IL VANGELO SECONDO LUCA


Il racconto della passione-morte di Gesù.

Capp. 22-23

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





Note generali


Il racconto della passione-morte-risurrezione di Gesù costituisce all'interno dei vangeli sia da un punto di vista narrativo che teologico e cristologico un unico blocco tematicamente compatto. Non si tratta di un fedele resoconto storico e tanto meno cronachistico di quanto è avvenuto in quel tempo, benché il contesto in cui è inserito tale racconto sia storico e gli elementi e i personaggi che lo compongono siano tali. Ma qui la preoccupazione degli evangelisti non è riportare esattamente gli avvenimenti accaduti, ma evidenziarne il significato e il senso e tali da mettere in rilievo il mistero della persona di Gesù, che qui apparirà, come mai altrove, il Messia, il Figlio di Dio assunto “alla destra della potenza di Dio” (22,69b) e, pertanto, Dio lui stesso. Un mistero che troverà il suo disvelamento e la sua piena manifestazione nella risurrezione, che Paolo trasformerà in una significativa quanto intensa testimonianza di fede: “riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore” (Rm 1,3-4). Ci si trova, dunque, di fronte ad una lettura teologica e cristologica della figura di Gesù, collocata all'interno di una cornice storica anche se non rigorosamente cronachistica. Diverse, infatti, sono le narrazioni degli evangelisti, che hanno nei Sinottici come punto di riferimento narrativo il racconto di Marco, da cui tuttavia si scostano modificandone il testo, togliendo o aggiungendo materiale proprio, ricostruendo i fatti secondo una propria visione teologica e cristologica, poiché la loro preoccupazione non è la storia, bensì il disvelare al proprio lettore e ai credenti il Mistero di quel uomo, il significato del suo patire e del suo morire, attestandone, anche qui a modo proprio, la risurrezione, aprendo in tal modo un nuovo orizzonte e inaugurando un nuovo tempo, quello della chiesa, i cui inizi Luca racconta nei suoi Atti degli Apostoli. Nella visione degli evangelisti, pertanto, la storia non finisce con la morte di Gesù, ma continua nella testimonianza della Chiesa (Mt 28,18-20) e nella storia di ogni singolo credente, che ritrovano la propri identità nell'unica fede nel Risorto.

Se diverse sono le narrazioni degli evangelisti circa la passione-morte-risurrezione di Gesù, unico, tuttavia, è lo schema narrativo: il contesto pasquale entro cui si svolgono gli eventi, il complotto da parte delle autorità religiose, l'ultima cena, il tradimento di Giuda, gli eventi del Getsemani, il rinnegamento di Pietro, il processo davanti al Sinedrio, il processo davanti a Pilato che si conclude con la condanna a morte di Gesù, la sua esecuzione a mezzo crocifissione e la sua sepoltura in una tomba nuova, che secondo il racconto giovanneo doveva trovarsi nei pressi del Golgota (Gv 19,41).

Un simile comune schema fa supporre come già al tempo in cui il primo vangelo, quello marciano (65-69 d.C.), a cui gli altri due Sinottici in vario modo e liberamente attingono, vi fosse già ben consolidato un racconto nel merito. Una testimonianza in tal senso ci viene da 1Cor 11,23-26, che riporta una tradizione che Paolo aveva ricevuto: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: <<Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me>>. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: <<Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me>>. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga”. E similmente in 1Cor 15,3-4 riporta, sotto forma di formula catechistica, l'evento della passione-morte-risurrezione, interpretato come evento soteriologico: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture”.

Questi due passi paolini sono significativi poiché vi si dice che Paolo trasmette alla comunità di Corinto ciò che egli stesso ha ricevuto da altre comunità, quella di Gerusalemme, di Damasco e di Antiochia1, presso la quale, quest'ultima, ha soggiornato lungamente, circa una decina di anni (36-45 d.C.) dopo l'esperienza di Damasco e prima di iniziare la sua attività missionaria (45-60 d.C.). Ora, considerando che la prima lettera ai Corinti fu scritta da Efeso tra il 53 e il 54 e che qui Paolo riporta una tradizione già consolidata sotto forma liturgica (1Cor 11,23-25) e catechetica (1Cor 15,3-4), è da ritenersi che in entrambi i casi l'insegnamento trasmesso e così sinteticamente elaborato, abbia avuto come fondamento ed origine un racconto diffuso e conosciuto all'interno delle varie comunità credenti, se non come testo dettagliato e ben definito, certamente come una sorta di abbozzo narrativo, usato probabilmente anche dagli stessi predicatori itineranti, e comunque da collocarsi certamente tra il 36 e il 45 d.C., epoca in cui Paolo fu erudito nella tradizione che andava formandosi all'interno delle comunità credenti, ma probabilmente ancor prima del 36 d.C., considerato che Paolo quando vi giunge trova già elaborate queste formule, che presuppongono un racconto. Racconti e testi primitivi narranti la passione e morte di Gesù, pertanto, vanno fatti risalire immediatamente dopo la dipartita di Gesù (circa 33 d.C.), intorno all'anno 34 o 35 d.C., il tempo cioè minimo necessario perché questi racconti si formino e si affermino presso le comunità credenti. Del resto è ragionevole pensare che un evento così traumatizzante e tragico come la morte di Gesù abbia scosso profondamente le coscienze e gli animi dei suoi seguaci e, pertanto, questi ultimi eventi devono essere stati anche i primi ad essere fermati nella memoria e per iscritto. S'imponeva, infatti, ai suoi discepoli, di fronte ad un simile drammatico evento, come la morte del loro maestro, di cercarne il senso al di là dell'apparente umano fallimento di questo giovane rabbi (Lc 24,21). Una ricerca che doveva avvenire attraverso le Scritture2, che dovevano illuminare il senso degli eventi, al di là di ciò che questi potevano lasciare trasparire, e la cui comprensione deve essere avvenuta quasi immediatamente dopo la morte di Gesù, considerato che Paolo nelle sue lettere, tutte scritte tra il 50 e il 58 circa d.C.3 riporta numerosi inni cristologici e formule catechetiche e di fede, che lui ha trovato presso le comunità credenti, presso le quali ha dimorato a lungo (36-45 a.C.) subito dopo l'evento di Damasco (36 d.C.). Testi che lasciano intravvedere una elaborazione di racconti formatisi subito dopo la morte di Gesù e che andavano costituendo il primo nerbo fondamentale della Tradizione e della Dottrina. Inni cristologici e formule di fede che lasciano intravvedere una potente elaborazione del pensiero teologico e cristologico sviluppatosi a seguito di una ricerca scritturistica e una riflessione sull'evento Gesù. Da qui e alla luce di questi accadimenti è seguito tutto il resto, come in una sorta di flashback.

Benché i racconti della passione-morte-risurrezione di Gesù siano posti necessariamente per motivi di logica narrativa alla fine dei vangeli, tuttavia questi acquistano un'importanza fondamentale e centrale in tutti i vangeli, la cui parte narrativa è disseminata di riferimenti a tali eventi ed è orientata ad essi, così da creare una forte tensione verso il Golgota, quale conclusione e coronazione della vicenda terrena di Gesù e della sua missione. La passione-morte di Gesù, quindi, non va considerata come la sfortunata e tragica conclusione della sua vita, ma ne è il vertice atteso verso il quale i racconti evangelici convergono, poiché proprio da tali tragici eventi i racconti evangelici acquistano senso e significato e soltanto alla luce del Golgota essi possono essere compresi.

Rilevante in tal senso è il vangelo lucano, che è prevalentemente strutturato su di un fittizio viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28), il luogo dove si compiranno i misteri della salvezza e nel contempo la porta che riconduce Gesù al Padre; un viaggio lungo il quale vi è un continuo richiamo sia a Gerusalemme (9,31.51.53; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11.28), quale luogo del compimento della missione terrena di Gesù; sia al suo soffrire, al suo morire e al suo risorgere (2,34-35; 4,13b; 9,22.31.44; 13,33; 18,31-33; 24,6-7.20). Un'importanza quella di Gerusalemme che Luca sottolinea fin dall'inizio del suo racconto, dove l'autore costruisce i primi due capitoli sull'infanzia di Gesù attorno a Gerusalemme e al Tempio, prospettando fin da subito un destino di dolore e di morte per la salvezza, ma nel contempo per la condanna di Israele (2,34-35). Gesù, dunque, posto come elemento di discriminazione e di giudizio in Israele, ma con esso anche in mezzo agli uomini.

Diversamente da Luca, ma solo in apparenza come vedremo subito, il Gesù giovanneo opera prevalentemente a Gerusalemme e il Tempio diventa il centro della sua attività e le festività ebraiche la cornice all'interno della quale egli opera. Anche per Giovanni, dunque, Gerusalemme riveste un'importanza fondamentale perché da lì deve passare Gesù per ricongiungersi al Padre e proprio lì, sulla croce metterà il punto definitivo alla sua missione terrena, sintetizzato in quel lapidario “Tetšlestai” (Tetélestai, È compiuto) (Gv 19,30b). Una croce che costituisce quindi il vertice dell'intera missione di Gesù. Come per Luca anche per Giovanni Gerusalemme è la porta di passaggio per il ritorno di Gesù al Padre. Similmente a Luca, anche Giovanni imbastisce l'intero suo vangelo su di un viaggio teologico compiuto da Gesù, la cui chiave di lettura viene posta significativamente da Giovanni a ridosso della passione e morte di Gesù: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28). E se la meta qui è il Padre, Gerusalemme diventa il luogo di accesso obbligato verso il Padre e verso il quale tutto il vangelo giovanneo tende. Solo qui il Gesù giovanneo potrà esclamare il suo “Tetšlestai”. L'intera missione di Gesù, uscito dal Padre e in cammino di ritorno al Padre, trova dunque il suo vertice e il suo compimento in quel “Tetšlestai”. Una missione quella di Gesù improntata al sacrificio di espiazione per i peccati del mondo, che l'evangelista evidenzia fin dall'inizio del suo racconto, presentando Gesù attraverso le parole del Battista come l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29.36), indicandone il senso della missione e alludendo all'agnello sacrificale, sul quale nel giorno dell'Espiazione (Yom Kippur) il sommo sacerdote riversava i peccati di tutto il popolo (Lv 16,20-22).

La centralità della passione e morte di Gesù si rileva parimenti nel vangelo di Matteo dove fin dall'inizio, nel suo racconto dell'infanzia, appare il tema della persecuzione e della morte di Gesù, là dove Erode cerca di uccidere Gesù costringendolo alla fuga in Egitto, allungando l'ombra della sua morte su bambini innocenti, preannunciando fin da subito ciò che avverrà per i seguaci di Gesù4. E così parallelamente dicasi per Marco, che a partire dal cap.8,31 in poi orienta decisamente il suo vangelo verso Golgota5.

Benché lo schema narrativo tra Marco e Luca sia sostanzialmente identico, tuttavia i due racconti della passione e morte di Gesù divergono notevolmente sia per omissioni, per nuovo materiale introdotto da Luca, sia nell'ordine dell'esposizione dei fatti6.

Quanto alle omissioni, Luca tralascia l'unzione di Betania, riportata invece da Mc 14,3-9; parte dell'agonia nel Getsemani (Mc 14,33-34.38b-42); la fuga dei discepoli (Mc 14,49b-52); l'accusa dei falsi testimoni (Mc 14,55-61a); il silenzio di Gesù di fronte alle accuse dei testimoni (Mc 14,61a; 15,4-5); gli scherni da parte dei soldati romani (Mc 15,16-20a); il grido di abbandono (Mc 15,37) e gli scherni dei passanti sotto la croce (Mc 15,29-32); il riferimento al profeta Elia (Mc 15,44-45); la reazione di Pilato alla notizia della rapida morte di Gesù (Mc 15,44-45).

Quanto all'introduzione di nuovo materiale lucano, va segnalato: le parole di Gesù nell'ultima cena (Lc 22,15-17.24-30.31-33.35-38); l'angelo consolatore nel Getsemani (Lc 22,43-44); il soggiorno notturno in casa del sommo sacerdote (Lc 22,54) e il radunarsi del Sinedrio solo al mattino (Lv 22,66); la comparizione davanti ad Erode (Lc 23,6-12); la dichiarazione di innocenza di Gesù da parte di Pilato (Lc 23,4.13-16); il lamento delle pie donne (Lc 23,27-31); il dialogo con i due ladroni (Lc 23,39b-43) e le altre parole del Crocifisso (Lc 23,34.36);

Quanto al diverso ordine nell'esposizione dei fatti, questo si riscontra prevalentemente nella scena davanti al Sinedrio e nella Crocifissione7:


Sinedrio


Rinnegamento di Pietro (Lc 22,54-62; Mc 14,53-54.66-72);

Gesù maltrattato (Lc 22,63-65; Mc 14,65);

Gesù davanti al Sinedrio (Lc 22,66.67-71; Mc 15,1; 14,55-64);


Crocifissione


La crocifissione (Lc 23,33-38; Mc 15,22-27.24-25.29-32.26);

Il ladrone perdonato (Lc 23,39-43; Mc 15,32);

La morte di Gesù (Lc 23,44-49; Mc 15,33-38.34-37.39-41)


Premesso, in senso generale, che Luca nel comporre il suo vangelo ha sottomano il racconto marciano, dal quale si discosta liberamente, togliendo o aggiungendo materiale proprio, rielaborando i testi marciani secondo il proprio schema narrativo e i propri intenti teologici e cristologici8, ci si interroga, quanto al racconto della passione-morte di Gesù, considerati i notevoli e consistenti scostamenti dal testo marciano, se l'autore non avesse sottomano un'altra fonte, un altro testo più primitivo ancora, pre-lucano. Va detto, in linea di massima, che se, da un lato, un'attenta analisi dei testi può aiutare l'esegeta a muoversi e a chiarirsi su questioni difficili e, non di rado, destinate a rimanere insolute, dall'altro, un'eccessiva e puntigliosa analisi rischia di aggrovigliare maggiormente la matassa. Meglio, pertanto, guardare le cose dall'alto e nel loro insieme, cercando di allinearsi alla prospettiva dell'autore, coglibile dall'insieme della sua opera. Talvolta il voler fare troppo bene la punta ad una matita si rischia di spezzarla. In accordo con il Rossé9, pertanto, mi sento di affermare che il racconto lucano della passione e morte di Gesù abbia come autore principale e originario Luca stesso, che tenendo, come al solito, sottomano la traccia narrativa di Marco, abbia anche qui omesso tratti del racconto marciano e aggiunto liberamente materiale proprio, nel senso di sua invenzione o di fonte propria, per meglio adattare il racconto alla propria teologia e cristologia, con riguardo alla platea dei suoi lettori greco-ellenisti.

La struttura del racconto della passione e morte di Gesù, che occupa i capp. 22 e 23, si presenta alquanto complessa ed articolata ed è distribuita nell'ambito di due ampi contesti, che formano sezioni a se stanti: il contesto giudaico, caratterizzato dal rifiuto omicida di Gesù (22); e quello pagano, che invece tende a scagionare Gesù, accogliendolo come il giusto Figlio di Dio e convertendosi a lui (23).

L'intero racconto è composto da 2 preamboli iniziali, che creano il contesto entro cui vengono collocati 6 quadri, ognuno dei quali funge da cornice agli eventi che accadono al loro interno. Propongo, pertanto, il seguente schema strutturale:

Il contesto giudaico (22,1-71)

Preambolo del tradimento, causa prossima dell'accadere degli eventi (vv.1-7); il contesto pasquale in cui accadono gli eventi (vv.8-13).

Quadri

  1. l'ultima cena: quella ebraica (vv.14-18) e la nuova cena (vv.19-20); l'annuncio del tradimento (vv.21-23); gli ultimi discorsi ai suoi (vv.24-38);

  2. gli eventi del monte degli Ulivi: l'agonia di Gesù (vv.39-45); l'arresto di Gesù (vv.46-54);

  3. nella casa del sommo sacerdote: il rinnegamento di Pietro (vv.55-62); i maltrattamenti della soldataglia su Gesù (vv.63-65); il processo giudaico di Gesù (vv.66-71);


Il contesto pagano (23,1-56)


Quadri

  1. Il processo di Gesù da parte dei pagani: davanti a Pilato (23,1-5); da Erode (vv.6-12); di nuovo davanti a Pilato e la condanna a morte (vv.13-25);

  2. il cammino verso il Golgota (vv.26-32): scena del Cireneo (v.26) e l'incontro con le donne (vv.27-32);

  3. Gli eventi del Golgota: Gesù crocifisso (vv.33-34); scherni e insulti da parte dei capi del popolo, dei soldati e del malfattore (vv.35-43); Gesù muore in croce (vv.44-46); la reazione del mondo pagano alla morte di Gesù (vv.47-48); la sepoltura di Gesù (vv.49-56).


Parte prima: Gesù ripudiato dal giudaismo

(22,1-71)




Note generali

Le numerose controversie e polemiche con Gesù10, le insidie innescate dalle autorità giudaiche11 e i loro propositi omicidi (19,47; 20,19), in ultima analisi il loro sostanziale rifiuto di questo inatteso rabbi fuori dagli schemi del giudaismo; ma nel contempo i suoi insegnamenti, rilasciati qui sotto forma di testamento spirituale, che prospettano in qualche modo l'associazione dei discepoli ai destini di Gesù (vv.14.39) e il loro futuro di sofferenza e di persecuzione (vv.35-38), trovano qui nel cap.22 il loro vertice e la loro conclusione. Il cap.22 chiude, quindi, la partita di Gesù con il giudaismo, la cui valutazione giovannea è decisamente pessimista: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui” (Gv 12,37); mentre non meglio era andata con i suoi discepoli: “Da questo (momento) molti tra i suoi discepoli se ne tornarono indietro, e non camminavano più con lui” (Gv 6,66).

Il contesto in cui si svolgono i fatti è quello della pasqua ebraica, in cui si celebra il memoriale della liberazione di Israele dalla schiavitù dell'Egitto, ritualizzandolo con l'immolazione e la consumazione dell'agnello, con l'aspersione degli stipiti delle porte con il suo sangue, salvaguardando gli ebrei dal passaggio dell'angelo sterminatore, che uccise tutti i primogeniti che si trovavano in terra d'Egitto; con le erbe amare per ricordare le sofferenze della schiavitù egiziana (Es 12,1-14). Un contesto particolarmente significativo poiché al suo interno vengono collocati, e quindi in qualche modo a questi eventi di liberazione, di riscatto e di salvezza associati, quelli della passione e morte di Gesù, che la comunità credente ricomprende sullo sfondo della pasqua ebraica, assegnando ad essi un nuovo significato così che Gesù è il vero agnello di Dio che toglie i peccati del mondo (Gv 1,36), in qualche modo preannunciato e prefigurato dal rituale stesso della pasqua, che proprio in questo contesto verrà sostituito dal nuovo rito (vv.14-20).

L'importanza di tale contesto viene rilevato da Luca attraverso tre passaggi (vv. 1.7.14) che aprono altrettante pericopi, al cui interno sono collocati gli eventi, che aprono il racconto della passione e morte di Gesù e in qualche modo ne sono il preambolo e nel contempo ne formano la chiave di lettura. Tre passaggi che, partendo da un annuncio generico, “Ora, si avvicinava la festa degli Azzimi, detta Pasqua” (v.1), vanno sempre più restringendo il campo con il v.7: “Ora venne il giorno degli Azzimi, in cui bisognava immolare la pasqua”, fino a giungere all'ora della cena pasquale: “E quando venne l'ora, si coricò (a tavola) e gli apostoli con lui”, focalizzando gli eventi che in essa accadranno. In tal modo l'attenzione del lettore viene gradualmente accompagnata verso ciò che costituisce il cuore del cap.22, il racconto dell'ultima cena, in cui l'antico rito (vv.15-18) viene sostituito da quello nuovo (vv.19-20).

Il cap.22, che si muove tutto all'interno del mondo giudaico, è strutturalmente diviso in due parti: la prima (vv.1-38) funge in un certo qual modo da preambolo all'intero racconto della passione e morte di Gesù e ne contiene in qualche modo la chiave di lettura: Gesù è il vero agnello pasquale immolato, il cui sangue è capace di redenzione e di salvezza; la seconda parte (vv.39-71), in un continuo drammatico crescendo racconta il definitivo ripudio omicida di Gesù da parte del giudaismo: Gesù, dopo essersi consegnato ai suoi (vv.19-20), esce da questa ristretta cerchia per consegnarsi all'intera dell'umanità. Lo farà passando attraverso un personale travaglio interiore, abbandonato dai suoi, incapaci di sostenerlo per la loro inintelligenza di un Mistero che si stava compiendo sotto i loro occhi (vv.39-46); da qui, passando attraverso le mani di Giuda, viene consegnato alle autorità giudaiche (vv.47-54); da queste al giudizio del Sinedrio (v.66), la soglia ultima del giudaismo, che segna il limite tra il mondo ebraico e quello pagano, al quale verrà consegnato in via definitiva (23,1) e da qui sulla croce, da dove il suo sangue cadrà sia sui pagani, che lo riconoscono come il Giusto e lo accolgono (23,47), sia sui giudei, che “tornano indietro percuotendosi il petto” (23,48), iniziando così un cammino di conversione. Una croce che diviene il segno di redenzione e di riscatto per tutti i peccatori che si convertono (23,40-43). Una croce dove c'è spazio per tutti. Quella croce, quel sangue sparso, quel corpo spezzato non è più appannaggio di pochi, ma assume una dimensione di redenzione e di salvezza universale, che nella risurrezione diventerà cosmica (Mt 28,18). Non a caso Giovanni vedrà il salire di Gesù sulla croce come la sua intronizzazione regale (Gv 18,28-19,22), dove attirerà tutti a sé in una sorta di abbraccio universale (Gv 12,32).

La prima sezione del cap.22 (vv.1-38) si snoda strutturalmente in cinque parti:

  1. Primo preambolo: il tradimento di Giuda (vv.1-6);

  2. Secondo preambolo: il contesto pasquale (vv.7-13);

  3. L'ultima cena: la celebrazione della pasqua ebraica e l'istituzione dell'eucaristia (vv.14-20);

  4. L'annuncio del tradimento (vv.21-23);

  5. Gli ultimi discorsi di Gesù ai suoi (vv.24-38)


Commento ai vv. 1-38


Primo preambolo: il tradimento di Giuda (vv.1-6)


Testo a lettura facilitata

Il contesto e i personaggi (vv.1-2)

1 – Ora, si avvicinava la festa degli Azzimi, detta Pasqua.
2 – E i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano come ucciderlo, infatti temevano il popolo.

Il vero autore della morte di Gesù (vv.3-4)

3 – Ora, Satana entrò in Giuda, chiamato Iscariota, che era dal numero dei Dodici;
4 – E andatosene, parlò con i sommi sacerdoti e i comandanti (sul) come consegnarlo loro.

L'accordo (vv.5-6)

5 – E gioirono e si accordarono di dargli del denaro.
6 – E promise, e cercava il momento favorevole per consegnarlo loro, lontano dalla folla.


Note generali

I primi sei versetti del cap.22 presentano sia il contesto temporale, la festività della pasqua, sia gli autori che gli attori della morte di Gesù: sacerdoti, scribi, Giuda e Satana. Una premessa necessaria, che giustifica quanto succederà nei capp.22-23. Essi sono la causa prossima scatenante, da cui si origina l'intero racconto della passione e morte di Gesù. Tutto nasce da una volontà omicida delle autorità giudaiche, che trova il suo aggancio e la possibilità del suo attuarsi in Giuda. Ma il vero autore di tutto ciò è Satana.

A differenza di Marco, che tra la decisione delle autorità giudaiche di sopprimere Gesù (Mc 14,1-2) e la possibilità di attuare i loro proposi omicidi grazie a Giuda (14,10-11), inserisce il racconto dell'unzione di Betania in casa di Simone il lebbroso (14,3-9), creando una sospensione narrativa, caratteristica di Marco12, Luca preferisce tralasciare racconti che possono essere ridondanti e distraenti, accentrando l'attenzione del suo lettore sugli aspetti storico-salvifici, cercando di metterne in rilievo il senso, da un lato, mentre dall'altro, da un punto di vista narrativo, rende più scorrevole e immediato il racconto, dispiegandolo in tutta la sua efficacia-

I primi sei versetti sono strutturalmente distribuiti sotto forma di parallelismi concentrici in C). Per cui si avrà:


  1. Il contesto pasquale è il luogo del tradimento (v.1), preannunciando in qualche modo quanto avverrà durante la cena pasquale (v.21);

  2. le autorità giudaiche progettano di uccidere Gesù (v.2);

    B1 le autorità giudaiche gioiscono perché hanno trovato in Giuda l'aggancio al loro progetto (v.5);

    A1 il patto omicida tra Giuda e le autorità giudaiche, che si realizza a ridosso della pasqua (v.6) e che viene disvelato durante la cena pasquale (v.21).

Commento ai vv. 1-6


Il cap.22 si apre con una nota temporale mettendo l'intero racconto della passione-morte-risurrezione (22-23-24) sotto il segno della pasqua ebraica, durante la quale avverrà la sua sostituzione con quella cristiana (22,16-18.19-20 e cap.24): “Ora, si avvicinava la festa degli Azzimi, detta Pasqua” (v.1). Un'espressione bizzarra, poiché la festa degli azzimi ricorreva il giorno successivo a quella della pasqua e durava sette giorni, dal 15 al 21 di Abib o Nisan13, ed erano due festività distinte tra loro e celebravano due eventi molto lontani nel tempo. La prima, la pasqua, ha origini nomadiche e celebrava l'inizio di una nuova stagione, la primavera, allorché i pastori ripartivano con le loro greggi alla ricerca di nuovi pascoli dopo il periodo invernale, e viene collegata con la notte in cui Israele venne affrancato dalla schiavitù egiziana (circa 1250 a.C.)14, ritualizzata poi da Es 12,1-14. La festa degli azzimi, invece, ha origini agricole e stanziali. Una festività che il popolo ebreo ha incominciato a praticare dopo il suo ingresso a Canaan (circa 1200 a.C.). Essa, nel suo carattere iniziale, era una semplice offerta delle primizie della terra. Successivamente venne celebrata con un suo proprio rituale, ricordato in Lv 23,9-14. Anche questa festa, di origine agricola e quasi certamente cananea, è stata rivisitata e risignificata da Israele e agganciata allo stesso significato della Pasqua (Es 12,15-20), molto probabilmente per la continuità logica dell'unico atto salvifico: liberazione dalla schiavitù egiziana (Pasqua) e insediamento nella Terra promessa (Azzimi). Le due festività, quella della Pasqua e quella degli Azzimi, l'una, come si è visto, di origine pastorale e nomadica, l'altra agricola e stanziale, venivano celebrate entrambe nello stesso mese di Abib o Nisan. Con la riforma di Giosia (622 a.C.) le due festività vennero tra loro associate, quanto al tempo. E poiché la Pasqua era celebrata anch'essa con pani azzimi e le due festività facevano memoria dello stesso evento salvifico, parve opportuno congiungere le due feste. La prima congiunzione è testimoniata da Es 12,1-18 e Lv 23,5-8, in cui le due festività sono prescritte l'una dietro l'altra. La seconda congiunzione, che sembra essere una vera e propria fusione delle due feste, è data da Dt 16,1-8. Il modo ebraico, poi, di contare i giorni, dalla sera alla sera del giorno dopo, ne ha rafforzato l'aggancio. Questa era la situazione al tempo del giudaismo del I sec. d.C.15

Tuttavia l'espressione di Luca: “Ora, si avvicinava la festa degli Azzimi, detta Pasqua” non è probabilmente di sua invenzione, ma la ritroviamo sostanzialmente identica in G. Flavio: “Sopravvenuta la festa degli Azzimi, che presso i giudei si chiama Pasqua” (Bel Jud II,10). Ed è probabilmente da tale testo, di cui Luca era a conoscenza e da cui ha probabilmente tratto anche le sue conoscenze sul giudaismo e la sua storia16, che l'evangelista l'ha mutuata. Va tuttavia osservato che Giuseppe Flavio, vissuto nel I sec. d.C. (37-103 d.C. circa) esprimendosi in quel modo, identificando cioè la festa degli Azzimi con la Pasqua, deve aver riportato un modo di dire del sentire popolare.

Quanto agli altri due Sinottici, Mt 26,2 parla soltanto che mancavano due giorni alla pasqua, senza menzionare la festa degli Azzimi: “Sapete che fra due giorni viene la pasqua, e il figlio dell'uomo viene consegnato per essere crocifisso”; mentre Mc 14,1a cita entrambe le festività, tenendole distinte: “Mancavano intanto due giorni alla Pasqua e agli Azzimi”, ma probabilmente, in modo implicito, identificando le due festività, come per Luca, poiché dice che mancavano soltanto due giorni sia alla pasqua che agli azzimi, la quale in realtà cadeva il giorno dopo la pasqua. Matteo, invece, citando solo la pasqua e tralasciando la festività degli Azzimi, ha probabilmente voluto accentrare l'attenzione del suo lettore ebreo sul carattere prettamente pasquale degli eventi, che vedono coinvolto Gesù, suggerendone una lettura cristologica.

I vv.2-3 presentano gli avversari di Gesù: dapprima i sommi sacerdoti e gli scribi; poi Satana e infine Giuda. Quanto ai primi, viene detto che “cercavano come ucciderlo”. Non stupisce questa decisione da parte delle autorità giudaiche, poiché l'autore aveva già preparato il suo lettore a questo evento in 9,22; 11,53a; 13,33b; 18,31-33; 19,47; 20,19. La decisione criminosa delle autorità giudaiche era, pertanto, attesa. Quanto al “come” uccidere Gesù viene detto ai vv.4-6. Non viene tuttavia spiegato il motivo di tale decisione, che in parte va ricercato nella continua e dura contrapposizione tra le autorità giudaiche e Gesù, al limite del sovversivo. Tuttavia, la vera ragione storica ci viene suggerita dallo stesso Gv 11,46-50: “Ma alcuni di loro se ne andarono dai Farisei e dissero loro ciò che fece Gesù. I capi dei sacerdoti e i Farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che cosa facciamo, poiché quest'uomo fa molti segni? Se lo lasciamo (fare) così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e ci prenderanno e il Luogo e il popolo>>. Ma uno di loro, Caifa, che era sommo sacerdote di quell'anno, disse a loro: <<Voi non capite niente, né considerate che a voi giova che un uomo muoia in favore del popolo e non che tutto il popolo perisca>>”. Il comprensibile timore delle autorità giudaiche, pertanto, era quello di una possibile rivolta, che avrebbe potuto scatenarsi sotto le festività pasquali, provocando un cruento e disastroso intervento da parte dei romani che in quei giorni presidiavano militarmente Gerusalemme e il territorio circostante con guarnigioni notevolmente rafforzate, pronte ad intervenire in caso di necessità. Lo stesso Pilato, che normalmente risiedeva a Cesarea marittima, sede imperiale della provincia romana della Giudea, in occasione delle feste pasquali trasferiva la sua residenza nella Torre Antonia, prospiciente sul Tempio, nel cuore di Gerusalemme.

