IL VANGELO SECONDO LUCA
Attività
predicatoria di Gesù nel Tempio:
Sconvolgimenti
sociali e cosmici,
prefigurazione
della passione e morte di Gesù
alle
quali sono associati
(21,1-38)
Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
Note generali
Con il cap.21 continua l'attività di annuncio di Gesù, che si svolge sempre all'interno della cornice del Tempio1, richiamata anche da 21,1a dove Gesù “vide i ricchi che gettavano nel tesoro le loro offerte”. Se la prima parte (20,1-47) di questa ampia sezione (20,1-21,38), riguardante l'attività predicatoria di Gesù in Gerusalemme, concerneva lo scontro tra Gesù e le autorità giudaiche, che preludeva alla sua passione, morte e risurrezione2, questa seconda parte (21,1-38) riporta il discorso escatologico ed apocalittico di Gesù, che Luca mutua da Mc 13,1-37, ma apportandovi notevoli modifiche, tanto da far pensare ad una sua fonte propria, benché, a mio avviso, gli scostamenti siano di natura redazionale. Un discorso che, a differenza di Marco e Matteo, i quali lo riservavano soltanto ai discepoli (Mt 24,1-3) o a pochi intimi (Mc 13,1-5a), Luca invece rivolge al popolo ed anche ai discepoli e, probabilmente, vista la continuità della scena tra il cap.20 e il 21, anche alle autorità giudaiche o ai loro emissari lì presenti (20,1b). L'ampia platea, alla quale l'evangelista si rivolge rivela in un certo qual modo il suo spirito missionario, che guarda al di là della stretta cerchia dei discepoli per abbracciare l'intera terra abitata (24,47).
Sulla scia degli altri due Sinottici, Luca con questo discorso apocalittico ed escatologico chiude l'attività pubblica di Gesù. Seguiranno con il cap.22 altri discorsi, ma saranno riservati esclusivamente ai discepoli (22,14) e fungono da testamento spirituale ai suoi, ma nel contempo, posti a ridosso della sua passione e morte, forniscono la chiave di lettura sul senso del suo patire e del suo morire ormai imminenti (22,14-46), quali servizio di redenzione e di riscatto che Gesù rende all'umanità (22,25-27) e che i discepoli, uniti a lui nelle prove (22,28), sono chiamati a perpetuare (22,19-20).
Il lungo discorso, dove solo Gesù parla (vv.8-37), si esprime attraverso un linguaggio che è proprio dell'apocalittica e si muove su di uno sfondo escatologico: guerre, distruzioni, sollevamento dei popoli, pestilenze, carestie, terremoti, persecuzioni, segni e sconvolgimenti negli astri e terrore nell'umanità; ma nel contempo un'esortazione agli eletti a vegliare, a resistere e a perseverare in mezzo a queste avversità, che sono lette come lo scatenarsi finale delle forze del male, che non prevarranno e sono preparatorie al ritorno glorioso del Risorto, che distruggerà i suoi nemici glorificando invece chi gli è stato fedele. Una visione escatologica ed una comprensione simili che proporrà 1Cor 15,24-27a: “come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi”.
L'apocalittica
è un fenomeno letterario e ancor prima culturale, che si sviluppa in
particolari contesti storici e sociali difficili per i credenti ed è
finalizzata a rincuorarli e a sostenerli nelle prove, prospettando
loro un imminente ritorno del Signore che schiaccerà i suoi nemici,
rendendo giustizia ai fedeli oppressi e perseguitati, ai quali viene
riservata la pienezza di vita ed ogni consolazione. Storicamente
l'apocalittica nasce intorno al V-IV sec. a.C. sul finire del
profetismo e si estende fino al II sec. d.C. e si presenta come
un'accentuazione del linguaggio dei profeti, sconfinando in quello
sapienziale e sentenziale. Ma mentre i profeti leggevano il male del
presente come motivo di conversione, agendo sul popolo e su ogni
singolo membro dell'Alleanza, prospettando loro un futuro in
dipendenza diretta dalla loro conversione, l'apocalittica legge il
male del presente come una forza invincibile a cui si deve resistere
mantenendosi fedeli, vigilando per non essere travolti, e attendendo
la salvezza in uno straordinario intervento divino che ristabilisca
la giustizia. Per cui si tende a leggere la storia del proprio
presente in termini teologici, che vengono compresi in un contesto
escatologico, quale preludio al ritorno del Signore3.
Un tema vibrante quest'ultimo che riecheggia nelle letteratura
canonica e deuterocanonica neotestamentaria, a testimonianza dello
stato d'animo delle prime comunità credenti della seconda metà del
I secolo4.
Commento ai vv.1-38
Un
intermezzo narrativo di transizione
(vv.1-4)
Testo
a lettura facilitata
1
– Ora, alzati gli occhi, vide i ricchi che gettavano nel tesoro le
loro offerte.
2
– Ora vide una vedova indigente che gettava là due monetine,
3
- e disse: <<In verità vi dico che quella vedova povera gettò
più di tutti.
4
– Infatti tutti questi gettarono nelle offerte ciò che
sopravanzava loro, ma essa gettò, dalla sua penuria, tutta la
sostanza che aveva>>.
Note
generali
Ho
definito il breve racconto sulla vedova “di transizione”, perché
riprendendo la conclusione del cap.20, in cui si parlava di vedove
depredate da chi apparentemente rende culto a Dio (20,47), presenta
qui una vedova che, a differenza di quelli, rende culto a Dio con
tutto ciò che ha per poter sopravvivere, ponendo in tal modo Dio al
di sopra di se stessa, contrariamente a quelli che mettono, invece,
se stessi al di sopra di Dio, opprimendo quella categoria sociale di
persone che negli annunci dei profeti appaiono come privilegiate
presso Dio5.
Ma nel contempo il racconto serve all'autore per avvertire il proprio
lettore che qui continua l'attività predicatoria di Gesù nel
Tempio, evidenziando come dei ricchi e una vedova “gettavano nel
tesoro le loro offerte”. Il tesoro di cui qui si parla è la stanza
del Tempio in cui si raccolgono le offerte per la manutenzione del
Tempio e di tutto il suo apparato. Con questo racconto, pertanto,
viene qui data continuità al cap.20, messa in rilievo non soltanto
dal medesimo luogo in cui si svolge l'azione, il Tempio, ma anche
tematicamente e dal termine “vedova” che funge da parola aggancio
a 20,47.
Il
racconto consiste in una breve riflessione sviluppata su di un
episodio che avveniva quotidianamente nel Tempio, accentrando
l'attenzione sul significato dell'offerta, che, davanti a Dio, al di
là del suo valore venale, acquista importanza nella misura in cui
essa è espressione della sincerità del proprio cuore e in essa si
riflette l'impegno della propria vita. Solo in tal modo l'offerta
diventa un vero atto di culto gradito a Dio.
Strutturalmente
la pericope è scandita in due parti: la prima (vv.1-2) presenta i
personaggi posti tra loro a confronto; la seconda sviluppa una
riflessione, formata da un'attestazione solenne (v.3) seguita dalla
motivazione (v.4).
Commento ai vv.1-4
Il
v.1 localizza la presenza di Gesù e dei suoi ascoltatori all'interno
del cortile delle donne, raggiungibile attraverso la Porta Bella, e
posto all'entrata del Tempio riservata esclusivamente agli ebrei. Qui
si trova la stanza del tesoro, dove il pio israelita, sotto la vigile
presenza del guardiano della stanza, compie la sua offerta. Da qui
Gesù vede la scena delle offerte compiute dai ricchi, ma anche da
una povera vedova, definita “indigente”. Questa, da un lato, con
il suo stato di indigenza si contrappone all'opulenza dei ricchi, che
offrono il superfluo e verosimilmente soltanto una piccola parte di
questo; dall'altro, dice lo stato di estrema povertà in cui versa e
che non le consente neppure di vivere. Significativa è la
sottolineatura di Luca che rileva, a differenza di Mc12,42, come
questa vedova trasse tutto quello che aveva “dalla sua penuria”
(™k toà Øster»matoj aÙtÁj, ek tû
isterématos autês).
In altri termini, il suo stato di privazione non le impedì di
raschiare il fondo della sua penuria, raccogliendo tutto quello che
aveva, due monetine, che definiscono ancor prima che il valore
dell'offerta, lo spessore del suo stato di penuria. Non si tratta,
dunque, di un'indigenza qualsiasi, come tanta ve n'era a quel tempo,
ma di un grave stato di penuria che metteva in discussione la sua
stessa sopravvivenza. Un esempio parallelo a questo si trova nel
racconto della vedova di Zarepta (1Re 17,8-16), che antepose le
pretese dell'uomo di Dio, Elia, alla sua sussistenza e a quella di
suo figlio ormai giunte al termine. Solo un po' d'olio e una manciata
di farina li separava dalla morte. Questa, tuttavia, non esitò,
credette alla parola del profeta e in questa trovò la sua salvezza.
I
vv.3-4 fungono da riflessione posta sui vv.1-2, scandita da una
sentenza (v.3) seguita da una motivazione (v.4). Il v.3 si apre con
una interiezione caratteristica dei vangeli: “In verità vi dico”,
che imprime con solennità il sigillo della veridicità a quanto
segue, lasciando trasparire il pensiero stesso di Dio, che non guarda
al valore venale delle cose offertegli, ma a quanto queste hanno a
che vedere con la sincerità del proprio cuore e della propria vita.
Il valore per Dio, quindi, risiede nel cuore dell'uomo e non nelle
cose. La sentenza capovolge i parametri di valutazione degli uomini,
rilevando tutta la distanza che li separa da quelle di Dio (Is
55,8-9), fino a giungere al paradosso: il niente che questa povera
donna ha dato sopravanza di gran lunga le cospicue offerte dei
ricchi.
Il
v.4 riporta la motivazione della sentenza giocata tutta non sulla
quantità dell'offerta, bensì su questa in rapporto ai propri averi
e, di conseguenza, alla capacità che questi hanno di soddisfare le
esigenze primarie del proprio vivere e, quindi, quanto la propria
vita dipenda da questi. In base a questo criterio, Gesù rileva come
i ricchi tengono per loro stessi un ampio margine, che garantisce
loro una tranquilla quanto sicura esistenza, concedendo a Dio
soltanto un qualcosa di ciò che sopravanza loro. Per contro la
vedova va oltre ai calcoli, sia pur leciti, dei ricchi, ed offre a
Dio tutta la sua sostanza e con essa gli consegna la sua stessa vita.
Da qui la sentenza paradossale, ma sottesa da una logica stringente
ed inoppugnabile: ha dato infinitamente di più chi ha dato meno,
poiché quel poco che ha dato era il tutto che aveva e lo ha dato,
contrariamente ai ricchi, senza alcuna riserva, mettendo in
discussione la propria vita.
Il
grande discorso escatologico (vv.5-36)
Preambolo
introduttivo (vv.5-7)
Testo a lettura facilitata
Contesto
introduttivo al commento di Gesù (v.5)
5
– E dicendo alcuni a riguardo del tempio che era adornato con
pietre belle e doni votivi, disse:
Il commento di Gesù (v.6)
6
- <<Queste cose che guardate, verranno giorni in cui non sarà
lasciata pietra su pietra, che non sarà distrutta>>.
Questione
introduttiva al discorso escatologico ed apocalittico (v.8)
7
– Ora, lo interrogarono dicendo: <<Maestro, quando, dunque,
queste cose (ci) saranno e quale il segno che queste cose staranno
per accadere?>>.
Commento ai vv.5-7
Questa breve pericope funge da preambolo introduttivo al grande discorso escatologico di Gesù ed è scandita in tre momenti susseguenti che danno un senso logico al contesto occasionale che ha portato al discorso. Argomento principale, da cui si parte e attorno al quale si sviluppa in modo logico l'intero discorso escatologico in base alla domanda posta (v.7), è la distruzione del Tempio di Gerusalemme, quale cuore pulsante della vita religiosa e civile di Israele.
