuti in gioia?
Luca indica la strada ai propri lettori per raggiungere la verità del Mistero. Essi, infatti, sono discepoli di terza o quarta generazione e ormai lontani dagli eventi storici accaduti. È pertanto importante richiamare tali eventi, orientando su questi l'attenzione dei suoi. E Luca lo fa attraverso quattro passaggi:
interrogarsi
sulle “cose che sono accadute in Gerusalemme”,
per evitare di essere stranieri, cioè estranei agli eventi accaduti
in essa (v.18). Eventi che sono fondamentali sia per la fede che per
la salvezza. Storicamente si è giocato tutto lì, a Gerusalemme.
Luca qui sta mettendo giù le basi storiche e geografiche della
fede. Il credere, quindi, non si basa su ideologie o racconti
fantasiosi, ma su eventi storici accaduti e geograficamente ben
circoscritti e ben circostanziati. 1Gv 1,1-4 percorrerà la stessa
strada, aprendo la sua prima lettera in modo significativo: “Ciò
che era fin da principio,
ciò che noi abbiamo udito,
ciò che noi abbiamo veduto
con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato
e ciò che le nostre mani hanno toccato,
ossia il Verbo della vita (poiché
la vita si è fatta visibile,
noi l'abbiamo veduta
e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che
era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo
veduto
e udito,
noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione
con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù
Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia
perfetta”.
Ciò che era fin da principio era l'evento Gesù8,
che loro, la comunità giovannea, hanno potuto constatare di persona
e fisicamente. Significativo è quel ripetersi ossessivo
dell'esperienza sensoriale dell'udire, vedere, toccare che si eleva
poi in contemplare. La fede, quindi, poggia su eventi storici e non
fantasiosi.
Mettere a fuoco bene le cose accadute in
Gerusalemme per non essere estranei ad esse, in quanto che
esse fanno parte della propria vita di credenti e sono poste a
fondamento storico della propria fede (v.19a). Con quel “Quali”
viene pertanto esortato il lettore ad accentrare la propria
attenzione su quegli specifici eventi accaduti, puntualizzandoli e
approfondendoli.
Il terzo passo è ripercorrere la missione di
Gesù, soffermandosi sulla natura della sua persona e sul senso
della sua opera (v.19b). Luca lo fa qui con un kerigma che
richiama da vicino At 2,22-24 e 10,37-43. La natura del kerigma
consiste nell'annuncio degli eventi storici a cui le prime comunità
credenti attribuivano una valenza salvifica. Si tratta in buona
sostanza di una sorta di deposito storico-dottrinale, posto a
fondamento della fede e del vivere credente. Non vi sono in questi
primi annunci, proprio perché primi, particolari e sofisticate
elaborazioni teologiche e cristologiche, ma semplicemente un
annuncio di eventi storici interpretati e creduti come salvifici.
soppesare attentamente gli ultimi eventi
(v.20), accentrando la propria attenzione sulla testimonianza dei
primi discepoli e del collegio apostolico (vv.22-24). Un ultimo
passaggio Luca lo compie richiamando gli ultimi eventi storici,
riguardanti la passione e morte di Gesù, mentre per quanto riguarda
la risurrezione Luca si rifà, richiamandola in questo racconto,
all'esperienza della tomba vuota, testimoniata dalle donne e
validata da Pietro (vv.1-12). Un racconto, come s'è visto sopra
(pag.13), ricco di fondamentali spunti
dottrinali.
Vediamo come Luca in tutti questi vari passaggi tenga sempre come basilare l'accadimento degli eventi storico-salvifici, per far capire ai suoi lettori come la loro fede sia solidamente basata su fondamenti storici. Eventi storico-salvifici che attraverso il memoriale (vv.6b-8), sono resi presenti nell'oggi di ogni uomo.
Il
Risorto rivelato dalle Scritture …. (vv.25-27)
Se la fede poggia solidamente sugli eventi storici annunciati nel kerigma (vv.19-20) e testimoniati dai discepoli e con loro dal collegio apostolico (vv.10-12; 22-24), la comprensione di tali eventi e del loro senso può derivare soltanto dalle Scritture, le quali, sole, li illuminano nel loro Mistero.
Il v.25 si apre con un rimprovero di Gesù, che definisce i due discepoli come “stolti e tardi di cuore”. Lo stolto nell'A.T. è colui che non comprende o non conosce i disegni di Dio ed opera in dissonanza con questi9, così che quel “tardi di cuore” diviene una esplicitazione del loro essere stolti. Il rimprovero riguarda, pertanto la resistenza del credente ad accedere alle Scritture, che lette attentamente e ricomprese alla luce dell'evento Gesù, contengono il piano salvifico di Dio a favore degli uomini, aprendo in tal modo alla comprensione del senso degli stessi eventi.
Se il v.25 attesta l'esistenza di un piano salvifico pensato da Dio e annunciato dai profeti, il v.26 dice in che cosa questo piano, alluso in quel “bisognava”, consista: la passione, morte e risurrezione di Gesù, eventi traumatizzanti e sconvolgenti nel contempo, fanno parte di questo piano salvifico. Che cosa significa questo? Significa che Dio entrando nella storia ha assunto su di sé la natura umana (Gal 4,4; Fil 2,7), quella del vecchio Adamo, corrotta dal peccato; l'ha poi rivissuta conformandosi alla volontà del del Padre (Gv 4,34; Fil 2,7), percorrendo, quindi, il processo inverso di quello dei nostri progenitori, che invece si sono posti in concorrenza con Dio, volendolo soppiantare (Gen 3,4-6); l'ha poi distrutta sulla croce (Rm 6,6) e l'ha ricostituita, rigenerandola attraverso la potenza dello Spirito (Rm 1,3-4), in seno a Dio stesso (1Cor 15,28), così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità, allorché “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a).
Il v.27, riprendendo il v.25, attesta come le Scritture contenessero dei riferimenti alla persona di Gesù e alla sua stessa missione salvifica. La veridicità di questa affermazione viene ora caricata dal v.27 con l'autorità stessa del Risorto, a cui egli stesso fa riferimento: “E incominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava a loro in tutte le Scritture le cose su di lui stesso”. Si tratta, dunque, di un'azione didattica e catechetica che ha come fondamento lo stesso Gesù, che valida l'autorità stessa delle Scritture circa il Mistero che avvolge la sua persona e la sua intera missione, frutto del progetto del Padre. Con il citare Mosè e i profeti Luca richiama i due capisaldi delle Scritture, definite anche con l'espressione la Legge e i Profeti. L'aggiunta “e in tutte le Scritture” allarga il campo, abbracciando l'intera Scrittura10. In essa, pertanto, vi è ovunque racchiuso il progetto del Padre che Gesù ha realizzato, così che egli potrà dire d'essere venuto a darne il compimento (Mt 5,17). Le Scritture, pertanto, vengono comprese dai credenti come l'annuncio dell'evento Gesù, che in lui trovano il loro compimento, dando in tal modo all'intero A.T. una valenza propedeutica e pedagogica.
Le
Scritture, quindi, per la chiesa nascente diventano il punto di
riferimento fondamentale e imprescindibile per la comprensione
dell'evento Gesù, del senso della sua missione, del suo patire,
morire e risorgere.
…. e dallo spezzare il pane (vv.28-32)
I vv.28-29 fungono da introduzione non solo al racconto dello spezzare del pane e alla sparizione di Gesù, ma, come in un gioco di contrasti con quanto avverrà dopo, rilevano il rapporto sbagliato che i due discepoli continuano a tenere nei confronti di Gesù: Gesù vuole andare oltre, sia pur fingendo, quasi a volerli provocare nella pochezza della loro fede, ma i due “lo forzano” a rimanere e Gesù, assecondandoli, “rimane con loro”. In quale modo poi egli rimanga con loro verrà detto alla fine di questo racconto (vv.30-32). L'autore sottolinea il persistente attaccamento dei due alla persona fisica di Gesù, al ricordo di una persona che non c'è più. Ma questo provoca in loro solo delusione (v.21) e tristezza (v.17b). Il loro modo di pensare Gesù è ancora quello del Gesù della storia; il messia liberatore che restaura il suo regno messianico dopo aver cacciato l'invasore romano (v.21; At 1,6). Ma finché questo gioco del trattenere presso di loro il Gesù della storia continua, questi rimarrà sempre nascosto ai loro occhi e non potrà più essere raggiunto da loro. Per questo l'evangelista ha precisato al v.16 che “i loro occhi erano impediti (così) da non riconoscerlo”, perché essi cercavano un Gesù che non c'è più. E in contrasto a prima, invece, i loro occhi si apriranno e riconosceranno in quello straniero la persona di Gesù, proprio nel momento in cui egli si sottrarrà fisicamente a loro e non potrà più essere trattenuto, se non sotto forma di Parola e di Pane spezzato, che costituiscono la nuova forma di presenza del Risorto in mezzo alla comunità credente e in mezzo agli uomini.