Il v.3 presenta gli altri due attori della passione e morte di Gesù: Satana e Giuda: “Satana entrò in Giuda”, creando in tal modo una sorta di identificazione. Il primo ad essere nominato qui è “Satana”. È dunque lui l'autore, il mandante della morte di Gesù e Giuda ne è soltanto lo strumento esecutore. È questo il tempo opportuno, che Lc 4,13 aveva preannunciato, subito dopo le tentazioni: “E compiuta ogni prova, il diavolo se ne andò da lui fino a tempo (opportuno)”; un tempo opportuno che viene definito come l'ora del potere delle tenebre (v.53). L'espressione “Satana entrò in Giuda” compare tra i sinottici soltanto in Luca. Un'espressione particolare questa che ritroviamo molto simile nel vangelo di Giovanni, che a questa presa di possesso di Giuda da parte di Satana dedica tre passaggi in un continuo crescendo drammatico: “Ed essendoci una cena, avendo già messo il diavolo nel cuore di Giuda, (figlio di) Simone Iscariota di consegnarlo” (Gv 13,2); “E dopo il boccone, allora satana entrò in quello” (Gv 13,27a); “Preso dunque il pane, quello uscì subito. Ora, era notte”(Gv 13,30). Dapprima, quasi in un modo impercettibile, Satana si rende presente in Giuda con un semplice progetto: consegnare Gesù ai suoi avversai; successivamente, accettata la proposta diabolica, Satana entra in Giuda, così che da semplice propugnatore di un progetto criminale, ne diventa co-attore: il progetto diventa azione e si attua; ed infine, con l'entrata di Satana in Giuda, questi esce dal gruppo dei Dodici, a cui apparteneva; esce dalla sequela e dall'amicizia di Gesù; esce dal cono della sua luce e si ritrova avvolto dalle tenebre. Da questo momento Giuda scompare nella notte del suo peccato e del suo tradimento.

Giuda viene nominato in Luca per la prima volta nell'elenco dei Dodici come: “Giuda di Iscariota, che divenne traditore” (6,16b), lasciando intendere in quel “divenne traditore”, un cammino di allontanamento da Gesù che si è fatto perversione e tradimento; mentre l'ultima volta compare in 22,48, dove Gesù rimprovera a Giuda il suo tradimento: “Giuda, con un bacio consegni il Figlio dell'uomo?”. Inizialmente vi è l'annuncio del tradimento; al termine il compiersi del tradimento. Quasi come una sorta di inclusione, Giuda rimarrà sempre avvolto dal peso del suo tradimento, che è maturato lentamente in lui. Il suo soprannome, Iscariota, compare sei volte nei tre Sinottici e cinque volte nel solo Giovanni, che con più precisione in 6,71a attesta che Giuda è figlio di Simone Iscariota. Iscariota è la forma grecizzata dell’ebraico “is Qeriyyot”, cioè “uomo di Kerioth17”. Questa precisazione geografica è da preferirsi a quella che nel soprannome vede una grecizzazizone del termine latino sicarius, cioè “uomo della sica18”, che spinge a ritenere Giuda un seguace del movimento zelota. Altre interpretazioni recenti19 vedono nel nome una grecizzazizone dell’aramaico sheqar (mentitore, falso, traditore). In ogni caso, rimane, a nostro avviso, sempre più appetibile la soluzione geografica, considerato che Giovanni nel suo vangelo applica, per la prima volta nella sua opera, il soprannome Iscariota non a Giuda, ma a suo padre, Simone (Gv 6,71a), probabilmente per indicarne la provenienza, più che per definirne qualità morali o tendenze politiche20. Dal padre, quindi, Giuda erediterà tale soprannome, che indicherà anche per lui la sua origine.

I vv.4-6 costituiscono la risposta al v.2, dove le autorità giudaiche, decise ormai a sopprimere Gesù, si stavano arrovellando sul “come ucciderlo”. Giuda dirà loro sul “come consegnarlo loro” e il come verrà raccontato da Luca ai vv.47-54. A differenza degli altri due Sinottici, Lc 22,4 aggiunge ai personaggi dei “sommi sacerdoti” quelli dei “comandanti”, probabilmente i responsabili della sicurezza del Tempio; quelli che, quindi, dovevano pianificare l'arresto di Gesù e la sua custodia. Questo suggerisce infatti il termine “strathgo‹j” (strategoîs), con cui l'autore designa questi altri personaggi con i quali Giuda, assieme ai sommi sacerdoti, conferisce. Il termine e letteralmente significa “condottiero d'esercito, generale, comandante”. Gv 18,3, infatti, dice: “Pertanto Giuda, avendo preso la coorte e dei servi dai sommi sacerdoti e dai farisei, va là con fiaccole e lampade e armi”. Chi si presenta al Gesù giovanneo nel Getsemani per arrestarlo sembra essere un consistente reparto militare o paramilitare.

La comparsa di Giuda toglie ogni cruccio alle autorità giudaiche sul “come ucciderlo” e dal cruccio passano alla gioia: “Essi gioirono”, che esprime il loro sollievo psicologico e spirituale per l'attuarsi di un assassinio. Significativo, pertanto, è questo accostamento che Luca fa tra il cruccio del “come uccidere” Gesù e la gioia per poterlo finalmente fare. E il tutto si riduce ad una manciata di soldi. Questi accostamenti che l'autore fa mettono in rilievo l'abiezione spirituale e morale in cui erano cadute le autorità giudaiche e, peggio ancora, Giuda. Ma questa è l'ora del potere delle tenebre (v.53b), quella che Giovanni definisce la notte.

Secondo preambolo: il contesto pasquale (vv.7-13)



Un premessa per capire meglio: Quando cadeva la Pasqua giudaica?21


Da una prima superficiale lettura sembra che la Pasqua nei Sinottici venga fatta cadere o venga identificata con la festa degli Azzimi, se non addirittura posticipata rispetto a quest'ultima22. Solo Luca, invece, confonde la festa della Pasqua con quella degli Azzimi, caratteristico questo di un non ebreo23: “Si avvicinava la festa degli Azzimi, chiamata Pasqua” (Lc 22,1). Ma è significativo quello che Luca dice, perché indica quanto queste due feste fossero tra loro interconnesse, quasi a farne un'unica grande festa; e com'era il sentire popolare in merito alle due festività, anche se mai un ebreo le avrebbe tra loro confuse o sovrapposte.

Le due festività, originariamente, erano sorte in contesti culturali e storici molto diversi e lontani nel tempo. La Pasqua, la cui etimologia è incerta24, era una festa caratteristica dei pastori, che, dopo la pausa invernale, sul far della primavera (marzo-aprile), al sorgere della luna nuova, riprendevano il loro peregrinare in cerca di nuovi pascoli per le greggi. In questo contesto temporale veniva sacrificato un giovane animale per la prosperità e la fecondità degli armenti. Il sangue, messo sui sostegni delle tende, aveva un significato squisitamente apotropaico, serviva per tenere lontane le potenze malefiche, il mašhît, lo Sterminatore, il cui ricordo è conservato nella tradizione jahvista (Es 12,23). Altri particolari accentuano il carattere nomadico della Pasqua come il mangiare la vittima arrostita senza attrezzi da cucina, con pani non lievitati, ancor oggi usati dai Beduini, e con erbe amare selvatiche, che sono i prodotti tipici del deserto e che servono per condire il pasto frugale, caratteristico del nomade. Questi consumava il pasto con i fianchi cinti e i calzari ai piedi e con il bastone del pastore in mano, come per una lunga marcia. Questo rituale è stato assimilato anche da Israele al tempo del suo nomadismo e soltanto in un tempo successivo venne associato alla sua liberazione e reinterpretato alla luce di quegli eventi, divenendone un rituale e un memoriale (Es 12,14). Una traccia di questa preesistenza presso il popolo ebreo ci viene offerta da Es 3,18; 5,3; 8,23 dove si parla di un sacrificio da compiere al Signore, a tre giorni di cammino nel deserto.

La Pasqua, dunque, è una festa propriamente pastorale, associata al periodo nomadico di Israele e
che certamente Israele ha ereditato da altri popoli nomadi.

Parallela alla festa della Pasqua e, nel tempo, ad essa associata è quella degli Azzimi o massôt, pani senza lievito. Questa festa agricola segna l'inizio della mietitura dell'orzo, che è la prima dell'anno. A partire da questa festa “Conterai sette settimane; da quando si metterà la falce nella messe comincerai a contare sette settimane; poi celebrerai la festa delle settimane25 per il Signore tuo Dio, offrendo nella misura della tua generosità e in ragione di ciò in cui il Signore tuo Dio ti avrà benedetto” (Dt 16,9-10). La festa degli Azzimi, la cui durata era di una settimana, dal 15 al 21 di Abib o Nisan26 (Es 12,18), è una festività che il popolo ebreo ha incominciato a praticare dopo il suo ingresso a Canaan27 (circa 1200 a.C.) e che, probabilmente, Israele ha mutuato dalle popolazioni cananee, adattandola, poi, alle proprie esigenze religiose. Essa, nel suo carattere iniziale, era una semplice offerta delle primizie della terra. Successivamente venne celebrata con un suo proprio rituale, ricordato nel libro del Levitico: “Il Signore aggiunse a Mosè: Parla agli Israeliti e ordina loro: Quando sarete entrati nel paese che io vi do e ne mieterete la messe, porterete al sacerdote un covone, come primizia del vostro raccolto; il sacerdote agiterà con gesto rituale il covone davanti al Signore, perché sia gradito per il vostro bene; il sacerdote l'agiterà il giorno dopo il sabato. Quando farete il rito di agitazione del covone, offrirete un agnello di un anno, senza difetto, in olocausto al Signore. L'oblazione che l'accompagna sarà di due decimi di efa di fior di farina intrisa nell'olio, come sacrificio consumato dal fuoco, profumo soave in onore del Signore; la libazione sarà di un quarto di hin di vino. Non mangerete pane, né grano abbrustolito, né spighe fresche, prima di quel giorno, prima di aver portato l'offerta al vostro Dio. E' una legge perenne di generazione in generazione, in tutti i luoghi dove abiterete” (Lv 23,9-14). Durante la festa di questi sette giorni si mangiava pane con farina nuova, senza lievito e senza nulla che provenisse dal vecchio raccolto. Si trattava, quindi, di un nuovo inizio. Anche questa festa, di origine agricola e quasi certamente cananea, è stata rivisitata e risignificata da Israele e agganciata allo stesso significato della Pasqua (Es 12,15-20), molto probabilmente per la continuità logica dell'unico atto salvifico: liberazione dalla schiavitù egiziana (Pasqua) e insediamento nella Terra promessa (Azzimi).

Le due festività, quella della Pasqua e quella degli Azzimi, l'una, come si è visto, di origine pastorale e nomadica, l'altra agricola e stanziale, venivano celebrate entrambe nello stesso mese di Abib o Nisan. Con la riforma di Giosia (622 a.C.) le due festività vennero tra loro associate, quanto al tempo, e poiché la Pasqua era celebrata anch'essa con pani azzimi e le due festività facevano memoria dello stesso evento salvifico, parve opportuno congiungere le due feste. La prima congiunzione è testimoniata da Es 12,1-18 e Lv 23,5-8, in cui le due festività sono prescritte l'una dietro l'altra. La seconda congiunzione, che sembra essere una vera e propria fusione delle due feste, è data da Dt 16,1-8. Il modo ebraico, poi, di contare i giorni, dalla sera alla sera del giorno dopo, ne ha rafforzato l'aggancio. Questa era la situazione al tempo del giudaismo del I sec. d.C., e a questa situazione fanno riferimento gli evangelisti.

Ora, tutti i Sinottici fanno coincidere la Pasqua con il primo giorno degli Azzimi28. Tuttavia, va compreso attentamente il loro modo di esprimersi e, in particolar modo, il loro modo di contare i giorni, poiché le festività della Pasqua e degli Azzimi erano ritualmente distinte, e benché legate allo stesso evento salvifico, tuttavia esse si riferivano a due momenti distinti dello stesso: la Pasqua celebrava il passaggio del Signore, che sterminò i primogeniti, creando quindi la condizione per la liberazione; gli Azzimi, invece, celebravano l'uscita di Israele dall'Egitto (Es 12,17), conseguente alla liberazione. Tuttavia, Matteo, e così similmente dicono gli altri, afferma: “Ora, il primo giorno degli Azzimi, i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: <<Dove vuoi che ti prepariamo la Pasqua?>>” (26,17). Detto in questo modo, sembra che la Pasqua coincida con il primo giorno degli Azzimi, anzi, per la verità, a rigor di logica, con il secondo giorno degli Azzimi, considerato che la Pasqua veniva celebrata alla sera (26,20a), momento in cui iniziava il giorno seguente29. Infatti, se la richiesta fatta dai discepoli a Gesù avveniva, secondo i Sinottici, nel primo giorno degli Azzimi (26,17a) e la Pasqua doveva essere mangiata alla sera di quel giorno (26,17b.20), allora già si era entrati nel secondo giorno degli Azzimi. Così ragionando, inoltre, si va incontro ad un'altra incongruenza, poiché, proprio quel primo giorno degli Azzimi, dicono i Sinottici, si immolavano gli agnelli pasquali30, operazione questa che avveniva, invece, nel pomeriggio della vigilia di Pasqua. Un gran guazzabuglio, dunque, se ci accostiamo con la nostra mentalità tecnico-scientifica al modo di esprimersi dei Sinottici.

In realtà la Pasqua era celebrata prima che iniziasse la festa degli Azzimi, che, invece, la seguiva immediatamente. Il motivo di questa apparente sfasatura risiede soltanto nel modo popolare di intendere la festività degli Azzimi. Stabiliamo, pertanto, alcune date, premettendo che il giorno per gli ebrei iniziava la sera, al tramonto del sole, intorno alle nostre ore 18,00 circa e terminava la sera successiva, sempre al tramonto del sole. Ogni giorno, pertanto, aveva due sere: quella con cui iniziava e quella con cui terminava. La Pasqua doveva essere celebrata la sera del 14 di Abib o Nisan31 (Nm 28,16) e quando si parla di sera si deve intendere qui la prima sera, quando sorgeva il nuovo giorno; pertanto, quando i discepoli chiedono a Gesù dove desiderava che si preparasse la Pasqua, era il 13 di Nisan, poiché la Pasqua, venendo celebrata la sera di quel giorno (Mt 26,20a), veniva celebrata di fatto all'inizio del nuovo giorno, il 14 di Nisan, la prima sera del 14, essendo il giorno compreso tra due sere: quella con cui terminava il 13 di nisan e quella con cui iniziava il 14 di nisan. La sera, pertanto, era il momento di passaggio tra un giorno e l'altro. Il nuovo giorno, quindi, il 14 di Nisan, cominciava nel tardo pomeriggio del giorno 13, al tramonto. Similmente, la festività degli Azzimi iniziava al termine della festa di Pasqua, cioè nella seconda sera del giorno 14 di Nisan, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 di Nisan. In buona sostanza, come si è già poc'anzi detto, ogni giorno aveva due sere: quella con cui iniziava e quella con cui terminava. Perché allora gli evangelisti parlano del primo giorno degli Azzimi, quando invece, come abbiamo visto, era il 13 di Nisan, mentre gli Azzimi incominciavano il 15 (Lv 23,6), cioè alla seconda sera del 14, al suo spirare? Il motivo è duplice: sia perché la cena pasquale si consumava con pane azzimo (Es 12,8; Nm 9,11), che nulla comunque aveva a che vedere con il pane azzimo della festa degli Azzimi, ma che nella mentalità popolare entrambe le feste, Pasqua e Azzimi, venivano probabilmente assimilate o forse anche grossolanamente confuse, facendo così di tutta l'erba un fascio; sia perché per la sera del giorno 14, la seconda sera del 14, al termine della Pasqua, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 degli Azzimi, la casa doveva essere perfettamente ripulita da tutta la pasta fermentata e dal pane. Questa pulizia avveniva alla vigilia della Pasqua, cioè il 13 di Nisan, e vi era un particolare rituale da osservare scrupolosamente. Il divieto di mangiare pane fermentato durante la festa di massot, infatti, portava a compiere profonde pulizie della casa, perché non rimanessero resti di cibi fermentati, nessuna briciola spersa in qualche cassetto o addosso a qualche vestito. Terminate le pulizie alla vigilia della Pasqua, il padrone di casa, recitata una benedizione, ispezionava attentamente che fossero state compiute diligentemente; mentre le stoviglie, che avevano contenuto cibi fermentati, venivano rese kosher, cioè rese nuovamente idonee ad essere usate. Per sola estensione, quindi, il giorno 13 di Nisan era convenzionalmente considerato il primo giorno degli Azzimi, ma in realtà ne era soltanto la preparazione, una sorta di parasceve. La vera festa incominciava alla fine della giornata di Pasqua, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 di Nisan. Sempre nello stesso giorno, il 13 di Nisan, tra la nona e l'undicesima ora (le nostre 15,00-17,00)32 erano anche immolati gli agnelli al Tempio, in preparazione della Pasqua, che veniva celebrata qualche ora dopo. Si comprende, quindi, anche perché Marco esordisce dicendo: “Era il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la pasqua” (Mc 14,12); e similmente Luca: “Ora, venne il giorno degli Azzimi, nel quale bisognava immolare la pasqua” (Lc 22,7). Rituale questo che era dettato da Es 12,3-6 e che si compiva alla vigilia della Pasqua, il 13 di nisan, ed era in sua funzione.


Testo a lettura facilitata

Il contesto (v.7)

7 – Ora venne il giorno degli Azzimi, in cui bisognava immolare la pasqua.

Una dettagliata predizione (vv.8-12)

8 – E inviò Pietro e Giovanni, dicendo: <<Partiti, preparateci la pasqua affinché (la) mangiamo>>.
9 – E questi gli dissero: <<Dove vuoi (che) prepariamo?>>.
10 – Ed egli disse loro: <<Ecco, entrati voi nella città, vi verrà incontro un uomo che porta un'anfora d'acqua; seguitelo nella casa nella quale entra,
11 – e direte al padrone della casa: “Il maestro ti dice: dov'è l'alloggio dove mangio la pasqua con i miei discepoli?”.
12 – E quello vi mostrerà un grande piano superiore allestito; là preparate>>.

La constatazione (v.13)

13 – Ora, partiti, trovarono come aveva detto loro e prepararono la pasqua.


Note generali

Se la pericope vv.1-6 costituiva il preambolo ai capp.22-23, dal quale scaturirà, a cascata, una serie di eventi che porteranno Gesù sulla croce e, quindi, costituisce l'innesco dell'intero dramma, questa seconda pericope, vv.7-13, forma il preambolo che focalizza l'attenzione del lettore sull'ultima cena, fornendo degli input che gli suggeriscono di leggere la cena pasquale in senso cristologico. Il contesto che qui vene creato, infatti, è marcatamente pasquale e lo si indica come il giorno in cui “bisognava immolare la pasqua”, cioè il giorno in cui l'agnello pasquale veniva sacrificato. Ed è in tale contesto che si collocherà la cena pasquale (vv.14-18), che viene, seduta stante, sostituita, quasi di soppiatto e impercettibilmente, creando una sorta di continuità logica, con la nuova cena pasquale (vv.19-20), che segna il passaggio tra l'antico e il nuovo rito, in cui un nuovo agnello pasquale sta per essere immolato, anzi già in qualche modo è immolato in quel pane spezzato e in quel vino “sparso”, preludendo e in qualche modo anticipando ciò che da lì a poche ore sarebbe successo, creando così un forte e inscindibile nesso tra la nuova cena pasquale e la morte di Gesù, così che questa ne diviene la celebrazione ritualizzata.

Un racconto sostanzialmente identico agli altri due Sinottici se non fosse che qui, nel racconto lucano, gli attori che prendono l'iniziativa per la preparazione del banchetto pasquale non sono i discepoli, indicati in forma generica da Matteo e Marco, bensì Gesù stesso, che affida l'incombenza non a dei discepoli qualsiasi, ma a Pietro e Giovanni, i due capi delle comunità gerosolimitane più importanti e per un certo periodo anche contrapposte tra loro, così che quella giovannea dovette migrare e stanziarsi ad Efeso, raggruppata attorno al discepolo prediletto, e dove prese vita il quarto vangelo.

Una sostituzione, quella che Luca ha operato, certamente non casuale, ma molto significativa: l'attore primo ed unico di questa particolare celebrazione pasquale; di questo antico rito destinato ad evolversi in un nuovo rito è soltanto Gesù. E fin da subito l'autore lo indica tale ai suoi lettori. È lui il fautore del proprio destino. Un particolare, quest'ultimo, che apparirà meglio nel corso del racconto (vv.7-13), che potremmo considerare come una sorta di cuscinetto tra gli intrallazzi delle autorità giudaiche con Giuda (vv.1-6) e la celebrazione pasquale (vv.14-20), e che Luca ha in qualche modo costruito sulla falsa riga di quello dell'entrata di Gesù a Gerusalemme (19,29-32), la cui finalità, in entrambi i casi, è quella di evidenziare la prescienza di Gesù e, quindi, la sua onnipotenza. In altri termini, non sono gli altri a sospingerlo verso la croce, ma è lui che prende l'iniziativa, in obbedienza ad un piano divino che in qualche modo traluce in quel “bisognava immolare la pasqua” (v.7b), dove quel “bisognava” non dice soltanto il conformarsi dell'ebreo ad una ritualità sancita dalla Torah, ma va ben oltre, là dove un altro agnello sta per essere immolato, sostituendosi al primo, figura di quest'ultimo e il tutto secondo un piano divino prestabilito, che riecheggia in quel “bisognava”.

Ma il comandare di Gesù a Pietro e Giovanni di preparare la pasqua non dice soltanto l'iniziativa di Gesù, che guida i propri destini, ma in qualche modo anticipa quel “fate questo in memoria di me”, cioè il comando di perpetuare quella pasqua, affidandone la preparazione e la celebrazione ai suoi. (v.19) nel corso dei secoli.

La struttura della pericope è scandita in tre parti:

  1. il contesto pasquale, entro il quale viene incorniciato il rito della pasqua e dell'ultima cena (v.7);

  2. il racconto dettagliato di una predizione, finalizzato a rilevare la prescienza e onnipotenza di Gesù, fautore, dunque, dei propri destini e non vittima inconsapevole di una macchinazione e di un tradimento (vv.8-12);

  3. la constatazione e, quindi, la messa in evidenza testimoniale del potere di Gesù da parte di Pietro e Giovanni, ai quali era stato dato l'incarico di preparare la pasqua (v.13).


Commento ai vv. 7-13

Parimenti al v.1, che apre la pericope vv.1-6 con una nota temporale, segnalando la prossimità della “festa degli Azzimi, detta Pasqua”, anche il v.7 si apre con una nota temporale, che avverte come la preannunciata festività della pasqua sia giunta: “Ora venne il giorno degli Azzimi, in cui bisognava immolare la pasqua”. Sebbene qui sembri esserci soltanto un semplice aggiornamento temporale rispetto al v.1, tuttavia lo scenario cambia radicalmente e sostanzialmente.

Al v.1 la festa della pasqua viene identificata con quella degli Azzimi, benché, come si è detto sopra, siano due festività nettamente distinte, ma le cui celebrazioni vennero nel tempo strettamente associate al punto da percepirle come un'unica festività e i cui rituali vennero in qualche modo tra loro accomunati (Dt 16,1-8). La sensibilità popolare, poi, che tende a semplificare le cose, ha fuso tra loro le due festività. Il v.7, di seguito al v.1, annuncia la seconda nota temporale: “Ora venne il giorno degli Azzimi, in cui bisognava immolare la pasqua”. Un versetto questo comune anche agli altri due Sinottici. Alla luce di quanto fin qui detto (pagg.8-9), quel “giorno degli Azzimi” dovrebbe trattarsi del giorno della pasqua. Tuttavia ciò che crea problemi e riapre la discussione è la precisazione, che ritroviamo identica anche in Mc 14,12b: “in cui bisognava immolare la pasqua”. L'espressione “immolare la pasqua” significa “immolare l'agnello pasquale” la quale cosa non avveniva nel giorno di pasqua, bensì poche ore prima del suo avvento. Pertanto, se la pasqua cade il 14 di nisan, l'immolazione degli agnelli, che avveniva presso il Tempio, cadeva il 13 di nisan e più precisamente tra la nona e l'undicesima ora, corrispondenti alle nostre 15,00-17,00, benché, dopo la riforma di Giosia (622, a.C.), che accentrava il rito dell'immolazione presso il Tempio, ci si sia trovati nella necessità, considerata l'alta concentrazione delle immolazioni, a dover estendere il tempo dalla sesta ora fino alla diciottesima ora, corrispondenti alle nostre 12,00-18,00. Di conseguenza anche la richiesta dei discepoli a Gesù sul dove preparare la pasqua o, per Luca, Gesù ordina a Pietro e a Giovanni di andare a preparare la pasqua, in entrambi i casi, le richieste vanno fatte sempre cadere il 13 di nisan, considerato che la pasqua aveva inizio la prima sera del 14 di nisan, allo spirare del giorno 13 di nisan.

Come intendere, poi, Mc 14,12a e Mt 26,17a allorché dicono: “Nel primo giorno degli Azzimi”? I tre Sinottici, infatti, quando qui parlano del “primo giorno degli Azzimi” o più semplicemente per Luca “il giorno degli Azzimi, in cui bisognava immolare l'agnello” non fanno più riferimento alla “festa degli Azzimi, detta pasqua” (v.1), ma ad un altro giorno ancora e questo giorno è qualificato come il giorno in cui venivano immolati gli agnelli per la pasqua e quindi si tratta del 13 di nisan. Perché questo 13 di nisan viene chiamato il “primo giorno degli Azzimi”, quando questo subentrava alla pasqua, 14 di nisan, e, quindi, il vero primo giorno degli Azzimi era il 15 di nisan? Il motivo è duplice: sia perché la cena pasquale si consumava con pane azzimo (Es 12,8; Nm 9,11), che nulla comunque aveva a che vedere con il pane azzimo della festa degli Azzimi, ma che nella mentalità popolare venivano probabilmente assimilati o forse anche grossolanamente confusi; sia perché per la sera del giorno 14, al termine della Pasqua, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 degli Azzimi, la casa doveva essere completamente ripulita da tutta la vecchia pasta fermentata e dal pane. Questa pulizia avveniva alla vigilia della Pasqua, cioè il 13 di Nisan. Per sola estensione, quindi, il giorno 13 di Nisan era convenzionalmente considerato il primo giorno degli Azzimi, ma in realtà ne era soltanto la preparazione, una sorta di parasceve.

A differenza di Mc 14,12 e Mt 26,17, dove i discepoli prendono l'iniziativa di chiedere dove mangiare la pasqua, il Gesù lucano designa lui due discepoli, Pietro e Giovanni, quelli che Gal 2,9, assieme a Giacomo, definirà le colonne della comunità gerosolimitana. Dà loro un segnale preciso per individuare il luogo della celebrazione. Dopo la riforma centralizzante di Giosia (622 a.C.), infatti, la celebrazione della pasqua doveva avvenire a Gerusalemme e i suoi abitanti erano tenuti ad ospitare i pellegrini33. È da pensare, pertanto, che Gesù avesse già preso accordi con il proprietario della casa che lo doveva ospitare con i suoi; o, forse, più probabilmente, considerata la fama di Gesù, fosse stato il proprietario stesso ad offrire la sua ospitalità a Gesù. Del resto non era la prima volta che Gesù veniva invitato (Lc 5,29; 7,36; 11,37). E ciò che questo tale offre a Gesù, infatti, non è un ripostiglio o una stanzuccia rabberciata in qualche modo, come lascia intendere il v.11 (kat£luma, katálima34) ma un “¢n£gaion mšga” (anágaion35 méga) una grande sala da pranzo al piano superiore36 già allestita per la cena pasquale e quindi opportunamente addobbata per l'occasione. Il contrasto tra quanto richiesto (una semplice stanza) e quanto offerto (una sala appositamente addobbata) lascia intravvedere già in questo l'importanza di quanto qui vi si celebrerà (vv.14-18) e accadrà (vv-19-20). Non si trattava, quindi, di cercare un luogo, ma di individuarlo. Ed è proprio su questa individuazione che Marco e Luca costruiscono il loro racconto, finalizzato a mettere in rilevo la prescienza di Gesù, che verrà poi testimoniata dai due discepoli, Pietro e Giovanni, per Luca. Soltanto da due discepoli per Mc 14,13a. Due, dunque, il numero legale minimo per poter dare veridicità alla testimonianza stessa, posta a conclusione del racconto (v.13; Mc 14,16b). Il racconto dell'individuazione del luogo dove preparare la pasqua è molto dettagliato e circostanziato e l'autore vi dedica ben cinque versetti (vv.8-12), così che i vv.7.13 fungono da cornice al racconto stesso, che è preparatorio a quello della cena pasquale. La cura che Luca e Mc 14,12-16 dedicano a questo racconto, il cui contenuto è di per sé del tutto insignificante, tradisce il loro intento cristologico: mettere in rilievo la messianicità di Gesù, lasciando trasparire in qualche modo la sua divinità, rafforzando il tutto con la testimonianza legale di due testimoni, due semplici discepoli per Marco; due nomi di rilievo all'interno della comunità credente di Gerusalemme per Luca. È Gesù, dunque, che comanda gli eventi che gli stanno per accadere e non ne è vittima. Tutto si svolge secondo un piano prestabilito, che quel “bisognava immolare la pasqua” (v.7b) lascia in qualche modo trapelare.

