IL VANGELO SECONDO LUCA

Attività predicatoria di Gesù nel Tempio:
diatribe in prospettiva della
passione-morte-risurrezione

(20,1-47)


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





Note generali



Il cap.19 si chiudeva presentando, da un lato, Gesù che predicava nel Tempio, mentre il popolo pendeva dalle sue labbra (19,47a.48b); dall'altro, sommi sacerdoti, scribi e capi del popolo o anziani che cercavano di uccidere Gesù (19,47b.48a). Un sommario questo che, formando inclusione con 21,37-38, preannunciava lo schema narrativo dei capp.20-21, il cui comune scenario è il Tempio (20,1;21,1.37), dove Gesù predicava e il popolo ascoltava (20,1.45; 21,38); mentre la conflittualità tra Gesù e le autorità sinedrite apparirà marcatamente nell'intero cap.20, fungendo da preludio alla sua passione.

Due capitoli, il 20 e il 21, i quali, benché vengano commentati separatamente, vanno letti e compresi come un'unica grande sezione narrativa racchiusa all'interno della cornice del Tempio, scandita in due parti: la prima, il cap.20, che si muove, a più riprese, su di uno sfondo polemico e conflittuale tra Gesù e i sinedriti, formando in qualche modo da prologo al racconto della passione di Gesù; la seconda, cap.21, si muove su di uno sfondo apocalittico ed escatologico, dove le persecuzioni dei discepoli (21,12-19), le guerre tra nazioni (21,9-10), la distruzione del Tempio e di Gerusalemme (21,20-24) e la fine cosmica (21,11.25-26) preannunciano, e in qualche modo prefigurano, la morte di Gesù, a cui tutto viene associato (Gv 12,32).

I capp.20-21, pertanto, posti significativamente a ridosso della passione e morte di Gesù, ne sono un preludio.

Il cap.20 va letto e compreso nella prospettiva dell'ormai imminente passione, morte e risurrezione di Gesù. Lo sfondo polemico prelude allo scontro finale tra Gesù e le autorità giudaiche che sfocerà, poi, drammaticamente nella sua morte.

La sezione è composta da tre diatribe tendenti a precisare, da un lato, l'identità di Gesù e la sua origine (vv.1-8), che anticipa in qualche modo, unitamente ai vv.41-44, l'interrogatorio di Gesù da parte del Sinedrio circa la sua identità messianica e divina (22,66-71); dall'altro (vv.20-26), fornisce elementi di difesa contro l'accusa che sarà mossa a Gesù durante il processo, di sobillare il popolo e spingerlo a non pagare i tributi (23,2); ed infine, la terza diatriba è finalizzata a chiarire il concetto e la natura della risurrezione (vv.27-40 ), utile per comprendere quella di Gesù, che verrà definita in modo più esauriente ed efficace dal cap.24, che si sofferma a lungo sugli aspetti dottrinali e, in particolar modo, sulla corporeità del Risorto, circa la quale la platea dei lettori di Luca, greci ed ellenisti in genere, era molto restia.

La catechesi del cap.20 viene poi completata da altre quattro pericopi: la prima (vv.41-44), che va in qualche modo ad integrare la diatriba circa la natura e l'origine del potere di Gesù e, quindi, della sua vera identità, precisando l'identità del messia, ritenuto storicamente soltanto figlio di Davide, suo diretto discendente, ma non oltre; mentre le altre tre pericopi formulano un duro atto di accusa e di condanna contro le autorità giudaiche (vv.9-16; 17-19; 45-47). La sensazione che si riceve dal cap.20 è quella di essere ormai giunti ai ferri corti tra Gesù e le autorità giudaiche.

Con il cap.20 Luca segue pedissequamente, elaborandolo a modo proprio, lo schema narrativo di Mc 11,27-12,40, ma tralascia Mc 12,28-34, circa la richiesta dello scriba su quale fosse il comandamento più grande, perché l'episodio l'autore lo aveva già utilizzato in 10,25-29, dove funge da introduzione alla parabola del Buon Samaritano (10,30-37).

Commento ai vv.1-47


Prima diatriba: L'identità di Gesù nascosta al Giudaismo per la sua incredulità (vv.1-8)


Testo a lettura facilitata

Introduzione al cap.20 e alla prima diatriba (v.1)

1 – Ed avvenne in uno dei giorni (che), mentre egli insegnava al popolo nel tempio ed annunciava la buona notizia, si presentarono i sommi sacerdoti e gli scribi con gli anziani

La questione posta su Gesù (v.2)

2 – e dissero dicendo verso di lui: <<Dicci, con quale autorità fai queste cose, o chi è che ti ha dato questa autorità?>>.

Il Battista, la chiave per comprendere Gesù (v.3-4)

3 – Ma rispondendo disse verso di loro: <<Vi domanderò anch'io un parere, e ditemi:
4 – il battesimo di Giovanni era dal cielo o dagli uomini?>>.

La cecità delle autorità giudaiche …. (vv.5-7)

5 – Ora, questi ragionarono insieme tra loro stessi dicendo che se dicessimo: dal cielo, dirà: “Perché non gli credeste?”;
6 - ma se dicessimo: dagli uomini, tutto quanto il popolo ci lapiderà, essendo convinto che Giovanni fosse un profeta.
7 – E risposero di non sapere da dove (fosse).

. impedisce di comprendere la vera natura di Gesù (v.8)

8 – E Gesù disse loro: <<Neppure io vi dico con quale autorità faccio queste cose>>.

Note generali

La prima diatriba pone la questione sull'autorità di Gesù e da dove questa gli proviene. Una questione ricorrente lungo il corso della narrazione lucana (4,32.36; 5,24; 9,1; 10,19). Si tratta in buona sostanza della ricerca dell'identità di Gesù, chi egli sia veramente. Una ricerca che ha avuto un esito positivo nel racconto di Zaccheo, il quale “cercava di vedere Gesù, chi è” (19,3a), diversamente dai sinedriti che, invece, cercavano di stanare Gesù dal suo Mistero per poterlo condannare. Per questo il “cercar di vedere” di Zaccheo diviene per lui salvifico, contrariamente alle autorità giudaiche, che invece verranno associate alla distruzione di Gerusalemme e con questa a quella del Tempio, che cambierà radicalmente il volto del giudaismo, ridotto ad un asfittico studio legalistico della Torah, devitalizzando in tal modo il suo rapporto con il Dio Vivente, sempre racchiuso nel suo Mistero per il suo pervicace rifiuto di Gesù, Rivelazione del Padre.

Un dramma spirituale e morale che questi otto versetti sintetizzano e raccontano in cinque passaggi:

  1. la presentazione della prima diatriba, che funge da cornice in cui verranno inquadrati i capp.20-21, che hanno per sfondo il Tempio (v.1);

  2. La questione posta su Gesù, circa la sua autorità e da chi è stato investito di tale autorità; è, in ultima analisi, la ricerca sulla natura di Gesù, su chi egli veramente è e, in particolar modo, la sua provenienza (v.2). Quesiti questi che conducono direttamente nel cuore del Mistero di Gesù e da qui a quello di Dio stesso;

  3. Il Battista è la chiave per comprendere Gesù (v.3-4) non solo perché nei racconti evangelici la vita del Battista è posta in uno stretto parallelismo con quella di Gesù e in qualche modo la preannuncia, ma anche perché Giovanni ha indicato chiaramente in Gesù colui che doveva venire e che avrebbe battezzato con Spirito Santo e fuoco e al quale egli, il più grande tra i nati di donna (7,28a), non era degno neppure di slacciarli i sandali (3,16).

  4. Viene qui messa in rilievo la pervicace quanto invincibile cecità delle autorità giudaiche (vv.5-7): il rifiuto di riconoscere Giovanni come l'inviato di Dio, che ne precede la venuta, porta al rifiuto di accogliere Gesù, Rivelazione del Padre;

  5. Per questo il Mistero di Gesù, la sua natura e il “da dove” egli venga, rimane loro nascosto (v.8)

Commento ai vv.1-8

Il v.1 riprende, riproducendolo quasi identico, 19,47 a cui anche l'espressione temporale “in uno dei giorni” si riferisce. Sono i giorni in cui Gesù predica nel Tempio, i giorni in cui sta svolgendo la sua missione a Gerusalemme; i giorni che precedono immediatamente la sua passione e morte. Ed è proprio all'interno di questa cornice temporale che vanno collocati sia i capp.20 e 21 che questa attività di annuncio, al cui interno si colloca questa prima diatriba, che inizia con “mentre egli insegnava”. La questione dell'autorità di Gesù, quindi, va posta non tanto sull'aver cacciato i venditori dal Tempio, ma sulla sua attività predicatoria; sulla natura, quindi, della sua Parola. E che così sia lo si arguisce anche dal fatto che l'autore tra il racconto della purificazione del Tempio (19,45-46) e questa prima diatriba (20,1-8) pone di mezzo un sommario (19,47-48), creando in tal modo uno stacco netto tra i due racconti. È piuttosto singolare, tuttavia, che nessuno intervenga per il parapiglia che deve aver creato con il suo gesto profetico, mentre per una semplice attività d'insegnamento nel Tempio, comune presso i rabbi, si muova una delegazione sinedrita. Ma l'intento lucano qui, è quello di focalizzare l'attenzione del suo lettore sulla natura della parola di Gesù, sulla sua autorevolezza e la sua provenienza, che il successivo riferimento a Giovanni lascia intendere di natura divina (vv.4-6). E che il tema centrale sia l'autorità e l'autorevolezza della sua predicazione viene evidenziato dal doppio riferimento di insegnamento e di annuncio della buona notizia. Un doppione che potremmo considerare come una sorta di endiadi: un insegnamento che consiste nell'annuncio della buona notizia. Anche se quel “annuncio della buona notizia” ha un sapore più ecclesiologico postpasquale, mentre l'insegnamento è più vicino a Gesù, considerato un rabbi con discepoli a seguito. Comunque i due riferimenti all'attività predicatoria di Gesù risentono molto, a mio avviso, dell'attività della chiesa primitiva e il ricorrente termine “popolo”, a cui è rivolta questa attività di insegnamento e annuncio, sembra confermarlo, richiamando le masse popolari a cui si rivolgeva l'annuncio della Parola di Dio1.