La pericope viene introdotta da Luca in modo da creare una sorta di stacco netto con il precedente racconto della vedova indigente, che va a completare in qualche modo i vv. 20,46-47, ma che nulla ha che vedere con il tema del cap.21 e la cui funzione narrativa rispetto a questo grande discorso è soltanto quello di ricordare al lettore che questo avviene all'interno del Tempio (v.1).
A
differenza di Mt 24,1 e di Mc 13,1, che collocano il discorso di Gesù
fuori dal Tempio e mentre si allontanava da questo, quasi ad
abbracciarne con uno sguardo la maestosità e l'imponenza, Luca
introduce il discorso di Gesù nel Tempio, sollecitato da “alcuni”
ammirati per la bellezza della costruzione. Per Luca questi non sono
come per gli altri due sinottici, dei discepoli, ma soltanto degli
anonimi interlocutori la cui identità, considerata la continuità
narrativa dei capp.20 e 21 va ricercata in 20,47, dove si parla del
popolo e dei discepoli, senza escludere, tuttavia, la presenza dei
sinedriti (20,1b) e dei loro emissari (20,20) nonché degli stessi
Sadducei (20,27). La platea degli ascoltatori acquista per Luca una
dimensione più ampia, quasi universale, riflettendo in questo il suo
spirito missionario che tende sempre a superare la ristretta cerchia
degli eletti o dei discepoli per abbracciare l'intera terra abitata.
Quest'ultima è il suo orizzonte (2,1; 4,5; 21,26).
L'elogio
di questi riguarda non la maestosa grandezza del Tempio, come per
Matteo e Marco, ma la “bellezza”. Si parla, infatti di ornamenti,
di pietre belle e di doni votivi; rilievi questi che lasciano
trasparire la sensibilità dell'animo greco, più proclive alla
bellezza che alla rozza e massiccia grandezza. I doni votivi di cui
si parla qui sono probabilmente ornamenti del tempio offerti dai
fedeli, di cui anche 2Mac 9,16 e Flavio Giuseppe parlano6.
Probabilmente oggetti in metallo con funzioni ornamentali, come
attesta lo stesso Giuseppe Flavio nella sua opera Guerra Giudaica
(Bell. Jud. V, 562; VII, 44).
Il
Tempio in cui si trova Gesù è il secondo Tempio7,
quello
ricostruito tra il 520 e 515 a.C. dai reduci dall'esilio di Babilonia
(597-538 a.C.)8,
ristrutturato e notevolmente ampliato e abbellito da Erode il Grande
(37-4 a.C.), che iniziò i lavori nel 19 a.C.9.
Lavori che terminarono nel 63 d.C., sotto il procuratore romano
Albino. Tre anni dopo inizierà la guerra giudaica (66-73 d.C.), che
porterà alla distruzione di Gerusalemme e del suo tempio nel 70 d.C.
Il v.6 riporta l'inatteso e shoccante commento negativo di Gesù, quasi a sollecitare i propri interlocutori ad andare oltre all'orgoglio nazionale, che il Tempio sollecitava e di cui era il simbolo. Il linguaggio di Gesù qui si rifà a quello profetico10 e contiene, forse, un implicito invito a rientrare in se stessi per celebrare il vero culto nella sincerità del proprio cuore, così come la vedova offerse a Dio non delle monetine, ma se stessa. L'annuncio, quindi, della distruzione del Tempio così come lo squarciarsi del velo del Sancta Sanctorum (23,45), che nascondeva la presenza di Jhwh, denunciando in tal modo la fine di una presenza legata ad un luogo, spinge a relativizzare il Tempio stesso e tutto il sistema cultuale giudaico in prospettiva di un altro culto interiore, che verrà proclamato solennemente dal Gesù giovanneo nel dialogo con la Samaritana: “Le dice Gesù: <<Credimi, donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità>>” (Gv 4,21-24). Una elaborazione teologica in cui riecheggia in qualche modo il proclama di Is 66,1-2, che cerca di relativizzare l'importanza della ricostruzione del Tempio al rientro dall'esilio babilonesi, a favore di un altro culto, che parta dalla sincerità del cuore e della vita: “Così dice il Signore: <<Il cielo è il mio trono, la terra lo sgabello dei miei piedi. Quale casa mi potreste costruire? In quale luogo potrei fissare la dimora? Tutte queste cose ha fatto la mia mano ed esse sono mie - oracolo del Signore -. Su chi volgerò lo sguardo? Sull'umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi teme la mia parola”.
Il
v.7, nel concludere il preambolo introduttivo, sollecita una risposta
a Gesù circa il traumatico evento della distruzione del Tempio. La
questione posta è duplice: “quando” accadrà l'evento traumatico
e quale il “segno” che lo precederà. La domanda è rivolta a
Gesù, che qui viene indicato con l'appellativo di “Did£skale”
(Didáscale,
maestro), che definisce il particolare rapporto che intercorre tra
gli interpellanti e Gesù. Questi sono dei discepoli o quanto meno
tale è il loro atteggiamento nei confronti di Gesù e Gesù qui è
visto come colui che insegna loro. Ma nel contempo dice come il
contenuto del discorso sia, più che una predizione, un insegnamento
e che come tale va colto, perché da questo se ne possa trarre una
lezione di vita. Luca pertanto evita di adoperare qui l'appellativo
che talvolta usa, unico tra gli evangelisti, per definire Gesù nel
suo rapporto con i suoi, quello di “™pist£ta”
(epistáta)11,
che pur significando maestro, tuttavia il senso è quello di “guida,
capo, sovraintendente, arbitro, preposto”.
L'insegnamento
di Gesù in un contesto storico di attese messianiche (8-36)
Testo
a lettura facilitata
I
segni che precederanno la distruzione del Tempio (vv.8-11)
8
– Questi disse: <<Guardate affinché non siate tratti in
inganno. Molti verranno, infatti, nel mio nome dicendo: “Sono io”
e “il tempo si è avvicinato”. Non andate dietro a loro”.
9
– Ma allorché sentirete guerre e tumulti, non spaventatevi;
bisogna, infatti, che prima avvengano queste cose, ma non subito
(sarà) la fine>>.
10
– Allora diceva loro: <<Sorgerà un popolo contro un popolo e
un regno contro un regno,
11
– ci saranno grandi terremoti e in (molti) luoghi carestie e
pestilenze, ci saranno anche terrori e dal cielo grandi segni.
L'evento
scatenante: le persecuzioni contro i credenti (vv.12-19)
12
– Ma prima di tutte queste cose metteranno le loro mani su di voi e
(vi) perseguiteranno, consegnando(vi) alle sinagoghe e carceri,
portandovi da re e governatori a causa del mio nome;
13
– (tutto ciò) andrà a finire in testimonianza per voi.
14
– Ponete dunque nei vostri cuori di non pensare prima (che cosa)
dire in vostra difesa;
15
– io, infatti, vi darò una bocca e una sapienza alla quale non
potranno contrapporsi o controbattere tutti quanti quelli che vi si
oppongono.
16
– Ma sarete consegnati anche da genitori e fratelli e parenti e
amici e (ne) faranno morire tra di voi.
17
– E sarete odiati da tutti per il mio nome.
18
– E neppure un capello dalla vostra testa si perderà.
19
- Nella vostra pazienza guadagnerete le vostre anime.
Il
“quando” della distruzione del Tempio: l'assedio e la
devastazione di Gerusalemme (vv.20-24)
20
- Allorché vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora
sappiate che la sua devastazione si è avvicinata.
21
– Allora coloro che (sono) nella Giudea fuggano sui monti e coloro
che (sono) nel suo mezzo vadano via e quelli che (sono) nei campi non
entrino in essa,
22
– poiché giorni di vendetta sono quelli affinché siano compiute
tutte le cose scritte.
23
– Guai a quelle che hanno (un figlio) nell'utero e a quelle che
allattano in quei giorni! (Vi) sarà, infatti, una grande costrizione
sulla terra e ira per questo popolo,
24
– e cadranno per punta di spada e saranno fatti prigionieri presso
tutti i popoli, e Gerusalemme sarà calpestata dalle genti, finché
non si compiano i tempi (dei) popoli.
La venuta del Figlio dell'umo (vv.25-28)
25
– E vi saranno segni nel sole e luna e stelle, e sulla terra
oppressione di popoli in difficoltà per il fragore (del) mare e
(dei) flutti,
26
– mentre gli uomini sveniranno per la paura e per l'attesa e per le
cose che sopraggiungono sulla terra abitata, poiché le potenze dei
celi saranno scosse.
27
– E allora vedranno il Figlio dell'uomo che viene in una nube con
potenza e molta gloria.
28
– Ora, incominciando ad accadere queste cose, riprendetevi d'animo
e sollevate la vostra testa, poiché si avvicina la vostra
redenzione>>.
Saper
leggere i segni dei tempi e vegliare senza distrarsi (vv.29-36)
29
– E disse loro una parabola: <<Guardate il fico e tutti gli
alberi.
30
– Allorché già abbiano messo fuori (i germogli), avendo(li)
visti, da voi stessi sapete che già è vicina l'estate;
31
– così anche voi, allorché vedete queste cose che accadono,
sappiate che il regno di Dio è vicino.
32
– In verità vi dico che non passerà questa generazione finché
tutte le cose siano accadute.
33
– Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
34
– Badate, invece, a voi stessi, affinché i vostri cuori non siano
appesantiti in gozzoviglie e ubriachezza e affanni della vita e
sopraggiunga su di voi improvviso quel giorno
35
– come un laccio; sopraggiungerà, infatti, su tutti quelli che
dimorano sulla faccia di tutta la terra.
36
– Vegliate, invece, pregando per tutto il tempo, affinché abbiate
forza di fuggire tutte queste cose che stanno per accadere e stare
saldi davanti al Figlio dell'uomo>>.
Note
generali
Per
poter comprendere il linguaggio escatologico e apocalittico di questo
discorso di Gesù, che si ritrova anche negli altri due Sinottici (Mc
13,1-37; Mt 24,1-51), è necessario capire il contesto storico in cui
i vangeli e gli scritti neotestamentari in genere sono stati
composti. Un tempo segnato da forti tensioni spirituali, da attese
messianiche ed escatologiche, che traspaiono qua e là anche da tali
scritti. Lo stesso
Luca, lascia
intravvedere lo spirito di attesa che albergava nell'animo
dell'israelita: “Ora
a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato
di Dio, che aspettava il conforto d'Israele”
(Lc 2,25); così similmente, parlando di Anna, la profetessa,
sottolinea come essa “Sopraggiunta
in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino
a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Anche
Giovanni, da parte sua, lascia trapelare dalla bocca della Samaritana
questa attesa del Messia: “So che deve venire il Messia [cioè il
Cristo]: quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa” (Gv 4,25). I
discepoli di Giovanni si rivolgono a Gesù chiedendogli se fosse lui
“colui che deve venire” o se dovevano aspettarne un altro (Mt
11,3). I due discepoli di Emmaus si allontanano da Gerusalemme delusi
perché erano convinti che Gesù fosse il liberatore di Israele
dall'asservimento di Roma. In At 1,6 i discepoli chiedono al Risorto
se è questo
il tempo in cui ricostituirà il regno di Israele, mentre i due figli
di Zebedeo chiedono a Gesù di avere posti di riguardo nel suo regno,
tra l'indignazione degli altri che si sono visti inaspettatamente
superati da questi due (Mt 20,21.24; Mc 10,37.41).
Questo
clima di attesa messianica, la pronta creduloneria del popolo e la
sua facile predisposizione alla rivolta fanno capire anche le
preoccupazioni del sommo sacerdote Caifa ricordate da Gv
11,47-50:
“Allora
i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano:
“<<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se
lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e
distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>. Ma
uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno,
disse loro: <<Voi non capite nulla e non considerate come sia
meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione
intera>>”; parole a cui l'evangelista attribuirà un valore
profetico (Gv 11,51-52).