Il comando di Gesù, una volta individuata la casa ospitante, è “là preparate”. La preparazione non consisteva certamente nel preparare la stanza, che già era “allestita” (v.12a) per la celebrazione del rito pasquale, ma si trattava di preparare la cena secondo i complessi dettami del cerimoniale. “Occorreva purificare e adornare la sala, preparare l'agnello, che doveva essere senza difetti, di un anno, cotto senza rompergli alcun osso, perché rappresentava l'intero Israele; un'insalata di cinque tipi di erbe amare, un vaso di prezzemolo, vino rosso, un bacile di aceto; un dolce di mele, mandorle e fichi dal colore mattone”37. Ma come già si è sopra accennato, questo comando di Gesù, “là preparate”, dato a due capi della comunità gerosolimitana, lascia tralucere fin d'ora quell'altro comando, della nuova pasqua cristiana: “fate questo in memoria di me” (v.19).



L'ultima cena: la celebrazione della pasqua ebraica e l'istituzione dell'eucaristia
(vv.14-20)


La data dell'Ultima Cena:

Problemi di calendario

o diverse comprensioni cristologiche?




Strettamente legata al cadere della Pasqua giudaica è la questione della data dell'Ultima Cena, su cui si è scritto e si continua scrivere molto, ma senza arrivare ad una condivisa e pacifica soluzione. La questione, anche se ha trovato per il passato autorevoli e serie proposte, ad oggi ancora valide38, tuttavia non ha ancora trovato il suo punto fermo.

Prima di affrontare la datazione dell'ultima cena, così come presentata dai Vangeli, ritengo opportuno fare una breve premessa per comprendere il modo che gli ebrei avevano di contare i giorni e il loro modo di esprimersi al loro riguardo. Come vedremo subito, varia molto il concetto di rapporto tra tempo e avvenimenti. Per noi occidentali, figli dell'Illuminismo, il tempo è un contenitore determinato da rigidi calcoli astronomici entro cui si collocano i fatti, prigionieri del tempo. Al contrario, per gli ebrei sono questi ultimi, i fatti, a determinare il tempo; sono gli avvenimenti che consacrano il tempo e lo definiscono, dandogli una sua identità. È necessario, quindi, riferirsi agli eventi per comprendere il tempo del loro accadimento. Per gli ebrei, quindi, è il tempo legato ai fatti e non viceversa. Il calendario, che stabiliva la celebrazione delle feste, era legato all'accadimento di quell'avvenimento salvifico e non era il tempo che lo determinava.

Nel rispetto di questa logica, vediamo ora i due avvenimenti di cui si parla al cap.12 del Libro dell'Esodo: la Pasqua e gli Azzimi. Secondo Es 12,12.23 la Pasqua celebra la notte in cui lo Sterminatore passò sull'Egitto uccidendo tutti i suoi primogeniti, uomini e animali. Era la decima piaga, quella che dette il colpo di grazia alla pervicace chiusura del faraone e lo costrinse a sbarazzarsi degli ebrei, lasciandoli andare per la loro strada. Era la liberazione (Es 12,29-33). La Pasqua, dunque, celebra l'evento del passaggio del Signore, che avvenne di notte (“In quella notte io passerò”). Ed è quella notte che viene ritualizzata (Es 12,12-14); è la notte di un nuovo giorno, nato poche ore prima, al tramonto del sole. Il tempo che stabilisce la celebrazione della Pasqua, quindi, gira tutto attorno all'evento del passaggio del Signore. Ed ecco, ora, la festa degli Azzimi, che secondo Es 12,17, celebra non la liberazione dal faraone, ma la sua conseguenza: l'uscita dall'Egitto. Si tratta, dunque, di due eventi salvifici diversi, l'uno conseguente all'altro, l'uno dipendente dall'altro, l'uno complementare dell'altro; pertanto, anche i tempi sono diversi, l'uno conseguente all'altro (Nm 28,16-17; 33,3): il quattordici di nisan c'è la Pasqua (Nm 9,2-3), il quindici di nisan gli Azzimi (Lv 23,6).

Ora, soffermiamoci sul modo che gli ebrei avevano di riferirsi al tempo, per noi, figli della scienza, equivoco e imbarazzante, ma per il loro modo di scandire il tempo con i fatti, estremamente chiaro e inequivocabile. Es 12,6; Nm 9,3.5.11; 28,16 affermano che la Pasqua deve essere celebrata alla sera del quattordici. Sennonché Es 12,18 afferma parimenti che alla sera del quattordici ha inizio la festa degli Azzimi, che durerà sette giorni, fino al 21 del mese. All'apparenza Es 12,16 e Es 12,18 ponendo due eventi distinti alla sera del 14 di nisan fanno coincidere la Pasqua con gli Azzimi, celebrando nello stesso momento, la sera del 14 di nisan, due eventi salvifici che hanno avuto tempi diversi, successivi l'uno all'altro. Conoscendo il rigore rituale degli ebrei, questo sarebbe semplicemente inconcepibile. Ma ciò è anche in netto contrasto con Lv 23,6 che pone l'inizio della festa degli Azzimi il giorno 15 di nisan e ne stabilisce la durata in sette giorni, fino al 21 del mese (Es 12,18). Così che il contrasto si accentua, perché facendo partire la conta dei sette giorni dalla sera del 14 di nisan, come vorrebbe Es 12,18, e fino al 21, i giorni non sono più sette, bensì otto. Inoltre, in modo inequivocabile, Nm 28,16-17 ritualizza due eventi diversi in due tempi diversi: il quattordici la pasqua; il quindici gli azzimi: “Il primo mese, il quattordici del mese sarà la pasqua del Signore. Il quindici di quel mese sarà giorno di festa. Per sette giorni si mangerà pane azzimo” e questo perché, ricorda Nm 33,3, gli ebrei uscirono dall'Egitto il giorno quindici di nisan, il giorno dopo la pasqua. Ci fu, dunque una svista da parte dell'autore, ponendo pasqua e azzimi tutti due la sera del 14 di nisan? No di certo, se pensiamo al modo di contare i giorni, che avevano gli ebrei: dalla sera alla sera successiva. Quindi il giorno era delimitato tra due sere: quella con cui iniziava e quella con cui terminava. È pertanto necessario capire a quale sera facesse riferimento l'autore. Ciò che ci aiuta a capire è la cadenza storica degli eventi celebrati: prima c'è la Pasqua, poi ci sono gli Azzimi, poiché sono due eventi distinti, come sottolinea Nm 28,16-17 e 33,3. Quando viene stabilita la celebrazione della Pasqua alla sera del 14 di nisan, va intesa la sera in cui inizia il 14 e cioè allo spirare del giorno 13 di nisan, intorno alle nostre ore 18,00 circa, al tramonto del sole. Illuminante è il modo di chiamare questo momento di passaggio tra i due giorni: “tra le due sere” (ben harbàym) (Nm 9,3a), cioè la sera del giorno che sta per finire e quella del giorno che sta per incominciare. Anche quando viene stabilita la celebrazione degli Azzimi si parla sempre della sera del quattordici, ma evidentemente è la sera in cui termina il 14 e inizia il 15 di nisan. Pertanto, come la Pasqua si pone tra le due sere, fine del 13 e inizio del 14, così anche per gli Azzimi, la loro celebrazione si pone tra le due sere, la seconda sera del 14, in cui finisce la Pasqua, e la prima sera del 15, in cui inizia il nuovo giorno e inizia, quindi, anche la festa degli Azzimi. La sera, dunque, è il confine di passaggio dei due giorni, così come per noi lo è la notte. Pertanto, quando l'agiografo parla della sera del 14 di nisan, talvolta intende dire la sera in cui ha inizio il 14 e, quindi, al termine del 13 di nisan, come in Es 12,6; talvolta intende proprio il giorno 14 di nisan, come in Es 12,8, in cui si parla “In quella notte”, cioè con riferimento al giorno 14, incominciato da qualche ora; altre volte, infine, intende dire il giorno in cui termina il 14 e inizia il 15 di nisan, come in Es 12,18. Ciò che qui è determinante per comprendere i tempi sono gli eventi che si compiono. Sono questi, infatti, che scandiscono il tempo e non viceversa, come per noi occidentali. Per cui, quando la Bibbia parla della sera del 14 di nisan, bisogna cercar di capire di quale sera stia parlando, se della prima, quando inizia il 14 o della seconda, quando termina il 14 e, quindi, di conseguenza inizia il 15. Ciò che determina se è la prima o la seconda è soltanto l'evento che viene celebrato. È l'evento, quindi, che qualifica il tempo e non viceversa.

Questo modo di ragionare va tenuto presente per il calcolo dell'ultima cena.

Come si è visto nella precedente premessa, tutti i Sinottici esordiscono con il racconto dell'ultima cena affermando che era il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la pasqua, cioè gli agnelli pasquali39. In questo giorno i discepoli chiedono a Gesù dove vuole che si prepari la cena pasquale, che si sarebbe svolta quella stessa sera40, probabilmente tra le 19,00 e le 21,00, quando era appena iniziato il giorno di pasqua. Si era detto anche come in realtà non si trattasse del primo giorno degli Azzimi, bensì della loro preparazione, che consisteva nel ripulire meticolosamente la casa da ogni pasta lievitata e da ogni briciola di pane. Questo avveniva lo stesso giorno in cui si immolavano gli agnelli pasquali al tempio, in preparazione della cena pasquale, che si sarebbe svolta da lì a poche ore, la sera. Stabilendo, pertanto, un calendario, tutto ciò avveniva il 13 di nisan, da mezzogiorno fino alle 18,00 circa. Dopo le 18,00 circa, al tramonto del sole, si entrava nel nuovo giorno, il 14 di nisan, giorno in cui iniziava la Pasqua, che si apriva con il rito della cena pasquale. La festa degli Azzimi iniziava al termine della Pasqua, cioè intorno alle 18,00 circa della seconda sera del 14 di nisan, al tramonto del sole, quando iniziava il nuovo giorno, il 15 di nisan, il giorno in cui si apriva la settimana degli Azzimi, che terminava allo spirare del giorno 21 di nisan. Si è visto, infatti, sopra, come il giorno per gli ebrei iniziasse con la sera e terminasse la sera successiva. Il contesto, quindi, in cui si svolse l'ultima cena, secondo i Sinottici, era chiaramente quello pasquale e l'ultima cena fu la cena pasquale, celebrata secondo le disposizioni del Seder41 pasquale.

Fino a questo momento, quanto detto dai Sinottici quadra perfettamente con la realtà storica, come si è visto. Ma terminata la cena pasquale, incominciano le incongruenze e tali da generare degli interrogativi sul tempo stesso in cui è avvenuta l'ultima cena e se questa fu veramente una cena pasquale. Analizziamo ora il succedersi degli eventi a partire dalla cena pasquale, che fu l'ultima cena. Il Gesù sinottico celebra la pasqua la prima sera del 14 di nisan42, la notte viene arrestato e subito portato davanti a Caifa, dove subisce il processo; viene condannato, dileggiato e maltrattato dai servi dei sommi sacerdoti43. Il mattino del 14 di nisan si tiene un consiglio tra le autorità religiose, che decidono di portarlo da Pilato, dal quale viene interrogato davanti alle autorità giudaiche, che glielo avevano portato. Pilato subisce le pressioni di queste e alla fine cede e consegna Gesù nelle loro mani perché fosse crocifisso44. Gesù viene crocifisso e muore verso le tre del pomeriggio e sul far della sera viene deposto dalla croce e messo nel sepolcro, nel rispetto di Dt 21,22-2345. Il tutto, secondo il racconto sinottico, è dunque avvenuto il giorno 14 di nisan, il giorno di Pasqua, nell'arco di 24 ore, dalla sera alla sera successiva, quanto dura un giorno, secondo il modo ebraico di contare il tempo. Infatti, la cena pasquale fu celebrata nella prima sera del 14 di nisan, mentre la sepoltura avvenne nella seconda sera del 14 di nisan, quindi, a ridosso dell'inizio del 15 di nisan, con cui iniziava la festa degli Azzimi. Il giorno successivo, il 15 di nisan, presumibilmente il mattino, le autorità religiose si recarono da Pilato per chiedere un corpo armato a custodia del sepolcro, per evitare eventuali trafugamenti del corpo di Gesù e pericolose dichiarazioni di risurrezione46. Quel giorno, sempre secondo i Sinottici, era quello successivo alla parasceve, cioè era non solo sabato, ma anche il 15 di nisan, cioè il primo giorno degli Azzimi, che era considerato festa solenne. L'insieme del racconto è verosimile e possiede una sua logica interna coerente, che lo rende credibile nello svolgersi dei fatti. Non è mia intenzione qui disquisire se questo denso svolgersi di avvenimenti sia stato possibile contenerlo in sole ventiquattro ore. Non va mai dimenticato che ci troviamo di fronte non ad una rigorosa cronaca giornalistica, bensì ad un racconto, nel quale i tempi contano relativamente e, comunque, sono sempre in funzione di ciò che si vuol raccontare. Ciò che qui, invece, non quadra sono i due contenitori, in cui sono collocati gli avvenimenti: la Pasqua (14 di nisan) e il primo giorno degli Azzimi (15 di nisan). Pasqua e primo giorno degli Azzimi, infatti, sono definiti dalla Torah come solennità del Signore47 e come tali, così come ogni altra festività, assimilati al sabato. Sono giorni, quindi, consacrati al Signore e come tali gli appartengono e, pertanto, sono sottratti alla disponibilità dell'uomo. Ora, i fatti riportati dai Sinottici circa la passione e la morte di Gesù sono in netto contrasto con le disposizioni religiose; dissacrano la solennità, che doveva essere giorno di riposo, di preghiera, di celebrazione e di memoria, poiché questi giorni sono stati definiti feste e solennità del Signore. Ma le autorità e il loro entourage non violano soltanto il divieto di lavorare, ma anche la regola della purità rituale, che le rendeva in tal modo inidonee a celebrare le festività (Pasqua e Azzimi). Le autorità religiose, infatti, si sono recate da Pilato, parlarono e trattarono con lui non solo il giorno di Pasqua, ma anche il giorno successivo, il primo degli Azzimi48. I Sinottici tacciono il particolare giovanneo che esse non entrarono nel pretorio per non contaminarsi. L'idea che qui si ha è che esse, invece, entrarono nel pretorio. Lo svolgersi dei fatti, inoltre, sono in netto contrasto con quanto esse avevano deciso: di non arrestare Gesù e di non farlo morire nel giorno di festa, cioè la Pasqua (Mt 26,5; Mc 14,2). In questa loro valutazione, tuttavia, sorge un'altra incongruenza poiché non si tiene conto che durante la Pasqua e per tutto il periodo degli Azzimi (15-21 di nisan), a motivo della solennità delle feste, era fatto divieto di ogni ogni attività processuale o esecuzione di condanne. La loro preoccupazione è tutta incentrata, invece, sul timore che non scoppiassero dei tumulti tra la gente (Mt 26,5; Mc 14,2). Non viene neppure rispettato il limite del cammino imposto nel giorno di sabato, poco meno di un Km. Se si considerano tutti i movimenti fatti dai diversi personaggi coinvolti, autorità comprese, il limite venne ampiamente superato. Mc 15,21 e Lc 23,26, poi, menzionano un uomo di Cirene, un tale di nome Simone, il quale veniva dalla campagna. Il luogo da dove egli proviene lascia intendere che tornasse dal lavoro, che secondo il racconto dei Sinottici egli avrebbe svolto durante il giorno di Pasqua, violando in tal modo la sacralità del riposo. Da ultimo, va ricordato che Gesù venne deposto dalla croce e nel sepolcro in giorno di Pasqua e chi lo ha fatto ha violato il proprio stato di purità rituale, rendendosi ritualmente inidoneo a celebrare gli Azzimi, essendo venuto a contatto con un cadavere. È da chiedersi, dunque, se questi accadimenti siano effettivamente avvenuti nel giorno della Pasqua (14 di nisan) o nel primo giorno degli Azzimi (15 di nisan), poiché per un ebreo, in particolar modo per le autorità religiose, non era pensabile una simile profanazione di due così grandi solennità (Pasqua e primo giorno degli Azzimi). Sembra quasi che il racconto della passione e morte di Gesù sia stato scritto da persone che ignoravano la legislazione ebraica e le disposizioni religiose e cultuali. Un ebreo, infatti, non si sarebbe mai sognato di porre un processo ed una esecuzione con relativa sepoltura nel giorno di pasqua o degli azzimi e della settimana che ne seguiva. Che dire, poi, delle discrepanze con i tempi scanditi dal racconto giovanneo della passione? Per Giovanni Gesù non è morto il giorno di Pasqua, bensì nella sua parasceve, cioè alla vigilia della Pasqua, il 13 di nisan, (Gv 19,14.31) e la cena che egli consumò con i suoi non fu cena pasquale, ma soltanto una cena, che potremmo definire d'addio (Gv 13,1-2). Insomma, i Sinottici pongono l'ultima cena e la passione e morte di Gesù nel giorno di Pasqua, il 14 di nisan, cosa questa che contrasta gravemente con le disposizioni religiose circa l'osservanza delle festività e delle solennità. Nulla cambia anche se queste venissero poste nel 15 di nisan o la settimana successiva. Il primo giorno degli Azzimi, infatti, è considerato tra le festività e le solennità del Signore.

Il problema, invece, per Giovanni è esattamente l'inverso: l'ultima cena, la passione e la morte di Gesù vengono a cadere in giorni per così dire feriali, neutri da un punto di vista religioso. Ma così posta la cosa lascia intendere chiaramente che l'ultima cena (Gv 13,1-2) per Giovanni non fu una celebrazione pasquale, ma soltanto una cena di addio. Quindi, tra le due versioni, Sinottici e Giovanni, i racconti si contrappongono non solo a livello temporale, ma anche sul significato dell'ultima cena: per i Sinottici è chiaramente pasquale dove Gesù ha istituito l'eucaristia; per Giovanni una semplice cena d'addio, fatta fra amici intimi. Comunque si mettano le cose, nascono dei problemi. Personalmente ritengo che non ci sia, di fatto, nessuna soluzione ai contrasti se non si tengono presenti due elementi rilevanti:

A) ci troviamo di fronte non ad un reportage cronachistico dell'epoca; non ad un inconfutabile documento storico, redatto secondo rigorosi parametri scientifici di storia, ma ad un semplice racconto, che noi erroneamente abbiamo affrontato con il nostro concetto scientifico di storia, trattandolo come un inimpugnabile documento storico. Il tempo nelle narrazioni non segue mai le logiche rigorose del diario di bordo, ma è finalizzato a mettere in evidenza il contenuto del racconto stesso. È il tempo che viene posto a servizio dell'evento e non viceversa. Il tempo ha qui il compito di mettere in rilievo il significato dell'evento. Il tempo, quindi, è soltanto un elemento narrativo posto in funzione dell'evento. Cercar, quindi, di ricostruire la cronaca entro cui collocare gli eventi, si rischia di non arrivare da nessuna parte. È l'evento che conta, non la scansione del tempo. Per gli evangelisti il tempo è soltanto un elemento teologico, posto al servizio della loro teologia e finalizzato alla comprensione degli eventi.

B) Il secondo elemento da considerare è che il racconto nei vangeli non è finalizzato a riportare una notizia storica, ma a trasmettere una testimonianza di fede, una comprensione cristologica degli eventi, di cui si narra e questi in rapporto alla salvezza. Il racconto, quindi, è sostanziato e supportato dalla cristologia propria dell'evangelista. Egli cerca, attraverso quel racconto, di trasmettere alla sua comunità il significato profondo di quel evento, perché la sua comunità creda e vinca, nella fede, ogni suo dubbio sull'evento Gesù. In questa ottica, come si è detto sopra, l'evangelista usa il tempo per mettere in evidenza il significato dell'evento, di cui sta parlando. Non ha importanza se evento e tempo sono tra loro incongruenti o stonano, l'importante è che l'abbinamento evento-tempo evidenzi il contenuto dell'evento stesso. Di fronte a queste incongruenze, dopo aver opportunamente verificato che tali siano, bisogna chiedersi che cosa l'evangelista voleva dire con questo abbinamento evento-tempo. È quindi necessario porsi dalla prospettiva dell'evangelista e non dalla nostra.

Ora, se applichiamo questi due principi sopra esposti a Gesù e all'ultima cena comprenderemo immediatamente come l'intento dei Sinottici sia quello di presentare Gesù come la nuova e vera Pasqua, che sostituisce l'antica pasqua, e come la sua ultima cena pasquale ha mutato profondamente quella ebraica, dandole un senso nuovo e, di fatto, sostituendosi ad essa; non solo, ma in quella cena pasquale, in quel pane spezzato e in quel vino versato, Gesù ha fornito anche una chiave di lettura della sua passione e morte, che sarebbero giunte da lì a poche ore. Tutto il resto perde di significato, anzi, meglio, acquista il suo giusto significato alla luce dell'evento-pasquale-Gesù. Tutto il contorno, quindi, della passione e della morte va letto in questa ottica teologica, cristologica e soteriologica e non in rigorosi termini storici.

Quanto a Giovanni, la sua narrazione della passione e morte di Gesù è finalizzata, invece, ad evidenziare la figura di Gesù come l'Agnello immolato. Egli in 1,29.36 definisce per due volte Gesù come l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Associa poi, in qualche modo, la sua morte al momento in cui presso il Tempio venivano immolati gli agnelli pasquali (Gv 19,14)49. Giovanni comprende, quindi, Gesù come l'Agnello immolato e questa immagine la ripropone per ben 29 volte nella sua Apocalisse, che tradizionalmente gli viene attribuita. Un'immagine questa che doveva essere diffusa nella chiesa primitiva se anche Paolo, richiamandosi al rituale della pasqua, sollecita la sua comunità di Corinto: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!(1Cor 5,7)50. Giovanni, dunque, aveva bisogno di un quadro temporale diverso da quello dei Sinottici per poter associare la morte di Gesù in croce al sacrificio degli agnelli immolati e così poter dare una comprensione della figura di Cristo, del suo patire e del suo morire.

Abbiamo, quindi, visto come i tempi e come lo svolgersi dell'ultima cena siano in funzione della comprensione cristologica, che gli evangelisti avevano avuto di Gesù. La manipolazione, quindi, dei tempi e dei fatti da parte degli evangelisti fa parte del loro concetto di storia, il cui intento non è quello di fornire un rigoroso rapporto storico-scientifico sugli eventi, la quale cosa appartiene a noi, ma non a loro, ma modificandone la cornice temporale e talvolta la forma, è quello di trasmettercene il contenuto, cioè il senso, che è, per loro, la primaria finalità della storia stessa. La discordanza51 sui tempi tra i Sinottici e Giovanni, va quindi ricomposta all'interno del loro racconto e della loro comprensione cristologica della figura di Gesù, del suo patire e del suo morire. Se non si tiene conto di questo si rischia di non andare da nessuna parte. In altri termini, non possiamo leggere i vangeli con la nostra mentalità tecnico-scientifica, ma con il concetto di storia che essi avevano: ad essi interessava l'anima degli eventi e facevano di tutto perché questa trasparisse dai fatti, manipolando, se necessario, tempi ed eventi; a noi, invece, importa soltanto la fisicità del corpo, perdendone l'anima, cioè il senso dell'evento.

Ciò premesso è da chiedersi, ora, quando è avvenuta l'ultima cena e se questa fu veramente cena pasquale, così come ce la passano i Sinottici. Quanto ai tempi entro cui porre l'evento dell'ultima cena e i fatti che la seguirono, arresto, processo, crocifissione e sepoltura di Gesù, va detto che è più credibile Giovanni che i Sinottici. Questi, infatti, ponendo l'ultima cena il 14 di Nisan incorrono in una serie di incongruenze che ho sopra rilevato (pagg,21-22), di cui sembrano non porsi il problema, perché il loro intento è rilevare il senso della persona di Gesù e del suo patire-morire-risorgere, non di certo la fattibilità degli eventi.

Per contro Giovanni, pur ponendosi il problema di assegnare a Gesù e alla sua passione-morte-risurrezione un preciso significato teologico e cristologico, tuttavia rispetta rigorosamente i tempi. Innanzitutto Giovanni non si pone il problema dell'ultima cena pasquale e della sua sostituzione con una nuova cena, quella eucaristica. Per l'evangelista, infatti, non ci fu nessuna cena pasquale, poiché il giorno di pasqua, il 14 di nisan, Gesù era non solo già morto, ma anche sepolto. Lo lasciano chiaramente intendere Gv 18,28; 19,31; 19,42 tre passi che pongono l'accadere degli eventi lì descritti anteriormente al 14 di nisan e più precisamente il 13 di nisan (Gv 19,14a).

Per Giovanni, pertanto, l'ultima cena di Gesù era iniziata la prima sera del 13 di nisan, quindi non fu una cena pasquale, né in essa si tenne alcun rituale istitutivo dell'eucaristia, ma soltanto un lunghissimo discorso durato cinque capitoli (13-17); dopo di che il suo arresto, gli interrogatori presso Anna e Caifa, Pilato e infine la sua crocifissione, morte e sepoltura. Il tutto (e qui Giovanni concorda con i Sinottici) si svolse in un unico giorno, dalla sera alla sera del giorno successivo, giorno in cui terminava la Parasceve e si entrava nel giorno di sabato, che l'evangelista definisce solenne, perché in quel sabato lì cadeva, quell'anno, la pasqua ebraica.

Il fatto, poi, che dopo le due cene si siano susseguiti una serie di accadimenti tali che difficilmente potevano essere contenuti in un solo giorno, non costituisce problema, poiché qui, torno a ripetere, ci troviamo di fronte ad un racconto in cui tempi ed eventi sono tra loro interconnessi e l'uno in funzione degli altri. Non va pertanto disquisito se era possibile che tutto quello che è successo sia stato contenibile o meno nelle ventiquattrore. Agli evangelisti interessano gli eventi da associare alla cena, sia essa pasquale o meno, non certo la tempistica. Dobbiamo, pertanto smetterla di spendere il nostro tempo alla ricerca della data perduta, perché non la troveremo mai. Per capire è necessario porsi dalla prospettiva degli evangelisti e non dalla nostra.

Rimane, ora, il quesito fondamentale, quello per cui probabilmente tanto ci si dà da fare per cercare una concordanza temporale tra le due cene: l'istituzione dell'eucaristia da parte di Gesù con il relativo comando di perpetuarla e alla quale si lega anche l'istituzione del sacerdozio, c'è stata oppure no?

Per rispondere a tale quesito è necessario fare un passo indietro e più precisamente a 1Cor 11,23-25: “Io, infatti, ricevetti dal Signore ciò che trasmisi anche a voi, che il Signore Gesù nella notte in cui era consegnato prese il pane e rese grazie (lo) spezzò e disse: <<Questo è il mio corpo il quale (è) per voi; fate questo in mia memoria. Allo stesso modo (prese) anche il calice dopo aver cenato, dicendo:<<Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo in memoria di me ogni volta che beviate>>52. Il testo paolino è di fondamentale importanza per capire se c'è stata, al di là di ogni possibile dubbio, l'istituzione dell'eucaristia e tale da superare la controversa testimonianza dei vangeli, sinottici e giovanneo53.

Va subito detto che confrontando i quattro testi che riportano l'istituzione dell'eucaristia (Mt 26,26-28; Mc 14,22-24; Lc 22,19-20; 1Cor 11,23-25) si riscontrano a livello testuale due convergenze e due divergenze: Matteo e Marco sono tra loro molto simili, ma si scostano nettamente da Luca e Paolo, che, invece, presentano testi pressoché sovrapponibili. Questo lascia intravvedere che Matteo e Marco abbiano seguito una loro fonte, che diverge testualmente da quella di Luca e Paolo. È probabile che quella di Paolo e Luca sia la più antica, databile intorno all'anno 35 d.C.54, difficile pensare a testi liturgici più antichi, considerando che queste formule liturgiche presuppongono prima la creazione di un racconto consolidato e diffuso tra le comunità.

Ciò premesso, solo qualche breve cenno sul testo paolino che lasci intravvedere come l'istituzione dell'eucaristia, al di là delle cene pasquali o meno o delle incongruenze che da queste possono discendere, abbia di fatto come origine Gesù stesso. Certamente qui il contesto è quello di una cena e quale che sia la natura di questa cena è ai fini dell'istituzione dell'eucaristia del tutto irrilevante, benché la mia preferenza cada nettamente su quella proposta da Gv 13,1-2, sia perché questa non rende incongruenti i fatti susseguitisi a questa cena, a differenza di quella pasquale dei Sinottici; sia perché Giovanni è considerato lo storico tra gli evangelisti e, quindi, il più attendibile.

Paolo introduce la formula liturgica eucaristica con due verbi molto significativi che creano una sorta di catena di trasmissione e sono fondativi della Tradizione: “paršlabon” (parélabon, ricevetti) e “paršdwka” (parédoka, trasmisi), che, risalendo, conduce da Antiochia, dove Paolo risiedeva, a Gerusalemme e da qui al Signore stesso. Paolo, quindi, lega la formula liturgica alla Tradizione, che trova la sua origine stessa nel “Signore”: “ricevetti dal Signore”. L'espressione va intesa correttamente. Qui Paolo non fa nessun riferimento a visioni o rivelazioni particolari, di cui comunque egli ha beneficiato (2Cor 12,1-4), ma quel “dal Signore” suggerisce che Paolo deve essersi accertato, probabilmente in un suo viaggio a Gerusalemme, dove ha conferito con i capi della comunità gerosolimitana, da dove proveniva quasi certamente la formula liturgica riportata da Paolo, dai quali ha avuto testimonianza e rassicurazione che a fondamento di quella formula liturgica lì c'è stato un episodio, la cui depositaria era sicuramente la comunità di Gerusalemme, considerata la chiesa madre e i cui capi, Pietro, Giacomo e Giovanni, considerati le colonne, erano parimenti testimoni diretti dell'episodio a cui la formula liturgica fa riferimento (Gal 1,18-19; 2,1-10). L'episodio ha una sua dimensione storica accennata nell'espressione “nella notte in cui fu tradito” entro la quale viene collocato l'episodio di una cena, la cui gestualità e i cui ritmi sono inconfondibilmente ebraici, caratteristici della mensa ebraica55. La storicità dell'episodio è stata trasformata ben presto in racconto e da qui la costruzione di una formula liturgica creata per l'uso liturgico della comunità stessa di Gerusalemme e, da qui, per tutte le comunità credenti che da Gerusalemme, quale chiesa madre, dipendevano o erano in stretta relazione. Non ci troviamo, quindi, di fronte ad una elaborazione dottrinale imposta ex cathedra, ma ad una prassi che si diffuse rapidamente presso le comunità credenti: il fare memoria, cioè il rendere presente, attraverso la parola e il rito, il Signore nella sua dimensione sacrificale e salvifica: pane spezzato e vino versato, quali simboli e luoghi reali della passione e morte di Gesù56.