Similmente ad At 4,1 dove gli apostoli “Stavano ancora parlando al popolo, quando sopraggiunsero i sacerdoti, il capitano del tempio e i Sadducei, irritati per il fatto che essi insegnavano al popolo e annunziavano in Gesù la risurrezione dai morti”, anche qui Luca contrappone all'insegnamento-annuncio di Gesù “i sommi sacerdoti e gli scribi con gli anziani”. Vi è dunque un certo parallelismo tra l'attività missionaria di Gesù e quella della chiesa primitiva, che si presenta come un suo riflesso e una sua continuità. Vengono qui presentate tre categorie di persone che formano il Sinedrio, quasi anticipando sia l'arresto che l'interrogatorio che Gesù subirà da lì a poco tempo (22,52-54; 66-68).

Il v.2 pone la questione dell'autorità di Gesù sul “fare queste cose”. Le cose di cui si parla qui è l'attività predicatoria di Gesù nel Tempio e la domanda è duplice: “con quale autorità” e “chi te l'ha data”. È importante per poter comprendere la domanda chi la pone: Sommi sacerdoti, scribi o dottori della Legge e anziani o capi del popolo. Sono cioè quei personaggi detentori del potere e di conseguenza rivestiti di autorità, che possono delegare all'occorrenza. Come dire nessuno di noi ti ha autorizzato a predicare nel Tempio. Gesù pertanto opera nel Tempio con un'autorità che non proviene dagli uomini. Chi è dunque Gesù? Quale autorità riveste il suo insegnamento? Vengono qui in qualche modo anticipati sia il contesto della passione che l'interrogatorio a cui Gesù verrà sottoposto dai sinedriti in 22,66-67: “Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: <<Se tu sei il Cristo, diccelo>>. Gesù rispose: <<Anche se ve lo dico, non mi crederete>>”. Stessi personaggi citati dal v.1b che qui, come là, pongono la questione su chi è veramente Gesù. E qui come là Gesù non dà loro una risposta. I vv.1b-2, pertanto, ricalcando sostanzialmente 22,66-67, costituiscono il preludio a quel interrogatorio, che in qualche modo viene qui richiamato.

Sulla falsaria delle dispute rabbiniche, Gesù risponde ai suoi interlocutori con una controdomanda, innescando un implicito parallelismo tra lui e Giovanni (vv.3-4). In altri termini, rispondere correttamente sull'identità e sul senso della missione del Battista, il quale su Gesù attestava: “viene il più forte di me, di cui non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi calzari; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco” e lo indicava in 7,19 come il Messia: “Sei tu colui che viene o aspettiamo un altro?”, una formula questa con cui veniva designato il Messia, pensato come “colui che viene o che deve venire” (Sal 118,26; Gv 6,14; 11,27), significava riconoscere che l'autorità di Gesù veniva da Dio e da Dio egli era mandato.

La controdomanda spinge i sinedriti alla ricerca di una risposta che in genere costituiva la risposta alla loro domanda (vv.5-7). Una sorta di maieutica socratica riformulata secondo le logiche rabbiniche. Due soluzioni si aprono davanti alle autorità giudaiche: riconoscere che la missione di Giovanni aveva un carattere divino, ma in tal caso questo significava un atto di autoaccusa, in quanto che il Battista fu da loro rifiutato; o negare la natura divina della sua missione, ma in tal caso rischiavano, come avveniva nelle fattispecie di blasfemia, di essere lapidati dal popolo, presso il quale era invece diffusa la convinzione che Giovanni fosse un profeta inviato da Dio (Gv 1,6). Da qui il loro rifiuto di rispondere, che attesta una volta di più la loro invincibile incredulità e la loro pervicace chiusura a Dio e a tutti i suoi messaggeri (13,34).

A fronte dell'ipocrita attestazione dei sinedriti, che cercano di nascondere dietro “il non sappiamo” le loro macchinazioni politiche di opportunità e in ultima analisi la loro incredulità, Gesù non apre loro l'accesso al suo Mistero (v.8), come invece avvenne per Zaccheo (19,9) e con lui per tutti quelli ai quali Gesù attestava che la loro fede li aveva salvati2. La risposta di Gesù, che nega l'accesso dei sinedriti al suo Mistero, pertanto, equivale ad una condanna per la loro incredulità, che li esclude dalla sua azione salvifica che si stava manifestando e operando in lui, escludendoli, in tal modo, dal regno di Dio.

Le conseguenze del rifiuto di Gesù da parte del Giudaismo (vv.9-19)


Testo a lettura facilitata

La parabola dei vignaioli omicidi (vv.9-16)

Israele, la vigna che Dio ha piantato (v.9)

9 – Ora, incominciò a dire verso il popolo questa parabola: <<Un uomo impiantò una vigna e la consegnò (ai) contadini e partì in viaggio per molto tempo.

Il rifiuto di Israele di servire Dio e il tentativo di appropriarsi dei propri destini (vv.10-15)

10 – E al tempo opportuno inviò ai contadini un servo affinché gli dessero il frutto dalla vigna; ma i contadini lo rimandarono vuoto dopo averlo percosso.
11 – E mandò un altro servo ancora; ma questi, dopo aver percosso ed oltraggiato anche quello, (lo) rimandarono vuoto
12 – E mandò un terzo; ma questi, dopo aver ferito anche questo, lo gettarono fuori.
13 – Ora disse il padrone della vigna: “Che cosa farò? Manderò il mio amato figlio; forse avranno rispetto di questo”.
14 – Ma i contadini, avendolo visto, discutevano gli uni gli altri dicendo: “Costui è l'erede; uccidiamolo affinché l'eredità diventi nostra”.
15 - E gettatolo fuori dalla vigna (lo) uccisero. Che cosa dunque farà loro il padrone della vigna?

La fine dell'elezione di Israele quale popolo eletto e la salvezza data ad altri (v.16)

16 – Andrà e farà perire questi contadini e darà la vigna ad altri>>. Ma, udito, dissero: <<Non sia (mai)!>>.

Note generali

Il rifiuto da parte dei sinedriti di accettare il messianismo divino di Gesù (v.7) e il conseguente rifiuto da parte di Gesù di rivelare loro la sua vera identità (v.8), per la loro indisponibilità ad accoglierla (22,67), suona, quest'ultimo, come una condanna che esclude Israele dal Mistero di salvezza che operava in Gesù. Di conseguenza Israele viene privato della sua elezione iniziale (Dt 7,6-8), che lo aveva costituito quale proprietà di Dio tra tutti i popoli, un regno di sacerdoti e una nazione santa (Es 19,5-6), destinato ad essere il nucleo salvifico fondamentale attorno al quale doveva essere raccolta ed associata l'intera umanità3. Israele, quindi, disconoscendo il messianismo divino di Gesù, si è posto fuori dal progetto salvifico iniziale e sostituito da un nuovo popolo, formato da tutte le genti della terra, che ha saputo accogliere Gesù e che ha come pietra angolare fondante lo stesso Gesù, rifiutato, invece, da Israele4. Gesù, pertanto, è divenuto per il popolo eletto la pietra d'inciampo su cui Israele è caduto.

Questo il senso delle due seguenti pericopi, poste a ridosso e a commento della prima diatriba. La prima pericope è costituita dalla parabola dei vignaioli omicidi (vv.9-16); la seconda, che va a completare la parabola, riporta una citazione di Is 28,16, a cui si ispira anche il Sal 118,22. Una parabola che in qualche modo drammatizza il lamento di Gesù su Gerusalemme (13,34-35a), che uccide i profeti e lapida coloro che le sono stati inviati. Per questo Gerusalemme verrà abbandonata rispetto al progetto iniziale, che invece la vedeva quale cuore pulsante di salvezza per tutti i popoli (Is 60,1-3; Tb 13,13.18).

