IL VANGELO SECONDO LUCA

La nascita di Gesù

parte seconda del prologo

(Lc 2,1-52)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi






Note generali

Con questo capitolo continua il prologo al vangelo e continuano i parallelismi caratteristici di Luca: agli eventi e circostanze che accompagnarono la nascita di Giovanni (1,57-80), seguono ora gli eventi e le circostanze che accompagnano la nascita di Gesù, ai quali è dedicato l'intero capitolo secondo. Un capitolo questo con molte incongruenze sia storiche che circostanziali, con un ampio spazio riservato ad un'angelofania (vv.8-20), degna rappresentazione di un fantasioso favolista, ma che certamente non si addice ad uno storico impegnato a riprodurre accuratamente i fatti accaduti e la cui identità l'autore rivendica per se stesso (1,1-4); eventi, poi, su cui dovrebbe fondare la fede di Teofilo (1,4). Il contesto storico, in cui viene inquadrata la nascita di Gesù, è infatti sbagliato; non rientrava nelle logiche romane imporre censimenti che costringessero la gente a farsi registrare nella terra di origine; non si capisce bene perché Maria, ormai giunta al nono mese di gravidanza debba accompagnare Giuseppe fino a Betlemme, percorrendo circa 170 Km a piedi, per farsi registrare, quando per questo sarebbe stata sufficiente la presenza del capofamiglia; è difficile capire come Maria possa compiere questo lungo viaggio con Giuseppe quando è soltanto “promessa sposa” (v.5b), ma non ancora sua moglie e quindi non costituivano ancora un nucleo familiare, tuttavia si fa registrare come tale (v.5a); come potevano, poi, i suoi genitori permettere che la loro figlia, di appena 16 anni circa e in quello stato di ormai gravidanza a termine, intraprendesse un viaggio già rischioso per sua natura e con un uomo che ancora non era suo marito? Luca parla, poi, della “loro purificazione” (v.22a), cioè di Maria e di Gesù, mentre la purificazione è un rituale che riguarda soltanto le puerpere non i bambini. Molte cose, dunque, non quadrano e il racconto lucano qui fa acqua da molte parti. Eppure Luca continua ad essere lo storico serio ed impegnato che dice di essere. Certo si scosta notevolmente dallo nostro standard di storico, dalla mentalità positivista, scientifica e post-illuminista, che espone i fatti rigorosamente attestati e documentati e scientificamente inoppugnabili. Ma Luca lo è in rapporto allo standard di storico della sua epoca, la cui finalità non è la rigorosa esposizione dei fatti, ma la rigorosa esposizione del senso dei fatti, del significato dei loro contenuti, per cui gli eventi storici possono essere modificati o anche cambiati per esprimerne al meglio il senso, in particolar modo quando si tratta di mettere in evidenza la personalità di qualche personaggio1. Per poter comprendere queste incongruenze è necessario capire gli intenti Luca: mettere in rilievo l'identità del bambino. È questo il fatto, l'evento su cui deve poggiare la fede di Teofilo (1,4). Tutto il resto è circostanziale e strumentale, finalizzato a mettere in luce chi è veramente questo bambino. Per l'autore Gesù è il Messia preannunciato dai profeti, che secondo le attese messianiche doveva nascere a Betlemme (Mi 5,1; Mt 2,5-6; Lc 2,11b; Gv 7,42); egli è il salvatore degli uomini, il Cristo Signore, proveniente dalla città di Davide (vv.11.30-31); è colui che è chiamato con la sua rivelazione ad illuminare le menti e i cuori di tutti gli uomini (v.32) e si costituirà in mezzo ad essi come un giudice, obbligandoli ad una scelta per lui o contro di lui (v.34); egli è l'atteso da Israele, colui che avrebbe portato la liberazione (v.38b) e la sua missione consiste nel compiere la volontà del Padre (v.49b) fino alla morte di croce (v.35a). Questo è il senso dell'evento Gesù e per spiegarlo Luca usa ambienti storici reali, trasponendoli da un'epoca ad un'altra e collocandoci dentro questo bambino, per legare la sua storia con quella universale degli uomini, per far comprendere come questa sua storia riguardi tutti e fa parte della loro storia, che viene interpellata dalla sua presenza. Racconta fatti verosimili, il cui intento è dimostrare come questo bambino sia il vero Messia atteso dalle genti, luce del mondo, salvezza dei popoli, redenzione di Israele. È questo l'evento straordinario che viene annunciato da Luca in questo secondo capitolo. Tutto il resto è contorno. L'autore qui si comporta, più che da vero storico, da prosopografo. Siamo quindi qui nell'ambito della prosopografia e non della storia.

La macrostruttura del secondo capitolo è scandita in due sezioni:

  1. gli eventi riguardanti la nascita di Gesù (vv.1-40);

  2. eventi riguardanti l'infanzia di Gesù (vv.41-52).

All'interno di queste due sezioni si collocano in A) cinque quadri narrativi:

La sezione B) contiene un unico episodio: al tempo del suo bar mitzvah Gesù entra a far parte pienamente della vita religiosa di Israele; sale al Tempio dove egli, la Parola, s'impone sull'antico insegnamento della Torah. E proprio in questo contesto pasquale egli si rivelerà per quello che è: Figlio del Padre, di cui è venuto per fare la volontà.


Sezione A: gli eventi riguardanti la nascita di Gesù (vv.1-40)


Primo quadro: il contesto storico e le circostanze in cui si colloca la nascita di Gesù (vv.1-5)

Testo lettura facilitata

Il contesto storico

1 – Ora avvenne (che) in quei giorni uscì da Cesare Augusto un decreto per censire tutta (la terra) abitata.
2 – Questo primo censimento avvenne mentre governava la Siria Quirino.

Le circostanze

3 – E tutti andavano a farsi registrare, ognuno nella propria città.
4 – Ora salì anche Giuseppe dalla Galilea, da(lla) città di Nazareth, alla Giudea, in una città di Davide, che si chiama Betlemme, poiché egli era dalla casa e dalla discendenza di Davide,
5 – per registrarsi con Maria, promessa a lui, che era gravida.



Questi primi cinque versetti creano il contesto storico e circostanziale entro cui verrà posta la nascita di Gesù, raccontata ai successivi vv.6-7. Sono versetti questi che presentano non pochi problemi da un punto di vista storico, attorno ai quali si sono sviluppate numerose ipotesi e diverse interpretazioni, scomodando perfino la filologia, ma il campo rimane sempre e comunque diviso e contrapposto: c'è chi sottolinea l'incongruenza storica di Luca, dichiarando erroneo il quadro storico presentato; c'è chi tende a giustificare tale quadro storico ricorrendo ad epigrafi, come il Lapis Tiburtinus e il Monumentum Ancyranum, ma che purtroppo non forniscono una testimonianza completa e convincente. C'è chi dà diverse interpretazioni al v.2a: “aÛth ¢pograf¾ prèth ™gšneto” (aúte apografé prôte eghéneto), che letteralmente significa soltanto: “Questo primo censimento avvenne”, e nessun altro diverso significato può essergli attribuito; quanto al v.2b: “¹gemoneÚontoj tÁj Sur…aj Kurhn…ou” (eghemeneúontos tês Sirías Kiriníu) qui ci troviamo di fronte ad un genitivo assoluto, che letteralmente significa “mentre Quirino governava la Siria”. Qualsiasi altra interpretazione di quel “¹gemoneÚontoj” rischia di portarci fuori strada. Il v.2 è chiaro e inoppugnabile così com'è e non ha bisogno di interpretazioni. Diventa problematico soltanto quando fa parte di un contesto storico che è chiaramente contrastante con la realtà storica dei fatti. Ma in questo caso va capita l'incongruenza storica, cercando di comprendere gli intenti del suo autore, ma certamente non va manipolato il testo, per far quadrare ciò che non è quadrabile.

Il contesto storico (2,1-2)

Il cap.2 si apre con il verbo “'Egšneto(Eghéneto, avvenne), caratteristico di Luca, che sta ad indicare come l'evento, che qui si sta compiendo, ha a che vedere con il piano salvifico di Dio, che si sta attuando gradualmente nella storia. Pertanto gli eventi, qui descritti ai vv.1-2, costituiscono per l'autore la cornice storica, e quindi, il tempo stabilito da Dio, in cui l'evento salvifico della nascita di Gesù verrà collocato e ne farà parte (vv.3-7). Ciò avviene “in quei giorni”, un'annotazione di tempo di chiara marca redazionale, per introdurre un nuovo quadro narrativo. In altri termini, l'autore avverte il suo lettore che qui si gira pagina. Tuttavia in Luca questa espressione temporale, in cui accadono eventi storicamente significativi, va compresa anche come il tempo del compiersi della salvezza. Ed è proprio il verbo “Eghéneto”, il verbo lucano dell'accadere della salvezza, che imprime un significato specifico a questa espressione temporale.

Ciò che qui accade è l'uscita “da Cesare Augusto di un decreto per censire tutta (la terra) abitata. Questo primo censimento avvenne mentre governava la Siria Quirino. E tutti andavano a farsi registrare, ognuno nella propria città” (vv.1-3). Le notizie storiche qui riportate ai vv.1.2 non solo non concordano con la nascita di Gesù, da collocarsi intorno all'anno 7 o 6 a.C., ma neppure concordano tra di loro. Ottaviano Augusto (27a.C.-14 d.C.), nelle sue Res gestae divi Augusti, pervenuteci nel Monumentum Ancyranum2, una sorta di resoconto celebrativo in cui vengono messi in rilievo i tratti più salienti della sua amministrazione imperiale, composto da 35 capitoli e un'appendice, ci informa, al cap.8, di aver indetto tre censimenti universali riguardanti, tuttavia, i soli cittadini romani, sia per nascita che per diritto acquisito3. Le date dei tre censimenti furono il 28 a.C., quando Ottaviano non era ancora imperatore, lo sarebbe stato l'anno successivo; l' 8 a.C. e il 14 d.C., anno della sua morte. Di queste tre date la più compatibile con la nascita di Gesù è quella dell' 8 a.C. A suo sfavore, tuttavia, gioca il fatto che tale censimento riguardava solo i cittadini romani, mentre Giuseppe e Maria non lo erano. Gioca a suo sfavore anche il v.2 in cui si dice che “Questo primo censimento avvenne mentre governava la Siria Quirino”. Il governatorato di Quirino sulla Siria ebbe inizio nell'anno 6 d.C. in occasione della deposizione di Erode Archelao, esiliato a Vienne e i beni del suo etnarcato vennero censiti da Quirino per ordine di Augusto. All'epoca Gesù aveva circa 12 anni. Qui si trattava di un censimento certamente non universale, ma locale e occasionale e, quindi, in netto contrasto con quanto viene invece affermato al v.1. Tuttavia questo censimento fatto da Quirino puntava a valutare i beni terrieri e immobiliari in genere della Palestina, divenuta, dopo la deposizione di Archelao, provincia romana. Proprio per questa sua natura patrimoniale, il censimento faceva obbligo ai cittadini interessati di farsi registrare nei luoghi di origine, dove possedevano i propri beni. Una simile disposizione la si ritrova in un papiro egiziano del 104 d.C.4 In merito il giurista romano Ulpiano (170-228 d.C.) affermava: “Chi abbia un fondo in un'altra città deve presentare la propria dichiarazione nel centro in cui è situato il proprio fondo”5. Queste ultime citazioni sembrano quindi dare ragione a Lc 2,3: “E tutti andavano a farsi registrare, ognuno nella propria città”.

Va posto, infine, un chiarimento sul v.2 che è intrinsecamente contraddittorio perché attesta: “Questo primo censimento avvenne mentre governava la Siria Quirino”. L'espressione “Questo primo censimento” fa riferimento a quello citato al v.1, riguardante un censimento indetto da Cesare Augusto, la cui estensione, come si è visto sopra, era universale e circoscritta ai soli cittadini romani. Ora, Augusto, come si è detto sopra, indisse tre censimenti: il primo quando ancora non era imperatore, nel 28 a.C., e altri due nell' 8 a.C. e nel 14 d.C. quando, invece, era imperatore. Come imperatore, quindi, ne indisse soltanto due, di questi il primo fu quello dell' 8 a.C., la data più vicina alla nascita di Gesù (7-6 a.C.). Pertanto, l'espressione “Questo primo censimento” riguarda quello indetto da Cesare Augusto come imperatore. Luca, infatti, qui nomina Ottaviano con il doppio titolo di Augusto, conferitogli dal senato nel 27 a.C. e con il titolo di Cesare. Titoli questi con cui erano insigniti gli imperatori romani. Pertanto, affermando che in quei giorni uscì un decreto di Cesare Augusto (v.1) e questo fu il primo (v.2a), Luca non può che intendere quello del 8 a.C., che fu il primo indetto non come Ottaviano, ma come Cesare Augusto cioè nella sua piena potestà imperiale. Quello del 28 a.C. era stato indetto quando ancora non aveva alcun titolo imperiale, ma, come egli stesso riconosce nelle sue Res gastae Divi Augusti, solo con un potere derivantegli dal “consensus universorum”, cioè dal consenso universale. Come dire per meriti acquisiti sul campo. Il secondo censimento sarebbe stato quello del 14 d.C. Tuttavia, il v.2a contrasta nettamente con il v.2b, poiché colloca questo primo censimento fatto da Cesare Augusto come imperatore, 8 a.C., al tempo del governatorato di Quirino sulla Siria, avvenuto, invece, come si è visto sopra, nel 6 d.C. Come sanare questo inconciliabile contrasto di eventi, così diversi tra loro e posti in due epoche diverse, ma qui fatti convivere in una contemporaneità narrativa che ha del fantasioso? Luca si è forse sbagliato? Ha confuso i due censimenti? L'autore si è dichiarato uno storico scrupoloso ed attendibile (1,1-4) e lo ha saputo dimostrare inquadrando storicamente gli inizi del suo vangelo (1,5) e gli inizi dell'attività del Battista (3,1-2); lo ha saputo fare anche qui, ai vv.1-3, riportando dati storicamente noti anche se apparentemente sembra aver preso un abbaglio, che potrebbe essere giustificato, considerati i mezzi di informazione dell'epoca e considerata la lontananza di tempo degli eventi accaduti da quello in cui Luca scrive. Ma se uno storico sa descrivere con esattezza gli eventi, che hanno per lui una rilevanza non soltanto profana, ma ancor più teologica e sono finalizzati a dare certezza alla fede di Teofilo, diventa difficile pensare che sia incorso in uno svarione di questo tipo, confondendo due censimenti non solo posti in epoche diverse, ma tra loro di diversa natura: universale e limitato alla popolazione romana il primo; locale e patrimoniale il secondo, effettuato con modalità completamente diverse dal primo. Sono troppi i particolari che contrastano perché Luca si sia semplicemente sbagliato. Luca sa distinguere bene i due censimenti e sa anche come in questo censimento sotto Quirino ci furono rivolte, che richiama in At 5,37a. Eppure Luca con quel genitivo assoluto, tradotto con “mentre governava”, fa convivere questi due censimenti: “Questo primo censimento avvenne mentre governava la Siria Quirino”. Perché? Per comprendere questa impossibile convivenza di questi due censimenti è necessario stabilire, da un lato, le date in cui sono avvenuti; dall'altro gli eventi che si sono compiuti in queste date. Solo in questo modo potremmo capire a che cosa Luca sta facendo riferimento e perché questi due censimenti, così disparati tra loro, li ha fatti coesistere. Il primo censimento avviene per decretazione di Cesare Augusto e che Luca definisce come il “primo” fatto da Ottaviano come Cesare Augusto, cioè come imperatore. E questo è avvenuto l' 8 a.C., cioè all'epoca della nascita di Gesù, avvenuta intorno al 7/6 a.C. Con questo primo evento di portata universale, Luca pertanto sembra voler indicare con esattezza la data di nascita di Gesù, riferendola all'evento. Il secondo censimento avviene “mentre governava la Siria Quirino”, cioè nel 6 d.C., quando Gesù aveva 12 anni, l'anno del suo bar mitzvah, l'anno della sua nuova nascita all'interno della comunità di Israele, dopo la sua circoncisione, divenendo religiosamente attivo, partecipe e responsabile. La sua vita assume qui un significato nuovo, su cui Luca proietterà, come vedremo, le ombre della futura missione di Gesù. All'episodio l'autore dedicherà la seconda parte di questo capitolo (vv.41-52), precisando: “E allorché fu di dodici anni” (v.42a), l'anno del censimento “mentre governava la Siria Quirino”. La citazione dei due censimenti serve, pertanto, a Luca a scandire in due parti il cap.2, con riferimento a due episodi importanti nella vita di Gesù: nascita e bar mitzvah, ma nel contempo, con il censimento sotto Quirino, di natura patrimoniale, come si è visto sopra, ha potuto giustificare il trasferimento di Giuseppe e Maria da Nazareth a Betlemme, dove nascerà Gesù, dando così compimento alle Scritture. Ora, se si riprende il v.2 e lo si modifica mettendo in rilevo gli eventi indicati con i due censimenti, si avrà: “La nascita di Gesù avvenne sotto questo primo censimento, invece il suo bar mitzvah mentre governava la Siria Quirino”. Luca è uno storico, ma si serve della storia per fare storia della salvezza, sostanziandola con eventi salvifici.

