IL VANGELO SECONDO LUCA

Il racconto della passione-morte
di Gesù.

Capp. 22-23

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi

Parte seconda: Gesù, ripudiato dal giudaismo,
è riconosciuto dal mondo pagano

(23,1-56)

Note generali

Il cap.22 si chiudeva con il processo giudaico (vv.66-71), l'ultimo atto di rifiuto ufficiale di Gesù da parte del giudaismo. Un processo che gira tutto attorno alla titolatura di Gesù, attestato ufficialmente quale Cristo e Figlio di Dio, prospettato nella sua glorificazione (22,69); una titolatura che verrà ripresa più volte e meglio precisata nel corso del processo davanti a Pilato (23,2.3.35.37.38.39.47). Un processo strano, quello giudaico, perché in realtà si chiude senza alcuna accusa specifica, che invece verrà formulata davanti a Pilato in 23,2.5; e senza alcuna sentenza di condanna, benché questa sia lasciata intendere in 23,51a . Una stranezza dovuta probabilmente al fatto che l'autore era più interessato nella sua narrazione a mettere in rilievo l'identità di Gesù, senza distrarre l'attenzione del suo lettore, che a far conoscere accuse o sentenze.

Il cap.23 potremmo definirlo come il racconto del processo civile contro Gesù, in cui le autorità giudaiche si muovono sullo sfondo, fungendo da accusatrici insistenti e persistenti e aizzando Pilato, Erode e il popolo contro di lui (vv.2.5.10.18.21.23) fino a far capitolare Pilato (v.24.25b), che invece cercava di difenderlo, volendolo liberare (vv.4.14.15.16.20.22).

Evidentemente non ci si trova qui di fronte ad uno scrupoloso resoconto documentato di un processo né tanto meno alla sua cronaca. Si tratta, in realtà, di una costruzione tutta redazionale, che pur servendosi di elementi storici, quali sono i personaggi che si muovono sulla scena (Pilato e autorità giudaiche) e gli eventi che si sono compiuti, quali il processo, le accuse, la condanna e la sua esecuzione, manipola abilmente tutto questo per raggiungere una molteplicità di finalità: a) apologia del mondo pagano, che in nessun modo voleva condannare Gesù, anzi, alla fine è proprio questo mondo a riconoscerlo e ad accoglierlo come “giusto” (vv.41b.47); b) una decisa accusa contro le autorità giudaiche, quali vere mandanti della condanna a morte di Gesù; c) mettere in rilievo, a più riprese, l'identità di Gesù, colta nelle sue molteplici sfaccettature, quali: a) messia e re (v.2.3.37.38.39b); b) messia, eletto e inviato di Dio, lasciando tralucere in qualche modo in quel “di Dio” la sua appartenenza divina (v.35b). Una sequenza di titoli, che sono quasi sempre abbinati o, comunque, inseriti in un contesto narrativo in cui ci si riferisce alla capacità salvifica di questo Messia e Re, di provenienza divina (vv.35.37.39b.42-43).

Se da un lato, l'autore punta ad una apologia del mondo pagano, che ha come contropartita una pesante accusa contro il giudaismo, raccontando in questo contesto la sua cristologia in prospettiva salvifica, dall'altro non rinuncia ad una parenesi edificante per il suo lettore, presentando un Gesù che, pur travolto dal dramma della croce, non impreca, ma al culmine della sua sofferenza e nel momento della sua morte affida se stesso al Padre (v.46); tuttavia prima non manca di elargire il suo perdono universale e incondizionato al giudaismo (v.34); accoglie benevolmente chi si affida a lui, indipendentemente dal suo stato di vita (vv.42-43), senza condannare chi lo bestemmia nella sofferenza e nell'oscurità della propria vita (v.39), ma cercando di aiutarlo con una riflessione che lo faccia rientrare in se stesso (vv.40-41); mentre tutti, indistintamente, siano essi pagani (v.47) che giudei (v.48), sono chiamati, di fronte al Crocifisso, alla conversione; nel mentre che vi è una tacita comprensione, nell'attesa di una ripresa futura, per quei seguaci di Gesù, che di fronte alla tragedia della croce, come era già avvenuto per Pietro (22,54b), se ne “stavano da lontano” (v.49).

Anche il racconto lucano del cap.23, pur trovando riscontro nella sostanza presso gli altri tre evangelisti, tuttavia differisce notevolmente da loro sia per le omissioni, sia per le aggiunte sia per il diverso modo di distribuire e di elaborare la sua narrazione rispetto a Marco, da cui dipende Luca. Differenze e scostamenti che vanno attribuiti prevalentemente, se non esclusivamente, alla sola redazione lucana.

Quanto alle omissioni più rilevanti rispetto a Marco, Luca tralascia il silenzio di Gesù di fronte alle accuse dei sommi sacerdoti (Mc 15,3-5); la flagellazione inflitta da Pilato (Mc 15,15b) e gli scherni da parte della soldataglia (vv.16-20), ritenendoli offensivi per i palati delicati dei greco-ellenisti e comunque inutili ai fini della sua cristologia; il rifiuto di aceto e mirra, offerti dai soldati, per attutire il dolore della crocifissione (Mc 15,23), mentre accetterà il solo aceto offertogli per scherno dai soldati (Lc 23,36); viene omessa l'ora della crocifissione, l'ora terza, le nove del mattino (Mc 15,25); toglie le beffe e gli insulti dei passanti (Mc 15,29-30), mentre riduce all'essenziale, un solo versetto (Lc 23,35b), gli insulti dei sommi sacerdoti e scribi che in Marco occupano due lunghi versetti (Mc 15,31-32); omette l'intera scena dell'invocazione di Gesù, scambiata dai presenti come un'invocazione ad Elia (Mc 15,34-36); tralascia i nomi delle donne che seguirono Gesù dalla Galilea (Mc 15,40), probabilmente perché di irrilevante interesse per i suoi lettori greco-ellenisti; omette lo stupore di Pilato per la rapida morte di Gesù e il suo accertamento (Mc 15,44-45); tralascia il particolare della chiusura della tomba con la pietra (Mc 15,46b), che in Marco, contrariamente a Luca, acquista notevole importanza nella scoperta della tomba vuota (Mc 16,3-4).

Quanto alle aggiunte rispetto a Marco, Luca inserisce in modo preciso le accuse contro Gesù (v.2); la triplice vigorosa dichiarazione di innocenza di Gesù da parte di Pilato (vv.4.14-15.22) contro un solo modesto tentativo da parte del cedevole Pilato marciano (Mc 15,14a); l'invio di Gesù da Erode (vv.6-12), episodio che serve a Luca per formulare e rafforzare la seconda dichiarazione di innocenza di Pilato a favore di Gesù (vv.13-16) e dimostrare al lettore greco-ellenista come non solo il pagano Pilato fosse d'accordo sull'innocenza di Gesù, bensì anche il giudeo Erode Antipa; viene descritto il viaggio di Gesù al Calvario (vv.27-32), a completamento del lungo viaggio verso Gerusalemme, iniziatosi in 9,51 e terminato, ora, sul Golgota; viene inserito la richiesta di perdono universale per i crocifissori di Gesù (v.34a); il dialogo dei due malfattori con Gesù (vv.39-43); il grido di abbandono di Gesù al Padre (v.46); le folle che, percuotendosi il petto, tornano indietro (v.48); le donne, che tornano casa per preparare gli unguenti per la sepoltura; viene rilevato il loro riposo sabbatico. Un escamotage narrativo per creare uno spazio consistente tra la sepoltura e la risurrezione, finalizzato a rassicurare il lettore sulla reale morte di Gesù, preparandolo in tal modo alla risurrezione. Quindi, autentica morte, autentica risurrezione.

Da un punto di vista narrativo, i racconti del cap.23 sono scorrevoli, sfrondati da appesantimenti narrativi, piacevoli a leggersi ed essenziali, così da consentire al lettore di cogliere immediatamente, senza distrazioni, il loro messaggio. Le stesse strutture delle pericopi vv.1-5; 6-12; 20-25; 44-48, disposte a parallelismi concentrici in C), sono elaborate per mettere in rilievo alcuni momenti salienti del processo a Gesù: là dove viene dichiarata la regalità di Gesù davanti a Pilato (v.3); dove Gesù tace di fronte alla vacuità di Erode, rifiutandogli in tal modo la sua parola di salvezza (v.9); dove il confronto tra Pilato e Giudei raggiunge il suo acme (vv.22-23); dove, nel momento estremo della sua vita, Gesù si affida al Padre (46).

Strutturalmente il cap.23 potremmo suddividerlo in due sezioni: quella del processo (vv.1-25) e quella dell'esecuzione della condanna (vv.26-56).

Commento ai vv.1-56

Prima sezione: il processo civile di Gesù davanti ai pagani (vv.1-25)

L'intera sezione si muove su di uno sfondo marcatamente apologetico ed è finalizzata ad evidenziare l'innocenza di Gesù, mettendo in rilievo, per contro, la colpevolezza delle autorità giudaiche, aggravata dal fatto che le autorità civili, Pilato ed Erode, non riconoscono nessuna colpa in Gesù e lo vogliono liberare.

Questa prima sezione è composta da tre quadri:

  1. davanti a Pilato: formulazione delle accuse e prima dichiarazione di innocenza di Gesù da parte di Pilato (vv.1-5);

  2. davanti ad Erode: Gesù, considerato da Erode una sorta di prestigiatore, viene interrogato e pesantemente offeso da Erode e dalla sua soldataglia. Nuove accuse da parte delle autorità giudaiche (vv.6-12);

  3. nuovamente da Pilato: nuova schermaglia tra Pilato innocentista e le autorità giudaiche caparbiamente colpevoliste, alle quali Pilato cede, consegnando loro Gesù perché lo crocifiggessero (vv.13-25)

Gesù davanti a Pilato (vv.1-5)

Testo a lettura facilitata

Introduzione

1 – E levatasi tutta quanta la loro moltitudine lo condussero da Pilato.

Le accuse

2 – Ora cominciarono ad accusarlo dicendo: <<Abbiamo trovato costui che disordina il nostro popolo e che impedisce di dare i tributi a Cesare e che dice che egli stesso è Cristo re>>.

La dichiarazione di regalità

3 – Ora Pilato lo interrogò dicendo: <<Tu sei il re dei Giudei?>>. Questi rispondendo dichiarò: <<Tu (lo) dici>>.

La dichiarazione di innocenza

4 – Ma Pilato disse verso i sommi sacerdoti e le folle: <<Non trovo nessuna colpa in quest'uomo>>.

Ripresa delle accuse

5 – Ma questi insistevano dicendo che solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, e avendo incominciato dalla Galilea fino a qui.

Note generali

La pericope vv.1-5, che forma il primo atto del processo a Gesù, è molto densa e importante per i suoi contenuti, che caratterizzano l'intera sezione del processo civile a Gesù (vv.1-25). Quanto ai personaggi, questi sono Gesù, Pilato e le autorità giudaiche, mentre il popolo o le folle sono una presenza costante che si muove sullo sfondo, nello stile del coro nelle tragedie greche. Vengono qui formulate per la prima volta le accuse di esclusiva natura politica, poiché a Pilato le questioni religiose non interessavano né aveva la competenza per potervi sindacare. Ed infine, ciò che più interessa a Luca, la dichiarazione della regalità di Gesù. Un tema questo che riecheggerà in tutto il cap. 23.

Lo schema narrativo si fonda sulla contrapposizione dei personaggi e dei loro ruoli: da un lato le caparbie accuse da parte delle autorità giudaiche contro Gesù; dall'altro, Pilato, e con lui Erode, che altrettanto persiste nella sua dichiarazione di innocenza di Gesù. Al centro del dibattito c'è Gesù, attorno al quale gira l'interno cap.23.

La pericope in esame appare particolarmente curata nella sua struttura, disposta a parallelismi concentrici in C):

A) Il sinedrio trascina Gesù davanti a Pilato (v.1);

B) le accuse dettagliate contro Gesù da parte dei sinedriti (v.2);

     C) la dichiarazione della regalità di Gesù (v.3);

     B1) la dichiarazione di innocenza di Gesù da parte di Pilato (v.4);

     A1) le insistenti accuse di sollevazione del popolo dei sinedriti contro Gesù (v.5).

Per cui si avrà che in A) vi sono le autorità giudaiche le quali in A1) insistono sulla generica accusa di sobillazione del popolo, il cui contenuto è già stato dettagliatamente precisato al v.2; in B) i sinedriti specificano le accuse contro Gesù in tre capi di accusa, sintetizzati sotto l'accusa di sobillazione del popolo al v.5; mentre in B1) Pilato, contrapponendosi alle autorità giudaiche, dichiara l'innocenza di Gesù. In C), parte centrale della pericope, che secondo la logica della retorica ebraica è la più importante, quella su cui si vuole accentrare l'attenzione del lettore, vi è la dichiarazione della regalità di Gesù.

Lo schema del processo a Gesù è da ritenersi verosimile ed ha un suo parallelo in Giuseppe Flavio, dove un tale, di nome Gesù, figlio di Anania, durante la festività delle Capanne, si aggira tra la gente preannunciando in modo insistente la distruzione di Gerusalemme, che sarebbe avvenuta da lì a quattro anni. I capi del popolo gli infliggono una dura punizione corporale, alla quale questo profeta improvvisato contrappone il suo silenzio. I capi, pertanto, sospettando che in lui agisse una forza sovrumana, lo conducono dal governatore Albino, che lo sottopose, a sua volta, alla flagellazione, alla quale questo tale contrappone soltanto il suo lamento su Gerusalemme. Alla fine il governatore lo rimanda libero dichiarandolo pazzo (Bell. Jud. 6, 300-305).

Vi è in questo racconto una notevole somiglianza non solo con lo schema del processo a Gesù, ma lo stesso personaggio, per certi aspetti assomiglia molto alla figura di Gesù stesso, non solo per portare lo stesso nome, ma anche per il suo lamento su Gerusalemme, sulla fustigazione subita, per il suo silenzio e, infine, per la sua liberazione dopo aver subito la fustigazione da parte di Albino, in cui si riflette, in qualche modo, la dichiarazione di Pilato al v.16: “Pertanto, dopo averlo punito, (lo) lascerò andare”.

Anche qui Luca segue lo schema narrativo di Marco, ma nel contempo gli imprime un'impronta completamente diversa: Mc 15, 1-5 mette in rilievo il silenzio di Gesù di fronte alle accuse, che non vengono specificate (Mc 15,3), e Pilato sembra essere lui stesso contro Gesù (Mc 15,4-5); mentre Luca mette in rilievo la triplice accusa (v.2), che poi riassume in quella di sobillazione (v.5) e fin da subito presenta un Pilato nettamente a favore di Gesù, evidenziando, per contro, come in un gioco di chiari-scuri, la faziosità delle accuse e la colpevolezza delle autorità giudaiche.

Commento ai vv.1-5

Il v.1 potremmo considerarlo come un versetto di transizione, perché nel chiudere il racconto del processo giudaico di Gesù (22,66-71), traghetta il lettore in un nuovo contesto narrativo, quello del processo civile nei confronti di Gesù.

Il v.1 si apre con un “Kaˆ” (Kaì, E), che lega il capitolo 22 al 23, facendone un suo proseguimento. Il contesto, pertanto è sempre quello processuale, ma cambiano, almeno in parte, i personaggi e la natura stessa del processo, che vede fin da subito contrapposta la “moltitudine” dei sinedriti a Pilato. Due diverse mentalità a confronto, preludendo in qualche modo il conflitto che animerà l'intera sezione del processo civile (vv.1-25). Una contrapposizione che viene accentuata dall'espressione “la loro moltitudine” in cui quel “loro” crea un netto stacco e una insanabile divisione tra le autorità giudaiche, chiuse nelle loro credenze (Gv 19,7), e quelle pagane, che nulla vedono dei reati contestati.

Benché non venga esplicitamente detto, tuttavia Pilato doveva trovarsi a Gerusalemme. Lo si arguisce dai movimenti dei sinedriti, che dal Sinedrio portano Gesù da Pilato; e l'annotazione del v.7 che rileva come “anche” Erode era a Gerusalemme in quei giorni. Appare pertanto evidente che Pilato si trovasse in quei giorni di festività pasquali a Gerusalemme. Pilato, infatti, in quanto prefetto della Giudea (26-36 d.C.), dimorava abitualmente a Cesarea Marittima, la sede imperiale della provincia romana della Giudea dal 6 d.C. Tuttavia, in occasione delle festività pasquali, Pasqua e Azzimi, per tenere sotto controllo l'enorme flusso di pellegrini provenienti da tutto l'impero ed evitare sommosse o rivolte armate, favorite dal caos di quei giorni e dalle attese messianiche, molto ferventi in questi frangenti, trasferiva temporaneamente la sua sede presso la Torre Antonia, una fortezza prospiciente sul Tempio, che poteva ospitare una forza di pronto intervento di seicento soldati. Con l'occasione, dalla Siria, da cui dipendeva amministrativamente la Palestina, veniva inviato un distaccamento della X Legio Fretensis per rafforzare la sicurezza.