Un
clima di attesa agitato anche dall'avvento della prima guerra
giudaica (66-73 d.C.), fomentata dagli Zeloti, convinti che l'avvento
del Regno di Dio non potesse compiersi finché l'invasore romano
avesse calpestato la Terra Santa e che, quindi, si dovesse favorirne
l'avvento con una decisa azione militare. Accanto alla prima guerra
giudaica si sommarono poi le turbolenze della guerra civile romana
(68-69 d.C.), che sconquassò buona parte dell'impero, creando anche
un parallelo clima di attesa da fine dei tempi presso le prime
comunità credenti, che si riflette in qualche modo negli scritti
neotestamentari12.
È
significativo come proprio in questo periodo,
tra il 70 e il 135 d.C., epoca in cui vennero redatti i vangeli e gli
altri scritti neotestamentari, siano sorti numerosi scritti
apocalittici. Questi, al di là delle singole visioni della storia,
sottolineavano unanimemente come ormai si era giunti agli ultimi
tempi e tutti si attendevano un intervento di Dio nella storia
attraverso un messia, variamente inteso, il cui compito era
capovolgere la situazione di grande sofferenza, da cui il mondo era
travolto e instaurare un regno messianico, una sorta di grande sabato
cosmico, dopo il quale sarebbe venuto in modo definitivo il Regno di
Dio. In questo clima la distruzione del Tempio e di Gerusalemme (70
d.C.) era letta come l'inizio della fine dei tempi.
Quanto
alla struttura del cap.21 questa è alquanto complessa, ma va letta e
compresa nel contesto degli eventi sopra menzionati. Da
un punto di vista narrativo il discorso escatologico si presenta come
una sorta di assemblaggio di diverse unità letterarie giustapposte
l'una accanto all'altra senza logica apparente. In realtà Luca qui
sta enumerando i fatti storicamente avvenuti a partire dagli annunci
dei falsi profeti e messia per poi passare alle sommosse e da qui
alla guerra giudaica che vide la distruzione di Gerusalemme e del
Tempio e in cui si sente come un'eco le turbolenze che agitavano in
quel tempo l'impero romano, framezzando in questo guazzabuglio
internazionale, ponendole prevalentemente in relazione alla fine di
Gerusalemme e del Tempio e con questi la fine del culto giudaico
legato al Tempio, le persecuzioni delle prime comunità credenti. I
tempi di quanto è successo sono scanditi dai vv.9b e 12a che danno
una sorta di ordine storico agli eventi.
Propongo,
pertanto, qui di seguito una lettura di questo complesso discorso
escatologico, che si sviluppa attorno alla domanda posta da
alcuni dei presenti (v.7) circa il “quando” avverrà la
distruzione del Tempio, prospettata da Gesù (v.6), e i “segni”
che la precederanno. La risposta partirà dal considerare i “segni”,
che occuperà la sezione delimitata dai vv. 8-19, per poi passare al
“quando” (vv.20-24). Il processo narrativo, pertanto, è inverso,
ma segue lo sviluppo storico degli eventi che precedettero la prima
guerra giudaica (66-73 d.C.) e che portarono a questa, che terminerà
nel 70 d.C.13
con la distruzione di Gerusalemme e del Tempio. Il discorso
escatologico, pertanto, parte dai “segni” che precedettero la
distruzione del Tempio: a)
falsi profeti e sedicenti messia che aizzavano il popolo contro
l'invasore romano, fomentando odio e ribellioni (v.8); b)
lo scatenarsi di rivolte che portarono alla guerra che non fu
soltanto ristretta alla Giudea, ma fu accostata anche da una guerra
civile a Roma, che coinvolse gran parte dell'impero romano (68-69
d.C.). Una situazione quindi di estesa turbolenza, a cui
probabilmente fanno riferimento i vv.9-10. Il v.9b, invece, funge da
intermezzo tra il v.9a e il v.10 e, creando uno stacco, scandisce il
tempo degli eventi storici: prima della distruzione del Tempio ci
saranno nell'ordine: falsi profeti e falsi messia; tumulti e guerre
che porteranno sconquassi sulla terra e tra i popoli, portando con sé
pestilenze e carestie e che avranno il loro riverbero anche nel cielo
(v.11). Con il v.11 si porta a conclusione la seconda parte della
domanda: “quali segni” precederanno la distruzione del Tempio.
Prima di passare alla prima parte della domanda, circa il “quando” (vv.20-24), Luca crea una sorta di intermezzo riportando il lettore alla situazione presente, caratterizzata dalle persecuzioni contro i credenti che pone “prima che tutto ciò avvenga” (vv.12-19), leggendole, pertanto come l'elemento scatenante della distruzione del Tempio e di Gerusalemme. Come dire che le persecuzioni saranno vendicate con tali distruzioni, dalle cui ceneri sorgerà un nuovo Israele, il cristianesimo. La distruzione di Gerusalemme e del Tempio segneranno, pertanto, la fine di un tempo, quello veterotestamentario, lasciando spazio ad un altro nuovo tempo, che non rinnegherà il primo, ma da questo si evolverà, superando i limiti del primo Israele ed aprendosi ad un nuovo Israele, caratterizzato non più dalla circoncisione e dall'Alleanza sinaitica, ma dalla fede e dallo Spirito e che ha per fondamento non più la Torah e una Promessa, ma Cristo stesso, realizzazione della Promessa e fondamento di un nuovo popolo, che si muove sotto l'azione dello Spirito Santo.
Terminato l'intermezzo delle persecuzioni (vv.12-19), Luca passa ora a rispondere alla prima parte della domanda, circa il “quando” avverrà la distruzione del Tempio. Il “quando” è dato dalla distruzione di Gerusalemme (v.20), accompagnata dal tragico dramma degli abitanti della Giudea (vv.21-24).
Anche questo racconto della distruzione di Gerusalemme si chiude con il v.25, che riprende, sviluppandolo in forma chiasmica, il v.11; per cui “i segni dal cielo” di 11b, vengono qui specificati in segni che avvengono nel sole, nella luna e nelle stelle (v.25a); mentre il v.25b presenta le cause dei terremoti, carestie e pestilenze: i popoli oppressi a causa del fragore dei mari e dei flutti, cioè delle notizie delle rivolte e delle guerre, che li assillano e che creano in loro un'attesa di angoscia e di terrore per le conseguenze che tutti questi stravolgimenti possono avere su di loro (v.26).
Il v.26, pertanto, funge da preambolo al v.27, creandone il contesto: un'umanità oppressa da terrori e angosce di morte imminente, così come avvenne per il Gesù lucano nel Getsemani (22,44), è lo scenario in cui irromperà, in mezzo ad una umanità smarrita, confusa e disorientata, la gloriosa e potente luce della risurrezione, che sarà motivo di speranza e di salvezza per tutti (vv.27-28).
Con i vv.29-31 si chiude il grande discorso escatologico ed apocalittico, richiamandosi con la parabola allegorica del “fico” al v.7, circa i “segnali” (vv.8-19) e il “quando” (vv.20-24), divenendone in tal modo risposta definitiva e applicativa nel contempo, indicando con tutto questo il contesto dell'affermarsi del Regno di Dio in mezzo agli uomini. Un evento spirituale e storico, in quanto ecclesiologico, che inaugurerà un nuovo tempo non solo per i credenti, ma anche per l'intera umanità. Un tempo questo definitivamente escatologico e apocalittico nel contempo, che non significa necessariamente la fine del mondo, ma soltanto un tempo che assume per i credenti e per l'intera umanità uno specifico significato: il tempo in cui tutti, credenti e non, sono chiamati a dare la loro risposta esistenziale all'evento Cristo, che con la sua venuta si è costituito quale elemento discriminante in mezzo agli uomini, qualificando questo tempo come tempo del giudizio.
I vv.32-33 fungono da sottoscrizione finale dell'intero discorso, dandogli un tono di solennità e imprimendogli con quel “In verità vi dico” iniziale (v.32a) il carisma della veridicità.
Non
potevano mancare, infine, i vv.34-36, di natura parenetica,
delineando due contrapposti comportamenti, così da far emergere da
questo contrastante chiaro-scuro, quale sia la corretta condotta da
tenere e quale da evitare. Un richiamo che, comunque, già era stato
rimarcato in 17,24-30.
Commento ai vv.8-36
Il
v.8 apre il grande discorso escatologico di Gesù con un'esortazione
generale: fare attenzione per non essere tratti in inganno.
Un'esortazione che diventerà più specifica ai vv.34.36 dove quel
“Guardate” iniziale (Blšpete,
blépete)
si traduce più dettagliatamente in “Badate, invece, a voi stessi”
e in “Vegliate”. L'esortazione è qui rivolta chiaramente alle
comunità credenti. Luca infatti, a differenza di Mc 13,6 e Mt 24,5,
che esortano a “non lasciarsi ingannare”, sollecita a “non
andare dietro a loro”, in cui quel “Ñp…sw
aÙtîn”
(opíso
autôn,
dietro di loro) definisce una sequela, deviando pertanto da quella di
Gesù a quella di questi ingannatori, che qui non vanno identificati,
pertanto, soltanto nei falsi e sedicenti messia giudaici, ma anche e
in particolar modo nelle persone che dall'interno della stessa
comunità credente o provenienti da altre comunità, quindi loro
stessi credenti, si ergono come veri messia, affermando di parlare in
nome di Gesù, insegnando dottrine perverse e devianti, creando
scandalo, divisioni e defezioni. Testimonianze in tal senso
provengono da 1Gv 2,18-19.22; 4,1.3-4; 5,1; 2Gv 1,7 dove si attesta
che degli anticristi e dei falsi profeti sono sorti all'interno
della comunità, predicando dottrine aberranti. Similmente altre
testimonianze ci provengono in tal senso da 1Cor 1,11-13; 2Cor
11,5.13.26; 12,11; Gal 2,4; 2Pt 2,1; 2Tm 3,1-16; Tt 1,10.
Se
questi sedicenti messia, falsi profeti e maestri ingannatori,
provenienti dalle stesse comunità credenti, erano certamente il
bersaglio degli evangelisti, in quanto costituivano un pericolo per
la fede dei credenti e l'integrità delle stesse comunità, tuttavia
non vanno esclusi i sedicenti e falsi messia provenienti dal
giudaismo, che non di meno erano altrettanto allettanti e pericolosi,
perché capaci di muovere consistenti masse popolari, scatenando
sanguinose e tragiche repressioni da parte di Roma. In
Perea, un certo Simone, uno schiavo del re, che forte della sua
avvenenza e del suo ascendente, si pose a capo a dei rivoltosi e,
cintosi di un diadema regale, si proclamò re e incendiò la reggia
di Gerico14.
Similmente un pastore, un certo Antrongeo, emulò le gesta di
Simone15,
proclamandosi re e portando distruzioni e saccheggi per la Palestina.
Ma questi non furono gli unici. Vi fu anche
un certo Teuda16,
sedicente profeta, che ai tempi del procuratore romano della Giudea,
Fado, convinse molti Giudei a prendere i propri beni e a seguirlo
fino al Giordano, che, a un suo comando, si sarebbe aperto al loro
passaggio17.
Altri lo seguirono proclamandosi, di volta in volta, o messia o re o
profeta, in particolar modo sotto il governo di Felice (52-60 d.C.),
procuratore della Giudea. Qui, un tale, conosciuto con il nome de
“L'Egiziano”18,
raccolse attorno a sé un foltissimo gruppo di seguaci, li condusse
sul monte degli Ulivi e da lì egli, a un suo comando, avrebbe fatto
cadere le mura di Gerusalemme. Ma anche questo assurdo tentativo di
autoproclamazione regale, messianica o profetica finì, come tutti
gli altri, in un massacro: quattrocento morti e duecento dispersi19.
Il
v.8, pertanto, allude a questo contesto storico dove numerose voci di
sedicenti cristi o profeti turbavano il quieto vivere sociale
provocando ribellioni e sommosse seguite da cruente repressioni, che
poi portarono alla prima guerra giudaica (66-73 d.C.). A questa e ad
altre turbolenze sociali si richiamano i vv.9-11.