Le circostanze (2,3-5)

Il v.3 forma inclusione con il v.5, data dal verbo “registrarsi”, delineando in tal modo un'unità narrativa a se stante e tematicamente univoca: l'obbligo di farsi registrare nella propria città di origine; obbligo non previsto qualora il censimento riguardasse la semplice conta delle teste e della capacità reddituale dei singoli; ma obbligatorio in caso di valutazione patrimoniale, come sopra accennato (v. pag.4). Qui siamo di fronte non ad una semplice “¢pograf»” (apografé), cioè ad una iscrizione nei registri locali delle singole persone, ma ad una “¢potmhsij” (apotímesis), cioè ad un censimento finalizzato a rilevare le proprietà terriere e immobiliari a fini fiscali, per la quale cosa il proprietario era tenuto a registrarsi nel luogo di origine. Benché Luca usi nei vv.1.2.3.5 il termine “apografé” o il verbo corrispondente, tuttavia, è l'annotazione che fa al v.3 che spinge a pensare che qui ci si trovi di fronte ad una “apotímesis”, che giustifica in tal modo il ritorno al luogo di origine6.

Questa pericope, circoscritta dai vv.3-5, è strutturata su di un parallelismo concentrico in B), per cui si avrà :

A) Enunciazione dell'obbligo a registrarsi nella propria città (v.3);

B) viaggio di Maria e Giuseppe da Nazareth a Betlemme, perché Giuseppe era di discendenza davidica (v.4);

A1) Giuseppe e Maria si registrano a Betlemme, città di origine (v.5)

In A) si enuncia l'obbligo di registrarsi nella propria città di origine. Questo v.3 crea la circostanza giuridica che giustifica lo spostamento di Giuseppe e Maria da Nazareth a Betlemme; in A1) si enuncia che ciò è avvenuto per Giuseppe e Maria, che qui Luca definisce ancora come “promessa” a Giuseppe, ma non ancora sua moglie. Il verbo usato, infatti, è sempre “mnhsteÚw” (mnesteúo), che Luca aveva già usato in 1,27, al momento dell'annunciazione, allorché Maria ancora non conosceva uomo (1,34). Maria, quindi, risulta sempre promessa sposa di Giuseppe. Il suo stato civile di “promessa” dice come Maria e Giuseppe si trovino ancora entro l'anno della promessa, scaduto il quale la sposa va a convivere con lo sposo, diventando in tal modo sua moglie. Un'apparente incongruenza che serve a Luca per circoscrivere e scandire i tempi dell'accadere degli eventi salvifici. In B), v.4, la parte centrale della pericope, quella più importante, verso cui convergono i vv.3.5, si annuncia che Giuseppe e Maria si sono recati a Betlemme, la città di Davide, perché Giuseppe ha qui le sue origini e la sua discendenza davidiche. Il dato viene confermato da Matteo, che fa nascere Gesù a Betlemme, luogo dell'abituale dimora dei suoi genitori (Mt 2,1a). E qui, rientrato dall'Egitto, non tornerà più a motivo del nuovo re, Archelao (Mt 2,21-22), noto per la sua crudeltà, che gli costerà il trono nel 6 d.C. e verrà esiliato a Vienne da Cesare Augusto, mentre il suo etnarcato, la Giudea, verrà ridotto a provincia romana. Gesù con Maria e Giuseppe andrà ad abitare a Nazareth (Mt 2,23), contrariamente a Luca che, invece, stabilisce la dimora di Maria e Giuseppe a Nazareth, facendoli migrare a Betlemme in occasione del censimento, luogo dove Maria e Giuseppe dovevano avere delle proprietà. Entrambi gli evangelisti, tuttavia, sono concordi nell'affermare l'origine betlemmita e davidica di Giuseppe e di Gesù. Elementi questi cristologicamente rilevanti, perché il Messia era atteso da Betlemme ed era di discendenza davidica (Mi 5,1; Mt 2,5-6; Gv 7,42). Il v.4 è, quindi, fondamentale perché se da un lato circoscrive geograficamente il luogo della nascita di Gesù (vv.6-7), luogo di provenienza del Messia; dall'altro attesta come Giuseppe fosse del casato e della discendenza di Davide, garantendo in tal modo i titoli per la messianicità del bambino che sta per nascere.

Un'ultima nota marginale va posta sul v.4, che rileva come Luca non sia mai stato in Palestina e non ne abbia conoscenze geografiche. Egli, infatti, afferma che “Ora salì anche Giuseppe dalla Galilea, da(lla) città di Nazareth, alla Giudea”. Una simile affermazione presuppone che la Giudea si trovi al nord della Palestina, mentre la Galilea e Nazareth al sud. È l'esatto contrario.

Secondo quadro: la nascita di Gesù (vv.6-7)


Testo

6 – Ora accadde che mentre essi erano là si compirono i giorni in cui lei doveva partorire,
7 – e partorì il suo figlio, il primogenito, e lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, poiché non c'era posto per loro nell'albergo.


Il grande evento della nascita di Gesù occupa in Luca soltanto due versetti; ancora meno in Matteo, che gli dedica il brevissimo versetto 1,25; solo un accenno. La nascita è un evento comune a tutti gli uomini e non stupisce nessuno la nascita di un bambino. Per questo gli evangelisti vi dedicano scarsa attenzione, concentrandosi, invece, sul suo significato e la sua valenza salvifica per gli uomini. A questo Luca dedica i racconti preparatori dell'annunciazione (1,26-38) e della visitazione di Maria ad Elisabetta (1,39-56) e la prima sezione del cap.2 che conta 40 versetti, curandone attentamente il contesto storico e circostanziale.

Il v.6 si apre con il verbo caro a Luca: “™gšneto” (eghéneto, accadde, avvenne), che scandisce l'accadere e il compiersi degli eventi della salvezza. Quanto qui avviene, pertanto, ha a che vedere con il progetto salvifico di Dio, in cui rientra la nascita di Gesù. Un progetto dettagliato che prevede sia il luogo dell'accadere, “là”, a Betlemme, la terra di Davide, da dove si attendeva il Messia; sia il tempo stabilito: “si compirono i giorni in cui lei doveva partorire”. Due gli elementi che rilevano in questa espressione: il verbo “™pl»sqhsan” (epléstesan, si compirono o furono compiuti), un aoristo passivo o teologico, che rimanda l'azione del compiersi a Dio stesso, che stabilisce i tempi del compiersi del suo progetto; il secondo elemento di rilievo è quel “doveva partorire”, in cui il “doveva” dice come quel parto di Maria non era capitato casualmente, ma come fosse in conformità al progetto divino di salvezza. Un partorire, quindi, che non obbedisce soltanto alle leggi della natura, ma anche all'accadere e al compiersi di questo progetto divino che lentamente si sta attuando qui nella storia. Ciò che Maria partorisce qui “è il suo figlio”. Luca mette qui in rilievo come questo figlio appartenga a Maria. Un “suo”, quindi, che esclude intrinsecamente “Giuseppe”. Lc 3,23, più esplicitamente, rileverà come Gesù fosse “figlio, come si credeva, di Giuseppe”. Giuseppe, quindi, è ritenuto dalla gente il padre di Gesù, ma il lettore, a differenza della gente, già sa che quel figlio di Maria è frutto dell'azione potente dello Spirito (1,35). Questo figlio di Maria è preceduto dall'articolo determinativo “il suo figlio”, che attribuisce in qualche modo a questo figlio un significato particolare, a differenza di Giovanni, di cui si dice che Elisabetta partorì “un figlio”. L'importanza di questo figlio viene precisata dal fatto che questi è “il primogenito”, il cui significato viene spiegato al v.23: “ogni maschio che ha aperto l'utero materno sarà chiamato santo per il Signore”. In altri termini, questo stato di primogenitura rende quel bambino un essere speciale, consacrato a Dio, gli appartiene, è sua proprietà. Riecheggiano in questa primogenitura i titoli che l'angelo riferisce a Maria circa questo bambino: “sarà chiamato Figlio dell'Altissimo […] ciò che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio” (1,32.35b). È dunque un bambino che si muove all'interno dell'alea divina e che possiede gli stessi connotati di Dio, suo Padre (1,35a).

Il bambino, nato da Maria, viene ora avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia: “lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”. Un gesto normale, comune a tutti i bambini che nascono, tutti, subito dopo la nascita vengono avvolti in fasce e poi deposti in una culla o, comunque, in un posto adatto ad accoglierlo, a seconda delle possibilità di ogni famiglia. Perché, dunque, Luca dà a questo gesto così generico una particolare attenzione al punto tale da costituirlo quale segno distintivo e inequivocabile per individuare quel bambino (v.12)? Un gesto che viene richiamato per tre volte: qui, al v.7b, e ai vv.12.16b. La risposta la si ottiene se si seguono attentamente i movimenti compiuti su quel bambino: viene avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia. Avvolto in fasce e deposto. Gesti questi che ritroveremo anche in 23,53: “e fatto(lo) scendere (dalla croce) lo avvolse con un lenzuolo e lo depose in una tomba”. Luca, pertanto, attribuisce a questo gesto un significato particolare perché vede in questo gesto il segno del destino di morte di questo bambino, quasi a dire che il suo nascere è finalizzato al morire. Pertanto come il bambino sgravato da Maria viene avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, così questo bambino, divenuto adulto, verrà sgravato dalla croce e avvolto in un lenzuolo e deposto in una tomba. Vi è dunque un parallelismo di gesti tra questi due eventi tali da richiamarsi e di sovrapporsi l'uno all'altro. Un parallelismo che si spinge oltre fino a riprodurre qui in 2,16.20a quanto avverrà in 23,55-56a: “E (i pastori) andarono affrettandosi e trovarono e Maria e Giuseppe e il neonato, posto nella mangiatoia […] E i pastori tornarono indietro”; mentre in 23,55-56a si dice: “Ora le donne, che erano venute con lui dalla Galilea, avendo seguito da vicino (Giuseppe), osservarono la tomba e come fu posto il suo corpo. Ora, tornate indietro”. I pastori si affrettano ad andare e trovano “il neonato posto nella mangiatoia”, un neonato di cui non si dice più che era avvolto in fasce, ma soltanto si sottolinea che è posto nella mangiatoia. Similmente in 23,55-56a si dice che le donne si recano alla tomba e vedono il corpo che vi era stato posto; un corpo di cui non si dice più “avvolto in un lenzuolo”, ma si sottolinea soltanto che era posto nella tomba. Entrambi i racconti, infine, concludono che i pastori come le donne “tornarono indietro” (2,20a; 23,56a).

Il motivo per cui questo bambino venne deposto in una mangiatoia è “poiché non c'era posto per loro nell'albergo”. La traduzione da me preferita, “nell'albergo”, è resa in greco con “™n tù katalÚmati” (en tô katalímati). Il termine “kat£luma” (katálima) significa luogo di sosta, albergo, alloggio, soggiorno, dimora7. L'idea che se ne trae è quella di un luogo di passaggio; un luogo che nulla ha a che vedere con una fissa dimora, una normale casa di abitazione. Considerato che Maria e Giuseppe erano in transito e la loro dimora fissa a Nazareth ho pensato bene di tradurre il termine “kat£luma” con “albergo”, che, tuttavia, nulla ha a che vedere con i nostri alberghi o hotel, ma si trattava di un luogo di ristoro per uomini e animali in transito per quei luoghi. Il termine “kat£luma”, infatti, deriva da “katalÚw” (katalío), che significa sciogliere. Si tratta quindi di un luogo dove venivano sciolti gli animali dai cordami e dai loro carichi per sostare e rifocillarsi e con loro anche gli uomini; quindi, il verbo acquista anche il significato di sostare, albergare, alloggiare, trattenersi8. Potremmo quindi pensare ad un caravanserraglio, un luogo chiuso da mura al cui interno vi erano stanze riservate agli uomini e delle greppie, più che vere e proprie stalle, dove gli animali, liberi dai loro carichi potevano rifocillarsi. Al centro di questi caravanserragli vi era una fonte che forniva acqua per uomini e animali. Luca deve aver pensato ad una cosa del genere. Forse Betlemme, piccola città sui monti, non ne possedeva uno, ma ciò che qui interessa non è la precisione storica, quanto ciò che l'autore pensava ci fosse o che per le esigenze del suo racconto doveva esserci, considerato anche che non aveva conoscenze geografiche della Palestina9, come si è sopra accennato (pag.7). Ciò che lascia pensare al caravanserraglio è il fatto che non trovando posto per alloggiare, forse per il gran numero di persone che stavano andando a Betlemme in occasione del censimento, abbiano scelto una greppia, lì disponibile, per deporre il bambino, nato in una situazione di emergenza. È l'unico posto a cui si può pensare poiché Luca qui sembra accostare l'alloggiamento per uomini e la greppia per animali. Non si parla del resto di stalla, il cui termine in greco è reso con “staqmÒj” (statzmós), ma di greppia o mangiatoia10, quindi una sorta di cassa in legno con dentro della paglia o del fieno per animali. Questo doveva essere stato il contesto reale in cui viene collocata la nascita di Gesù o quanto meno questo è il contesto costruito dall'autore. Non credo che si possa andare molto oltre con i dati oggi a nostra disposizione.