Il v.2, tutto di redazione lucana, riporta in dettaglio le accuse a Gesù, che qui viene presentato dai sinedriti come un pericoloso sovversivo, mettendosi in tal modo in bella vista con Pilato, che dovrebbe vedere in loro dei fedeli servitori e collaboratori di Roma. Luca è l'unico tra gli evangelisti a formulare delle precise accuse contro Gesù, la cui natura è squisitamente politica, poiché a Pilato non interessavano le questioni religiose interne al giudaismo né aveva la competenza necessaria per potervi sindacare1. Tuttavia ciò che sottende un simile servilismo dei sinedriti non è certamente il cercare l'alleanza con Roma, come invece la cercavano e la favorivano i Sadducei, in combutta con Roma, ma, come precisa credibilmente Gv 11,47-50 il loro atteggiamento era mosso da un timore che li doveva angustiare non poco: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera>>”. Il grande seguito di cui godeva Gesù, pertanto, costituiva il vero pericolo, poiché sotto le feste pasquali si potevano verificare delle sommosse e la risposta di Roma sarebbe stata immediata e cruenta e avrebbe potuto sfociare in una strage e togliere i benefici che gli imperatori concedevano agli ebrei.

Luca, quindi, sull'onda dei timori di sovversione paventatati da Gv 11,47-50, formula tre accuse che riguardano la tranquillità e la pace sociale, a cui Roma era molto sensibile2: a) Gesù sobilla il popolo. Il verbo qui usato da Luca è “diastršfonta” (diastréfonta) che significa distorcere, stravolgere, disordinare, sconvolgere, sedurre, depravare. Quindi un Gesù che con la sua predicazione e la sua azione manipolava il popolo, costituendosi come un pericoloso ammaliatore, che sapeva conquistare gli animi della gente. Un'accusa pesante questa se viene associata alla terza, quella di pretendere di essere il Cristo re, cioè un sedicente messia che si metteva a capo dei suoi seguaci, formando bande armate che percorrevano la Palestina di quel tempo, creando disordini e ribellioni. Non erano rari, infatti, a quell'epoca i sedicenti messia autoproclamantisi re, un titolo quest'ultimo che va compreso più che nel senso di regalità come capi del popolo, tanto più pericolosi se si pensa al movimento zelota, il quale riteneva che l'avvento del regno di Dio dovesse essere accelerato con interventi armati, finalizzati a cacciare i Romani dalla Palestina, poiché tale regno non poteva costituirsi finché la loro terra fosse calpestata da pagani. Saranno proprio loro, infatti, che innescheranno la guerra giudaica (66-73 d.C.). Un'accusa questa che verrà ripresa al v.5, che l'amplifica estendendo tale sovversione dalla Galilea alla Giudea, mostrandone tutta la pericolosità. Il pericolo quindi è che l'intera Palestina si sollevi contro Roma a causa di Gesù; b) la seconda accusa riguarda l'impedimento del versare i tributi a Cesare, andando in tal modo a colpire le finanze di Roma. Una questione su cui Roma era molto sensibile e che Luca aveva già anticipato in 20,21-25, circa la liceità di pagare il tributo a Cesare, sulla quale Gesù si era espresso favorevolmente. Il lettore, pertanto, sa che l'accusa mossa è falsa e pretestuosa; c) la terza accusa riguarda l'autoproclamazione di Gesù a Cristo re, presentando in tal modo Gesù come una sorta di pericoloso capopopolo rivoltoso con velleità messianiche. La lettura politica dell'espressione “Cristo re” dice che Gesù, come non rari a quel tempo, non solo si era proclamato messia, solleticando in tal modo le attese messianiche del popolo, ma ha cercato anche di dare concretezza a questa sua autoproclamazione messianica, pretendendo di essere anche re. Una pretesa quest'ultima, che va compresa più che nel senso di una vera e propria regalità come capopopolo o capobanda e tale, quindi, da sostenere anche con le armi e l'appoggio della gente la sua pretesa messianicità.

Da un punto di vista religioso, l'accusa di “Cristo re” si rifà al processo da parte del Sinedrio dove Gesù aveva affermato non solo di essere il “Cristo” e quindi l'atteso dalle speranze della gente, ma questa sua messianicità era sostenuta e sostanziata dalla potenza stessa di Dio. Da qui l'aggiunta da parte dei sinedriti al titolo di Cristo quello di re. Luca è l'unico che associa i due titoli. Un'aggiunto che comunque servirà a Luca per creare un aggancio al v.3 dove verrà proclamata la regalità messianica di Gesù.

Il v.3, posto al centro della pericope vv.1-5, evidenzia l'importanza del suo contenuto. Agganciandosi alla parola “re” con cui termina il v.2, Luca pone all'attenzione del suo lettore il tema della regalità di Gesù. Pilato, ignorando il titolo di “Cristo” che precede quello di “re”, poiché verosimilmente il procuratore non era a conoscenza della questione del messianismo presso il giudaismo, punta diritto su quel altro titolo che meglio conosce: quello di “re”. Ma il lettore sa già grazie a quella combinazione di “Cristo re”, che quella regalità è messianica e non ha nulla di storico, di politico o di militare (Gv 18,36).

La domanda di Pilato è diretta e compare identica in tutti gli evangelisti3, ma sarà solo in Giovanni che la risposta alla domanda non si limiterà ad un semplice ed equivoco “Tu lo dici”, presente nei Sinottici, ma avrà un lungo sviluppo riflessivo, che dura ben 30 versetti (Gv 18,33-19,22) e punta ad approfondire la natura di tale regalità e del suo Regno. La risposta del Gesù sinottico con quel “Tu (lo) dici” è alquanto sibillina e tale che sembra che Gesù voglia prendere le distanze dall'affermazione di Pilato. Per poter comprendere il senso della risposta del Gesù sinottico è necessario rifarsi a Gv 18,33-37. Anche qui compare l'identica domanda di Pilato: “Tu sei il re dei Giudei?”. La risposta del Gesù giovanneo non si limita come quello sinottico ad un semplice quanto enigmatico “Tu lo dici”, ma spinge Pilato a sondare la sua fonte d'informazione: “Tu dici questo da te stesso o altri ti hanno detto di me?”, lasciando intravvedere come la domanda posta da Pilato circa la sua regalità non sia corretta e abbisogna di un aggiustamento, che viene precisato in Gv 18,36 dove l'evangelista attesta come il regno di cui Gesù è re non è di questo mondo, come pensava Pilato nel chiedergli se è “re dei giudei”, quindi re con qualifiche terrene. Ed ecco che dopo tale spiegazione Pilato non chiederà più se Gesù è “re di giudei”, ma semplicemente “Dunque, tu sei re?”, ora, senza alcun'altra precisazione che possa qualificare tale regalità di tipo terreno. E sarà soltanto a questo punto che Gesù darà il suo assenso a Pilato: “Tu dici che sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità; ognuno che è dalla verità ascolta la mia voce”.

La risposta del Gesù sinottico, “Tu lo dici”, sembra essere volutamente sibillina e tale da indurre il lettore ad interrogarsi su che cosa Gesù volesse dire con quell'affermazione e, quindi, sulla tipologia della sua regalità, il cui senso Luca lascia in qualche modo intravvedere dal precedente titolo di “Cristo re”, cioè un “Messia re” o, altrimenti, una regalità di tipo messianico, certamente non terrena.

Il v.4 riporta la risposta di Pilato, rivolta ai sommi sacerdoti e alle folle lì presenti, ma, quest'ultime, inerti, come semplici spettatrici di un dramma che si stava consumando davanti a loro, quasi che Luca volesse chiamarle a testimonianza della pervicace cecità delle autorità giudaiche e dell'assassinio, di cui esse erano le mandanti. L'evangelista, infatti, di queste folle dirà che esse “seguivano” Gesù sul luogo del supplizio (v.27); che queste, contrariamente ai loro capi, “stavano a guardare” (v.35) e che esse erano “presenti a questo evento”. Testimoni, dunque, e come tali verranno citate un'ultima volta in 24,19, dove queste sono poste a testimonianza delle grandi opere che Gesù ha compiuto “davanti a Dio e a tutto il popolo”.

Dopo il breve interrogatorio (una sola domanda a fronte della quale ottiene una risposta equivoca) Pilato giunge a conclusione che Gesù è innocente di tutte le accuse che gli vengono addossate (v.2). Come sia giunto a tale conclusione non ci è dato di sapere, ma qui Luca non intende innescare un dibattimento sull'innocenza di Gesù, ma sinteticamente riporta quello che la Tradizione gli ha trasmesso: Gesù è stato condannato innocente4. E qui il suo intento è squisitamente apologetico e sotteso da una nota polemica ed ha come obiettivo quello di contrapporre le dichiarazioni di innocenza che provengono dal mondo pagano e dal mondo giudaico (v.15) a quelle di accusa provenienti dalle autorità giudaiche. Un confronto che punta a mettere in rilievo la loro colpevolezza. Significativo in tal senso è quello di enumerare le volte con cui Pilato dichiara l'innocenza di Gesù: una prima volta al v.3; una seconda volta ai vv.14-15, in cui Pilato, a suo supporto, coinvolge anche Erode; ed infine al v.22: “Ma per la terza volta disse verso di loro: <<Che cosa, dunque, ha fatto di male costui? Non ho trovato niente che è motivo di morte in lui. Pertanto, dopo aver(lo) castigato, lo lascerò andare”.

Il v.5 chiude il primo incontro dei sinedriti con Pilato, ribadendo con insistenza le accuse contro Gesù. Significativo in tal senso è il verbo “™p…scuon” (epíschion, insistevano), posto all'imperfetto indicativo, che in greco ha un senso durativo e, quindi, potrebbe essere tradotto con “continuavano ad insistere”, sottolineando in tal modo la caparbia cecità e nel contempo la determinata volontà omicida delle autorità giudaiche nei confronti di Gesù, che vengono poste in rilievo dalle altrettante dichiarazioni di innocenza da parte di Pilato. Un contrasto questo che riecheggerà in tutta questa prima sezione del cap.23, dedicata al processo civile contro Gesù e il cui intento è chiaramente apologetico.

Vengono qui sunteggiate le accuse formulate al v.2 con quel “solleva il popolo insegnando”. Non si tratta, dunque, di un incitamento alla rivolta armata contro Roma, l'unica cosa che a Roma interessava veramente, ma di un insegnamento, cioè di dottrine che contrastavano, più che con le disposizioni imperiali, alle qual Gesù si era mostrato rispettoso (20,22-25), con le convinzioni giudaiche, di cui i sinedriti erano i depositari e i custodi. Si trattava di un insegnamento che riecheggiava per tutta la Palestina, espresso con una formula che si trova nei sommari della predicazione di Gesù: “insegnando per tutta la Giudea, e avendo incominciato dalla Galilea fino a qui5. Una formula geografica questa che dice l'estensione territoriale dell'attività di Gesù, che ha avuto il suo inizio in Galilea, da dove idealmente avrà inizio l'attività missionaria della chiesa primitiva, allorché Gesù darà appuntamento ai suoi, dopo la risurrezione, in Galilea (Mt 26,32; 28,7.10.16; Mc 14,28; 16,7), quasi che essi dovessero ripercorrere il cammino apostolico e missionario di Gesù.

Gesù davanti ad Erode (vv.6-12)

Testo a lettura facilitata

Preambolo (vv.6-7)

6 – Ora Pilato, udito (ciò), chiese se l'uomo fosse galileo,
7 – e saputo che è della giurisdizione di Erode, lo rimandò da Erode, che anche lui era a Gerusalemme in questi giorni.

Gesù davanti a Erode (vv.8-9)

8 – Ora Erode, visto Gesù, gioì grandemente, infatti era da molto tempo che voleva vederlo per aver udito su di lui e sperava di vedere un qualche segno compiuto da lui.
9 – Ora lo interrogava con molte parole, ma egli non gli rispose nulla.

Ancora accuse da parte delle autorità giudaiche (v.10)

10 – Ora, stavano (lì) i sommi sacerdoti e gli scribi che lo accusavano con tenacia.

Scherni e lazzi da parte di Erode e dei suoi (v.11)

11 – Ma essendo proclive a disprezzarlo [anche] Erode con i suoi soldati, e schernito(lo), gettato(gli) intorno un magnifico abito, lo rimandò da Pilato.

Una nuova amicizia a danno di Gesù (v.12)

12 – Ora Erode e Pilato in quel giorno divennero l'un l'altro amici, infatti prima erano in inimicizia tra di loro.

Note generali

Luca è l'unico tra gli evangelisti a riportare questo episodio, di natura squisitamente redazionale. In altri termini, Luca se lo è inventato di sana pianta, anche se alcuni riferimenti come Lc 8,2-3 o At 13,1 possono in qualche modo lasciare spazio a delle illazioni o ipotesi, che non hanno comunque nessun fondamento storico. Ci troviamo di fronte, infatti ad una costruzione tutta lucana, che ha due finalità: la prima è la drammatizzazione del Sal 2,1-2. Due sono gli elementi che inducono a questa conclusione: da un lato, At 4,25b-28, che riportando il Sal 2,1-2, lo commenta in 4,27-48, richiamandosi esplicitamente a Lc 23,6-12: “Perché si agitarono le genti e i popoli tramarono cose vane? Si sollevarono i re della terra e i principi si allearono insieme, contro il Signore e contro il suo Cristo; davvero in questa città si allearono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d'Israele, per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse”; dall'altro, sia Lc 23,10-11, dove i sinedriti ed Erode sono tra loro accomunati in una sorta di tacita alleanza tra accuse e insulti contro Gesù; sia il v.12, con cui si chiude il racconto di Gesù davanti ad Erode, rilevando l'alleanza tra Pilato ed Erode. Viene in tal modo realizzata la profezia del Sal 2,1-2.

La seconda finalità di questo racconto (vv.6-12) è fornire una spalla di sostegno alla difesa di Gesù da parte di Pilato, venendo richiamato da Pilato stesso al v.15.

Non è da escludere, infine, una terza finalità, prevalentemente di natura letteraria e che risiede nello stile dell'autore stesso: quello del gioco delle simmetrie, per cui ad un racconto “A” ne corrisponde un altro simile “B”, a quello parallelo. Nella fattispecie, il processo pagano di Pilato ha il suo parallelo in quello giudeo di Erode. In tal modo viene a chiudersi la serie di processi a cui Gesù è stato sottoposto: quello del Sinedrio (22,66-71); quello di Pilato (23,1-5) e, infine, quello di Erode (vv.6-12) e poi nuovamente Pilato (vv.13-25). Nei due processi civili Gesù è riconosciuto innocente, mentre in quello sinedrita non viene formulata nessuna accusa né vi è alcuna dichiarazione di colpevolezza. Ma ciò che farà pendere per la condanna di Gesù è soltanto la furia omicida delle autorità giudaiche, che voglio togliersi questa loro spina nel fianco una volta per tutte. La condanna, quindi, nasce in un contesto extragiudiziale, che richiama molto da vicino il linciaggio (vv.20-23).

Anche questa pericope è particolarmente curata nella sua struttura, disposta a parallelismi concentrici in C):

A) Pilato, saputa della presenza di Erode in Gerusalemme, invia Gesù presso di lui (vv.6-7);

B) Erode riceve Gesù e gioisce, pensando a lui come ad una sorta di saltimbanco (v.8);

     C) il silenzio di Gesù (v.9);

 B1) tra le accuse dei sinedriti, la gioia per Gesù si fa disprezzo nei suoi confronti e con lui i suoi soldati (vv.10-11);

A1) Erode e Pilato diventano tra loro amici.

Per cui si avrà che in A) Pilato invia Gesù da Erode e in A1) Pilato ed Erode diventano amici; in B) Erode riceve Gesù come fosse un saltimbanco e in B1) sinedriti, Erode e soldati sono tra loro accomunati contro Gesù, tramutando la gioia iniziale in un'orgia di accuse e offese a Gesù; in C) il silenzio di Gesù che esprime l'incomunicabilità di Dio con l'uomo che lo respinge.

Commento ai vv.6-12

Il preambolo (vv.6-7)

Il v.5 terminava rilevando come Gesù fosse giunto in Giudea partendo dalla Galilea. La citazione di quest'ultima regione della Palestina, di proposito posta alla fine del v.5, funge da parola aggancio all'episodio seguente. Il v.6, infatti, apre il racconto dell'incontro di Gesù con Erode, ricordando l'origine galilaica di Gesù. Gesù, dunque, apparteneva alla giurisdizione di Erode, che in occasione delle festività pasquali si trovava a Gerusalemme. Certamente il gesto di Pilato, quello di mandare Gesù da Erode, non doveva essere proprio di cortesia, considerando che il v.12b attesta che “prima erano in inimicizia tra di loro”. L'invio di Gesù ad Erode da parte di Pilato, pertanto, va considerato come un tentativo di rifilare una grana politico-religiosa al suo avversario da parte del prefetto romano della Giudea. L'Erode di cui si parla qui è Antipa, figlio di Erode il Grande e della sua quarta moglie, la samaritana Maltace. Egli ottenne da Roma, da cui dipendeva, il titolo di tetrarca della Galilea e della Perea, che ha governato dalla morte del padre (4 a.C.) fino al 39 d.C6. Fu l'Erode che, sposata Erodiade, moglie di suo fratello Filippo, fu duramente ripreso dal Battista, che, sebbene controvoglia (Mc 6,26; Mt 14,9), fece decapitare, pressato dalle insistenze di Erodiade (Mc 6,17-28; Mt 14,6-11).