Il v.29 è incentrato su tre elementi: la determinata volontà di trattenere Gesù con loro, espressa non solo dalla richiesta di “rimanere con loro”, ma rimarcata anche dal verbo “parebi£santo” (parebiásanto), che letteralmente significa usare violenza, violentare, forzare. Il loro invito, pertanto, non era soltanto amichevole ed ospitale, ma in quella determinazione di trattenere Gesù ad ogni costo, aggrappandosi alle parole e alla persona di questo sconosciuto, si legge la nostalgia, il rimpianto e l'amarezza per una realtà perduta e solo apparentemente ritrovata, alla quale cercano in ogni modo di aggrapparsi. Essi sentono che quello lì è Gesù (vv.30-32), ma non lo sanno riconoscere e non sanno più come relazionarsi a lui, perché Gesù non è più come quello di prima e ora si propone a loro in un modo diverso, che se non viene compreso e accolto rimarrà sempre un Gesù estraneo, irraggiungibile ed evanescente (vv.16.18).
Il secondo elemento è dato dalla conclusione del v.29: “Ed entrò per rimanere con loro”. Esso costituisce la risposta alla loro insistente ricerca del nuovo Gesù, che fallisce sempre perché non riescono a staccarsi dai loro parametri storici con i quali si erano fin lì relazionati a Gesù. Egli ora è tutt'altra cosa e non può più essere scoperto e trovato per le strade di questo mondo, ma è necessario cercarlo in un altro modo. Per questo egli “entrò per rimanere con loro”. Dove è entrato? Qui infatti non si parla di alberghi o di case in cui si è deciso di entrare. Non si dice che i tre entrarono, ma che Gesù “è entrato” ed è entrato “per rimanere con loro”. Il suo entrare e il suo rimanere, pertanto, non sembrano essere una cosa passeggera, ma definitiva, poiché la finalità del suo entrare è quella del rimanere con loro. Dove, dunque, è entrato Gesù per poter rimanere per sempre con loro? La risposta viene data al v.32: “E dissero l'un l'altro: <<Non ardeva il nostro cuore [in noi] quando ci parlava sulla strada, quando ci spiegava le Scritture?>>”. Il Gesù che entra in loro è il vero Gesù, quello che ora, sotto forma di Parola, si sta offrendo a loro, che la stanno accogliendo e sta riaccendendo i loro cuori delusi e rattristati. Questa Parola ha penetrato il loro cuore, le profondità del loro essere e li ha illuminati (“furono aperti i loro occhi”). Per questo ora riescono a leggere nel segno dello spezzare il pane, la cui gestualità richiama il racconto dell'ultima cena (22,14.19), il vero Gesù, quello che finalmente hanno ritrovato, grazie alla Parola, scoprendo che egli dimora parimenti anche in quel Pane spezzato, anzi egli è quel Pane spezzato. E nel momento in cui si “aprirono i loro occhi”, azione questa uguale contraria a quella del v.16, in cui invece “i loro occhi erano impediti (così) da non riconoscerlo”, Gesù si sottrae ai loro occhi. Sembra quasi tutto un gioco di prestigio: Gesù si fa vedere, ma loro non lo vedono (vv.15-16); ora finalmente lo vedono, ma Gesù scompare. Un Gesù, che sembra giocare a rimpiattino. In realtà, un Gesù che non è più storicamente raggiungibile se non attraverso la Parola che riscalda il cuore e illumina lo spirito, e in quel Pane spezzato, che è diventato memoriale (22,19c). Sono soltanto questi gli unici due luoghi sacramentali di ritrovo, in cui Gesù si rende ancora presente in mezzo ai suoi per rimanere, una volta accolto, con loro. E saranno questi i due elementi che formeranno i pilastri del culto nelle prime comunità e che le qualificheranno come credenti: “Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).
Il
terzo elemento del v.29 è costituito da una significativa nota
temporale: “poiché è sera e il giorno è già declinato”, che
si contrappone, come in una sorta di inclusione, a quella del v.1
dove si racconta come “nel primo giorno della settimana, ai primi
albori”. Da un lato, quindi viene annunciato che un tempo è ormai
finito, quello del Gesù storico (“il giorno è già declinato”);
dall'altro, si segnala che un nuovo tempo, una nuova era si sta
stagliando all'orizzonte, che porta con sé una nuova creazione (“nel
primo giorno della settimana, ai primi albori”). Nel mezzo si
colloca il cammino di una chiesa (vv.13-35) alla ricerca del Risorto
(vv.1-12), della sua nuova natura umana (vv.36-49), del suo nuovo
modo di essere in mezzo ai suoi e del suo nuovo modo di relazionarsi
a lui (vv.30-32).
La
testimonianza depositata presso gli Undici (vv.33-35)
I vv.33-35, che in qualche modo ricalcano i vv.9-12, delineano l'elemento fondamentale nella costituzione della chiesa nell'epoca postpasquale, lasciando intendere come la nuova esperienza del Risorto costituisca per tutti l'ingrediente aggregante e fondativo della nuova comunità credente. Se l'esperienza del Golgota aveva raffreddato i discepoli così che “Ora stavano da lontano tutti quelli a lui noti e delle donne, che lo avevano seguito assieme dalla Galilea, che vedevano queste cose” (v.49), rimanendo profondamente delusi (v.21a) e rattristati (v.17b) per la miseranda fine del loro Maestro, su cui avevano giocato le loro vite e consegnate tutte le loro speranze per un nuovo Israele (v.21), ora avviene il processo inverso: i due discepoli tornano indietro, depositando la loro testimonianza presso il collegio apostolico (v.33). È questo, pertanto, il nuovo polo di aggregazione del discepolato, depositario delle nuove esperienze sul nuovo Gesù, che ora è stato ritrovato e ricompreso sotto forma di Parola e di Pane. Una scoperta che non è avvenuta per rivelazione, ma per ricerca, lungo il cammino, riflettendo sulle “cose che avvennero per strada”, illuminati dalla Parola: “Ed essi raccontavano le cose (che avvennero) sulla strada e come si fece conoscere a loro nella frazione del pane”.
Luca evidenzia, quindi, l'importanza di questo collegio apostolico, aggregatore e depositario dell'esperienza del Risorto, sottolineandola con il v.34, il cui tono è quello proprio della formula dottrinale: “dicendo che il Signore fu veramente risuscitato e apparve a Simone”, quasi a dire la la veridicità della risurrezione trova il suo fondamento nell'attestazione di Pietro, il capo del collegio apostolico. Il Risorto qui non è più chiamato “Gesù”, ma “il Signore”, un titolo che esalta la signoria universale del Risorto, avvenuta attraverso la potenza stessa di Dio. Il verbo “ºgšrqh” (eghértze, fu risorto, rialzato, risvegliato) è posto, infatti, al passivo teologico o divino, che nel linguaggio dei vangeli rimanda l'azione a Dio stesso. In tal modo il v.34a richiama da vicino la formula di fede di Rm 1,4: “costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore”. E dopo aver preannunciato con tono dogmatico la nuova natura del Risorto, rivestito in quel “eghértze” della potenza stessa del Padre (Mt 28,18), Luca, seguendo la Tradizione, attesta che di ciò è testimone Pietro, la cui testimonianza è posta a fondamento della risurrezione, la cui certezza è racchiusa tutta in quel “Ôntwj” (óntos), che precede e sottolinea “eghértze” e a questo si riferisce: “realmente, effettivamente, veramente”. Pietro, pertanto, con l'apparizione del Signore viene rivestito di autorità dalla stessa potenza del Risorto e costituito primo depositario della risurrezione, custode e garante di questa Verità, resa ora dogmatica
Un versetto il 34 che l'autore ha qui inserito in modo forzoso, considerato che l'episodio dell'apparizione del Risorto a Pietro non è riferito da alcuna parte, ma compare qui inaspettatamente per la prima volta. Da un punto di vista narrativo, pertanto, l'intervento dell'autore si presenta qui inopinato ed estemporaneo. Non ha senso infatti annunciare agli Undici che il Risorto è apparso a Simone, considerato che Pietro era lì presente tra gli Undici. Qual è dunque l'intento di questo versetto? Certamente Luca non l'ha inserito casualmente, ma qui sta perseguendo una precisa finalità: ossequiare la Tradizione, conformandosi ad essa. Questa voleva Pietro e i Dodici beneficiari delle apparizioni del Risorto, a convalida della loro investitura. Una Tradizione trasmessaci anche da 1Cor 15,3-9, dove viene riportato un elenco di persone che hanno beneficiato dell'apparizione del Risorto, attraverso la quale si intendeva investire di autorità, derivante dal Risorto stesso, le persone che costituivano il gruppo apostolico, legato ai Dodici. Questo elenco si apre significativamente con Pietro e i Dodici: “apparve a Cefa e quindi ai Dodici” (1Cor 15,6). Luca, pertanto, seguendo la Tradizione, con il v.34 intende insignire di autorità Pietro, che ha visto il Risorto primo tra tutti. Seguirà poi il racconto dell'apparizione del Risorto agli Undici (vv.36-49), consacrandoli, a loro volta e in tal modo, con la sua stessa autorità. Luca ricorderà l'importanza e il senso delle apparizioni, riservate non a tutto il popolo, ma soltanto ai prescelti da Dio: “ma Dio lo ha risuscitato al terzo giorno e volle che apparisse, non a tutto il popolo, ma a testimoni prescelti da Dio, a noi, che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti” (At 10,40-41). Le apparizioni, quindi, per Luca, più che una rassicurazione che Gesù è tornato a vivere, hanno una funzione prevalentemente elettiva e consacratoria, finalizzata ad investire di autorità il gruppo apostolico, attorno al quale si va formando e consolidando la comunità credente.