Un ultimo appunto va posto sulla diversa descrizione della nascita di Gesù da quella di Giovanni, in merito al quale si dice soltanto che “Per Elisabetta si compì il tempo del partorire e generò un figlio” (1,57). Benché l'annuncio della nascita di Giovanni riproduca in modo quasi identico quello di Gesù11, tuttavia differisce notevolmente. La nascita di Gesù è introdotta dal verbo “eghéneto”, che indica come quanto sta per accadere sia un evento salvifico, che ha a che vedere con il progetto divino; di Elisabetta si dice che “generò un figlio”, mentre di Gesù si dice che Maria “partorì il suo figlio”, sottolineando da un lato la maternità carnale e dall'altro lasciando intuire la paternità divina; si evidenzia come egli fosse “il primogenito”, benché lo fosse anche Giovanni; tuttavia il fatto che Luca lo rilevi intende dare particolare rilievo a questa primogenitura, il cui significato spiegherà in 2,23. Di Giovanni si dice che fu partorito, ma non viene descritto l'ambiente in cui è nato, che certamente è quello familiare, né si dice se venne fasciato e dove venne collocato. Giovanni, pertanto, rientra nello standard di tutti i bambini; di Gesù, invece, si descrive non solo il parto, ma anche il suo essere fasciato e posto in una mangiatoia, un appunto questo che getta un'ombra di morte su quel bambino, preludendone il sacrificio salvifico.

Terzo quadro: intermezzo celebrativo della figura di Gesù (vv.8-20)


Testo a lettura facilitata

Il contesto entro cui viene posto l'annuncio

8 – Vi erano in quel posto dei pastori, che pernottavano nei campi e vegliavano (le) veglie della notte sul loro gregge.
9 – E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce e si spaventarono di una grande paura.

L'annuncio

10 – E disse loro l'angelo: <<Non temete, poiché, ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà per tutto il popolo,
11 – poiché oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide.
12 – E questo (è) per voi il segno: troverete un neonato avvolto in fasce e posto in una mangiatoia.

La risposta celeste all'annuncio: una dossologia

13 – E subito ci fu con l'angelo una moltitudine di milizie del cielo che lodavano Dio e dicevano:
14 – <<Gloria a Dio negli altissimi (cieli) e pace sulla terra agli uomini di buona volontà>>.

La risposta umana all'annuncio: la ricerca e la scoperta

15 – E avvenne (che), allorché gli angeli se ne andarono da loro in cielo, i pastori si dicevano tra loro: <<Passiamo, pertanto, fino a Betlemme e vediamo questa parola che si è compiuta, che il Signore ci ha fatto conoscere>>.
16 – E andarono affrettandosi e trovarono e Maria e Giuseppe e il neonato, posto nella mangiatoia;

La testimonianza

17 – Ora, vedendo, fecero conoscere la parola che fu detta loro su questo bambino.

La risposta alla testimonianza

18 – E tutti quelli che ascoltarono stupirono a riguardo delle cose che si erano dette loro dai pastori.
19 – E Maria conservava tutte queste parole messe insieme nel suo cuore.

Conclusione dossologica

20 – E i pastori tornarono indietro glorificando e lodando Dio per tutte quelle cose che udirono e videro come fu detto loro.


Note generali

Subito dopo le due annunciazioni (1,11-25.26-38) e prima della nascita di Giovanni (1,57-58) Luca aveva inserito un intermezzo celebrativo delle grandi opere di Dio compiutesi in Elisabetta e in Maria (1,39-56). Si trattava di una pausa di riflessione, uno spazio liturgico in cui le due donne duettavano tra loro inni di lode e di ringraziamento per quanto si era compiuto in loro, quasi invitando il lettore ad unirsi alla loro lode. Similmente accade qui con il racconto dell'annuncio della nascita di Gesù ai pastori. Si tratta di un intermezzo celebrativo della figura di Gesù, la cui risonanza riempie sia i cieli che la terra, cioè, secondo l'immaginario dell'uomo della Bibbia, l'intera creazione12, aiutando il lettore a comprendere la dimensione non solo universale di questo bambino, legato a personaggi ed eventi importanti della storia, come Cesare Augusto, Quirino e i censimenti universali (2,1-2), ma anche cosmica, là dove la dossologia angelica, che riempie i cieli (2,14), si riflette e riecheggia sulla terra negli uomini di buona volontà (2,20).

Il racconto costituisce un'unità narrativa compatta a se stante, delimitata dall'inclusione data dal termine “pastori” che compare in 2,8.20, dando all'intera narrazione un'impronta marcatamente pastorale. Veri attori, infatti, qui, sono i pastori: loro compaiono in apertura della narrazione, loro sono i destinatari dell'annuncio, loro vanno alla scoperta del bambino, loro sono i testimoni che annunciano l'evento salvifico agli uomini e glorificano Dio. La scelta lucana di ambientare il racconto in un contesto strettamente pastorale non è stata certamente dettata da sentimenti idilliaci, benché nel mondo greco-ellenistico e quello latino, poi, la figura del pastore e della pastorizia fosse legata ad un immaginario di bellezza, di perfezione, di serenità e di pace, a cui lo stesso Virgilio (70-19 a.C.) si era ispirato nelle sue Bucoliche, introducendo tale tipologia poetica nel mondo latino. Tanto meno l'autore intendeva impartire una piccola lezione sulla povertà e l'amore di questo Bambino verso gli uomini, fino a nascere in una mangiatoia tra gli animali, perché rifiutato dagli uomini, benché il tema del rifiuto e della persecuzione di Gesù percorra l'intero vangelo lucano. Nessun sentimentalismo e nessun moralismo ha determinato la scelta dell'autore, che qui, invece, si ispira al contesto pastorale betlemmita da dove provenne Davide, il re a cui Dio aveva legato la sua promessa messianica (1Sam 7,12-16); un contesto pastorale che si richiama a Mic 4,8, dove il profeta parla della “Torre del gregge”, che si ispira a Gen 35,21, in cui si racconta come dopo la nascita di Beniamino, l'ultimo dei dodici figli, Giacobbe pose la sua tenda al di là di Migdal-Eder (Torre del gregge), a cui la versione aramaica del Targum13 aggiunge: “il luogo dove alla fine dei giorni sarà rivelato il Messia”14. La Torre del gregge è una località che si trova poco lontana dalla collina di Sion, dove Davide inaugurerà il vero culto a Jhwh e Salomone costruirà il primo Tempio. Elementi questi ultimi, che costituiscono un forte richiamo messianico, da cui traspare, quasi in filigrana, la futura missione di questo Bambino-Messia, anch'egli nato a Betlemme, da dove si attendeva il Messia (Mic 5,1; Mt 2,5-6; Gv 7,42) e in qualche modo legato al mondo della pastorizia: rigenerare e ricostituire il vero culto a Jhwh, costituendosi egli stesso quale nuovo tempio messianico (Gv 4,19-24; Ap 21,22).

Al di là di questi aspetti teologici, la scelta dei pastori da parte di Luca si aggancia probabilmente anche alla figura stessa del pastore, considerato all'interno del mondo giudaico in termini decisamente negativi per il suo stato di costante impurità rituale, causatagli dal suo convivere con gli animali, che gli impediva di partecipare alla vita religiosa e cultuale, venendo in tal modo posto ai margini della società come un essere impuro e contaminante e, in qualche modo, escluso dalla vita sociale e civile, che non si distingueva da quella religiosa. Questa condizione di permanente impurità di vita non era riferibile soltanto ai pastori, ma anche ai pagani, qui prefigurati in qualche modo dai pastori. I gentili, in quanto tali, erano considerati impuri per definizione ed esclusi dal ciclo della salvezza. Il Gesù matteano non sembrava particolarmente favorevole all'annuncio presso il mondo dei pagani e sollecitava i suoi discepoli a non andare tra i pagani e nelle città della Samaria, ma di rivolgersi alle pecore perdute di Israele (Mt 10,5-6). Mentre alla cananea, che lo supplicava di guarire sua figlia, Gesù non rivolge neppure la parola (Mt 15,23a), poiché era sua convinzione di essere stato inviato soltanto per le pecore della casa d'Israele (Mt 15,24). E, data la sua insistenza e l'intermediazione dei suoi discepoli (Mt 15,23b), Gesù alla fine le si rivolgerà come un giudeo si rivolgeva ai pagani, considerandoli dei cani, esseri immondi: “Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini” (Mt 15,26). Similmente anche Gv 18,28 ricorda come le autorità religiose “condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”. Vi era, quindi, una profonda e incolmabile divisione tra il mondo ebraico e quello pagano, che è lasciata trasparire da Ef 2,13-16, che vede in Gesù il superamento di tale frattura: “Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia”. Era convinzione, infatti, che la salvezza appartenesse soltanto ai Giudei, dalla quale erano esclusi i pagani. Lo ricorderà anche Gv 4,22, rivolgendosi alla Samaritana: “Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei”. Ma Luca, missionario del mondo pagano assieme a Paolo e lui stesso etnocristiano, non poteva permettersi di escluderli dalla salvezza. Il racconto dei pastori ha anche questo significato: l'annuncio della salvezza è rivolto a tutti e, in primis, proprio a quelli che erano considerati dai Giudei come degli esclusi dalla salvezza, rilevando in tal modo la particolare benevolenza di Dio nei loro confronti. Saranno proprio loro i primi destinatari dell'annuncio della salvezza, poiché “Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto” (At 10,34b-35), mentre il Gesù matteano, in forte polemica con il giudaismo, asserisce come il Regno di Dio sarà tolto ai Giudei e dato, invece, ai pagani, che hanno saputo accoglierlo e farlo fruttificare (Mt 21,23).

La struttura del racconto è scandita in due quadri tra loro paralleli, circoscritti entrambi dalle rispettive inclusioni, date, per il quadro a), dal termine “angelo” che si ripete ai vv.9.13; e per il quadro b) sia dal termine “pastori” in 15.20 che dal loro movimento uguale contrario: al v.15 i pastori vanno a Betlemme; al v.20 se ne tornano indietro. Pertanto si avrà: a) l'annuncio dell'angelo ai pastori, che si conclude con una dossologia celeste (vv.8-14); b) la scoperta e l'annuncio dei pastori, che si conclude con l'eco di una dossologia (vv.15-20). Ogni quadro si sviluppa in sotto quadri:

Quadro A:

Quadro B:

In entrambi i quadri l'annuncio degli eventi divini provoca paura (v.9c) e stupore-riflessione (v.18-19).


Commento ai vv.8-20


Quadro A (vv.8-14)


La pericope in esame segue lo schema narrativo delle annunciazioni: a) descrizione del contesto in cui avviene l'annuncio, che prevede l'ambientazione e la presentazione dei personaggi; b) l'apparizione dell'angelo; c) la reazione di timore o di paura; d) l'annuncio, preceduto sempre da un invito a non temere; e) le obiezioni da parte del destinatario dell'annuncio, che provocano altre spiegazioni; un escamotage narrativo per approfondire il contenuto e il senso dell'annuncio stesso; f) la richiesta di un segno, seguita dalla sua concessione; e, infine, a chiusura dell'annuncio, g) la dipartita dell'angelo. Uno schema che già si è riscontrato in entrambe le annunciazioni di Zaccaria e di Maria. Lo schema non cambia per tutti i racconti di annunciazione o di affidamento di una missione da compiere. Tuttavia l'autore, pur seguendo sostanzialmente lo schema, può anche derogare da esso saltando qualche passaggio, obbedendo, in tal caso, più agli intenti che vuole perseguire che alle regole della costruzione del racconto.

I vv.8.9, che si muovono su di uno sfondo veterotestamentario molto denso, presentano i personaggi protagonisti dell'annuncio: da un lato i pastori, colti nel loro vegliare notturno (v.8); dall'altro l'angelo, portatore dell'annuncio ai pastori, ma che nel contempo apre uno squarcio di luce divina che li avvolge. In modo insistente Luca sottolinea come i pastori “pernottavano nei campi”, quindi lontano dai rumori e dai traffici della città e della vita sociale; e nel contempo essi “vegliavano le veglie della notte”. La notte, secondo l'uso greco-romano, era suddivisa in quattro veglie a partire dalle nostre ore 18,00 e fino alle 6,00 del mattino successivo. Il vegliare le veglie della notte significa che questi pastori erano sempre vigilanti e attenti. L'uso dei verbi all'imperfetto indicativo, inoltre, rafforzano questa persistenza nel vigilare. I pastori, dunque, si trovano immersi nella notte, ma nel contempo vegliano. Essi sono in qualche modo anche la figura di quel Israele che era in attesa della redenzione. Un tema questo che verrà ripreso al v.25, dove il vecchio Simeone era in attesa della consolazione d'Israele, parimenti a quanti aspettavano la liberazione di Gerusalemme (v.38b); così come il tema della luce e della gloria che avvolgono i pastori (v.9) si ritroverà nel suo cantico (v.32). E similmente l'annuncio dei pastori (v.18) e la loro lode a Dio per tutto ciò che essi udirono e videro (v.20) preludono alla profetessa Anna, che rendeva grazie a Dio e parlava del bambino a tutti quelli che aspettavano la liberazione di Gerusalemme (v.38). E in questa notte essi vegliano, nella notte dell'attesa e della speranza. La notte, infatti, è il tempo privilegiato delle rivelazioni divine15, il tempo dell'agire salvifico di Dio16; è il tempo del silenzio dell'uomo; un tempo che vede come protagonista la potenza liberatrice di Dio17: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18,14-15)

Ed ecco: “E un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce e si spaventarono di una grande paura”. Il v.9 si apre con un “kaˆ” (kaì, e), che lo lega al v.8 e ne fa la risposta alla vigilanza e all'attesa dei pastori, avvolti dalla notte. Una risposta che non si propone ma che si impone a loro con fermezza imperativa. Il verbo che descrive l'apparizione dell'angelo non lascia dubbi: “™pšsth aÙto‹j” (epéste autoîs), il cui primo significato è “imporsi, stare sopra a qualcuno”. La risposta alle attese, dunque, è un qualcosa di sicuro, che non dà spazio a incertezze e ripensamenti. Questa è la risposta definitiva … e il buio della lunga notte delle attese viene squarciato da una grande luce: “la gloria del Signore li avvolse di luce”. L'espressione “gloria del Signore” ricorre una quarantina di volte in tutto l'A.T. e dice la natura stessa di Dio, lo stato della sua vita divina, che si esprime nella pienezza della sua sovrana onnipotenza. Essa viene significativamente definita da Es 24,17 come un fuoco divorante: “La Gloria del Signore appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna”; e possiede in se stessa una dinamicità espansiva, che tutto riempie e sovrasta con la sua presenza irrefrenabile18, che si esprime in una luce avvolgente e compenetrante, da cui non si può fuggire: “allora verrà il Signore su ogni punto del monte Sion e su tutte le sue assemblee come una nube e come fumo di giorno, come bagliore di fuoco e fiamma di notte, perché sopra ogni cosa la gloria del Signore sarà come baldacchino” (Is 4,5).

Con i vv.8-9 Luca crea un gioco di tenebre e di luce; un contrasto tra le tenebre degli uomini e la luce di Dio, che squarcia le loro tenebre avvolgendoli nella sua luce, così che “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” (Is 9,1); un nuovo stato di cose, dunque, come una sorta di nuova creazione viene preannunciata in quei pastori avvolti e compenetrati dalla luce della gloria di Dio, che richiama da vicino il pressante sollecito di Is 60,1-2: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te”. Luce e gloria, tenebre vinte dalla Luce gloriosa di Dio, che allude, assieme alle fasce con cui è avvolto quel bambino deposto nella mangiatoia, alla sua morte e risurrezione, in cui l'intera umanità, pagani ed ebrei, preannunciata in quei pastori, viene avvolta e compenetrata. Il v.9 si chiude con la risposta dei pastori, che fa parte dello standard dei racconti di annuncio: “si spaventarono di una grande paura”. È la reazione dell'uomo all'irrompere della potenza di Dio nella storia.