Al di là, quindi, del racconto giovanneo dell'ultima cena non pasquale e senza istituzione dell'eucaristia; e al di là dei racconti sinottici dell'ultima cena pasquale, in cui è inclusa l'istituzione dell'eucaristia, ma che dà problemi di incongruenza quanto all'accadere dei fatti successivi, Paolo attesta nella Tradizione riportata, che l'istituzione dell'eucaristia ha un fondamento storico ed ha la sua origine nello stesso Gesù, collocata nel contesto di una cena.

Testo a lettura facilitata

Nel contesto dell'ora e della cena (v.14)

14 – E quando venne l'ora, si coricò (a tavola) e gli apostoli con lui.

La celebrazione della pasqua ebraica (vv.15-18)

15 – E disse verso di loro: <<Ho desiderato con desiderio di mangiare questa pasqua con voi, prima che io patisca.
16 – Vi dico, infatti, che non la mangerò finché questa non sia compiuta nel regno di Dio>>.
17 – E ricevuto un calice, rese grazie, disse: <<Prendete questo e distribuite(lo) tra voi stessi;
18 – Vi dico infatti che non berrò da ora dal prodotto della vigna finché non venga il regno di Dio>>.


L'istituzione dell'eucaristia (vv.19-20)

19 - E preso un pane, rese grazie, (lo) spezzò e diede a loro dicendo: <<Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in mia memoria>>.
20 – Allo stesso modo (prese) il calice, dopo aver cenato, dicendo: <<Questo calice (è) la nuova alleanza nel mio sangue sparso per voi.


Note generali

I racconti sinottici sull'ultima cena pasquale di Gesù, pur concordando sulla natura pasquale della cena e sull'istituzione dell'eucaristia in tale contesto, tuttavia divergono notevolmente nella sua narrazione: Mc 14,17-25 e Mt 26,20-29 sostanzialmente concordano tra loro; Lc 22,14-39 diverge notevolmente, costruendo il racconto a modo proprio e dandogli uno sviluppo più logico nello svolgersi dei fatti. Non si può, infatti, nel bel mezzo della cena pasquale (Mt 26,21a; Mc 14,18a), che è un rituale celebrativo, un memoriale regolamentato da un apposito Seder pasquale, sospenderlo per annunciare un tradimento, seguito poi dai commenti dei discepoli (Mt 26,21b-25; Mc 14,18b-21). Diversamente Lc 22,14 presenta una scena diversa: Gesù e i suoi si sono coricati a mensa, ma la celebrazione del memoriale ancora non sembra iniziata. Ed è proprio in questo frangente di attesa di iniziare la celebrazione che Gesù dà una nuova lettura alla pasqua ebraica, attribuendole un significato escatologico (vv.15-18), che prepara la comprensione di quanto avverrà ai vv.19-20, che elaborano un nuovo rituale in questa prospettiva escatologica, che solo 1Cor 11,26 evidenzia senza sottintesi: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga”. Solo successivamente, sembrerebbe al termine della celebrazione pasquale e dell'istituzione dell'eucaristia (vv.20-21), viene inserito l'annuncio del tradimento (vv.21-23), che fungerà narrativamente da trait-d'union con la sezione dei discorsi (vv.24-38), che solo Luca inserisce nel contesto dell'ultima cena, sulla falsariga del racconto giovanneo dell'ultima cena (Gv 13,1-2), dove Gesù farà un lunghissimo discorso che dura cinque capitoli (13-17).

Per contro Matteo e Marco fanno precedere l'annuncio del tradimento all'istituzione dell'eucaristia, seguendo in tal modo la formula paolina, che rispecchia la Tradizione: “Nella notte in cui era consegnato prese il pane e rese grazie (lo) spezzò e disse ...” (1Cor 11,23a).

La struttura del racconto dell'ultima cena pasquale è scandita in tre parti:

  1. L'annuncio del sopraggiungere dell'ora e il sedersi a tavola di Gesù e dei discepoli creano la cornice della mensa rituale in cui viene inserita una doppia cena: quella pasquale ebraica (vv.15-18) e quella istitutiva dell'eucaristia (vv.19-20);

  2. la cena pasquale a cui Gesù attribuisce un valore di prefigurazione in senso escatologico a quanto sta per succedergli (vv.15-18);

  3. nel contesto di questa cena pasquale Gesù attribuisce un nuovo significato a tale pasqua, mettendolo in stretta relazione con se stesso (vv.19-20). È l'istituzione dell'eucaristia.


Commento ai vv.14-20


Nel contesto dell'ora e della cena (v.14)

Il v.14 funge da cornice al racconto della cena pasquale al cui interno si colloca l'istituzione dell'eucaristia. Un versetto molto denso, scandito in tre parti. La prima è una nota temporale molto significativa, che introduce il racconto pasquale: “E quando venne l'ora”. Quel “Kaˆ” (Kaì, E) iniziale funge da legame alle due precedenti pericopi, introdotte anche queste da note temporali, che annunciano, la prima (v.1), in senso generico, l'avvicinarsi della “festa degli Azzimi detta Pasqua”; la seconda (v.7) segnala, in modo più specifico, che “venne il giorno degli Azzimi”, qualificandolo come il giorno in cui in cui “bisognava immolare la pasqua”, alludendo ad un altro Agnello immolato; ed infine la nota del v.14 in cui si annuncia che “l'ora” è giunta. Vi è in queste tre note temporali una progressiva escalation narrativa concentrica, la quale, man mano che il racconto procede, mette sempre più a fuoco la cena pasquale, non solo come luogo di una celebrazione di un evento salvifico raggiunto nell'oggi attraverso la sua ritualizzazione, ma anche come il luogo di un altro evento salvifico che completa il primo, che, in qualche modo, lo prefigurava. Significativo è quell'annuncio dell'ora che indica il punto temporale, che costituisce il vertice del racconto lucano, poiché qui avviene l'incontro e il completamento-sostituzione di due eventi salvifici, che vengono strettamente legati alla passione-morte-risurrezione di Gesù: la celebrazione della pasqua ebraica, che attraverso una precisa ritualizzazione rendeva presente l'evento della liberazione di Israele, a seguito del quale Israele riceverà una sua nuova identità, quale proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5b-6a), cioè partecipe della vita stessa di Dio, di cui la Santità è prerogativa. Il secondo evento complementare e sostitutivo del primo sono il pane e il vino, elementi essenziali e propri della pasqua ebraica, che qui, in questa “ora”, vengono risignificati, invitando a leggere, sull'eco di questa, una nuova liberazione e una nuova riqualificazione del credente che ha come fondamento un pane-corpo spezzato e un vino-sangue versato “per voi”, in cui in quel “per voi” si ritrova chiunque abbia deciso la propria vita per quel pane spezzato e per quel vino versato, così che “... quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (Gv 1,12-13). Si tratta, dunque, di un'ora che costituisce il vertice della storia della salvezza, dove tutto ciò che è stato prefigurato trova in quest'ora il suo compimento, che ritualizza in quel pane-corpo spezzato e in quel vino-sangue versato l'evento salvifico che si fa offerta di salvezza per chiunque lo accolga nella propria vita.

La seconda parte del v.14 presenta un Gesù che si corica a mensa. Non si parla di sedersi, ma di coricarsi, alla maniera propria del mondo greco-romano, ma che assume per l'ebreo il significato di una posizione che qualifica l'uomo libero in quanto liberato; mentre la terza parte del v.14 attesta che “gli apostoli con lui”. Non si parla più qui di discepoli, ma di “apostoli”, di quelli che Gesù ha chiamato con sé (6,13) perché condividessero la sua sorte; il ceppo fondativo della chiesa per Luca: “Ora, voi siete coloro che sono rimasti con me nelle mie prove” (v.28). Ed è proprio in questa prospettiva che l'evangelista attesta che anche gli apostoli si coricarono con Gesù a quella mensa del pane-corpo spezzato e del vino-sangue versato, condividendone in tal modo la sorte. Si tratta, quella del coricarsi alla mensa con Gesù, in cui viene ritualizzata la sua morte, di una sequela che in qualche modo riecheggia, anticipandolo in qualche modo, il v.39b in cui si racconta che Gesù “uscito, andò, secondo la consuetudine, al monte degli Ulivi; ora, lo seguirono anche i discepoli.”. Ancora una volta torna il richiamo di una sequela, posta all'interno di un contesto di sofferenza e di morte.

La celebrazione della pasqua ebraica (vv.15-18)


Note generali

A differenza di Matteo e Marco che raccontano l'istituzione dell'eucaristia all'interno della cornice della pasqua ebraica solo preannunciata in Mt 26,17.20 e in Mc 14,12.17, Luca inserisce un preambolo al racconto dell'istituzione dell'eucaristia, la cui finalità è evidenziare il passaggio della pasqua ebraica, che qui viene legata alla passione e morte di Gesù (v.15b), all'istituzione dell'eucaristia, leggendola come il naturale confluire della prima nella seconda e come questa seconda sia il compimento della prima, che in qualche modo la prefigurava.

I vv.15-18, pertanto, provengono dal materiale proprio di Luca e potremmo considerarli una ripresa ed uno sviluppo di Mc 14,25. Questi alludono al rito della pasqua ebraica ed è sostanzialmente inutile cercare di capire a quale punto, tra i quattordici che compongono il Seder pasquale, qui ci si trovi poiché i riferimenti sono talmente vaghi quanto generici ed approssimativi che non possono essere in nessun modo identificati, denotando in tal modo il disinteresse dell'autore per la ritualità pasquale giudaica, che probabilmente neppure conosceva. Del resto è proprio questa genericità che suggerisce che non era neppure intenzione dell'autore specificare i vari passaggi del rito pasquale ebraico, quanto piuttosto legare il rito pasquale ebraico alla passione-morte di Gesù, preparando in tal modo il passaggio tra la pasqua ebraica all'istituzione dell'eucaristia (vv.19-20), rileggendo la prima in chiave escatologica.

Gli elementi chiave di questo breve racconto sono i verbi “mangiare”, “bere”, che ritroviamo, sia pur in modo implicito, anche ai vv.19-20, assegnati però al pane-corpo spezzato e al vino-sangue versato; altro elemento fondamentale è quel “prima che io patisca”, che lega la pasqua ebraica alla passione e morte di Gesù, preparandone il passaggio all'istituzione dell'eucaristia, vera e nuova pasqua cristiana, che Paolo ricorda alla sua comunità di Corinto come l'immolazione di Cristo stesso: “Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!” (1Cor 5,7).

La pericope si snoda in forma di parallelismi così che al mangiare la pasqua e al rendimento di grazie sul calice (vv.15.17) corrispondono i rispettivi annunci del non mangiare e del non bere, legando questi al loro compimento nel Regno di Dio (vv.16.18).

Commento ai vv.15-18


Il v.15 apre la pericope relativa alla pasqua ebraica che qui, in quel “prima che io patisca”, viene legata in qualche modo alla passione e morte di Gesù; ma si intuisce anche come in quel “prima” questa pasqua sia anche l'ultima. Si comprende in tal modo l'esprimersi di Gesù che “ha desiderato con desiderio”, espressione semitica per dire la grande attesa di Gesù per questa pasqua, posta alle soglie del suo patire e morire. Una pasqua di addio, quindi, ma non di abbandono, poiché saranno proprio i vv.19-20, che nel riprendere la gestualità della pasqua ebraica la riscatteranno, divenendone riferimento perpetuo (“in memoria di me”), in cui si ritrova una nuova presenza di Gesù sotto forma di pane e di vino e che ha il suo compimento in lui, vero agnello pasquale immolato (1Cor 5,7b).

Luca, nel rilevare il grande desiderio e la grande attesa di Gesù per questa pasqua, l'ultima che egli avrebbe celebrato con i suoi, focalizza l'espressione “mangiare questa pasqua con voi”, che ha il senso sia di mangiare l'agnello pasquale, così come l'espressione “immolare la pasqua” del v.7b significava immolare l'agnello pasquale; sia anche, e più probabilmente, allude all'intera celebrazione della pasqua; mentre quel “con voi” sottolinea la condivisione e la comunione che crea il mangiare questa pasqua con Gesù, così che in qualche modo, in quella pasqua, i discepoli sono coinvolti nei destini di Gesù. Una pasqua che, tuttavia, ha la sua compiutezza soltanto nel Regno di Dio, denunciandone in tal modo la sua incompiutezza e, quindi, tutta la sua inconsistenza e fragilità. In altri termini, una pasqua che ha liberato, ma non è più liberante.

La questione del valore salvifico di questa pasqua è qui affrontata da Luca nella contrapposizione tra i verbi “mangiare” e “non mangiare” del successivo v.16, verbo quest'ultimo, come il “non bere” del v.18, posto al futuro, tempo verbale che dà continuità nel tempo all'azione; come dire mai più mangerò e mai più berrò, togliendo a questa pasqua il senso di “celebrazione liberante”. Tuttavia non si tratta di un'esclusione categorica, assoluta e definitiva, ma condizionata: “finché questa non sia compiuta nel regno di Dio”, assegnandole in tal modo una dimensione escatologica che riecheggia in sé i tempi messianici ed aprendola alla speranza che questa liberazione ciclicamente celebrata, ma mai compiuta, diventi finalmente compiuta, dandole in tal modo un nuovo slancio, sotteso da una forte tensione escatologica, che, superando l'inerzia di un presente senza futuro, prospetti un futuro finalmente compiuto, che va al di là di una semplice ritualità ripetitiva.

Il presente della pasqua ebraica, infatti, che celebra la liberazione di Israele dall'oppressione egiziana, ha in se stessa un suo senso incompiuto, che viene racchiuso e sterilizzato in un memoriale ripetitivo che non trova sbocchi nella storia e nel futuro di Israele, se non in un ricordo glorioso, che simile al muro del pianto, ricorda la grandiosità delle gesta di Jhwh. Una pasqua, quindi, sterile che non apre Israele al futuro, ma lo rinchiude nel suo passato attraverso una ritualità che non gli consente sbocchi, così che la liberazione in essa celebrata diventa una liberazione incompiuta. Per questo Gesù e con lui i suoi non ne mangeranno più e non solo perché egli verrà ucciso da lì a poco. Essa, tuttavia, ritroverà il suo senso e la sua compiutezza in quel Regno di Dio, che Gesù è venuto a rivelare e a fondare, e che quella pasqua in qualche modo prefigurava, celebrando una liberazione che in realtà ne prefigurava un'altra e nella quale troverà a sua compiutezza, divenendo pasqua liberante.

Gesù, dunque, non mangerà più di questa pasqua, e con lui i suoi discepoli (v.14b), perché questa è stata trasferita in una nuova pasqua e da questa sostituita, in un nuovo passaggio dalla schiavitù alla libertà, significato nel passaggio dalla morte alla vita di Gesù, che incide sulla vita di ogni singolo credente nel suo oggi, che mangiando di questa nuova pasqua, annuncia nella testimonianza della propria vita questo passaggio dalla morte alla vita nell'attesa del suo ritorno, richiamato in 1Cor 11,26: “Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga”. Viene a crearsi in tal modo una forte tensione escatologica tra il già e il non ancora e orientando l'intera umanità credente verso una meta che va al di là dello spazio e del tempo dove l'oggi incompiuto trova la sua compiutezza e il suo senso e dove il tempo incompiuto diventa eternità compiuta.

I vv.17-18 si muovono parallelamente ai vv.15-16 accentrando l'attenzione sull'altro componente della cena pasquale ebraica: la coppa del vino. Quale che sia questa delle quattro57 previste dal Seder pasquale è irrilevante. Qui, Luca, infatti, sta presentando i componenti essenziali della pasqua ebraica, che verranno poi mutuati da quella cristiana. In altri termini, l'autore sta qui preparando il nuovo scenario prospettato dai successivi vv.19-20, in funzione dei quali la pericope vv.15-18 è costruita.

I vv.17-18 presentano il rituale delle coppe del vino, ma inaspettatamente Gesù, ricevuto il calice, vi recita sopra la preghiera di benedizione, ma non ne beve, ma si limita a passarlo ai suoi, commentando che egli non ne berrà più “¢pÕ toà nàn” (apò tû nîn), cioè a partire “da ora”, da questo momento e per tutto il tempo finché non venga il regno di Dio. Anche qui la prospettiva è escatologica, ma il soprassedere al bere del vino fin da subito, lasciandolo invece ai suoi, assume per Luca un significato particolare, che trova la sua risposta in quel “per voi” del v.20b. Il calice del vino non è per se stesso, ma per i suoi. Esso simboleggia la sua passione e morte, che viene richiamata al v.42 proprio sotto forma di calice. Questo calice, cioè il suo patire e il suo morire e gli effetti salvifici conseguenti, non è per se stesso, ma “per voi”. Gesù, pertanto soprassiede a bere quel vino, poiché esso non gli appartiene, non è per se stesso ma per gli altri (v.17b). Il bere, infatti, dice l'appropriarsi in qualche modo della bevanda, facendola propria, per se stessi. Non così per Gesù; non così per questa bevanda, la sua passione e morte significata in questo calice. Essa è solo “per voi”. Significativo è quel “Prendete questo e distribuite(lo) tra voi stessi”. Ci troviamo di fronte ad un doppio comando: “Prendete questo e distribuitelo”. Il “prendete” dice il consegnare questo evento della propria passione-morte e il suo significato e i suoi effetti salvifici agli apostoli perché tutto ciò venga distribuito “tra voi stessi”, in cui vanno ravvisati tutti i credenti. Gesù, dunque, consegna in qualche modo se stesso ai suoi perché egli venga distribuito tra tutti i credenti. Si tratta, dunque, di una passione-morte in prospettiva missionaria, aspetto questo che caratterizza Luca.

In tal modo Luca prepara l'aggancio a quel calice che è il suo sangue sparso per voi (v.20). Si tratta, del resto, di un calice che, a differenza della pasqua ebraica che troverà il suo compimento nel Regno di Dio (v.16b), non trova qui nessun compimento, forse perché quel calice di sofferenza e di morte ha il suo immediato compimento, fin da subito, nella risurrezione, dato che il suo patire e il suo morire trovano il loro compimento nella risurrezione.


L'istituzione dell'eucaristia (vv.19-20)

La formula istitutiva dell'eucaristia si rifà alla gestualità caratteristica della cena ebraica, dove il capo famiglia prende il pane e lo spezza distribuendolo tra i commensali. E similmente fa con il vino. In entrambi i casi recita una preghiera di benedizione. Una mensa quella ebraica che va ben al di là di un semplice luogo dove soddisfare la propria fame, ma diviene una sorta di luogo rituale e cultuale nel contempo58. Ed è in questo contesto di convivialità, incorniciato all'interno della celebrazione pasquale (vv. 1.7.14), che Gesù crea una sorta di parentesi aggiuntiva all'interno dello svolgersi del Seder pasquale, trasformando con semplici parole un pane e un po' di vino in segni, che egli lega a se stesso. Identificandosi con quel pane spezzato e con quel vino versato: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi”. In altri termini Gesù sacramentalizza se stesso in quel pane e in quel vino. Non va dimenticato che Gesù stesso è in sé e per sé un Sacramento vivente, resosi tale con la sua incarnazione. Significativo è infatti quanto Gv 1,1-2.14 attesta nel suo Prologo: egli contempla il Verbo nello splendore eterno della gloria del Padre e poi attesta che questo Verbo trascendente e irraggiungibile dall'uomo, diventa carne, attendandosi tra gli uomini, così da rendersi raggiungibile da loro. Ed è per questo che Giovanni può dire di averlo contemplato (Gv 1,14b; 1Gv 1,1-3).

L'incarnazione del Verbo eterno del Padre diviene, pertanto, il fondamnto di ogni sacramentalità, la cui finalità è quella di rendersi raggiungibile da ogni uomo, che in tale incontro può realizzare una comunione di salvezza con Cristo, Sacramento vivente del Padre. Una sacramentalità che, creatasi nel tempo, ha una durata naturalmente limitata, da qui la necessità di prolungarla nel tempo, così che ogni uomo possa incontrare la fonte della Vita eterna e, mangiando il pane e bevendo il vino, entri in comunione con l'eternità stessa di Dio, che per sua natura è “Vita eterna”. Ecco, pertanto, i senso di quel “fate questo in mia memoria”, che non è un semplice ricordarsi di quello che Gesù ha fatto nell'ultima cena, benché questo non sia escluso, ma un attualizzare attraverso un rito, fatto di gesti e parole, la presenza viva e vera del “corpo del Signore”: “Questo è il mio corpo”. Ma quando si parla di corpo non va inteso in senso di mera fisicità, ma di persona. Il corpo, quindi, dice soltanto l'aspetto visibile di una persona, immediatamente raggiungibile da tutti, che va tuttavia colta nella sua interezza, senza dicotomie tra corpo o spirito. Per l'antropologia ebraica, infatti, l'uomo è uno spirito incarnato e una carne spiritualizzata. E questo è un corpo, cioè una persona, che si qualifica come corpo “dato per voi”. Un corpo-persona, pertanto, che nella sua interezza si fa dono “per voi”, poiché egli è per sua natura dono di amore del Padre all'intera umanità (Gv 3,16). Luca, pertanto, legge qui l'intera vita di Gesù come una pro-esistenza, cioè una vita spesa a totale favore degli uomini, fino a spezzarsi sulla croce. Gesù, dunque, si qualifica in questo contesto come un pane che si spezza per gli altri. E il gesto dello spezzare il pane, posto a ridosso della sua passione e morte, va letto come una sua anticipazione, che lega il pane spezzato “per voi” al suo patire e al suo morire. Uno spezzare il pane con cui la chiesa primitiva, non a caso, si riferirà alla cena del Signore (At 2,42.46; 20,7.11; 27,35).

Con il v.20 l'attenzione viene spostata dal pane spezzato alla coppa del vino, benché questa prospetti una diversa lettura rispetto a quella del pane. Ci si trova di fronte al “calice della nuova alleanza” che viene sigillata nel “mio sangue sparso per voi”. Sono due elementi distinti e che non vanno confusi: il calice e il sangue. Il segno della nuova alleanza non è il sangue, bensì il calice, così come nell'antichità il cumulo di pietre, una sorta di altare grezzo, era il segno dell'alleanza59, ma ciò che la stabiliva erano due altri elementi: il sacrificio di animali, una parte di quali veniva bruciata, quale offerta a Dio, e una parte mangiata su quel cumulo di pietre, quale sacrificio di comunione60 tra Dio e il suo popolo; mentre il sangue dell'animale sacrificato, secondo elemento fondamentale dell'alleanza, veniva asperso sia sull'altare che sul popolo, congiungendo il popolo a Dio, di cui l'altare era un simbolo. Un sangue, dunque, che è strettamente legato ad un sacrificio, anzi ne è la conseguenza, e che, proprio per questo, era chiamato “il sangue dell'alleanza”. Es 24,4-8 celebra il rituale di alleanza tra Dio e il suo popolo in questi termini, mentre Ger 31,31-34 prospetta una nuova e definitiva alleanza, le cui parole verranno riprese e parafrasate da Eb 8,8-12; un'alleanza completamente nuova, diversa da quella che fu conclusa in precedenza con gli antichi Padri; un'alleanza che vede il primato dello Spirito e del cuore e che verrà richiamata anche da 2Cor 3,6.

Significativa l'espressione “la nuova alleanza nel mio sangue”, cioè un'alleanza che in quel “nel” (™n tù, en tô) si radica nel sangue stesso di Gesù, ma nel contempo si attua attraverso questo. Gesù pertanto diviene nucleo fondamentale e fondante di una nuova alleanza tra Dio e gli uomini; colui che ha posto pace tra Dio e gli uomini (Rm 5,1), che è il frutto di questa alleanza. Rm 3,25 offre un'immagine significativa di Cristo in rapporto al suo sangue e all'alleanza: “Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati”.

Per poter comprendere l'immagine è necessario rifarsi a Lv 16, 12-16 dove il sommo sacerdote nel giorno dell'espiazione è chiamato a sacrificare un capro a favore dei peccati del popolo e il cui sangue veniva asperso sull' “ƒlast»rion” (ilastérion), cioè sul coperchio d'oro dell'arca dell'alleanza (Es 25,17), considerato il luogo della presenza di Dio. In questo contesto l' ilastérion diveniva anche il luogo dove erano perdonati i peccati del popolo.

Trasportata ora questa immagine nel contesto del v.20b appare chiaro come alleanza e sangue siano un binomio inscindibile e là dove il sangue si comprende come il sangue di un capro sacrificato e dove questo capro è riconosciuto da Gv 1,29.36 come l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, si comprende anche il senso di questa alleanza fondata sul sangue di Gesù, quale luogo non solo di perdono definitivo dei peccati degli uomini, ma anche quale luogo di riconciliazione tra Dio e gli uomini, grazie alla quale Dio e gli uomini hanno ripreso quel dialogo drammaticamente interrotto nel Paradiso Terrestre.

Luca, parallelamente a 1Cor 11,25b, precisa che si tratta di una nuova alleanza, che si richiama implicitamente all'antica alleanza, che prefigurava quella futura, prospettata in qualche modo da Ger 31,31-34. L'evangelista crea infatti una sorta di aggancio tra quella antica e questa qui nuova. Cambiano gli attori, ma il significato rimane identico: “per fare misericordia con i nostri padri e ricordarsi della sua santa alleanza, un giuramento che giurò ad Abramo, nostro padre, di darci, liberati dalla mano dei nostri nemici, di servire a lui senza timore in santità e giustizia dinnanzi a lui per tutti i nostri giorni” (1,72-75). Un'alleanza che affonda le sue radici nella misericordia di Dio ed è finalizzata alla liberazione dell'uomo dalla schiavitù del peccato e alla sua santificazione, ponendolo nuovamente al servizio di Dio, che non significa schiavizzati da Dio, ma resi partecipi della sua stessa vita (Gen 1,26-27) e suoi collaboratori, così com'era nei primordi (Gen 2,15). La novità sta proprio nel sangue non più di un animale, ma in quello del Figlio di Dio stesso, che tale alleanza e si suoi effetti ha resi stabili e definitivi per sempre.


L'annuncio del tradimento (vv.21-23)

Testo a lettura facilitata

L'annuncio (v.21)

21 – Tuttavia, ecco la mano di colui che mi consegna (è) con me sulla tavola.

La considerazione (v.22)

22 – Poiché il Figlio dell'uomo se ne va secondo lo stabilito; tuttavia, guai a quell'uomo per mezzo del quale viene consegnato>>.

Lo sconcerto e la curiosità (v.23)

23 – Ed essi incominciarono a discutere insieme tra loro chi pertanto fosse tra loro colui che stesse per fare questo

Note generali

Diversamente da Matteo e Marco, che pongono l'annuncio del tradimento durante lo svolgersi del Seder pasquale (“mentre essi mangiavano”), Luca pone l'annuncio del tradimento, in modo più logico e significativo, immediatamente dopo la cena e più precisamente subito dopo il dono che Gesù ha fatto di sé nel pane e nel vino, divenuti il segno non solo della sua presenza da perpetuarsi nel tempo, ma anche, in quella coppa, destinata ad accogliere il vino-suo-sangue, di una nuova alleanza tra Dio e gli uomini, che in lui trova il luogo del suo attuarsi e della loro ritrovata e rinnovata amicizia.

Ho definito logico e significativo il collocare narrativamente l'episodio dell'annuncio del tradimento immediatamente dopo il racconto dell'istituzione dell'eucaristia, perché non è credibile che la rigidità del Seder pasquale possa concedere spazi a divagazioni personali, sia pur importanti. Si è, infatti, durante una celebrazione solenne che non può essere interrotta. Quindi, bene Luca che in tale logica pone l'annuncio al termine della cena, benché non fosse certamente suo intento rispettare l'ordine dettato dal Seder, che probabilmente neppure conosceva. Tuttavia, l'aver posto l'annuncio del tradimento immediatamente dopo l'istituzione dell'eucaristia, in cui Gesù consegna liberamente se stesso ai Dodici e in loro a tutti i credenti, pone in diretto confronto tra loro i due modi in cui Gesù si consegna e viene nel contempo consegnato: il primo riflette, anticipandolo in qualche modo, un libero atto di donazione di sé all'umanità, fornendo nel contempo una chiave di lettura alla sua imminente passione e morte. Il secondo modo con cui Gesù viene consegnato è quello di Giuda, che diviene lo strumento attuativo del consegnarsi di Gesù e a cui Luca ha dedicato i primi sei versetti di apertura del cap.22, ponendo l'intero racconto della passione e morte di Gesù sotto il segno del tradimento, rispettando in tal modo la Tradizione che ha trasmesso la formula dell'istituzione dell'eucaristia sotto tale segno: “Nella notte in cui fu tradito” (1Cor 11,23b). Da una parte, dunque, vi è un libero consegnarsi da parte di Gesù, che si fa dono di amore per tutti, che si perpetua nel tempo, divenendo salvifico; dall'altro il consegnare di Giuda, espressione di tradimento per soldi. Gv 12,6 dà un'immagine tetra di Giuda “Questo egli disse non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”. Un ladro avido di soldi, quindi, che approfittando della fiducia, derubava la piccola comunità dei Dodici. Un consegnarsi e un consegnare, dunque, espressione di Amore che si fa dono di sé, da un lato; avidità che si fa tradimento per soldi, dall'altro.

Il breve racconto dell'annuncio del tradimento, che pur venendo fatto nel contesto del banchetto pasquale, ma al di fuori della cena rituale della pasqua (v.20a), serve da unità di transizione dalla sacralità del rito pasquale ai discorsi di Gesù, che fungono, sulla falsariga di quelli giovannei, da testamento spirituale.

Pur nella sua brevità, solo tre versetti, l'annuncio del tradimento viene scandito, in modo molto sintetico e narrativamente scorrevole, di molto alleggerito rispetto a quello di Matteo e Marco, in altrettante parti, come già preannunciato nella sezione del “testo a lettura facilitata”: a) l'annuncio (v.21); b) una doppia considerazione sull'evento (v.22); c) lo sconcerto e la curiosità che anima la piccola comunità dei Dodici (v.23).