La parabola dei vignaioli omicidi viaggia su di un doppio sfondo: biblico e storico nel contempo. Quanto al primo va detto che il tema della vigna, quale allegoria di Israele colto nei suoi rapporti conflittuali con Jhwh è ricorrente nella Bibbia5 e fa da sfondo anche a questa parabola, presente in tutti tre i Sinottici. Quanto all'aspetto storico, questo rispecchia la situazione sociale ed economica del I sec. d.C., allorché, sotto l'occupazione romana, si era creata una situazione di latifondi in mano a padroni stranieri, che sfruttavano la manodopera locale. Al momento del raccolto, il padrone, che viveva lontano dal latifondo, inviava ai contadini i suoi rappresentanti a riscuotere la propria parte. Non era raro che in un clima di odio e di rivolta, alimentati dal movimento zelota e che sfocerà poi nella guerra giudaica (66-73 d.C.), i contadini oppressi si ribellassero ai loro padroni stranieri, percuotendo o anche uccidendo i loro inviati. Così anche l'uccidere l'erede rientrava nella consuetudine dell'epoca, così che quella terra che i contadini coltivavano, in assenza di eredi, rimaneva a loro6.

La parabola si sviluppa in tre parti, già messi in evidenza dalla sezione del “Testo a lettura facilita”:

  1. Israele allegorizzato nella vigna che Jhwh ha piantato (v.9);

  2. il rifiuto di Israele di servire Dio e il tentativo di appropriarsi dei propri destini (vv.10-15);

  3. Israele destituito dalla posizione di popolo eletto e la sua elezione data ad altri (v.16)


Commento ai vv. 9-16

Il v.9a si apre spostando ora l'attenzione dei lettori dai sinedriti, attori della prima diatriba (v.1b), al popolo. Uno spostamento che ha il sapore di denunciare al popolo, sottoponendolo al suo giudizio, il comportamento delle autorità giudaiche e le sue conseguenze, che lo avrebbero, suo malgrado, coinvolto. Saranno, infatti, queste ultime che si opporranno con vivacità e fermezza alla prospettiva di essere detronizzate e spodestate di ogni autorità sul popolo (v.16b), decretando la fine di un sistema religioso fondato sul legalismo. Si è, qui, in una sorta di sezione plenaria di un processo mosso contro il sistema giudaismo, che ha sterilizzato il rapporto vitale del popolo con il suo Dio, racchiudendolo dentro ad una ferrea quanto asfissiante gabbia di regole impenetrabili, che neppure Dio con tutti i suoi inviati, i profeti, e da ultimo Gesù, è riuscito a scalfire. In altri termini, le autorità giudaiche hanno di fatto espropriato Dio del suo popolo e della salvezza a favore di tutti i popoli, in esso riposta. La parabola, pertanto, denuncia questa espropriazione a tutto favore delle autorità giudaiche, avvenuta attraverso il sistema giudaismo, e le cui vittime principali furono Dio e il suo popolo.

Il v.9b si apre attestando un principio del diritto, che accerta e certifica la proprietà della vigna: questa appartiene al padrone che l'ha piantata nella sua terra e affidata ai contadini perché la coltivassero. Contadini che dovevano essere i collaboratori di questo padrone, del quale beneficiavano della fiducia, ma le vicende hanno dimostrato come questi si siano mostrati nei suoi confronti accaparratori e assassini. Il tutto si svolse durante l'assenza del padrone durata “molto tempo”. Un'espressione quest'ultima che definisce quel lasso di tempo che intercorre tra la costituzione dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo, disseminata di profeti inascoltati e perseguitati, e la venuta di Gesù, il figlio del padrone della vigna. Un tempo che verrà scandito dalla parabola stessa con l'invio, per ben tre volte, di servi di questo padrone e conclusosi con l'ultimo invio del suo amato figlio, che sancirà anche il tempo del giudizio di condanna.

La vigna è la figura del popolo d'Israele che Jhwh si è acquistato con braccio potente (13,14), liberandolo dalla schiavitù egiziana ed assegnandogli una terra, che era stata promessa ai suoi Padri: “Il Signore disse: <<Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele, verso il luogo dove si trovano il Cananeo, l'Hittita, l'Amorreo, il Perizzita, l'Eveo, il Gebuseo” (Es 3,7-8). Un passo questo che verrà ripreso dal Sal 79,9-12 e sarà oggetto di riflessione sapienziale e posto a fondamento di ogni pretesa di Dio nei confronti di Israele: “Hai divelto una vite dall'Egitto, per trapiantarla hai espulso i popoli. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici e ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i più alti cedri. Ha esteso i suoi tralci fino al mare e arrivavano al fiume i suoi germogli”. Un popolo che venne consacrato ai pedi del Sinai quale “proprietà di Jhwh” (Es 19,5b). Una proprietà esclusiva su cui peserà sempre l'azione liberatoria di Jhwh ed è da questa sancita quale principio dell'Alleanza: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me” (Es 20,2-3).

Appurata, dunque, la sovrana proprietà di Dio sul popolo (v.9b), si passa, ora, a denunciare il comportamento del sistema giudaismo, che di fatto si è appropriato del popolo d'Israele, espropriandolo a Dio stesso (vv.10-15). Una vera e propria requisitoria da pubblico ministero, che partendo da una esposizione dei fatti, si concluderà con la richiesta della pena (v.15b), confermata dalla sentenza di condanna (v.16).

I vv.10-15a descrivono il comportamento infedele e criminoso dei contadini. A differenza di Matteo e Marco, che raccontano come il padrone avesse inviato a più riprese numerosi servi, che furono maltrattati e uccisi, comportamento che estesero anche al figlio, accomunandolo in tal modo ai precedenti servitori, Luca riduce gli invii soltanto a tre servi. Un “tre” che dice un tempo compiuto, poiché la simbologia del “tre” parla di un inizio, di un compiersi e di una fine7. Il tre, quindi, circoscrive un tempo ed una azione, in cui si può intravvedere il tempo veterotestamentario e quello dei Profeti. Nessuno, poi, dei tre servi fu ucciso, ma soltanto maltrattato e rispedito al mittente a mani vuote. L'uccisione dell'inviato è riservata soltanto al figlio. Luca, pertanto, sembra voler distinguere i precedenti inviati, figura dei profeti, dal destino del figlio del padrone, figura di Gesù. Vi è dunque per Luca la distinzione di due tempi, all'interno di questo tempo opportuno, caratterizzato dagli invii (v.10): quello dei profeti e quello di Gesù. L'uccisione dell'unico figlio mette, da un lato, un punto fermo agli invii; dall'altro, innesca un giudizio di condanna su chi non solo ha rifiutato, ma anche ucciso l'ultima chance rimasta al padrone e padre. L'invio del figlio, pertanto, inaugura un ultimo tempo, quello escatologico, che separa la venuta di questo figlio (v.13) dal giudizio finale (v.16a), che avrà come oggetto di valutazione il comportamento che gli uomini hanno tenuto nei confronti di questo figlio, che si pone quindi come elemento di discriminazione in mezzo a loro.

In che cosa sia consistito il dramma compiuto del sistema giudaismo viene descritto dal ragionamento sviluppato dagli stessi contadini di fronte alla venuta del figlio: eliminare l'unico erede per appropriarsi della vigna, espropriando di fatto il padrone della vigna. Vi è stata quindi una sostituzione di proprietà avvenuta attraverso l'eliminazione dell'erede. Un'uccisione che avviene dopo aver gettato “l'erede fuori dalla vigna”. Un'espressione questa che può assumere un doppio significato: l'uccisione dell'erede è avvenuta in effetti fuori dalle mura di Gerusalemme (Gv 19,20; Eb 13,12); ma nel contempo quel “gettare l'erede fuori dalla vigna” lascia intendere che su Gesù sia stata emessa una sorta di scomunica dal giudaismo. Un'interpretazione questa che trova un suo fondamento in Gv 9,22, 12,42 e 19,38 dove si attesta che i seguaci di Gesù che riconoscevano in lui il Cristo o si facevano suoi discepoli venissero espulsi dalla sinagoga. In altri termini venivano scomunicati e posti fuori dal giudaismo e dal ciclo della salvezza. La quale cosa equivaleva ad una sorta di morte civile e religiosa.