I vv.10-12 riportano l'annuncio dell'angelo e sono disposti in modo tale che la parte più importante risulti quella centrale (v.11), in cui vengono rilevati tre titoli riguardanti Gesù: salvatore, Cristo e Signore, circostanziati dal luogo della nascita: “nella città di Davide”. I vv.10.12 potremmo definirli di contorno: il v.10 è introduttivo e crea il contesto gioioso dell'annuncio; il v.12 fornisce il segno di riconoscimento del bambino.

Il v.10 introduce l'annuncio dell'angelo, scandito in tre parti: un sollecito a non temere, che rispetta gli standard dei racconti di annuncio. Non va dimenticato che qui Luca non sta riportando fatti di cronaca né tanto meno sta facendo della storia, ma sta costruendo un racconto attraverso il quale trasmettere ai propri lettori un messaggio salvifico e per farlo usa gli schemi letterari propri della narrativa del suo tempo. La seconda parte del versetto si apre con un “„doÝ g¦r” (idù gàr, ecco infatti), che narrativamente è molto efficace, poiché crea un momento di sospensione nel racconto, incentrando l'attenzione del lettore su quanto sta per succedere: il lieto annuncio di una grande gioia. Compare qui per la seconda volta il verbo “eÙaggel…zomai” (euanghelízomai), che letteralmente significa “dare una buona notizia; annunciare con letizia o lietamente”. Un verbo che caratterizza l'annuncio lucano, pervaso di serenità gioiosa, secondo lo stile della narrazione ellenistica, che evita l'impatto duro e i contrasti19. Il verbo, infatti, ricorre in tutto il N.T. 54 volte, di cui ben 25 nel solo Luca: 10 volte nel suo vangelo e 15 volte negli Atti. Un verbo presnte soltanto in lui tra gli evangelisti20. Ed è significativo come Luca preferisca l'uso del verbo “euanghelízomai”, che dice azione e dinamismo, al sostantivo “eÙaggšlion” (euanghélion), che esprime invece soltanto un concetto, un'astrazione. Un sostantivo quest'ultimo, che non si ritrova mai in Luca, se non, eccezionalmente, soltanto due volte, in At 15,7 e 20,24. Questa particolare preferenza lucana del verbo al sostantivo rispecchia la mentalità propria di Luca, che è quella dinamica del missionario, che non si limita ad annunciare una lieta notizia, ma fa del suo vivere e del suo peregrinare una lieta notizia. Non è un caso, infatti, se il verbo “euanghelízomai” si ritrova per altre 21 volte anche in Paolo, l'apostolo delle genti, che ha impresso nella sua vita, parimenti a Luca, suo compagno di viaggi21, un potente dinamismo missionario espansivo e inarrestabile. Su 54 volte in cui compare questo verbo nel N.T., ben 46, quindi, si ritrovano nei due grandi missionari. Il sostantivo “euanghélion”, invece, compare nel N.T. 76 volte; di queste 12 volte si ritrovano in Mt (4) e in Mc (8) ed assume il significato del contenuto stesso dell'annuncio. Il sostantivo, infatti è quasi sempre accompagnato dal verbo “khrÚssw” (kerísso), il verbo proprio del banditore e dell'araldo che proclamano pubblicamente l'annuncio del re e che nella chiesa delle origini aveva assunto il significato del primo annuncio, che si limitava alla proclamazione dei fatti accaduti, come la morte, la risurrezione e l'ascensione di Gesù al cielo; il perdono dei peccati e il sollecito alla conversione. Esempi di kerigma si trovano in At 2,22-24.36.38; 3,12-15; 18-19; 4,8-12; 5,30-32. Il sostantivo “euanghélion” compare altre 60 volte in Paolo, ma esso assume un significato del tutto particolare. Prevalentemente non si tratta del contenuto dell'annuncio, ma molto spesso di una persona: Cristo stesso, morto e risorto.

L'annuncio dell'angelo riguarda “una grande gioia”22, la cui consistenza verrà esposta al successivo v.11. L'annuncio possiede in se stesso una dinamica espansiva che va dal voi a tutto il popolo: “vi annuncio una grande gioia, che sarà per tutto il popolo”, e la cui responsabilità è lasciata ai detentori del primo annuncio, chiamati ad esserne testimoni presso “tutto il popolo”, poiché è un annuncio che lo riguarda direttamente. Non si tratta di un popolo in particolare, ma il termine “laÒj” (laós) indica il popolo in senso generico. Il termine significa infatti anche moltitudine, folla, turba. Il verbo al futuro “che sarà per” allude ai tempi della missionarietà chiesa, significata nel pronome “vi”, a voi; una missionarietà che Luca già sottintende in qualche modo in quel “euanghelízomai”.

Il v.11, che si apre con un “poiché” iniziale, diviene la spiegazione del precedente v.10; del perché, cioè, l'annuncio dell'angelo è messaggero di una grande gioia. Esso costituisce il cuore dell'annuncio dell'angelo, che definisce il senso della nascita di quel bambino e ne fornisce l'identità: “poiché oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide”. Con il verbo “è stato partorito” ci troviamo di fronte ad un passivo teologico, che lascia intravvedere in quel partorire l'agire stesso di Dio. Un partorire che rientra, dunque, nel progetto salvifico di Dio e che ha avuto la sua origine nella potente azione dello Spirito Santo (1,35). Un partorire che dice tutta la carnalità dell'umanità di questo bambino, che richiama la durezza del linguaggio paolino di Gal 4,4: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge”. Si tratta, dunque, di una vera umanità di cui Dio si è rivestito ed è entrato a far parte a tutti gli effetti di questa storia. Gv 1,14a userà un linguaggio ancora più esplicito e coinvolgente, lasciando trasparire cosa è successo nella vita stessa di Dio con quel “divenne carne” (Ð lÒgoj s¦rx ™gšneto, o lógos sàrx eghéneto): “E la Parola divenne carne e si attendò tra noi”. Quella Parola che Giovanni aveva, agli inizi del suo Prologo (Gv 1,1-2), contemplata nell'eternità divina, ora la coglie nel suo divenire carne (sàrx eghéneto). Vi è stata dunque una mutazione, un divenire in quell'eternità, ora non più immutabile, di Dio. Dio non va più concepito come una immutabile realtà trascendente, una sorta di aristotelico Motore Immobile, estraneo alle vicende umane, ma in Lui si è prodotta una mutazione: da Essere puro spirito, racchiuso nella sua eternità e trascendenza, è divenuto Essere Incarnato. Nella Trinità vi è stata una mutazione: non vi è più il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma il Padre, il Figlio Gesù e lo Spirito Santo. Con quel “divenne carne” Dio si è impastato e si è compenetrato con l'umanità attraverso l'utero di una donna, resasi disponibile al suo progetto di salvezza (1,38). Dio, dunque, “è stato partorito” per mezzo di una donna ed è entrato a far parte della storia dell'uomo, assumendo su di sé un'umanità corrotta e degradata dalla colpa primordiale, per ricostruirla nella sua originaria integrità, quando l'uomo, per decreto divino, era ancora immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26-27) e rilucente della vita stessa di Dio (Gen 1,31). Questo è il senso di quel “vi e stato partorito”, in cui il “vi” assume la valenza di un dativo con senso finale. L'essere stato partorito, l'essere divenuto carne, l'essere nato da donna, l'essersi sottoposto alle leggi del peccato, assumendo su di sé una carne di peccato, ha come finalità primaria l'uomo e il suo riscatto. Lo ricorda Gv 3,16: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”; lo ricorda un assioma fondamentale della nostra fede: “Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”. Come ciò sia avvenuto e come sia stato possibile questo riscatto dell'uomo rimane avvolto dal Mistero, che Gv 12,32 lascia in qualche modo intuire: “e io, quando sarò elevato da terra, trarrò tutti a me stesso”. Tutto si racchiude in quel “sarò elevato” (Øywqî, ipsotzô), che per Giovanni assume il duplice senso di “sarò elevato sulla croce; e sarò elevato dalla morte per mezzo della risurrezione”. La morte e la risurrezione del suo Figlio Gesù, cioè del suo Figlio divenuto carne, sono gli strumenti attraverso cui Dio ha distrutto sulla croce l'uomo vecchio (Rm 6,6), rigenerandolo nuovamente alla vita divina, così come lo fu ai primordi dell'umanità (Rm 6,5), divenendo così il Figlio Gesù il nuovo Adamo (Rm 5,14; 1Cor 15,22.45), il capostipite di una nuova umanità (1Cor 15,20.23). Ma se morte-risurrezione sono gli strumenti con cui Dio opera la redenzione e il riscatto dell'uomo, in quale modo questo è avvenuto? La risposta è sempre in Gv 12,32: “attirerò tutti a me”. Nella carne dell'uomo Gesù, proprio perché carne di Dio e non di un comune mortale, l'intera umanità e con lei, per un principio di solidarietà23, l'intera creazione sono state assimilate a questa carne e compenetrate di questa carne, così che sulla croce è morto il vecchio Adamo e con lui l'intera umanità e l'intera creazione, anch'essa assoggettata alle conseguenze del peccato (Rm 8,20), per essere nuovamente rigenerata allo stato della vita divina originale attraverso la risurrezione.

Questo il senso di quel “vi è stato partorito”, la cui portata e la cui valenza Luca definisce, ora, attraverso una serie di titoli, che delineano nel contempo l'identità di quel bambino: “un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide”. L'autore, con una impercettibile polemica e una leggera punta di ironia, rivolgendosi ai suoi lettori ellenisti, abituati a sentirsi dire che il Cesare Augusto di turno è il salvatore, titolo con cui si fregiavano i vari imperatori della storia, dice che è nato “un salvatore”. Si noti come qui l'evangelista non mette l'articolo determinativo davanti al termine “salvatore”, accomunando in tal modo tale salvatore ad uno dei tanti salvatori della storia, finiti nel nulla, lasciando dietro di sé morte e distruzione. Si, anche questo bambino che “vi è stato partorito” è un salvatore, la cui natura, però Luca definisce subito: non è uno dei tanti Cesari Augusti, poiché egli “è Cristo Signore, nella città di Davide”. Tre elementi che definiscono la vera natura di questo salvatore come il l'Unto di Dio, cioè il Messia, detto il Cristo; ed è il Signore, un titolo che la comunità credente attribuisce al Risorto, riconoscendone la signoria cosmica. L'accenno alla nascita di questo salvatore “nella città di Davide”, Betlemme, lega questo salvatore messianico alle promesse divine (2Sam 7,12-16). Saranno proprio questi tre titoli, che daranno un nuovo significato e un nuovo contenuto a quel salvatore che da “un salvatore” diviene ora “il Salvatore” per eccellenza.

Il v.12 chiude l'annuncio dell'angelo ai pastori, ai quali, sebbene da questi non richiesto, fornisce comunque un segno che comprovi la veridicità delle sue parole, così come avvenne per Zaccaria (1,20a) e Maria (1,36), secondo lo standard dei racconti di annuncio: “E questo (è) per voi il segno: troverete un neonato avvolto in fasce e posto in una mangiatoia”. Già lo si è rilevato sopra (pag.8) come questo persistente segno del bambino, avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia (vv. 7.12.16b), sia un'allusione alla morte di Gesù, deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo e deposto nella tomba; mentre l'avvolgimento dei pastori nella luce della gloria di Dio (v.9b) prelude in qualche modo alla risurrezione. Un tema quest'ultimo che ritornerà anche nel racconto successivo, quello dello smarrimento e del ritrovamento di Gesù nel Tempio fra i dottori (vv.41-51), là dove si dice che “dopo tre giorni lo trovarono”.

Il racconto dell'annuncio dell'angelo ai pastori si chiude con i vv.13-14, in cui il v.13, che funge da elemento di transizione tra l'annuncio e la dossologia angelica, apre un parallelismo con il v.20, in cui si dice che i pastori se ne tornarono indietro glorificando e lodando Dio. La lode celeste, dunque, risuona e si ripercuote anche sulla terra, in mezzo a quegli uomini che hanno saputo accogliere nella loro vita l'annuncio celeste della Parola, facendone un motivo fondamentale di ricerca e, trovatola, hanno saputo tradurre la loro vita in una sorta di liturgia di lode e di ringraziamento a Dio. Il v.14 esplicita il contenuto della lode angelica, una lode che quei verbi all'imperfetto indicativo, “lodavano Dio e dicevano”, dicono persistente e continuativa: “Gloria a Dio negli altissimi (cieli) e pace sulla terra agli uomini di buona volontà”. Si tratta di una dossologia, che inizia negli altissimi cieli, dove, secondo l'immaginario dell'uomo, risiede Dio stesso e si ripercuote in una benedizione messianica sugli uomini di buona volontà, cioè disponibili, come Maria, a collaborare con Dio al suo progetto di salvezza in favore dell'umanità, facendo della loro vita un luogo di salvezza, in cui Dio opera con la potenza del suo Spirito. Il v.14 si apre con un atto di riconoscimento a Dio: “Gloria a Dio”. La gloria non è un attributo divino, ma il naturale stato di vita di Dio; una manifestazione della sua onnipotenza, del suo stesso essere divino. Rendere gloria a Dio altro non significa che riconoscerlo come unico e supremo Dio onnipotente. Questo atto di riconoscimento, che va reso con la vita, trasforma la vita stessa in un luogo di culto divino, mentre il vivere diventa una liturgia di lode e di ringraziamento. Un atto di culto, una celebrazione liturgica che hanno la loro origine nell'alto e si traduce in “pace sulla terra agli uomini di buona volontà”. La pace che Dio offre agli uomini è conseguenza di questo culto e di questa celebrazione liturgica perenne che si celebra nei cieli e si riflette come sua eco sulla terra. Essa è innanzitutto un atto di riconciliazione tra Dio e gli uomini, che si attua proprio attraverso quel Bambino presentato come “avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia”; una riconciliazione che assume gli aspetti di liberazione che si fa libertà; di giustizia e di prosperità. Tutti attributi della pace messianica, che questo Bambino, avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia, è venuto ad innestare in tutti gli uomini di buona volontà, cioè resisi disponibili ad accogliere in loro stessi l'annuncio di pace, di riconciliazione attuatasi in Cristo, conformando la propria vita alla sua Parola. Una pace che avviene “™n ¢nqrèpoij” (en antzrópois), che letteralmente significa “dentro agli uomini”. La particella “en” evidenzia prevalentemente uno stato in luogo, senza escludere anche traduzioni come “in mezzo agli uomini” o “tra gli uomini”. Ma il senso primario di questa particella di stato in luogo è “dentro gli uomini”. Ciò significa che gli effetti di questo bambino, avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia e la cui luce ha avvolto i pastori, cioè gli effetti della sua morte e risurrezione, agiscono all'interno degli uomini, di ogni singolo uomo, chiamato a rispondere alla proposta salvifica offerta da questo bambino. Un'offerta salvifica che ha come effetto primario la riconciliazione dell'uomo con Dio e, conseguentemente, degli uomini tra loro, poiché non può esservi riconciliazione con Dio, se questa non si riflette e non si attua anche tra gli uomini. 1Gv 4,20-21 ricorda come amore per Dio e amore per il fratello vanno di pari passo e sono tra loro inscindibili: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello”. Una pace, che è riconciliazione, che si innesta negli uomini, rigenerandoli ad una nuova vita, che deve riflettersi nel loro nuovo modo di rapportarsi con se stessi e con gli altri. Uomini definiti da Luca “eÙdok…aj” (eudokías). Si tratta di un termine posto in genitivo, che qui rimanda ad un complemento di specificazione, la cui finalità è specificare una qualità o un senso del termine a cui si riferisce. Ed è evidente che il termine “eudokías” si riferisce qui solo ed esclusivamente agli uomini, da cui esso dipende, e non a Dio, e ne specifica la qualità: questi sono uomini “eudokías”, che letteralmente significa “di buona volontà”. “Eudokía”, infatti, significa buona volontà, buona intenzione, buon desiderio, brama, compiacenza, benevolenza24; e il termine, qui, definisce soltanto una qualità che è propria di questi uomini, rigenerati dalla pace messianica, che è primariamente rappacificazione con Dio e riavvicinamento a Lui. Su questa linea si pone anche la Vulgata, che traduce l'espressione greca “kaˆ ™pˆ gÁj e„r»nh ™n ¢nqrèpoij eÙdok…aj.” con “et in terra pax in hominibus bonae voluntatis”. Una traduzione affidabile, poiché Girolamo ha adottato una traduzione dal greco al latino, fedelissima al testo greco, quasi una sua traslitterazione. Non mi sento, pertanto, di condividere traduzioni, che ritengo personalmente un po' troppo liberali e non prive di forzatura, del tipo “uomini che Dio ama” o “uomini della sua benevolenza”. Il soggetto, infatti, di questa “eudokías” non è Dio, ma gli uomini. Questo termine, in quanto complemento di specificazione, va a specificare la qualità di questi uomini, eredi della pace. Una pace, quindi, che pur essendo offerta indistintamente a tutti gli uomini, tuttavia essa produce i suoi effetti salvifici soltanto in quelli “di buona volontà”, cioè in quelli che si rendono esistenzialmente disponibili a conformarsi ad essa25.