I
vv.9-11, inframezzati da un breve commento (v.9b), alludono sia alla
prima guerra giudaica (v.9a) che, probabilmente, alla guerra civile
di Roma avvenuta tra il 68 e il 69, alla morte di Nerone (giugno 68)
e che vide il susseguirsi di quattro imperatori (Galba, Otone,
Vitellio e Vespasiano) in lizza tra loro per la conquista del potere.
Una guerra che si svolse in parallelo a quella giudaica, e coinvolse
intere regioni dell'impero romano. Da qui il “Sorgerà un popolo
contro un popolo e un regno contro un regno”.
Il v.9b funge da spartiacque tra il v.9a e il v.10 e scandisce la successione degli eventi: “non spaventatevi; bisogna, infatti, che prima avvengano queste cose, ma non subito (sarà) la fine”. Le cose che devono avvenire prima della fine sono l'avvento dei sedicenti messia e falsi profeti, seguiti poi dalla prima guerra giudaica (vv.8-9a). La fine dei tempi, a cui si riteneva fosse legata la distruzione del Tempio (v.6) a seguito della conquista di Gerusalemme (vv.20-24), avverrà soltanto nel 70 d.C. al termine della prima fase della guerra giudaica20. La fine, quindi, non è ancora venuta. Così che il v.10 continua ad annunciare sollevamenti e guerre tra popoli e regni, alludendo quasi certamente alla guerra civile di Roma, tra il 68 e il 69 d.C. e quindi verso la fine della prima fase della guerra giudaica, condotta questa da Vespasiano e suo figlio Tito. Vespasiano sarà uno dei quattro concorrenti alla successione di Nerone, quello più fortunato, il cui impero durò dieci anni Lo spettro storico e geografico, prospettato dal v.10, è infatti ben più ampio di quello offerto dal v.9a, poiché si parla di popoli e regni che si scontrano tra loro.
Il
v.11 chiude la prima parte delle predizioni riguardanti gli eventi
che precedettero la distruzione del Tempio. Nell'ordine: falsi
profeti e sedicenti messia che aizzarono l'animo dei popoli contro
l'invasore Romano (v.8) e che portarono alla prima devastante guerra
giudaica (v.9a) e, sul finire di questa, la guerra civile di Roma che
sconquassò buona parte dell'impero (v.10). Di conseguenza, il v.11
enumera le conseguenze di queste devastazioni avvenute sia in
Palestina che nell'impero romano: “ci saranno grandi terremoti e in
(molti) luoghi carestie e pestilenze, ci saranno anche terrori e dal
cielo grandi segni”. Il linguaggio è caratteristico
dell'apocalittica e va letto in modo avveduto. I terremoti alludono
agli sconquassi e stravolgimenti sociali prodotti dalle guerre e
dalle rivolte che hanno reso precaria e instabile la vita sulla
terra, togliendole ogni sicurezza. Più realistica, invece,
l'enunciazione di carestie e pestilenze, che accompagnano, quale
strascico inevitabile, il passaggio della guerra e, di conseguenza, i
“terrori” per la drammatica precarietà in cui versa la vita per
il continuo passaggio di eserciti o di soldati sbandati e violenti e,
nel venir meno dell'ordine pubblico, il fiorire di briganti e
assassini, pronti ad uccidere per un pezzo di pane o un mantello.
Il v.11, si chiude con “dal cielo grandi segni” che fa parte del linguaggio proprio dell'apocalittica e allude, probabilmente, al come anche il cielo rimane turbato dai grandi e gravi sconvolgimenti che avvengono sulla terra e che in qualche modo, come un'eco lontana, si riflettono anche in esso. L'intero habitat umano, pertanto, viene sconquassato e la vita dell'uomo resa precaria e instabile. Ogni speranza viene tolta all'uomo.
Il
v.11 troverà il suo sviluppo e il suo completamento nei vv.25-26,
che, parimenti al v.11 che chiude la distruzione del Tempio,
chiuderanno anche loro il drammatico evento della distruzione di
Gerusalemme e del dramma dei suoi abitanti, (vv.20-24), creando una
sorta di parallelo e di aggancio con i vv.8-11 e 20-24.
L'evento scatenante: le persecuzioni contro i credenti (vv.12-19)
Note generali
Luca apre il
discorso escatologico partendo dall'annuncio della distruzione del
Tempio (v.6) e poi, a ritroso e in ordine di accadimento, come i una
sorta di flashback,
enumera gli eventi che l'hanno preceduta (vv.8-11). Con questa nuova
pericope l'autore compie un ulteriore passo indietro rispetto a
quegli eventi che hanno preceduto e portato alla distruzione del
Tempio, soffermandosi su di un accadimento che colpisce un
particolare strato della popolazione: le persecuzioni contro le nuove
comunità credenti, quasi ponendole all'origine di tutto lo
sconquasso che colpirà Gerusalemme, il Tempio e, in un più ampio
spettro storico e geografico, l'impero romano. La lettura che ne esce
è che emerge questa nuova realtà di fede, fondata sul Gesù
morto-risorto, messa in rilievo proprio da queste persecuzioni, che
divengono occasioni di testimonianza non solo pubblica (v.13) presso
i Giudei e i pagani (v.12), ma anche nella ristretta cerchia
familiare (v.16). Le persecuzioni dei credenti, pertanto, ben lungi
dall'essere sopprimenti, sono stimolanti e mettono a fuoco un nuovo
fenomeno religioso e sociale, che diventerà dirompente e destinato a
soppiantare un vecchio mondo, quello pagano, e un vecchio modo di
rendere culto a Dio, ormai divenuto sterile a causa di un legalismo
che ingessava l'autentico rapporto del pio ebreo con il suo Dio. Le
persecuzioni, pertanto, vengono poste agli inizi di questi
sconvolgimenti (v.12a), che cambieranno radicalmente, da un lato, il
volto del giudaismo; dall'altro, quello della società pagana. Di
conseguenza la distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio non
segnano la fine dei tempi, ma la fine di un tempo e di un'epoca per
lasciare spazio ad un grande evento planetario che rinnoverà il
volto della storia e della religione sia giudaica che pagana: il
cristianesimo, che nonostante le persecuzioni non verrà soppresso,
ma paradossalmente rivitalizzato e portato alle luci della ribalta,
inaugurando gli inizi di una nuova era, fondata non più su
ripetitivi sacrifici e prescrizioni e sul volto di mille divinità,
frutto delle fantasie umane, ma sull'amore e sullo Spirito, le cui
dimensioni sono universali.
La struttura di
questa pericope (vv.12-19) è scandita sostanzialmente in due parti:
a) l'annuncio delle persecuzioni (v.12a), che si muove su due
livelli: quello pubblico (v.12b), al cui interno vengono dettate
alcune regole: il dovere della testimonianza (v.13) e fiducia nel
Risorto (v.14); e familiare (v.16); b) sentenze finali
(vv.17-19) in cui il v.17 funge da transizione tra la prima e la
seconda parte.
Commento ai vv.12-19
A differenza di Mc
13,9, Lc 21,12 inizia questa pericope con una nota temporale, la cui
finalità è di mettere ordini agli accadimenti che stanno
sconvolgendo i popoli e con loro, in particolar modo, i credenti: “Ma
prima di tutte queste cose”. Le cose a cui si riferisce l'autore
sono quelle sopra descritte, riguardanti i falsi profeti (v.8), i
tumulti e le guerre (v.9a) e i sollevamenti di popoli e regni l'un
contro l'altro (v.10) con le conseguenze che tutto questo porta con
sé: carestie, pestilenze e terrori, che sovvertono,
destabilizzandolo, il normale modo di vivere di una persona e di una
società, allegorizzati nei terremoti (v.11). Tutto questo sconquasso
storico, sociale e personale ha una sua causa ancor più profonda e
remota: le persecuzioni dei credenti, che l'autore qui legge come
l'evidenziarsi, a livello sociale (v.12) e familiare (v.16), di un
nuovo fenomeno socio-religioso: il cristianesimo, il cui avvento
cambierà il volto della società e di ogni singola persona. Le
distruzioni quindi sono lette da Luca come una sorta di effetto
metaforico di questo nuovo evento, che viene rilevato dalle
persecuzioni: “metteranno le loro mani su di voi e (vi)
perseguiteranno, consegnando(vi) alle sinagoghe e carceri, portandovi
da re e governatori a causa del mio nome”. Persecuzioni che hanno
una duplice matrice: il giudaismo, significato dalle sinagoghe; e il
paganesimo, significato dalle carceri e richiamato dai suoi
rappresentanti: i re, quali capi di regni; e i governatori, che
richiamano da vicino quelli romani, che si sono succeduti nelle varie
province dell'impero. Quindi, giudaismo e paganesimo quali fonti
delle persecuzioni, dando in tal modo una connotazione universale
alle persecuzioni stesse, che verrà significata nel v.17: “E
sarete odiati da tutti per il mio nome”, rilevando in tal modo
l'ampia diffusione del cristianesimo e come questo si stia
rapidamente affermando ovunque21.
L'azione
persecutoria è duplice: “metteranno le mani su di voi” nel senso
di “vi arresteranno”; e poi, in termini più generici e
onnicomprensivi “vi perseguiteranno”, di cui l'arresto è
soltanto una forma repressiva.
Il motivo di tale
oppressione è la professione di fede nel nome di Gesù.
Il v.13, posto nel
cuore di questa prima parte (vv.12-15) della pericope (vv.12-19),
introduce la prima regola da tenere presente nelle persecuzioni,
rilevandone il significato: “(tutto ciò) andrà a finire in
testimonianza per voi”, nel senso che tutte queste persecuzioni
devono tradursi in occasioni di testimonianza, che diviene annuncio
dato con la propria vita. Un tema questo che ricorre talvolta nelle
lettere paoline22.
Non poteva del resto mancare in Luca questa nota missionaria:
l'annuncio della propria fede testimoniata con la propria vita
davanti alle genti. Anche se è strano, tuttavia, come un evangelista
con i suoi trascorsi missionari e dallo spirito marcatamente
missionario non abbia riportato la nota di Mc 13,10: “Ma
prima è necessario che il vangelo sia proclamato a tutte le genti”.
Il motivo probabilmente va ricercato nel fatto che Luca non vuole
presentare l'annuncio del Vangelo come la causa di tutti i disastri
sopra annunciati. Sarebbe deleterio e giocherebbe a sfavore
dell'annuncio stesso23.
I
vv.14-15 presentano la seconda regola da tenere presente nel caso si
sia chiamati a rispondere davanti a re e governatori della propria
fede ed è scandita in due parti: il v.14, a differenza di Mc 13,11b
che sollecita soltanto a non preoccuparsi, è, invece, un'esortazione
imperativa: “Ponete dunque nei vostri cuori”, come dire sia
impresso bene dentro di voi quanto segue: “non pensare prima (che
cosa) dire in vostra difesa”. In altri termini la testimonianza non
deve nascere da elucubrazioni umane, quasi sia la propria bravura a
determinare le proprie sorti e a convincere o meno il proprio
persecutore. La fiducia, dunque, non va riposta in se stessi, nelle
proprie abilità, poiché la testimonianza che si è chiamati a dare
è un atto che affonda le sue radici nel Risorto stesso. Sarà,
dunque, lui scegliere la giusta strumentazione perché la
testimonianza di lui sia efficace, poiché nella testimonianza viene
trasmesso Cristo stesso. Da qui la seconda parte della regola dettata
dal v.15: “io, infatti, vi darò una bocca e una sapienza”. Come
dire che la la parola che il testimone pronunzierà ha una valenza
divina e produce efficacemente i suoi effetti in chi l'ascolta e
l'accoglie. L'attenzione pertanto viene spostata dal testimone a
Cristo, di cui il testimone è solo uno strumento nelle sue mani.