Gesù davanti a Erode (vv.8-9)

Il v.8 è costruito sulla ripresa di 9,7, dove “Erode il tetrarca udì tutte le cose che accadevano ed era perplesso per quello che era detto da alcuni che Giovanni fu risuscitato dai morti”; e su 9,9, dove “Erode disse: <<Io decapitai Giovanni. Chi è costui del quale sento tali cose?>>. E cercava di vederlo”. Versetti ai quali l'autore si richiama motivando la gioia di Erode: “infatti, era da molto tempo che voleva vederlo per aver udito su di lui e sperava di vedere un qualche segno compiuto da lui”

Il v.8 funge qui da cornice introduttiva al nuovo contesto in cui è condotto Gesù e con lui anche i lettori lucani: da Pilato si passa ora ad Erode. La vista di Gesù provoca in Erode una grande gioia. Il verbo gioire è caratteristico di Luca e ricorre dodici volte nel suo vangelo ed esprime la gioia messianica per l'evento Gesù, venuto ad inaugurare i tempi nuovi, portando nell'oggi dell'uomo la salvezza, che è riconciliazione dell'uomo con Dio (1,77-79). Ma ciò che qui determina il senso di questo gioire è l'atteggiamento di chi si accosta a lui. E se per dieci volte il verbo assume un significato positivo, soltanto in 22,5 e qui, al v.8, assume un senso decisamente negativo. Qui ci si trova di fronte alla gioia di persone perverse, che cercano Gesù solo per ucciderlo (13,31; 22,2).

Il v.8 termina rilevando un segreto desiderio di Erode, quello di “vedere un qualche segno compiuto da lui”. La gioia, quindi, di Erode non è soltanto alimentata da una lunga attesa di questo incontro con Gesù, ma anche dalla speranza di vedere un suo qualche segno. Con questi brevi tocchi l'evangelista tratteggia l'atteggiamento interiore di Erode nei confronti di Gesù: vi è si una lunga attesa per un suo incontro con Gesù, accompagnato anche da una segreta speranza di vederlo, ma il tutto nelle persone perverse e avverse a Dio viene banalizzato e ridicolizzato. Il v.8, pertanto, fornisce anche la chiave di lettura del successivo v.9, dove, nonostante l'insistenza di un interrogatorio supportato da “molte parole”, Erode non ottiene alcuna risposta da Gesù. Ciò che determina questo silenzio da parte di Gesù è, pertanto, l'atteggiamento sbagliato di Erode nei confronti di Gesù, che il tetrarca ritiene una sorta di prestigiatore o di saltimbanco, una specie di giullare di corte.

La significativa risposta di Gesù è pertanto il silenzio: “ma egli non gli rispose nulla”. Un “ma”, che dice la netta e invincibile contrapposizione tra Gesù ed Erode, nonché tutta l'incomunicabilità tra i due, che pesa come una condanna su Erode. Vedremo, invece, come questa barriera di incomunicabilità tra il male e il bene venga infranta con il dialogo salvifico che avviene tra il malfattore pentito e Gesù: “oggi sarai con me nel paradiso” (v.43). Ciò che è mancato ad Erode fu proprio il cambio di atteggiamento interiore. Anche per lui, come per Zaccheo e come per il malfattore in croce, ci fu un “oggi” di salvezza, ma fu soltanto un'occasione sprecata.

Ancora accuse da parte delle autorità giudaiche (v.10)

All'improvviso e inaspettatamente compaiono nuovamente i sinedriti, benché la loro presenza sia giustificabile dal fatto che Gesù è loro prigioniero e loro sono i suoi accusatori principali (v.1). Non potevano, quindi, mancare. La loro presenza, pertanto, era sottintesa. Il loro ruolo, qui, come del resto durante tutti i vari passaggi dei diversi momenti del processo di Gesù, è quella di essere degli accusatori, che qui Luca definisce “tenaci”. Un ruolo che caratterizza le autorità giudaiche e che implicitamente suona come un atto di accusa contro di loro: sono loro i veri colpevoli della morte di Gesù. Una “tenacia” che viene rafforzata dal tempo verbale dell'accusare: l'imperfetto indicativo, che in greco esprime la continuità dell'azione e, quindi, si potrebbe tradurre con “continuavano ad accusare”. La loro comparsa qui presso Erode, di per sé non necessaria all'economia del racconto, serve tuttavia all'autore per far capire al suo lettore, insieme all'interrogatorio che Erode sta conducendo su Gesù “con molte parole” (v.9a), che qui ci si trova di fronte ad un processo, il cui esito verrà poi richiamato da Pilato stesso al v.15. Non va mai dimenticato che questo è un racconto costruito da Luca per rafforzare la tesi di innocenza di Gesù, che Pilato vuole ad ogni costo liberare. Un racconto, dunque, che funge da spalla all'attore principale, Pilato.

Scherni e lazzi da parte di Erode e dei suoi (v.11)

Vi è un rapido degradare del comportamento di Erode nei confronti di Gesù, che mette in rilievo la sua natura perversa e malvagia: si passa dalla gioia, dalla speranza e dalle attese su Gesù (v.8), dal voler conoscere meglio Gesù (v.9) al suo disprezzo, che si manifesta nello scherno. Significativo in tal senso è il verbo “™xouqen»saj” (exutzenésas), che letteralmente significa “essere proclivi al disprezzo”. È questo il vero Erode, al di là della gioia e della speranza e degli inutili tentativi di conoscere Gesù. E forse proprio per questo Gesù tace. Erode è un uomo incline al male. Nessun dialogo di salvezza con lui.

Il v.11 si chiude con Erode che getta addosso a Gesù “un magnifico abito” e “lo rimanda da Pilato”. Luca tralascia la scena della soldataglia che getta addosso a Gesù incoronato di spine un mantello o un abito color porpora o scarlatto, salutandolo poi come il re dei Giudei, presente invece negli altri tre evangelisti7, e la sostituisce con quella più innocua, meno offensiva, ma alquanto più significativa di un Erode che “peribalën ™sqÁta lampr¦n” (peribalòn estêta lampràn, gettatogli attorno un abito magnifico). A ben guardare un'espressione strana, che si discosta notevolmente dalla tradizione sia sinottica che giovannea. Perché? Per poter comprendere la scelta di Luca è necessario fare un passo indietro. Matteo, Marco e Giovanni raccontano come la soldataglia saluti Gesù, incoronato di spine e ricoperto di un mantello di porpora, come re dei Giudei. Ciò che a loro importa in questo contesto, al di là degli scherni, è lasciar filtrare nel saluto osceno la regalità di Gesù. Simile escamotage adotta qui Luca per il suo Gesù che per lui non ha addosso un mantello color porpora, bensì ha un abito magnifico. Il testo greco che l'autore usa qui, tuttavia, lascia trasparire una duplice lettura: il “peribalën” significa gettare attorno, ma anche “avvolgere”; il termine “™sqÁta” significa abito, vestito, che esprime simbolicamente lo stato o la condizione di vita di chi lo indossa8; ed infine l'attributo “lampr¦n”, riferito all'abito, che significa oltre che “magnifico” anche “splendente, rilucente, raggiante, glorioso, fulgido”. Ora se sommiamo assieme il significato di questi termini ci appare non più un Gesù vilipeso, bensì un Gesù rilucente, avvolto di gloria. In altri termini qui Luca allude alla risurrezione di Gesù. Ciò, del resto, non deve stupire perché proprio in 22,69, nell'ambito del processo sinedrita, Gesù attesta che “da adesso il Figlio dell'uomo sarà seduto alla destra della potenza di Dio”. Quel “da adesso” (¢pÕ toà nàn, apò tû nîn) significa che per Luca, l'unico degli evangelisti che riporta simile espressione, la glorificazione di Gesù non ha inizio con la risurrezione, ma comincia già da ora con la sua passione. E Luca ricorda questo importante aspetto, presentando qui, al v.11, un Gesù “avvolto in un abito splendente”. Un abito splendente, quindi, che ha a che fare con il mondo divino. La singolare espressione “™sqÁta lampr¦n”, infatti, è tutta lucana e la si ritrova identica ancora un'altra volta in At 10,30, dove il centurione Cornelio rispondendo ad una richiesta di Pietro, dice: “Quattro giorni or sono, verso quest'ora, stavo recitando la preghiera delle tre del pomeriggio nella mia casa, quando mi si presentò un uomo in splendida veste (™n ™sqÁti lampr´, en estêti lamprâ)”. L'uomo in veste splendida non può che essere un angelo proveniente da Dio, considerato il messaggio che segue (10,31-32).

Il v.11 si conclude con Erode che rimanda Gesù da Pilato. Se quest'ultima espressione chiude, da un lato, la parentesi erodiana del processo, preannunciando un nuovo cambio di scena, dall'altro dice anche che Erode “proclive al disprezzo” ha rifiutato Gesù, perdendo l'occasione del suo “oggi” di salvezza.

Una nuova amicizia a danno di Gesù (v.12)

Il racconto del processo erodiano si chiude con una strana notizia storica, che francamente non interessa a nessuno. Che tra Erode e Pilato non corresse buon sangue è comprensibile, considerate le diverse posizioni di potere: Pilato, prefetto della Giudea, è espressione del potere di Roma, la quale ha tolto il titolo di re ad Erode Antipa, assegnandogli quello più modesto ed umiliante di “tetrarca” e la sua libertà di governo e di potere erano sotto il vigile controllo di Roma e se le cose non funzionavano a dovere poteva venire destituito, come già era successo nel 6 d.C. al fratello Erode Archelao, esiliato a Vienne, perché accusato di crudeltà dai Giudei. Quale amicizia sia stata possibile poi tra i due è difficile immaginarlo. Comunque sia, la nota riportata da Luca al v.12 non va valutata sotto un profilo storico, quanto piuttosto, come già si è detto sopra, sotto quello scritturistico e che At 4,25b-28 ha posto bene in rilievo.

Gesù nuovamente davanti a Pilato (vv.13-25)

Testo a lettura facilitata

Cornice introduttiva (v.13)

13 – Ora, Pilato, convocati i sommi sacerdoti e i capi e il popolo,

La sentenza di Pilato: Gesù è innocente (vv.15-16)

14 – disse verso di loro: <<Mi avete portato quest'uomo come uno che sobilla il popolo, ed ecco io, dopo aver(lo) esaminato davanti a voi, non ho trovato nessuna colpa in quest'uomo circa le cose di cui lo accusate.
15 – Ma neppure Erode, infatti lo ha rimandato da noi, ed ecco non vi è niente degno di morte che sia stato fatto da lui.
16 – Pertanto, dopo averlo punito, (lo) lascerò andare>>.

La strana usanza (vv.17-19)

17 – [Ora, (Pilato) aveva obbligo di rilasciare loro un (prigioniero) ogni festa].
18 – In massa gridavano dicendo: <<Togli questo, ma rilasciaci Barabba>>.
19 – Costui fu gettato in carcere per una sollevazione avvenuta nella città e omicidio.

L'estremo e fallito tentativo di liberare Gesù (vv.20-25)

         (Struttura a parallelismi concentrici in C)

A) 20 – Di nuovo Pilato volse loro la parola, volendo liberare Gesù.
B) 21 – Ma questi gridavano dicendo: <<Crocifiggi(lo), crocifiggilo!>>.

C) 22 – Ma per la terza volta disse verso di loro: <<Che cosa, dunque, ha fatto di male costui? Non ho trovato niente che è motivo di morte in lui. Pertanto, dopo aver(lo) castigato, lo lascerò andare>>.
C) 23 – Ma questi sollecitavano con grandi grida, chiedendo che egli fosse crocifisso, e le loro voci acquistavano forza.

B1) 24 – E Pilato decise che si compisse la loro richiesta:
A1) 25 – liberò colui che era stato gettato in carcere per sollevazione e omicidio, colui che avevano richiesto, mentre consegnò Gesù alla loro volontà.

Note generali

Dopo l'intervallo del processo davanti ad Erode, la cui funzione è quella di rafforzare la tesi dell'innocenza di Gesù (v.15) e il rimarcare una volta di più la colpevolezza delle autorità giudaiche nella loro condanna (v.10), viene ripreso ora il processo di Gesù presso Pilato. Ma più che un vero e proprio processo, in quest'ultima parte della prima sezione del cap.23, è forse meglio parlare di un acceso confronto tra Pilato, che vuole liberare Gesù, riconoscendone la piena innocenza, e le autorità giudaiche, invece, sempre più caparbiamente determinate a sopprimerlo.

Spariscono, qui, infatti, le accuse contro Gesù, che, invece, avevano animato la prima parte del processo (vv.2.5), per dare ampio spazio invece al dibattimento, da cui emerge chiaramente la colpevolezza delle autorità giudaiche e l'innocenza di Gesù, così che la colpevolezza di Pilato per aver abbandonato Gesù nelle loro mani viene notevolmente attenuata e resa pressoché impercettibile, anzi, in qualche modo giustificata, considerata la tensione che si stava trasformando in tumulto con conseguenze imprevedibili (v.23).

È evidente che qui non ci troviamo di fronte ad un reportage cronachistico dell'epoca, ma ad una manipolazione degli eventi da parte dell'evangelista per far meglio emergere l'innocenza di Gesù e la colpevolezza delle autorità giudaiche. In altri termini, prevale qui l'aspetto apologetico più che quello storico. Sono, infatti, numerose le battute che supportano l'innocenza di Gesù e che puntano nel contempo a sminuire la responsabilità di Pilato: “non ho trovato nessuna colpa” (v.14); “non vi è niente degno di morte che sia stato fatto da lui” (v.15b); “lo lascerò andare” (v.16b); “volendo liberare Gesù” (v.20); “Che cosa, dunque, ha fatto di male costui? Non ho trovato niente che è motivo di morte in lui. Pertanto, dopo aver(lo) castigato, lo lascerò andare” (v.22). Ma nel contempo, alle insistenze di Pilato, l'evangelista contrappone la pervicace volontà omicida delle autorità giudaiche: “In massa gridavano dicendo: <<Togli questo, ma rilasciaci Barabba>>” (v.18); “Ma questi gridavano dicendo: <<Crocifiggi(lo), crocifiggilo!>>” (v.22); “Ma questi sollecitavano con grandi grida, chiedendo che egli fosse crocifisso, e le loro voci acquistavano forza” (v.23).

Se da Pilato viene opposta alle richieste di condanna da parte dei sinedriti delle giustificazioni motivate per la liberazione di Gesù, fondate su degli interrogatori svolti da lui e da Erode, dai quali non è emerso nulla che possa confermare in qualche modo le tesi accusatorie dei sinedriti, da parte delle autorità giudaiche, per contro, vi sono soltanto delle urla sempre più crescenti, che sembrano sfociare ormai in un vero e proprio linciaggio (v.21) e che lasciano trapelare la possibilità di una rivolta (v.23) nel caso in cui Pilato voglia liberare Gesù.

Commento ai vv. 13-25

I vv.13-14 riprendono sinteticamente la pericope vv.1-5, ricreandone qui il contesto e riportando l'ultima accusa mossa al v.5 e ribadendo nel contempo la posizione assolutoria di Pilato nei confronti di Gesù. In altri termini, l'autore cerca qui di riannodare il filo narrativo interrotto dall'inserzione del processo erodiano. Due versetti il 13.14 rilevanti perché danno sinteticamente il tono all'intero dibattimento, fornendone la chiave di lettura: la riconosciuta innocenza di Gesù si scontra con le caparbie e irrazionali accuse delle autorità giudaiche, fino a raggiungere il parossismo del linciaggio (vv.18.21.23).

Questa seconda parte del processo davanti a Pilato si apre con la convocazione dei sommi sacerdoti e i capi degli anziani del popolo. Ci si trova, quindi, di fronte ad un'assemblea convocata, che funge da cornice al dibattimento che vi si sta per svolgere, dandogli un tono di ufficialità e di solennità. La diatriba pertanto assume qui una valenza di testimonianza che l'autore intende lasciare ai suoi lettori.

I vv.14-16 forniscono qui la solida difesa di Gesù e si muovono seguendo una logica serrata: dapprima viene esposta l'accusa (v.14a), ripresa dal v.5; a questa si contrappone il lavoro di ricerca a mezzo interrogatorio, che Pilato ha pubblicamente effettuato di fronte agli accusatori, asserendo di non aver trovato nel comportamento di Gesù rispondenza alle accuse mosse (v.14b). Il secondo passaggio, che va a supportare e a rafforzare la tesi di Pilato, è dato dal v.15, che si richiama al parere di Erode (vv.6-12), che collima con quello di Pilato: niente di penalmente rilevante e tale da condannare Gesù alla pena capitale. Ed ecco, quindi, il v.16, che conclude il dibattimento: “Pertanto, dopo averlo punito, (lo) lascerò andare”. Una conclusione che convince solo a metà, perché se si è certi che Gesù non si è mai esposto nel senso delle accuse, perché punirlo? Una punizione che in genere consisteva in una fustigazione. Una decisione che forse Pilato ha preso per non dare un netto diniego alle autorità giudaiche che stavano aizzando la folla contro Pilato (v.23).

Gesù e Barabba: una scelta irrazionale? (vv.17-19)

Note generali

Il processo di Gesù presso Pilato subisce un'altra interruzione (vv.17-19), alla quale Luca poi lega in qualche modo il resto del dibattimento, che si concluderà con la liberazione di Barabba e la condanna di Gesù (vv.20-25). Un racconto, quindi, che narrativamente serve a ridare slancio al processo, fungendo da volano, rimarcando sempre più la volontà di Pilato, favorevole a Gesù, contrastandola nel contempo con quella delle autorità giudaiche, che in questo frangente coinvolgono anche il popolo, degenerando in un linciaggio (v.18a.23).

Il racconto del confronto di Gesù con Barabba, sui quali i giudei sono chiamati a pronunciarsi, compare in tutti quattro gli evangelisti con significative diverse sfumature tra loro. Come al solito, la mia preferenza va assegnata al vangelo di Giovanni, in quanto tra gli evangelisti egli è storicamente il più affidabile.