Quadro B (vv.15-20)


Con questo quadro B si passa dall'angelofania e da un contesto celestiale e divino ad uno terrestre, in cui si raccontano gli effetti che l'esperienza del divino e l'annuncio angelico hanno prodotto nei pastori, che qui divengono metafora delle prime comunità credenti. Al v.8 i pastori erano stati colti in una sorta di quietismo vigilante, quasi di attesa; qui, al v.15, sono descritti in movimento, pervasi da un dinamismo interiore che si fa ricerca di una Parola che si è compiuta e che è stata loro rivelata da Dio. Una ricerca che verte verso Betlemme, da cui, secondo le profezie, doveva uscire il Messia promesso. L'annuncio dell'angelo (vv.10-12) si fa qui testimonianza, dopo aver trovato e aver fatto esperienza della Parola (vv.16-17); il grande spavento che li pervase a motivo dell'esperienza del divino in cui furono avvolti (v.9c) si fa qui stupore (v.18) e motivo di profonda riflessione, che pervade l'intimità dello spirito (v.19); mentre la dossologia celeste, che ha accompagnato l'annuncio dell'angelo (vv.13-14), risuona ancora come una sorte di eco nelle lodi celebrate dai pastori per le grandi cose operate da Dio (v.20). Vi è pertanto una corrispondenza consequenziale tra il quadro A e il quadro B. L'annuncio divino di eventi salvifici contenuti nella Parola di origine divina, offerta agli uomini di buona volontà, disponibili ad accoglierla in loro stessi, li spinge alla ricerca e all'esperienza di questa Parola, che crea una forte risonanza interiore, una forte esperienza spirituale, che si traduce in una liturgia di lode e di ringraziamento per le grandi opere salvifiche compiute da Dio.

Il v.15a è di transizione e aiuta il lettore a passare da un contesto celestiale e angelico ad uno terrestre. Qui le luci della gloria di Dio e dell'esperienza esaltante del divino, che ha pervaso i pastori, si sono spente. Ora il racconto si muove orizzontalmente, lasciando ad essi l'iniziativa di continuare nella loro vita tale esperienza del divino, che li porterà ad essere dei veri testimoni di una Parola accaduta realmente e che essi hanno esperito, fino a farne un progetto di vita, costituitosi dopo che si sono parlati tra loro: “i pastori si dicevano tra loro”, letteralmente: “i pastori si parlavano l'un l'altro”. L'annuncio salvifico produce in loro una sorta di riflessione e di approfondimento, che non è individuale, ma comunitario: “si dicevano l'uno l'altro”, mentre il verbo all'imperfetto indicativo dice come tale riflessione e tale approfondimento siano stati persistenti e continuativi, fino a concretarsi in una esperienza di vita comunitaria di fede. Tutti i verbi sono alla prima persona plurale: “Passiamo, pertanto, fino a Betlemme e vediamo questa parola che si è compiuta, che il Signore ci ha fatto conoscere”. Un progetto che è scandito in tre parti: a) si parte da Betlemme, la città che i profeti hanno indicato come il luogo da cui sarebbe uscito il Messia salvatore. Si tratta qui di un luogo prevalentemente scritturistico, ricordato anche da Mt 2,4-6: “Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: <<A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele>>”. Si tratta di una riflessione che parte dalle Scritture veterotestamentarie, dai Profeti, b) per giungere a “vedere questa parola che si è compiuta”. “Vedere” è nel linguaggio evangelico la metafora della fede, del saper andare oltre le apparenze, per cogliere il divino negli eventi salvifici della storia e che qui è definito come la “parola che si è compiuta”. Luca gioca sull'equivoco: la parola a cui qui si fa riferimento è quella dell'annuncio angelico e quindi il loro andare è per constatare la veridicità delle parole dell'angelo; ma nel contempo essa allude alla “Parola che si è compiuta”, letteralmente “questa Parola, quella che è divenuta” (tÕ rÁma toàto tÕ gegonÕj, tò rêma tûto tò ghegonòs), che richiama da vicino Gv 1,14: “E la Parola divenne carne”. L'uso qui del participio perfetto dice il compiersi di un evento che ha avuto origine nel passato, in un determinato punto storico, ma che continua a produrre i suoi effetti anche nel presente. Un presente, quindi, che si radica in un evento storico del passato, che continua ad esserci anche nell'oggi. Questo evento è l'oggetto su cui fonda la fede dei pastori: “Vediamo questa Parola che si è compiuta”; compiuta nella persona di Gesù, ma che continua ad esserci e a risuonare nelle loro vite, nella loro testimonianza e nelle loro celebrazioni cultuali; c) una Parola “che il Signore ci ha fatto conoscere”. Un'espressione questa molto densa, perché, da un lato, viene dichiarata l'origine divina di questa Parola; dall'altro, in quel “ci ha fatto conoscere” si dichiara la natura rivelativa di questa Parola; mentre i riferimento al nome “Signore”, quale origine della Parola, rimanda all'esperienza del Risorto delle prime comunità credenti. Diventa pertanto una sorta di implicita professione di fede, che richiama un'antichissima formula riportata in Rm 10,9, la più breve che conosciamo: “Gesù è il Signore”; in cui riecheggia in qualche modo la professione di fede di Tommaso, conseguente al riconoscimento del Risorto: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28).

Se il v.15 riporta in un certo qual modo il frutto di una riflessione e di un approfondimento sugli eventi salvifici rivelati, che li porta a realizzare un progetto di fede comunitaria, fondato sull'annuncio della Parola, evento divenuto storia (1Gv 1,1-4), il v.16 imprime ai pastori, qui metafora delle prime comunità credenti, un forte dinamismo che li spinge ad una ricerca sollecita, quasi ansiosa, che li porta a trovare l'oggetto della loro ricerca storicamente contestualizzato: “E andarono affrettandosi e trovarono e Maria e Giuseppe e il neonato, posto nella mangiatoia”. Il v.16 inizia con un “kaˆ” (kaì, e), che lega il v.16 a quello precedente e ne fa una sorta di conseguenza: i pastori “andarono affrettandosi” a motivo dell'ascolto dell'annuncio accolto, fatto proprio attraverso una riflessione comunitaria. È questo che imprime una forte accelerazione al movimento esistenziale di fede delle prime comunità credenti; ad una ansiosa ricerca di una ricomprensione degli eventi storici della salvezza, che hanno la loro origine in quella Parola, divenuta carne ed entrata nella storia, qui raffigurata nella famiglia di Nazareth, quale contesto storico e culturale che ha accolto il Bambino.

Il v.17 è il cuore pulsante dell'intero movimento di annuncio, accolto e testimoniato da parte delle prime comunità credenti sull'onda di una Tradizione apostolica in fase di consolidamento: “Ora, vedendo, fecero conoscere la parola che fu detta loro su questo bambino”. “Ora, vedendo” dice la visione di fede pienamente raggiunta e la comprensione degli eventi salvifici compiutisi nella storia, la cui chiave di lettura è stata fornita dal primo annuncio di “questa parola che si è compiuta, che il Signore ci ha fatto conoscere”. Raggiunta pertanto la fede e la comprensione del senso della storia e degli eventi salvifici in essa compiutisi, i pastori si fanno a loro volta annunciatori e testimoni di quella “parola che fu detta loro su questo bambino”. Essi sono testimoni di una parola che non è loro, ma che fu detta loro circa la comprensione della natura e dell'identità di questo Bambino. Vi è qui una sorta di richiamo della Tradizione apostolica, per cui queste primissime comunità credenti testimoniano ciò che anch'esse hanno a loro volta ricevuto. Una catena di testimonianze e di trasmissione già ben consolidata e di cui lo stesso Paolo ce ne dà testimonianza in 1Cor 11,23: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore26 quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane”; e similmente in 1Cor 15,3: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”.

L'annuncio della Parola da parte dei pastori, figura delle prime comunità credenti, genera due comportamenti, sequenziali l'uno all'altro, negli ascoltatori, delineati nei vv.18-19. Il v.18 descrive la dinamica di quanto avviene nell'annuncio, scandita in tre fasi: l'annuncio (“cose che si erano dette dai pastori”); ascolto accogliente (“E tutti quelli che ascoltarono”); stupore circa le cose dette (“stupirono a riguardo delle cose dette”). L'ascolto accogliente, dunque, genera stupore circa le cose che vengono annunciate, predisponendo all'accoglienza della fede. Il verbo qui usato per indicare lo stupore negli ascoltatori è “qaum£zw” (tzaumázo), che ricorre nei quattro vangeli trenta volte e compare sempre quale reazione sia alla predicazione di Gesù che del suo manifestarsi con azioni prodigiose. Esso costituisce la reazione dell'uomo di fronte all'irrompere della potenza di Dio nella storia. La seconda reazione all'annuncio è un qualcosa che travalica lo stupore e che risuona nell'animo dell'ascoltatore, divenendo per questi motivo di riflessione e di arricchimento e di crescita spirituali e va a formare il fondamento della propria fede, il terreno fertile in cui affonda le sue radici la vita: “E Maria conservava tutte queste parole messe insieme nel suo cuore”. Il verbo all'imperfetto indicativo sottolinea la persistente azione di questo conservare nel proprio cuore e, quindi, nella profondità del proprio vivere, che viene alimentato e compenetrato da questo annuncio, che ha ammagliato l'ascoltatore, spingendolo ad accoglierlo in se stesso. Si tratta di una conservazione accurata, quasi meticolosa, che viene espressa dal verbo “sumb£llousa” (sinbállusa), che letteralmente significa mettere insieme e quindi un accumulare, senza tralasciare nulla di quanto acquisito nell'ascolto, conservando la ricchezza di questa Parola nel proprio cuore. Due versetti questi, con i quali Luca indica ai credenti l'atteggiamento corretto di fronte all'ascolto dell'annuncio e indica in Maria, colei che ha saputo accogliere in se stessa la Parola, facendola crescere dentro di sé per poi generarla al mondo, l'esempio del vero ascolto accogliente, che non solo arricchisce la propria vita, ma deve essere anche, sull'esempio di Maria, generata agli altri.

Il v.20 chiude il racconto dei pastori, riecheggiando in se stesso i vv.13-14. Dopo la privilegiata esperienza dell'annuncio celeste in cui furono avvolti dalla luce divina e dopo aver constato la veridicità di questo annuncio, i pastori tornarono indietro. Si tratta di un ritorno alla quotidianità del loro vivere. Un ritorno che li vede tuttavia completamente trasformati interiormente. Se il loro andare era caratterizzato dalla ricerca (v.15), ora, il loro ritorno, dopo l'incontro con la Parola (v.16), è accompagnato da un culto interiore, che si esprime attraverso la glorificazione e la lode “per tutte quelle cose che udirono e videro come fu detto loro”. Le cose che “udirono e videro”, cioè eventi salvifici che hanno potuto sperimentare esistenzialmente e che li hanno interiormente rigenerati ad una nuova vita, divenuta ora una liturgia di lode e di ringraziamento a Do.

Quarto quadro: la ritualità del post partum (vv.21-24)


Testo


21 – E quando furono compiuti otto giorni per circonciderlo fu anche chiamato il suo nome Gesù, che fu chiamato dall'angelo prima che egli fosse concepito nell'utero.
22 – E allorché furono compiuti i giorni della loro purificazione, secondo la legge di Mosè, lo condussero su a Gerusalemme a presentarlo al Signore,
23 – come è scritto nella legge del Signore che ogni maschio che ha aperto l'utero materno sarà chiamato santo per il Signore,

24 – ed offrire un sacrificio secondo ciò che è stabilito nella legge del Signore, una coppia di tortore o due giovani di colombe.


Note generali


Ho titolato questo quarto quadro “Ritualità del post partum”, perché qui Luca presenta, sia pur a modo suo, gli obblighi rituali imposti al bambino e alla madre nel tempo immediatamente successivo al parto. L'autore sottolinea qui, in modo persistente, il sottomettersi di Gesù e di sua madre alle prescrizioni della Legge mosaica. Il v.21, infatti, presenta l'obbligo della circoncisione a cui fu sottoposto Gesù, come Giovanni (1,59a) e ogni altro ebreo; nei vv.22-24 per tre volte si attesta che tutto fu eseguito “secondo la legge di Mosè” (v.22) o conformemente alla “legge del Signore” (vv.23-24). Un'espressione quest'ultima che viene ripetuta anche al termine del racconto della presentazione di Gesù al Tempio, al v.39, dove si sottolinea che “allorché portarono a termine tutte le cose secondo la legge del Signore, fecero ritorno nella Galilea, nella loro città di Nazareth”, formando in tal modo una inclusione non solo per ripetizione dell'espressione (vv.22.39), ma anche per il movimento uguale e contrario di quello al v.22, dove Maria e il Bambino salirono a Gerusalemme, al Tempio, per compiere le prescrizioni della Legge. È da chiedersi perché questa insistenza, così ostentata, dell'evangelista nel dire che Gesù, come sua madre, si sottoposero alle imposizioni della Torah. Non è sufficiente giustificare la pericope in esame come un parallelismo con il racconto della circoncisione di Giovanni e dell'imposizione del nome (1,59-66), poiché qui vengono introdotti elementi completamente nuovi; così come molto diverse sono le prospettive e il senso dei due racconti: lo stupore, che circonda l'intervento divino su Giovanni, che trova un'eco universale, il primo; l'assoggettamento di Maria e Gesù alla Torah, qui in 2,21-24. Là l'accento è posto sull'imposizione del nome, attorno al quale viene costruito l'intero racconto, qui, invece, l'imposizione del nome occupa soltanto un versetto (v.21), mentre il racconto gira attorno all'adempimento della Legge mosaica. Vi è quindi nell'evangelista un cambio di marcia rispetto al racconto degli eventi post partum riguardanti Giovanni. Il motivo, a mio avviso, va ricercato nella stessa teologia paolina, della quale qui Luca risente l'influsso. L'autore, infatti, fu un fedele e stimato compagno di viaggio e di missione di Paolo27; certamente un certo feeling teologico e di comprensione degli eventi salvifici doveva esserci tra i due, altrimenti, considerata la suscettibilità e l'impulsività di Paolo nonché il suo marcato fanatismo religioso28, Luca non sarebbe potuto durare a lungo al suo fianco. Paolo in Gal 4,4-5 attesta: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli”. Ed è proprio questo schema teologico che Luca segue in qualche modo nei suoi racconti della nascita di Gesù. In 2,1-5 egli descrive il contesto storico e circostanziale della nascita di Gesù, inserendola nel grande flusso della storia dell'umanità; in 2,5b-6.21b insiste sulla gravidanza e il parto di Maria, che in 2,23 descrive in tutta la sua carnalità: “ogni maschio che ha aperto l'utero materno”. Gesù, dunque, vero uomo “nato da donna”; mentre l'intera pericope, vv.21-24, rileva in modo persistente l'assoggettamento di Maria e di Gesù alla Legge mosaica, evidenziando il terzo assioma paolino: “nato sotto la legge”; nei racconti del vecchio Simeone e della profetessa Anna, invece, si mette in evidenza la funzione salvifica e liberatrice di questo bambino-Messia nei confronti sia di Israele che del mondo dei pagani, attestando così il quarto assioma di Gal 4, 4-5: “per riscattare coloro che erano sotto la legge”, che meglio verrà esposto in Ef 2,13-17.