Con il v.16 viene introdotto un nuovo contesto di persecuzione, forse la più dolorosa perché lo strappo avviene all'interno degli affetti familiari e di amicizia: “sarete consegnati anche da genitori e fratelli e parenti e amici e (ne) faranno morire tra di voi”. Una situazione che Lc 12,52-53 aveva già descritto: “saranno divisi in cinque in una casa: tre contro due e due contro tre. Saranno divisi padre contro figlio e figlio contro padre; madre contro la figlia e figlia contro la madre, suocera contro la nuora e nuora contro la suocera”. L'evangelista riconduce qui il proprio lettore all'interno di un contesto storico reale, allorché un membro di una famiglia o giudaica o pagana decideva di aderire alla nuova fede, esponendo in qualche modo gli stessi familiari alla medesima persecuzione se questi non prendevano le distanze dal loro congiunto (Gv 9,20-23).
Dopo aver presentato i due caratteristici contesti della persecuzione, pubblico e familiare, ed aver dettato le due regole base per affrontare con efficacia la persecuzione, quale occasione di testimonianza in cui lo stesso Risorto si comunica nel credente ai suoi persecutori, Luca introduce un momento di riflessione (vv.17-19), la cui finalità è rincuorare e sostenere il credente sottoposto alla prova, sollecitandolo alla fiducia nella Provvidenza. Si tratta di tre detti che Lc 21,17.19 un po' mutua da Mc 13,13a.b elaborandoli a modo proprio (v.19); mentre il v.18 riprende, completamente rielaborato, Lc 12,7a, che a sua volta viene mutuato dalla fonte Q, che condivide con Mt 10,30. Tutti contesti questi ultimi in cui si esorta alla fiducia nella Provvidenza che veglia costantemente e in modo meticoloso su ciascuno, i cui capelli sono tutti contati e nessuno di questi si perderà.
Il v.17 funge da transizione tra l'enunciazione delle persecuzioni scatenate in ogni ambito sociale, pubblico e familiare, e la breve pausa di sostegno per i credenti provati (vv.18-19): “E sarete odiati da tutti per il mio nome ”. L'espressione, presente sostanzialmente identica anche in Mt 10,22a e in Mc 12,13a, conclude sintetizzandolo efficacemente il racconto delle persecuzioni scatenate dal giudaismo, dal mondo pagano e dai propri familiari. Da qui il “sarete odiati da tutti”. Ma nel contempo questa predizione, così pesante e ghettizzante, trova la sua piena consolazione nei vv.18 e 19.
Il
v.19 riprende Mc 13,13b, ma lo elabora a modo proprio rendendolo più
lapidario e sentenziale e, quindi, più incisivo. Un detto dai toni
parenetici che esorta alla paziente perseveranza nella prova, che ha
come contropartita la salvezza della propria anima, che non va intesa
nel senso di spirito, ma come l'elemento di congiunzione del corpo e
dello spirito e, quindi, esprime l'interezza della vita dell'uomo.
L'uomo nella sua interezza, quindi, verrà salvato. Il credente,
pertanto, duramente provato dalla persecuzione è chiamato a
perseverare pazientemente, guardando oltre alla prova, che deve
concepire come una sorta di test
dalla cui risposta dipende la sua salvezza. Elemento chiave qui è
l'esortazione alla “pazienza” nella prova che richiama da vicino
Rm 5,3: “E
non soltanto questo: noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben
sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù
provata”. E
similmente Gc 1,3-4: “sapendo
che la prova della vostra fede produce la pazienza. E
la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e
integri, senza mancare di nulla”.
Il
“quando” della distruzione del Tempio: l'assedio e la
devastazione di Gerusalemme (vv.20-24)
Note
generali
Con
il v.7 era stata posta a Gesù una duplice domanda intorno alla
distruzione del Tempio: “quando”
sarebbe successa e quali i “segni”che
l'avrebbero preceduta. Luca, partendo dai “segni” (vv.8-19),
cerca di dare un ordine storico agli eventi con due puntualizzazioni
ai vv.9b e 12a di ordine temporale: “prima”. Ora con la pericope
vv.20-24 risponde al “quando”. Una risposta che mutua
sostanzialmente identica dai vv.19,43-44, che riporta rispettivamente
nell'ordine ai vv.20.24. Ma mentre qui riporta soltanto gli eventi,
là, la breve pericope 19,43-44 è accompagnata e preceduta anche
dalla motivazione di tanta devastazione, dandone in tal modo una
lettura teologica: il non aver conosciuto e il non aver accolto Gesù
e il suo messaggio di pace e di riconciliazione tra Dio e gli uomini;
la nuova alleanza che Dio stava stabilendo con il suo popolo proprio
nel suo inviato Gesù (19.41-42). Per questo la distruzione di
Gerusalemme e del suo Tempio non va letta soltanto come punizione per
il rifiuto, ma anche, in particolar modo, come fine di una storia e
di una elezione, la cui finalità era di preparare questa venuta e
questa nuova Alleanza, che si stava compiendo in Gesù, nel quale
l'intero Israele doveva confluire per divenire l'elemento fondativo e
definitivo di una nuova comunità credente. In questo senso si
sarebbe realizzata pienamente la promessa di Es 19,5-6: “Ora,
se
vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza,
voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è
tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione
santa. Queste parole dirai agli Israeliti”.
Ma Israele non ha ascoltato la voce di Jhwh che risuonava nuovamente
in Gesù e per questo ha tradito anche l'originaria alleanza con
Jhwh. Un
atteggiamento di rifiuto che il Salmista già aveva riconosciuto e
stigmatizzato ancor prima della venuta di Gesù: “Ma il mio popolo
non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito. L'ho
abbandonato alla durezza del suo cuore, che seguisse il proprio
consiglio”
(Sal 80,12-13). Per questo Israele è stato destituito dal suo ruolo
primario. Si trattava di evolvere da Mosè e dalla Torah a Gesù,
Parola eterna del Padre divenuta carne (Gv 1,1-2.14); da una prima
Alleanza ad una nuova, di cui la prima era preparatoria e in funzione
a questa. Questo non è avvenuto per un caparbio e invincibile
rifiuto da parte di Israele e la distruzione di Gerusalemme e del
Tempio va letta come un punto fermo che Dio ha posto ad una iniziale
promettente elezione. Paolo in Rm 9-11 aveva capito perfettamente la
tragedia che si era compiuta per Israele e non se ne dava spiegazione
né pace, cercando in qualche modo di giustificare il rifiuto
d'Israele, facendolo rientrare nel piano divino. Ma la riflessione
cristiana successiva ha relegato gli eventi veterotestamentari ad una
storia ormai superata e chiusa definitivamente, anche se mai
rinnegata, ma soltanto ricompresa alla luce della nuova e
sostituendola con questa: “tutte cose queste che sono ombra delle
future; ma la realtà invece è Cristo!” (Col 2,17), mentre Eb
10,1a gli fa da eco: “Poiché la legge possiede solo un'ombra dei
beni futuri e non la realtà stessa delle cose”.
Questo il contesto storico e teologico entro cui va compresa la distruzione di Gerusalemme e del Tempio.
La
pericope vv.20-24 è strutturalmente inclusa dai vv.20.24,
complementari tra loro poiché il primo parla dell'assedio di
Gerusalemme; il secondo della sua conquista e della tragedia che ne è
conseguita per i suoi abitanti. Mentre i vv.21-23 descrivono, sia pur
succintamente, il dramma che travolse gli abitanti della Giudea
durante l'assedio e la conquista di Gerusalemme.
Commento
ai vv.20-24
Il
v.20 si apre con l'avverbio di tempo “Quando” che definisce il
tempo in cui verrà distrutto il Tempio, strettamente legato alla
sorte di Gerusalemme, rispondendo, pertanto, alla prima parte della
domanda del v.7. Ma mentre Mc 13,14 e Mt 24,15 preferiscono
annunciare la fine di Gerusalemme usando un linguaggio profetico ed
apocalittico24,
mutuato da Dn 9,27; 11,31 e 12,11, il quale si rifà al dicembre
dell'anno 167 a.C., allorché Antioco IV Epifane collocò sull'altare
dei sacrifici del Tempio di Gerusalemme “l'abominio della
desolazione” (bdšlugma
™rhmèsewj,
bdéligma eremóseos),
cioè l'altare dedicato a Zeus Olimpico (1Mac 1,54), Luca preferisce
parlare ai suoi lettori in termini chiari e diretti, con il
linguaggio proprio dello storico, riportando immagini che sembrano
riflettere il Libro V dell'opera “Guerra Giudaica” di Flavio
Giuseppe25
e del successivo dramma che conseguì all'accerchiamento della città26
I
vv.21-23 forniscono una sorta di panoramica sulla situazione della
Giudea, dove si svolgevano le operazioni militari per la conquista di
Gerusalemme, presentando tre diversi livelli di drammaticità.
Il v.21 attraverso una progressività concentrica, sollecita dapprima i giudei che abitano il territorio lontano dalle zone di operazione a fuggire sui monti; quelli che sono nel mezzo, probabilmente intendendo quelli che abitano tali zone o sono sul loro limitare ad allontanarsi da queste. Si parla infatti di “™kcwre…twsan” (ekcoreítosan), che significa “uscire da, andare via da, partire da, emigrare, ritirarsi da”. Ed infine, per chi abita nei pressi di Gerusalemme ed hanno qui le loro proprietà (campi) non rientrino nelle loro case. Il sollecito generale è la fuga e l'abbandono di tutto per mettere in salvo la propria vita. In altri termini, la Giudea non è più terra ospitale. Il perché verrà spiegato ai vv.22.24.
Il v.22, proprio di Luca, usando un linguaggio profetico (“giorni di … quei giorni”), rimanda alle stesse Scritture, probabilmente il riferimento qui è Zc 14,2. Tuttavia in quel “tutte le cose scritte” non è da escludere che Luca intenda che la distruzione di Gerusalemme sia l'esecuzione di una sentenza scritta da Dio stesso per il suo rifiuto (19,42). Si parla qui di “giorni di vendetta”. Come intenderli? In senso teologico (Dt 32,35), come qui sopra detto? In senso storico? La vendetta dei Romani su di una città che si è ribellata, causando sollevazioni, resistenze e montagne di morti sia per Roma che per i Giudei stessi27? Oppure vendette personali avvenute durante l'assedio28? Probabilmente un po' tutto di questo. Anche questo è il tragico volto della guerra.
Il v.23 è scandito in due parti: la prima riguarda il grave e drammatico stato delle donne incinte e allattanti, riportata questa in tutti tre i sinottici; la seconda parte, invece, è presente soltanto in Luca o quanto meno da lui radicalmente e profondamente rielaborata rispetto agli altri due sinottici, presenta la motivazione della loro tragica situazione.
Quanto al v.23a, Luca accentra l'attenzione sulla categoria più debole della popolazione e certamente, proprio per la particolare condizione di queste donne, anche drammaticamente la più fragile e la più esposta. Donne incinte e allattanti che sono il simbolo del futuro di un popolo, sono poste qui in uno stato di grave precarietà. Come dire che il futuro di questo popolo è posto in discussione e grava su di esso un'ipoteca difficilmente solvibile.
Ma Luca non si limita a descrivere lo stato di grave e drammatica precarietà in cui versa il futuro di Israele, ma ne indica anche la causa: “(Vi) sarà, infatti, una grande costrizione sulla terra e ira per questo popolo”. Due gli elementi che concorrono a formare la causa della drammatica situazione di queste madri: “una grande costrizione” che si abbatte sulla terra della Giudea, che costringe la gente ad abbandonare il proprio stato di sicurezza per rifugiarsi sui monti, scappando dalle zone delle operazioni militari, abbandonando le proprie case e la fonte del loro primario sostentamento, il lavoro dei campi (v.21), mettendo la gente e queste madri, in primis, in una situazione di ristrettezze e di profonda precarietà esistenziale. La seconda causa di questa drammatica situazione è l'ira che si scatena per questo popolo. Un'ira che si sprigiona non solo da parte della gente contro i rivoltosi che hanno causato tanta sofferenza al popolo stesso, ma altresì quella dell'esercito romano che si vide impegnato per quasi sette anni in una guerra che gli costò grandi e gravi perdite e, secondo G. Flavio, un milione e centomila morti da parte dei giudei, presenti in gran numero in quel momento per le festività pasquali e intrappolati inaspettatamente nella rivolta degli Zeloti che poi si trasformò quasi subito in una guerra (Bell. Jud. VI, 420-421). E in che cosa consistesse questa ira contro il popolo verrà subito specificato dal v.24, che viene concatenato al v.23b da quel “kaˆ” (kaì,e) iniziale.