La parabola termina con una domanda (v.15b), la cui finalità è di coinvolgere il popolo lì presente in veste di convocato e di giudice (v.9a) tra Gesù e le autorità giudaiche, accusate di assassinio e di appropriazione indebita: “Che cosa dunque farà loro il padrone della vigna?”. Una domanda carica di indignazione per un comportamento così malvagio e inaudito e che prepara il lettore alla sentenza finale, che giunge come liberatoria: “Andrà e farà perire questi contadini e darà la vigna ad altri”. Si tratta di una sentenza che non viene emessa sulle persone, ma sul sistema giudaismo che di fatto ha fallito la sua missione. Ma nel contempo prepara in qualche modo il lettore alla devastazione di Gerusalemme e del Tempio narrata in 21,6.20-24, cioè alla fine del giudaismo. Da questo momento in poi la storia della salvezza proseguirà con un nuovo progetto, che non vede più Israele come protagonista della storia della salvezza, bensì con un suo resto, con questo suo figlio, gettato fuori dal giudaismo e rifiutato dalle autorità giudaiche come inviato divino e Messia atteso. Ma sarà proprio questo uomo, rigettato dal giudaismo, che verrà costituito a fondamento di un nuovo popolo qualificato non più dalla circoncisione, ma dalla fede (Ef 2,20); non più racchiuso in una asfissiante gabbia fatta da prescrizioni e divieti, ma dal dono dello Spirito Santo, che consente di rivolgersi liberamente a Dio chiamandolo Padre, al di là di ogni razza, lingua, popolo o nazione, facendo di tutti i popoli della terra un unico popolo nel Risorto (Gal 3,28).

Il rifiuto, quindi, d'Israele divenne, pertanto, motivo di salvezza per l'intera umanità (Rm 11,11b-15).

Luca, unico tra gli evangelisti, riporta il grido inorridito dei sinedriti, che prelude in qualche modo alla reazione violenta di 19a: “Non sia (mai)!” (v.16b). Una sorta di levata di scudi contro le prospettive raccontate nella parabola, che ben hanno compreso essere rivolta contro di loro (v.19b). Da questa levata si cercherà di passare alle vie di fatto, le quali sono frenate dalla presenza del popolo, che, invece, pendeva dalle sue labbra (19,48b).

Gesù, la nuova pietra angolare su cui verrà edificato il nuovo popolo d'Israele (vv.17-19)

Testo a lettura facilitata

Gesù pietra rigettata è costituito nella risurrezione testata d'angolo, su cui fonda un nuovo popolo (v.17)

17 - Ma costui, guardati(li), disse loro: <<Che cosa dunque è questo, che è scritto: (la) pietra che i costruttori rigettarono, questa fu fatta testa d'angolo?

Ogni opposizione verrà spezzata (v.18)

18 – Ognuno che è caduto su quella pietra sarà spezzato; ma qualora cadesse su quello, lo distruggerà>>.

La rivolta del giudaismo, che si sente espropriato della sua Promessa e della sua vocazione (v.19)

19 – E gli scribi e i sommi sacerdoti cercarono di mettere le mani su di lui in quel momento, ed ebbero paura del popolo; compresero, infatti, che contro di loro disse questa parabola.

I vv.17-19 vanno a completare la condanna annunciata nella parabola contro il sistema giudaismo, di cui i sinedriti erano i rappresentanti e i tutori (v.16a), dandone in un certo qual modo giustificazione scritturistica. Il v.17, infatti, si richiama ad Is 28,16 a cui si ispira anche il Sal 118,22. Un'immagine quella della pietra scartata dai costruttori e divenuta testata d'angolo che la chiesa primitiva ha fatto propria, attribuendole un senso messianico e applicandola al Risorto8, sul quale essa fonda: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù. In lui ogni costruzione cresce ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio per mezzo dello Spirito” (Ef 2,19-22). E similmente in 1Pt 2,4-6: “Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso”.

Quanto al v.18, che compare anche in Mt 21,44, ma non in Marco, che è il vangelo primitivo e da cui attingono gli altri due sinottici, è da ritenersi un'aggiunta tardiva della primitiva comunità credente, che va a completare Is 28,16. Non si tratta di una vera e propria citazione scritturistica, ma si ispira in qualche modo sia ad Is 8,14-15 che a Dn 2,34-35, dove, in Daniele, questa pietra ha travolto ogni regno divenendo essa stessa una gigantesca montagna che ha riempito l'intera regione.

Un versetto questo che costituisce, tuttavia, una dura minaccia per chiunque si oppose e continua opporsi a questa pietra, divenuta il fondamento su cui posa il nuovo popolo d'Israele, edificato sulla fede e nello Spirito Santo. In primis, tra gli oppositori, il giudaismo stesso. In altri termini, sarà l'affermarsi del cristianesimo e il suo rapido diffondersi che travolgerà il sistema giudaismo, che ha visto nel succedersi di due guerre giudaiche (66-73 d.C. e 132-135 d.C.) la distruzione di Gerusalemme e del Tempio, quali luoghi storici del suo esserci, e lo soppianterà nel culto a Jhwh. Il giudaismo, tuttavia, continuerà, ma in tono minore, nella storia, trasformandosi in rabbinismo e soppiantando il culto del Tempio con il culto della Torah, capace, comunque, di conservare l'identità propria del popolo d'Israele, che rimarrà sempre il popolo della prima elezione e della prima Alleanza.


La seconda diatriba: il tributo a Cesare (vv.20-26)


Testo a lettura facilitata

L'avvertimento dell'autore ai lettori (v.20)

20 – E quelli che (lo) spiavano inviarono degli insidiatori, che fingevano di essere giusti per sorprendere una sua parola, così da consegnarlo al potere e all'autorità del governatore.

L'inganno entro cui viene posta la questione (v.21)

21 – E lo interrogarono dicendo: <<Maestro, sappiamo che parli rettamente ed insegni e non tieni conto dell'aspetto, ma secondo verità insegni la via di Dio.
22 – È lecito che noi diamo (il) tributo a Cesare o no?>>.

Gesù smaschera l'inganno e ribadisce la sovranità di Dio (vv.23-25)

23 – Ma compresa la loro malizia, disse verso di loro:
24 - <<Mostratemi un denaro; di chi chi ha l'immagine e la scritta?>>. Questi dissero: <<Di Cesare>>.
25 - Questi disse verso di loro: <<Dunque date le cose di Cesare a Cesare e le cose di Dio a Dio>>.

Le forze avverse ammutoliscono di fronte alla sapienza di Dio (v.26)

26 – E non furono capaci di sopravvenire la sua parola davanti al popolo e meravigliati per la sua risposta, fecero silenzio.

Note generali

La seconda diatriba, da un punto di vista letterario, si qualifica come una sentenza inquadrata, cioè un breve racconto costruito attorno ad un detto di Gesù (v.25), e costituisce un'unità narrativa a se stante ed è delimitata da un'inclusione data dall'espressione “sua parola” (vv.20.26).

La questione qui posta non è se si “deve” pagare o meno il tributo a Cesare, ma se “è lecito” il pagarlo. La controversia quindi si sposta da un piano di dovere civile ad uno di tipo morale, che coinvolge il giudaismo in quanto tale, richiamato da quel “noi” (v.22).

Una diatriba questa che, in previsione dell'accusa mossa a Gesù al v.23,2 di sobillare il popolo spingendolo a non pagare i tributi a Cesare, assume qui fin d'ora il ruolo testimonianza a di difesa ed assume contorni apologetici, mettendo in rilievo da un lato l'estraneità di Gesù dall'accusa e, dall'altro, rilevando la malizia degli interlocutori, che cercavano un pretesto qualsiasi per accusarlo.

La pericope in esame è scandita in quattro parti, già rilevate nella sezione del “Testo a lettura facilitata”:

  1. L'autore avverte fin d'ora i suoi lettori della malizia che sottende l'intera diatriba, invitandoli a non lasciarsi ingannare dal cerimonioso e subdolo riconoscimento della dirittura morale di Gesù da parte dei suoi avversari (v.20);

  2. L'ambiguità ingannevole con cui viene posta la questione, spingendo Gesù a prendere posizione su di una questione molto sentita all'interno del giudaismo, ma alquanto rischiosa (vv.21-22);

  3. Gesù smaschera l'inganno e ribadisce la sovranità di Dio (vv.23-25);

  4. Di fronte al manifestarsi della sapienza divina, le forze avverse ammutoliscono (v.26).

Commento ai vv.20-26

Il racconto si apre presentando gli attori principali (v.20), che non vengono nominati esplicitamente come in Mt 22,16a (“discepoli dei farisei e erodiani9”) e in Mc 12,13 (“farisei e erodiani”), ma soltanto citati per il loro comportamento morale, finalizzato a mettere in rilievo la loro natura subdola e insidiosa: “spiavano”, “fingevano”, “insidiatori”, rilevando le loro intenzioni malevoli: consegnare Gesù “al potere e all'autorità del governatore”. Sono sufficienti questi pochi tocchi per descrivere l'ostilità dell'ambiente giudaico nei confronti di Gesù, che prelude al suo arresto e alla sua passione, dove non c'è spazio per la giustizia, ma soltanto per l'odio e il rancore (23,18), a cui soccombono gli stessi Pilato ed Erode, che in Gesù non ravvisarono alcuna colpa e lo volevano liberare (23,14-15; At 3,13; 13,28).