Commento ai vv.21-23

Il v.21 si apre con la preposizione “pl¾n” (plèn, senonché, tuttavia, nondimeno, peraltro) che crea una sorta di contrapposizione tra quanto detto ai vv.19-20 e quanto segue ora: il consegnarsi di Gesù si attua attraverso l'essere consegnato da Giuda; il gesto di amore attraverso un gesto di avversità Viene rilevato il grave contrasto di ciò che sta accadendo: la mano che tradisce condivide nel contempo la cena del Signore. La mano esprime l'attuarsi di un piano, che Luca ha già descritto in apertura del racconto della passione e morte (vv.1-6). Ora è proprio questa mano, che “(è) con me sulla tavola”, che profana la tavola stessa, espressione di convivialità e di comunione, dove Gesù si è fatto dono di amore per i suoi.

Il contrasto tra il proprio libero consegnarsi, quale gesto di amore, e il suo realizzarsi attraverso un gesto di odio e di tradimento viene ora preso in considerazione dal v.22, scandito in due parti. La prima, in quel “secondo lo stabilito”, lascia intravvedere che tutto si sta muovendo attraverso un piano prestabilito, non da Giuda o dalle autorità giudaiche, ma secondo la volontà del Padre, a cui Gesù, nel dramma della sua profonda sofferenza, si adegua (v.42). Non è, pertanto la forza del male che condiziona le scelte di Gesù e vince su di lui, ma la volontà stessa del Padre. Tutto si muove secondo un disegno prestabilito, che tuttavia non giustifica il male attraverso il quale esso si attua. Il male, per sua natura, è intrinsecamente cattivo e distruttivo e resta sempre male e non potrà mai diventare bene, benché il disegno del Padre preveda uno spazio anche per il male, che fa parte della natura umana e delle logiche delle cose: “ma questa è la vostra ora e il potere delle tenebre” (v.53b). Poi verrà l'ora del Padre, l'ora della luce.

Il v.23 da un punto di vista di logica narrativa descrive la naturale reazione dei Dodici. L'effetto è quello proprio del classico sasso nella piccionaia. Un versetto che con quel “incominciarono a discutere” rompe l'incanto e il silenzio della cena del Signore e agita gli animi, aprendo, seduta stante, una ricerca del colpevole. E forse proprio perché nessuno si sente colpevole; forse proprio perché nessuno si sente quella mano che sta per tradire, forse per questo ognuno si sente migliore degli altri. Ed è proprio quest'ultimo versetto che, decretando la fine della celebrazione pasquale e della cena del Signore, apre la seconda sezione, quella degli ultimi discorsi di Gesù, una sorta di testamento spirituale sulla falsariga di quello di Giovanni.


Gli ultimi discorsi di Gesù ai suoi (vv.24-38)

Testo a lettura facilitata

Atteggiamento di servizio, chiave di lettura del patire e morire di Gesù (vv.24-27)


24 – Ora, avvenne anche una contesa tra di loro, chi di loro sembra essere più grande.
25 - Ma questi disse loro: <<I re delle nazioni le spadroneggiano e quelli che hanno autorità su di loro si fanno chiamare benefattori.
26 – Ma voi non così, ma il più grande tra di voi diventi come il più giovane, colui che comanda come colui che serve.
27 – Chi, infatti, (è) più grande, colui che è coricato a mensa o colui che serve? Non forse colui che è coricato a mensa? Ora, io in mezzo a voi sono come colui che serve.

Il destino di Gesù condiviso dai suoi (vv.28-30)

28 – Ora, voi siete coloro che sono rimasti con me nelle mie prove;
29 – e io dispongo per voi come il Padre mio ha disposto per me un regno,
30 – affinché mangiate e beviate alla mia tavola nel mio regno, e sediate sui troni giudicando le dodici tribù Israele.

Il rinnegamento di Pietro preannunciato da Gesù (vv.31-34)

31 – Simone, Simone, ecco Satana vi ha provati per vagliar(vi) come il grano;

32 – ma io ho pregato per te affinché non venga meno la tua fede; e tu una volta che sei ritornato, fortifica i tuoi fratelli>>.
33 – Ora, questi gli disse: <<Signore, con te sono pronto ad andare anche in carcere e alla morte>>.
34 – Ma questi gli disse: <<Ti dico, Pietro, che oggi il gallo non canterà finché (tu) non abbia negato di conoscermi tre volte>>.

Il dopo Gesù si prospetta travagliato per i suoi discepoli (vv.35-38)

35 – E disse loro: <<Quando vi ho inviati senza borsa e bisaccia e calzari, vi è forse mancato qualcosa?>>. Ma questi dissero: <<Niente>>.
36 – Ora, disse loro: <<Ma ora chi ha una borsa (la) prenda, similmente anche una bisaccia e chi non ha venda il suo mantello e comperi una spada.
37 – Vi dico infatti che questo che è stato scritto bisogna che sia compiuto in me: “con gli empi fu computato”; e, infatti (ciò che è scritto) su di me ha compimento>>.
38 – Ora questi dissero: <<Signore, ecco qui due spade>>. Ma egli disse loro: <<È sufficiente!>>.


Note generali

Il contesto entro cui vengono collocati questi ultimi discorsi di Gesù è sempre il cenacolo, dove già si è svolta la celebrazione del rito pasquale e l'istituzione dell'eucaristia. Qui, subito dopo, Luca raccoglie in questa sezione, che forma la seconda parte del racconto della cena del Signore, quattro brevi discorsi di Gesù, la cui provenienza è redazionale; sono gli ultimi, che fungono da testamento spirituale ai suoi e che potremmo considerare come complementari all'istituzione dell'eucaristia o per meglio dire un suo riflesso nel modo di vivere dei discepoli, in particolar modo i primi due (vv.24-27; 28-30) dove si parla di Gesù, che si è fatto servo in mezzo a loro (v.27b) e dove gli apostoli e con loro tutti i discepoli sono stati associati ai destini di Gesù (vv.28.30a). Gli altri due discorsi (vv.31-34; 35-38) riguardano, in ordine, la fragilità di Pietro, che viene costituito come responsabile in mezzo ai Dodici (v.32b); e il difficile futuro che si prospetta per la Chiesa, che d'ora in poi dovrà autogestirsi e lottare con le proprie forze.

Si tratta di discorsi che costituiscono una ripresa di temi già affrontati, ma che qui vengono focalizzati. La questione di “chi fosse il più grande” era comparsa in 9,46; la condivisione del destino di Gesù da parte dei discepoli compare qui al v.14, dove Gesù si corica a tavola e gli apostoli con lui. E ciò avviene nell'ora stabilita. Tutti, quindi, Gesù e apostoli fanno parte di un unico progetto divino, cui tutti sono associati; similmente l'ultimo discorso riprende 9,3 e 10,4 sui quali viene costruita la pericope vv.35-38; mentre il terzo discorso (vv.31-34), riguardante Pietro e i discepoli, anticipa qui, in modo allusivo, la prova a cui dovranno essere sottoposti al momento dell'arresto di Gesù nel Getsemani. Luca, infatti, a differenza di Marco e Matteo, non riporta l'abbandono di Gesù da parte dei discepoli, ma lo lascia sottinteso in quel “Satana vi ha provati per vagliar(vi)”.


Commento ai vv.24-38


Atteggiamento di servizio, chiave di lettura del patire e morire di Gesù (vv.24-27)

Il tema del servizio, che qui compare immediatamente dopo l'istituzione dell'eucaristia, diventa applicativo della stessa all'interno dei rapporti intracomunitari. Un tema molto sentito nella nascente chiesa, che nel costituirsi cominciava a strutturarsi in mansioni e funzioni (Fil 1,1; Ef 4,11-12) con la conseguenza di rivalità e rischi di divisioni interne e contrapposizioni di potere e tentativi di prevaricazione degli uni sugli altri (1Pt 5,1-3). Se ne ha un esempio nella comunità di Corinto, le cui divisioni interne vengono stigmatizzate dalla 1Cor 1,11-13; divisioni che si riflettono in modo scandaloso e blasfemo sulla stessa celebrazione della cena del Signore (1Cor 11,17-22.32-33); similmente in Mt 20,20-24 e in Mc 10,35-41 dove Giacomo e Giovanni, i due figli di Zebedeo, con gli intrallazzi della loro madre, cercavano di accaparrasi una posizione di privilegio nel futuro regno d'Israele, tra l'indignazione degli altri che si erano visti superati in modo così subdolo. E sarà proprio in questo contesto che Matteo e Marco inseriranno il discorso del servizio (Mt 20, 25-28; Mc 10,42-45), che Luca riporterà significativamente a ridosso dell'istituzione dell'eucaristia, poiché quel pane spezzato “per voi” e quel vino versato “per voi”, posto a fondamento di una nuova alleanza tra Dio e gli uomini e di nuovi rapporti tra gli uomini, funga da parametro di confronto su cui modulare i rapporti intracomunitari. E così anche in Gv 13,4-5.12-15, anche qui nel contesto dell'ultima cena (Gv 13,1-2), benché non eucaristica, ma di addio e che nel contempo funge da deposito testamentario spirituale, Giovanni presenta il suo Gesù in un atteggiamento di servizio, in cui si riflettono le parole di Lc 22,27. Il Gesù lucano, parimenti a quello giovanneo, è colui che sta in mezzo ai suoi, non coricato, segno dell'uomo libero e superiore, ma come colui che serve, ponendosi come modello di vita per i suoi.

Il v.24 presenta il contesto occasionale entro cui viene collocato, motivandolo, il primo discorso: una contesa tra i discepoli, il cui tema era chi fosse tra loro il più grande, cercando di stabilire una sorta di gerarchia di importanza all'interno del gruppo. Luca, probabilmente, riporta qui situazioni che si verificavano all'interno delle comunità credenti e che ha avuto modo di rilevare nel suo pellegrinare missionario assieme a Paolo.

Il discorso si snoda in tre passaggi: il primo (v.25) presenta l'organizzazione della società civile dell'epoca, dove i re tiranneggiavano il popolo, considerandolo una sorta di proprietà privata al suo servizio; mentre altri che hanno autorità, e qui Luca si richiama allo schema della società greca, si autodefiniscono benefattori del popolo61. Il v.25, pertanto costituisce il parametro negativo, da cui rifuggire. Il secondo passaggio, v.26, presenta il nuovo schema dell'organizzazione sociale intracomunitaria. Una novità che viene rimarcata con un'espressione drastica e imperativa con cui si apre il v.26, contrapponendosi nettamente al v.25: “Øme‹j de oÙc oÛtwj” (imeîs dè uc útos), “Ma voi non così”. E i parametri di potere vengono completamente rovesciati: il più grande diventi come il più giovane. Una categoria di persone, quest'ultima che all'interno della comunità svolgeva i lavori più umili e, in quanto tale, doveva essere sottomessa agli anziani (At 5,6.10; 1Pt 5,5). E così chi ha un potere deve porsi nei confronti dei membri della comunità in un atteggiamento di servizio. Del resto il termine stesso autorità lascia trasparire questo atteggiamento di servizio. Esso deriva dal verbo latino “augere”, che significa “far crescere, aumentare, arricchire”. E, quindi, l'autorità è colei che usa il proprio potere a favore del popolo, senza trarre benefici per se stesso, poiché il suo vero premio e la sua vera ricompensa è veder crescere chi gli è stato affidato. Il terzo ed ultimo passaggio, v.27, riporta la questione all'interno del gruppo dei Dodici dove è presente Gesù, prendendo lo spunto dalla situazione in cui vengono a trovarsi in quel momento: sono tutti ancor coricati alla mensa. E su questo aspetto viene sviluppato un ultimo ragionamento, che vede colui che è coricato come il commensale e, quindi, una persona che gode di un certo rilievo rispetto ai servi che invece stanno in piedi per servirlo. La domanda che Gesù pone è retorica e suggerisce la risposta: “Non forse colui che è coricato a mensa?”. Ebbene, Gesù, pur essendo coricato alla pari di tutti gli altri, egli si sente e si pone in mezzo ai Dodici come colui che serve. Questo è l'atteggiamento interiore che anima Gesù, che si è sacramentalizzato in quel pane spezzato e in quel vino versato “per voi”, e con lui tutti quelli che sono chiamati a rappresentarlo. Un atteggiamento che Gv 13,1-15 ha drammatizzato, concludendo parimenti a Luca: “vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come io ho fatto a voi”. Gesù, pertanto, deve costituire il parametro di raffronto dei responsabili delle comunità credenti, sul quale devono costruire i loro rapporti intracomunitari.

Il destino di Gesù condiviso dai suoi (vv.28-30)


Note generali

La breve pericope delimitata dai vv.28-30 riecheggia, in modo narrativamente più articolato e in un diverso contesto, Mt 19,28. Si è ormai giunti a ridosso della passione e morte di Gesù, che qui fa una sorta di consuntivo sulla sequela fedele dei suoi e le cui condizioni già erano state proposte a suo tempo ai vv. 9,23 e 14,27: seguire Gesù comportava assumere quotidianamente la propria croce. Una sequela, quindi, che fin da allora era associata alla croce (9,22-23). Ora questa croce si sta prospettando sul loro futuro imminente in cui non solo Gesù è coinvolto, ma, con lui, anche i discepoli (vv.35-38). La cena pasquale, dove l'istituzione dell'eucaristia ha sacramentalizzato la passione e morte di Gesù, anticipandola in qualche modo in quel pane spezzato e in quel vino versato e di cui i discepoli si sono nutriti, è diventata una cena di condivisione e di comunione con i destini di Gesù. Ora il senso di quella sequela e di quella pretesa di Gesù di seguirlo sulla via della croce, assumono dei contorni più nitidi e concreti. Essi lo seguiranno anche sul monte degli Ulivi (v.39b) dove avrà inizio il dramma della passione di Gesù che lo porterà sulla croce. Essi saranno con lui, poi, quasi impercettibilmente, anche se per ora scompariranno dalla scena, perché quello è il tempo di Gesù. Poi, quasi a prolungamento di quello di Gesù, verrà il loro, che già è stato in qualche modo preannunciato ai vv.35-38.

La pericope è scandita in tre parti: a) la constatazione della fedeltà dei discepoli nella sequela di Gesù (v.28); b) la condivisione del potere che Gesù ha ricevuto dal Padre con i suoi (v.29); la condivisione si fa comunione di vita eterna, simboleggiata dalla nuova mensa del regno, che in qualche modo era stata prefigurata e preannunciata ai vv.16-18 (v.30).

Commento ai vv.28-30

Il v.28 si apre con un “ora voi” con cui viene incentrata l'attenzione sui Dodici. Ciò che qui si sta per dire riguarda, pertanto, soltanto loro, che vengono definiti con il verbo “diam˜nw” (diaméno) che dice non soltanto un semplice “rimanere”, ma possiede in se stesso il senso di “persistere” nel rimanere e, quindi, di un persistente rimanere. Noi potremmo aggiungere: nonostante tutto. Un rimanere, dunque, che va oltre ogni prova. Significativo poi è il tempo verbale scelto da Luca, un perfetto indicativo “diamemenhkÒtej” (diamemenekótes) “coloro che sono rimasti”. Un tempo verbale questo che descrive una situazione presente come effetto di un'azione passata, rimandando quel loro persistente rimanere con Gesù ad una scelta iniziale, che si è resa, via via nel tempo, sempre più solida. La qui richiamata fedeltà dei Dodici è consistita nell'essere “con me nelle mie prove”, che dice come i Dodici abbiano non solo condiviso la vita di Gesù, ma come essi siano entrati in profonda comunione con lui, che ha avuto il suo vertice in quel “mangiate” e in quel “bevete”, che fungono in qualche modo da cornice a questi ultimi discorsi di Gesù. Da qui si comincia a comprendere il seguito dei vv.29-30.

Il v.29 prospetta ai Dodici cosa è riservato loro. Si tratta di un regno, che allude in qualche modo alla regalità di Gesù, che già era stata ricordata in 19,15.27.38 e che verrà più volte sottolineata durante il racconto della passione (23,3.37.38). Un regno e una regalità che si esprimono più che in un potere temporale, in un servizio di redenzione che, passando attraverso la croce, trova la sua massima espressione e affermazione nella risurrezione. Mt 28,20 renderà bene questo concetto, mettendolo sulle labbra del Risorto: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Si tratta, quindi, di un regno che ha la dimensione dello stesso potere divino del Padre, che lo dà a suo Figlio e che questi dà, a sua volta, ai suoi. Si tratta, quindi di un dono a cascata, che ha la sua origine nello stesso Padre, che si riflette nel Figlio e che rimbalza nei suoi e che richiama da vicino le parole del Risorto giovanneo: “Gesù disse loro di nuovo: <<Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi>>. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: <<Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi>>” (Gv 20,21-23). Un potere, quindi, che si fonda sulla potenza dello Spirito, finalizzato ad affermare la dimensione stessa di Dio in mezzo agli uomini, attraverso il perdono dei peccati, cioè la riconciliazione tra Dio e gli uomini, che ha il suo fulcro nel Risorto, quale luogo dell'incontro tra Dio e gli uomini, luogo della nuova e definitiva Alleanza. Ed è proprio in questo nuovo contesto che vengono collocati gli Apostoli, quali vicari e amministratori di questa nuova ed eterna Alleanza.

Il v.30 compie un ulteriore passo in avanti drammatizzando il principio della condivisione e della comunione di vita tra Gesù e i suoi, che si richiama in qualche modo, con quel “mangiate e beviate alla mia tavola”, alla cornice della cena pasquale e dell'istituzione dell'eucaristia, in cui è stato posto. Quel “affinché”, con cui inizia il v.30, dice non solo la finalità ma anche la motivazione per cui i Dodici sono stati resi partecipi del Regno. Il motivo è duplice: una condivisione comunionale tra la vita di Gesù, che è vita del Padre che si manifesta e opera in lui, con i proprio discepoli, che hanno scelto di “stare con lui”, seguendone, pertanto i destini. Il motivo di questa scelta da parte di Gesù viene prospettata da 2Tm 2,11-12a: “Certa è questa parola: Se moriamo con lui, vivremo anche con lui; se con lui perseveriamo, con lui anche regneremo”.

Ma la condivisione della vita stessa del Risorto da parte dei suoi, indicata nella convivialità del banchetto, significa anche condivisione di quella autorità di cui fin qui sulla terra sono investiti (9,1-2) e che viene espressa in quel “sedersi sui troni”, che dice investitura di un potere; mentre il “giudicare” esprime il manifestarsi di tale potere. Oggetto di tale potere sono “le dodici tribù di Israele”. Un giudizio che diviene di fatto un confronto tra le dodici tribù di Israele e i nuovi dodici capostipiti di un nuovo Israele, che, a motivo del rifiuto del primo, va a sostituirsi ad esso (Rm 9,30-33). La presenza di questi Dodici, investiti dello stesso potere divino, da cui si sta generando un nuovo Israele, costituisce di per se stesso un elemento di giudizio e di condanna per il primo Israele, a motivo del quale Paolo, in Rm 9-11, esprimerà dolore, sofferenza e sconcerto non riuscendo a capacitarsi del rifiuto dell'antico Israele e cercando di farsene una ragione, cercherà di giustificarlo inserendo il grande rifiuto in un progetto divino, poiché da tale rifiuto l'annuncio di salvezza fu esteso a tutte le genti, ma aprendo nel contempo alla speranza di un nuovo recupero di Israele alla fine dei tempi.

Il rinnegamento di Pietro preannunciato da Gesù (vv.31-34)

Note generali

Se le prime tre pericopi (vv.21-23; 24-27; 28-30), poste immediatamente dopo la cena pasquale e l'istituzione dell'eucaristia (vv.14-20), definiscono in qualche modo i rapporti che gli apostoli hanno avuto con Gesù, che si pone a fondamento e a parametro di raffronto nei rapporti intracomunitari (v.27b), le prossime due pericopi (vv.31-34; 35-38), con cui termina la seconda sezione della cena pasquale, formata dagli ultimi discorsi di Gesù, riguardano invece la difficile e contrastata testimonianza che gli apostoli sono chiamati a dare fin d'ora (vv.31-34) e per il futuro (vv.35-38).

Da un lato, si ha pertanto l'avvertimento di Gesù sull'impatto che la sua passione e morte avrà non soltanto su Pietro, ma anche su tutti gli altri apostoli (v.31-34), discepoli compresi (24,15-21); dall'altro, in una prospettiva ecclesiologica postpasquale, l'impegno testimoniale contrastato e sofferto, che accompagnerà gli apostoli nel cammino del dopo Gesù (vv.35-38).

La pericope in esame, vv.31-34, è composta per i vv.31-32 da materiale lucano in cui riecheggia al v.32 Gv 17,11-26, dove Gesù prega per i suoi. Quanto agli altri due versetti sono desunti dalla tradizione sinottica di Mt 26,34-35 e Mc 14,30-31, ma in Luca vengono invertiti, poiché non riportando l'evangelista Mc 14,29 si trova nella necessità narrativa di invertire i due versetti per dare un senso logico alla sequenza del dialogo tra Gesù e Pietro.

Commento ai vv.31-34

Il v.31 si apre con un doppio “Simone”, che se da un lato caratterizza il modo di esprimersi di Luca (10,41), dall'altro accentra l'attenzione su Pietro, che qui viene amichevolmente chiamato, nell'intimità dell'ultima cena, con il proprio nome. La cosa cambierà, sempre all'interno di questa pericope al v.34, dove il Simone si trasforma nel più noto e tradizionale Pietro. Un passaggio questo che va attribuito, a mio avviso, più che a sensi particolari, alla diversità delle fonti con cui è stata composta questa pericope.

Si tratta di un annuncio in cui il protagonista principale è Satana, che si era lasciato al v.4,13b con la promessa che questi sarebbe tornato al tempo stabilito. E il suo ritorno è già stato annunciato al v.3a, allorché “Satana entrò in Giuda”, con cui si pone sotto l'egida satanica l'intero racconto della passione e morte di Gesù e che Gesù stesso riconoscerà al v.53b. L'azione di Satana mira non soltanto a colpire Gesù, che definisce quel momento del suo arresto e della sua passione e morte, come l'ora e il potere delle tenebre, il tempo quindi di Satana, ma che punta a travolgere anche i suoi discepoli. Il verbo, posto all'aoristo “™xVt»sato Øm©j” (exetésato imâs, vi ha reclamati) parla di prove già avvenute e che sono state accennate al v.28. Interessante quel “vi ha reclamati”, poiché dice la pretesa di Satana di agire non soltanto su Gesù, ma anche sulle sue estensioni, i suoi discepoli, aprendo un nuovo fronte di scontro, che Gesù stesso prospetterà ai vv.35-38. La finalità di questa pretesa di Satana, di avocare a sé Gesù e i suoi, è finalizzata a “vagliarli come il grano”. Un'immagine questa che ricorre nel linguaggio profetico e prospetta l'intervento del giudizio divino che si compie nel giorno del Signore62. Il vagliare, pertanto, porta con sé un senso di giudizio escatologico che si compie nella prova, alla quale già sono stati sottoposti i discepoli con Gesù (v.28), stanno ora per essere nuovamente sottoposti con il dramma della passione e morte di Gesù e ancora lo saranno nel tempo postpasquale, quello della chiesa (vv.35-38). Il tempo che si prospetta davanti a loro è pertanto un tempo di prova, che non dà spazio né tregua alcuna e di cui già i discepoli erano stati preavvertiti in 9,23 e 14,27. Una pretesa questa di Satana, quella di reclamare per sé il diritto del vagliare e del sottoporre a prova, contro gli uomini e a sfida di Dio, che è ricorrente nel tempo e richiama Gb 1,6-2,7. Cambiano i contesti, cambiano i racconti, cambiano i tempi, ma Satana è sempre identico a se stesso e fedele al suo nome di avversario di Dio e accusatore della fragilità degli uomini63, che rinfaccia a quel Dio che ha preteso di farli a sua immagine e somiglianza.

Se il v.31 vede in azione Satana, che sottopone al vaglio gli apostoli e con loro i futuri discepoli, dall'altra, con il v.32, si contrappone Gesù con la sua preghiera, preludendo a contrapposizioni e lotte future (vv.35-38). Un versetto importante questo perché vede stabilire il primato di Pietro all'interno del gruppo dei Dodici, affidandogli la responsabilità della fede dell'intero gruppo. Un versetto questo che, nella sua densa brevità, richiama Gv 21,15-17. Anche là come qui, il Gesù giovanneo, dopo aver mangiato (Gv 21,15a), assegna la responsabilità del suo gregge a Pietro, nel contesto di una triplice dichiarazione di amore e di fedeltà da parte di Pietro, quasi a riparazione del suo triplice rinnegamento. L'attenzione di Gesù, qui al v.32, si focalizza su Pietro e, quindi, anche la sua scelta va a cadere su di lui, al quale Gesù riserva in modo speciale la sua preghiera, costituendolo quale baluardo della fede del gruppo dei Dodici e in loro di tutti i credenti; mentre baluardo per la fede di Pietro è Gesù stesso, che prega “affinché non venga meno la tua fede”. Una fede, quindi, che non è immune da manchevolezze, ma conosce anche momenti di fragilità, che vengono sottintesi nell'inciso “una volta che sei ritornato”, alludendo in modo quasi impercettibile al suo rinnegamento (vv.55-60) e al suo ritorno in quello sguardo incrociato con quello di Gesù, accompagnato da un pianto amaro e catartico nel contempo (vv.61-62).

Con i vv.33-34 Luca torna alla tradizione sinottica, dove Pietro attesta la sua determinata quanto inconsciamente fragile fedeltà a Gesù, proclamata fino alla morte. Versetti che, da un lato, anticipano il racconto del rinnegamento di Pietro (vv.55-60), dall'altro attestano ancora una volta di più l'onniscienza di Gesù (vv.8-13), mettendo in rilievo come Gesù non sia la vittima predesignata e travolta dal potere degli uomini e delle tenebre, ma come egli con la sua onniscienza domina e sovrasta gli eventi, che si svolgono secondo il progetto del Padre64.

A differenza di Marco e Matteo, che alla dichiarazione di Pietro fanno seguire la corale attestazione di fedeltà dei Dodici (Mc 14,31b; Mt 26,35b), Luca tace su questo, seguendo in tal modo Gv 13,37-38, preferendo incentrare l'attenzione soltanto su Pietro, sottolineando una volta di più la sua unicità e il suo primato.


Il dopo Gesù si prospetta travagliato per i suoi discepoli (vv.35-38)

Note generali

Con quest'ultima pericope, interamente dedicata ai Dodici e al futuro della nascente chiesa, prospettando per questa tempi difficili, fatti di contrapposizioni e di lotte, si chiude la sezione dei discorsi.

Un discorso questo (vv.35-38) che è stato già in qualche modo preannunciato al v.31, dove Gesù, rivolgendosi a Pietro, avvertiva il gruppo dei Dodici che “Satana vi ha reclamati per vagliar(vi) come il grano”. Davanti a loro, pertanto, si prospettano numerose prove, contrasti e lotte, intuibili in qualche modo anche dalla contrapposizione tra Satana e Gesù (vv.31.32): il primo reclama per se stesso il diritto di vagliare Gesù e i suoi seguaci; il secondo, invece, prega per Pietro e in lui per tutti i credenti, perché le prove non offuschino la loro fede. La comparsa, poi, qui, per due volte del termine spada lascia intuire come le prospettive per la nascente chiesa non siano tra le più tranquille e pacifiche.

Una pericope importante perché segna il passaggio dai tempi di Gesù (v.35) a quelli della chiesa (v.36), originatisi dal compiersi dell'evento Gesù, secondo le Scritture (v.37), ma che si scontra di fatto con l'inintelligenza invincibile dei Dodici (v.38), i cui effetti si vedranno ai vv.49-50 e dove il v.51 riprenderà sostanzialmente il v.38b

Un cammino, pertanto, molto tribolato, quello dei Dodici, che deve partire da una ricomprensione della persona di Gesù, della sua opera, della sua parola e della sua stessa missione. Cose che Luca lascia trasparire sullo sfondo dei due sperduti e disorientati discepoli di Emmaus, che, delusi da un mancato messia che doveva ricostituire Israele nella sua grandezza, si stavano allontanando da Gerusalemme, dal luogo degli eventi salvifici, che la loro visione storica di Gesù, impediva loro di vedere e di comprendere. Ci vorranno le Scritture per rifare la quadra su Gesù (24,27.32.45) e perché quell'allontanarsi dei due non diventi definitivo, decretando in tal modo la fine di tutto.

La pericope si presenta come una sorta di valutazione e di riflessione su materiale recuperato ai vv. 9,3 e 10,4, il cui contesto è quello proprio dell'invio in missione dei Dodici (9,1-3) e dei Settantadue (10,1-4). Un contesto che non va trascurato per comprendere come qui si stia parlando proprio del futuro della chiesa nascente, che si fonda nel suo espandersi e nel suo affermarsi sull'azione missionaria, raccontata da Luca negli Atti degli Apostoli.

Commento ai vv.35-38

Il v.35 si rifà all'esperienza missionaria sia dei Dodici che a quella dei Settantadue, dove Gesù inviava i suoi in mezzo alla gente, accompagnandoli con numerosi consigli e raccomandazioni, creando una sorta di guida del comportamento per questi primi missionari. Fu comunque un'esperienza felice e soddisfacente, benché faticosa (9,10; 10,17); un'esperienza, tuttavia, tutelata dalla presenza di Gesù e dalla sua fama. Egli era comunque un punto di riferimento sicuro e rassicurante in questo primo loro impatto missionario. E il v.35b attesta come all'epoca non ci fu nessun problema. Erano questi i tempi d'oro e idilliaci in cui Gesù era storicamente e fisicamente presente in mezzo a loro. Un tempo che ora i discepoli, guardando retrospettivamente, rimpiangono come un sogno durato troppo poco.

Con il v.36 cambia completamente lo scenario. Compaiono toni esattamente opposti a quelli del v.35. Qui il discorso si fa duro, esigente, non ammette errori e l'antica fiducia nel Maestro, che tutto provvedeva, ora deve essere sostituita dal proprio sapersi organizzare e dalle proprie risorse materiali e spirituali. Se a quel tempo non era necessaria la borsa del denaro o la bisaccia contenente l'attrezzatura propria del viandante, né serviva il bastone per sostenersi o difendersi durante il viaggio, ora le cose sono cambiate completamente. Serve un'organizzazione propria, serve un progetto di azione missionaria, serve reclutamento di discepoli; serve, in ultima analisi, una istituzionalizzazione. Da qui la necessità di ricorre alle simboliche borsa e bisaccia, cioè sia a risorse economiche che a strutture proprie per dare una consistenza storica all'annuncio della Parola e capaci di accogliere concretamente i nuovi credenti.