Terzo quadro: la corporeità del Risorto, la costituzione del collegio apostolico e l'affidamento della missione (vv.36-49)
Testo a
lettura facilitata
Il
Risorto reso presente dall'annuncio (v.36)
36
– Ora, mentre essi dicevano queste cose, egli stette in mezzo a
loro e dice loro: <<Pace a voi>>.
La
nuova corporeità del Risorto (vv.37-43)
37
– Ma atterriti e divenuti spaventati, credevano di vedere uno
spirito.
38
– E disse loro: <<Perché siete sconvolti e per che cosa
dubbi crescono nel vostro cuore?
39
– Vedete le mie mani e i miei piedi, poiché sono io stesso.
Palpatemi e vedete, poiché uno spirito non ha carne ed ossa come
vedete che io ho>>.
40
– E detto questo, mostrò loro le mani e i piedi.
41
– Ma non credendo ancora essi per la gioia ed essendo meravigliati,
disse loro: <<Avete qui qualcosa da mangiare?>>.
42
– Questi gli diedero una porzione di pesce arrostito;
43
- e preso(lo) davanti a loro, (lo) mangiò.
Il
Risorto ritrovato nelle Scritture (vv.44-47)
44
– Ora, disse verso di loro: <<Queste le mie parole, che dissi
a voi quando ancora ero con voi, poiché bisogna che siano compiute
tutte le cose scritte nella Legge di Mosè e nei profeti e nei salmi
su di me>>.
45
– Allora aprì la loro mente per comprendere le Scritture.
46
– E disse loro che: <<Così è scritto: il Cristo avrebbe
sofferto e sarebbe risorto dai morti al terzo giorno;
47
– e che sarebbe stato annunciato nel suo nome il pentimento per la
remissione dei peccati a tutti i popoli, incominciando da
Gerusalemme.
La
costituzione del collegio apostolico (vv.48-49)
48
– Voi (siete) testimoni di queste cose.
49
– Ed [ecco] io mando la promessa del Padre mio su di voi. Ma voi
rimanete nella città fino a che non siate rivestiti di potenza
dall'alto>>.
Note
generali
Per comprendere questo terzo quadro è necessario ricordare come Luca scriva il suo vangelo in una prospettiva squisitamente ecclesiologica e come questo sia rivolto al mondo greco-ellenistico11. L'attenzione qui va a cadere sul tempo postpasquale, sul costituirsi della chiesa attorno al collegio apostolico (vv.9-12; 33-35), sull'autorità di cui è stato insignito dal Risorto e sulla missione di cui è stato investito da questi (vv.44-49) e, non da ultimo, sulla corretta comprensione della nuova corporeità del Risorto (vv.36-43). Un aspetto quest'ultimo necessario da far comprendere alla platea dei lettori a cui è destinato il vangelo lucano, che mal tolleravano la risurrezione (v. pagg.1-3).
Questo quadro (vv.36-49) è delimitato da una sorta di inclusione, data per complementarietà dei doni: il dono della pace (v.36), quale segno di riconciliazione tra Dio e gli uomini; e della promessa dello dono dello Spirito (v.49), che colloca l'uomo riconciliato con Dio nella sua stessa vita, dove il Risorto è già asceso (vv.50-53).
L'unità
narrativa così delimitata è scandita in due parti: da un lato, la
descrizione della nuova corporeità del Risorto (vv.36-43);
dall'altro, l'investitura del gruppo apostolico dell'autorità del
Risorto e della missione (vv.44-49).
Commento
ai vv. 36-49
Il
Risorto reso presente dall'annuncio (v.36)
Il v.36, che ricalca Gv 20,19, riprende narrativamente i vv.33-35, che riportano la testimonianza dei due discepoli circa la loro esperienza del Risorto a riguardo della sua parola, della riscoperta di lui attraverso le Scritture ed infine nello spezzare il pane. Ed è proprio nel mentre che “dicevano queste cose”, cioè rendevano la loro testimonianza che è nel contempo annuncio del Risorto, che “egli stette in mezzo a loro”. Si noti come Luca non dice che Gesù “apparve agli Undici”, ma che “stette in mezzo a loro”. Il verbo qui usato è “œsth” (éste), che letteralmente significa stare, stare fermo lì, stare fisso lì, fermarsi lì, drizzarsi, innalzarsi, e dà l'idea non tanto di un'effimera apparizione, quanto di una solida presenza che si è collocata stabilmente in mezzo a loro. In quale modo egli si rende presente? Ciò avviene “mentre essi dicevano queste cose”. È dunque il dire dei testimoni, di chi ha fatto l'esperienza del Risorto, di chi lo annuncia nella sua Parola, nelle Scritture e nel Pane spezzato, che genera la sua presenza in mezzo a loro, cioè in mezzo agli Undici e a quelli che erano riuniti con loro (v.13b). Il Risorto, pertanto, attraverso la sua Parola, le Scritture e il Pane spezzato si rende stabilmente presente in mezzo al collegio apostolico, allargato a quelli che “stanno con gli Undici” (v.13b), che probabilmente formano il gruppo apostolico. Ed è questa stabile presenza del Risorto in mezzo a loro, che consacra il gruppo apostolico quale luogo dove si trova il Risorto, rivestendolo in tal modo della sua stessa autorità e creando una sorta di identificazione, dando inizio ad un prolungamento della sua missione in quella del gruppo apostolico e dei suoi discepoli. Luca qui, in buona sostanza, sta mettendo le basi del suo prossimo racconto, quello degli Atti, in cui vengono narrati gli inizi della chiesa, colta come il proseguimento dell'azione del Risorto.
Il
primo annuncio che il Risorto fa ai suoi è “Pace a voi”. Un
saluto che riproduce quello del Risorto giovanneo (Gv 20,19). Non
è un semplice augurio che Gesù fa ai suoi, ma è il dono della
Pace, proprio della risurrezione e che da questa scaturisce. Esso
dice l'avvenuta riconciliazione tra Dio e gli uomini, originatasi dal
Gesù morto-risorto e che preannuncia il perdono universale dei
peccati, significato nel dono dello Spirito Santo (Gv 20,22-23), che
dice la rigenerazione dell'uomo alla vita stessa di Dio: “E detto
questo, soffiò e dice loro: <<Ricevete lo Spirito Santo;
Qualora abbiate rimesso i peccati di alcuni, sono loro rimessi;
qualora abbiate ritenuto (i peccati) di alcuni, sono ritenuti>>”.