I vv.21-22 descrivono la messa in atto dell'insidioso inganno; una sorta di lacciolo per far cadere in trappola Gesù, perché comunque avesse risposto avrebbe urtato o contro l'imposizione del tributo, di cui sarà accusato in 23,2, o contro la sensibilità del popolo, che mal tollerava il tributo. La sperticata adulazione pubblica di questi subdoli personaggi (v.21), che, in quanto inviati dalle autorità giudaiche, si muovono nel sottobosco del potere, non va tuttavia considerata una semplice blandizia per nascondere il loro subdolo intento, ma rispecchia, a mio avviso, un tratto morale e comportamentale del Gesù storico, che non temeva i suoi avversari. Del resto se Gesù è sempre stato osteggiato e perseguitato fino spingerlo sulla croce, significa che egli si mostrava un personaggio scomodo, per niente accomodante e senza peli sulla lingua. Il suo doveva essere un carattere determinato, spigoloso e pronto allo scontro e tale da non risparmiare niente a nessuno quando era in gioco la sua missione e l'insegnamento della Verità che egli riceveva dal Padre (Gv 5,19.30). Ma forse è più corretto dire che Gesù emanava una calma autorevolezza10, che fondava su di un'autorità indefinita e indefinibile (vv.2.8) e forse, proprio perché divina, urtava contro le logiche umane.

La questione posta (v.22) verte sulla liceità o meno del pagare il tributo a Cesare. Di che si trattava? Innanzitutto va detto che Luca usa correttamente, a differenza di Mt 22,17 e Mc 12,14b, il termine “fÒron” (fóron, tributo, imposta), piuttosto che “kÁnson” (kênson) usato da questi, per definire il tributo in questione. Il “kênson”, “census” in latino, designava, infatti, le liste di cittadini e dei loro averi ai fini fiscali. Da qui il censimento ricordato anche da Lc 2,1. La questione, tuttavia, verte non tanto l'imposizione fiscale sugli averi dei cittadini, bensì quella sui singoli cittadini stessi, il “tributum capitis11, introdotto dal procuratore Quirino nel 6 d.C., allorché l'etnarca Erode Archelao, destituito da Augusto, venne esiliato a Vienne, e l'etnarcato ridotto a provincia romana. In questa occasione Quirinio fece un censimento della nuova provincia romana per verificarne il gettito fiscale e forse per questo Matteo e Marco usano il termine “kênson” (census), anziché il più corretto “fóron” lucano, che riguarda l'imposta individuale, che gravava indistintamente su ogni cittadino, indipendentemente dai suoi averi. Tale tributo o imposta costituiva di fatto il riconoscimento del dominio di Roma su ogni singolo cittadino, la quale cosa significava per molti la rinuncia ad ogni speranza messianica. Per questo dei rivoltosi si opposero con la violenza a questa imposta, considerata sacrilega perché contraria alla concezione teocratica in Israele. Per cui la questione qui sollevata era sentita come un caso di coscienza12: “È lecito che noi diamo (il) tributo a Cesare o no?”. Due sono gli elementi che portano a concludere che la questione qui sia di tipo morale e di natura identitaria: quel “È lecito”, che indaga sul campo della coscienza e dei rapporti con Dio; e quel “noi”, inteso come Israele, popolo della Promessa e dell'Alleanza. La questione è quindi rivestita di sacralità ed è acutamente sentita dal popolo, mentre il tributo, calato all'interno di questo contesto, diventa dissacratore e sacrilego, poiché porta l'impronta dell'oppressore straniero e pagano, che opprime e profana il popolo di Dio e calpesta la Terra della Promessa, considerata per questo Santa.

I vv.23-25 riportano la risposta di Gesù (vv.24-25), preceduta da una nota dell'autore che la introduce (v.23), parallelamente all'introduzione della questione posta dagli insidiatori. Là, v.20, l'autore metteva in rilievo l'animo subdolo con cui questi si rivolgevano a Gesù; qui, v.23, Gesù ne rileva la malizia. Come dire che il tentativo d'inganno è stato smascherato e la risposta che il lettore deve attendersi sarà adeguata. Un v.23 che mette una volta di più in rilievo l'onniscienza di Gesù e la sua capacità di penetrare nei meandri più segreti dell'animo umano.

Il v.24 contiene l'oggetto del contendere: il denaro romano, il cui valore equivale ad una giornata di lavoro di un contadino (Mt 20,2). Esso è qualificato da due elementi: l'immagine dell'imperatore e la scritta che ne riportava nome e titolo. Un segno sacrilego del potere straniero imposto sul popolo di Dio, il popolo dell'Alleanza. Sacrilego in quanto vi era riportata l'immagine di un uomo, che ripetutamente Esodo e Deuteronomio proibivano13; sacrilego, poi, perché prodotto e simbolo di un mondo pagano, la cui presenza in mezzo al popolo di Jhwh e sulla Terra Santa era dissacrante.

L'immagine era quella di Tiberio Claudio Nerone, figlio adottivo di Augusto Ottaviano (27 a.C.-14 d.C.) e destinato a succedergli, cosa che avvenne alla morte di Ottaviano nel 14 d.C. e regnò fino al 37 d.C. e il suo nome mutò in Tiberio Giulio Cesare Augusto. La scritta diceva “Tiberio Cesare, figlio del divino Augusto, Augusto”. Sull'altra faccia della moneta vi era l'effige di Livia, moglie di Augusto, accompagnata dalla scritta “Pontefice Massimo”. Anche la scritta risultava blasfema, poiché definiva “divino” Ottaviano Augusto.

Anche l'uso, sia pur imposto, di una simile moneta, da cui comunque i giudei sapevano trarre notevoli vantaggi, era posto in violazione della Torah e non poteva essere usata per le offerte al Tempio. Da qui la necessità dei cambiavalute.

La risposta, pertanto, data dagli insidiatori a Gesù non poteva essere che quella moneta lì riportava tutte le insegne di Cesare.

Il v.25 riporta la nota sentenza di Gesù: “Dunque date le cose di Cesare a Cesare e le cose di Dio a Dio”. Una lettura superficiale del detto porta a considerarlo un'esortazione a tenere separate le cose profane da quelle sacre. Una lettura più attenta fa sorgere l'interrogativo: che cosa è di Dio e tale da darlo a lui? Tutto è di Dio e tutto va a lui attribuito e a lui ricondotto. Quindi anche il potere degli uomini va letto e compreso come espressione storica di quello di Dio14, benché non di rado gli uomini ne facciano un uso improprio se non criminale. Ma questo è un abuso. Di conseguenza viene tolta ogni barriera tra il puro e l'impuro, tra il pagano e il giudeo, poiché anche il primo appartiene a Dio come il secondo. Un concetto questo che verrà ripreso ed elaborato da Ef 2,13-16, che in Gesù vede eliminata ogni barriera che separa il sacro dal profano, il pagano dal giudeo e dei due ne fa un unico nuovo popolo plasmato dall'unica fede. Gal 3,28 sottolinea questo aspetto in modo inequivocabile: “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”; gli fa eco Col 3,11: “Qui non c'è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Sciita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti”. Ed è lo stesso Luca, in At 10,14-15, che narrerà la significativa visione di Pietro, in cui Dio lo invitava a mangiare animali considerati impuri dalla legge mosaica: “Ma Pietro rispose: <<No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo>>. E la voce di nuovo a lui: <<Ciò che Dio ha purificato, tu non chiamarlo più profano>>”, così che Pietro arriverà a concludere in At 10,34-35: “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto”.

Un detto, quindi, questo di Gesù che ben lungi dal porre dei distinguo e delle separazioni, apre invece le porte ad una visione che supera ogni barriera e ogni limitazione umana.

Il v.26 conclude la seconda diatriba mettendo in rilievo tre aspetti: l'incapacità degli avversari di sopraffare la sapienza di Dio manifestatasi in Gesù; una manifestazione che produce una duplice reazione negli insidiatori, caratteristica delle teofanie: stupore e silenzio, che mettono in rilievo l'autorità e l'autorevolezza di Dio, che sovrasta la pochezza degli uomini, riducendo al silenzio i suoi avversari. Un versetto, il 26, che ha per sfondo il sal 8,3 e che in qualche modo lo riecheggia in se stesso: “Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli”.

La terza diatriba: la risurrezione e in che cosa questa consiste (vv.27-40)

Testo a lettura facilitata

Introduzione alla terza diatriba: presentazione degli interlocutori (v.27)

27 – Ma avvicinatisi alcuni dei Sadducei, che sostengono che non c'è risurrezione, lo interrogarono,

La previsione scritturistica (v.28)

28 – dicendo: <<Maestro, Mosè ci ha scritto: se il fratello di qualcuno morisse, avendo moglie, e questi non avesse figli, che suo fratello prenda la moglie e susciti una discendenza a suo fratello.