Se con il v.20 Luca annuncia l'assedio di Gerusalemme, con il v.24 ne illustra la fine in tre brevissimi passaggi, che ne lasciano comunque trasparire la catastrofica tragedia: a) i trafitti di spada, che non vanno intesi come i soldati caduti in battaglia, ma il riferimento qui è ai massacri che sono susseguiti alla conquista della città, sfogando l'ira e la voglia di vendetta e di rivalsa dei soldati su cittadini inermi29; b) “saranno fatti prigionieri presso tutti i popoli”. È questo il secondo aspetto conseguente la conquista. G. Flavio ne conta novantasettemila (Bell. Jud. VI,420), che vengono in vario modo dispersi per l'impero o portati a Roma in catene per il trionfo e la cui sorte è pianta da G. Flavio (Bel.Jud. VII, 23-24.96.372-374); c) il terzo ed ultimo passaggio, che pone fine al dramma, ma forse il più amaro e il più tragico di tutti, è l'annuncio che “Gerusalemme sarà calpestata dalle genti”. Per l'ebreo significa la fine di ogni promessa e di conseguenza la fine della sua stessa storia e della sua stessa identità. Non a caso la distruzione di Gerusalemme e del Tempio erano legate alla fine del mondo, di quello giudaico sicuramente, poiché da questo momento in poi cambierà tutto nella storia civile e religiosa di Israele e si profilerà una nuova identità non più legata alla Terra Promessa, benché sempre sognata e presente nel cuore di ogni ebreo, ma soltanto alla Torah, che fornirà ad ogni ebreo una sua nuova identità e lo renderà coeso e unico benché disperso tra le genti, sempre lì a ricordare a tutti che è lui il popolo della Promessa, dell'Alleanza e della Parola. Il popolo della elezione divina.
Luca, con un intervento redazionale proprio, chiude il v.24 aprendo alla speranza: questa tragedia non sarà per sempre, ma durerà “finché non si compiano i tempi dei popoli”, cioè i tempi che Dio ha stabilito per tutte le cose (Ger 25,11-12; Ap 11,2). Quel “compiersi dei tempi dei popoli” lascia intendere che esista una sorta di progetto divino che scandisce l'intera storia dell'umanità e stabilisce i tempi del vivere e del morire. Come dire che nulla di ciò che accade è eterno, ma tutto si muove ciclicamente e tutte le cose divengono e cambiano. L'umiliazione di Gerusalemme, pertanto, non sarà definitiva, ma si prospettano per lei dei tempi nuovi, una sorta di risurrezione. Dopo l'umiliazione subentra il ravvedimento e con questo la riaffermazione.
Un'affermazione questa del v.24b che, per ovvie ragioni temporali, non poteva tener conto di quanto è avvenuto successivamente nella terza guerra giudaica, che durò dal 132 al 135 d.C., provocata da un rivoltoso, Simon Bar Kosiba, che rabbi Aqiba soprannominò Bar Kochba, cioè figlio della stella, con riferimento a Nm 24,17: “Io lo vedo, ma non ora, io lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele, spezza le tempie di Moab e il cranio dei figli di Set”, riconoscendolo messia. La reazione di Roma fu durissima: la Giudea e Gerusalemme con il suo Tempio furono rase al suolo. Gerusalemme venne ricostruita solo parzialmente con il nome di Aelia Capitolina e il divieto ai giudei di entrarvi. Bar Kochba morì nell'ultima decisiva battaglia e Rabbi Aqiba venne martirizzato poco dopo. Da questo momento la storia di Israele, di Gerusalemme e del suo Tempio si fermò definitivamente e non si riebbe più. Una storia che per Israele comunque continuò prevalentemente nella diaspora, conservando la sua identità grazie alla Torah scritta e al suo enorme sviluppo in quella orale, trovando il suo assetto finale nel Talmud.
La
venuta del Figlio dell'umo (vv.25-28)
Note
generali
Con
i vv.25-28 il linguaggio torna ad essere apocalittico, mentre lo
scenario degli stravolgimenti dell'intero habitat
umano (segni nel cielo e oppressioni sulla terra) funge da preambolo
alla venuta del Figlio dell'uomo sulla nube. In altri termini, la
venuta del Figlio dell'uomo nella sua gloria segnerà la fine del
regno dell'uomo e inaugurerà quello di Dio. È il vecchio mondo che
se ne va per lasciare spazio a quello nuovo. Una visione simile si
avrà in Ap 21,1: “Vidi
poi un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di
prima erano scomparsi e il mare non c'era più”.
La
struttura della breve pericope è distribuita su due parti:
il v.25, che potremmo definire di transizione, perché chiudendo la pericope sulla distruzione di Gerusalemme (vv.20-24), similmente al v.11, che chiude la pericope vv 8-10, e di cui riprende la parte finale (“dal cielo grandi segni”), introduce il lettore nella pericope vv.26-28;
i vv.26-28,
introdotti dal v.25, presentano lo scenario terrificante che
sconvolge l'intero habitat dell'uomo e diviene specificativo
del v.25.
Commento
ai vv.25-28
Il v.25, riprendendo la parte finale del v.11, “dal cielo grandi segni”, li specifica in segni che accadranno nel sole, nella luna e nelle stelle (v.25a), cioè in quegli elementi che formano, assieme alla terra (v.25b), l'habitat proprio dell'uomo. Viene, pertanto a crearsi una sorta di continuità narrativa tra gli eventi narrati ai vv.8-10 e quelli narrati ai vv.20-24, di cui i vv.11 e 25 sono rispettivamente la chiusura. Per cui: avvento dei falsi profeti e dei falsi cristi, di tumulti, guerre e sollevamenti dei popoli l'un contro l'altro fungono da preambolo alla distruzione sia di Gerusalemme che del Tempio. Una distruzione questa che, secondo la credenza dell'epoca, preannuncia e porta con sé la fine dei tempi e del mondo. Da qui la sottolineatura catastrofica conclusiva dei vv.11.25 delle rispettive pericopi a cui si riferiscono: vv.8-10 e 20-24.
Il v.25 si apre con un significativo “Kaˆ” (Kaì, E), che lega il v.25 con la pericope immediatamente precedente (vv.20-24), creando in tal modo una sorta di continuità narrativa. Come dire che i disastri provocati dalla caduta di Gerusalemme con tutto quello che ne è conseguito nell'immediato, durante l'assedio prima (vv.21-23) e la sua conquista dopo (v.24), hanno avuto il loro riscontro sia nel cielo, sole, luna e stelle che sulla terra, dove l'intera umanità ne viene profondamente scossa “per il fragore del mare e dei flutti”. Un linguaggio figurato quest'ultimo per indicare il fragore delle sommosse, delle sollevazioni e delle guerre con tutti i loro “flutti”(Is 17,12-13)30, cioè le loro conseguenze, che erano state in qualche modo preannunciate al v.11.
I vv.26-28, che formano tra loro un'unità narrativa a se stante, delimitata dall'inclusione data, per complementarietà di contrapposte situazioni descritte rispettivamente dai vv.26 e 28, sono tra loro posti in parallelismi concentrici sul v.27, che viene ad essere, pertanto, il versetto centrale e quindi, secondo le logiche della retorica ebraica, il più importante. Per cui si avrà che, mentre il v.26 racconta lo stato di grande angoscia che attanaglia l'intera umanità, il v.28, per contro, esorta i credenti a riprendersi d'animo perché la loro redenzione è ormai alle porte. Motivo di questi contrapposti comportamenti è l'apparire del Figlio dell'uomo nella sua gloriosa potenza, che getta nel panico i primi, aprendo ad una consolante speranza i secondi.
Il v.26, di redazione lucana, presenta gli effetti degli sconvolgimenti celesti e terrestri descritti al v.25 sugli uomini. Lo svenire dice il venir meno della vita nell'uomo, sia pur in modo temporaneo; una sorta di rifugio in uno stato di incoscienza per sottrarsi ad una realtà altrimenti non sostenibile. Ci si trova di fronte ad una vita-non-vita. La causa prima è un profondo stato di angoscia che mina la propria esistenza e la rende invivibile, “poiché le potenze dei celi saranno scosse”. Con quest'ultima espressione Luca si riaggancia a Mc 13,25b, ma cambiandone il senso. Mentre Marco, così come in parallelo Mt 24,29, vedono nello sconquasso delle potenze del cielo un elemento dello sconvolgimento cosmico, Luca ne fa motivo di terrore che annichilisce gli uomini. In tal modo se la terra è divenuta inaffidabile e profondamente scossa e tale da non consentirne più la vita, ancor peggio avviene nel cielo dove le potenze celesti, qui intese come gli esseri di mezzo che popolano le realtà sovraterrestri, come gli angeli e i demoni in genere, realtà che potevano costituire per gli uomini un punto di aiuto spirituale e psicologico nei momenti di difficoltà, anche queste realtà metaterrestri di mezzo vengono sconvolte e sottratte all'uomo. Neppure queste sono più in grado di soccorrerlo. Ogni punto di appoggio e di riferimento per l'uomo viene sistematicamente distrutto e l'uomo si ritrova solo nella sua insopportabile e insostenibile angoscia, privo di ogni punto di appoggio esistenziale. In altri termini tutto ciò che prima costituiva il suo habitat naturale ora è diventato il non-habitat. Ogni sicurezza viene meno, ogni certezza è stata distrutta.
Ed è proprio in questo contesto di vuoto esistenziale, in cui il regno e il potere dell'uomo sono stati fatti a pezzi, travolgendolo nel suo nulla, che s'incunea con sfolgorante e consolante prepotenza il v.27: “E allora vedranno il Figlio dell'uomo che viene in una nube con potenza e molta gloria”. Un'immagine questa in cui riecheggia Dn 7,13-14 ed Ap 14,14, dove il Figlio dell'uomo sulla nube appare con una falce in mano, simbolo del giudizio divino che si sta per abbattere sugli uomini (Ap 14,15) e in qualche modo richiama anche lo stesso Cristo plenipotenziario di Mt 28,18 dove i discepoli, prostrati a terra, pur attraversati dai loro dubbi, videro il Risorto a cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Un'immagine questa che tornerà in Mc 14,62 e in Mt 26,64 durante il processo di Gesù davanti al Sinedrio, in cui Gesù preciserà la sua vera natura messianica, sul cui sfondo si staglia il contro-giudizio di Dio su quello degli uomini.
È significativo come Luca, a differenza di Mt 24,30c e Mc 13,26, usi qui al posto del plurale “nubi”, il singolare “nube”31 che comparirà parimenti, sempre al singolare, in 9,34.35, nel contesto del racconto della Trasfigurazione; qui, in un contesto apocalittico ed escatologico, da cui traluce sullo sfondo il giudizio divino posto sugli uomini; ed infine in At 1,9 nel racconto dell'Ascensione. In tal modo il termine “nube” posto sempre al singolare pur nel variare dei contesti narrativi diventa una sorta di codice identificativo che qualifica la natura divina di Gesù, che pur muovendosi nella sua tangibile umanità, lascia tralucere sempre sullo sfondo, quasi intuibile, la sua divinità, la sua origine divina e la sua appartenenza al mondo divino. La nube, infatti, nel linguaggio biblico fa parte delle teofanie e là dove compare definisce sempre l'inafferrabile e l'indefinibile presenza di Dio, mentre i due attributi “potenza” e “molta gloria” definiscono l'esprimersi travolgente e inarrestabile della vera natura divina nel suo manifestarsi e nel suo operare, che si contrappone a quella angosciata e terrorizzata degli uomini, la cui potenza svanisce completamente di fronte a quella impareggiabile e insostenibile di Dio. Dio si afferma, mentre l'uomo sviene.