Similmente anche Luca coniuga il dono della Pace con quello dello
Spirito Santo, posto a conclusione dell'intero terzo quadro (v.49),
formando così una inclusione, che mette l'intero quadro sotto il
segno del perdono e della riconciliazione, annunciati ai vv.46-47: “E
disse loro che: <<Così è scritto: il Cristo avrebbe sofferto
e sarebbe risorto dai morti al terzo giorno; e che sarebbe stato
annunciato nel suo nome il pentimento per la remissione dei peccati a
tutti i popoli, incominciando da Gerusalemme”. È dunque il suo
“patire, morire e risorgere” che creano e generano le condizioni
del perdono universale, codificate in quel “Pace a voi”, che il
collegio apostolico è chiamato ad annunciare a tutti gli uomini.
La
nuova corporeità del Risorto (vv.37-43)
Note
generali
Con questa pericope il tema della risurrezione e del Risorto prendono una piega inattesa, benché necessaria. Fino a questo momento la risurrezione era stato presentata soltanto come un evento annunciato attraverso un'angelofania, che rimandava alla parola stessa di Gesù (vv.4-9), la quale cosa equivale al legare l'evento risurrezione alle parole stesse di Gesù e, quindi, considerarlo una verità rivelata, che va solo creduta e mai dubitata. Il racconto dei due discepoli di Emmaus, poi, attesta che il Risorto non va più pensato come il Gesù della storia, né questi va relegato nel ricordo di un passato, che non c'è più, ma va ricercato nella sua Parola, nelle Scritture e nel Pane spezzato, che costituiscono la nuova reale presenza del Risorto in mezzo ai suoi. Luca si rende conto che simili attestazioni, benché vere, rischiano di relegare il Risorto e la sua presenza a formule dottrinali o a istituzioni o forme sacramentali, che escludono la sua reale corporeità, dando un'idea errata della risurrezione, che, invece, è trasformazione del corpo. È necessario, quindi, precisare come la risurrezione sia un fatto reale che ha inciso concretamente sul Gesù della storia, dandogli un nuovo aspetto e una nuova consistenza corporea, che non va confusa con la sopravvivenza dello spirito o dell'anima, poiché l'evento risurrezione ha generato una nuova realtà, che supera l'esperienza e la comprensione umane. In che cosa dunque consiste la risurrezione e quali effetti produce sul corpo dell'uomo? Sarà questa pericope a spiegarlo, tutta incentrata sulla nuova corporeità del Risorto, che Luca cerca di far capire alla sua platea di lettori greco-ellenisti, recalcitranti di fronte alla realtà della risurrezione (v. pagg.1-3).
Luca
affronta qui il tema della corporeità del Risorto attraverso tre
passaggi, che puntano, da un lato, ad escludere che la risurrezione
sia una sorta di sopravvivenza dell'anima (vv.37-38); dall'altro,
attesta che la risurrezione va riferita non allo spirito, che
comunque sopravvive al corpo, che era considerato come un carcere che
degrada lo spirito e di cui liberarsi, ma al corpo stesso in tutta la
sua concretezza; non, però, ad un corpo qualsiasi o astratto, ma a
quello di cui si è rivestiti qui e ora, ma che verrà cambiato nelle
sue modalità di essere e di esprimersi. In altre parole, viene
trasformato (vv.39-40). La terza parte (vv.41-43) è una sorta di
appendice che va oltre. Essa, infatti, nel sottolineare la
concretezza della nuova corporeità, attesta come questa è destinata
ad introiettare la vecchia, quella decaduta e trasformarla in se
stessa (vv.41-43), preannunciando in tal modo la finalità della
risurrezione, da cui si irradia una nuova creazione, destinata ad
inglobare e trasformare quella vecchia decaduta e corrotta per il
peccato. Is 65,17 e 66,22, a cui fa eco Ap 21,1, parlano di cieli
nuovi e di terra nuova che dureranno per sempre, quindi di una realtà
non diversa dalla prima, ma completamente nuova rispetto a prima e il
segno della novità è che questi dureranno per sempre. In altri
termini non saranno soggetti a mutazione o degrado.
Commento
ai vv.37-43
Di fronte all'imporsi dell'inattesa presenza del Risorto in mezzo al gruppo apostolico (v.36b), i presenti sono colti dal terrore, che incute loro spavento (v.37a). Reazioni umane queste che compaiono nelle teofanie o angelofanie (vv.4-5), allorché il divino irrompe nella dimensione spaziotemporale propria dell'uomo. Il motivo di tanto panico è la loro errata percezione di una realtà sovrumana: pensano di trovarsi di fronte ad un fantasma, ad uno spirito. La sottolineatura che qui Luca fa circa lo spirito o fantasma è finalizzata ad accentrare l'attenzione del lettore greco-ellenista, che riteneva come la risurrezione, qualora venga ammessa, sia una sorta di sopravvivenza dello spirito o dell'anima alla morte del corpo. Tale credenza, che qui Luca rileva, costituisce la premessa e nel contempo il motivo dei successivi vv.39-43, tutti incentrati sulla corporeità del Risorto, che si contrappone a ciò che essi credevano, che, cioè, fosse uno spirito.
Il v.38 spiega i motivi dell'irrazionale reazione del gruppo apostolico di fronte all'imporsi di Gesù in mezzo a loro (“stette in mezzo a loro”). Essa è dettata da crescenti dubbi che si annidano nelle profondità del loro essere e che lasciano trasparire tutta la loro inintelligenza del nuovo evento Gesù sia la pochezza della loro fede. In altri termini, per avvicinarsi alla risurrezione e coglierla nella sua realtà più vera e nel suo mistero è necessario credere che essa esista per poterla comprendere e, quindi, non va esclusa o relegata ad una semplice sopravvivenza dell'anima.
I vv.39-40 hanno una duplice finalità: dimostrare che il Gesù risorto non è uno spirito e che il corpo che si ritrova addosso non è un corpo diverso da quello che rivestiva precedentemente, ma vi è una continuità tra il prima e il dopo. Un elemento di particolare rilevanza quest'ultimo, poiché l'autore insiste molto sul concetto del corpo precedente, che viene dimostrato dallo stato della condizione delle mani e dei piedi, che erano stati dilaniati dalla crocifissione; e lo fa per ben due volte su due semplici versetti (vv.39a.40). È questa l'inconfutabile prova della continuità tra il prima e il dopo. E che si tratti di corpo e non di spirito sopravvissuto alla morte del corpo, lo attesta il v.37b: “Palpatemi e vedete, poiché uno spirito non ha carne ed ossa come vedete che io ho”. L'accertamento della corporeità di Gesù, che si contrappone allo spirito, viene fatto in modo sensoriale, usando i verbi “palpare” e “vedere”. Una modalità di accertamento indubbiamente pedestre, ma senz'altro efficace, poiché coinvolge i due maggiori sensi che meglio definiscono la realtà e che meglio consentono all'uomo di percepirla e di orientarsi in essa: il tatto e la vista. La finalità di tutto questo è constatare la consistenza e la solidità di quella corporeità, che viene definita da Luca con l'espressione colorita “carne ed ossa”, che definisce l'identità corporea di una persona (Gen 2,23). Il tutto viene inglobato all'interno di una logica molto semplice, quasi banale nel suo modo di esprimersi, ma proprio per questo molto efficace e che mira a contrapporre l'evanescenza di uno spirito alla inoppugnabile concretezza di un corpo sensorialmente accertato in tutta la sua consistenza.
Dopo aver dimostrato che quel Gesù che si ritrovano improvvisamente in mezzo a loro non è uno spirito bensì un corpo reale, raggiungibile e definibile dai sensi; un corpo che è una continuità di quello di prima, Luca, ora, con i vv.41-42 aggiunge un altro elemento che ha una duplice finalità: da un lato, sottolineare una volta di più come quel corpo di Gesù sia reale e non uno spirito; dall'altro, (e questo aspetto è nuovo) evidenziare il tipo di rapporto che questo corpo di Gesù ha con la realtà umana: “Questi gli diedero una porzione di pesce arrostito; e preso(lo) davanti a loro, (lo) mangiò” (vv.42-43).