Il caso e la questione (vv.29-33)

29 – Vi erano dunque sette fratelli: e il primo, presa moglie, morì senza figli.
30 – E il secondo
31 – e il terzo la prese(ro), ma allo stesso modo anche i sette non lasciarono figli e morirono.
32 – Poi anche la moglie morì.
33 – La donna, pertanto, nella risurrezione di chi di loro è moglie? Infatti i sette la ebbero (come) moglie>>.

La risposta di Gesù: l'affermazione del principio (vv.34-36)

34 – E disse loro Gesù: <<I figli di questo tempo si sposano e danno in matrimonio,
35 – ma quelli che saranno stimati degni di avere in sorte quel (altro) tempo e la risurrezione dai morti né si sposano né danno in matrimonio.
36 – Infatti, non possono morire ancora, poiché sono simili agli angeli e sono figli di Dio, essendo figli della risurrezione.

La conferma scritturistica (vv.37-38)

37 – Ma poiché i morti risorgono, anche Mosè (lo) rivelò (nel racconto) del roveto, quando dice (che il) Signore (è) il Dio di Abramo e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”.
38 – Ora Dio non è dei morti, ma dei viventi, tutti infatti vivono per lui>>.

La sapienza di Dio è riconosciuta e tacita gli avversari (vv.39-40)

39 – Ma alcuni degli scribi rispondendo dissero: <<Maestro, hai detto bene>>.
40 – Infatti, non osavano più interrogarlo (su) nulla.


Note generali

La terza diatriba ha come oggetto la risurrezione. Un tema importante soprattutto perché posto a ridosso della passione e morte di Gesù e consente a Luca di precisarne i termini e la natura per i suoi lettori di cultura greco-ellenista, che mal sopportavano l'idea della risurrezione (At 17,32), riservandosi una trattazione più completa e approfondita al cap.24, dove si metterà in rilievo la natura della corporeità del Risorto, ponendo uno stacco netto tra il prima e il dopo risurrezione, ma sottolineandone una continuità, cosa che Luca fa anche in questa diatriba distinguendo, unico tra gli evangelisti, il “questo tempo” da “quel (altro) tempo” (vv.34.35).

All'interno del giudaismo, circa la risurrezione, vi erano due posizioni contrapposte: quella dei farisei, che sostenevano la risurrezione, da loro pensata come una ripresa e un proseguimento migliorati di questa vita; e quella dei Sadducei, che invece la rifiutavano, perché la Torah, unico testo scritturistico che essi accettavano, non ne parlava. Per questo, al v.37, si controbatterà che, invece, Mosè ne ha parlato, evidenziando la loro pochezza nella conoscenza delle Scritture (Mt 22,29; Mc 12,24). Una contrapposizione che lo stesso Paolo, chiamato a rispondere al Sinedrio, sfruttò per creare una divisione all'interno del Sinedrio stesso, volgendola a proprio favore: “Paolo sapeva che nel sinedrio una parte era di Sadducei e una parte di farisei; disse a gran voce: <<Fratelli, io sono un fariseo, figlio di farisei; io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti>>. Appena egli ebbe detto ciò, scoppiò una disputa tra i farisei e i Sadducei e l'assemblea si divise. I Sadducei infatti affermano che non c'è risurrezione, né angeli, né spiriti; i farisei invece professano tutte queste cose. Ne nacque allora un grande clamore e alcuni scribi del partito dei farisei, alzatisi in piedi, protestavano dicendo: <<Non troviamo nulla di male in quest'uomo. E se uno spirito o un angelo gli avesse parlato davvero?>>.” (At 23,6-8).

Il tono della questione posta dai Sadducei non sembra occasionale, ma risente delle dispute rabbiniche costruite ad hoc per mettere in imbarazzo e ridicolizzare la controparte. Tutto gira attorno a Dt 25,5-10, la legge del levirato, termine che deriva dal latino “levir”, che significa “cognato” e traduce l'ebraico “yabam”. Questi doveva subentrare al fratello morto senza prole, per dargli una discendenza. Qualora rifiutasse veniva pubblicamente disonorato dalla vedova davanti agli anziani del popolo e la sua famiglia veniva additata come “la famiglia dello scalzato” (Dt 25,10), con riferimento al gesto della vedova, che in segno di disprezzo e di condanna gli levava un sandalo e gli sputava in faccia, perché egli non aveva riedificato la casa di suo fratello. Il figlio che nasceva assumeva il nome del fratello deceduto, a lui andava l'intera eredità ed era ritenuto legalmente come il vero figlio del defunto. Benché se ne discuta ancora, tuttavia la regola del levirato ha come finalità quella di perpetuare in Israele il nome del defunto e si fonda sull'importanza data ai legami di sangue in una società di tipo tribale15.

L'intera pericope è scandita in due parti: a) la questione posta dai Sadducei, che sottopongono a Gesù un improbabile caso di una donna che sposa sette fratelli (vv.27-33); b) la risposta di Gesù, che si articola in due momenti: teologico-apocalittico (vv.34-36) e scritturistico (vv.37-38).

Commento ai vv.27-40

Le tre diatribe presentano un susseguirsi di interlocutori, che danno l'idea di un vero e proprio assedio contro la persona di Gesù, per farlo cadere e così poterlo arrestare, consegnandolo alle autorità (v.20b). Dapprima vengono presentati i sinedriti, che indagano sull'autorità di Gesù e sulla sua origine (v.1b), preludendo l'interrogatorio sulla sua identità in 22,67; seguono, poi, gli insidiatori, che spiano Gesù e tramano contro di lui circa la liceità del tributo a Cesare (vv.20-21), di cui verrà accusato in 23,2; ed infine, vengono qui presentati al v.27 i nuovi interlocutori di Gesù: i Sadducei16, che l'autore, allineandosi agli altri due Sinottici, attesta che non credono nella risurrezione, mettendo in guardia fin da subito i propri lettori sulla sincerità della loro posizione. Il loro intento non è cercare la verità, ma sfidare Gesù cercando di metterlo in imbarazzo, partendo da un presupposto erroneo, che formava la posizione dei Farisei: concepire la risurrezione come un proseguimento, sia pur migliorato, della vita presente.

La questione posta ha un indirizzo di tipo accademico e si snoda su tre passaggi, che risentono dei dibattiti dottrinali: si parte dall'affermazione di un principio scritturistico, delineato da Dt 25,5-1017 (v.28), per poi passare alla casistica (vv.29-32), del tutto improbabile e paradossale, ma posta in termini tali da mettere meglio in rilievo l'assurdità della risurrezione; ed infine la domanda o bordata finale destinata a mettere in imbarazzo Gesù (v.33).

I vv.34-38 riportano la risposta di Gesù che se da un lato contesta la posizione dei Sadducei, affermando che invece la risurrezione esiste, citando proprio quel Mosè in cui essi credono (vv.37-38); dall'altro, corregge quella dei Farisei, asserendo che nella risurrezione vi è uno stacco netto tra il prima (“questo tempo”) e il dopo (“quel altro tempo”) (vv.34-36). La risposta pertanto è duplice e si muove su di uno sfondo apocalittico in 34-36; e all'interno di una cornice scritturistica in 37-38.

Quanto al primo quadro (vv.34-36) la risposta si snoda su di un triplice passaggio, che si sviluppa attorno alla contrapposizione di due realtà:

  1. il v.34 presenta il mondo degli uomini nella sua attuale dimensione, caratterizzata dal matrimonio, quale luogo naturale della procreazione e della costituzione civile e religiosa della società, che ha per fondamento il comando scritturistico di Gen 1,27-28, ma colto nella sua dimensione culturale dell'epoca in cui lo sposarsi difficilmente era il frutto di un libero incontro tra due persone che si sono scoperte e si amano, ma il frutto di una conclusione di trattative tra famiglie che “danno in matrimonio” i propri figli e figlie, creando legami ed alleanze di parentela e tutelando il proprio patrimonio.

  2. Il v.35 contrappone al mondo degli uomini un altro mondo in cui domina lo spirito e in cui non è più necessaria la procreazione per perpetuare la specie umana e, quindi, viene a decadere lo stesso imperativo scritturistico di Gen 1,27-28. Il motivo fondamentale è che chi entra in questa realtà spirituale non è più soggetto alla morte e, di conseguenza, non è più necessario reintegrare le perdite che l'umanità subisce a causa della morte. L'uomo che entra in questa realtà spirituale è reso simile agli angeli ed è figlio di Dio (v.36), nel senso autentico del termine (Gv 1,12-13; 1Gv 3,1a), in quanto generato attraverso la risurrezione, che è atto generativo di Dio (Rm 1,3-4), con il quale Dio assimila l'uomo a se stesso (Gen 1,26-27), rendendolo simile agli angeli. Si parla qui di rendere “simili agli angeli” („s£ggeloi, isángheloi) e non pari agli angeli. Per comprendere il passaggio è necessario rifarsi al Sal 8, il quale nel riprendere il tema della creazione genesiaca, afferma che l'uomo è stato fatto di poco inferiore agli angeli (Sal 8,6a). Quel “poco inferiore” si riferisce alla costituzione dell'uomo, tratto dall'adamah, cioè dalla terra, e divenuto essere vivente per opera dello Spirito (“soffiò nelle sue nari”) (Gen 2,7), così che l'uomo viene concepito nell'antropologia ebraica come una carne spiritualizzata e uno spirito incarnato. Contrariamente agli angeli che sono puri spiriti. Diversa, dunque, è la costituzione, ma identica è l'origine, Dio, e identica la dignità: “di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani,tutto hai posto sotto i suoi piedi”. Paolo, per contro, in Rm 3,23 affermerà che “tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio”. Qui Paolo parla della comune e universale decadenza dell'uomo a causa del peccato, il quale ha comportato la spogliazione di quella gloria e di quel onore di cui parla il Sal 8,6 e di cui era rivestito nei primordi dell'umanità.