Pilato dunque tenta di liberare Gesù, richiamandosi qui ad una consuetudine giudaica (Mt 27,15; Gv 18,39): quella di amnistiare un prigioniero nel giorno di pasqua. Un'istituzione questa giuridica o paragiuridica che, cadendo nel giorno di pasqua, forse si richiamava in qualche modo alla liberazione di Israele dalla sua schiavitù egiziana. Una consuetudine che probabilmente fu inaugurata dagli Asmonei, che per accattivarsi le benevolenze del popolo, nel giorno della pasqua solevano amnistiare un prigioniero politico a scelta del popolo9. Tuttavia diversa si presenta la motivazione di questa sorta di amnistia nei vangeli. Mc 15,6 attesta che “Ora, durante la festa (Pilato) rilasciava loro una carcerato, quello che richiedevano”. L'uso qui dell'imperfetto indicativo (¢pšluen, apélien, rilasciava) lascia intendere che questa azione era ripetitiva nel tempo e che quindi va letta come “era solito rilasciare”. Mt 27,15, infatti, che da Marco dipende, è più esplicito e in qualche modo interpreta Mc 15,6: “Ora, durante la festa il governatore era solito rilasciare (e„èqei […] ¢polÚein) alla folla un carcerato, quello che volevano”. Sia in Mc che in Mt si evince chiaramente che si trattava di una consuetudine. Ma ciò che non è chiaro è se tale consuetudine rientrava nella tradizione giudaica e quindi conservata, grazie anche all'atteggiamento favorevole delle disposizioni di Cesare Augusto nei confronti dei Giudei10, o se invece facesse parte dell'ordinamento giuridico romano, che prevedeva gli istituti della “abolitio, cioè la messa in libertà di un prigioniero non ancora giudicato, e della “indulgentia, cioè la grazia verso un condannato. Luca non ci soccorre in questo, poiché il suo racconto si limita a presentare i Giudei che a gran voce pretendono la liberazione di Barabba (Lc 23,18), ma senza riferire le basi giuridiche della loro pretesa11. Giovanni precisa come questa pretesa da parte dei Giudei nei confronti di Pilato poggiasse giuridicamente su di una consuetudine, che Pilato riconosce loro, probabilmente conformandosi in tal senso alle disposizioni favorevoli verso i Giudei da parte di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) e di Tiberio (14-37 d.C.): “Ora voi avete una consuetudine, che vi liberi uno per la pasqua; volete dunque che vi liberi il re dei Giudei?” (v.39). Si tratta dunque di una consuetudine giudaica, probabilmente, come si diceva sopra, mutuata dagli Asmonei.

La scelta dei Giudei cadde su Barabba, personaggio che nel racconto giovanneo compare soltanto qui al v.40. Una maggiore attenzione è riservata nel racconto sinottico. Mt 27,16 qualifica Barabba con l'aggettivo “™p…shmon(epísemos), che significa insigne, notevole, ragguardevole, distinto e quindi famoso, molto noto. Matteo quindi guarda a Barabba con un occhio di riguardo e benevolo, ben diversamente dagli altri evangelisti. La cosa forse può essere comprensibile perché Matteo scrive ad una comunità ebraica, che vede in Barabba più che un brigante, termine con cui Giovanni definisce Barabba, lo stesso che usa il filoromano Flavio Giuseppe per definire gli zeloti, un patriota che forse con le sue gesta ha tenuto vive le speranze del popolo, per cui egli era divenuto “epísemos, cioè famoso e ben conosciuto presso il popolo e questo giustifica la scelta del popolo a favore di Barabba, uno che si è battuto per loro contro Roma. Marco, che invece scrive alla comunità di Roma, lo definisce come un rivoltoso: “Ora, quel tale detto Barabba, era incatenato con i rivoltosi, che nella rivolta avevano commesso un omicidio” (Mc 15,7). Qui si dice soltanto che Barabba era un rivoltoso che aveva partecipato insieme ad altri ad una rivolta in cui si era commesso un omicidio. Ma nessuna accusa di omicidio viene imputata a Barabba. Vi è soltanto Lc 23,19 che definisce Barabba un assassino: “Questi era stato gettato in carcere per una rivolta sorta in città e per omicidio”. Ma sappiamo che la precisione storica e geografica del greco Luca nelle cose giudaiche lascia alquanto a desiderare. Probabilmente Luca, che in parte dipende anche lui da Marco, ha parafrasato in qualche modo Mc 15,7. Giovanni, come si è appena detto, si limita a definire Barabba con l'epiteto di “lVst»j(lestés), cioè ladro, ladrone, assassino, pirata, corsaro, predatore, brigante. Insomma, quello che noi definiremmo un delinquente patentato. Nient'altro viene detto da Giovanni. Ma questo accostamento conciso ed essenziale tra Gesù e Barabba e la scelta dei Giudei a favore di Barabba a tutto danno di Gesù rilevano come la morte innocente di Gesù generi di fatto la salvezza di Barabba, la metafora dell'uomo colpevole e condannato, ma graziato e riscattato grazie alla morte di Gesù. Che cosa ci sta sotto a questa comprensione dell'autore? Forse il quarto cantico del sofferente Servo di Jhwh: “Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti(Is 53,5); o forse il concetto di Gesù quale agnello di Dio che con il suo sacrificio, richiamato in Gv 19,14 veniva associato alla macellazione degli agnelli pasquali, che si compiva nel tempio proprio in quel giorno, ha tolto il peccato del mondo (1,29), l'incredulità, che condannava l'uomo a rimanere per sempre fuori dalla vita di Dio (3,16.18). Già in qualche modo risuona qui la profezia di Caifa: “[...] a voi giova che un uomo muoia in favore del popolo e non che tutto il popolo perisca” (11,50) e il commento che ne seguì da parte dell'autore: “[...] profetò che Gesù stava per essere ucciso in favore il popolo” (11,51).

Come considerare questo episodio del confronto tra Gesù e Barabba e la scelta caduta a favore di Barabba contro Gesù? Al di là degli aspetti scritturistici e degli intenti cristologici degli evangelisti, ritengo personalmente che l'episodio abbia dei fondamenti storici credibili o quanto meno sia storicamente verosimile, anche se non abbiamo notizie di consuetudini di liberare prigionieri nel giorno di pasqua. Del resto, la concordanza degli evangelisti sull'episodio può costituire un indizio da non trascurare; quanto poi al fatto che questa sia un'usanza tutta giudaica (Gv 19,39a) e, quindi, non universalmente diffusa, può giustificare in qualche modo l'assenza di informazioni giunte a noi.

Commento ai vv.17-19

Il v.17, posto tra parentesi quadre, risulta assente nei codici più importanti, e costituisce un'aggiunta tardiva di un qualche amanuense, che sembra qui aver glossato Mc 15,6, per giustificare la richiesta dei Giudei (v.18), colmando in tal modo uno stacco venutosi a creare tra il v.16 e il v.18. Considerato che Luca ha proseguito con i vv.18.19, i quali dovevano necessariamente presupporre un'introduzione, presente in tutti gli altri evangelisti, è da pensare che Luca abbia in realtà scritto il v.17, presumibilmente riportando Mc 15,6, ma che nelle trascrizioni un qualche amanuense l'abbia erroneamente tralasciato. L'errore deve essersi, poi, ripetuto e trascinato di copia in copia, finché, molto tardivamente, qualcuno ha pensato di inserirlo, riportando Mc 15,6, probabilmente malamente tradotto o malamente interpretato. Da qui il ricostituito e ricostruito v.17.

Il v.18 costituisce la risposta al [v.17], che certamente inizialmente c'era. Non è pensabile, infatti, che Luca, greco erudito e abile narratore, l'abbia grossolanamente tralasciato, creando delle stonature nel flusso della narrazione.

Alla proposta di Pilato, quindi, di operare una scelta tra Gesù e Barabba, proposta che si desume dalla risposta del v.18, i presenti “In massa gridavano”. Chi sono questi che “In massa gridavano”? E cosa significa “In massa”? Per poterlo comprendere è necessario analizzare il termine “pamplhqeˆ” (pampletzeì, in massa, in piena folla), composto da “p£n” + “plÂqoj” (pán + plêtzos), che letteralmente significa “tutta la folla”, “tutta la moltitudine”. Del resto la proposta che Pilato fa non doveva essere rivolta ai soli sinedriti, ma anche alle folle lì presenti (vv.4.48). Ormai non c'è più distinzione tra autorità giudaiche e le folle, che in precedenza si trovavano sempre distinti (v.4.10.13). Anche il popolo ora si è associato ai sinedriti e quel “gridavano”, posto all'imperfetto indicativo, un tempo durativo, dice l'insistenza di queste grida. Anche il popolo, ora, e non più le sole autorità giudaiche compie la sua scelta e sembra farla con convinzione, considerate le forti grida, sempre più crescenti (v.23). Una scelta, quella del popolo, che provocherà loro una crisi di coscienza e una forte spinta alla conversione (v.48).

Ma perché il popolo, fin qui quasi estraneo alla vicenda di Gesù e postosi al suo seguito solo come spettatore (v.35a), all'improvviso, di fronte il sollecito di Pilato a operare la loro scelta tra Gesù e Barabba, questo punta decisamente su Barabba? Per poterlo capire è necessario rifarsi a Matteo e a Giovanni, entrambi ebrei e, quindi, addentro alle questioni ebraiche e alle loro attese messianiche. Matteo definisce Barabba come “™p…shmon” (epísemon) (Mt 27,16), che letteralmente significa “insigne, notevole, distinto, ragguardevole”, insomma un personaggio ben conosciuto, stimato e apprezzato dalla gente. Perché? La risposta la darà Giovanni che definisce, invece, Barabba con la stessa terminologia che il filoromano Giuseppe Flavio usa per definire gli zeloti12, “lVst»j” (lestés), cioè brigante. Barabba, dunque, non doveva essere agli occhi della gente un famigerato delinquente, di cui sbarazzarsi, ma una sorta di eroe, uno zelota, che stava combattendo contro i Romani per la liberazione della Palestina e favorire in tal modo l'avvento del Regno di Dio. Sarà soltanto Mc 15,7 che presenterà Barabba come un facinoroso rivoluzionario, ma non un omicida; diversamente dal greco Luca che, non essendo addentro alle vicende ebraiche e leggendo malamente Mc 15,7, nel parafrasarlo, lo presenta come un omicida in occasione di una sollevazione (v.19; At 3,14) e successivamente, al v.25a, come il responsabile della sollevazione e dell'omicidio. Del resto, Marco scrivendo il suo vangelo alla comunità di Roma, non poteva presentare Barabba come un eroe nazionale giudaico. Luca segue Marco peggiorando le cose.

L'estremo e fallito tentativo di liberare Gesù (vv.20-25)

Note generali

Si è giunti ormai alle ultime battute del processo civile contro Gesù e Pilato tenta inutilmente di riportare le folle alla ragionevolezza (vv.20.22), riproducendo al v.22a sostanzialmente le stesse argomentazioni dei vv.14-16 e terminando allo stesso modo: “dopo aver(lo) castigato, lo lascerò andare” (v.22b).

A partire dal v.18, ripreso e rimarcato con il v.21 e poi con il v.23, vi è un crescendo di grida sempre più insistente e sempre più forte così che non è più possibile opporre ad esse nessun pacato ragionamento. Da questo momento in poi il processo degrada in un vero e proprio linciaggio, al quale Pilato non sa opporsi autorevolmente e ogni parvenza di diritto viene calpestata.

Anche la struttura di questa pericope è particolarmente curata e viene sviluppata a parallelismi concentrici in C) ed è finalizzata a mettere in rilievo la volontà liberatrice di Pilato, contrapposta alla sua incapacità di attuarla per la sua inadeguatezza di gestire la situazione, così che Pilato qui appare pure lui vittima dei Giudei:

A) Viene sottolineata la volontà di Pilato di liberare Gesù (v.20);
B) La volontà di linciaggio delle folle (v.21);

C) Il terzo ed ultimo tentativo ben argomentato di liberare (v.22) ha come risposta un urla
     sempre più crescenti e minacciose (v.23);

B1) Pilato accondiscende alla volontà omicida delle folle (v.24);
A1) Pilato libera Barabba e consegna Gesù ai Giudei (v.25).

Per cui si avrà che in A) Pilato vuole liberare Gesù, mentre in A1) Pilato libera Barabba e consegna Gesù; in B) viene espressa la volontà omicida dei Giudei e in B1) Pilato accondiscende alla loro volontà; in C) viene posto in rilievo il terzo ed ultimo tentativo ben argomentato da parte di Pilato di liberare Gesù, che ottiene come risposta un crescendo minaccioso di urla da parte dei Giudei. Si giunge qui all'acme della contrapposizione Pilato-Giudei da cui appare evidente la colpevolezza dei Giudei, i veri mandanti, per la morte di Gesù, ai quali si contrappone la sempre più debole ed evanescente figura di Pilato, che scompare tra le urla e la volontà di linciaggio dei Giudei, divenendone un semplice esecutore e vittima.

Commento ai vv.20-25

Il v.20 inizia con l'avverbio “p£lin” (pálin, di nuovo), lasciando intendere che prima vi furono altri tentativi di dialogo con i Giudei al fine di ridurli a ragionevolezza e poter in tal modo liberare l'innocente Gesù senza creare disordini, con conseguenze certamente cruenti, la quale cosa avrebbe avuto delle risonanze negative a Roma sull'operato di Pilato, che verrà infatti destituito nel 36 d.C. per le lamentele dei Giudei circa il suo modo provocatorio e deciso, non di rado violento, nel gestire i rapporti con la popolazione giudaica. Ma quel “di nuovo” dice anche la persistente volontà di liberare Gesù da parte di Pilato e nel contempo la pervicace volontà dei Giudei di sopprimere, invece, Gesù. L'intero processo romano di Gesù (vv.13-25) si svolge su questa contrapposizione, la cui evidente finalità apologetica è sottolineare la colpevolezza delle autorità giudaiche nella morte di Gesù, scagionando, almeno parzialmente, Pilato così che quando Pilato deciderà di consegnare Gesù alla loro volontà omicida, questa sua decisione non apparirà così colpevolmente grave. Anzi, Pilato sembra essere una vittima.

Al tentativo tentativo di Pilato si contrappone ora, puntualmente, l'opposizione dei Giudei (v.21): “Ma questi” e il loro grido “Crocifiggi(lo), crocifiggilo!”. Il verbo è anche qui posto all'imperfetto indicativo, dando l'idea in tal modo della persistenza di queste grida. Luca è l'unico tra i sinottici a ripetere il “Crocifiggilo” per due volte, associandosi in questo a Gv 19,6, probabilmente per evidenziare una volta di più la volontà omicida dei Giudei, che sembrano qui ormai aver perso ogni controllo, mossi soltanto dall'odio e scadendo in un linciaggio in piena regola. Del resto non va dimenticato come Luca inizi il suo racconto della passione e morte di Gesù, ponendolo sotto l'egida di satana (22,3a) e degli intenti omicidi dei sommi sacerdoti e degli scribi (22,2).

I vv.22-23 costituiscono il cuore di questa pericope, in cui l'autore, come in una sorta di scontro finale, mette in evidenza le due contrapposte volontà: quella di Pilato e quella dei Giudei. Si rileva, innanzitutto, che è la “Terza volta” che Pilato si contrappone alle autorità giudaiche. La prima è stata al v.3, dove Pilato sentenzia: “Non trovo nessuna colpa in quest'uomo”; la seconda volta occupa un'intera pericope, vv.13-16, dove, seguendo una logica ben strutturata, viene dichiarata l'innocenza di Gesù, ma nel contempo appare il primo cedimento di Pilato, che nel dichiarare la sua volontà di liberare Gesù lo vuole prima, inopinatamente, sottoporre ad una fustigazione, probabilmente per assecondare almeno parzialmente i Giudei. Ed ora qui, la Terza volta, che in buona sostanza riprende le logiche della pericope vv.13-16. Anche qui Pilato conclude la sua sentenza in modo inopinato: Gesù è innocente, per cui lo libero, ma nel contempo lo punisco. Mostrando in ciò, per la seconda volta, tutta la sua fragilità, che si manifesta nella sua cedevolezza.

Il v.23 riprende in buona sostanza il v.21 amplificandolo con la nota aggiuntiva che il clamore dei Giudei stava sempre più aumentando “con grandi grida” mentre “le loro voci acquistavano forza”. Nota con la quale viene rimarcata una volta di più la loro volontà omicida. Il dibattimento processuale si chiude così degradando in un linciaggio collettivo, tra le urla dei Giudei che chiedono la crocifissione di Gesù e Pilato che scompare nel clamore della folla.

I vv.24-25 concludono il processo di Gesù davanti a Pilato e sono complementari l'uno all'altro. Una sorta di sentenza finale. Il v.24 attesta che Pilato ha deciso di assecondare la volontà dei Giudei; mentre il v.25 dice il contenuto di questa loro volontà: liberare Barabba e consegnare loro Gesù perché venisse crocifisso. Barabba, qui, non viene neppure nominato, ma soltanto indicato con una parafrasi, che lo qualifica, ora, come un sovvertitore dell'ordine pubblico, mentre prima si era detto che venne arrestato nell'ambito di una sollevazione popolare (v.19a). Il cambio di posizione probabilmente è stato fatto da Luca per un ultimo confronto con Gesù. Ci troviamo di fronte, infatti, alla stessa accusa che era stata mossa a Gesù dalle autorità giudaiche (vv.2.5.14a). Viene confermata invece l'accusa di omicidio, che è la stessa accusa che Luca ha mosso alle autorità giudaiche.