Il mangiare del pesce arrostito da parte di Gesù, immagine questa che richiama Gv 21,9-13, è finalizzata a togliere gli ultimi dubbi sulla reale concretezza di quel corpo (v.41a), ma ciò che più rileva nel semplice gesto del mangiare del pesce arrostito è il tipo di rapporto che viene ad instaurarsi ora tra il Risorto e la realtà materiale da cui egli proviene, ma che ora non gli appartiene più. Gesù, come vedremo subito, è un corpo spiritualizzato, ma che sembra nutrirsi di cibo materiale privo di ogni spiritualizzazione. Come può essere questo? Quale compatibilità tra il materiale e lo spirituale? Tra il vecchio e il nuovo mondo? Cosa voleva suggerire l'autore ai suoi lettori? Il mangiare significa introiettare, fare proprio un determinato cibo e questo, una volta metabolizzato, fa concretamente parte del corpo che lo ha ingerito; anzi, diviene parte di quel corpo. È questo il messaggio: il corpo risorto di Gesù, proprio perché risorto e ora fuori dai limiti spaziotemporali, ha la capacità propria di introiettare, di inglobare in sé tutte le cose e con la potenza dello Spirito, di cui egli stesso è rivestito e permeato, ha il potere di assimilarle a sé e di trasformarle. Il Gesù giovanneo, proprio su questo aspetto, lo aveva preannunciato: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Il verbo greco che qui Giovanni usa per dire “sarò elevato” è “Øywqî” (ipsotzô), che egli usa nel suo doppio senso, caratteristica questa di Giovanni, di elevare sulla croce, ma anche elevare dalla morte, con chiara allusione alla risurrezione. Quindi quel Gesù che attira tutti a sé dice come, in modo misterioso, ma reale, egli associa tutti e tutto alla sua morte e risurrezione, così che l'uomo vecchio viene distrutto sulla croce, per essere rigenerato a creatura nuova nella risurrezione (Rm 6,3-9). Una realtà questa che fa parte del progetto iniziale del Padre, fare sì che suo Figlio diventi il cuore del mondo, riepilogando in sé tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra: “poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,9-10). Una visione che richiama da vicino quella di 1Cor 15,28: “E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Questo è il progetto finale del Padre, associare tutti al Cristo morto-risorto, perché tutti, per Lui, con Lui e in Lui, siano ricondotti in senso a Dio, da cui l'uomo era tragicamente uscito. Tutto, quindi, viene ricomposto in Dio, così com'era nei primordi della creazione e dell'umanità, allorché tutto era incandescente di Dio.
Ma se tra la corporeità del prima e quella del dopo vi è certamente una continuità, tuttavia non si può parlare della medesima identità. Si tratta si di “carne ed ossa”, ma non più nel senso che lo si intende umanamente. Ci troviamo di fronte ad un corpo spiritualizzato. Si badi bene: spiritualizzato, non spirituale. Per poter capire questo concetto è necessario fare un passo indietro e ritornare al racconto genesiaco della creazione dell'uomo12: “allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente” (Gen 2,7). L'uomo, quindi, proviene dalla terra e ad essa appartiene, ma il soffio di Dio lo rende un essere vivente. Il soffiare di Dio non è aria mossa, ma Dio con il suo soffio riveste l'uomo del suo stesso Spirito. Il gesto del soffiare di Dio lo ritroviamo identico in Gv 20,22 dove il Risorto “alitò su di loro e disse: Ricevete lo Spirito Santo”. L'alito o soffio di Dio, dunque, altro non è che lo Spirito stesso di Dio, che ne definisce la vita. E l'agiografo conclude il versetto constatando che quella terra plasmata divenne un essere “vivente”. Un'espressione quest'ultima con cui viene definita la condizione di vita di Dio13. L'uomo, pertanto, attraverso la potenza dello Spirito di Dio viene in qualche modo assimilato a Lui, che in Gen 1,26-27 lo crea a sua immagine e somiglianza, dandogli potere su ogni essere vivente. Il salmista riprenderà proprio questo passo, ponendo una significativa distinzione: “che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi” (Sal 8,5-7). Quel “di gloria e onore lo ha coronato” dice come l'uomo sia stato rivestito di Dio e a lui, quale conseguenza della sua assimilazione alla vita di Dio, viene dato lo stesso potere di Dio su tutte le creature; ma, ricorda il salmista, “l'hai fatto poco meno degli angeli”. Che cosa, dunque, distingue l'angelo dall'uomo e fa si che questi sia “di poco inferiore” a loro? La differenza sta tutta nel fatto che l'uomo è stato tratto dalla terra, fa parte della terra e soltanto il soffio di Dio lo ha elevato al mondo divino assimilandolo a Lui e rendendolo partecipe della sua stessa vita e simile agli angeli (Mt 22,30; Mc 12,25; Lc 20,36).
Ma avverrà anche il processo inverso, allorché l'uomo, reso partecipe della vita di Dio e a Lui assimilato, tenta una sorta di colpo di stato per mettersi al posto di Dio (Gen 3,5.22) e si accorse di essere “nudo” (Gen 3,7a); cioè si accorse di non essere Dio, ma soltanto partecipe della sua vita e reso tale grazie al soffio divino che tutto lo permeava e lo compenetrava. Così che quella carne spiritualizzata divenne carne despiritualizzata, soggetta alla sofferenza, al dolore, al divenire, alla morte (Gen 3,16-20) e l'uomo non è più ricoperto dello Spirito di Dio, ma di pelli di animali (Gen 3,21), che indica il loro nuovo stato di vita. L'abito nel linguaggio biblico dice sempre lo stato e la condizione di vita di chi lo indossa14. L'uomo, pertanto, da carne spiritualizzata, in quanto partecipe della vita stessa di Dio, è divenuto carne despiritualizzata. Con la risurrezione Dio ha innescato nuovamente il processo inverso: ha rispiritualizzato l'uomo, riconducendolo e ricollocandolo nuovamente in se stesso, così com'era agli inizi della creazione.
È sempre, dunque, lo stesso corpo di prima, ma completamente diverso da prima, venendosi a creare una frattura tra il prima e il dopo, pur sempre nella continuità. Si ha dunque una diversità nella continuità.
E
Luca cerca di evidenziare questa netta diversità tra il prima e il
dopo pur nella continuità, e lo fa con due semplici escamotage
che
creano una netta frattura tra il presente e il passato di Gesù.
Mentre tutti sono intenti ad ascoltare la testimonianza dei due
discepoli di Emmaus, Gesù si rende improvvisamente e corporalmente
presente in mezzo a loro. La reazione dei discepoli, spaventati ed
atterriti, dice tutta la loro sorpresa di quella inaspettata
presenza, che si è collocata di prepotenza in mezzo a loro. Erano
certamente chiusi in una casa, ma non hanno sentito bussare o
chiamare; Gesù non si è fatto largo tra di loro per porsi in mezzo
a loro, ma si è imposto a loro, senza che nessuno se ne accorgesse.
Come ci è riuscito? Qui Luca lancia un primo messaggio ai suoi: la
corporeità di Gesù non obbedisce più alle leggi della storia. Può
passare i muri e le porte chiuse; può imporsi davanti a te,
all'improvviso, senza preannunciarsi, nel momento che meno ti aspetti
e non ha bisogno che tu glielo permetti. Egli è lì con te e tu non
puoi farci nulla. Una presenza che vince ogni resistenza e che non ha
più vincoli storici e contro la quale ogni potenza umana è
inefficace. Ma non è tutto. Ora Luca fa un ulteriore passo in
avanti, poiché “Avvenne che, mentre egli li benediva, si distaccò
da loro ed era portato su nel cielo” (v.51). Anche qui ci si trova
di fronte ad un corpo che vince le forze della terra, che lo
vorrebbero vincolato a loro per sempre, lì in una tomba a marcire
come tutti; e, invece, ancora una volta, questo corpo vince ogni
legge della natura e ogni ragione della fisica: si stacca dalla
terra, che non riesce più a trattenerlo perché non le appartiene
più. È una sorta di apoteosi divina per la corporeità di quel Gesù
morto, ma ora ritornato in vita. Una vita che ha vinto la morte e
vince ogni logica propria della storia, a cui non è più vincolata.
È sempre lo stesso corpo, ma si è venuta a creare una insanabile
frattura tra il prima e il dopo. Luca lascia trasparire che in tutto
ciò c'è la potenza di Dio, che ha operato e sta operando in quel
corpo. Lo lascia intendere nello spavento provato dai discepoli nel
vedere quel corpo (v.37); uno spavento ed un terrore che
caratterizzano le teofanie, allorché il divino irrompe nel mondo
degli uomini; lo lascia capire in quel passivo teologico o divino
“era portato” in cielo, che rimanda l'azione a Dio.