Centrali in questa pericope (vv.21-24) sono Gerusalemme e il suo Tempio, che fungono da sfondo non solo al compiersi della ritualità prescritta, ma preparano anche il contesto e le circostanze in cui avverrà il riconoscimento della vera natura di questo bambino e il senso della sua missione non solo nei confronti di Israele, ma dell'intera umanità (vv.25-40). Del resto, i racconti lucani dell'infanzia (capp.1-2) si muovono attorno a Gerusalemme e al Tempio, verso i quali l'autore mostra una particolare attenzione: essi, infatti, sono il luogo dove si compiranno i misteri della salvezza. In questa prospettiva Luca, per ben dieci capitoli (9,51-19,28), costruirà il racconto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51), che di tanto in tanto ricorda al suo lettore (9,53; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11.28), imprimendo in tal modo all'intero racconto evangelico una forte tensione verso Gerusalemme. Non deve stupire, quindi, se l'evangelista ambienta, anche se non necessario per l'espletamento delle prescrizioni della Legge, la purificazione di Maria e la presentazione e il riscatto del bambino a Gerusalemme e, qui, nel Tempio. Tutto questo non era richiesto dalla Legge, ma tutto questo rientra nella teologia lucana. Luca è uno storico, riporta fatti veri o verosimili, ma non è uno storico imparziale, ma innanzitutto è un teologo, che sta narrando al suo carissimo Teofilo gli eventi posti a fondamento della sua fede (1,1-4). Luca, pertanto, non racconta né descrive la storia, ma se ne serve per far emergere il senso salvifico degli eventi che in essa si compiono.

Alla base delle prescrizioni della Legge, qui raccontate da Luca, ci stanno, per quanto riguarda la circoncisione all'ottavo giorno, Gen 17,10-12, testo fondativo dell'istituto della circoncisione, definita come il segno dell'alleanza tra Abramo e Jhwh e rende il circonciso membro effettivo del popolo eletto ed erede delle promesse. Quanto al rituale della purificazione (vv.22-24), l'autore si rifà ai testi di Lv 12,1-8 e per quanto riguarda la presentazione al Tempio di Gesù ai testi di Es 13,2.12-16 e Nm 18,15-16. Il quadro narrativo, invece, si muove sullo sfondo di 1Sam 1,11.21-28, in cui si narra la consacrazione e presentazione di Samuele al Tempio da parte di sua madre.   

Commento ai vv. 21-24


La pericope in esame è divisa in due parti introdotte, ai vv.21.22, da un “Kaˆ Óte” (kaì óte, e quando; e allorché), che scandisce i tempi delle diverse disposizioni della Legge mosaica riguardanti la puerpera e il suo figlio primogenito (v.22) e in quanto maschio (v.21): la circoncisione (v.21), la purificazione di Maria (v.22a) e la presentazione di Gesù (v.22b).

Il v.21 riguarda la circoncisione di Gesù e l'imposizione del suo nome ed apre un parallelo con quella di Giovanni in 1,59; ma mentre il racconto della circoncisione di Giovanni diviene il contesto entro cui si sviluppa il racconto dell'imposizione del nome, attorno al quale l'autore crea un alone di mistero e di elezione divina, la cui eco trascende lo stupore dei presenti per diffondersi in “tutta la (regione) montuosa della Giudea” (1,65b); qui l'attenzione al nome di Gesù è ridotta soltanto ad un semplice ricordo, che rimanda al racconto dell'Annunciazione: “fu anche chiamato il suo nome Gesù, che fu chiamato dall'angelo prima che egli fosse concepito nell'utero”. Per due volte si dice che il suo nome “fu chiamato”, un verbo al passivo teologico, che attribuisce l'azione del verbo stesso a Dio. Tutto, dunque, anche per questo bambino si sta muovendo secondo il piano salvifico divino.

I vv.22-24 assommano tra loro due riti, quello della purificazione di Maria (vv.22a) e la presentazione di Gesù (v.22b), che si concludono entrambi con il sacrificio di una coppia di tortore o due giovani colombe (v.24); mentre il v.23 funge da commento al v.22b, per spiegarne il senso, rifacendosi a quanto la Torah prevede per il primogenito. Essa, tuttavia, dice l'esatto contrario di quello che Luca ha attestato in 22b. Similmente i riti richiamati da Luca ai vv.22.23 non concordano con quanto la Legge mosaica prevede per i primogeniti, che qui Luca sovrappone e assomma, confondendoli, con quelli della purificazione della puerpera.

Per poter comprendere come Luca sia arrivato a creare questo guazzabuglio rituale è necessario soffermarsi sui testi che impongono tali riti. Luca, in quanto etnocristiano con scarsa conoscenza della ritualità ebraica, ma con un'ottima conoscenza della LXX, ha male interpretato i testi sopra citati, combinandoli assieme e facendo un bel po' di confusione. Vediamo ora di ricostruire il cammino, piuttosto complicato, che l'autore deve aver percorso per arrivare a comporre una simile pericope, che se al v.21 non presenta problemi, si complica notevolmente ai successivi vv.22-24. Alla base della pericope in esame ci sta il testo di Lv 12,1-8, di cui Luca segue qui lo schema, ma che verrà integrato e ricompreso dall'evangelista con Nm 18,15-16 ed Es 13,2.12-16, sovrapponendo il rito della purificazione di Maria con quello della presentazione e del riscatto del bambino primogenito, ritenendoli probabilmente un unico rito, come lascia intuire l'espressione “i giorni della loro purificazione”, cioè di Maria e di Gesù; e similmente l'unico sacrificio menzionato al v.24, che, seguendo le logiche dell'autore, doveva servire sia per Maria che per Gesù.

In Lv 12,1-8 sono previsti due riti: quello della circoncisione e quello della purificazione della puerpera. Il primo avviene dopo otto giorni dalla nascita del bambino; il secondo, quello della purificazione della puerpera, dopo sette giorni più altri trentatré. Soltanto dopo questo lasso di tempo di quaranta giorni la puerpera poteva considerarsi ritualmente pura; una purità che veniva sancita con un'offerta, in caso di povertà, di due tortore o due colombe. I quaranta giorni di tempo hanno una loro base scientifica: essi sono un periodo di assestamento fisiologico della donna dopo nove mesi di gravidanza e dopo il parto. Durante questo periodo la donna è soggetta a perdite ematiche e di altra natura, che lentamente diminuiscono fino a sparire completamente in un arco di tempo che va da tre a sei settimane circa. Durante questo periodo, proprio per questo riassestamento fisico, ma in particolare per queste continue perdite, la puerpera era considerata ritualmente impura e contaminante.

Ora, Luca sa che Gesù è il primogenito (v.7a) e in quanto tale appartiene a Dio di diritto e che va riscattato (Es 34,19-20). Tuttavia non ha ben chiaro il concetto dei diritti divini sui primogeniti e come questi si attuino. I testi della LXX, che egli conosce bene, sono ambigui in merito e questo deve aver generato confusione in Luca. Es 13,2 impone la consacrazione del primogenito a Jhwh: “Consacrami ogni primogenito, il primo parto di ogni madre tra gli Israeliti - di uomini o di animali -: esso appartiene a me”; mentre Es 13,12a afferma: “tu riserverai per il Signore ogni primogenito del seno materno”; Nm 18,15 accresce maggiormente l'equivoco, affermando che il primogenito, sia di uomini che di animali, offerti al Signore, dovrà essere riscattato: “Ogni essere che nasce per primo da ogni essere vivente, offerto al Signore, così degli uomini come degli animali, sarà tuo29; però farai riscattare il primogenito dell'uomo e farai anche riscattare il primo nato di un animale immondo”. Questo “consacrare”, questo “riservare” e questo “offrire” i primogeniti al Signore, che va inteso nel senso che il primogenito si deve ritenere come consacrato, riservato, offerto al Signore, ma senza la previsione di un rito specifico di consacrazione, ha fatto, invece, sorgere in Luca l'idea che ci dovesse essere un rito di presentazione dei primogeniti al Signore, quale loro offerta e consacrazione a Dio. Non aveva colto probabilmente che essi erano già per loro stessa natura consacrati a Dio e a Lui appartenenti di diritto e di fatto (Es 13,2; 34,19-20) e che per questo non vi era bisogno di un rito consacratorio apposito.

L'elemento, poi, che deve aver spinto Luca ad assommare la purificazione di Maria alla presentazione di Gesù al Tempio per la sua consacrazione a Dio, non necessaria perché non prevista dalla Torah, doveva essere stato Nm 18,16, che stabilisce l'entità del riscatto in cinque sicli d'argento; un riscatto che doveva compiersi “dall'età di un mese” del bambino: “Quanto al riscatto, li farai riscattare dall'età di un mese, secondo la stima di cinque sicli d'argento, in base al siclo del santuario, che è di venti ghera”. Il tempo per effettuare il riscatto, quindi, doveva partire dal compimento del mese del bambino30, tempo questo che coincideva con i trentatré giorni della purificazione della madre. Questo insieme di coincidenze ed equivoci ha portato Luca a sovrapporre i due comandi: quello della purificazione di Maria, che si compiva trentadue giorni dopo la circoncisione, con quello del riscatto di Gesù, previsto anche questo a partire da un mese di età del bambino, aggiungendo, a motivo di una cattiva comprensione dei testi, la presentazione di Gesù al Tempio, non rilevando che non era necessario un apposito atto di consacrazione del primogenito, poiché in quanto tale, egli apparteneva già di diritto e di fatto a Dio fin dal seno materno (Es 13,2; 34,19-20); per questo lo si doveva solo riscattare. Del resto non aveva senso consacrare e poi riscattare, altrimenti il riscatto sarebbe divenuto una finzione.

Luca, pertanto, confonde la presentazione di Gesù al Tempio per consacrarlo al Signore in quanto primogenito, con il riscatto della sua primogenitura, di cui qui, però, Luca non parla, ma che sottintende o più probabilmente ricomprende nel v.24, in cui si parla dell'offerta di una coppia di tortore o di due giovani colombe; offerta che per Lv 12,8 era prevista solo per la purificazione della puerpera, ma che qui Luca associa anche al riscatto del primogenito, forse tratto in inganno oltre che dalla tempistica di un mese, anche dal fatto che due tortore o due colombe erano l'offerta prevista per i non abbienti e per altri rituali di purificazione. Questo insieme di fraintendimenti, a nostro avviso, ha portato Luca ha comporre la pericope in esame in modo erroneo.

Fatta questa necessaria premessa per rendere più comprensibile il testo dei vv.22-24, ci è ora più agevole commentare i singoli versetti.

Il v.22 è scandito in due parti: la prima concerne la purificazione, che secondo Lv 12,1-8 si riferisce soltanto alla puerpera e non a Gesù; per cui l'espressione “loro purificazione”, riguardante Gesù e sua madre, è errata per i motivi sopra addotti. La seconda parte concerne la presentazione di Gesù a Gerusalemme: “lo condussero su a Gerusalemme a presentarlo al Signore”. Soggetti del verbo sono qui Maria e Giuseppe, che conducono Gesù a Gerusalemme per la sua presentazione al Signore. Questo evento è legato al fatto che Gesù è primogenito (v.7a.23) e in quanto tale appartiene a Dio di diritto e di fatto. Non vi è dunque alcuna necessità che esso venga offerto al Signore come atto di consacrazione. La Torah in tal senso non impone alcun obbligo, se non quello del suo riscatto, trascorso il primo mese di vita del bambino primogenito (Nm 18,15-16); né impone per il suo riscatto di condurlo al Tempio. Quanto al riscatto, questo era sufficiente pagarlo ad un qualsiasi sacerdote presente sul luogo senza particolari cerimonie rituali. L'ambientazione, tuttavia, del racconto a Gerusalemme e nel Tempio (v.27b), dove Gesù viene condotto, rientra nell'economia narrativa e teologica di Luca, che in questo salire di Gesù a Gerusalemme per essere offerto a Dio, prelude al viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19-28), che ha come meta finale il Golgota, dove Gesù si offre al Padre; mentre la sua entrata nel Tempio allude probabilmente a Ml 3,1: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate; l'angelo dell'alleanza, che voi sospirate, ecco viene, dice il Signore degli Eserciti”. Un versetto questo che viene scandito in tre parti e che riflette in qualche modo i tratti essenziali del prologo lucano e sul quale questi racconti dell'infanzia sembrano essere stati costruiti: a) si parla di un messaggero che precede la venuta del Signore; b) alla sua venuta il Signore entrerà subito nel suo tempio; c) dove vi è chi lo attende nella speranza. Il messaggero che precede la venuta del Signore è Giovanni, a cui Luca dedica quasi per intero il primo capitolo; all'annunciata venuta del Signore viene dedicato l'intero secondo capitolo, mentre la sua entrata subitanea nel tempio, dove viene atteso con trepidazione, richiamano gli episodi della sua salita a Gerusalemme per essere presentato al Signore, dove incontra il vecchio Simeone, che attendeva la consolazione di Israele; e la profetessa Anna che ne annuncia la venuta a tutti quelli che attendevano la liberazione di Gerusalemme.

Luca qui apre un inciso e osserva che tutto avviene “secondo la legge di Mosè”, il cui significato si riserva di spiegare al v.23, che crea una sospensione narrativa: “come è scritto nella legge del Signore che ogni maschio che ha aperto l'utero materno sarà chiamato santo per il Signore”. Il richiamo qui è a Es13,2.12-13; 34,20 e Nm 18,15-16, dove, come si è visto sopra, si parla del primogenito come appartenente al Signore per diritto e su cui grava l'obbligo del riscatto da versare ai sacerdoti. A fondamento di queste pretese di Jhwh ci sta il racconto dello sterminio dei primogeniti egiziani, che determinò la liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto. In quella notte Dio uccise tutti i primogeniti egiziani, ma salvaguardò quelli degli ebrei, le cui case erano segnate dal sangue dell'agnello (Es 13,14-16). Proprio per questa salvezza dei primogeniti degli ebrei, che non hanno subito la sorte di quelli egiziani, essi appartengono a Jhwh e vanno pertanto riscattati con un'offerta di cinque sicli d'argento versati al sacerdote (Nm 18,15-16).