Ed è, infine, in questo contesto di potenza divina che rende vana quella umana, che gli uomini “vedranno” il Figlio dell'uomo nella sua onnipotenza divina e nella sua vera natura divina soltanto quando questi sono stati spogliati completamente dalla loro presunta potenza, venuta completamente meno in quello “sveniranno” (v.26). Segno questo che per cogliere il Risorto nella sua realtà divina si rende necessario spogliarsi del proprio apparato di orgoglio intellettuale e della propria presunta onniscienza, le quali, anziché aiutare a cogliere la Verità di Dio, la nascondono (Mt 11,25; Lc 10,21; Gc 4,6; 1Pt 5,5), poiché Dio si dona, ma non si conquista.
Ma, al di là dello sfondo escatologico ed apocalittico su cui si muove il v.27, considerando la prospettiva missionaria ed ecclesiologica che anima sia il vangelo lucano che il racconto degli Atti degli Apostoli, ritengo personalmente che il v.27 possa prestarsi, all'interno di questa duplice prospettiva tutta lucana, anche ad una lettura ecclesiologica.
La distruzione di Gerusalemme e con questa del Tempio sanciscono di fatto la fine di un tempo e quella di un culto, costringendo il giudaismo ad assumere una diversa identità che vede sostituire i sacrifici con il culto della Torah e il sacerdozio con il rabbinismo e il Tempio con la sinagoga. Elementi questi che caratterizzano l'unità di un popolo, la cui connotazione non è più la lingua e dei confini territoriali, ma la diaspora.
La fine del giudaismo, storicamente sancita da due guerre giudaiche (66-73; 132-135 d.C.), genera di fatto una sua nuova propaggine, un nuovo ceppo che ha la sua fondazione in un suo stesso figlio, Gesù, e nella sua predicazione. Nasce una nuova realtà non più legata alla fisicità e alla materialità dei luoghi; non più legata alla farraginosa osservanza di una Legge resa impraticabile da uno sviluppo enorme di regole impossibili da osservare e che ingessavano il rapporto del credente con il suo Dio (Mt 23,4), rendendo impossibile a Dio stesso di intervenire nella storia del suo popolo (Gv 1,11), ma una nuova realtà che ha per luogo di culto il cuore stesso dell'uomo non più mosso da dottrine o da precetti, ma dallo Spirito Santo (Gv 4,20-24), così che quelli che si lasciano guidare dallo Spirito sono considerati i veri figli di Dio (Rm 8,14), generati non più dalla carne e dal sangue, ma dallo Spirito (Gv 1,12-13). Quindi quel “vedranno il Figlio dell'uomo che viene in una nube con potenza e molta gloria” dice, da una prospettiva ecclesiologica, l'apparire e l'affermarsi di una nuova realtà che ha la sua fondazione nello stesso Risorto, il vero Figlio dell'uomo rivestito di “potenza e molta gloria”; mentre quel “vedranno” dice l'apertura alla fede delle genti, rese capaci dalla fede di “vedere”, di cogliere nel Risorto l'azione stessa di Dio a favore di tutti i credenti, al di là di ogni tempo e di ogni latitudine, qualificati soltanto dal loro “vedere”, che ha per fondamento la sua Parola.
Ed è a questi, oppressi da tali eventi e dalle persecuzioni (vv.12-19), che Luca si rivolge con il v.28, che si stacca nettamente da Mc 13,27 e dal suo parallelo Mt 24,31, che continuano invece sulla linea escatologica ed apocalittica, che vede la grande convocazione degli eletti per il giudizio finale. Luca, per contro, mantiene il suo interesse ecclesiologico, legato alle difficili contingenze delle guerre, delle sommosse e delle persecuzioni con le quali i nuovi credenti sono chiamati a fare quotidianamente i conti. Così che, a differenza degli altri due sinottici, il v.28 diventa esortativo, finalizzato a rincuorare e a sostenere le comunità credenti nelle loro difficili se non drammatiche prove: “Ora, incominciando ad accadere queste cose, riprendetevi d'animo e sollevate la vostra testa, poiché si avvicina la vostra redenzione”.
Il v.28 è scandito in tre parti: la prima si richiama al contesto dei drammatici eventi che scuotono tutti gi uomini, ma sono aggravati per il credente dalle persecuzioni. La seconda parte è il cuore del versetto, che suona come un paradosso: i drammi umani che sconquassano il vivere quotidiano di tutti gli uomini devono, invece, costituire elemento di speranza e di gioia per il credente. Significativo quel “sollevate la vostra testa”. Un invito, da un lato, a non lasciarsi sopraffare dalle difficili se non talvolta insostenibili condizioni di vita; dall'altro, a guardare oltre le difficoltà del momento. Il motivo di questa paradossale speranza, che suona quasi come una stonatura, è contenuto nella terza parte del versetto: “poiché si avvicina la vostra redenzione”. Le oppressioni del presente, pertanto, sono soltanto un prodromo alla venuta del Signore, poiché l'instaurazione del suo Regno di giustizia, di di amore e di pace può avvenire soltanto attraverso la distruzione del vecchio mondo e attraverso la sofferenza, così come ogni parto che preannuncia una vita nuova avviene nelle sofferenze del travaglio (Rm 8,18-23; 1Cor 15,21-28).
Da un punto di vita narrativo il v.28 funge da preambolo alla pericope successiva, poiché in qualche modo contiene tutti gli elementi che verranno ripresi e sviluppati dai seguenti vv. 29-36.
Saper leggere i segni dei tempi e vegliare senza
distrarsi (vv.29-36)
Note
generali
Potremmo
definire la pericope in esame come un approfondimento pastorale del
v.28. Il v.28a, infatti, è ripreso e sviluppato dalla pericope
delimitata dai vv.29-31a, dove l'incominciare ad accadere questi
drammatici eventi è allegorizzato nella parabola del germogliare del
fico e degli alberi in genere, che preannunciano l'estate; il v.28c è
ripreso e specificato dal v.31b dove l'avvicinarsi della “vostra
redenzione” viene posta in relazione all'avvicinarsi del regno di
Dio; ed infine, il v.28b, la parte centrale del v.28, e quindi, la
più importante, è ripresa e sviluppata nell'esortazione antitetica
dei vv.34-36, dove il riprendersi d'animo e il sollevare la testa si
traduce in una esortazione applicativa del comportamento da tenere
nell'attesa dell'avvento del regno di Dio con la conseguente
redenzione dei credenti rimasti fedeli nella prova (v.19).
Strutturalmente
la pericope è scandita in tre parti:
vv.29-31, parabola del germogliare del fico e degli alberi quale segnale dell'avvicinarsi dell'estate che allegorizza i drammatici eventi quale segnale dell'avvicinarsi del regno di Dio;
vv.32-33, inciso che imprime veridicità all'intera pericope (vv.29-36) e posto qui centralmente ne rileva la sua importanza;
vv.34-36,
vengono presentati due comportamenti: quello da evitare (v.34) e
quello da tenere (v.36) nell'attesa dell'avvento del regno di Dio.
Il v.35, posto centralmente, è un'ammonizione che grava su tutti
gli uomini e a maggior ragione sul credente.
Commento ai vv.29-36
I vv.29-31, superando un lungo e pesante discorso escatologico ed apocalittico, puntano a creare una sorta di pausa e di serenità in mezzo a drammatiche e tragiche immagini di morte e di distruzione cosmica, che si sono fin qui susseguite in modo travolgente, senza tuttavia allentare molto la tensione creata dal lungo discorso escatologico, poiché la serenità che può ispirare l'immagine di una natura che si risveglia dopo il lungo periodo invernale punta soltanto a creare un parallelismo tra il rigoglioso risveglio della natura che preannuncia l'estate e i tragici eventi che preannunciano l'avvento del regno di Dio.
Luca con i vv.29-33, segue pedissequamente Mc 13,28-31, apportando solo lievi modifiche per rendere il testo più accessibile alla sua platea di ascoltatori greco-ellenisti, aggiungendo soltanto al nome “fico”, molto noto in Palestina e più volte citato in tutta la Bibbia32, ma forse meno noto nelle altre regioni geografiche, l'espressione “e tutti gli alberi”, allargando in tal modo il senso allegorico, evitando in tal modo ogni fraintendimento, quasi che il fico contenesse in sé significati particolari o nascosti. Il secondo scostamento da Marco riguarda l'espressione “sappiate che il regno di Dio è vicino”, anziché il marciano “sappiate che egli è vicino, alle porte” (Mc 13,29b). Il motivo di questa sostituzione è duplice: narrativa e teologica ed ecclesiologica insieme. Marco, infatti, dopo l'apparizione del Figlio dell'uomo sulle nubi (13,26) aggiunge che questi manderà i suoi angeli e radunerà dai quattro venti tutti i suoi eletti (13,27). Quello marciano, pertanto, è un Figlio dell'uomo attivo ed operativo che non si limita ad apparire come in Lc 21,27, ma agisce in senso escatologico. Va da sé, quindi, che Mc 13,29b annunci la vicinanza di questo Figlio dell'uomo, che qui è l'attore primario, aggiungendo che è “alle porte”, per rendere più incisiva e incombente tale imminenza. Marco infatti vuole incentrare l'attenzione dei suoi lettori sul Figlio dell'uomo posto all'interno di una cornice escatologica.
Luca, per contro, si limita a presentare l'apparire del Figlio dell'uomo nella sua gloria e potenza, mentre omette Mc 13,27 sia perché, forse, lo sottintende in qualche modo nell'espressione “con potenza e molta gloria”; sia, soprattutto, per attenuarne la portata escatologica, preferendo a questa quella ecclesiologica. Da qui la sostituzione di “sappiate che egli è vicino, alle porte” con “sappiate che il regno di Dio è vicino”. Un regno di Dio che per Luca, più che evento escatologico, benché questo aspetto non sia assente in Luca, forma l'oggetto dell'annuncio missionario proprio sia di Gesù che dei suoi, ai quali è stato affidato (4,43; 8,1.10; 9,2.11.60.62). Un regno di Dio che non solo è vicino (10,11), ma è già giunto in mezzo a voi (11,20), preferendo in tal modo, sulla falsariga di Giovanni, un'escatologia presenziale o già realizzata ad una posta in un futuro indeterminabile e incombente sull'uomo.
Tra le due pericopi complementari tra loro e che formano il contenuto pastorale dell'esortazione al vigilare attentamente (vv.34-36), riflettendo su quanto avviene in natura (vv.29-31), Luca crea una sorta di sospensione, inserendo un ammonimento che funge da solenne attestazione di veridicità, aprendo significativamente il v.32 con quel “In verità vi dico”. L'invito, pertanto, ai propri lettori è quello di prendere in seria considerazione quanto qui viene detto. Il tono dei vv.32-33 è di tipo sentenziale e si muove su di uno sfondo sapienziale e profetico.
La generazione di cui Luca qui parla sono gli uomini del suo presente e in particolar modo coloro ai quali si sta rivolgendo, i credenti, perché imparino a leggere i segni dei tempi senza lasciarsi traviare dagli sconquassi storici, dalle pretese dei falsi profeti e falsi cristi e dalle persecuzioni (vv.8-25), che formano il contenuto delle cose che stanno accadendo e che preannunciano l'avvento del Regno di Dio, che non può per sua natura essere soltanto un semplice elemento aggiuntivo alla storia degli uomini e al loro regno, quasi una loro appendice, ma sarà sostitutivo ad esso, inaugurando un'era di pace e di giustizia. Un Regno capace di rigenerare l'uomo alla vita stessa di Dio, facendolo concittadino dei santi e familiare di Dio (Ef 2,19). I tragici eventi, pertanto, non vanno letti come mali irreparabili e annichilenti ma come lo scandire storico di un piano salvifico finalizzato all'affermarsi del regno di Dio in mezzo agli uomini. Una morte, dunque, in vista di una risurrezione.