Il Risorto ritrovato nelle Scritture (vv.44-49)
Note
generali
La sezione vv.36-49 riguarda l'apparizione del Risorto al gruppo apostolico, formato dagli Undici e da quelli che erano con loro (v.13), ed è scandita in due parti: la prima concerne la nuova corporeità di Gesù (vv.36-43), passaggio importante e necessario per far comprendere come la risurrezione e il Risorto sono una indiscutibile quanto concreta realtà che si impone al credente (v.36b) senza ombra di incertezza (v.38); la seconda (vv.44-49) è interamente incentrata, si badi bene, non sugli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù, bensì sulla sola sua parola e sulle Scritture, che in egual modo le avevano preannunciate. Punto di riferimento, pertanto, per il gruppo apostolico è e deve essere, più che gli eventi, ormai non più raggiungibili storicamente (Luca qui sta parlando ai credenti e al collegio apostolico ormai di terza e quarta generazione, poiché ormai i primi testimoni diretti sono scomparsi), solo e unicamente la Parola di Gesù e le Scritture, le uniche in grado di dare certa testimonianza non solo sugli eventi, bensì anche sul loro senso. E sono proprio tali eventi, scritturisticamente annunciati e testimoniati, che formano il contenuto della testimonianza del gruppo apostolico (vv.33.36) e dei discepoli in genere (vv.25-27), tutti chiamati ad esserne testimoni (vv.48).
La pericope si sviluppa attraverso quattro passaggi
strettamente concatenati tra loro, che hanno per contenuto la
testimonianza apostolica di quegli eventi annunciati dalle Scritture:
dapprima vi è l'attestazione di Gesù stesso, che rimanda i discepoli alle Scritture, quali testimoni primari e attendibili degli eventi che lo riguardavano, caricandole in tal modo di veridicità e, conseguentemente, di attendibilità. Le Scritture, pertanto, sono il punto di partenza su cui fondare la propria fede e la propria testimonianza (v.44), poiché non solo annunciano gli eventi, ma ne spiegano anche il senso;
il v.45 funge da passaggio introduttivo dalla
consacrazione delle Scritture, quale luogo di rivelazione che
preannunciavano gli eventi di salvezza riguardanti Gesù (v.44), ai
contenuti delle stesse (vv.46-47);
enunciazione dei contenuti scritturistici che riguardano la passione, morte e risurrezione di Gesù (v.46), la spiegazione del loro senso, che diviene nel contempo il contenuto della missione apostolica (v.47);
costituzione del gruppo apostolico quale testimoni ufficiale degli eventi annunciati dalle Scritture e compiutisi in Gesù per mezzo dell'unzione dello Spirito Santo (vv.48-49)
Commento
ai vv.44-49
Dopo aver rassicurato i suoi lettori circa la consistenza della nuova corporeità del Risorto (vv.36-43), Luca, ora, con il v.44, presenta il Gesù storico come il compimento delle Scritture, che vengono presentate in modo singolare con la solita dicitura “Legge di Mosè e Profeti” a cui l'autore aggiunge di suo il riferimento al libro dei Salmi, cioè alla elaborazione sapienziale delle Scritture stesse, che potremmo definire come la riflessione sapienziale sulle stesse, che abbraccia circa dieci secoli di storia. In altri termini, è l'intero periodo veterotestamentario che si colloca all'interno della storia della salvezza quale momento propedeutico e pedagogico all'avvento di Gesù, che ne diventa il compimento. Una posizione questa elaborata dalla chiesa primitiva (Mt 5,17) e che l'evangelista pone qui sulle labbra di Gesù per caricarla di autorità dottrinale: “Queste le mie parole, che dissi a voi quando ancora ero con voi”. Tutto, dunque, è convergente sull'evento Gesù e le Scritture diventano qui le principali testimoni su tale evento, consacrate nel loro ruolo primario di testimoni dalla parola di Gesù stesso.
Il v.45 funge da transizione tra l'attestazione delle Scritture, quali fonte primaria della conoscenza dell'evento Gesù e del suo Mistero (v.44), e l'introduzione della conoscenza delle Scritture stesse, là dove esse rendono testimonianza al Risorto. Luca qui in buona sostanza ricalca lo schema del v.27, dove il Risorto, rivolto ai due discepoli di Emmaus, “incominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava a loro in tutte le Scritture le cose su di lui stesso”. Il Risorto, pertanto, viene qui presentato come l'esegeta privilegiato delle Scritture stesse o, in altri termini, viene qui indicato il metodo di ricerca della Chiesa primitiva sul senso dell'evento Gesù, della sua passione-morte-risurrezione, attraverso una rivisitazione e ricomprensione delle Scritture alla luce della risurrezione stessa.
I vv.46-47 riportano nei loro tratti essenziali i contenuti della comprensione dell'evento Gesù circa la sua passione-morte-risurrezione. E la formula che Luca qui usa è quella caratteristica del kerigma: un essenziale riferimento agli eventi storici, richiamati dal v.46, e fatti seguire dalla loro interpretazione in senso salvifico (v.47), a cui Luca aveva già alluso in 1,77-78a, mettendoli alla base della missione del “sole che sorge dall'alto”. Un annuncio che parte “incominciando da Gerusalemme”, il luogo dove si sono compiuti i Misteri della salvezza. Un percorso che per Luca è obbligato e che richiamerà anche in At 1,8: “ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra”. Da Gerusalemme, quindi, in modo espansivo, si diffonde l'annuncio della salvezza, che abbraccia l'intera umanità. Del resto, la centralità di Gerusalemme appare evidente in Luca fin dagli inizi del suo racconto, che si apre nel cuore stesso di Gerusalemme, il Tempio, e nel momento più sacro, quello del culto, e attorno alla quale gira l'intera infanzia di Gesù. Un'importanza, quella di Gerusalemme, che viene evidenziata anche dal lungo viaggio di Gesù verso di essa (9,51-19,28), creando in tal modo una forte tensione verso il luogo del compimento dei Misteri della salvezza e verso quella Gerusalemme che diviene per Gesù la porta obbligata del suo ritorno al Padre.
Ciò che fin qui Luca ha detto (vv.44-47) riguarda gli eventi e il loro senso, annunciati dalle Scritture. Ora, con il v.48 vi è l'investitura dell'intero gruppo apostolico, a cui il Risorto si sta rivolgendo (v.33b.36b), a testimone ufficiale di tali eventi, che, si badi bene, qui sono contenuti soltanto nelle Scritture, di cui essi, in quanto testimoni, sono costituiti anche eredi, nonché depositari della Verità e del Mistero in esse contenuti. In altri termini, il gruppo apostolico riceve il mandato per la sua missione, venendo costituito in autorità dal Risorto stesso, che conferma ora, in pienezza, quanto già aveva preannunciato in 9,1-2 e 10,1: “Voi (siete) testimoni di queste cose”. Un'investitura rilevante, da cui si genera non solo la missione, ma funge anche da fondamento costitutivo della Chiesa stessa, che trae origine proprio dal mandato del Risorto e la cui importanza riecheggerà più volte negli Atti, con la formula, variamente adattata di volta in volta, “... e noi siamo testimoni di queste cose”15.
A fronte dell'affidamento della missione, posta a fondamento della Chiesa, costituendola in autorità presso Dio e presso gli uomini, il v.49, ora, preannuncia come tale missione assumerà piena efficacia con l'unzione dello Spirito Santo: “Ed [ecco] io mando la promessa del Padre mio su di voi” (v.49a). Gesù non accenna allo Spirito Santo, ma soltanto alla “promessa del Padre mio”, una promessa che, si badi bene, non viene attuata dal Padre sui discepoli, come avviene, invece, per Gesù (3,22; 4,1), ma essa si compie per il tramite di Gesù sui discepoli (“io mando … su di voi”), poiché egli, in quanto risorto, è ora ripieno della potenza dello Spirito Santo, che è potenza stessa del Padre che dimora nel Risorto, divenendo in tal modo il centro propulsore, attuatore e attualizzatore della salvezza nell'oggi dell'uomo (Ef 1,10).
Luca definisce lo Spirito Santo quale “promessa del Padre”, benché da nessuna parte nel vangelo di Luca compaia in termini espliciti una simile promessa. Per poter comprendere a quale promessa Luca faccia riferimento e dove questa sia stata menzionata nel suo vangelo, è necessario proseguire la ricerca in At 1,4-5 dove l'autore dice che “Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni”. Il riferimento qui è a Lc 3,16: “Giovanni rispose a tutti dicendo: "Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco”. Una promessa, che vedrà il suo attuarsi in At 1,8 e 2,33 dove si parla dell'investitura dello Spirito Santo sui discepoli, che proviene dal Padre. La fine del vangelo lucano sta qui toccando gli inizi degli Atti degli Apostoli e congiungendosi con questi. Gli estremi, quindi, si toccano tra loro e tra loro si congiungono, creando una sorta di vasi comunicanti in cui l'evento Gesù, ora Risorto, travasa se stesso nella Chiesa, continuando in essa la sua azione salvifica. Non è un caso, infatti, come l'ultima pericope del vangelo lucano, vv.44-53, contenga molti elementi con cui si apre il racconto degli Atti degli Apostoli, creando tra le due opere una saldatura, che dà continuità e sviluppo narrativo.