Quanto a Gesù, Luca attesta che Pilato consegnò Gesù alla loro volontà. Il verbo qui usato da Luca è “consegnare” (paršdwken, parédoken), un verbo che possiede in sé una pregnanza teologica e cristologica, perché richiama il progetto salvifico del Padre che si attua in Gesù proprio in quel consegnare suo Figlio agli uomini, quale dono di amore finalizzato alla loro salvezza (Gv 3,16). Un verbo che ha una stretta attinenza con la passione e morte di Gesù e che già in tal senso è stato evocato due volte in 9,44 e 18,32 e altre due volte, con il medesimo significato, avverrà nel contesto della risurrezione in 24,7.20. Un verbo, che riecheggia in se stesso la figura del Servo di Jhwh, che richiama nello specifico Is 53,12: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”.

Una nota teologica e cristologica che non poteva mancare a chiusura della prima sezione del cap.23, quella sul processo civile a Gesù, introducendo il lettore alla seconda sezione del cap.23, quella dell'esecuzione della condanna a morte di Gesù, che va letta nel contesto di questo consegnarsi di Gesù agli uomini e che troverà il suo vertice al v.46, dove Gesù, dopo essersi consegnato agli uomini, consegnerà il suo spirito al Padre, chiudendo in tal modo il ciclo salvifico, richiamando da vicino Gv 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre”.

Seconda sezione: l'esecuzione della condanna a morte (vv.26-56)

Se la prima sezione del cap.23 era apologetica e al cui interno era posta la titolatura di Gesù quale Messia e Re, delineandone l'identità, questa seconda sezione si muove su di uno sfondo parenetico al cui interno la morte del Gesù in croce viene letta come salvifica per il credente e dove le figure del Cireneo, delle pie donne, dei due malfattori, del centurione, delle folle, delle donne discepole e quella stessa di Gesù appaiono emblematiche e con le quali il credente è chiamato a confrontarsi.

Questa seconda parte del cap.23 è composta da due quadri:

  1. il cammino di Gesù verso il Golgota, dove compaiono le figure del Cireneo, paradigma del discepolo chiamato a portare la croce di Gesù; e delle pie donne che piangono la sorte di Gesù e, riprese da questi, vengono sollecita a riflettere e a piangere sulla sorte che le attende se non si convertono (vv.27-31);

  2. Gli eventi del Golgota, dove attorno al Crocifisso, che perdona a tutti, promette salvezza a chi si pente e affida se stesso al Padre nel momento supremo della sua vita, si muove una ridda di personaggi, che assumono atteggiamenti ostili a Gesù, come la soldataglia, le autorità giudaiche e uno dei malfattori; o illuminati, come il malfattore, il centurione e le folle lì presenti che si percuotono il petto; o timorosi, come i seguaci di Gesù, che lo stanno a guardare “da lontano”; o pietosi e coraggiosi allo stesso tempo, come Giuseppe d'Arimatea, che, nonostante la sua ragguardevole posizione nel Sinedrio, compie un atto di pietà verso Gesù, mentre le donne già si preparano per dare una degna sepoltura al loro Maestro e Signore. Tutti, interpellati dall'unico tragico evento, reagiscono e rispondono a modo loro, costituendo altrettanti parametri di raffronto sui quali i lettori sono chiamati a riflettere (vv.32-56).

I quadro: il cammino di Gesù verso il Golgota (vv. 27-32)

Testo a lettura facilitata

Il Cireneo, esempio di discepolo che segue Gesù portando la croce (v.26)

26 – E mentre lo portavano via, preso un certo Simone, Cireneo, che ritornava dalla campagna, gli imposero di portare la croce dietro a Gesù.

L'incontro con le pie donne (vv.27-32)

27 – Ora, lo seguiva una grande moltitudine di popolo e di donne che si percuotevano e lo compiangevano.
28 – Ma Gesù, rivoltosi verso di loro, disse: <<Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me; piuttosto piangete su (voi) stesse e sui vostri figli;
29 – poiché, ecco, vengono giorni, nei quali diranno: “Beate le sterili e gli uteri che non generarono e (le) mammelle che non nutrirono.
30 – Allora incominceranno a dire ai monti: “Cadete su di noi” e alle colline: “copriteci”.
31 – Poiché se nel legno verde fanno queste cose, nel secco che cosa avverrà?>>.
32 – Ora, conducevano anche altri due malfattori con lui per essere uccisi.

Note generali

Benché narrativamente il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, iniziatosi in 9,51, termini in 19,28, da un punto di vista pedagogico e parenetico esso continua fino al Golgota e da qui, sulla croce dove Gesù affida il suo spirito al Padre e da dove farà cadere sull'intera umanità, simbolicamente raccolta attorno alla sua croce una pioggia di perdono e di misericordia per tutti, che si fa salvezza per chi crede in lui, fornendo in tal modo una chiave di lettura soteriologica alla sua morte in croce.

Il viaggio di Gesù, pertanto, prosegue ora verso il “luogo, chiamato Cranio” e Luca non poteva farsi sfuggire l'occasione per farne un momento di riflessione per il suo lettore e lo fa attraverso due scene: quella del Cireneo, costretto a portare la croce di Gesù (v.26); e quella delle donne, che seguono Gesù, piangendo e percuotendosi il petto (vv.27-31).

Quella del viaggio di Gesù verso il Golgota è un'unità narrativa a se stante e ben delimitata da un'inclusione, data per complementarietà di immagini: si apre, infatti, con Gesù che viene portato via (v.26) e si conclude con i due malfattori che vengono portati via anche loro con Gesù (v.32). Pertanto si avrà che “mentre lo portavano via [...] conducevano anche altri due malfattori con lui”, lasciando intravvedere fin d'ora la profezia scritturistica che Gesù aveva citato in 22,37: “Vi dico infatti che questo che è stato scritto bisogna che sia compiuto in me: “con gli empi fu computato”; e, infatti (ciò che è scritto) su di me ha compimento”; e che meglio apparirà al versetto successivo, in 23,33 dove Gesù è crocifisso tra i due malfattori, richiamandosi così alla figura del Servo di Jhwh (Is 53,12).

Il materiale di questa unità narrativa (vv.26-32) è composito: il v.26 proviene da Mc 15,21, ma viene sfrondato dalle note biografiche riguardanti il Cireneo, incentrando così l'attenzione dei suoi lettori su di lui, qualificato da quel suo “portare la croce dietro a Gesù”; mentre la pericope vv.27-31 è di produzione esclusivamente redazionale, composta da vario materiale scritturistico, sul quale Luca ha costruito il suo racconto.

Commento ai vv. 26-32

Il Cireneo, esempio di discepolo che segue Gesù portando la croce (v.26)

La scena del v.26, quella del Cireneo, è riportata dai soli Sinottici ed è scandita in tre parti: la prima riguarda l'immediata esecuzione della condanna, come in genere si era soliti fare, senza lasciare spazi intermedi tra la sentenza e la sua esecuzione. Luca, tuttavia, tralascia la scena della flagellazione, che in genere precedeva sempre la condanna alla crocefissione per fiaccare la resistenza del condannato così da accelerarne la morte sulla croce. Tuttavia questa sembra qui sottintesa dall'autore, considerato che lungo il cammino verso il luogo dell'esecuzione viene fermato casualmente un tale perché porti la croce del condannato. Forse una prassi per evitare che il condannato, duramente provato dalla flagellazione, che lo scarnificava, non venisse meno prima dell'esecuzione13. In realtà, il condannato era costretto a portare non tanto la croce, bensì il patibulum, il legno trasversale su cui veniva inchiodato e poi issato sul palo portante, lo stipes o staticulum, già fissato sul luogo dell'esecuzione.

La sorte qui cade su di un tale a nome Simone, originario di Cirene, una città della Libia, che ha dato il nome alla regione corrispondente, la Cirenaica. Questi viene colto mentre veniva dalla campagna o mentre rientrava dalla campagna. Il verbo “™rcÒmenon” (ercómenon) consente entrambe le traduzioni. Nel primo caso è possibile ipotizzare che provenisse soltanto da fuori città; nel secondo caso esso consente soltanto di pensare che questi rientrasse dai lavori dei campi. La quale cosa contrasta, così come tutto il processo e l'esecuzione della condanna, con il giorno di pasqua14, festa durante la quale era fatto divieto di lavorare, di celebrare processi, emettere sentenze di morte e tanto meno eseguirle e, similmente al sabato, era concesso di muoversi a piedi per poco meno di un chilometro. La quale cosa, come già si è detto nel precedente cap.22, rende fragile il racconto dei Sinottici circa gli eventi succedutisi alla cena pasquale15, mentre più attendibile il racconto giovanneo circa un'ultima cena di addio svoltasi tra intimi amici (Gv 13,1-2), a seguito della quale succedettero una serie di eventi che portarono alla morte di Gesù in croce avvenuta durante la vigilia della pasqua.

Significativa è la terza parte del v.26, in cui l'autore racconta che al Cireneo “imposero di portare la croce dietro a Gesù”. In Mt 27,32b e parimenti in Mc 15,21b si legge che “costrinsero questi a prendere la sua croce”. Benché il senso sia identico, tuttavia il diverso uso delle parole imprime un significato completamente diverso alla frase. Con quel imporre la croce da portare dietro a Gesù, Luca drammatizza qui 9,23: “Se qualcuno vuole venire dietro di me, neghi se stesso e prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”; e in particolar modo 14,27, dove si riscontrano le stesse parole: “Chi non porta la sua stessa croce e (non) viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. Il Cireneo, pertanto, viene presentato da Luca come l'esempio del vero discepolo, che si fa carico della croce di Gesù e lo segue, andando dietro a lui, su questa via, quella della croce. Ma di quale croce Luca qui sta parlando ai suoi lettori? È la croce delle persecuzioni. E tale è non solo perché qui si parla della passione di Gesù, ma anche perché qui si parla di una croce che viene “imposta” (™pšqhkan, epétzekan. imposero) e quindi si allude ad un particolare contesto di costrizione per chi ha deciso di seguire Gesù, quello, appunto, delle persecuzioni. Luca quindi indica nel Cireneo l'esempio del discepolo che viene associato a Gesù nella persecuzione, di cui la sua passione e morte è l'esempio più eclatante, ed è chiamato, quindi, a portare la sua stessa croce, andando dietro a lui sulla stessa via.

L'incontro con le pie donne (vv.27-32)

Note generali

Questa pericope, di esclusiva fonte redazionale lucana, è una composizione elaborata su diverse fonti scritturistiche o, quanto meno, queste vi riecheggiano in qualche modo. Il v.27 evoca Zc 12,10b-11a: “guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito. In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme”. Il v.28, che presenta il pianto delle “figlie di Gerusalemme” sulla tragica sorte di Gesù, richiama in qualche modo Lc 13,33-34a dove Gesù, invece, piange sulla drammatica fine che attende Gerusalemme a motivo della sua pervicace chiusura ai richiami di Dio; mentre il v.29 viene in qualche modo mutuato da Lc 21,23 e opportunamente riadattato: “Guai a quelle che hanno (un figlio) nell'utero e a quelle che allattano in quei giorni! (Vi) sarà, infatti, una grande costrizione sulla terra e ira per questo popolo”; ed infine il v.30 si richiama ad Os 10,8b: “diranno ai monti: <<Copriteci>> e ai colli: <<Cadete su di noi>>”, da cui anche Ap 6,16 in qualche modo dipende. Mentre il v.31, dai toni sapienziali, sembra essere stato costruito sull'immagine di Ez 21,3, l'unico passo scritturistico dove il legno verde viene accomunato nel giudizio divino a quello secco.

Commento ai vv.27-32

Il v.27 apre questa pericope con una scena grandiosa: “una grande moltitudine di popolo e di donne” che “seguivano” Gesù, percuotendosi e facendo lamenti. Luca propone qui al suo lettore la visione di una chiesa che segue Gesù sulle orme della sua passione e morte e in questo lo serve con la sua testimonianza. Lo lascia intendere quel verbo iniziale che dà il tono all'intero v.27 e, di conseguenza, all'intera pericope, che da questo verbo in qualche modo dipende, qualificandone i personaggi che la animano come discepoli del Gesù perseguitato e sofferente: “'HkoloÚqei” (Ekolútzei). Il verbo è tecnico e nel linguaggio dei vangeli esprime la sequela del discepolo che si pone al servizio del suo Signore e Maestro; ed è qui posto all'imperfetto indicativo, tempo durativo, che dice la persistenza e quindi la fedeltà di questa sequela, che è tale anche nella sofferenza e nell'oppressione della persecuzione. Un tema questo che riprende quello del Cireneo, dove la drammatizzazione del portare la croce di Gesù al suo seguito, appare più evidente e qui viene completata con una visione universale della chiesa.

Il comparire delle donne, che si distinguono dalla moltitudine del popolo, serve a Luca sia per introdurre il lamento funebre, assegnato in genere alle donne per la loro capacità espressiva, che qui fungono in qualche modo, per la loro coralità, da coro delle tragedie greche, richiamando la profezia di Gesù: “Ma verranno giorni, quando anche lo sposo sarà tolto da loro, allora digiuneranno in quei giorni” (5,35); sia per poter formulare la profezia che riguarda proprio loro, le “Figlie di Gerusalemme”, che meglio esprimono l'anima di Gerusalemme e nel contempo quello della chiesa nascente. Luca è molto sensibile alla figura femminile e la vede come un elemento indispensabile della stessa struttura della chiesa, la quale è supportata proprio dalla capacità di dedizione e di servizio delle donne (8,1-3).

Queste donne sono colte da Luca nel gesto del percuotersi e del compiangere Gesù, esprimendo in questo non solo il lamento funebre, ma lasciando anche trasparire, anticipandolo in qualche modo, l'atto della penitenza e della conversione, quale effetto della passione e morte di Gesù, che apparirà più evidente al v.48 dove “tutte le folle che erano presenti a questo evento, avendo visto le cose che erano accadute, percuotendosi, tornavano indietro”. Sono sempre loro, le folle che qui, al v.27 seguono Gesù, e che, assistendo, dopo, agli eventi del Golgota e prendendo coscienza di quanto era accaduto, si percuotono, esprimendo l'atto della penitenza; e poi tornano indietro, testimoniando in tal modo la conversione, che richiama la figura del “Figliol prodigo”, il quale, prendendo coscienza del suo miserevole stato di vita in cui era caduto, si rialza e torna indietro, da quel Padre da cui si era allontanato. Il lamento funebre delle donne su Gesù, quindi, funge in qualche modo da prodromo alla conversione, quale gesto per sfuggire al giudizio divino (v.31), che sta per abbattersi su Gerusalemme, emblema di una città e di una umanità chiusa al richiamo di Dio (13,34-35a) e che verrà ora richiamata dai vv.28-31.

La scena del dialogo tra Gesù e le donne (vv.28-31) non ha alcun fondamento storico, poiché non è pensabile che un condannato a morte possa dialogare liberamente con le persone che lo accompagnano al luogo del supplizio. Esso è certamente posto stretta sorveglianza da picchetti di soldati, che impediscono un qualsiasi contatto tra il condannato e l'esterno, per evidenti ragioni di sicurezza al fine di evitare colpi di mano che lo possano liberare o linciare. Se, poi, pensiamo che il condannato al supplizio della croce era prima fustigato a sangue, non è credibile che questi trovi la voglia di fare molti ragionamenti con la folla. Il dialogo tra Gesù e le donne è pertanto di invenzione lucana ed ha l'intento di richiamare Gerusalemme e con lei l'intero giudaismo alla conversione per evitare il giudizio di Dio.

Il v.28 apre il dialogo tra Gesù e le donne, qui definite “Figlie di Gerusalemme”, che l'autore considera come una sorta di anima della città e del giudaismo in genere. Sono figure, pertanto, emblematiche e il dialogo che segue va a completare il pianto di Gesù su Gerusalemme, la quale, per la sua durezza di cuore, è destinata alla distruzione (13,34-35a), che più volte verrà richiamata nel corso del racconto evangelico lucano16. L'invito di Gesù, rivolto alle donne, rovescia la prospettiva: il lamento per il lutto non va fatto su di lui, ma su Gerusalemme stessa, che sta per essere distrutta. Viene in tal modo a crearsi una sorta di parallelismo tra la morte di Gesù e quella di Gerusalemme, che ha il suo fulcro nel Tempio e in questo nel “Qodesh ha-Qodashim”, il Santo dei Santi, il cuore del Tempio e di Gerusalemme e dell'intero giudaismo, dove si trova l'Arca dell'Alleanza, sulla quale riposa la presenza gloriosa di Jhwh. Non è un caso infatti che in concomitanza con la morte di Gesù il velo del Tempio, che nascondeva l'Arca dell'Alleanza, si squarci, lasciando così libero accesso al Santo dei Santi, ad indicare in tal modo la fine del culto giudaico, che avverrà con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C., e con questo la fine del sacerdozio, dando così inizio ad un nuovo fenomeno, quello del rabbinismo, che sostituirà il culto del Tempio e i sacrifici con quello dello studio della Torah, mentre i sacerdoti verranno sostituiti dai rabbini, quelli che nei vangeli sono chiamati gli scribi, i farisei, i dottori della legge. Saranno questi a prendere in mano le redini del giudaismo, dandone una nuova forma e un nuovo aspetto.