Affermata la risurrezione per via apocalittica e teologica, Luca passa ora con i vv.37-38 ad attestare la risurrezione per via scritturistica, contraddicendo in tal modo la convinzione dei Sadducei secondo la quale le Scritture, nella fattispecie la sola Torah, unico testo che, parimenti ai Samaritani, ritenevano attendibile e in cui credevano, non parlava di risurrezione dei morti. Per contro, Gesù attesta che invece i morti risorgono per la natura stessa di Dio, perché nella sua essenza Dio è per sua definizione il Vivente (Dt 5,26).

La dimostrazione scritturistica è scandita in due momenti: la citazione del passo scritturistico di Es 3,6a (v.37), dove Dio si rivela a Mosè come l' “Io sono” dei padri; e la sua esegesi (v.38).

Quanto alla citazione scritturistica, i Sinottici riportano Es 3,6, in modo letterale Mt 22,32a e Mc 12,26b; in modo parafrasato con discorso indiretto, da parte di Luca: “quando dice (che il) Signore (è) il Dio di Abramo e Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Tutti personaggi costoro che al tempo di Mosè erano tutti deceduti, eppure Dio li presenta a Mosè come esseri viventi in Lui, lasciando in qualche modo trasparire come la vita continui dopo la morte18. Infatti, viene rimarcato come Dio si presenti a Mosè come il Dio dei viventi e non dei morti, poiché tutti vivono per suo mezzo. Là dove c'è Dio c'è anche la vita. E come Dio l'ha trasmessa al primo uomo con il suo soffio vitale (Gen 2,7), così egli continua a generarla. Dio non genera morte, ma vita poiché non potrà mai generare ciò che non gli appartiene per sua stessa natura.

Un lungo cammino quello dell'intuire una vita oltre la vita e quello della risurrezione, che ha inizio nel II sec. a.C. con Dn 12,2-3; 2Mac 7,9.11.14.23.36; 12,43-44 e che verrà ripreso ed approfondito dal pensiero cristiano illuminato dalla rivelatrice Parola di Dio.

I vv.39-40 concludono questa ultima diatriba, da un lato, con la favorevole attestazione dei dottori della legge, che probabilmente hanno avuto da Gesù un notevole apporto nella diatriba sulla risurrezione che questi avevano con i Sadducei (At 23,6-10), traendone la prova scritturistica proprio dalla Torah, che invece i Sadducei affermavano negasse la risurrezione (v.39); dall'altro s'impone il silenzio, quasi a stendere un velo sul clamore delle autorità giudaiche, che “non osavano più interrogarlo su nulla” (v.40). Un'apparente calma prima della tempesta che sta per abbattersi su Gesù (v.19). Non a caso le tre diatribe richiamano in se stesse, quasi anticipandoli, alcuni momenti salienti della passione-morte e risurrezione.

Una precisazione sulla natura del messia davidico (vv.41-44)

Testo

41 – Ora, disse verso di loro: <<Come dicono che il Cristo è Figlio di Davide?
42 – Infatti egli, Davide, dice nel libro dei salmi: “Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra,
43 – finché ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”.
44 – Davide dunque lo chiama Signore, e come è suo figlio?>>.


Commento ai vv. 41-44

La prima diatriba poneva la questione sull'autorità di Gesù e da dove questa gli provenisse. In altri termini un'indagine sulla vera natura di Gesù. Un'indagine che verrà ripresa durante il suo interrogatorio da parte del Sinedrio, il quale da un lato chiederà a Gesù se sia lui il Cristo, dall'altro Gesù affermerà, sia pur implicitamente, che lo è; non solo, ma che egli è anche Figlio di Dio (22,67-70). Ed è proprio su tale questione identitaria che verte questa breve pericope, che costituisce un'unità letteraria a se stante, racchiusa da un'inclusione data dalle espressioni “Figlio di Davide” (v.41) e “suo figlio” (v.44) e che va ad integrare una ricerca partita da lontano (4,41; 9,20; 19,3a; 20,2; 22,67-70) e che continuerà a riecheggiare fino alla fine del racconto lucano (23,2.35.39; 24,26.46)

Il tono qui è velatamente polemico ed è animato dalla voce della chiesa primitiva la quale riteneva che non solo Gesù fosse stato costituito Messia, Signore e Figlio di Dio nella risurrezione (Rm 1,2-4; Eb 1,5-13), ma che anche Davide nel Sal 110,1 lo abbia riconosciuto tale. Ed è attorno a questo salmo che gira quest'ultima diatriba innescata, questa volta, da Gesù.

Il v.41, rivolgendosi a “loro”, probabilmente al popolo, che era lì presente ed ascoltava (v.45), imposta la questione, riportando la comune convinzione che il cristo, cioè il messia, fosse “figlio di Davide”, cioè di discendenza davidica, fondata sulla profezia di Natan al re Davide (2Sam 7,12-16). Le attese messianiche, tuttavia, vertevano sempre su personaggi che avrebbero capovolto storicamente le sorti di Israele, sia politicamente che religiosamente. La dimensione di tale messia, pertanto, era meramente orizzontale come appare dalle attese degli stessi discepoli (24,21; At 1,6; Mt 20,21). Ora qui Gesù cerca di dare una svolta a questa attesa messianica, che superi i semplici confini spazio-temporali, per accedere alla vera natura di tale messia.

I vv.42-43 pongono un interrogativo sul Sal 110,1, un salmo di intronizzazione regale, attribuito a Davide. Il testo originale, tratto dalla LXX (Sal 109,1), dice: “Oracolo del Signore al mio Signore: <<Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi>>”. Qui è il salmista che riporta l'oracolo di Jhwh rivolto a Davide, chiamato dal salmista “mio Signore”. Quindi il vero senso è: “Il Signore dice a Davide, siedi alla mia destra”. Il Sal 110,1, qui citato da Luca, gioca invece sul titolo di “Signore”: “Disse il Signore al mio Signore”, in cui il primo “Signore” è attribuito a Davide, che si rivolge “al suo Signore”, inteso qui come il messia. Quindi la comprensione che Gesù ha di questo salmo, (in realtà qui è la voce della chiesa primitiva che sta parlando), è che Davide, a cui è stata promessa una stabile discendenza, si rivolge a questa sua discendenza messianica, chiamandola “mio Signore”, attribuendole in tal modo una dimensione superiore a se stesso, dai tratti divini. La reale interpretazione di questo passo, Sal 110,1, viene data dallo stesso Luca in At 2,29-36, che sintetizza il pensiero della chiesa primitiva in merito a questo salmo.

Il v.44 riporta la stoccata finale, che va sempre compresa non nel senso originale del Sal 109,1, ma nel senso successivamente attribuitogli dalla chiesa primitiva, che ha riletto le Scritture in chiave cristologica: “Davide dunque lo chiama Signore, e come è suo figlio?”. Luca, come del resto gli altri due sinottici, giocano sulla contrapposizione del binomio che definisce il messia davidico, contrapponendo in realtà il pensiero giudaico, secondo il quale il messia è figlio di Davide, cioè di discendenza davidica; a quello reinterpretato e ricompreso dalla chiesa primitiva, secondo la quale il Messia è il Risorto (At 2,29-36). Vi è quindi una ricomprensione della figura messianica: da meramente umana a trascendentale, dimensione quest'ultima che coincide con quella di Gesù.

Dalle diatribe alle polemiche e all'atto di accusa contro le autorità giudaiche (vv.45-47)

Testo

45 – Mentre tutto il popolo ascoltava, disse ai [suoi] discepoli:
46 - <<Guardatevi dagli scribi, che desiderano passeggiare in lunghe vesti ed amano i saluti nelle piazze e i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei conviti,
47 – i quali divorano le case delle vedove e in apparenza pregano molto. Costoro prenderanno una condanna più grande>>.