Il v.36 si conclude in modo sconcertante, spingendo a vendere il proprio mantello, una veste necessaria per il vivere quotidiano di quel tempo. Essa serviva sia da sacca, in cui mettere dentro i propri oggetti, sia da coperta per la notte o per le giornate fredde o, comunque, per una qualsiasi necessità di riparo. Un indumento, dunque, molto importante a tal punto che lo stesso Es 22,25-26 si sentirà in dovere di normare nel merito: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai al tramonto del sole, perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando invocherà da me l'aiuto, io ascolterò il suo grido, perché io sono pietoso”. Ebbene, di questo indumento così rilevante per il vivere quotidiano è ora necessario disfarsi per acquistare una spada. Uno strumento di vita e di pace che deve essere barattato con uno strumento di lotta, di guerra e di morte. Sono certo paradossi, che lasciano intravvedere come il quieto vivere dei tempi di Gesù (v.35) sia finito e come ora ciò che si prospetta per i Dodici e con loro i nuovi credenti siano tempi duri di lotta, di sofferenza, di persecuzione e di morte. Se Gesù rimane pur sempre il punto di riferimento fondamentale e imprescindibile per il credente, tuttavia la sua affermazione nella propria vita e nella vita stessa dell'intera società civile in tutti i suoi aspetti è ora affidata al credente stesso; dipende da lui se Gesù avrà successo o meno; se il suo pensiero si affermerà o si perderà. Una responsabilità che ricade unicamente su di lui. Da qui nasce tutto un processo che va dalla formazione del credente ad un insieme di strutture e mezzi perché ciò avvenga, perché Gesù si affermi e si diffonda, perché la salvezza non si disperda, ma giunga a destinazione, che ha come obiettivo l'intera umanità.

Il v.37 s'incunea nella riflessione su ciò che è stato (v.35) e su ciò che si prospetta ora per i discepoli (v.36) e si impone come elemento di valutazione e parametro di raffronto costante all'interno di questa riflessione. Il suo modo di porsi potremmo definirlo narrativamente prepotente. Una prepotenza che è finalizzata a rimarcare un concetto fondamentale che associa il capostipite di questa nascente chiesa ad un malfattore e che come tale egli è considerato e come tale è e verrà trattato. Non solo, ma come questo abbia a fondamento la stessa Scrittura e i Profeti. Il v.37, infatti, è scandito in tre parti: nella prima si attesta che quanto è stato scritturisticamente previsto su Gesù deve compiersi in lui; che cosa la Scrittura preveda su Gesù lo attesta la seconda parte del v.37, quella centrale, che nella logica della retorica ebraica è quella più importante. E ciò che qui viene detto è il richiamo ad Is 53,12: “tra gli empi fu computato”. Una citazione tratta dal quarto canto del Servo di Jhwh e che completa suona così “Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori”. Una citazione che presenta Gesù posto alla stregua dei malfattori, cosa che verrà raccontata nella scena della crocifissione di Gesù, posto tra due malfattori (23,33), ma che dice come proprio qui, nel punto più basso della missione di Gesù, che nelle logiche degli uomini ne decreta il pieno fallimento, in realtà si trovi il punto di forza per la conquista e il riscatto dell'intera umanità. Un versetto questo che Eb 2,10 riprenderà idealmente chiosandolo: “Ed era ben giusto che colui, per il quale e del quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto mediante la sofferenza il capo che guida alla salvezza”. Una sofferenza, pertanto, colta in chiave missionaria, che a Luca, l'evangelista di una ecclesiologia missionaria, l'unico tra gli evangelisti che associa Gesù al Servo di Jhwh in questa prospettiva, non poteva sfuggire. Quanto alla terza parte del v.37, questa è una rimarcatura della prima parte e ne sottolinea il suo certo compimento.

Dopo una intensa riflessione (vv.35-36), accompagnata da una consistente teologia e cristologia basata sulla sofferenza in vista di una salvezza universale (v.37), la pericope si chiude con il v.38 in un modo quasi barzellettistico, forse per stemperare la densità della pericope. Una battuta che lascia molto amaro in bocca, perché, a ridosso della passione e morte di Gesù, denuncia tutta l'inintelligenza dei Dodici, che troverà il suo banco di prova ai vv.49-51: l'uso della spada contro il quale Gesù è costretto a ripetere il suo sfiduciato: “Basta, smettetela”.

Gli eventi del monte degli Ulivi (vv.39-54)

Sotto questo titolo vanno raccolti due quadri, posti all'interno di un'unica cornice, quella del monte degli Ulivi: l'agonia di Gesù (vv.39-45) e il suo arresto (vv.46-54). Questi fungono in qualche modo da transizione tra l'ultima cena (vv.14-38) e la consegna di Gesù alle autorità giudaiche e da qui a quelle pagane, che occuperà, quest'ultima, l'intero cap.23. Vi è qui un graduale passaggio tra l'intimità dei suoi, incapaci, per la loro pervicace inintelligenza, di sostenere il loro maestro in un momento di particolare gravità e di fatto abbandonandolo al dramma del suo destino, che viene focalizzato ai vv.42-44, e l'arresto di Gesù (v.54) che dal monte degli Ulivi viene consegnato alle autorità giudaiche. Dal v.54, pertanto, Gesù non appartiene più soltanto ai suoi, ma in un continuo passamano viene spogliato di ogni individualità, da ogni appartenenza e di ogni identità fino ad essere associato a due altri malfattori, all'interno di una comune esecuzione di più condanne. Ma è proprio attraverso questa graduale e crescente spogliazione di se stesso che la persona di Gesù, il suo patire e il suo morire assumono lentamente la configurazione di una universalità destinata ad abbracciare l'intera umanità di ogni tempo e latitudine (Fil 2,6-11). Abbandonato, tradito e rinnegato dai suoi, incapaci di cogliere in lui il Mistero che lo agitava; ripudiato dal giudaismo e dal mondo pagano (Gv 1,10-11) ora egli, esposto a tutti sulla croce, appartiene soltanto a chi crede in lui, indipendentemente dalla sua identità di appartenenza e dalla sua qualifica esistenziale (23,42.47-48). Da questo momento solo per chi crede in lui, lui, il crocifisso, diviene fonte di salvezza. 1Cor 1,22-24 elaborerà proprio questo concetto di salvezza universale della croce: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”.

L'agonia di Gesù (vv.39-45)

Testo

39 – Ed uscito, andò, secondo la consuetudine, al monte degli Ulivi; ora, lo seguirono anche i discepoli.
40 – Ora giunto sul luogo, disse loro: <<Pregate per non entrare in tentazione>>.
41 – Ed egli si allontanò da loro circa un lancio di pietra e messe giù le ginocchia, pregava
42 – dicendo: <<Padre, se vuoi, rimuovi questo calice da me. Tuttavia, non la mia volontà, ma la tua sia fatta>>.
43 – Ora, gli apparve un angelo dal cielo, che lo confortava.
44 – Ed essendo in angoscia pregava più intensamente. E il suo sudore divenne come grumi di sangue che scendevano sulla terra.
45 – E alzatosi dalla preghiera, andato verso i discepoli, li trovò addormentati per la tristezza,
46 – e disse loro: <<Perché dormite? Alzatevi, pregate affinché non entriate in tentazione>>.


Note generali

Benché il racconto dell'agonia nell'orto di Getsemani sia presente in tutti tre i Sinottici, tuttavia quello lucano differisce notevolmente sia per la diversa disposizione dei testi, sia per le numerose omissioni e sia per aggiunte di materiale proprio rispetto agli altri due, che, invece, vanno in parallelo tra loro. Luca, infatti, dopo l'annotazione che Gesù andò verso il monte degli Ulivi (v.39), in accordo con Mt 26,30 e Mc 14,26, tralascia l'annuncio ai discepoli del loro abbandono e del rinnegamento di Pietro, che aveva invece anticipato nella sezione della cena pasquale (vv.31-34), ma in modo completamente diverso nei contenuti stessi, con aggiunta redazionale ai vv.31-32; tace il nome della località, Getsemani, sostituendolo con un anonimo “giunse sul luogo”; omette la scelta dei tre discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni; tralascia di descrivere l'abbattimento morale di Gesù, la cui anima è triste fino alla morte; e mentre per Matteo Gesù cade con la faccia a terra e per Marco si buttò a terra, per indicare lo stato do prostrazione psicofisica di Gesù, Luca si limita a dire, in modo più contenuto, che “mise giù le ginocchia”; evita il pleonastico andirivieni di Gesù per tre volte presso i discepoli, che trova sempre addormentati, così come il ripetersi per tre volte in Matteo e due volte in Marco della stessa preghiera al Padre: che gli allontani l'amaro calice. Per contro, aggiunge materiale proprio come la scena dell'angelo consolatore (v.43) e il sudore che cola a terra simile a grumi di sangue; e rivolto ai discepoli, limita soltanto a due volte il richiamo alla preghiera.

Le notevoli diversità tra Luca e gli altri due Sinottici hanno suggerito a diversi esegeti che l'autore si sia servito di fonti proprie o quanto meno le avesse elaborate a modo proprio. Personalmente ritengo che sia più opportuno pensare soltanto a liberi interventi redazionali da parte di Luca, forse, tutt'al più, basati su ricordi di qualche racconto che ha sentito presso le comunità dove veniva alloggiato nel suo pellegrinare missionario.

La pericope vv.39-46 è delimitata dall'inclusine data dall'espressione “pregare per non cadere in tentazione”, che troviamo ai vv.39.46, costituendo in tal modo un'unità narrativa compatta e ben circoscritta, assegnando al tema della preghiera nella prova, il cui termine si ripete ben quattro volte in pochi versetti (vv.40.41.44.46), raggiungendo il suo vertice in quella di Gesù ai vv.42.44, il ruolo fondamentale e primario nella vita del credente, in particolar modo nel tempo della prova. Da questa, suggerisce l'evangelista, ne esce sempre un sostegno divino (v.43).

La struttura di questa pericope è particolarmente elaborata ed è formulata a parallelismi concentrici in C), che costituisce il vertice della pericope stessa. Per cui, dopo l'introduzione del v.39, si avrà:

A) Gesù sollecita i suoi a pregare per non entrare in tentazione (v.40);

         B) Gesù, allontanatosi dai suoi, si inginocchia per la preghiera personale (v.41);

             C) l'intensa preghiera di Gesù nel momento della prova estrema (vv.42-44);

              B1) Gesù si alza dalla preghiera personale e torna dai suoi (v.45)

    A1) Gesù sollecita i suoi a pregare per non entrare in tentazione (v.46)


Commento ai vv. 39-46

Il v.39 funge da transizione dalla precedente scena della cena pasquale, a cui Luca ha fatto seguire la sezione degli ultimi discorsi di Gesù, a quella del monte degli Ulivi. Quindi, da un luogo chiuso ad uno aperto, rilevato dal verbo iniziale: “Uscito”. Come dire che qui si gira pagina, creando uno stacco netto tra il prima e il dopo, cercando, tuttavia, di dare una sorta di continuità narrativa al racconto con quel “Kaˆ” (Kaì, E) iniziale, che lega in qualche modo gli eventi del monte degli Ulivi a quelli dell'ultima cena, quasi a dire che ciò che è avvenuto in quel contesto, come il pane spezzato, il vino versato, segni del suo corpo e sangue dati “per voi”, l'annuncio del rinnegamento di Pietro, tutto questo ora comincia ad assumere contorni storici più concreti. Quindi si crea una sorta di continuità teologica tra la cena pasquale dell'istituzione eucaristica e gli eventi del monte degli Ulivi con tutto ciò che ne conseguirà.

Gesù esce “secondo consuetudine”. Luca è l'unico tra i Sinottici a rilevare questo particolare, che, se da un lato, ha un suo senso logico poiché dà continuità a quanto già detto in 19,37, dove Gesù “Durante il giorno insegnava nel tempio, la notte usciva e pernottava all'aperto sul monte detto degli Ulivi65, dall'altro si accorda con il racconto giovanneo che similmente attesta in 18,2b come “spesso Gesù si raccolse là con i suoi discepoli”. Il luogo dove Gesù era solito trovarsi con i suoi è il monte degli Ulivi. Un nome che evoca la figura di Davide che “saliva l'erta degli Ulivi; saliva piangendo e camminava con il capo coperto e a piedi scalzi; tutta la gente che era con lui aveva il capo coperto e, salendo, piangeva” (2Sam 15,30), mentre fuggiva dal tradimento del figlio Assalonne. Un monte, quindi, che in qualche modo è legato al tradimento di una persona strettamente congiunta a Davide e dove la sofferenza e il dolore lo attanagliava; così come il monte degli Ulivi diviene il luogo del tradimento di Giuda, uno dei Dodici, strettamente legato a Gesù; nonché il luogo dell'agonia di Gesù, che il cieco di Gerico invocò come “figlio di Davide” (18,38.39) e che Luca lega strettamente a questa figura66. Un nome, quello del monte degli Ulivi, che in Luca ricorre quattro volte67, creando una sorta di filo rosso che lega in qualche modo gli eventi dell'entrata festosa di Gesù in Gerusalemme, la sua proclamazione regale e messianica con il tradimento, l'arresto e la sua passione e morte.

Il v.39 termina con una significativa annotazione: “ora, lo seguirono anche i discepoli”, che richiama da vicino il v.14, dove Gesù “quando venne l'ora, si coricò (a tavola) e gli apostoli con lui”, rilevando la profonda comunione tra Gesù e i suoi. Una comunione conviviale, che iniziatasi nel pane spezzato e nel vino versato, si fa ora anche sequela sul monte degli Ulivi, la strada che apre il cammino verso la croce. Una comunione tra discepoli e Gesù che già Luca aveva evidenziato in 6,17a, dove Gesù, dopo aver scelto i suoi Dodici (6,12-16), scese dal monte con loro e stette insieme a loro su di un luogo pianeggiante. Il verbo qui usato, “ºkoloÚqhsan” (ekolútzesan), nel linguaggio dei vangeli, definisce una sequela che va ben oltre il semplice seguire Gesù. Il verbo significa: “stare dietro, andare assieme, lasciarsi guidare, aderire, imitare, appartenere”, mentre il sostantivo ¢kÒlouqoj (akólutzos) significa compagno, servo, colui che segue il proprio padrone per servirlo. Quindi in quel “ekolútzesan” c'è ben di più di una semplice sequela, in quanto che esprime un orientamento esistenziale che pone la propria vita a servizio di Gesù, sulla via della croce (9,23; 14,27).

Con il v.40 ha ora inizio la descrizione del primo quadro della scena del monte degli Ulivi. Gesù qui è ancora in intimità con i suoi, quasi un prolungamento dell'ultima cena. La descrizione si fa essenziale nel suo volgersi narrativo, tutta incentrata sulla preghiera nel momento della prova, che ha il suo modello in Gesù (vv.42-44). Gesù con i suoi giunge “sul luogo”. Mt 26,36 e Mc 14,32 storicizzano il luogo nel “Getsemani”; similmente, benché più vago, Gv 18,1b parla di un orto posto al di là del torrente Cedron. Luca preferisce l'anonimato, forse perché sta parlando ai suoi lettori greco-ellenisti che non conoscono il territorio della Palestina; o forse proprio perché lui stesso, parimenti ai suoi lettori, non lo conosce; o forse, considerati gli intenti parenetici lucani sulla passione di Gesù, perché l'anonimato del luogo dice che ogni luogo è utile per la preghiera. Ma sappiamo, comunque, che si tratta di un luogo posto sul monte degli Ulivi (circa 830 mt s.m.). Il monte, quale luogo preferito da Gesù per la sua preghiera (6,12; 9,28-29a), dove egli entra in intimità con il Padre. Ed è qui che il Gesù lucano si rivolge a tutti i suoi discepoli, sollecitandoli a pregare per non entrare in tentazione, come già similmente li aveva esortati nell'insegnare loro a pregare (11,1-4), a differenza di Mt 26,37a e Mc 14,33a che si limitano ai soli Pietro, Giacomo e Giovanni. L'azione catechetica lucana, a motivo dello spirito missionario che anima questo evangelista, non è mai esclusiva, ma inclusiva.

Il v.41 forma da preambolo alla preghiera di Gesù e descrive in qualche modo lo stato d'animo di Gesù e quanto sta avvenendo tra lui e i suoi: “egli si allontanò da loro circa un lancio di pietra”. L'espressione, “quanto un tiro di sasso” è un modo figurato per dire qualche decina di metri, probabilmente noto presso il mondo greco-ellenistico, ma non presso quello giudaico, visto che tra i quattro evangelisti Luca è l'unico che riporta questo modo di dire. Mt 26,39a e Mc 14,35a dicono soltanto: “dopo essere andato un po' avanti” (“proelqën mikrÕn”, proeltzòn mikròn). Ma l'attenzione qui non va posta tanto sul modo figurato di esprimersi di Luca, quanto sul verbo che egli usa per dire che “si allontanò” da loro: “¢pesp£sqh68 (apespástze), che letteralmente significa “divellere, strappare via, trascinare via, separare”. Non si tratta, pertanto, di un semplice momentaneo ed occasionale allontanamento, ma un qualcosa di molto più profondo e doloroso, cui Gesù è sottoposto. Il verbo, infatti, è posto al passivo e, quindi, va inteso come un “essere divelto, strappato via, trascinato via, separato”. Se nel linguaggio degli evangelisti il verbo al passivo va considerato come passivo divino o teologico, in quanto che rimanda l'azione a Dio stesso, che su Gesù sta attuando il suo piano di salvezza “per voi”, di cui Gesù è lo strumento attuativo, tuttavia esso prelude anche in qualche modo al suo arresto (v.54a).

L'altro aspetto è il modo di pregare di Gesù, una volta giunto sul luogo della sua preghiera: “messe giù le ginocchia”. Mt 26,39 dice che Gesù “cadde sulla sua faccia”; mentre Mc 14,35 racconta che Gesù “si gettò a terra”. Espressioni dure quelle dei due sinottici, che in Matteo rasenta la violenza, per indicare lo stato di prostrazione morale e spirituale in cui si trovava Gesù in quel frangente: schiacciato sotto un peso insostenibile. Luca sceglie un'altra forma, che ha un impatto meno duro e meno offensivo per il delicato palato del lettore greco-ellenista, ma che non è consueta presso i Giudei, i quali per pregare stanno diritti in piedi di fronte a Dio (18,11): Gesù mette a terra le ginocchia. Ma questo va letto non tanto in una prospettiva di preghiera, quanto quale atteggiamento di supplica che Gesù sta per rivolgere al Padre. Quindi un atteggiamento di umile sottomissione al Padre, dal quale attende tutto, ma non pretende nulla, in tutto a lui sottomesso69. Va letto in questo atteggiamento corporale di Gesù nel suo modo di pregare, una sorta di esempio di preghiera in frangenti di persecuzione: umiltà supplice e abbandono al Padre. Una preghiera che deve essere continuativa e instancabile, come suggerisce quell'imperfetto indicativo, che esprime un'azione durativa: pregava, che va compreso come “continuava a pregare”, preludendo a quel “pregava più intensamente” del v.44a.

I vv.40.41 potremmo considerarli preliminari e convergenti al v.42. Se il v.40, infatti, sollecita alla preghiera i discepoli, quale strumento di lotta per non soccombere alla tentazione e il v.41 delinea l'atteggiamento che deve animare l'orante nei confronti di Dio, il v.42 presenta ora il contenuto della preghiera stessa; un esempio di piena sottomissione al Padre e abbandono alla sua volontà, che troverà il suo vertice in 23,46: “E gridando con grande voce, Gesù disse: <<Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito>>. Ora, detto questo, spirò”. L'ultimo atto di Gesù, che corona una vita tutta protesa a compiere la volontà del Padre.

Benché il contenuto della preghiera di Gesù al Padre si equivalga sostanzialmente tra i tre Sinottici, con qualche lieve differenza, tuttavia la preghiera del Gesù lucano diverge notevolmente quanto a senso della preghiera stessa. Mt 26,39.42 presenta una preghiera del suo Gesù che tende più che altro alla rassegnazione, più che ad un abbandono accogliente al Padre. Tutto si gioca sulla contrapposizione dei due verbi: “se è possibile, passi oltre questo calice” (Mt 26,39) e successivamente: “se non è possibile che questo calice passi oltre, senza che lo beva, avvenga la tua volontà” (Mt 26,42), insistendo ancora per la terza volta (Mt 26,44). Atteggiamento, dunque, di rassegnazione. Il Gesù marciano, invece, punta tutto sull'onnipotenza del Padre: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te” (Mc 14,35) ed insiste ancora con le medesime parole (Mc 14,39), quasi a voler piegare la volontà del Padre alla sua. Diverso è l'atteggiamento del Gesù lucano, il quale non manifesta atteggiamenti rassegnati e insistenti e tali da voler quasi spingere il Padre a compiere la propria volontà. Luca presenta il suo Gesù totalmente remissivo: “Padre, se vuoi, rimuovi questo calice da me”. Gesù qui esordisce con un “se vuoi”, in cui quel “se” costituisce la condizione primaria, che risiede nella volontà stessa del Padre, rimettendosi, quindi, fin da subito alla sua volontà. Tutto il resto è conseguente.

Mentre il Gesù matteano e marciano non ottiene nessuna risposta dal Padre, forse alludendo in qualche modo al silenzio di Dio, qui il Padre conforta Gesù con la presenza di un angelo, che potremmo considerare come un sostegno morale e spirituale offerto dal Padre a suo Figlio. Luca, sembra qui indicare ai suoi come non è da aspettarsi dalla preghiera aiuti materiali o interventi mirabolanti e travolgenti di Dio, ma un sostegno spirituale, che aiuta il credente sottoposto alla prova a sostenerla con forza e fiducioso abbandono nelle sue mani. Il verbo qui usato per indicare il conforto offerto a Gesù dall'angelo è “™niscÚwn” (enischíon), che significa letteralmente “infondere vigore in qualcuno”. Non si tratta, quindi, di una semplice pacca sulle spalle che dice “fatti coraggio”, ma lascia il tempo che trova. Qui Luca, con questo verbo, dice gli effetti della preghiera stessa, che nel mettere in relazione il credente con Dio (questo è il senso dell'angelo dal cielo) gli infonde forza e coraggio nell'affrontare la prova. Una scena simile a questa si trova nel ciclo di Elia in 1Re 19,1-8, dove Elia, perseguitato dalla regina Gezabele, dopo essersi opposto duramente al culto di Bal, si rifugia nel deserto e si addormenta aspettando la morte. Ma l'angelo del Signore lo costringe a rialzarsi e a mangiare un pane e a bere un'acqua, che possiedono in loro stessi la stessa forza di Dio. Elia riprende vigore e intraprende il suo cammino verso il monte l'Oreb dove lo aspetta Dio.

Il v.44 presenta il volto più umano ed intimo di Gesù e che lo accomuna a tutti gli uomini, posti di fronte alla durezza della prova estrema. Luca, qui, come medico dà una prova del suo sapere e, unico tra gli evangelisti, presenta al suo lettore quello che sembra essere un caso di ematoidrosi70, che qui l'evangelista lega ad un forte stato di stress psicofisico: “Ed essendo in angoscia”. Un'angoscia legata data da uno stato di profonda agitazione e tormento interiore che provoca una sudorazione mista a sangue. Il termine greco “¢gwn…v” (agonía) significa lotta, combattimento, ma altresì angoscia, agitazione. Ho preferito tradurre angoscia perché è lo stato di prostrazione psicofisica in cui sembra trovarsi Gesù. Del resto il termine greco “¢gwn…v”, che compare nel N.T. soltanto qui, si trova altre tre volte nell'A.T. in 2Mc 3,14.16 e 15,19 dove viene tradotto rispettivamente con “agitazione, tormento, angoscia”71. Del resto qui non ci troviamo di fronte ad un super eroe che sta lottando da solo contro tutti, ma ad uomo interiormente distrutto e tale da dover essere sostenuto dall'angelo. Per questo la sua preghiera si fa più intensa, in quanto questa rafforza il suo rapporto con il Padre, da cui defluisce la sua consolazione e il suo sostegno.

Il v.45 è scandito in tre parti: a) Gesù si rialza dalla preghiera; b) va verso i suoi; c) li trova addormentati per la tristezza. Tutto il gioco di questo versetto si svolge all'interno della contrapposizione tra il Gesù che si rialza e i suoi che sono invece coricati e avvolti nel sonno per la tristezza. Tra le due posizione vi è Gesù che va verso di loro. I vv.41b.44 descrivono, infatti, un Gesù notevolmente prostrato, ma che nel contempo prega intensamente (v.44a). Per contro, il v.45 si apre presentando un Gesù che “si rialza dalla preghiera”, evidenziando in tal modo gli effetti della preghiera stessa, capace di rigenerare spiritualmente, infondendo forza spirituale, così come Elia, mangiando quel pane e bevendo quell'acqua viene rigenerato nelle sue forze e reso capace di intraprendere il suo cammino verso l'Oreb. In contrapposizione a Gesù “rialzato” Luca presenta, poi, i discepoli che, invece, sono prostrati perché, anziché pregare, si sono lasciati vincere dal sonno, causato dalla tristezza, probabilmente dovuta all'annuncio del tradimento (vv.21-23), al preannunciato rinnegamento di Pietro (vv.33-34), alla prospettiva di una prova imminente a cui tutti sarebbero stati sottoposti (v.31), ad una generale sensazione che ormai un tempo stava per finire. La tristezza, specialmente se duratura e profonda può creare uno stato generale di spossatezza psicofisica, che può ingenerare un sonno quale inconscio strumento di difesa. Non so se Luca pensasse a questo o volesse soltanto stigmatizzare il comportamento dei discepoli, i quali, anziché cercare conforto nella preghiera, cercavano rifugio e rimedio nei mezzi umani come il sonno, considerato che Gesù, poi, al v.46, li sollecita ad abbandonare il sonno per rifugiarsi, invece, nella preghiera. Il proprio aiuto, pertanto, non va riposto nei mezzi umani, ma in quelli divini.

Di mezzo alle due contrapposte posizione vi è il movimento di Gesù che va verso di loro, quasi volendo soccorrere i suoi discepoli afflitti da una situazione che li opprime, prostrandoli in un sonno che più che ristoratore è una sorta di via di fuga da una situazione per loro completamente nuova e insostenibile. Sarà lui, Gesù, nel successivo v.46 che indicherà loro la via del riscatto.

Il v.46 chiude il rapporto di intimità con i suoi, iniziatosi al v.14, in modo allarmistico: “Perché dormite? Alzatevi, pregate affinché non entriate in tentazione”. L'urgenza di smettere di dormire viene dettata dalla successiva drammatica pericope vv.47-54, dove si consuma il tradimento di Giuda e l'arresto di Gesù, che viene strappato dai suoi e non verrà più restituito loro se non dopo una violenta e atroce morte. Un trauma insostenibile, che non può che essere superato se non vegliando nella preghiera, senza ricorrere al sonno di illusioni messianiche o contrapposizioni armate (vv.38a.49-50).

L'arresto di Gesù (vv.46-54)

Testo a lettura facilitata

Il tradimento: Gesù e Giuda (vv.47-48)

47 – Mentre egli ancora parlava, ecco una folla, e colui che è detto Giuda, uno dei Dodici, andava davanti a loro e si avvicinò a Gesù per baciarlo.
48 – Ma Gesù gli disse: <<Giuda, con un bacio consegni il Figlio dell'uomo?>>.

L'insensata reazione dei discepoli: Gesù e i suoi (vv.49-51)

49 – Ora, avendo visto quelli attorno a lui ciò che stava per accadere, dissero: <<Signore, se colpissimo con la spada?>>.
50 – E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e portò via il suo orecchio destro.
51 – Ma Gesù rispondendo disse: <<Smettete! Fino a questo!>>. E preso il lobo, lo guarì.

L'arresto di Gesù: Gesù e le autorità giudaiche (vv.52-54)

52 – Ora, Gesù disse verso quelli erano venuti da lui, sommi sacerdoti e capi del tempio ed anziani: <<Come per un ladro siete usciti con spade e bastoni?
53 – Ogni giorno, mentre ero con voi nel tempio, non stendeste le mani su di me; ma questa è la vostra ora e il potere delle tenebre>>.
54 – Ma insieme presolo, (lo) portarono (via) e (lo) condussero dentro nella casa del sommo sacerdote. Ma Pietro lo seguiva da lontano.


Note generali

Benché il racconto dell'arresto di Gesù sia sostanzialmente identico nei contenuti a quello marciano, tuttavia diverge sia nella disposizione dei fatti che nella loro ricostruzione. L'episodio dei discepoli che colpiscono con la spada il servo del sommo sacerdote è più completo e più fluido in Luca, che termina con la guarigione del servo colpito di spada. Luca è l'unico tra gli evangelisti a narrare quest'ultimo particolare. Mentre in Mc 14,47 l'evento si riduce ad un semplice accenno; per Mt 26,51-54 invece l'episodio diviene l'occasione per sottolineare l'inutilità del gesto di Pietro, a cui viene contrapposta l'onnipotenza di Gesù sopra i suoi avversari, lasciando intendere che il consegnarsi di Gesù ai suoi avversari è dettato esclusivamente da un libero gesto personale e da una libera sottomissione al Padre. Quanto all'arresto di Gesù, questo avviene per Mt 26,50b e Mc 14,46 subito dopo il bacio di Giuda, Luca lo pone, più verosimilmente, a conclusione degli eventi che hanno animato il racconto dell'arresto di Gesù (v.54a).

Compaiono anche qui omissioni rispetto a Marco e Matteo. Manca in Luca il dialogo tra Giuda e le autorità giudaiche circa il segno di riconoscimento di Gesù; mentre il bacio a Gesù è soltanto supposto in Luca. L'evangelista, poi, a differenza di Mt 26,56b e Mc 4,50, omette la fuga dei discepoli al momento dell'arresto di Gesù, forse per non gettare discredito sul gruppo dei Dodici. Questi scompaiono semplicemente nel nulla. Luca tralascia l'episodio tutto marciano del giovinetto presente all'arresto e che fugge nudo (vv.51-52).

Nell'insieme il racconto dell'arresto di Gesù risulta nel suo svolgersi narrativo più scorrevole, più omogeneo e verosimile nello svolgersi degli eventi, che vengono narrati nella loro essenzialità, senza disperdere l'attenzione del lettore su particolari irrilevanti per la cristologia lucana.