I vv.30-31 costituiscono la motivazione per cui Gerusalemme dovrà piangere su se stessa. Espressioni queste che Luca mutua, riadattandole, da 21,23 per quanto riguarda il v,29; e da Os 10,8b per quanto riguarda il v.30. Espressioni che lasciano intravvedere il dramma che sta attendendo Gerusalemme, dove ogni vita viene cancellata fin dal seno materno (v.29), mentre si invocano monti e colline affinché fungano da tumulo sepolcrale per l'intera Gerusalemme (v.30).

Il dialogo di Gesù con le donne, profetico e parenetico nel contempo, ed espresso in forma sentenziale, si chiude con una sorta di proverbio, anche questo dal tono sentenziale. Probabilmente una elaborazione lucana di Ez 21,3 e il cui senso sembra voler accentuare la drammatica e tragica sorte che si abbatterà su Gerusalemme, compresa quale giudizio divino posto su di lei per il suo caparbio rifiuto dell'inviato di Jhwh. Pertanto la sentenza finale potrebbe essere letta come “se il giudizio di Dio si abbatte sull'innocente in modo cosi distruttivo, cosa ne sarà della colpevole Gerusalemme?”.

Il dialogo termina significativamente con un punto interrogativo, il cui senso è spingere il lettore a riflettere sulla sorte che lo attende se non si converte e si apre a Dio. È questo il messaggio finale, che funge da preambolo a tre esempi di conversione, generati dalla passione e morte di Gesù, dal quale fluisce un fiume di misericordia e di salvezza per chi si pente e si converte a lui, aprendosi a Dio: quello del malfattore pentito (v.42); quello del centurione romano (v.47) e quello delle folle, che “avendo visto le cose che erano accadute, percuotendosi, tornavano indietro”.

Il v.32, che forma inclusione con il v.26a, chiude la sezione del viaggio di Gesù verso il Golgota, e funge nel contempo da preambolo alla scena del dialogo tra i due malfattori e tra il malfattore pentito e Gesù (vv.39-43). Un viaggio, quindi, che Gesù compie con dei malfattori, venendo in qualche modo “annoverato” tra questi, alludendo in questo il realizzarsi di Is 53,12, che meglio apparirà al successivo v.33b.

II quadro: gli eventi del Golgota (vv.33-56)

Testo a lettura facilitata

Gesù crocifisso schernito come Cristo e Re dei Gudei (vv.33-38)

33 – E quando giunsero sul luogo, chiamato Cranio, là crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e uno a sinistra.
34 – [Ma Gesù diceva: <<Padre, perdona a loro, poiché non sanno che cosa fanno>>]. Ora, quelli che si dividevano le sue vesti gettarono (le) sorti.
35 – E il popolo stava guardando. Ora, lo schernivano anche i capi (del popolo), dicendo: <<Ha salvato altri, salvi se stesso, se questi è il Cristo di Dio, l'eletto>>.
36 – Si prendevano gioco di lui anche i soldati, che si avvicinavano, portandogli aceto
37 - e dicendo: <<Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso>>.
38 – Ora vi era anche un'iscrizione sopra di lui: “Questi (è) il re dei Giudei”.

Gesù riconosciuto Re e Salvatore (vv.39-43)

39 – Ora, uno dei malfattori che furono appesi lo bestemmiava dicendo: <<Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi>>.
40 – Ma rispondendo l'altro, rimproverandolo affermò: <<Neanche tu temi Dio, poiché sei nella stessa condanna?
41 – E noi giustamente, infatti riceviamo cose degne di quelle che abbiamo fatto; questi, invece, non ha fatto niente di fuori posto>>.
42 – E diceva: <<Gesù, ricordati di me allorché ritornerai nel tuo regno>>.
43 – E gli disse: <<In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso>>.

La morte di Gesù, fonte di conversione per Giudei e pagani (vv.44-49)

44 – Ed era già circa (l')ora sesta e divenne buio su tutta la terra fino (all')ora nona,
45 - venendo meno il sole; il velo del santuario fu diviso a metà.
46 – E gridando con grande voce, Gesù disse: <<Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito>>. Ora, detto questo, spirò.
47 – Ora, avendo visto il centurione ciò che era accaduto, glorificava Dio dicendo: <<Veramente quest'uomo era giusto>>.
48 – E tutte le folle che erano presenti a questo evento, avendo visto le cose che erano accadute, percuotendosi, tornavano indietro.
49 – Ora stavano da lontano tutti quelli a lui noti e delle donne, che lo avevano seguito assieme dalla Galilea, che vedevano queste cose.

La sepoltura di Gesù (vv.50-53)

50 – Ed ecco, un uomo di nome Giuseppe, capo del consiglio, [e] uomo buono e giusto;
51 – questi non era consenziente alla (loro) decisione e alla loro opera, (era) da Arimatea, città dei Giudei, il quale aspettava il regno di Dio,
52 – questi, presentatosi a Pilato, chiese il corpo di Gesù
53 – e fatto(lo) scendere (dalla croce) lo avvolse con un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella pietra, dove nessuno era stato ancora posto.

Silenzio e attesa (vv.54-56)

54 – Ed era giorno di parasceve e (il) sabato incominciava a splendere.
55 – Ora le donne, che erano venute con lui dalla Galilea, avendo seguito da vicino (Giuseppe), osservarono la tomba e come fu posto il suo co
rpo.

56 – Ora, tornate indietro, prepararono aromi e profumi. E il sabato riposarono secondo il comandamento.

Note generali

Dopo la breve appendice, tutta lucana, del viaggio di Gesù da Gerusalemme verso il “luogo, chiamato Cranio” (vv.26-32), che si muove su di uno sfondo squisitamente parenetico e pedagogico e che va a completare in qualche modo quello teologico verso Gerusalemme (vv.9,51-19,28), Luca avverte il suo lettore che finalmente si è giunti al termine di questo lunghissimo cammino verso il Padre (v.33), che deve ora passare attraverso la morte di croce e che avrà il suo vertice al v.46, dove Gesù morendo, affida il suo spirito al Padre.

Anche in questo secondo quadro (vv.33-56), similmente a quello del viaggio verso il Golgota, l'autore, passando di scena in scena, si muove su di uno sfondo parenetico, dove l'evento storico quasi scompare. Sembra quasi che a Luca, dichiaratosi fin dall'inizio del suo racconto uno scrupoloso e attento storico (1,1-4), non interessino più gli eventi storici, ma l'insegnamento che da questi si può trarre. Ma in realtà è proprio questo il modo di fare storia presso gli antichi e in particolare presso gli evangelisti: cogliere dagli eventi il loro significato e il loro insegnamento; cogliere, in una parola, la loro anima, così che la storia diventi veramente “magistra vitae”.

Gli eventi del Golgota sono raggruppati da Luca in cinque scene, da ognuna delle quali viene tratto un insegnamento e proposto al lettore una sorta di paradigma con cui confrontarsi e su cui riflettere. Tutte le scene, tuttavia, sono percorse da un unico filo rosso che le accomuna e da cui traspare il senso più autentico di questi eventi: l'affermazione di Gesù quale Messia e Re e in quanto tale capace di salvezza. È significativo, infatti, in tal senso come ogniqualvolta che compare il titolo di Cristo o di Re, questo sia sempre associato, quasi in modo martellante, al tema della salvezza (vv.35b.37.38.39b.42b), i cui effetti si vedono nel malfattore pentito, che invoca la salvezza ottenendola (vv.42-43); nel centurione, che alla pari del malfattore pentito (v.41b), riconosce in Gesù il “Giusto” (v.47); nelle folle presenti, che, testimoni degli eventi, si percuotono il petto in segno di pentimento e iniziano un cammino di conversione in quel loro “tornare indietro” (v.48); nello stesso Giuseppe d'Arimatea, un membro importante del Sinedrio, uomo pio e giusto, in attesa dell'avvento del regno di Dio, che non si era associato alla decisione dei sinedriti di condannare Gesù. Un personaggio che Gv 19,38 presenta come un discepolo di Gesù e che si dà da fare, mettendo a repentaglio la sua posizione per dare degna sepoltura a Gesù.

In tal modo, lentamente, Luca nel presentare queste varie scene intesse la sua teologia soteriologica della croce.

Questa seconda parte del cap.23, che ho definito come “gli eventi del Golgota”, è scandita in cinque scene, giustapposte l'una accanto all'altra, senza logica di dipendenza l'una dall'altra, ma accomunate tra loro da un'unica cornice, quella del Golgota, che dà loro una solida compattezza narrativa. Si avrà pertanto:

  1. Gesù crocifisso schernito come Cristo e Re dei Giudei (vv.33-38);

  2. Gesù riconosciuto Messia, Re e Salvatore (vv.39-43);

  3. La morte di Gesù, fonte di conversione per Giudei e pagani (vv.44-48);

  4. La sepoltura di Gesù tra discepoli timorosi e coraggiosi (vv.49-53);

  5. Silenzio e attesa (vv.54-56)

Proprio per il suo intento pedagogico e parenetico, la narrazione lucana degli eventi del Golgota è sfrondata da aggiunte e commenti che possono distrarre il lettore o comunque non utili alla sua teologia. Essa, pertanto, si presenta semplificata, essenziale e scorrevole.

Commento ai vv.33-56

Prima scena: Gesù crocifisso, schernito, è proclamato Cristo e Re dei Giudei (vv.33-38)

Questa pericope è introduttiva agli eventi del Golgota e crea attorno a Gesù, fin da subito, una densa titolatura che lo qualifica come il “Cristo di Dio, l'eletto” e come il “re dei Giudei”. Titoli che ne definiscono l'identità e la natura: egli è il Messia regale, colui sul quale, similmente a Davide (Sal 88,4-5), Dio ha posto la sua elezione, realizzando la promessa fatta a Davide di una discendenza, il cui regno sarà stabile per sempre (2Sam 7,12-14); ma che nel contempo forniscono al lettore la chiave di lettura di una morte, secondo le logiche umane, ignominiosa e fallimentare, ma che nel progetto di Dio, espresso in quel “eletto”, è salvifica perché in essa opera la potenza di Dio per coloro che credono (1Cor 1,23-24). È significativo, infatti come accanto alla titolatura compaia sempre il tema della salvezza, che viene lanciata in faccia a Gesù come una sfida, che i suoi avversari, però, perderanno. Si vedrà, infatti, come, proseguendo nella narrazione, questa morte produca, invece, molti frutti di conversione e di salvezza, non solo nel malfattore pentito o nel centurione o nelle folle lì presenti, ma anche in tutto il popolo, che non partecipa agli insulti a Gesù, ma, come attonito, quasi interrogandosi nel suo silenzio, rimane lì a guardare, preannunciando in questo la sua futura testimonianza.

Il v.33, nell'aprire la narrazione sugli eventi del Golgota17, avverte, da un lato, come il lungo viaggio di Gesù iniziatosi in 9,51, ma ancor prima, fin dall'inizio del racconto lucano con l'annuncio della nascita di Giovanni e quella di Gesù, è ora finalmente concluso; dall'altro, segnala, dando così sequenza logica al v.32, che Gesù è stato crocifisso in mezzo a due malfattori, richiamando in tal modo Is 53,12: “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Un versetto tratto dal quarto canto del Servo di Jhwh e che Luca vede qui avverarsi non solo per l'annovero di Gesù tra i malfattori, ma anche, come si vedrà nelle scene successive, per aver avuto in premio le moltitudini e i potenti, in cui Luca vede l'espandersi della chiesa (vv.35a.47.48).

Il v.34 si apre con una improvvisa quanto inattesa sterzata, che lascia alquanto perplessi. Il v.34a, infatti, accentra inaspettatamente l'attenzione su Gesù, mettendogli sulle labbra un'invocazione al Padre che sa di forzatura. Una sorta di intervento letterario a gamba tesa, estraneo al contesto narrativo, benché consono alla teologia lucana della misericordia. Non a caso questa prima parte del v.34 è rilevata dalla critica letteraria come un'inserzione tardiva18 e manca nei manoscritti più importanti19. È qui ipotizzabile un intervento di un qualche amanuense, che ha forse riportato una glossa, interpretandola erroneamente come testo evangelico; o, comunque, abbia inserito egli stesso una modifica testuale per sottolineare meglio la teologia lucana della misericordia e del perdono, già preannunciata in 1,77-78.

La seconda parte del v.34 riporta l'episodio della spartizione delle vesti di Gesù, sulle quali viene gettata la sorte. Gli abiti del condannato costituivano, per consuetudine, una sorta di bottino per i soldati, che se li spartivano tra loro. Il comune vestiario dei giudei era formato da una tunica che copriva l'intero corpo e da un mantello20. Questi venivano sorteggiati dai soldati. L'episodio, in se stesso insignificante, viene tuttavia rilevato da tutti gli evangelisti. Il motivo di questo particolare interesse ce lo fornisce Gv 19,23-24 che dedica all'episodio una maggiore attenzione, vedendo in questo il realizzarsi della Scrittura: Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano: si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte(Sal 22,17-19). Un passo scritturistico che nel rilevare l'episodio della spartizione delle vesti anche a mezzo sorteggio, ricrea in modo impressionante il contesto del Golgota.

I vv.35-38 riportano la titolatura che delinea l'identità di Gesù e che i presenti attestano ognuno dalla propria prospettiva. I capi del popolo (v.35a), in quanto giudei e quindi sensibili alle attese messianiche, sfidano Gesù a mostrarsi per quello che egli attestava di essere durante il processo sinedritico (22,67-70), cioè il Cristo, Figlio di Dio seduto alla destra della potenza di Dio. L'espressione “il Cristo di Dio” è caratteristico di Luca e si trova in tutto il N.T. soltanto qui e in 9,20, dove Gesù chiede ai suoi chi pensano egli sia. Una questione, quindi, posta sulla sua identità. Il titolo qualifica Gesù quale il Messia non solo inviato da Dio, ma che gli appartiene ed è legato ad un suo progetto di salvezza, come lascia intendere l'attributo “l'eletto”, che richiama nel contempo sia la figura del Servo di Jhwh (Is 42,1) che la rivelazione del Padre nel racconto della Trasfigurazione (9,20), dove Gesù è qualificato non solo Figlio del Padre, ma anche suo eletto, legandolo in tal modo ad una missione che egli doveva compiere. Da qui il sollecito ad ascoltarlo. Un'elezione, dunque, che è sempre legata ad una missione da compiere.

Il secondo gruppo di persone sono i soldati, che a differenza dei primi, gli anziani del popolo, precisa l'autore, si prendevano gioco di Gesù. Questo lascia intendere come in qualche modo la sfida che gli anziani avevano lanciata a Gesù non aveva un intento meramente ironico o canzonatorio, ma intendevano probabilmente provare Gesù nella sua presunta identità di Messia. Una simile richiesta da parte dei Giudei rientra nella loro mentalità, quella di cercare delle prove sulle attestazioni di pretese divine o messianiche. In merito Paolo ricorda proprio questo particolare in 1Cor 1,22-23: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza,noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”, delineando in tal modo diversi e contrapposti atteggiamenti che si sviluppano attorno alla croce.

I soldati, per contro, ironizzano sulla regalità di Gesù (v.35), da cui lasciano trapelare anche un certo disprezzo nei confronti dei Giudei, indicando nel crocifisso il loro re. Un rilievo questo che soltanto Gv 19,21 annota: “Dicevano dunque a Pilato i sommi sacerdoti dei Giudei: <<Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma che quello disse: “Sono il re dei Giudei”, prendendo in tal modo le distanze da Gesù e disconoscendosi in lui e preferendo a lui l'opprimente e vessante regalità di Cesare (Gv 19,15). Una regalità, tuttavia, che, al di là dell'ironia dei soldati e i risentimenti dei Giudei, Pilato decreta ufficialmente sul cartiglio posto sulla croce, il quale indicava il motivo della condanna e che il condannato nel suo viaggio verso il luogo del supplizio portava appeso al collo o, talvolta, un servo di giustizia portava davanti a lui, così che, lungo il cammino, tutti, a monito, venissero a conoscenza del motivo della condanna21. Ed è proprio questa decretazione ufficiale da parte di Pilato che il titolo di “Re dei Giudei” acquista anche una valenza transtorica, sulla quale Giovanni accentra l'attenzione dei suoi lettori, dedicandole ben 35 versetti (18,28-19,22).

Rilevante è notare come associato alla titolatura di Gesù, che ne definisce l'identità, compare sempre il tema della salvezza, che viene legata non solo a questi titoli, ma anche alla croce stessa, dove tali titoli vengono riconosciuti. La morte di Gesù, pertanto, acquista per Luca una valenza soteriologica.

La pericope vv.33-38 viene così ad acquistare una importanza fondamentale ai fini non solo della definizione dell'identità di Gesù, ma anche del senso della sua morte. Identità di Gesù e senso del suo morire che qui non sono mai disgiunti dalla croce. Tutto ciò acquista per Luca un'importanza tale da porre, fin dall'inizio, a testimonianza di tali eventi, l'intero popolo: “E il popolo stava guardando”. Di quale popolo si tratta qui? È pensabile, seguendo la logica degli eventi, quello giudaico. Ma la mancata precisazione di appartenenza, lascia intendere come Luca vada ben oltre ai ristretti confini della Palestina e veda qui il grande popolo dei credenti, chiamati ad essere testimoni della croce di Cristo, sull'esempio del Cireneo e delle donne (vv.26-31).

Seconda scena: Gesù riconosciuto Messia, Re e Salvatore (vv.39-43)

Se la precedente pericope, vv.33-38, attestava l'identità di Gesù quale Messia e Re, a cui veniva legata la capacità di salvezza, colta in quel “l'eletto” come missione, questa pericope in esame, vv.39-43, costituisce, assieme ai vv.47-48, la dimostrazione di quanto attestato.