In un rovente contesto di diatribe, che costituiscono un dibattito ed un confronto su determinate questioni, ma che cercano in qualche modo di colpire indirettamente gli interlocutori, mettendoli in imbarazzo o quanto meno sconfessandoli, lo scadere nella polemica è pressoché inevitabile. La polemica va oltre ad un semplice dibattito, sia pur questo acceso, e costituisce un atto di vera e propria aggressione verbale della controparte, che tende unicamente a squalificarla e ad annientarla. Ed è questo il contesto in cui si formula l'atto di accusa contro gli scribi, che stigmatizza il loro comportamento sociale e religioso (vv.46-47), che va, sia pur ripetendosi (11,43), a completare la polemica contro il giudaismo che l'autore, sulla falsariga di Mt 23, già aveva avviato in 11,37-54. Una polemica contro gli scribi che ben non si comprende collocata in questo contesto, considerato che sono proprio questi, gli scribi, a sostenere Gesù nella sua diatriba contro i Sadducei (v.39).

Il v.45 presenta i discepoli quali destinatari privilegiati dell'esortazione, che costituisce di fatto un vero atto di accusa contro una categoria rappresentativa del giudaismo, innescando un implicito confronto tra i discepoli, membri di una nuova chiesa nascente, improntata ad una religione fondata sull'amore e sulla sincerità di cuore, e le autorità giudaiche, quali rappresentanti di un giudaismo legalista, che cura con particolare scrupolosa attenzione gli aspetti formali e appariscenti (v.46), ma viola gravemente la sostanza della Legge. L'implicito confronto avviene coram populo, in qualche modo chiamato quale testimone e quale giudice su di un modo di vivere il proprio rapporto con Dio.

Il v.46 inizia con un'esortazione: “Guardatevi”, che dà il tono ai vv.46-47. Si tratta di una messa in guardia rivolta ai discepoli, perché non scadano in comportamenti similari a quelli degli scribi, caratteristici del giudaismo, ma che coinvolgono nel contempo anche il popolo. Se, infatti, gli insegnamenti di Gesù riguardano in primis i suoi discepoli, coloro che hanno fatto una scelta esistenziale a suo favore, tuttavia questi devono riecheggiare anche in mezzo alla gente attraverso una testimonianza di fede resa credibile da una esemplare condotta di vita (Fil 2,14-16a). Non si tratta di una condanna degli scribi, ma di un modo di vivere legalistico la propria fede e il proprio rapporto con Dio.

I vv.46-47 sono finalizzati a mettere in rilievo questa discrepanza nel modo di vivere e relazionarsi agli altri e a Dio, che scivola in una sorta di schizofrenia esistenziale. Il v.46, infatti, evidenzia l'aspetto più appariscente e socialmente più appetibile, una sorta di tributo sociale al proprio ego; mentre il v.47 rileva come questa gente perbene sia in realtà rapace e della peggior specie perché va a colpire, depredandola dei pochi loro averi, l'ultima categoria sociale, quella più debole delle vedove e degli orfani; quella verso la quale i profeti hanno sempre avuto una particolare attenzione e che costituiva il banco di prova sociale e religioso su cui commisurare la propria fedeltà all'Alleanza (Is 1,10-17).




Note

1Cfr At 4,31; 6,7; 8,4.14.25; 11,1; 12,24; 13,48.49;

2Cfr. Lc 7,50; 8,48; 17,19; 18,42

3Cfr. Sal 66,2-8; 85,9; 96,6; Is 2,2-5; 25,6-7; 52,10; 56,6-7; 60,1-22; Ger 3,17; Ez 39,21; Tb 14,6;

4Cfr. Ef 2,19-22; 1Pt 2,4-10

5Cfr. Sal 79,9-16; Is 3,14-15; 5,1-7; Ger 2,21; 12,10; Na 2,2; Os 10,1

6Cfr. R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi 2003 – pag. 383

7Cfr. La voce “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

8Cfr. Mt 21,42; Mc 12,10; Lc 20,17; At 4,11; Rm 9,32-33; Ef 2,20; 1Pt 2,4.6-8

9Gli erodiani, di cui parlano sia Matteo che Marco (Mt 22,16; Mc 3,6; 12,13), più che un partito o una fazione favorevole ad Erode o suoi funzionari e/o cortigiani, categorie di persone queste estranee ai farisei e con i quali i farisei nulla avevano da condividere e che certamente non frequentavano, è molto probabile che essi fossero una casta di sacerdoti, discendenti anch'essi dal sommo sacerdote Sadok, e salita in auge sotto Erode il grande. Questi, infatti, sposò nel 24 a.C. Mariamne, la figlia del sacerdote Simone l'alessandrino, figlio di Boethos (da qui Boethusiani). Erode, per nobilitare il sacerdote e la sua famiglia, con cui si stava imparentando, dando così rango e lustro anche a Mariamne, destituì l'allora sommo sacerdote in carica, Gesù, figlio di Fiabi, e nominò al suo posto, Simone, che ricoprì la massima funzione religiosa e politica dal 24 a.C. fino al 5.a.C. circa. Per questa loro posizione, era evidente che essi fossero strettamente devoti e legati alla famiglia degli Erode. Si comprende, quindi, la loro presenza qui, dove Gesù era chiamato a pronunciarsi a favore o meno dei romani. - In tal senso cfr. Flavio Giuseppe, Antichità Giudaiche, XV, 320-322; e la voce “Erodiani” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, prima edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

10Cfr. Mt 7,29; 9,6.8; 10,1; Mc 1,22.27; 2,10; 6,7; Lc 4,32.36; 9,1; 10,9; Gv 5,26-27; 17,2-

11Il sistema tributario gravava soltanto sui residenti nelle provincie e privi della cittadinanza romana. Esistevano soltanto due tipi di tributi, il tributum soli, che corrispondeva alla nostra tassa patrimoniale sulle proprietà ed era prelevata in misura fissa per tutti. In Siria la percentuale del prelievo era dell' 1%; e il tributum capitis era un'imposta sulla persona, anche questa in misura uguale per tutti e corrispondente ad un denaro, il cui valore equivaleva alla paga giornaliera di un operaio. Essa era applicata sia sugli uomini che sulle donne a partire dai 14 ai 65 anni per i primi e dai 12 ai 65 per le seconde. Per determinarne la quantità e chi ne fosse soggetto, venivano fatti periodicamente dei censimenti. Oltre a queste due imposte dirette, Roma esigeva dalle province anche tutta una serie di imposte indirette sul movimento delle merci. - Cfr. la voce “Tassazione” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, prima edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005; e J. S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004.

12Cfr. A. Poppi, I quattro Vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S. Antonio Editrice, Padova, 1997

13Cfr. Es 20,4; Dt 4,16.23.25; 5,8; 27,25

14Cfr. Is 44,28; 45,1-13; Gv 19,10-11; Ef 3,14-15

15Sulla questione del levirato cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; pagg.47-48

16La casta sacerdotale dei Sadducei era formata da famiglie nobili e potenti, conservatrici e filoromane. Questi credevano soltanto nella Torah Scritta, rifiutando quella orale, tenuta, invece, in grande considerazione dai Farisei, tanto da prendersi le critiche di Gesù, che la definì dottrine di uomini (Mt 15,9; Mc 7,7). Per questo i Sadducei, a differenza dei Farisei, non credevano negli spiriti, negli angeli, nell'anima e nella risurrezione dai morti, poiché la Torah Scritta non ne parlava (At 23,8). I Sadducei, la cui classe sembra comparire intorno alla prima metà del II sec. a.C., durante il periodo maccabaico, si dicevano discendenti di Zadok, di cui hanno assunto il nome. Benché il nome Sadduceo sia di origine oscura e dibattuta, tuttavia la maggioranza degli studiosi sembra farla discendere da Zadok, sommo sacerdote, insieme ad Ebiatar, ai tempi di Davide (1010-970 a.C.); incoronò re Salomone (970-933 a.C.), che, a sua volta, lo riconobbe come l'unico sommo sacerdote, divenendo capostipite dei successivi sacerdoti. Sulla questione cfr. la voce “Sadducei” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, prima edizione 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005. Cfr. anche Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, XIII,173; 293; 297; 298; XVIII,16 e in Guerra Giudaica, II,164-165.

17Dt 25,5-10 recita testualmente: “Quando i fratelli abiteranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si mariterà fuori, con un forestiero; il suo cognato verrà da lei e se la prenderà in moglie, compiendo così verso di lei il dovere del cognato; il primogenito che essa metterà al mondo, andrà sotto il nome del fratello morto perché il nome di questo non si estingua in Israele. Ma se quell'uomo non ha piacere di prendere la cognata, essa salirà alla porta degli anziani e dirà: Mio cognato rifiuta di assicurare in Israele il nome del fratello; non acconsente a compiere verso di me il dovere del cognato. Allora gli anziani della sua città lo chiameranno e gli parleranno; se egli persiste e dice: Non ho piacere di prenderla, allora sua cognata gli si avvicinerà in presenza degli anziani, gli toglierà il sandalo dal piede, gli sputerà in faccia e prendendo la parola dirà: Così sarà fatto all'uomo che non vuole ricostruire la famiglia del fratello. 0La famiglia di lui sarà chiamata in Israele la famiglia dello scalzato”.


18Cfr. O da Spinetoli, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 4^ edizione gennaio 1999; pag.629