Il v.24, dopo la sospensiva del v.23, riprende la narrazone e si apre con la congiunzione “kaˆ” (kaì, e), che lo lega al v.22, per cui si avrà che Maria e Giuseppe salirono a Gerusalemme per presentare Gesù al Signore …. “ed offrire un sacrificio secondo ciò che è stabilito nella legge del Signore, una coppia di tortore o due giovani di colombe”. L'apporre il sacrificio di due tortore o colombe conseguente alla salita di Gesù a Gerusalemme dove viene offerto al Signore, da un lato, sembra che Luca ritenga questo sacrificio di volatili quale riscatto sia della purificazione di Maria che della primogenitura di Gesù, per il quale invece era previsto il versamento di cinque sicli d'argento, di cui, invece, non parla. Al di là di questi aspetti tecnici, chiaramente erronei, c'è da chiedersi se qui Luca si sia veramente sbagliato o abbia invece voluto sviluppare una sua teologia, vedendo nell'offerta sacrificale delle due tortore o colombe, quella di Gesù, salito a Gerusalemme; mentre non avendo menzionato il riscatto della primogenitura con i cinque sicli d'argento abbia in qualche modo lasciato intendere come Gesù, primogenito dell'uomo, ma ancor prima del Padre, gli appartiene in assoluto, lasciando così intendere come l'agire di Gesù, proprietà eterna del Padre, sia lo stesso suo agire.

Quinto quadro: la risonanza della nascita di Gesù presso l'autentico Israele (vv.25-40)


Testo a lettura facilitata


Presentazione di Simeone

25 – Ed ecco c'era un uomo in Gerusalemme, il cui nome (era) Simeone, e questo (era) un uomo giusto e pio, che attendeva (la) consolazione d'Israele, e lo Spirito santo era su di lui.
26 – ed aveva avuto una rivelazione dallo Spirito Santo (che) non avrebbe visto la morte prima di aver visto l'unto del Signore.

Versetto di transizione: dalla presentazione del personaggio all'incontro con Gesù

27 – E andò nello Spirito al tempio; e i genitori nel portare dentro il bambino Gesù per fare loro ciò che è abitudine della legge su di lui

Il cantico dei Simeone, in cui si celebra il Messia, l'atteso dalle genti

28 – ed egli lo prese tra le braccia e benedisse il Signore e disse:
29 - <<Ora lascia andare il tuo servo, Signore, in pace secondo la tua parola;
30 – poiché i miei occhi videro il tuo salvatore,
31 – che hai preparato davanti alla faccia di tutti i popoli,
32 – luce per la rivelazione delle genti e gloria del tuo popolo Israele>>.

La profezia: il Messia quale elemento di discriminazione e di giudizio

33- E c'era suo padre e la madre che stupivano per le cose che si dicevano di lui.
34 – E Simeone li benedisse e disse verso Maria, sua madre: <<Ecco questi è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e a segno contraddicente.
35 – ed una spada attraverserà la tua stessa anima, affinché siano rivelati (i) pensieri da molti cuori.

Presentazione di Anna

36 – Vi era anche Anna, una profetessa, figlia di Fanuele, dalla tribù di Aser; questa era avanzata in molti giorni, avendo vissuto sette anni con un uomo dalla sua verginità
37 – ed essa (era) vedova fino ad ottantaquattro anni, la quale non si allontanava dal tempio, servendo notte e giorno con digiuni e preghiere.

La testimonianza di Anna

38 – E sopraggiunta in quel momento rendeva grazie a Dio e parlava di lui a tutti quelli che aspettavano la liberazione di Gerusalemme.

Conclusione

39 – E allorché portarono a termine tutte le cose secondo la legge del Signore, fecero ritorno nella Galilea, nella loro città di Nazareth.
40 – Ora, il bambino cresceva e si fortificava, riempito di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.


Note generali


Continua la lunga galleria di personaggi con cui Luca ha popolato il suo lungo prologo al vangelo. Personaggi come Erode il Grande, Cesare Augusto, Quirino, che creano un'esile cornice storica entro la quale l'autore colloca i suoi racconti, dando loro un aspetto di verosimiglianza. Personaggi dai nomi significativi, in cui riecheggia in qualche modo la stessa teologia lucana come quelli di Zaccaria (Dio si è ricordato); Elisabetta (Dio ha giurato); Giovanni (Dio fa misericordia); Gesù (Dio Salva). Nomi questi il cui significato richiama da vicino il cantico di Zaccaria (1,68-79). Nomi, ancora, come quelli di Maria31 (la prediletta), una predilezione che trova immediata conferma nel saluto dell'angelo Gabriele: “Rallegrati, riempita di grazia, il Signore (è) con te […] poiché trovasti grazia presso Dio” (1,28b.30b); Giuseppe (colui che è stato aggiunto), nel senso di un figlio che è stato aggiunto agli altri da Dio. Ma in quanto “aggiunto” egli lo è anche nella sua paternità, aggiunta a quella di Dio (Lc 3,23). Ed ora, qui, Luca continua il suo racconto con Simeone (colui che ascolta o si è messo in ascolto), un “uomo giusto e pio, che attendeva (la) consolazione d'Israele”. Simeone, dunque, colui che si è posto in attesa e in ascolto dello Spirito che agiva su di lui, lasciandosi condurre da lui (vv.25.27a); e accanto a lui compare Anna (grazia, misericordia), figlia di Fanuele (colei che ha visto Dio), dalla tribù di Aser (fortunato, beato). L'unico nome che è specificato da altri due nomi, che circoscrivono e identificano il personaggio come colei che Dio ha riempito della sua grazia e della sua misericordia (Anna); figlia della visione divina (Fanuele), per questo definita anche come profetessa, e appartenente ad una tribù fortunata, beata (Aser), poiché su questa è posta la benedizione di Dio.

Attorno a questi due ultimi nomi Luca costruisce due racconti, che descrivono la risonanza che ha avuto la nascita di questo bambino presso Israele. Essi vedono al loro centro due personaggi, un uomo ed una donna, come è nello stile di Luca, che tende a formare parallelismi e simmetrie, per creare, da un lato, una struttura narrativa equilibrata, che dia il senso della completezza e dell'armonia, secondo gli schemi della narrativa greco-ellenistica; dall'altro, per creare talvolta quel contrasto o quel accostamento destinati a dare compiutezza al suo pensiero teologico, come in questi due racconti: Simeone rappresenta il pio e giusto israelita, sempre vigilante e in paziente attesa della venuta del Messia promesso; un Israele che, proprio per la sua fedeltà (pio e giusto), si lascia guidare dallo Spirito di Dio e sotto la sua guida sa leggere e interpretare i segni dei tempi. Così come avviene per Anna, l'altra anima eletta di Israele, quella che occupa un posto di privilegio in mezzo al popolo, perché tutta dedita a Dio, a Lui consacrata, presso il quale vive e tale da divenirne voce. Anch'essa, come Simeone, possedendo, per la sua vicinanza a Dio, una spiccata sensibilità per le cose di Dio, sa riconoscere in quel bambino la Promessa fatta a Davide e, in quanto profetessa, si fa voce di Dio in mezzo al popolo e ne dà testimonianza.

Con questo quinto quadro, giustapposto al precedente quarto quadro (vv.21-24), in cui Maria e Gesù sono sottoposti alle ritualità della Legge mosaica, citata tre volte, si entra ora nel mondo dello Spirito, anche qui menzionato per tre volte. Viene a formarsi, pertanto, un nuovo parallelismo contrapposto tra Legge e Spirito, che avrà la sua sintesi al v.27, dove Simeone si muove sotto l'azione dello Spirito, diversamente dai genitori di Gesù e dallo stesso Gesù, che invece si muovono ancora sotto l'imposizione della Legge. Un accostamento ed un contrasto che mette in rilievo il passaggio dal mondo della Legge mosaica a quello dello Spirito, già preannunciato da Ez 36,25-27. Sono dunque giunti i tempi escatologici, quelli segnati dall'azione dello Spirito e che il Gesù giovanneo rivelerà alla Samaritana (Gv 4,20-24).

La macrostruttura di questo quinto quadro è scandita in due parti, definite dalla presenza dei due personaggi: Simeone (vv.25-35) ed Anna (vv.36-38), seguite da una conclusione (vv.39-40). La prima parte, dedicata alla figura di Simeone, è articolata come segue:

    1. Presentazione di Simeone (vv.25-26);

    2. versetto di transizione: dalla presentazione del personaggio all'incontro con Gesù (v.27);

    3. Il cantico dei Simeone, in cui si celebra il Messia, l'atteso dalle genti (vv.28-32);

    4. La profezia: il Messia quale elemento di discriminazione e di giudizio (vv.33-35).

La seconda parte, dedicata ad Anna, composta da soli tre versetti (v.36-38), presenta una struttura più semplice, ma che comunque riproduce lo schema di quella di Simeone:

    1. Presentazione di Anna (vv.36-7);

    2. la testimonianza di Anna (v.38).

L'intero quadro si chiude con i vv.39-40.

Parte prima: il racconto di Simeone (vv.25-35)


La pericope formata dai vv.25-26 si apre con un “Kaˆ „doÝ” (Kaì idù, Ed ecco), narrativamente molto efficace, poiché crea un momento di sospensione nella dinamica del racconto, incentrando l'attenzione del lettore su quanto sta per accadere; mentre quel “Kaì” lega gli eventi che stanno per accadere a quanto è già avvenuto prima. Sulla falsariga di 1,5-7, in cui vengono presentate le figure di Zaccaria e di sua moglie Elisabetta, Luca descrive, ora, l'identità di Simeone con alcuni tocchi significativi. Egli è definito per due volte “uomo”, qui espresso in greco dal sostantivo “¥nqrwpoj” (ántzropos), un termine generico per definire l'uomo in senso generale, un uomo qualsiasi, senza una particolare identità se non quella fornita dall'autore stesso. Simeone, pertanto, diviene il rappresentante di una determinata categoria di persone. Egli abita in Gerusalemme, la città santa, il luogo della dimora di Dio (Sal 75,3; 134,21), dove si celebra il vero culto a Jhwh (Sal 64,2; 101,22; 147,1); essa è il luogo messianico da cui uscirà la salvezza per tutte le genti (Is 2,3), ma in particolar modo è per Luca il punto di arrivo del lungo viaggio fatto compiere a Gesù (9,51-19,28), dove si attueranno i misteri della salvezza. Simeone, dunque, viene qui associato a Gerusalemme ed è pertanto collocato nel cuore delle promesse, dell'Alleanza, delle attese, della speranza e del messianismo. Egli è fatto gravitare attorno alla santità di Dio, a cui appartiene perché “giusto e pio”; due termini che qualificano quest'uomo come fedele alla Torah (giusto) e alla sua pratica (pio). Similmente anche Zaccaria ed Elisabetta vengono definiti “giusti davanti a Dio, camminando irreprensibili in tutti i comandamenti e le prescrizioni del Signore” (1,6). Ed è proprio questa sua configurazione che lo qualifica come il “Simeone”32, cioè l'uomo che si pone in ascolto; un ascolto che Luca definisce con l'espressione: “che attendeva (la) consolazione d'Israele”. Il verbo è qui posto all'imperfetto indicativo, che dice il persistere, il protrarsi con insistenza dell'azione espressa dal verbo stesso e tale da definire un atteggiamento di vita. È significativo, infatti, come l'attesa di Simeone sia espressa in greco da un participio presente: “prosdecÒmenoj” (prosdecómenos), letteralmente “l'attendente”, che sottolinea la natura propria di questo uomo, che ha per nome “colui che ascolta o che si pone in ascolto”; un nome che definisce l'essenza della sua stessa persona33. Ma il verbo qui usato (prosdecómenos) dice molto di più di una semplice attesa. Esso, infatti, significa non solo attendere, ma anche “accogliere, accettare, ricevere”. La sua attesa, pertanto, si qualifica come un'attesa accogliente, pronta a riconoscere e a ricevere da Jhwh il dono del Messia, colui che avrebbe portato la “consolazione di Israele”. Un'espressione quest'ultima in cui risuonano le parole del deuteroisaia 40,1-2, rivolte al popolo in esilio a Babilonia (597-538 a.C.): “Consolate, consolate34 il mio popolo, dice il vostro Dio. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità, perché ha ricevuto dalla mano del Signore doppio castigo per tutti i suoi peccati”. Un annuncio di grande impatto, che si muove su di uno sfondo messianico, che animava le attese di Israele per una sua imminente liberazione, prodromo alla difficile ricostituzione del suo regno nella terra della Promessa, calpestata, durante i sessant'anni di esilio, da pagani e contaminata da culti idolatrici; ma ciò che più importava, era la ricostruzione del Tempio (520-515 a.C.) e la ricostituzione del vero culto a Jhwh nella sua purezza, poiché anche questo era stato inquinato da forme cultuali idolatriche. Una liberazione quindi in funzione di un nuovo culto a Jhwh, celebrato in un nuovo Tempio (Ez 40-43), in una Terra Promessa purificata dalle infedeltà e rigenerata dal lungo esilio babilonese, che ha restituito soltanto un piccolo resto d'Israele35, quello fedele alla Torah e all'Alleanza (Ez 36,24-31). È questa in sintesi la visione messianica e le attese messianiche che hanno sempre accompagnato e sostenuto nel suo cammino Israele e che hanno la loro lontana matrice nella liberazione del popolo ebraico, affrancato dalla schiavitù egiziana per poter celebrare il culto a Jhwh (Es 3,18; 5,3; 8,23) e costituito nella sua nuova identità ai piedi del monte Sinai, quale proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6). Tutto questo è racchiuso nelle attese di Simeone; tutto questo formava “la consolazione di Israele”, attesa dalla venuta del Messia.

Il v.25 si chiude attestando la presenza dello Spirito Santo su Simeone; una presenza che domina l'intero prologo lucano e gli inizi del suo racconto36, lasciando intendere come ormai siano giunti gli ultimi tempi, quelli escatologici, in cui il dominio della Legge sarebbe stato sostituito da quello dello Spirito, che avrebbe pervaso i cuori dei fedeli, rigenerandoli spiritualmente, imprimendo in loro il senso di Dio e della sua volontà (Ez 11,19-20; 36, 24-27); mentre un diffuso profetismo ne sarebbe stato il segno (Gl 3,1-2): “e lo Spirito Santo era su di lui”. Simeone, pertanto, è posto sotto l'egida dello Spirito, si muove sotto il suo impulso (v.27a), ha visioni e rivelazioni (vv.26.34-35) e come ogni profeta dà la sua testimonianza, lasciando spazio in se stesso alla Parola e facendola risuonare attorno a sé (vv.29-34).