Alla
promessa del Padre, il dono dello Spirito Santo, segue ora la
raccomandazione, tutta lucana, del v.49b: “rimanete
nella città fino a che non siate rivestiti di potenza dall'alto”.
La città di cui si parla qui è chiaramente Gerusalemme, che, come
si è detto sopra, è per Luca il luogo del compiersi del Mistero
della salvezza, attuatosi nella passione-morte-risurrezione di Gesù,
ma la cui efficacia trova il suo pieno compimento soltanto nel dono
dello Spirito Santo, che è potenza di Dio che opera in coloro che
credono, rendendo possibile il progetto di salvezza del Padre,
attuatosi in Gesù, ma reso efficace soltanto nello dello Spirito
Santo e per suo mezzo. È significativo, infatti, come in tutti i
vangeli l'inizio della missione di Gesù sia segnata dall'unzione
dello Spirito Santo che avviene nel battesimo (3,21-22). E così,
similmente, nell'inaugurare la sua missione, partendo dalla sinagoga
di Nazareth, il Gesù lucano, riprendendo le parole di Is 61,1-2,
attesta: “Lo Spirito del Signore su di me; a motivo di questo mi
unse perché fosse annunciata la buona novella ai poveri; mi inviò
per proclamare ai prigionieri (la) liberazione e ai ciechi il
recupero della vista, per mandare in libertà gli oppressi, per
proclamare un gradito anno del Signore” (4,18-21). All'inizio della
missione di Gesù, pertanto, così come per ogni missione promulgata
da Dio, vi è sopra sempre il sigillo dello Spirito, che Luca
definisce “potenza dall'alto”, cioè proveniente da Dio, e che
imprime in quella missione l'efficacia del suo annunciare e del suo
agire. Non a caso la nascita della Chiesa e il sorgere della sua
missione avviene sotto l'egida dello Spirito (At 2,1-4).
Quarto
quadro:
Gesù ritorna al Padre (vv.50-53)
Testo
50
– Ora, li condusse [fuori] fin verso Betania e, alzate le sue mani,
li benedisse.
51
– Ed avvenne che, mentre egli li benediceva, si distaccò da loro
ed era portato su nel cielo.
52
– Ed essi, dopo essersi prostrati davanti a lui, ritornarono a
Gerusalemme con grande gioia,
53 – ed erano continuamente nel tempio, benedicendo
Dio.
Note generali
Luca
chiude il suo vangelo in modo inconsueto rispetto alla tradizione
evangelica, raccontando dell'ascensione di Gesù al cielo. Unico tra
gli evangelisti che ne faccia una trattazione specifica a parte,
accentrando l'attenzione del lettore su questo evento, che l'autore
qui disgiunge dalla risurrezione, benché anche Gv 20,17 sembra farne
accenno, allorché, apparso alla Maddalena, la esorta: “Non
mi toccare, poiché non
sono ancora salito
presso il Padre; ma va dai miei fratelli e dì loro: <<Salgo
al Padre mio
e Padre vostro, e Dio mio e Dio vostro>>”16.
Perché, dunque, separare la risurrezione dall'ascensione,
considerato che la risurrezione colloca già il Risorto presso il
Padre? La risurrezione, infatti, da un punto di vista metafisico e
teologico, è anche glorificazione di Gesù e già lo colloca alla
destra della potenza di Dio. Mt 28,18b esprime molto bene questa
divinizzazione del Risorto, allorché egli, apparso ai suoi, dice
loro: “Mi
è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”.
Un'apparizione quella del Gesù matteano, che avviene
significativamente “sul monte” (Mt 28,16b), che presso gli
antichi era considerato il luogo della la dimora di Dio. Perché,
dunque, Luca scinde questo unico evento, la risurrezione, in due
momenti diversi? Sono molteplici i motivi che hanno spinto l'autore a
questa scelta:
Innanzitutto l'ascensione si presenta come l'attuazione di quanto già era stato preannunciato in 22,69, dove Gesù, di fronte al Sinedrio, attestava che “da questo momento starà il Figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza di Dio”.Quindi, la passione, morte e risurrezione di Gesù costituiscono per Luca un cammino di glorificazione che trova il suo pieno compimento nell'ascensione. Si tratta, in buona sostanza di una sorta di apoteosi di quel Gesù della storia che entra a far parte del mondo divino, nel quale il mondo greco-ellenistico e romano, al quale Luca sta scrivendo, collocava i propri eroi.
L'ascensione, poi, porta a compimento il cammino di quel lungo viaggio verso Gerusalemme, iniziatosi in 9,51 e che consente a Gesù, uscito dal Padre, di ritornare a lui.
Vi è poi un motivo letterario. Il concludere il racconto evangelico con l'assunzione consente all'autore di riprendere il suo secondo racconto, gli Atti degli Apostoli, da dove ha lasciato il primo (At 1,2), creando una sorta di saldatura e concatenazione tra il prima e il dopo.
Ed
infine, Luca ha voluto probabilmente creare una conclusione soft
del suo vangelo, più conforme ai palati delicati e sensibili dei
propri lettori greco-ellenisti, evitando così una separazione
traumatica di Gesù dai suoi, così come avvenne per i due discepoli
di Emmaus, che, finalmente riconosciuto Gesù, questi scomparve
lasciandoli trasaliti. Una separazione che, comunque, in qualche
modo era stata preparata dall'evangelista: dapprima con l'annuncio
della tomba vuota, accompagnato da quello della risurrezione. Si
Gesù non è più nella tomba, ma comunque egli è tornato a vivere,
la quale cosa contiene implicitamente una sorta di promessa di
ritrovarsi con lui; poi la ricomparsa di Gesù sotto forma di Parola
e di Pane spezzato, che in tal modo rimane ancora in mezzo ai suoi;
il gruppo apostolico, poi, che diviene il garante e il depositario
della Verità del Risorto e che in qualche modo continua la sua
missione, per giungere, infine, a questo staccarsi di Gesù dai
suoi, lasciando ad essi la sua benedizione, che dice la fecondità
divina, di cui il gruppo apostolico è insignito.
Il racconto
dell'ascensione, pur nella sua brevità, è molto denso e si sviluppa
in sei momenti:
l
racconto viene aperto da una nota geografica, Betania (v.50a), che
lega la dipartita di Gesù da Gerusalemme alla sua entrata festosa
nella città, partendo proprio da Betania (19,29), creando in tal
modo un'inclusione, data sia per movimenti uguali contrari che per
il nome stesso “Betania”, ripetuto due volte. Viene, quindi, a
chiudersi il ciclo dell'attività missionaria di Gesù a
Gerusalemme, che verrà, invece, ripresa dai suoi partendo proprio
da questa (v.47b; At 1,8). Benché, talvolta si rilevi
l'incongruenza di Luca circa il luogo dell'ascensione, qui segnalato
a Betania, mentre in At 1,12a è segnalato sul monte degli Ulivi, in
realtà non vi è alcuna contraddizione poiché Betania si trova
presso il monte degli Ulivi (19,29). La diversa denominazione è
dovuta probabilmente agli intenti dell'autore che, richiamando
“Betania” in 24,50a, intendeva creare l'inclusione qui sopra
ricordata, che con l'ascensione metteva fine all'attività
missionaria di Gesù a Gerusalemme, lasciandola in eredità ai suoi,
da dove essi riprenderanno; mentre menzionando il “monte degli
Ulivi” intendeva probabilmente richiamare quel cammino di
glorificazione di Gesù iniziatosi con la sua entrata in
Gerusalemme, partendo proprio dal monte degli Ulivi: “Era
ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la
folla dei discepoli, esultando, cominciò a lodare Dio a gran voce,
per tutti i prodigi che avevano veduto, dicendo: <<Benedetto
colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria
nel più alto dei cieli!>>”
(19,37-38). Un cammino di glorificazione e di divinizzazione che il
Luca degli Atti voleva far terminare qui, da dov'era iniziato,
creando in tal modo una nuova inclusione, che ha per tema
l'esaltazione di Gesù.
Il
secondo momento è l'azione benedicente di Gesù (v.50b), il cui
senso è l'infondere la fecondità propria del Risorto, quale sua
eredità spirituale, sulla comunità apostolica, che dovrà
proseguire la sua missione, proprio partendo da Gerusalemme (v.47b).