Il v.33 è un detto che compare in tutti tre i sinottici e si gioca tutto sul contrasto degli elementi che costituiscono l'habitat dell'uomo, cielo e terra, e la solidità e la certezza delle parole di Gesù, da cui traspare in quel “non passeranno” la loro eternità divina. Come dire che le certezze degli uomini e il loro potere sono effimeri e fragili, ma ciò che resta al di sopra di tutto è la Parola di Gesù. Da qui la necessità di confermare la propria fede e fondare la propria scelta esistenziale su di essa. Esso suona come un'attestazione notarile che convalida non solo il precedente v.32, ma l'intera pericope (vv.29-36). Una sorta di sottoscrizione di veridicità che suona in un certo qual modo minacciosa in quel “non passeranno”. Come dire che su queste parole si svolgerà il giudizio sul credente.
Dopo l'imperativa rassicurazione del v.33, Luca riprende l'esortazione iniziata nella prima parte della pericope (vv.29-31) e la porta a completamento con quest'ultima parte (vv.34-36), che si struttura a parallelismo concentrico sul v.35, per cui il v.34, che esorta a non tenere comportamenti dispersivi e banalizzanti nel proprio modo di vivere, trova il suo corrispondente positivo al v.36, il quale, per contro, esorta a tenere uno stile di vita improntato alla vigilanza e alla sobrietà del vivere sotteso da una preghiera costante, da cui trarre la forza per far fronte alle prove della vita nell'attesa della venuta del Figlio dell'uomo. I due versetti contrapposti tra loro creano in tal modo un gioco di contrasto tra negativo e positivo, tra chiaro e scuro finalizzato a mettere meglio in rilievo ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Motivo di questa esortazione è il v.35, posto centralmente e, quindi, secondo le logiche della retorica ebraica, il più importante. Un versetto questo che suona da avvertimento minaccioso e intimidatorio, di una minaccia incombente che sovrasta l'intera umanità e non le dà scampo.
Un'esortazione e un avvertimento quello di questa pericope (vv.34-35) che già era risuonata in 12,35-36 e che va a completare in qualche modo la descrizione circa le modalità della venuta del Figlio dell'uomo di 17,24-30: questa sarà fulminea e piomberà improvvisa e inaspettata sugli uomini, nel bel mezzo delle loro frenetiche quotidiane attività ed impegni di vita. Anche da qui il sollecito di questa pericope, che esorta a badare a se stessi e a vegliare, rimanendo “saldi davanti al Figlio dell'uomo”, cioè sia tenendo presente la sua venuta che comportandosi in modo da poterlo accogliere degnamente, portando questi con sé il giudizio divino, in qualche modo paventato al v.35.
Un'esortazione
quella sulla vigilanza nell'attesa della venuta del Signore, sentita
come imminente, molto diffusa nella chiesa del primo secolo e
testimoniata in modo significativo da Rm 13,12-14: “La
notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere
delle tenebre e indossiamo le armi della luce. Comportiamoci
onestamente, come in pieno giorno: non in mezzo a gozzoviglie e
ubriachezze, non fra impurità e licenze, non in contese e gelosie.
Rivestitevi invece del Signore Gesù Cristo e non seguite la carne
nei suoi desideri”. E così similmente in Fil 4,4-6 e
1Cor 7,29-31. Sono importanti queste testimonianze perché le lettere
paoline furono scritte tutte tra il 50 e il 58 d.C., prima, quindi,
che nascessero i vangeli e le altre lettere neotestamentarie, dando
in tal modo testimonianza del sentire e del vivere delle primissime
comunità credenti e i problemi che le travagliavano nel loro interno
e nelle relazioni con il mondo.
La
conclusione del grande discorso escatologico (vv.37-38)
Testo
37
– Ora, insegnava in quei giorni nel tempio, uscendo durante la
notte, dimorava all'aperto sul monte chiamato degli Ulivi.
38
– E tutto il popolo andava da lui di buon mattino nel tempio per
ascoltarlo.
Con
i vv.37-38 si chiude l'attività pubblica di Gesù,
significativamente terminata nel Tempio, rilevando la centralità del
Tempio nella vita di Gesù fin dai suoi inizi (1,9.21-22; 2,27.37.46)
e la cui presenza percorrerà l'intero racconto lucano33.
Significativo in tal senso è l'aprirsi del racconto lucano con
l'immagine del Tempio (1,9), che funge da contesto in cui inizia la
storia di Luca, e termina con il v.24,53, dove i discepoli, dopo
l'ascensione di Gesù “tornarono
a Gerusalemme con grande gioia; e
stavano sempre nel tempio lodando Dio”.
Significativo è il v.38 con cui si chiude il cap.21 presentando l'immagine di “tutto il popolo andava da lui di buon mattino nel tempio per ascoltarlo”. Un immagine che dice la centralità di Gesù in mezzo al popolo, che prefigura in qualche modo il mondo dei futuri credenti.
Da un punto di vista letterario i due versetti costituiscono un sintetico sommario dell'attività predicatoria di Gesù nel Tempio a Gerusalemme e dei suoi effetti positivi presso il popolo, ma nel contempo fungono da transizione verso una nuova grande sezione narrativa (22-24), quella della passione, morte e risurrezione, che chiuderà la prima parte del grande racconto lucano, che si allungherà poi negli Atti degli Apostoli, dando continuità storica all'attività missionaria di Gesù in quella della chiesa nascente.
NOTE
1La cornice è data dai vv.19,47-48 e 21,37-38, che tra loro formano inclusione, che fa dei due capp.20-21 un'unica grande sezione scandita tematicamente in due parti e Lc 20,1a e 21,1a ricordano al lettore che si è all'interno del Tempio.
2Le diatribe riguardavano, la prima (20,1-8), unitamente ai vv.20,41-44, l'identità di Gesù che troverà il suo riscontro nell'interrogatorio di Gesù da parte dei sinedriti in 22,66-70; la seconda circa il tributo a Cesare (20,20-26) formerà una prova a discarico in riferimento all'accusa di 23,2; la terza diatriba (20,27-40), riguardante la risurrezione, fornisce le prime precisazioni circa la risurrezione, che verranno riprese e ampliate nel cap.24
3Sulla questione dell'apocalittica ed escatologia cfr. la voce “Apocalittica” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione ristampata e integrata 2005; in Nuovo Dizionario di Teologi a Biblica, edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1998; in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999.
4Cfr. Rm 13,11-14; 1Cor 7,29-31; 1Ts 2,19; 3,13; 4,15-18; 5,23; 2Ts 2,1-17; 1Gv 2,28; 2Pt 3,9-15; Gc 5,7-8; Ap 22,20
5Cfr. Is 1,17.23; 10,1-2; Ger 7,6; 22,3; Bar 6,37; Ez 22,7; Zc 7,10; Ml 3,5
6Cfr. G. Flavio in Guerra giudaica, libri 5,562; 7,44.428.434;
7Il primo tempio è quello costruito da Salomone (970-933 a.C.) tra il 967 e il 959 a.C. circa (cfr. 1Re 6,37-38) e distrutto nel 587 a.C. da Nabucodonosor, nel corso della seconda deportazione.
8Il secondo Tempio venne ricostruito al rientro dell'esilio (538 a.C.). I lavori di ricostruzione da parte dei reduci dalla deportazione babilonese (597-538 a.C.) iniziarono quasi subito dopo il rientro, sotto la guida di Sheshbassar. Venne ricostruito, nella stessa posizione precedente, l'altare dei sacrifici e fu ripresa la celebrazione di questi. Si incominciò ad erigere anche i muri di fondazione del tempio sulle rovine di quello precedente, ma i lavori si interruppero per l'ostruzionismo dei Samaritani e per contrasti locali. La ricostruzione verrà ripresa nel 520 a.C. sotto la guida di Zorobabele, nominato dai Persiani governatore della Giudea, e sotto l'influsso della predicazione dei profeti Aggeo e Zaccaria e termino nel 515 a.C. - Sulla questione cfr. la voce “Tempio” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione ristampata e integrata 2005; R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico testamento, Ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002.
9 Giuseppe Flavio, nella sua opera Antichità Giudaiche, attesta che “Fu in questo tempo, nel diciottesimo anno del suo regno, dopo gli eventi sopramenzionati, che Erode diede inizio a un lavoro straordinario, la ricostruzione del tempio di Dio a sue proprie spese, allargandone i recinti ed elevandolo a una altezza più imponente. Riteneva che l'adempimento di questa impresa sarebbe stata l'impresa più insigne di quelle finora compiute e sufficiente ad assicurargli una memoria immortale” (Ant. Jud. Libro XV, 380).
10L'espressione “verranno giorni” ricorre nell'A.T. 17 volte di cui una volta in 1Sam 2,3 e in Is 39,6; 13 volte in Geremia e 2 volte in Amos.
11Il termine “™pist£ta” in tutta la Bibbia compare soltanto in Luca 7 volte.
12Cfr. Mt 16,27; Rm 13,11-12a; 1Cor 4,5; 7,29-31; 10,11; 1Ts 1,10; 5,1-6; 2Ts 2,1-4; 3,10-13; Ap 22,17a.20.
13Ufficialmente la fine della prima guerra giudaica viene stabilita nel 70 d.C. con la distruzione di Gerusalemme. Tuttavia essa ebbe una propaggine di ulteriori tre anni per abbattere l'ultima resistenza degli Zeloti, circa un migliaio tra uomini, donne e bambini, racchiusi nell'erodiana fortezza di Masada, terminata tragicamente con il suicidio di massa degli estremi difensori nel 73 d.C.
14G. Flavio, Guerra giudaica, II, 57.
15G. Flavio, Guerra giudaica, II, 60-64
16Personaggio ricordato anche da Luca in At 5,36 assieme a Giuda il Galileo (At 5,37), dottore della Legge. Personaggio quest'ultimo che, assieme al fariseo Sadduk o Zadok, in occasione di un censimento da parte del governatore Quirinio nel 6 d.C., ricordato anche da Luca nel suo Vangelo (Lc 2,2), fondò il gruppo politico-religioso degli Zeloti, reclutati prevalentemente tra i Farisei, alla cui dottrina rimasero saldamente radicati. - Sulla questione degli Zeloti e la loro formazione cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato, 2005.
17Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX, 97
18Anche questo personaggio viene ricordato in At 21,38
19Cfr. Giuseppe Flavio, Antichità Giudaiche, XX 169-172
20La seconda fase della prima guerra giudaica, che la concluderà, avverrà nel 73 d.C. con la conquista della fortezza erodiana di Masada, dove si erano asserragliati un migliaio di ribelli, con donne e bambini, suicidatisi collettivamente.
21Cfr. At 2,41; 6,7; 13,49; 19,20;
22Cfr. Ef 6,20; Fil 1,12-14; Col 4,3-4; Fm 1,10. Cfr. anche At 8,4
23In tal senso cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, III edizione 2001 – pag.799
24Marco per descrivere la caduta di Gerusalemme e del Tempio usa il linguaggio apocalittico, mutuato da Daniele, perché quando termina il suo vangelo, Gerusalemme è assediata dall'esercito di Tito (69 d.C.) e l'evangelista non sa ancora come andranno a finire le cose, per cui nella drammaticità del momento, l'evangelista si rifà a Daniele, libro profetico scritto durante la guerra maccabaica condotta dai giudei contro Antioco IV Epifane, che collocò sull'altare dei sacrifici la statua di Zeus Olimpico, compiendo una gravissima profanazione, che Daniele chiama “abominio della desolazione”. Marco, pertanto, associa in parallelo il dramma dell'assedio di Gerusalemme e del suo destino, che lui sta vivendo, a quello della guerra maccabaica (167-164 a.C.). Di conseguenza anche Matteo, che mutua il suo discorso escatologico e apocalittico da Marco 13, si allinea alla descrizione marciana.
25Sulla storicità del v.20 cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro V, 498-499 e 508-512.
26Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro V, 512-519
27Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro VI, 420-421
28Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro V, 524-532
29Cfr. G. Flavio, Guerra Giudaica, Libro VI, 403-407.414-415
30Cfr. la voce “Mare” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1989
31Cfr. G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992, III edizione 2001 – pag. 809
32Il sostantivo “fico” è citato 31 volte nell'A.T. e 17 volte nel N.T.
33Cfr. 4,9; 18,10; 19,45.47; 20,1; 21,5.37-38; 22,52-53; 23,45; 24,53