La scena del dialogo dei due malfattori, qui descritta, è di esclusiva redazione lucana e narrativamente costituisce un'unità delimitata dall'inclusione data dai vv.39.43 per complementarietà di immagine: al v.39 si invoca da Gesù la salvezza e al v.43 la salvezza viene compiuta.

Con il v.39 l'attenzione del lettore viene spostata dagli schernitori giudei e romani, ai due malfattori. La cornice è sempre quella del Golgota, ma vi è qui un cambio di scena, che in qualche modo si aggancia come titolatura salvifica alla scena precedente. Il malfattore, infatti, riprende l'attestazione del v.35 con cui si riconosceva Gesù come il Cristo salvatore e cerca d sfruttarla a suo favore. Una ripresa che per la cristologia lucana significa una sottolineatura della vera identità di Gesù quale Messia e Salvatore. Ma a questa titolatura Luca aggiunge, sia pur implicitamente, quasi di soppiatto, in quel “lo bestemmiava”, che richiama 22,65, un'attestazione della divinità di Gesù. La bestemmia, infatti, definisce sempre un'ingiuria nei confronti di Dio, mai nei confronti di un uomo.

I vv.40-41, che riportano l'intervento del secondo malfattore contro il suo compagno, hanno una duplice finalità: da un lato, attestare nuovamente l'innocenza di Gesù, che viene evidenziata all'interno di un serrato confronto tra i due malfattori, che in quanto tali sono meritevoli del supplizio, e Gesù, che, invece, “non ha fatto niente di fuori posto”; dall'altro, questa attestazione di innocenza, prepara in qualche quell'altra seguente, quella del centurione, che riconosce Gesù come “giusto” (v.47). La scena viene scandita in due momenti: al v.41 il secondo malfattore riprende e redarguisce duramente il comportamento blasfemo del suo compagno; al v.42 attraverso un contrastante confronto di comportamenti contrapposti, si evidenzia una volta di più l'innocenza di Gesù: loro sono malfattori, non Gesù.

I vv.42-43 costituiscono il vertice di questa breve unità letteraria. Dopo la decisa difesa di Gesù da parte del secondo malfattore, che equivale ad una sorta di preambolo di fede, questi ora dà la sua piena testimonianza di fede in Gesù. Una fede che dice apertura e abbandono di se stessi a Gesù, riconosciuto qui implicitamente in quel “tuo regno” quale Re. Anche in questa pericope, pertanto, vengono ripresi i titoli della precedente pericope (vv.33-38), ma nella loro forma non più attestativa (vv.35b.37.38), ma applicativa, rilevandone gli effetti salvifici (v.43).

La risposta di Gesù (v.43) è un'attestazione del suo potere salvifico, che, va rilevato, non è disgiunto dalla croce, ma si attua nella croce. Una salvezza che, secondo la teologia lucana, non si porrà alla fine dei tempi, ma nell'oggi dell'uomo: “oggi sarai con me”, così come a Zaccheo ha assicurato che “oggi (la) salvezza è avvenuta per questa casa”. Del resto, Luca fin dall'inizio del suo racconto evangelico presenta Gesù, fin dal suo nascere, come il Messia che attua nell'oggi dell'uomo la sua azione salvifica: “oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore” (2,11). Ci si trova quindi di fronte ad una sorta di escatologia presenziale o attuata, che richiama da vicino quella giovannea.

La risposta che Gesù dà al malfattore, ma forse è meglio ormai chiamarlo discepolo, è particolarmente significativa: “oggi sarai con me con me nel paradiso”. La salvezza, dunque, consiste nell'essere “con Gesù” e questi si trova “nel paradiso”, cioè nella dimensione stessa di Dio, che è la vita stessa di Dio o, come ama definirla Giovanni, “vita eterna”. Il richiamo genesiaco e più precisamente Gen 2,8, dove compare per la prima volta il termine “paradiso”, non è casuale. Lì si legge: “Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato”. Il paradiso, dunque, è un luogo di delizie dove Dio ha collocato l'uomo. L'habitat naturale dell'uomo non è, pertanto, questa dimensione spazio-temporale, profondamente segnata dal peccato e soggetta al degrado della morte (Gen 3,16-24; Rm 5,12), ma la dimensione stessa di Dio. La salvezza, pertanto, consiste nel tentativo di Dio di recuperare l'uomo alla sua dimensione originale, che è quella stessa di Dio, allorché l'uomo e con lui l'intera creazione, erano ancora rilucenti di Dio (Gen 1,31). Infatti, quando Dio disse: “Facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza” (Gen 1,26-27) ha creato un essere che, in quell'immagine e somiglianza, faceva parte della sua vita. E quel “oggi sarai con me nel paradiso” dice l'attuarsi del sogno di Dio: ricondurre l'uomo in se stesso, da dove è drammaticamente e tragicamente uscito. E ciò si è attuato ora nel Cristo crocifisso, che è “stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio” (1Cor 1,18).

Terza scena: La morte di Gesù, fonte di conversione per Giudei e pagani (vv.44-49)

Continuano anche qui gli effetti salvifici dell'iniziale attestazione di Gesù quale Cristo di Dio e suo eletto (v.35b), che si riversano ora sia sul mondo pagano, che riconosce nel Crocifisso il “Giusto” (v.47); sia sull'intera umanità, che accogliendo gli eventi del Golgota e facendoli propri, ne diventa testimone (v.48).

Anche qui la costruzione della pericope, pur riportando del materiale marciano, tuttavia questo viene modificato e inserito in un contesto narrativo tutto lucano.

La struttura è particolarmente elaborata ed è costruita in forma di parallelismi concentrici in C) finalizzati a mettere in rilievo ciò che è il cuore stesso di questa pericope, il v.46 dove Gesù compie il suo gesto estremo di fiducia al Padre, abbandonando se stesso nelle sue mani. Un bel modo di morire e nel contempo un esempio di martirio vissuto dal Martire per eccellenza, che deve fungere da paradigma per ogni altro martirio.

La struttura pertanto ha questo sviluppo:

A) Per tre ore la terra si ottenebra (v.44);
B) due eventi importanti accadono: viene meno il sole che illumina; il velo del tempio si squarcia;

  1. Gesù muore in croce affidando se stesso nelle mani del Padre (v.46);

B1) il centurione, testimone degli eventi, attesta la sua fede nel Giusto (v.47);
A1) tutte le folle presenti all'evento, si percuotono il petto e tornano indietro (v.48).

Per cui si avrà che all'ottenebrarsi della terra in A) rispondono all'evento in A1) le folle con atto penitenziale e di conversione; similmente agli eventi del sole che si oscura e del velo del tempio che si squarcia in B) risponde in B1) la conversione del centurione, che riconosce in Gesù il Giusto. Tutto converge e gira attorno al C) dove Gesù morente nell'affidare se stesso al Padre affida con lui ogni credente.

Il v.44 apre con una nota teporale al cui interno viene collocato un elemento apocalittico: il buio su tutta la terra. Una nota questa che attesta come l'intera terra e con questa l'intera creazione viene avvolta dal buio. Ci troviamo di fronte ad un atto di decreazione, in vista di una nuova creazione, che ha il suo cuore pulsante nella morte-risurrezione di Gesù. Un buio che, per contrapposizione alla luce, rimanda il lettore agli inizi della creazione, allorché Dio, quale primo atto creativo, decretò il “Sia la luce” (Gen 1,3). Questa prima luce genesiaca si pone antecedentemente alla creazione e ne forma il contesto primario, al cui interno la creazione viene collocata. Non si tratta di una luce astrale, che invece viene creata nel quarto giorno (Gen 1,14-18), ma è la stessa luce divina, la stessa vita di Dio, al cui interno tutto viene collocato, tutto appartiene e ne fa parte. Ed è ciò che consentirà all'agiografo di attestare, in chiusura dell'atto creativo che “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona” (Gen 1,31a), poiché l'intera creazione era incandescente di Dio e Dio si rispecchiava in essa, avvolta ancora dalla sua primordiale luce divina.

Ora, qui, i Sinottici attestano che si fece “buio su tutta la terra”. Un buio, quindi, che coinvolge non soltanto gli uomini in senso generale, ma anche il mondo giudaico, su cui scende il buio di un culto che non è più esclusivo, ma aperto anche al mondo pagano. In altri termini, viene decretata la fine del culto giudaico, che ha come cuore pulsante ed emblematico il Tempio.

Il v.45 presenta il duplice motivo che ha causato tale buio: “venendo meno il sole; il velo del santuario fu diviso a metà”. Luca è l'unico tra gli evangelisti che precisa come la causa di questo buio sia il venir meno del sole: “venendo meno il sole”. Di quale sole, dunque, sta qui parlando Luca? Esso è Gesù stesso che in 1,78b-79, viene preannunciato come un sole che sta per sorgere sugli uomini, manifestando a tutti la misericordia divina, che si fa perdono per tutti: “ci visiterà un sorgere di sole dall'alto, per mostrarsi a quelli che siedono nella tenebra e nell'ombra di morte, per guidare i nostri piedi in una via di pace”. Là, dunque, viene annunciato un sole che sorge; qui un sole che sta venendo meno. Si noti come Luca non dice che “è venuto meno”, ma sta “venendo meno”, perché Gesù ancora non è morto, ma sta per morire. Vengono quindi marcati i due estremi che ricomprendono l'azione salvifica di Gesù: là, l'annuncio della sua nascita, che promette misericordia e perdono per tutti; qui l'annuncio della sua morte, che tale misericordia e tale perdono atta per tutti. All'interno di questo spazio si è posta l'azione salvifica di Dio, che trova ora il suo vertice nella morte di croce.

Un buio che se da un lato coinvolge indistintamente l'intera umanità, dall'altro annuncia la fine dell'antico culto giudaico, che ha il suo centro nel Tempio, il luogo della particolare presenza di Dio in cui il velo, che separa il Tempio dal Santo dei Santi, viene meno. Un velo squarciato, quindi, che non vela più, non nasconde più, ma soprattutto non separa più Dio dagli uomini, ma mette questi, indistintamente dalla loro appartenenza, in comunione con Dio (At 10,34-35) e in comunione tra loro, facendo di tutti un popolo nuovo. L'autore di Ef 2,13-17 svilupperà proprio su questo velo squarciato la sua cristologia di comunione di tutti gli uomini in Cristo, dove ogni barriera di divisione e contrapposizione viene infranta: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”. È significativo, infatti, come questo v.45, che presenta le motivazioni del buio, sia posto in parallelo con il v.47 dove un pagano, emblema dell'intero mondo pagano, riconosce nel Crocifisso il Giusto, che è capace di giustificare anche lui, prescindendo dall'antica alleanza e dall'antico culto giudico, proprio perché ora nel Crocifisso non c'è più nessun velo separatore, così che anche il mondo pagano può partecipare, parimenti a quello giudaico, alla salvezza.

Il v.46, posto centralmente alla pericope, è secondo le logiche della retorica ebraica quello più importante, quello su cui l'autore intende accentrare l'attenzione del suo lettore. Un versetto che è tutto lucano e che risponde alla sua teologia e che richiama in qualche modo il cantico fiducioso del vecchio Simeone (2,29-32), “un uomo giusto e pio, che attendeva (la) consolazione d'Israele, e lo Spirito santo era su di lui” (2,25b). Un'attesa che era giunta al suo compimento, così che egli ora si abbandona nelle mani del suo Signore. Similmente qui, Gesù, giunto a compimento della sua missione di salvezza ora si abbandona anch'egli nelle mani del Padre e lo fa riprendendo il Sal 31,6. Un salmo che esprime una serena fiducia nel Padre, scostandosi decisamente dal Gesù marciano che, invece, si rivolge al Padre con le dure parole del Sal 22,2, sottese forse da un velo di disperazione e dalla coscienza che la sua missione terrena era in qualche modo fallita (Gv 12,37). Parole, quelle del Gesù lucano, che lasciano trasparire, invece, la coscienza di una volontà compiuta e che in qualche modo si richiamano a 2,49 e le completano: “Che cosa (c'è), perché mi cercavate? Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?”. E lo fu fino alla fine.

I vv.47-49 riportano le diverse risposte dei testimoni agli eventi annunciati ai vv.44-45 ai quali sono posti in parallelo. Luca descrive qui tre diversi comportamenti di risposta ai traumatici eventi del Golgota:

  1. il mondo dei pagani (v.47), nell'emblematica figura del centurione, che riconosce Gesù “giusto”. Un attributo che se da un lato va a confermare e a rafforzare la già proclamata innocenza di Gesù da parte di Pilato (vv.4.14-15.22); dall'altro suggerisce una sua lettura scritturistica, dove “giusto” è colui che conforma la propria vita al volere di Dio, richiamando implicitamente 2,49 e 22,42. Ma nel contempo evoca la figura del Servo di Jhwh: “il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità” (Is 53,11b).” Un attributo questo con cui Luca designerà per tre volte Gesù in At 3,14; 7,52; 22,14. Una qualifica che il centurione rimarca con quel “Veramente”, quasi una sorta di giuramento, che va a rafforzare la sua attestazione di fede, testimoniata dal suo “glorificare Dio”, che dice il suo riconoscere in Gesù l'azione stessa di Dio. Il verbo qui è posto all'imperfetto indicativo, che esprime un'azione durativa. Il “glorificare” del centurione, pertanto, non fu dettato soltanto da una emozione passeggera, ma ebbe una sua continuità nel tempo, così che egli “continuava a glorificare Dio” nella sua vita. Fu dunque, quella del centurione, una risposta esistenziale al Crocifisso, che in qualche modo riecheggia in se stessa quella data dai pastori, dopo che furono coinvolti dalle manifestazioni celesti (2,9-15) e constatarono la sublimità di quel bambino (2,6), divenendone testimoni (2,17-18): “E i pastori tornarono indietro glorificando e lodando Dio per tutte quelle cose che udirono e videro come fu detto loro” (2,20).

  1. La seconda categoria di persone, che qui Luca prende in considerazione, è il mondo del giudaismo (v.48). Sono quelle folle, che sono citate anche al v.35a, dove “il popolo stava guardando”. Queste folle sono descritte da Luca con tre verbi significativi: “avendo visto le cose accadute”. Sono, dunque, persone testimoni degli eventi salvifici, di cui hanno fatto esperienza. Ed ecco la loro risposta: “percuotendosi”. È il primo gesto di pentimento, che nasce dal prendere coscienza della propria condizione di vita, dopo l'esperienza del Crocifisso e viene fatto seguire subito dal loro “tornare indietro”, che allude alla loro conversione, che dice l'abbandonare il proprio modo di vivere per ritornare a Dio. È lo stesso episodio di conversione del popolo che Luca racconterà anche in At 2,36-48, dove alle parole di Pietro le folle si pentirono amareggiate, si convertirono, facendosi battezzare e divennero “assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).

  2. L'ultima attenzione Luca la riserva a quelli che sono vicini a Gesù (v.49). Una categoria a parte, che nulla ha a che vedere con le prime due. Sono persone che hanno già fatto la loro scelta d vita a favore di Gesù e ne hanno avuto una profonda esperienza, significata in quel “a lui noti” (oƒ gnwstoˆ aÙtù, oi gnostoì autô); e, qui, in particolar modo, quelle donne che gli hanno dedicato la loro vita e le loro sostanze (8,1-3), divenendone discepole. Ebbene, sono proprio queste persone, che di fronte al dramma del Golgota hanno subito il maggior trauma, che si è tradotto in un raffreddamento nei loro rapporti con Gesù, assalite da dubbi e incertezze; prese da un vuoto esistenziale e da un senso di fallimento, che in qualche modo viene testimoniato dai due emblematici discepoli di Emmaus, che, delusi, lasciando Gerusalemme, se ne stavano tornando a casa loro: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (24,21). E in quel “speravamo” è racchiusa tutta l'amarezza di un fallimento. Mentre qui il tutto è significato in quella posizione spaziale, in cui vengono collocati quelli che erano vicini a Gesù: “stavano da lontano”. Un'espressione questa che già si è trovata riferita a Pietro, allorché Gesù veniva tradito e arrestato: “Ma Pietro lo seguiva da lontano” (22,54b). Luca non racconta la fuga dei discepoli di Gesù al momento del suo arresto, ma segnala comunque al suo lettore il momento di difficoltà e il contraccolpo che essi hanno subito per la sua morte di croce. Un versetto questo che Luca ha costruito seguendo Mc 15,40-41, ma semplificandolo notevolmente e riadattandolo alle proprie esigenze. Anche qui non è esente la nota scritturistica tratta sia dal Sal 38,12: “Amici e compagni si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza” che dal Sal 88,9: “Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore. Sono prigioniero senza scampo”. Questi continui riferimenti scritturisti, presenti un po' in tutti gli evangelisti e in particolar modo in Matteo che ne conta, tra citazione dirette e indirette, oltre una cinquantina, testimoniano come la comprensione della persona di Gesù, la sua vera identità, il senso della sua missione e del suo patire, morire e risorgere sia stato compreso grazie alle Scritture; così come le stesse Scritture sono state rivisitate e ricomprese cristologicamente, alla luce del Risorto. Le Scritture, quindi, hanno costituito la chiave di lettura e di comprensione dell'evento Gesù22.