La struttura del racconto dell'arresto di Gesù si snoda su tre nuclei nei quali l'attore principale è Gesù e attorno a lui scorrono tre diverse tipologie di personaggi: Giuda, il traditore (vv.47-48); i discepoli, travolti dalla loro inintelligenza (vv.49-51), già segnalata al v.38a; le autorità giudaiche, che vengono qui associate al potere delle tenebre (vv.52-54).

Commento ai vv. 47-54

Il tradimento: Gesù e Giuda (vv.47-48)


Il secondo quadro del Getsemani, l'arresto di Gesù, subentra al primo (vv.39-46) con una continuità narrativa di tipo temporale: “Mentre egli ancora parlava”, legando quest'ultimo al primo, ma nel contempo segnando il passaggio tra l'intimità di Gesù con i suoi, iniziatasi con il v.14, al traumatico dramma del Golgota, attraverso un lungo cammino di sofferenza. Da questo momento Gesù non appartiene più esclusivamente ai suoi, ma a tutti quelli che credono in lui. Viene segnato il passaggio da un Gesù esclusivo ad un Gesù inclusivo: dai suoi all'intera umanità, che meglio appare in Gv 12,32.

Sulla scena compare, quasi d'improvviso, “una folla”, la cui anonimia verrà sciolta al v.52a, indicandone i capi: “sommi sacerdoti e capi del tempio ed anziani”. Dovevano esserci, tuttavia, molte altre persone, poiché si parla di “folla” e di persone venute con “spade e bastoni” (v.52b) e non è pensabile che questi fossero branditi dai sommi sacerdoti, capi del tempio ed anziani. Gli altri due Sinottici parlano più credibilmente di folla armata di spade e bastoni inviata dalle autorità giudaiche (Mt 26,47; Mc 14,43). Giovanni parlerà di un'enorme quantità di persone: una coorte, un corpo militare romano composto da seicento soldati, in aggiunta ai quali vi erano dei servi inviati dai sommi sacerdoti e dai farisei (Gv 18,3).

Ma all'autore tutto questo per il momento non interessa, perché ora vuole mettere in rilievo la figura di Giuda e lo fa, da un lato, giocando sull'anonimato della folla e, quindi in un certo qual modo oscurandola; dall'altro, mettendo in luce il nome di Giuda, qui definito dettagliatamente, ritagliato dal resto della folla, focalizzando in tal modo l'attenzione del suo lettore su quest'ultimo, lasciando sullo sfondo la folla, avvolta nel suo anonimato.

A guidare questa folla vi è Giuda, indicato come uno dei Dodici, per sottolineare la gravità del tradimento. L'espressione “colui che è detto Giuda, uno dei Dodici” non va pensata come un residuo di racconto precedente inserito qui senza modifiche da Luca, ma come una focalizzazione su questo apostolo, scelto come gli altri da Gesù (6,13.16b), quindi un suo intimo. Il nome di Giuda appare qui come già noto e pacificamente conosciuto come il traditore, per cui Luca sembra dire ai suoi lettore che, sì, è proprio lui, quel Giuda lì, che egli aveva già ricordato in 22,3, come colui nel quale era entrato satana, così che a capo di quella schiera vi era solo uno strumento di satana.

Il bacio che Giuda cerca di dare a Gesù, ma non si sa se questo sia stato dato, non è espressione di affetto, ma di rispetto del discepolo verso il suo maestro. Si tratta, quindi, di un gesto usuale che intercorre in tale rapporto. Con il v.48 Gesù previene il gesto di Giuda e sa, senza che in nessun modo venga menzionato, come quel bacio sia il segno del tradimento, lasciando trasparire in tal modo ancora una volta la sua onniscienza e, quindi, il dominio che egli ha sugli eventi che gli stanno per capitare. Non vittima, dunque, ma attore, che dominerà la scena in questo secondo quadro del Getsemani. Un tradimento che viene consumato a danno non di Gesù, ma del “Figlio dell'uomo”. Un titolo ufficiale che toglie a Gesù ogni veste di familiarità e di intimità, indicandolo come il messia che porta con sé il giudizio escatologico. A questo titolo, infatti, è legata una sentenza, che grava proprio sul traditore: “Poiché il Figlio dell'uomo se ne va secondo lo stabilito; tuttavia, guai a quell'uomo per mezzo del quale viene consegnato” (v.22); un titolo che è legato alla potenza stessa di Dio, che si manifesterà nella risurrezione (v.69) e ricordato per un'ultima volta in 24,7 come legato alla passione morte e risurrezione.

L'inintelligente reazione dei discepoli: Gesù e i suoi (vv.49-51)

La breve pericope in esame va considerata come una sorta di drammatizzazione del v.38, dove i discepoli porgono a Gesù due spade, quale esito della loro incapacità di comprendere il senso delle esortazioni di Gesù da parte dei suoi; là dove Gesù sollecitava a vendere il proprio mantello per comperare una spada (v.36b). Il senso era che il tempo della tranquilla vita con Gesù (il mantello) era ormai finito e che ora i discepoli dovevano affrontare in prima persona le persecuzioni e lottare per affermare il messaggio di Gesù, testimoniandone la risurrezione con la propria vita (spada). Ma la comprensione di Gesù come un messia terreno, rivoltoso e combattente aveva chiuso le menti dei suoi discepoli, che non riuscivano ad andare oltre72. Ed è in questa prospettiva che Luca riporta qui l'episodio del taglio dell'orecchio al servo del sommo sacerdote.

Il racconto dell'intervento armato da parte di un anonimo discepolo o di Pietro, per Gv 18,10, contro il servo del sommo sacerdote è riportato da tutti gli evangelisti73. L'episodio tuttavia lascia molto a desiderare quanto a storicità, poiché urta contro il contesto in cui esso si colloca. Il gesto di estrarre una spada e scagliarsi contro il servo del sommo sacerdote, ferendolo all'orecchio, avrebbe sicuramente provocato l'intervento armato del piccolo esercito e il discepolo aggressore o sarebbe stato ucciso sul posto o quanto meno arrestato assieme a Gesù. Simile sorte sarebbe toccata agli altri lì presenti. Gli evangelisti, invece, non menzionano nessuna reazione da parte della forza di arresto, che ha assistito all'aggressione armata. L'episodio quindi assume contorni più simbolici che storici. È probabile che il racconto dell'intervento armato da parte di un discepolo voglia denunciare il concetto di un messianismo rivoluzionario e armato, condannato da Gesù, perché contrastava con il progetto salvifico pensato dal Padre e certamente perdente, se si pensa al contesto storico in cui Gesù visse, dove sedicenti profeti, visionari o autoproclamatisi re o rivoltosi, messisi a capo di piccoli eserciti, non erano una rarità, mentre tutti i tentativi di sollevazione finivano regolarmente in un bagno di sangue74. Gli stessi sinedriti, in Gv 11,47-48, temono simili eventi, per cui decidono di sopprimere Gesù prima che sia troppo tardi (Gv 11,49-50) e ciò a ridosso delle festività pasquali, il tempo opportuno in cui in genere scoppiavano le rivolte. Il racconto probabilmente è rivolto a tutti quei discepoli o comunque seguaci di Gesù e del suo pensiero, che intendevano instaurare il regno di Dio o il regno messianico attraverso rivolte armate75; un regno dalle dimensioni storiche, che prevedeva la cacciata dell'invasore romano e la ricostituzione dell'autonomia nazionale di Israele, richiamandosi agli splendori dei regni davidico e salomonico. Gli stessi discepoli in At 1,6 denunciano tutta la loro inintelligenza circa la reale portata della missione di Gesù e della natura del Regno che egli è venuto ad inaugurare, allorché lo sollecitano a costituire il nuovo regno messianico di Israele. La risposta di Gesù al gesto aggressivo è l'ordine di smetterla per dare invece spazio al progetto del Padre. L'uso dell'imperativo “'E©te” (Eâte, Smettete) non lascia dubbi sulle intenzioni di Gesù: le rivolte armate non rientrano nei progetti del Padre, né tanto meno fanno parte della sua missione. Tuttavia, lascia perplessi il fatto che qualcuno nel gruppo degli intimi di Gesù abbia con sé delle armi. Perché, poi, Gesù avrebbe tollerato gente armata nel suo gruppo? L'equivoco nasce dal termine “m£caira” (mácaira), che viene in genere tradotto con “spada”, ma in realtà esso indica un coltello di vario uso, che serviva per compiere i sacrifici o tagliare la carne; ma anche indica il rasoio. Questo è il suo primo significato. Come arma esso può significare anche pugnale, sciabola, daga, spada leggermente ricurva a un solo taglio. È dunque da pensare che alcuni discepoli non portassero una spada, ma tuttalpiù un coltello, all'epoca di normale uso, che poteva servire per tagliare un qualsiasi oggetto. Potremmo paragonarlo al nostro odierno coltellino pieghevole da tasca o a quello più sofisticato del tipo multiuso. Ben lontano quindi da una vera e propria arma da combattimento. Il fatto poi che un discepolo colpisca il servo del sommo sacerdote all'orecchio fa pensare più che ad un fendente o ad una sciabolata, che certamente avrebbe procurato danni maggiori di una semplice ferita all'orecchio, ad una sorta di improvvisa operazione chirurgica: l'anonimo discepolo si scaglia contro il servo e gli taglia l'orecchio destro. Un gesto questo comprensibile e compatibile con Lv 21,18-21, dove si stabilisce come il difetto fisico sia di impedimento ad esercitare il sacerdozio76. Nel dettagliato elenco di difetti impedienti si cita anche “¥nqrwpoj cwlÕj À tuflÕj À kolobÒrrin À çtÒtmhtoj” (ántzropos colòs è tiflòs è kolobórrin è otótmetos), e cioè “un uomo zoppo o cieco o col naso mozzo o un orecchio tagliato77. Benché qui non si parli di sacerdote o di sommo sacerdote, ma soltanto del servo del sommo sacerdote, tuttavia questi non va pensato come uno schiavetto qualunque, ma era una sorta di prefetto dei sacerdoti, anch'egli sottoposto alla regola della perfezione fisica per poter esercitare il suo incarico78. Luca infatti lo definisce con l'articolo determinativo “toà ¢rcieršwj tÕn doàlon” (tû archieréos tòn dûlon), “il servo del sommo sacerdote”, indicando una precisa figura professionale. Gv 18,10b, unico tra gli evangelisti, ne indica il nome, “Malco”. Un nome simbolico, che deriva dall'ebraico “mlk”, cioè re, signore, capo. Il suo nome quindi indica in qualche modo la sua funzione di sovraintendente. L'essere così sfregiato significava non solo umiliarlo, ma togliergli ogni possibilità di continuare il suo prestigioso incarico79. La precisazione che l'anonimo discepolo tagliò “l'orecchio destro” rafforza questa ipotesi. Infatti nel rituale di consacrazione del sacerdote vi era anche quello dell'unzione del lobo dell'orecchio destro con il sangue (Lv 8,23-24) e qui più che tagliare l'orecchio destro viene tagliato “tÕ çt£rion” (tò otárion), l'orecchietta, cioè il lobo. Ed è proprio quest'ultimo, precisa Luca, che Gesù riattaccò. Non l'orecchio, dunque, bensì il lobo (v.51b).

L'arresto di Gesù: Gesù e le autorità giudaiche (vv.52-54)

Il v.52 riprende il v.47, dove un'anonima folla, capeggiata da Giuda, si presentò davanti a Gesù per arrestarlo. Là, l'anonimato della folla faceva da sfondo scuro sul quale doveva stagliarsi, quasi per contrasto, la figura di Giuda, focalizzando su questa l'attenzione dei lettori. Ora è giunto il momento di dare attenzione e un volto anche a questa folla, che qui viene indicata nei suoi capi, che sono anche i suoi mandanti e, quindi, in ultima analisi i veri responsabili di quanto succederà a Gesù da questo momento in poi, fino alla sua morte in croce. Lo svelare il volto di questi personaggi, pertanto, costituisce una sorta di atto di accusa contro le autorità giudaiche. Tre sono le figure qui citate: i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo, che compongono il Sinedrio. Figure queste che verranno riprese al v.66, quali componenti del Sinedrio. Inclusa tra queste due figure, vi è una terza figura, quella dei capi del Tempio, addetti alla sicurezza del Tempio e, qui, in qualche modo, il braccio esecutivo del Sinedrio. Il v.52 si conclude svelando il pensiero e l'atteggiamento di questi nei confronti di Gesù, che costituisce in qualche modo anche la motivazione del suo arresto: Gesù era considerato un “lVst¾n” (lestèn), cioè un ladro, un brigante, un assassino, una sorta di pericoloso bandito. Con questo termine, infatti, venivano designati gli zeloti e tutti i sovversivi. Lo stesso Gv 11,47-48 lascia trapelare il timore di un Gesù sovversivo: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: "Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione”. Gesù, dunque, era considerato un personaggio pericoloso e destabilizzatore dell'ordine costituito.

Il v.53 mette in rilievo l'ipocrisia delle autorità giudaiche e la vera natura del loro comportamento, facendolo contrastare con quello di Gesù, che apertamente e pubblicamente e in un luogo sacro annunciava il suo messaggio a tutti. Il riferimento qui è alla sua ultima attività predicatoria nel tempio80. Un comportamento che si contrappone a quello delle autorità giudaiche, che invece, di nascosto, in modo subdolo, agendo attraverso un traditore, protette dal buio della notte sono venute ad arrestare Gesù. Un comportamento quest'ultimo che viene collocato all'interno di un tempo e di un potere che è definito delle tenebre, richiamandosi in qualche modo a quel satana che entrò in Giuda (v.3a.), che li stava capeggiando (v.47). Un comportamento subdolo e assassino, che apertamente Luca aveva denunciato fin dall'inizio del cap.22, al v.2, mettendo l'intero racconto della passione e morte sotto l'egida di satana, il potere delle tenebre, di cui Giuda e le autorità giudaiche fanno parte.

Il v.54 potremmo considerarlo come un versetto di transizione perché concludendo gli eventi del Getsemani con l'arresto di Gesù, apre il racconto ad una nuova sezione narrativa, annunciando che Gesù è ora condotto dal Getsemani, dall'ultima intimità con i suoi, alla casa del sommo sacerdote, dove viene trattenuto in custodia dalle guardie del tempio e da dove Gesù inizierà il suo lungo cammino di sofferenza e di dolore verso la croce.

Dalla casa del sommo sacerdote al sinedrio (vv.55-71)

Questa ultima sezione del cap.22 (vv.55-71) conclude il racconto della passione di Gesù riguardante sia le ultime vicende di Gesù nel suo rapporto con i suoi che con il giudaismo. Con il cap.23 Gesù passerà nelle mani dei pagani, terminando il suo cammino terreno con loro. Dal mondo giudaico, quindi, che lo ha rifiutato definitivamente, a quello pagano, che, invece, ha dato dei segni di accoglienza (23,4.14-15.47-48; At 3,13). I suoi stessi conoscenti e le stesse donne che lo avevano seguito dalla Galilea se ne stavano lontane da lui (23,49). Solo il mondo pagano sembra rendersi disponibile al Crocefisso. Un passaggio, questo, al quale Paolo ha dedicato tre sofferti capitoli della sua lettera ai Romani (9-11), dandone una sua personale lettura teologica, vedendo in esso un disegno divino: “Ora io domando: Forse inciamparono per cadere per sempre? Certamente no. Ma a causa della loro caduta la salvezza è giunta ai pagani, per suscitare la loro gelosia. Se pertanto la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani, che cosa non sarà la loro partecipazione totale! […]. Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti.” (Rm 11,11-12.25).

Anche in questa sezione Luca personalizza il suo racconto, dandogli un tocco di maggiore fluidità, sfrondandolo da particolari che lo appesantiscono o che non interessano la sua cristologia, rendendo la sua narrazione essenziale ed incisiva. Ritocca qua e là i fatti per renderli meno crudi o più verosimili, cercando di dare una successione logica agli eventi, senza interromperli, inframezzando un racconto con un altro ancora, come avviene per gli altri due Sinottici. Anche qui non mancano le omissioni.

Pertanto si ha che mentre Mc 14,53 e Mt 26,57 raccontano che Gesù dal Getsemani viene direttamente portato, in piena notte, davanti al Sinedrio, dove si svolge il processo a suo carico, che si conclude con la sua condanna a morte, la quale cosa è inverosimile, poiché il Sinedrio non poteva essere convocato di notte né i processi potevano svolgersi a quell'ora, né tanto meno potevano essere emesse sentenze di morte durante la notte, Luca, invece, attesta che Gesù è portato nella casa del sommo sacerdote e lì vi rimane fino al mattino sotto custodia delle guardie del tempio, in attesa del mattino, allorché viene convocato il Sinedrio (v.66) e Gesù, trasferito davanti a questo viene processato e condannato. E in questo contesto vengono inseriti il rinnegamento di Pietro e i maltrattamenti di Gesù da parte dei custodi. Gesù sembra essere lì presente nel cortile dove ci sono Pietro e gli altri e assiste al suo rinnegamento da parte di Pietro (v.61). Il tutto si svolge secondo una logica più coerente e una successione di eventi e di tempi più verosimile.

Anche l'ordine dell'esposizione dei racconti è diversa da Marco e Matteo. Il racconto del rinnegamento di Pietro non è inframezzato dal processo a Gesù né dal racconto dei suoi maltrattamenti, come avviene, invece, rispettivamente in Mt 26,59-66.67-68 e Mc 14,55-64.65, rendendo in tal modo la lettura più difficile. Gli eventi in Luca sono distinti e ben circoscritti, non si sovrappongono, dando così la possibilità al lettore di seguire attentamente lo svolgersi dei singoli eventi, senza essere distratto da sovrapposizioni.

Non mancano anche le omissioni. Durante il processo non viene menzionata la presenza di falsi testimoni, né vengono rilevate accuse circa la distruzione del tempio, né il silenzio di Gesù di fronte a tali testimonianze, presenti, invece in Mt 26,59-63 e in Mc 14,55-59. L'interrogatorio lucano è molto più scorrevole e meno caricato e punta direttamente ed esclusivamente sull'identità di Gesù, che appare subito come il Cristo, il Figlio di Dio e l'escatologico Figlio dell'uomo.

I maltrattamenti delle guardie sul Gesù lucano sono sfumati, preferendo l'autore rimanere sul generico, senza scendere nei più offensivi, disgustosi e crudi particolari degli sputi e degli schiaffi, raccontati invece da Mt 26,67-68 e Mc 14,65. Egli si limita a rilevare che Gesù veniva colpito e dileggiato e che molte cose si dicevano su di lui bestemmiando, lasciando qui intravvedere la divinità di Gesù.

Quest'ultima sezione, che ha come cornice narrativa, dapprima, la casa del sommo sacerdote (v.54b), dove Gesù è tenuto in custodia, e successivamente il sinedrio, dove si svolge il processo (v.66), comprende tre quadri: il rinnegamento di Pietro (vv.55-62); i maltrattamenti di Gesù da parte della soldataglia (vv.63-65); il processo giudaico di Gesù (vv.66-71).

Commento ai vv.55-71

Il rinnegamento di Pietro (vv.55-62)

Testo a lettura facilitata

Nella casa del sommo sacerdote (v.55)

55 – Ora, acceso un fuoco in mezzo al cortile e sedutisi assieme, Pietro sedeva in mezzo a loro.

I tre rinnegamenti (vv.56-60a)

56 – Ora, avendolo visto una giovane serva seduto presso il fuoco ed avendo(lo) guardato fissamente, gli disse: <<Anche questo era con lui>>.
57 – a questi negò dicendo: <<Non lo conosco, donna>>.
58 – E dopo un po' avendolo visto un altro disse: <<Anche tu sei dei loro>>. Ma Pietro affermò: <<Uomo, non (lo) sono>>.
59 – E trascorsa circa un'ora, un altro affermava dicendo: <<In verità anche questi era con lui, e infatti è Galileo>>.
60a – Ma Pietro disse: <<Uomo, non so ciò che dici>>.

La profezia realizzata (v.60b)

60b- E subito, mentre ancora egli parlava, un gallo cantò.

La presa di coscienza (v.61)

61 – E giratosi, il Signore fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola del Signore, quando gli disse che prima che il gallo canti oggi mi rinnegherai tre volte.

Il pentimento (v.62)

62 – E uscito fuori pianse amaramente.


Note generali

Benché il racconto del rinnegamento di Pietro sia presente in tutti gli evangelisti, tuttavia quello di Luca differisce notevolmente sia dal racconto giovanneo, che segue una sua propria strada, che dagli altri due Sinottici. Il racconto lucano si presenta molto più scorrevole e i tre episodi di rinnegamento sono tempisticamente meglio distribuiti: lo stacco tra il primo e il secondo momento è segnato dall'espressione temporale “dopo un po'”; quello tra il secondo e il terzo dall'espressione: “trascorsa un'ora”, creando in tal modo tre episodi successivi l'uno all'altro, ma ben circoscritti nel tempo, quasi isolati l'uno dall'altro. Il riconoscimento di Pietro quale seguace di Gesù non è mai collettivo, come in Mt 26,71b.73 e in Mc 14,69.70, ma è sempre individuale e il dialogo che si svolge è sempre tra Pietro e il suo singolo interlocutore. Gli altri, che dovevano comunque essere lì presenti (v.55), scompaiono completamente, quasi che Luca voglia evitare un'eccessiva risonanza sull'episodio ed attutire lo scandalo del rinnegamento. Il rinnegamento indubbiamente c'è, ma non assume mai forma pubblica, ma privata, quasi nascosta, a differenza di Mt 26,70 che invece fanno risuonare il rinnegamento di Pietro davanti a tutti. Così i toni del rinnegamento in Luca sono molto smorzati e pacati anche se decisi a differenza degli altri due Sinottici, in cui il rinnegamento petrino è accompagnato da giuramenti e improperi, dando da vedere un Pietro spaventato e pavido, rintuzzando in tal modo la sua precedente spavalderia (Mt 26,33-35; Mc 14,29.31).

Il rinnegamento di Pietro non è mai scandito dal canto del gallo come in Mc 14,68.72a, quasi a volerlo in qualche modo sottolineare, ma questo avverrà soltanto alla fine del racconto (v.60b); e ciò che provoca in lui il pentimento non è il canto del gallo come in Mt 26,74b-75 e Mc 14,72, ma l'incrociare lo sguardo di Gesù (v.61). Sarà questo a far ricordare la predizione del suo rinnegamento.

Commento ai vv.55-62

Il v.55b, introducendo il racconto del triplice rinnegamento di Pietro, presenta l'apostolo che “seguiva da lontano” Gesù, preludendo con quel “da lontano” la presa di distanza che da lì a poco Pietro avrebbe preso da Gesù, rilevando tutta la fragilità della sua sequela, che al v.33 era stata attestata fermamente fino alla testimonianza estrema. Il verbo qui usato da Luca è, infatti, “ºkoloÚqei” (ekolútzei, seguiva), un verbo tecnico, usato dagli evangelisti per indicare la sequela; mentre quel “makrÒqen” (makrótzen, da lontano), che l'accompagna, dice quanto questa sequela di Gesù si sia alquanto affievolita di fronte alla prova, che in qualche modo Gesù aveva annunciato ai vv.31-32.34. Il lettore, pertanto, è avvertito.

Il v.55 apre la scena dove avverrà il triplice rinnegamento. Il cortile dove ci si trova è quello della casa del sommo sacerdote, dove Gesù è stato condotto (v.54a). Ad accompagnarlo quelli che lo avevano arrestato e altre persone, probabilmente facenti parte della folla (v.47) o lì presenti. Tra questi anche Pietro. Significativo come tutti si siedono attorno al fuoco e Pietro, rileva l'evangelista, “sedeva in mezzo a loro”. Pietro, dunque, si pone in mezzo agli altri, quasi per confondersi tra loro, ma nel contempo mettendosi al loro pari, pronto a prendere le distanze da Gesù. Ora non c'è più sequela, neanche “da lontano”, perché Pietro si è posto tra gli altri, perdendo la sua identità di discepolo.

I vv.56-60 delineano progressivamente l'identità di Pietro: egli è colui che “era con lui” (v.56b); colui che “è dei loro” (v.58a), il riferimento qui è ai discepoli di Gesù; ed infine “è un Galileo” (v.59). Pietro nega tutte queste attestazioni nei suoi confronti, che egli sente come altrettante accuse contro di lui. Egli qui non nega soltanto di essere un seguace di Gesù, ma disconosce anche la sua appartenenza al gruppo dei Dodici, tradendo in qualche modo anche i suoi compagni di avventura. Ma l'ultima attestazione (v.59) è la più pesante: “In verità anche questi era con lui, e infatti è Galileo”. L'accusa, mossa con convinzione81, inizia con “In verità”, una sorta di attestazione giurata e solenne che sembra inchiodare Pietro alla sua stessa identità e alle scelte che egli ha fatto. Ma qui l'accusa si fa più pesante non solo perché associa Pietro a Gesù, ma perché lo definisce anche Galileo. L'attributo qui non dice soltanto che Pietro è originario della Galilea, ma che egli appartiene ad un gruppo di sovversivi. Giuseppe Flavio attesta che i Galilei sono bellicosi fin da piccoli”82 e ancora che “gli Zeloti, fra i quali si distingueva per i disegni delittuosi e per la temerità il gruppo dei Galilei”83. Essere, pertanto, indicato da tutti come “Galileo” era un'accusa molto pesante, che poteva mettere a rischio la stessa incolumità di Pietro. Egli si trova pertanto assediato, da qui il suo deciso e persistente disconoscimento di Gesù e del suo gruppo dei Dodici, rinnegando loro e le sue origini. Un Pietro, quindi, spogliato da ogni identità e smarrito, che in modo anonimo siede in mezzo agli altri, quasi confondendosi con loro. Da qui la preghiera di Gesù affinché, una volta ritornato, dopo aver sperimentato tutta la sua fragilità e al di là di ogni arroganza e presunzione (v.33), possa mettersi in umile sevizio per l'intera comunità dei credenti, la cui fede, per quanto solida possa essere, riposa sempre tra le pareti di un'umanità profondamente segnata dal peccato. Pietro, ora, lo sa molto bene, come sa che la sua fede gode ora, grazie alla preghiera di Gesù, del sostegno divino stesso. Un particolare privilegio per chi è chiamato a sostenere la fede dell'intera comunità, una sorta di sigillo di infallibilità e di forza divina, che lo animerà nel suo ruolo di primus inter pares.

Con il v.60b compare il canto del gallo, che se da un lato completa la profezia di Gesù (v.34), dall'altro diviene il segnale che pone un confine tra il prima e il dopo, tra la notte e un nuovo giorno che sta per cominciare, al cui inizio ci sta un Gesù tradito e sofferente, in cammino verso la croce e la risurrezione: “E giratosi, il Signore fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò della parola del Signore, quando gli disse che prima che il gallo canti oggi mi rinnegherai tre volte” (v.61). Non sarà, pertanto, il gallo, come per gli altri evangelisti, che farà prendere coscienza a Pietro della sua fragilità, ma nel contempo gli dà la forza per il suo ritorno, ma Gesù. È questo intrecciarsi di sguardi, che annoderà per sempre tra loro Pietro e Gesù, che indica a lui e ai suoi successori il cammino della croce, quale strumento di redenzione e preludio alla risurrezione.

Il v.62 chiude la triste e drammatica esperienza di Pietro, che viene purificata in un pianto amaro, perché finalmente egli ha toccato con mano tutta la sua fragilità, che gli suggerisce come la sua fede e la sua fedeltà deve essere riposta non tanto sulle sue presunzioni (v.33), ma soltanto in Gesù (v.61). Un'amarezza che dice la profonda presa di coscienza della sua inconsistenza, ma che nel contempo, in quell'incontro con Gesù, parla di un riscatto che è già iniziato proprio con quel pianto, che lava la sua colpa e lo spinge a ritornare con Gesù e con i Dodici.

I maltrattamenti della soldataglia su Gesù (vv.63-65)

Testo

63 – E gli uomini che lo tenevano, lo schernivano percuotendo(lo),
64 – E copertolo, (lo) interrogavano dicendo: <<Profetizza, chi ti ha colpito?>>.
65 – E molte altre cose, bestemmiando, dicevano contro di lui.


Note generali e commento ai vv. 63-65

Il racconto dei maltrattamenti compare in tutti gli evangelisti, molto simile tra i Sinottici, appena accennato e diversamente contestualizzato in Gv 18,22, dove il servo del sommo sacerdote schiaffeggia Gesù perché, a suo parere, ha mancato di rispetto al sommo sacerdote durante l'interrogatorio. Quindi il maltrattamento qui non è gratuito, ma in qualche modo giustificato.

Quanto ai Sinottici, Luca diverge dagli altri due. Matteo e Marco pongono i maltrattamenti subito dopo l'interrogatorio di Gesù, che si conclude con l'accusa di blasfemia e la sentenza di condanna a morte da parte del sommo sacerdote e del sinedrio. I maltrattamenti, quindi, vengono in qualche modo giustificati e condizionati dalla conclusione dell'interrogatorio. La dichiarazione di colpevolezza con sentenza di morte, poteva dare mano libera fin da subito ai propri aguzzini. Luca, per contro, pone i maltrattamenti fuori dal contesto del processo e all'interno del cortile del sommo sacerdote. Gesù è sotto custodia e in attesa di un processo che avverrà soltanto il giorno successivo, sul far del mattino (v.66). I maltrattamenti, pertanto, da parte dei suoi custodi sono del tutto gratuiti e ingiustificati; sembrano essere più che altro un crudele passatempo che rasenta tratti di sadismo, il cui unico senso è quello di passare la nottata divertendosi un po' con questo malcapitato, che nella mente di Luca è già stato di fatto condannato. Ma forse qui Luca ha presente il sofferente Servo di Jhwh (Is 50,6), a cui già aveva in qualche modo pensato all'inizio del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51); mentre in quel sintetico v.65, dove l'evangelista commenta che “molte altre cose, bestemmiando, dicevano contro di lui”, lascia intravvedere in quel “bestemmiando” come Gesù fosse vero Dio o un suo diretto inviato, considerato che la bestemmia era ritenuta tale soltanto se rivolta verso la divinità. Non si ha mai, infatti, bestemmia contro un uomo.