La benedizione posta sul gruppo apostolico, da poco costituitosi
(v.33b) e consacrato dall'unzione dello Spirito Santo (v.49),
richiama da vicino l'immagine genesiaca della creazione dell'uomo,
sul quale Dio pose la sua benedizione, accompagnata dal comando di
essere fecondi e di moltiplicarsi, riempendo tutta la terra: “Dio
li benedisse e disse loro: "Siate fecondi e moltiplicatevi,
riempite la terra”
(Gen 1,28a). È questa la missione di cui è stato investito
l'intero gruppo apostolico, resa feconda dalla benedizione del
Risorto, che non va intesa soltanto come un commovente gesto di
saluto, ma imprime su quel gruppo e in quel gruppo germinale della
chiesa nascente il segno della fecondità divina, che è potenza di
Dio che opera nella Chiesa. E Luca racconterà nei suoi Atti questa
fecondità divina che opera nella Parola annunciata17
Il termine benedizione in ebraico è, infatti, “berakah”,
che deriva da “berek”,
che significa “ginocchio”, un eufemismo per indicare gli organi
genitali, che sono gli organi preposti alla generazione e quindi,
per loro natura e funzione, sinonimi di fecondità.
Il terzo momento è la
dipartita di Gesù verso il cielo (v.51), in cui traspare nel verbo
posto al passivo divino o teologico (“era portato su nel cielo”)
l'azione stessa di Dio. L'ascensione di Gesù al cielo, pertanto,
dice la sua divinizzazione, la sua assimilazione a Dio, poiché in
quell'ascesa c'è l'impronta di Dio stesso; mentre quel “distaccarsi
da loro” dice l'entrare di Gesù in una dimensione completamente
diversa da quella a cui appartengono i discepoli e a cui apparteneva
lo stesso Gesù della storia.
Il
quarto momento è il riconoscere nel Risorto la sua divinità
(v.52a): “Ed essi, dopo essersi prostrati davanti a lui”. Il
verbo qui usato per indicare il prostrarsi davanti al Risorto è
“proskun»santej”
(proschinésantes),
che compare nei vangeli complessivamente 29 volte, ma,
significativamente, soltanto tre volte in Luca: due volte nel
racconto delle tentazioni (4,7.8), in cui il diavolo pretende da
Gesù un atto di adorazione, al quale Gesù risponde: “È scritto:
adorerai (il) Signore tuo Dio e a lui solo servirai” (4,8). Il
verbo, pertanto, si riferisce all'atto di adorazione dovuto soltanto
a Dio, che si esprime nel servizio a Lui. Questo verbo ricompare ora
ed è riferito al Risorto, riconosciuto in tal modo vero Dio e
Signore, sottoscrivendo in quel gesto di adorazione la dedizione
dell'intero gruppo apostolico al suo Signore e al suo Dio.
Il quinto momento è il
ritornare a Gerusalemme del gruppo apostolico (v.52) sia in
ottemperanza a quanto Gesù aveva sollecitato al v.49b; sia perché
da Gerusalemme deve partire la loro missione (v.47b), divenendo in
tal modo la prosecuzione di quella del Gesù della storia, ma nel
contempo creando in loro stessi, rivestiti dello Spirito stesso del
Risorto, lo spazio storico in cui egli continua ad operare.
Il sesto momento, infine, è l'azione di lode e ringraziamento che dalla comunità apostolica si eleva cultualmente verso Dio (v.53): “ed erano continuamente nel tempio, benedicendo Dio”. All'azione benedicente del Risorto sulla comunità apostolica, risponde ora quella della stessa comunità, rivolta verso il Risorto, riconosciuto Dio e Signore (v.52a), creando in tal modo un virtuoso ciclo cultuale di salvezza, che si esprime nella fecondità stessa della chiesa nascente. Un versetto, il 53, che verrà ripreso e sviluppato in At 2,46-47: “Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la stima di tutto il popolo”, che dice come la Chiesa sia il nuovo Tempio e il nuovo luogo di culto, dove tutti i credenti, rivestiti del sacerdozio di Cristo, sono chiamati a celebrare le lodi di Dio, che trovano il loro vertice nell'azione liturgica della Chiesa stessa. Ricompare qui, in chiusura del vangelo lucano, il termine “tempio” con cui si era aperto (1,9) e attorno al quale girerà l'intero racconto dell'infanzia di Gesù18. Si viene, pertanto a formare una grande inclusione che abbraccia l'intero racconto lucano, messo sotto il segno della lode e del culto a Dio, che si esprime nella Chiesa, che viene ricordata da 1Pt 2,4-5 come il nuovo Tempio di Dio fatto da pietre vive, fondate sulla Pietra angolare che è il Risorto: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo”.
NOTE
1Cfr. Lc 24,6-8; 19-20; 25-27; 32; 44-46.
2Per un maggior approfondimento cfr. il mio studio su Gv 20: https://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%2020.pdf
3Il verbo qewršw (tzesoréo) significa letteralmente “scorgere, osservare, esaminare, investigare, meditare, valutare”.
4Il verbo nei vangeli compare complessivamente 117 volte, di cui 69 volte soltanto in Luca, il quale, unico tra gli evangelisti attribuisce al verbo un significato salvifico.
5Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e la voce “mantello” in J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1997 2^ edizione
6Secondo le indicazioni di Luca il villaggio corrisponde all'attuale villaggio di Qubébe. - Cfr. E.R. Galbiati – A. Aletti, Atlante storico della Bibbia e dell'antico Oriente, ed. Editrice Massimo, Milano, 1983 – pag 183.
7Secondo il De Vaux “Lo stadio è un'unità di misura greca, accolta in Palestina in epoca ellenistica e poi romana. Lo stadio alessandrino, a cui doveva conformarsi l'autore del secondo libro dei Maccabei e che verosimilmente era quello usato dai Giudei di Palestina, misurava un po' meno di 185 metri”. Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti Genova, III edizione 1997; ristampa 2002 – pag. 205
8I testo greco rende quel “Ciò che era fin da principio” con l'espressione “•O Ãn ¢p' ¢rcÁj” (O ên ap'archês) che indica un inizio storico e non assoluto come quello con cui si apre il libro della Genesi: “In principio” ('En ¢rcÍ, En archê); o, parimenti, il vangelo di Giovanni, che pone il Verbo “In principio” ('En ¢rcÍ, En archê). Questo inizio storico è Gesù, fisicamente testimoniato (udito, veduto, toccato) e contemplato come Verbo della Vita.
9Cfr. 1Sam 13,13a; Sal 13,1; 52,2; 68,6; 72,22; 91,7; Prv 14,8; Ger 4,22; 5,21;
10La Bibbia ebraica è suddivisa in tre parti: la Torah o l'insegnamento, i Nevim o Profeti e i Ketuvim o altri scritti. Essa è più semplicemente conosciuta anche con l'acronimo di “Tanàk” o “TNK”, che sono le lettere iniziali con cui sono chiamate le tre sezioni della Bibbia.
11Sulla questione cfr. i commenti ai capp. 8-10 della presente opera, pagine introduttive di ciascun capitolo.
12Per un maggiore approfondimento della questione cfr. il mio studio alle pagg. 9-19 al seguente indirizzo: https://digilander.libero.it/longi48/Per%20un%20cammino%20cristiano.pdf
13Cfr 1Sam 17,26.36; 2Re 19,4.16; Est 8,12q; 2Mac 7,33; 15,4; Sal 41,3.9; 83,3; Is 37,4; Ger 23,36; Dn 6,27; 14,25; Os 2,1; e nel N.T. Mt 16,16; 26,63; At 14,15; Rm 9,26; 2Cor 3,3; 6,16; 1Tm 3,15; 4,10; Ap 7,2
14Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e la voce “mantello” in J. Mateos – F. Camacho, Vangelo: figure e simboli, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1997 2^ edizione
15Cfr. At 1,8; 2,32; 3,15; 5,32; 10,39.41; 13,31.-
16Giovanni sembra farne un ulteriore accenno anche in 3,13: “E nessuno è salito al cielo se non colui che dal cielo è disceso, il Figlio dell'uomo”. - Altri autori neotestamentari sembrano accennare all'ascensione di Gesù al cielo, come Ef 4,8-10; 1Tm 3,16; 1Pt 3,22.-
17Cfr. At 2,41.48; 6,7; 12,24; 13,49
18Cfr. Lc 1,9.21.22; 2,27.37.46