Quarta scena: La sepoltura di Gesù (vv.50-53)

Con questa quarta scena si chiude il lungo racconto della passione e morte di Gesù, iniziatosi con 22,1. Viene immesso, ora, sulla scena un nuovo personaggio, che compare come d'improvviso, con un'espressione letteraria ad effetto, caratteristica di Luca23, finalizzata ad accentrare l'attenzione del lettore: “Ed ecco, un uomo” (v.50a). È l'aprirsi di una sorta di sipario che mette a fuoco una nuova scena, presente in tutti quattro i vangeli. L'uomo viene ora accuratamente delineato nella sua identità anagrafica, sociale, morale e spirituale. Si tratta di Giuseppe, originario di Arimatea, un'importante città della Giudea. La tradizione bizantina la identifica con Ramataim-Sofim, dove abitava Elkana, il padre di Samuele (1Sam 1,1). Essa faceva parte di una delle tre regioni, che sotto Gionata Maccabeo costituirono poi la Giudea (1Mac 11,34)24.

Socialmente egli si presenta come un uomo ricco (Mt 27,57b), “membro autorevole del sinedrio” per Mc 15,43; “capo del consiglio” per Lc 23,50. Quindi un personaggio in vista, un'autorità di riguardo all'interno del Sinedrio, il consiglio di governo dei Giudei, che doveva rispondere del buon ordine a Roma. Un personaggio, quindi, abituato a rapportarsi con l'autorità romana e probabilmente anche ben conosciuto da questa; e questo spiega il suo rivolgersi direttamente a Pilato per ottenere il corpo di Gesù, che altrimenti sarebbe rimasto in croce a decomporsi o gettato in una fossa comune o in pasto ai cani.

Moralmente e spiritualmente egli è presentato come una persona buona e giusta (Lc 23,50b), in attesa dell'avvento del Regno di Dio (Mc 15,43b; Lc 23,51b). Un linguaggio, questo, caratteristico di Luca nel tratteggiare i suoi personaggi pii e graditi a Dio. Lo si ritrova in 1,6 dove Zaccaria e sua moglie Elisabetta sono definiti “giusti davanti a Dio” e rispettosi della Legge; similmente in 2,25 dove Simeone è descritto come “uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele” e così in 2,38 dove la profetessa Anna “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”. Un simile modo di esprimersi compare anche in At 10,22 dove il centurione Cornelio è presentato come “uomo giusto e timorato di Dio, stimato da tutto il popolo dei Giudei”; e allo stesso modo in At 10,35 dove Luca definisce la persona gradita a Dio come colei che lo teme e pratica la giustizia, indipendentemente dalla sua appartenenza nazionale, di razza o di condizione sociale.

Ci si trova di fronte, quindi, ad una persona molto sensibile ai valori morali e spirituali e, quindi, sensibile anche all'annuncio del Regno di Gesù, di cui si era fatto discepolo (Mt 27,57c). Ma, considerata la sua posizione sociale, nascostamente per paura dei Giudei, secondo Gv 19,38a. E questo spiega, da un lato, la sua astensione dal voto di condanna su Gesù (v.51a); dall'altro, la particolare attenzione e cura che egli dedica all'inumazione di Gesù, a cui, secondo Mt 27,60a, offre la sua stessa tomba nuova; soltanto una tomba, il cui proprietario rimane ignoto per gli altri tre evangelisti (Mc 15,46; Lc 23,53b; Gv 19,41a). La tomba si trovava nei paraggi del Golgota, dentro un giardino, secondo Gv 19,41; ed era una tomba nuova per Matteo, Luca e Giovanni, “dove nessuno era stato ancora posto” (v.53). Un'espressione lucana quest'ultima che richiama da vicino un'altra immagine simile con cui Luca descrive il puledro che Gesù cavalcava nella sua entrata a Gerusalemme: “sul quale nessuno è mai salito” (19,30). Con questo uso esclusivo sia del puledro che della tomba, entrambi riservati a Gesù, gli evangelisti rilevano la sacralità sia di questo puledro che della tomba, entrambi sottratti al loro comune uso umano e riservati, in un certo qual modo consacrati, al Signore, al re messianico, che apparirà tale nella sua pienezza nella risurrezione (Mt 28,18). Mc 15,46, invece, non rileva il particolare della tomba “nuova”, ma per lui era una semplice tomba. Differenze queste che vanno imputate agli interessi redazionali dei singoli evangelisti, tenuto conto del pubblico a cui erano indirizzati i loro racconti, del loro stile narrativo e dei loro intenti teologici e cristologici.

Si tratta di una tomba scavata nella pietra (v.53; Mc 15,46), la quale cosa lascia supporre che questa fosse di un uomo ricco, forse dello stesso Giuseppe, definito da Luca, come da Mt 27,57a, come ricco e socialmente importante. Si è venuta in tal modo a creare attorno a questa tomba, di per se stessa irrilevante, un particolare interesse da parte degli evangelisti, il cui intento è quello di far toccare con mano al lettore un elemento importante, che a breve si rivelerà decisivo per l'evento della risurrezione.

I vv.52-53 raccontano in sintesi tutta la dinamica riguardante la sepoltura di Gesù, scandita in quattro movimenti: la richiesta all'autorità competente per ottenere, si badi bene, non Gesù, ma il suo corpo (v.52)25. L'accento qui cade sul corpo di Gesù non su Gesù. Tutto ciò che è rimasto di lui, pertanto, è soltanto un corpo. Ed è attorno a questo corpo che Luca accentra ora l'attenzione del suo lettore, facendolo oggetto di tre movimenti rilevanti: viene tolto dalla croce, la quale cosa attesta che è morto; viene avvolto in un lenzuolo, in attesa della sua inumazione, che avverrà soltanto il giorno dopo il sabato (v.56; 24,1), che ormai stava sopraggiungendo (v.54); e viene deposto in una tomba scavata nella pietra, dove nessuno mai è stato posto prima, quindi una tomba incontaminata, pronta ad accogliere nel suo seno verginale quel corpo che in un ugual seno verginale era stato concepito (1,31-35). Un simile parallelismo, che forse può sembrare azzardato o peccare di romanticheria teologica, in realtà è suggerito dallo stesso Luca al v.53b, allorché racconta come Giuseppe “lo avvolse con un lenzuolo”, richiamando in tal modo da vicino l'identico gesto che Maria compì sul neonato Gesù in 2,7: “lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”, quasi a preannunciare il gesto di Giuseppe d'Arimatea. E qui non più Maria, ma ora Giuseppe lo avvolge in un lenzuolo e lo depone non in una mangiatoia, ma in una tomba. Si viene così a creare un'ampia inclusione, che abbraccia l'intera vita e l'intera missione di Gesù. L'importanza di una simile inclusione, che qui presenta i contorni di un grande accorpamento, assume rilevanza se si pensa che è proprio tutto ciò che è incluso e qui accorpato, che viene poi riqualificato e autenticato dalla risurrezione, assegnando in tal modo all'intera vita di Gesù, alla sua parola, alla sua opera, alla sua missione una valenza e un potere salvifico a livello cosmico, poiché la risurrezione colloca al di là dello spazio e del tempo, l'intera azione temporale di Gesù, dandole validità eterna e universale.

Luca, quindi, sta qui mettendo le premesse alla risurrezione e alle conseguenze che questa ha avuto sull'evento Gesù e su quanto si espresse in lui e per mezzo di lui, cercando di farne comprendere l'importanza al suo lettore: essa è di fatto una ripresa riqualificante del Gesù storico, che imprime nella sua persona e nella sua missione un'efficacia salvifica universale ed eterna.

Quinta scena: Silenzio e attesa (vv.54-56)

Prima della scoperta della tomba vuota (24,1-3) e dell'annuncio della risurrezione (24,4-5), Luca pone di mezzo il silenzio della tomba e la cessazione di ogni attività umana dettata dal sabato (v.54). La morte di Gesù sembra aver fermato la vita, e l'intera umanità sembra essere sospesa nel vuoto di un'attesa che porta con sé una promessa ancora sconosciuta. Il passato sembra qui cristallizzarsi nell'attesa di un nuovo giorno. La parasceve, infatti, il giorno prima del sabato, ormai volge al termine e il sabato sta per iniziare. Lo preannunciano i primi fuochi che illuminano la sera che sta per incominciare e che servivano per scaldare le vivande il sabato, poiché Es 35,3 fa divieto di accendere i fuochi in giorno di sabato. Forse un qualche lume viene acceso e posto sulle porte o sulle finestre per salutare il sabato e avvertire che sta arrivando. Luca sintetizza tutto questo con una nota temporale significativa: era il giorno della parasceve, quindi, si era ancora di venerdì, ma al termine di questo giorno, poiché già apparivano i primi fuochi che preannunciavano l'avvento del sabato. Di un nuovo sabato, quello che segue la morte di Gesù. L'autore qui usa un verbo particolare per esprimere questo concetto, “™pšfwsken” (epéfosken), che ricorre in tutta la Bibbia soltanto due volte: qui e in Mt 28,1, dove il racconto della risurrezione si apre con una nota temporale che in qualche modo si richiama alla settimana della creazione genesiaca: “mentre era incominciato a splendere il giorno sul primo della settimana”, così come l'atto creativo inizia, con quel “Sia la luce” (Gen 1,3), nel primo giorno con lo splendere della luce di Dio. Se Matteo usa questo verbo molto raro, che non trova riscontro nella letteratura greca precristiana26, per richiamare la risurrezione, quale inizio di una nuova creazione, Luca sembra qui in qualche modo seguire, a modo suo, Matteo, lasciando trasparire in quel “™pšfwsken" lo splendere della risurrezione. Il verbo, infatti, significa “cominciare a splendere”, ma anche “sorgere” con riferimento al sole che sorge, richiamando in tal modo 1,78b: “ci visiterà un sorgere di sole dall'alto”. È interessante notare che Luca segnala come questo sabato “incominciava a splendere”, annunciando in tal modo l'inizio di una nuova luce, di una nuova prospettiva per il sabato, emblema del giudaismo. L'avvento dell'evento Gesù e la sua risurrezione, pertanto, incominciano a splendere anche sul giudaismo, dandone, come nel settimo giorno genesiaco (Gen 2,2), compimento. La risurrezione, quindi, come compimento di quel lungo processo di salvezza iniziatosi storicamente con Abramo e l quale anche il popolo ebreo è chiamato a parteciparvi. Anche su di lui incomincia a splendere il nuovo sabato.

I vv.55-56 portano nuovamente l'attenzione del lettore sul corpo di Gesù, che era stato semplicemente avvolto in un lenzuolo e posto nella tomba, senza il rituale della inumazione (v.53). Infatti, le donne lucane, quelle che hanno seguito Gesù dalla Galilea e che Luca ha già segnalato in 8,1-3, a differenza di quelle marciane che guardano attentamente “dove” (poà, pû) è stato sepolto Gesù, queste, invece, osservano “come” (æj, os) questo è stato sepolto (v.55), cioè senza inumazione, che prevedeva la pulitura del cadavere, il suo cospargimento con olii profumati, in genere mirra ed aloe (Gv 19,39-40), e la sua bendatura con fasce di lino27. Ma con il sopraggiungere del sabato tutto si interrompe e l'inumazione, che decreta la definitiva sepoltura di Gesù e l'irreversibilità della sua morte, viene sospesa. Segno questo che la morte non ha raggiunto il suo definitivo compimento. Non ha vinto su Gesù (1Cor 15,26). E il lettore sa già che questo non avverrà mai.

Il v.56, che chiude il cap.23, ha una duplice funzione: da un lato fornisce alle donne il motivo del loro ritorno alla tomba per compiere il rituale della inumazione (v.56a; 24,1b); dall'altro questo rituale viene sospeso a motivo del sabato (v.56b), preludendo in qualche modo alla sua inutilità.

Note


1Cfr. At 18,13-16

2Tali accuse dovevano essere comunemente rivolte ai cristiani, incriminati di predicare dottrine in contrasto con il giudaismo e contro l'imperatore. In tal senso cfr. At 17,6-7

3Cfr. Mt 27,11; Mc 15,2; Gv 18,33

4Cfr. At 3,13b; 13,28

5Cfr. At 10,37; 13,31; Gv 4,7.54

6Sulla divisione del regno di Erode il Grande dopo la sua morte (4 a.C.) cfr. Lc 3,1

7Cfr. Mt 27,28; Mc 15,17; Gv 19,2.5

8Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990. - Similmente, cfr. anche la voce “Mantello” in J. Mateos – F. Comacho, Vangelo: figure e simboli, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1997, II edizione; pagg 14-19

9Sulla questione cfr. R.E. Brown, Giovanni, op. cit. pag.1055; e Carmela Ventrella Mancini, Tempo divino e identità religiosa. Culto rappresentanza simboli dalle origini all' VIII secolo, ed. G. Giappichelli Editore, Torino 2012; pagg.127ss

10Cfr. Flavio Giuseppe Ant. Jud. 16,162-166

11Lc 23,17 riporta che “(Pilato) aveva l'obbligo di rilasciare loro ad ogni festa un carcerato”. Il versetto citato tuttavia è ritenuto dalla critica letteraria un'inserzione tardiva di qualche amanuense, tendente a motivare la richiesta dei Giudei, assente in Luca, riproducendo a modo proprio, a mo' di glossa, Mt 27,15 e Mc 15,6. - Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992; III edizione 2001.

12Gli Zeloti vennero reclutati prevalentemente tra i Farisei, alla cui dottrina rimasero saldamente radicati. Essi furono degli attivisti, una sorta di colonna armata del gruppo dei Farisei. Essi sostenevano che non si dovesse aspettare passivamente il cambiamento messianico, ma che si dovesse intervenire attivamente nella storia. Essi erano mossi da un ideale teocratico: solo Dio doveva essere il vero re d'Israele, mentre i Romani, dominatori stranieri e pagani, erano di ostacolo al governo di Dio su Israele. Questa formazione politico-religiosa si diffuse notevolmente tra la popolazione, provocando continue sommosse, e la preparò, suo malgrado, alla grande rivolta, che sfocerà nella prima guerra giudaica, che vide la distruzione di Gerusalemme e del Tempio (70 d.C.) e il nascere di un nuovo giudaismo, quello rabbinico

13Il condannato veniva legato ad una colonna, alta circa un metro, un metro e mezzo, in modo tale che egli mostrasse il dorso al suo aguzzino. Lo strumento di fustigazione era formato da un bastoncino, da cui si dipartivano delle cordicelle o delle listoline di pelle o di cuoio, in fondo alle quali era fissato un ossicino aguzzo o dei piombini. I colpi cosi inferti andavano ad incidere sulla carne del disgraziato, che veniva lacerata e strappata, con copiosa perdita di sangue. La flagellazione, poi, veniva fatta seguire subito da un bagno in acqua fredda, che serviva sia a ripulire il condannato dal sangue, che farlo rinvenire. Così trattato, talvolta il condannato non era neppure in grado di reggersi o di portare la trave trasversale, il patibulum, al quale veniva crocifisso e poi innalzato sul palo verticale, già conficcato a terra, lo sipes o staticulum Sorte questa che capitò a Gesù, così che si rese necessario l'aiuto del Cireneo, ricordato nei vangeli. - Sul tema cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, ed. Oscar Mondadori, presso Mondadori Printing, Cles, ristampa 2009 - § 591

14Non va dimenticato che Gesù viene arrestato e successivamente processato dal Sinedrio e condotto da Pilato subito dopo la cena pasquale che veniva celebrata all'inizio del giorno di pasqua, cioè dopo le nostre ore 18,00, momento in cui aveva inizio il nuovo giorno.

15Cfr. il commento al cap. 22 di Luca della presente opera, pagg, 18-25: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20vangelo%20secondo%20Luca%20-%20Cap.%2022.pdf

16Cfr. Lc 13,35a; 19,27.43-44; 21,6.21-25. Per una migliore comprensione cfr. il mio commento al cap.19, pagg. 16-17: https://digilander.libero.it/longi48/Il%20vangelo%20secondo%20Luca%20-%20Cap.%2019.pdf

17Il luogo dove Gesù viene crocifisso è una piccola sporgenza rocciosa posta a settentrione di Gerusalemme e fuori dalle sue mura. Per la sua strana conformazione la gente la chiamava “cranio”, “calvaria” in latino o gulgoleth (golgota) in ebraico. - Cfr. G. Riciotti, Vita di Gesù Cristo, ed. Oscar Mondadori, Cles, 1974 – ristampa 2009 - § 602

18Cfr. Nestle-Aland, Nuovo Testamento, Greco-Italiano, ed. Società Biblica & Foresteria, Roma, 1996 - XXVII edizione.

19Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992; III edizione 2001 – pagg.974-976.

20Cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, ed. Oscar Mondadori, Cles, 1974, ristampa 2009 - § 606.

21Cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, ed. Oscar Mondadori, Cles, 1974, ristampa 2009 - § 599

22Cfr. 24,25-27; Gv 20,9; At 17,11; 18,28; Rm 16,26

23Molti racconti di Luca iniziano con “C'era un uomo”. Cfr. 1,27; 2,25; 4,33; 5,12; 6,6; 8,41; 10,30; 12,16; 14,16; 15,11; 16,1.19; 19,2.12; 20,9;

24Cfr. la voce “Arimatea” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizione PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista ed integrata 2005.

25L'impellenza della sepoltura era dettata da Dt 21,22-23a, il quale recita: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l'avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull'albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno”. Un passo che viene confermato dallo stesso Giuseppe Flavio in Guerra Giudaica: “Giunsero a tal punto di empietà, da gettarli via insepolti, mentre i giudei si danno tanta cura di seppellire i morti, che finanche i condannati alla crocifissione vengono deposti e sepolti prima del calar del sole” (Bell. Jud. VI, § 317).

26Cfr. G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992; III edizione, gennaio 2001 – pag. 997

27In tal senso cfr. Gv 11,44a; 19,39-40