Il processo giudaico a Gesù (vv-66-71)

Testo a lettura facilitata

Il contesto (v.66)

66 – E come venne giorno, fu riunito il consiglio degli anziani del popolo, sommi sacerdoti e scribi e lo portarono nel loro sinedrio,

L'identità di Gesù (vv.67-70)

67 – dicendo <<Se tu sei il Cristo, di(llo) a noi>>. Ma disse a loro: <<Qualora ve (lo) dicessi non credereste;
68 – qualora (vi) interrogassi, non rispondereste.
69 – Ma da adesso il Figlio dell'uomo sarà seduto alla destra della potenza di Dio>>.
70 – Ora dissero tutti: <<Tu, dunque, sei il Figlio di Dio?>>. Ma questi dichiarò verso di loro: <<Voi dite che io (lo) sono>>.

Scandalo e rifiuto (v.71)

71 - Ora, questi dissero: <<Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza? (Noi) stessi, infatti, abbiamo udito dalla sua bocca>>.

Note generali

Il racconto del processo di Gesù da parte del Sinedrio, nel concludere il cap.22, costituisce la resa dei conti tra Gesù e il giudaismo. Tutte le tensioni, le insidie, le diatribe, gli scontri e le divergenze di pensiero tra Gesù e le autorità giudaiche trova qui il suo vertice e la sua sintesi. Ma nel contempo diviene il luogo in cui viene messa in rilievo la titolatura di Gesù quale Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, delineandone l'identità ed assume, proprio per il contesto in cui ciò avviene, un ultimo atto di testimonianza suprema ed ufficiale a cui il giudaismo è chiamato a dare la sua ultima risposta, quella definitiva. E le autorità giudaiche danno qui la loro risposta decretando ufficialmente, con formali accusa e sentenza, il disconoscimento ufficiale di Gesù e la sua espulsione dal giudaismo. Ha dunque in se stesso, questo processo, un qualche cosa di giudizio escatologico contro il giudaismo, sul quale è già stata emessa la sentenza in 13,34-35.

Con tale processo si apre ora una serie di interrogatori: dapprima quello giudaico (vv.66-71), poi con Pilato (vv.23,1-5); con Erode (vv.23,6-12) ed infine nuovamente con Pilato (23,13-25), la cui finalità è duplice: da un lato, indagare sulla persona di Gesù e sulla sua vera natura. Un'indagine che si concluderà con una condanna alla morte di croce, ma nel contempo con un riconoscimento ufficiale che svetta sulla croce stessa: Gesù è riconosciuto dal mondo pagano nella sua regalità (23,3.37.38), che stona e suona ironica in quanto contrasta con la croce sulla quale Gesù è appeso. Ma è proprio questo contrasto che fa comprendere come tale regalità non ha nulla a che vedere con le faccende politiche del potere umano, ma rimanda ad un'altra diversa realtà (Gv 18,36); dall'altro, rilevare l'innocenza di Gesù riconosciuta proprio dal mondo pagano (23,4.14-15.47-48; At 3,13).

Il racconto lucano del processo giudaico a Gesù differisce notevolmente da tutti gli altri evangelisti. Differenze che vanno fatte risalire più che a fonti diverse o a materiale proprio di Luca, alla sua stessa redazione, che obbedisce ai suoi intenti narrativi e cristologici. In Giovanni il processo giudaico a Gesù è ridotto ad un solo versetto, dove il sommo sacerdote chiede informazioni generiche su Gesù e i suoi (Gv 18,19), non ottenendo di fatto nessuna risposta (Gv 18,20-24). Giovanni, invece, sposta la sua attenzione esclusivamente sull'interrogatorio di Pilato, finalizzato a mettere in rilievo la regalità di Gesù e la sua vera natura, occupando ben 25 versetti (Gv 18,29-19,22).

Quanto a Matteo e a Marco, Luca, pur muovendosi sulla loro falsariga, presenta anche qui degli scostamenti: il processo giudaico a Gesù viene spostato verosimilmente al mattino seguente l'arresto (v.66), e non durante la notte, qui inverosimile, poiché il Sinedrio non poteva tenere le sue assemblee durante la notte, né tanto meno processare ed emettere sentenze; non vi è la menzione di falsi testimoni, né le accuse di voler distruggere il tempio, né viene rilevato il silenzio di Gesù, né vi è l'accusa di blasfemia né il plateale strapparsi delle vesti da parte del sommo sacerdote. Luca sfronda il suo racconto da ogni particolare che non concorra a mettere in rilievo la sua cristologia. Ne esce un racconto molto più fluido ed essenziale, tutto incentrato sull'identità di Gesù, definita dalla sua triplice titolatura, quale Cristo, Figlio di Dio e Figlio dell'uomo;

La struttura del racconto lucano sul processo giudaico di Gesù è scandita in tre parti: il contesto in cui avviene il processo: il Sinedrio, che dà un tono di solennità e di ufficialità a quanto qui avviene (v.66); il dialogo tra Gesù e il Sinedrio, che costituisce il cuore del racconto, mettendo in rilievo l'identità di Gesù (vv.67-70); il rifiuto di Gesù da parte del giudaismo (v.71).

Commento ai vv. 66-71

Il v.66 inizia con un “Kaˆ” (Kaì, E), dando continuità narrativa e temporale con il racconto precedente. Con tre tocchi essenziali l'autore crea qui la scena entro cui verrà collocato il processo giudaico di Gesù: a) il momento in cui si apre il processo: “E come venne giorno”84; b) i personaggi che compongono l'assemblea del sinedrio: anziani del popolo, sommi sacerdoti e scribi85; c) il luogo dove avviene il processo: il sinedrio86, dove Gesù, dal cortile del sommo sacerdote, dove era stato portato dopo l'arresto e dove ha passato la notte, viene trasferito per l'interrogatorio.

L'identità di Gesù (vv.67-70)

Note generali e commento ai vv. 67-70

L'interrogatorio su Gesù si apre ponendo in chiaro un titolo che già era apparso altre cinque volte nel corso del racconto lucano: Cristo. Era stato presentato come attestazione di fede da parte dell'evangelista (2,11) e di Pietro (9,20); come rivelazione da parte dei demoni, che sapevano, per conoscenza soprannaturale, che Gesù era il Cristo (4,41); come oggetto di indagine, che interiormente il popolo, interrogandosi sul Battista, cercava di scoprire (3,15); ed infine, su insinuazione di Gesù stesso nei confronti delle autorità giudaiche, che cercavano di metterlo in difficoltà, stimolandole, invece, alla riflessione (20,41). Quindi un titolo che fino al cap.20 ha raccolto attorno a sé attestazioni di fede, conoscenze soprannaturali, dubbi ed insinuazioni. Ma sarà soltanto ora, qui davanti al giudaismo raccolto attorno a Gesù nella sua massima espressione del Sinedrio, che il titolo di Cristo verrà messo a fuoco e verrà ripetuto, da qui fino a tutto il cap.24 per sei volte e in ogni passaggio verrà preso in considerazione un nuovo aspetto di tale titolo. Si parte, pertanto, con un'interrogazione sull'identità di Gesù: “Se tu sei il Cristo dillo a noi”. La domanda qui posta ha una valenza prevalentemente politica (23,2), in riferimento alle attese di un messia politico, militare e religioso che serpeggiavano tra la gente (24,21; At 1,6). Gesù darà qui un'interpretazione autentica del senso del suo messianismo: egli è il Figlio dell'uomo che siede alla destra della potenza di Dio (v.69) e, quindi, è Figlio di Dio stesso (v.70), alludendo qui alla sua risurrezione e precisando che “da adesso il Figlio dell'uomo sarà seduto alla destra della potenza di Dio”. Significativa l'espressione temporale “da adesso” (“¢pÕ toà nànapò tû nîn) perché dice che il cammino verso la risurrezione (“destra della potenza di Dio”) ha inizio ora con la passione e morte e come queste sono in vista della glorificazione. Vi è qui un'eco giovanneo che vede nella passione di Gesù la sua intronizzazione regale che apparirà evidente nella risurrezione. Per Luca, quindi, come per Giovanni, la passione e morte di Gesù sono l'inizio della sua glorificazione. Significativo infatti è quel “sarà”, verbo posto al futuro e che sembra contrastare con quel “da adesso”, ma in realtà esso dice come questa passione e morte di Gesù siano solo l'inizio di un cammino di glorificazione che apparirà in tutto il suo fulgore e in tutta la sua certezza soltanto nella risurrezione, di cui passione e morte fanno parte integrante. Al v.69 viene omessa da Luca l'espressione “sulle nubi”, che si trova in Mt 26,63b e Mc 14,62b, togliendo quindi dalla titolatura di Gesù l'aspetto escatologico e dandole un taglio presenziale. Il Cristo, pertanto, “non sarà”, ma “è già”. Del resto Luca è l'evangelista dell'oggi, un avverbio temporale che si ripeterà ben undici volte nel suo vangelo, mettendo in rilevo come sia le Scritture che la salvezza trovano il loro compimento nell'oggi di Gesù e di ogni credente. Questa visione presenziale del Cristo, caratteristica di Luca e di Giovanni, forma pertanto la chiave di comprensione delle varie sfaccettature che da questo momento in poi verranno assegnate al titolo. Un Cristo che assumerà in 23,2 una nuova connotazione, quella della regalità, mentre in 23,35 come l'inviato da Dio e suo eletto; in 23,39.42-43 il Cristo viene qualificato come capace di salvezza. Ai vv.24,26.46 il titolo di Cristo, scostandosi da ogni messianismo terrestre, viene associato alla passione, morte e risurrezione, come già si era prospettato per la prima volta in 9,20-22. Un capitolo quest'ultimo che dava al racconto lucano una netta sterzata verso il Golgota in vista della risurrezione.

Scandalo e rifiuto (v.71)

L'indagine su Gesù in quanto Cristo è terminata ed ora il Sinedrio, massima autorità politica, civile e religiosa del giudaismo, è chiamata a dare la sua risposta e con lei e in lei l'intero giudaismo. Luca qui tralascia ogni accusa di blasfemia contro Gesù, che invece compare in Mt 26,65 e Mc 14,63, perché per l'evangelista blasfemo qui è il giudaismo (v.65) e non Gesù. Viene omesso il plateale gesto dello stracciarsi delle vesti da parte del sommo sacerdote, quale segno di sdegno e di scandalo, poiché il vero scandalo e il vero sdegno risiedono nell'atteggiamento del giudaismo, che nonostante la Torah, l'Alleanza, e le attese accese e sostenute dai Profeti non è riuscito a riconoscere l'Inviato di Dio, quando questi è giunto presso di lui (Gv 1,11; Rm 9,1-5.30-33). Non viene neppure formulata nessuna accusa contro di Gesù, poiché qui il vero accusato è il giudaismo. Un'accusa che è insita proprio nella domanda retorica che il Sinedrio intero, non il sommo sacerdote, quindi il giudaismo nella sua collegialità (“Ora questi dissero” v.71a), formula: non c'è bisogno di alcun'altra testimonianza perché ciò che il giudaismo qui ha udito direttamente dalla sua bocca è quella propria del Testimone per eccellenza, venuto nel mondo per dare testimonianza alla Verità (Gv 18,37), ma i suoi non l'hanno accolto (Gv 1,11).


NOTE

1Dopo la sua esperienza di Damasco (36 d.C.) Paolo ha avuto numerosi contatti con le comunità cristiane che erano nell’area di Gerusalemme, in cui riceve la sua formazione di giudeo ortodosso; di Damasco dove dà una radicale e decisiva sterzata alla sua vita; di Antiochia da dove prende forma e avvio il suo impegno missionario. Inoltre, Paolo nelle sue lettere riporta spesso formule di fede, kerigmatiche, inni, testi liturgici che egli non si è inventato, ma che ha ricevuto come eredità di fede da quelle stesse stesse comunità credenti che egli ha frequentato per una decina d'anni circa prima di iniziare il suo primo viaggio missionario (45-48 d.C.).

2Cfr. Lc 24,25-27.45; Gv 20,9; At 17,11; 18,28; 1Cor 15,3-4. Un'attenzione particolare va riservata al vangelo di Matteo, che riporta al suo interno oltre una quarantina di citazioni scritturistiche dirette e indirette, che testimoniano il notevole sforzo delle prime comunità credenti, operato fin da subito, alla ricerca nelle Scritture di tutti quei passi che potessero illuminare la persona di Gesù e il suo Mistero.

3Lo scritto neotestamentario più antico in nostro possesso è la Prima Lettera ai Tessalonicesi, scritta da Paolo all'incirca tra il 49 e il 50 d.C. L'ultima sua lettera, scritta tra il 57 e il 58 d.C., è quella indirizzata alla comunità di Roma.

4Cfr. Mt 10,16-25.38; 16,24 17,22-23; 20,17-19; 24,9; 26,2-4.45

5Cfr. Mc 8,31-34; 9,9-12.30-32; 10,33-34; 13,9-13;

6Il materiale qui riportato, relativamente agli scostamenti tra Marco e Luca, viene mutuato da G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico,ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992, III edizione, gennaio 2001, pag. 825

7L'ordine dei fatti circoscritti dai relativi versetti di Lc e Mc e la loro denominazione sono stati mutuati da A. Poppi, Sinossi Quadriforme dei quattro vangeli, greco-italiano, ed. Messaggero di S. Antonio – Editrice, Padova,1999.

8Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera (pagg.22-23).

9Cfr. G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico,ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992, III edizione, gennaio 2001, pag. 828

10Cfr. Lc 5,17-21.30.33; 6,1-2; 7,29-30; 11,38-52; 12,1; 14,1-6; 15,1-2; 16,14; 19,39; 20,1b-2

11Cfr. Lc 6,7; 11,53-54; 20,20

12Un simile inserimento a sandwich, un racconto che si inserisce in un altro, si ritrova nel racconto della donna con perdite di sangue (Mc 5,25-34), che si inserisce all'interno del racconto della risuscitazione della figlia del capo sinagoga (5,22-24.35-43). La tecnica dell'intreccio di due racconti persegue in genere un duplice fine: creare, da un lato, una situazione di tensione narrativa; dall'altro, evidenziare la potenza salvifica di Gesù o, come nel caso dell'unzione di Betania, rilevare il contesto di morte a cui Gesù stava andando incontro.

13Il termine Abib, o mese delle spighe, era così denominato prima della deportazione di Israele a Babilonia (597-538 a.C.). Successivamente, risentendo della lingua babilonese, venne chiamato Nisan.

14È probabilmente a questa festa che fanno riferimento Es 3,18; 5,3 e 8,23 e che sono poste all'origine della diatriba tra Israele e il faraone (Es 5,1-3), che sfociò poi nelle dieci piaghe e da qui alla liberazione di Israele dalla servitù egiziana.

15Sulla questione delle due festività, pasqua e azzimi, cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; e A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2005

16Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg 18-19

17Keriot è una cittadina citata in tutto l’A.T. solo tre volte: in Gs 15,25 chiamata Keriot-Chezron o Cazor, posta verso il confine di Edom nel Negheb;  in Ger 48,24 e in Am 2,2, che la pongono nella regione di Moab.

18Il termine sicario deriva dal latino "sica", che indica un pugnale dalla lama ricurva, usato in genere dai Traci, considerati dai romani dei briganti. Era, quindi, un’arma privilegiata da assassini e rivoltosi, che usavano l’omicidio come azione di terrorismo.

19Cfr. O. Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi (PG), 1998; G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova Editrice, Roma – 2001.

20Cfr. la voce “Giuda Iscariota” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

21Sul tema della Pasqua e degli Azzimi cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; e A. R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo2005.

22Cfr. Mt 26,17; Mc 14,1.12; Lc 22,1.7-

23Non deve stupire l'affermazione di Luca. Egli, infatti, nel suo vangelo commette molte imprecisioni dando da vedere di non conoscere bene la Palestina, in cui, probabilmente non c'è mai stato; mostra di non capire bene certe espressioni ebraiche o regole grammaticali proprie della lingua; ignora il rituale del Tempio di Gerusalemme, mentre ha una certa familiarità con la sinagoga e ha una discreta conoscenza delle pratiche giudaiche, ma non si interessa dei problemi della Legge, come quello della purità. Nell'insieme dà l'idea di essere un cristiano proveniente dal paganesimo, un ellenista colto, affascinato dal Dio di Israele, forse un timorato di Dio, come ne esistevano tanti all'epoca, che frequentavano le sinagoghe della diaspora, prima di incontrare il Vangelo. Sul tema cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico, Città Nuova Editrice, Roma – III edizione 2001. Tuttavia va detto che anche Giuseppe Flavio, probabilmente adeguandosi ad un modo popolare di esprimersi molto diffuso, chiama la festa degli Azzimi con il termine Pasqua, anche se egli altrove dà a vedere di conoscerne bene la differenza. - In tal senso cfr. Antichità Giudaiche, Libro X,70; XIV, 21; XVIII, 29.

24Il termine Pasqua è detta in ebraico pesah, che esattamente non si capisce bene cosa significhi. La Bibbia la mette in relazione alla radice verbale psh, che significa zoppicare, saltare (2Sam 4,4; 1Re 18,21). Forse vi è l'allusione al fatto che Jhwh ha “saltato” le case con gli stipiti tinti di sangue, dove si stava celebrando la Pasqua (Es 12,13.23.27).

25La “festa delle Settimane” o Shavuot, è una festa che dura sette settimane dal giorno dopo la Pasqua, durante le quali si ringrazia il Signore per i doni della terra. Festa eminentemente agricola, quello delle “sette settimane” era il tempo della mietitura per eccellenza: iniziava con la mietitura dell'orzo e terminava con quella del grano. La festività veniva celebrata all'ultimo giorno delle sette settimane ed era conosciuta anche come la festa della Mietitura. Gli ebrei di lingua greca chiamarono questo tempo Pentecoste, cioè la festa dei cinquanta giorni, comprendendo anche il giorno della Pasqua. Shavuot, assieme alle feste di Pasqua (Pesach) e delle Capanne (Sukkot) erano e sono le tre feste principali ebraiche, le quali prevedevano il pellegrinaggio a Gerusalemme

26Cfr. nota n. 13

27Cfr. Es 13,3-8

28Cfr. Mt 26,17; Mc 14,12; Lc 22,7

29Come si è già detto il giorno per gli ebrei iniziava al tramonto, intorno alle 18,00 circa, e terminava alla sera del

giorno successivo.

30Cfr. Mc 14,12; Lc 22,7.

31Cfr. nota n. 13

32Cfr. nota n. 22

33Cfr. A. Poppi, I quattro vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S. Antonio Editrice, Padova 1988, VI edizione 1998 – pag. 499

34Il termine “katálima” significa letteralmente: “luogo di sosta, albergo, alloggio, stanza” e per traslato anche dimora, soggiorno. Il termine compare un'altra volta in Lc 2,7b dove si dice che Gesù fu posto in una mangiatoia perché “non c'era posto per loro nell'albergo”. E considerati gli alberghi della Palestina dell'epoca, luoghi di sosta per cambio dei cavalli o dei muli o per il loro riposo, erano più che altro dei ricoveri per la notte dove il viandante poteva anche rifocillarsi. E certamente non godevano di grande reputazione, considerato che qui si tollerava la prostituzione. E comunque non erano certo da paragonare ai nostri alberghi a quattro stelle, ma assomigliavano piuttosto a delle bettole. - Sulla questione cfr. A. G. Hamman, La vita quotidiana dei primi cristiani, ed. RCS Rizzoli Libri, Milano1993, I edizione. - pagg. 52-55.

35Il termine “anágaion” significa “piano superiore della casa; sala per conservare i frutti e i cereali; sala da pranzo”. Il termine si riscontra soltanto due volte nel N.T. e sempre nel medesimo contesto (Mc 14,15 e Lc 22,12).

36Quando qui Luca parla di “stanza superiore della casa” ha in testa le case greche e così similmente Marco, da parte sua, scrivendo il suo vangelo per il mondo romano, pensa alle costruzioni romane. Le case palestinesi, invece, non avevano piani superiori se non il tetto.

37Il testo virgolettato è stato mutuato da G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992; III edizione, gennaio 2001 – pag.838.

38Cfr. Annie Jaubert, assistente alla Sorbona, nel suo libro La Date de la Cène, Editions Gabalda, Paris 1957

39Cfr. Mt 26,17; Mc 14,12; Lc 22,7

40Cfr. Mt 26,20; Mc 14,17.

41Il termine Seder significa ordinamento ed dettava l'ordine con cui si svolgeva la cena pasquale, che era scandita in 14 momenti.

42Cfr. Mt 26,20; Mc 14,12.18

43Cfr. Mt 26,47-68; Mc 14,43-65; Lc 22,47-64

44Cfr. Mt 27,1-31; Mc 15,1-20; Lc 22,66-23,25.

45Cfr. Mt 27,32-60; Mc 15,21-46; Lc 23,26-55.

46Cfr. Mt 27,62-66.

47Cfr. Es 10,9; 12,14; Lv 23,2-8.37.44;

48Cfr. Mt 27,62-66

49Gv 19,14 dice: “Ora, era la preparazione della pasqua, era circa l'ora sesta. E dice ai Giudei: <<Ecco il vostro re>>”. Giovanni pone la dichiarazione della regalità di Gesù nel contesto della preparazione della pasqua (13 di nisan) nella sesta ora, cioè a mezzogiorno, l'ora della maggior luce del giorno, questo per dire che la dichiarazione della regalità di Gesù è rivelativa. In altri termini: Gesù è veramente Re. Ma nel contempo, considerato che la crocifissione di Gesù è avvenuta quasi subito dopo la dichiarazione della sua regalità (Gv 19,15-18) e, quindi, nel primo pomeriggio del 13 di nisan, il tempo in cui presso il Tempio di Gerusalemme avveniva l'immolazione degli agnelli pasquali, Giovanni associa in tal modo la morte di Gesù all'immolazione degli agnelli pasquali, indicando in Gesù il vero agnello pasquale, l'agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (Gv 1,29.36).

50Similmente cfr. anche At 8,32; 1Pt 1,19.

51Ho preferito dire “parziale discordanza”, poiché tutti quattro gli evangelisti concordano che Gesù morì alle tre del

pomeriggio di venerdì, giorno della parasceve o preparazione al sabato. Cfr. Mt 27,45-46.62; Mc 15,33-34.42; Lc

23,44-46.54; Gv 19,14.31.-

52La traduzione dal testo greco è personale, confrontata, poi, con quella di A. Poppi, Sinossi quadriforme dei quattro vangeli greco-italiano, ed. Messaggero di S. Antonio – Editrice, Padova, II edizione 1999 () interamente rielaborata.

53Benché Giovanni non parli di istituzione dell'eucaristia, accompagnata dal comando della perpetuazione, tuttavia gli esegeti fanno riferimento per tale istituzione eucaristica al cap.6 dove, all'interno della cornice della seconda pasqua (6,4) l'evangelista inserisce la moltiplicazione del pane dei pesci (6,5-15), al cui interno si leggono i gesti che ricordano da vicino l'ultima cena (6,11), raccontata da Mc 14,22a e Lc 22,19a, accompagnata dal discorso sul Pane (6,30-59), in cui il Gesù giovanneo si autodefinisce come il Pane della vita, disceso dal cielo asserendo che chi mangia di questo Pane vivrà in eterno; e il Pane è la sua carne e il suo sangue e chi mangia la sua carne e beve il suo sangue vivrà in eterno, poiché la sua carne è vero cibo e il suo sangue vera bevanda che aprono il credente alla vita eterna, che è vita stessa di Dio. Il cap.6 tuttavia non sostituisce l'ultima cena, né vi è in esso alcun comando di perpetuare il gesto del pane, ma è soltanto una lettura interpretativa di Gesù.

54Sulla questione della datazione del testo cfr. pag.2 del presente studio.

55Sul significato della mensa ebraica cfr. G. Stemberger, La religione ebraica, edizioni Centro editoriale dehoniano, Bologna, 1996 – pag. 27

56Sulla questione cfr. G. Barbaglio, Le lettere di Paolo, Edizioni Borla, Roma, 1990 – Primo Volume, pagg.450-453.

57Il seder pasquale prevede quattro coppe, ognuna delle quali ha un suo preciso significato: la prima coppa apre la celebrazione pasquale; la seconda celebra il ricordo della liberazione di Israele dall'oppressione egiziana; la terza coppa ricorda il sangue dell'agnello con il quale si segnarono gli stipiti delle porte delle case degli ebrei, che furono così risparmiati dall'angelo sterminatore; ed infine la quarta coppa, quella del ringraziamento a Dio per l'elezione di Israele.

58Cfr. nota n.56

59Cfr. Gen 31,46-49

60Il rituale del sacrificio di comunione è descritto da Lv 3,1-17. - Su sacrificio di comunione cfr. anche R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002 – pag 406-407.438-439

61Soltanto Luca qui precisa che chi ha autorità si fa chiamare “benefattore”, sullo stile delle autorità greche. Il titolo di “eÙergšthj” (euerghétes, benefattore) nel mondo greco era assegnato agli dei, agli eroi e ai re; mentre Mt 20,25 e Mc 10,41 sottolineano il potere schiacciante di tali autorità, per niente benevolo: “e i grandi fanno sentire il potere su di esse”.

62Pr 20,26; Sir 35,22; Is 30,28; 41,16; Am 9,9;

63Il nome “satana” ha la sua radice nell'ebraico “śtn”, che significa avversare, accusare.

64Cfr. vv.9,22; 21,36; 22,37.42b; 24,7.26.44. In tutti i versetti citati compiono costanti i verbi “bisogna” e “deve” in riferimento a Gesù. Sono verbi che nel linguaggio evangelico lasciano intendere che Gesù si muove secondo un progetto iniziale, originato dal Padre, e che nulla accade a Gesù che non sia previsto da tale progetto. In tal modo il potere degli uomini e delle tenebre su Gesù non sovrasterà mai tale progetto. In altri termini, è Dio, padrone della storia, che guida la storia stessa al suo compimento secondo un suo progetto di salvezza, rivelatoci in Gesù stesso.

65Stessa annotazione viene ricordata in Gv 8,1-2 e la motivazione era sempre la sicurezza, per fuggire dai Giudei che cercavano di ucciderlo (Gv 7,1). Gerusalemme era diventata per Gesù un luogo insicuro e pericoloso, così che la notte la trascorreva con i suoi sulle pendici del monte degli Ulivi, appena fuori da Gerusalemme.

66Cfr. Lc 1,27.32.69; 2,4.11; 20,41.42.44

67Cfr. Lc 19,29.37; 21,37; 22,39

68Il verbo “¢posp£w” (apospáo) ricorre in tutto il N.T. Soltanto 5 volte: una in Mt 26,51, usato in forma attiva, per dire che uno che era con Gesù estrasse la spada; e quattro volte in Luca, usato sempre in forma passiva (Lc 22,41; At 20,30; 21,1.6). Nessuna volta compare nell'A.T.

69In tal senso cfr. Sal 95,6; Is 45,23; Dn 6,11; Mt 17,15; Mc 1,40; 10,17; 15,19; Lc 5,8; Rm 11,4; 14,11; Ef 3,14; Fil 2,10

70Ad oggi non si conoscono ancora le cause scatenanti della sindrome, tuttavia la fuoriuscita del sangue o del sudore con sangue è legata alla rottura dei capillari associati alle ghiandole sudoripare, i cui condotti raccolgono il sangue e lo espellono come farebbero normalmente col semplice sudore. Lo stress sembra catalizzare il fenomeno poiché favorirebbe contrazioni anomale – fino alla rottura – dei capillari prossimi alle ghiandole, tuttavia non vi è alcuna certezza.

71Cfr. La Bibbia TOB, nuova traduzione CEI, Editrice ELLEDICI, Leumann TO, 2010

72Cfr. Lc 24,16.21; At 1,6

73Cfr. Mt 26,51-54; Mc 14,46-47; Gv 18,10

74Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva del commento al Vangelo di Giovanni, pagg.3-7

75Sulla questione cfr. il mio commento al cap.18, pag. 8

76Cfr. Flavio Giuseppe, Antichità giudaiche, XIV, 366 e Guerra Giudaica, I, 269-270

77La traduzione italiana, da me curata, è stata tratta dalla LXX: 21,18b

78Cfr. X. Léon-Dufour, Lettura dell'evangelo secondo Giovanni, Edizioni San Paolo srl, Cinisello Balsamo, 1990; pag. 1028

79In tal senso cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XIV, 365-366; episodio raccontato anche in Guerra Giudaica al Libro I, 270

80Cfr. Lc 19,45.47; 20,1; 21,37.38;

81Il verbo “diiscur…zeto” (diischirízeto) significa affermare con forza, sostenere fermamente, insistere.

82G. Flavio, Guerra Giudaica, 3,42

83G. Flavio, Guerra Giudaica, 4,558. Nei paragrafi successivi (4,559-563) l'autore si sofferma a descrivere le perversioni e le nefandezze dei Galilei, rivoltosi e assassini.

84L'attività del Sinedrio non poteva svolgersi di notte, né durante i giorni festivi né di sabato.

85Sono le tre categorie di persone che compongono il Sinedrio. L'espressione “sommi sacerdoti” o “capi dei sacerdoti” come suggerisce il termine greco “¢rciere‹j” (archiereîs), qui menzionati al plurale, formano una categoria di persone che comprendono oltre che il sommo sacerdote in carica, Caifa, anche il suo predecessore e suocero, Anna, nonché altre persone che già avevano coperto tale carica e in genere tutti gli alti funzionari del Tempio (At 4,1); gli anziani del popolo rappresentavano l'aristocrazia laica e insieme ai sommi sacerdoti facevano parte dei Sadducei, la classe sacerdotale aristocratica e tradizionalista, in combutta con il potere romano; gli scribi, facenti parte della setta dei farisei (Mc 2,16a; Lc 5,30), erano da considerarsi i teologi e i giuristi, gli esperti del Sinedrio in questioni teologiche e giudiziarie.- Sulla questione cfr. la voce “Sacerdoti e Leviti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; Nuova edizione rivista e integrata 2005

86Il luogo della riunione del Sinedrio era un locale che la Mishna (San 11,2; Mid 5,4) designa con l'espressione “Iškt hgzyt”, che di solito viene intesa come “sala dalle pietre squadrate”, ma la cui interpretazione resta controversa. Si tratta comunque di un locale che si trova all'interno del recinto del Tempio. I componenti del Consiglio Supremo, che ha funzioni politiche, civili, religiose e giudiziarie, era composto da 71 membri, il cui presidente era il sommo sacerdote in carica. Per deliberare non era necessaria la presenza di tutti i 71 membri, ne bastavano soltanto 23. Alle sedute prendevano parte due o tre cancellieri che redigevano i verbali. - Cfr. la voce “Sinedrio” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; Nuova edizione rivista e integrata 2005.