Il v.26 conferma la condizione di privilegio in cui vive Simeone e il suo particolare rapporto con Dio, che corona la sua vecchiaia e l'intera sua vita, spesa nella lunga attesa del Messia, con la sua stessa visione. È il premio che il salmista riserva ai giusti, agli assetati di Dio, verso cui il loro spirito anela giorno e notte (Sal 1,2; 41,2-3). Si noti l'accostamento che Luca fa tra la visione della morte di Simeone e la visione del Messia; una visione del Messia che in qualche modo è associata alla morte. Ciò che qui rileva è la giustapposizione dei due termini morte-Messia, che troverà una sua eco al v.35, dove una spada attraverserà l'anima di Maria, alludendo alla morte di Gesù.

Il v.27 forma inclusione con il v.39, data dal movimento uguale e contrario dei genitori di Gesù, che al v.27b entrano nel Tempio per compiere quanto disposto dalla Legge; mentre al v.39 escono dal Tempio dopo aver compiuto quanto stabilito dalla Legge; nonché dallo stesso termine “Legge”, che si ripete in entrambi i versetti. All'interno di questa inclusione, dominata dalla Legge, si collocano le due testimonianze di Simeone e di Anna sul bambino, entrambi posti sotto l'azione dello Spirito, quasi a dire che all'interno del mondo veterotestamentario, caratterizzato dalla Legge mosaica, sta nascendo e si sta muovendo un nuovo mondo, quello dello Spirito, la cui funzione non è il sopprimere la Legge, ma darne compimento, assegnandole un nuovo senso e un nuovo ruolo (Mt 5,17.20-40).

Il v.27 evidenzia due movimenti, di Simeone e dei genitori di Gesù, entrambi convergenti nel Tempio, ma ciò che li distingue sono le due diverse e contrapposte motivazioni che spingono Simeone e i genitori di Gesù a ritrovarsi nel Tempio: il primo è mosso dallo Spirito; i secondi sono mossi dagli obblighi imposti loro dalla Torah. Il Tempio, il luogo della presenza di Dio, dove l'uomo incontra il suo Dio e con lui si rapporta, è il loro comune luogo d'incontro, ma diversi sono i comportamenti che li animano, perché diverse sono le dimensioni a cui essi appartengono e da cui provengono: quella della Legge e quella dello Spirito, che dettano le regole del gioco, del come concepire Dio e del come rapportarsi a Lui. Il Gesù giovanneo nel suo dialogo con la Samaritana mette a fuoco queste diversità: la vera adorazione di Dio, quella gradita dal Padre, non è più legata ad un luogo e ad adempimenti e prescrizioni di Legge, ma si radica nel cuore dell'uomo ed è conforme alle esigenze dello Spirito, che è Verità (Gv 4,20-24). Due realtà, dunque, completamente diverse, ma non opposte e inconciliabili tra loro. Il v.28, infatti, mette a fuoco l'incontro di Simeone con il Messia promesso e a lungo atteso: “ed egli lo prese tra le braccia e benedisse il Signore”. Quel “prendere tra le braccia” dice l'accoglienza da parte della nuova dimensione, quella dello Spirito, entro cui Simeone già si muove (v.27a) e appartiene (v.25c), della vecchia dimensione, a cui non solo i genitori, ma lo stesso Gesù appartiene ancora, in quanto sottoposto ancora alla Legge (vv.27b.39a). Gesù, infatti, riceverà per la prima volta lo Spirito Santo nel racconto del battesimo (3,22). Soltanto dopo questo evento consacratorio, in cui il Padre riconosce nell'uomo Gesù suo Figlio, Gesù è definito da Luca come pieno di Spirito Santo e soltanto ora Luca dirà che Gesù si muove, come il vecchio Simeone, nello Spirito Santo (v.4,1); soltanto dopo questo evento Gesù stesso riconoscerà, usando le parole di Is 11,2a, che lo Spirito Santo è su di lui. Ma prima di questo momento il Messia promesso appartiene ancora al mondo veterotestamentario, il mondo della Legge. Paolo ricorderà proprio questo momento in Gal 4,4-5: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli”. Era dunque necessario che Gesù passasse attraverso il giogo della Legge , per poter liberare da tale giogo tutti i credenti (At 15,10; Gal 5,1), attirandoli a sé sulla croce (Gv 12,32), sulla quale e per mezzo della quale lo ha distrutto (Ef 2,14-15). Una necessità sulla quale lo stesso Luca, alla pari di Paolo, suo compagno di viaggi e in qualche modo di pensiero, ha insistito sia nella precedente pericope (vv.21-24) che qui (vv.27b.39). Ora, in questo abbraccio tra Simeone e Gesù sono due dimensioni che si incontrano e si abbracciano e l'una, quella di Simeone, attrae a sé e in sé l'altra, quella di Gesù, preannunciandone in qualche modo il pieno compimento, ricordato da Mt 5,17. D'ora in poi, le abluzioni purificatrici non avverranno più tramite l'acqua, ma per mezzo dello Spirito (3,16), di cui l'acqua era soltanto una prefigurazione (Gv 3,5-6); mentre Gesù, ripieno dello Spirito, diverrà l'elemento di discriminazione (v.34), ma anche di riconciliazione di due realtà, che in lui si ricompongono, facendo delle due un'unica nuova realtà (Ef 2,14-16).

Introdotto dal v.28 Luca pone ora sulle labbra di Simeone l'ultimo cantico (2,29-32), dopo quello di Elisabetta (1,41-45), di Maria (1,46-55) e di Zaccaria (1,68-79). Tutti cantici sono preceduti dall'annotazione che i relativi personaggi sono sotto l'azione dello Spirito. Pertanto ciò che in esso è celebrato è anche rivelazione del Mistero, che si manifesta in quegli eventi storici, apparentemente insignificanti, ma che comunque rientrano nel progetto salvifico di Dio.

Il cantico di Simeone (vv.29-32) si sviluppa in tre parti: la prima (vv.29-30) costituisce la ripresa del v.26, in cui si dice che Simeone “aveva avuto una rivelazione dallo Spirito Santo (che) non avrebbe visto la morte prima di aver visto l'unto del Signore”. Ora il suo abbraccio con il Messia (v.28) ha adempiuto questa profezia; nulla più, dunque, lo trattiene dal suo abbraccio definitivo con l'eternità di Dio, poiché la sua lunga e paziente attesa, vissuta nella speranza, si è realizzata. Il cantico, pertanto, si apre con un'invocazione, affinché quella profezia si adempia pienamente: “Ora lascia andare il tuo servo, Signore, in pace secondo la tua parola; poiché i miei occhi videro il tuo salvatore”. Parole non nuove, che l'autore ha ripreso dalla risposta di Maria all'angelo: “Ecco la serva del Signore; mi avvenga secondo la sua parola” e che qui ha riadattato. Tutto avviene secondo la parola; quella parola che ha segnato profondamente la vita di Maria e di Simeone, trasformandoli in “servi”, un titolo questo che mette sia Maria che Simeone sulla linea dei grandi personaggi della storia della salvezza a cui questo titolo è riservato: Mosè, Giosuè e Davide, personaggi che hanno collaborato con Dio al suo progetto di salvezza, divenendone dei capisaldi37. La seconda parte (v.31), a mo' di concatenazione, riprende l'ultimo termine con cui si conclude il v.30, “il tuo salvatore” e ne dà spiegazione di senso: “che hai preparato davanti alla faccia di tutti i popoli”. Un salvatore che è stato “preparato”, lasciando trasparire in quel “preparato” un progetto di salvezza a cui è destinato quel bambino, che già come tale è stato presentato ai pastori (v11a) e la cui missione salvifica assume qui una valenza universale: “davanti alla faccia di tutti i popoli”. Una missione che già in qualche modo era stata profetizzata da Is 40,5: “Allora si rivelerà la gloria del Signore e ogni uomo la vedrà, poiché la bocca del Signore ha parlato” e così similmente in Is 52,10: “Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio”. Annunci profetici che Luca riprenderà e sintetizzerà in 3,6: “Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio”. Luca, come Paolo, è il missionario delle genti, egli stesso è un etnocristiano, ma nel contempo sa che la salvezza proviene dai Giudei (Gv 4,22b), per cui ecco la terza parte (v.32), che riprende la seconda e qui precisa come si compone quell'universalità, che riguarda “tutti i popoli”: “luce per la rivelazione delle genti e gloria del tuo popolo Israele”. “Genti ed Israele” erano i due universi in cui il giudaismo divideva il mondo: i Giudei, eredi della promessa a cui era destinata la salvezza e da cui doveva uscire il Messia; e il mondo dei pagani o dei gentili ai quali, invece, la salvezza era negata e che erano causa di contaminazione per i Giudei (Gv 18,28). Una divisione riconosciuta anche da Paolo38, convinto come la salvezza fosse riservata ai Giudei, ma la cui genialità lo porta a comprendere come questa separazione, sancita dalla Torah, e fatta di leggi e prescrizioni, viene superata in Cristo, che dei due popoli, per loro natura irriducibili l'uno all'altro e tra loro inconciliabili, ha fatto un solo popolo, una nuova creatura39. Questa salvezza universale si attua presso il mondo dei pagani come primo annuncio di salvezza, che li apre ad un mondo a loro del tutto sconosciuto. Questo bambino, pertanto, viene presentato come “luce per la rivelazione”; un'espressione questa che potremmo leggere come una sorta di endiadi: “luce che è la rivelazione”. Ma tutto ciò non diviene un disconoscimento di Israele o uno suo sminuimento, anzi ne diviene gloria, poiché in ciò si realizza la visione messianica dei profeti40, che il salmista così ricorda: “Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome” (Sal 85,9). In tutto ciò Israele è e rimane sempre proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa (Es 19,5-6); un popolo consacrato al Signore (Dt 7,6), chiamato a diffondere la gloria del Signore in mezzo a quelle genti tra le quali era stato disperso (Tb 13,3-4). Il bambino, pertanto, che è luce per tutte le genti, proviene dai Giudei ed è il frutto della promessa, il vertice delle attese messianiche, il luogo della Shekhinah, della gloriosa presenza di Jhwh in mezzo al suo popolo, per questo viene qui presentato come “gloria del suo popolo Israele”. Un'espressione quest'ultima che si muove sullo sfondo di Is 60,1-3: “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla sopra di te. Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra, nebbia fitta avvolge le nazioni; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno i popoli alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”. Gloria, dunque, che da Israele si estende su tutti i popoli, divenendo per tutti luce di Verità.

Segue ora il v.33 che potremmo considerare di transizione, poiché trasferisce il lettore dallo splendore del cantico di Simeone ad un contesto in cui le luci della ribalta si sono spente per dare nuovamente spazio a Giuseppe e Maria, che fungono qui, da un lato, come cassa di risonanza del canto di Simeone; dall'altro, come personaggi i quali verranno ora coinvolti nella profezia di Simeone (vv.34-35): “E c'era suo padre e la madre che stupivano per le cose che si dicevano di lui”. Torna nuovamente lo stupore quale reazione dell'uomo di fronte al manifestarsi del Mistero di Dio, come già è avvenuto in 1,63, allorché Zaccaria conferma, contro le attese di tutti, che il nome del bambino è Giovanni; così come avviene in 2,18 dove tutti stupirono di fronte alla testimonianza dei pastori; e ora qui di fronte al rivelarsi della vera natura di questo bambino.

Benché mitigati dal v.33, che li introduce, ci si trova ora, bruscamente e inaspettatamente, di fronte ai vv.34-35, che presentano un contesto esattamente opposto a quanto proclamato da Simeone nel suo cantico, tanto da far pensare ad una tardiva inserzione. Il passaggio qui è duro, ma costituisce l'altra faccia della medaglia, che prelude agli effetti della missione di questo bambino in mezzo al popolo. La profezia, posta sotto l'egida dello Spirito Santo (v.25c), è scandita in due momenti: la prima, v.34, riguarda strettamente la missione di Gesù: “Ecco questi è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e a segno contraddicente”. Gesù si porrà in mezzo al suo popolo e in mezzo alle genti come elemento di discriminazione. La sua presenza diviene un giudizio, poiché i suoi contemporanei, così come quelli che si succederanno lungo i secoli, loro malgrado, sono chiamati a prendere posizione di fronte al suo annuncio e in base alla risposta che essi daranno si determineranno i loro destini di salvezza o di condanna. Sarà una presenza scomoda e segno di contraddizione, poiché il messaggio, che questo bambino porta con sé e destinato a tutti gli uomini, va nella direzione opposta a quella dell'umanità, divenendone così motivo di scandalo. Già lo aveva predetto il deuteroisaia: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie [...]. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is 55,8-9). Ed è proprio per questa sua posizione, che contraddice l'orientamento esistenziale dell'uomo, gravemente segnato dalla colpa, che questo bambino diviene elemento di disturbo per le logiche umane. Per questo egli verrà condannato alla morte di croce, un patibolo riservato ai rivoltosi. Ed è proprio questo il grande dolore che trafiggerà l'anima di Maria, che qui Luca, come in Gv 19,25, associa in qualche modo alla passione e morte di suo figlio. Una morte ignominiosa, scandalosa e vergognosa di fronte alla quale il credente è posto a dura prova, come i due discepoli di Emmaus, che si aspettavano da questo messia la ricostituzione del regno di Israele e la cacciata dei romani: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (24,21). Delusione e amarezza di fronte al duro giudizio della croce che spegne ogni attesa e ogni speranza e che porta a riconsiderare la posizione di questo falso messia. La croce, dunque, anche questa segno di contraddizione delle logiche umane, è posta lì “affinché siano rivelati (i) pensieri da molti cuori”. E Paolo vede proprio nella croce la sapienza di Dio, perché pone fine a tante aspettative e tanti ragionamenti, andando al cuore del problema: credi nonostante tutto o cerchi altre assicurazioni?: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor1,18-24). Lo scandalo della croce, quindi, mette ogni uomo con le spalle al muro, costringendolo a fare la sua scelta radicale: o con me o contro di me (11,23), portando allo scoperto i suoi pensieri più reconditi.

Parte seconda: il racconto di Anna (vv.36-38)

Per la legge dei parallelismi, a cui Luca come ellenista sembra essere molto sensibile, viene ora presentata, accanto a quella di Simeone, la figura di Anna, definita profetessa e, quindi, anche lei investita dall'azione dello Spirito, che dà peso alla sua testimonianza (v.38). Con questa figura Luca chiude la galleria dei suoi personaggi, usciti dalla sua fantasia creatrice per illuminare e meglio definire l'identità di questo bambino. L'attenzione ad Anna si risolve tutta in tre versetti. Essa viene presentata come una sorta di spalla di Simeone, una figura aggiunta, come sembra suggerire sia quel “anche” (Kaˆ, Kaì, anche), con cui si apre il v.36, che il v.38a: “E sopraggiunta in quel momento”, cioè nel momento in cui Simeone stava profetizzando a Maria e Giuseppe il destino del bambino e della stessa Maria (vv.34-35). Essa, quindi, non solo è “sopraggiunta”, ma è, rispetto a Simeone, anche aggiunta. Vi è, pertanto, con la figura di Anna una sovrapposizione di personaggi, il cui intento sembra essere quello di meglio evidenziare la figura di Simeone, il suo cantico e la sua profezia. La figura di Anna, pertanto, è funzionale rispetto a quella di Simeone. Come per Simeone, Zaccaria ed Elisabetta, Luca dedica ad Anna i vv.36-37, che delineano la sua identità: essa è una donna, che dopo la sua vedovanza, consacra per intero la sua lunga esistenza a Dio. Ma, a differenza di Simeone, essa non vive a Gerusalemme, ma nel Tempio, il cuore pulsante di Gerusalemme: essa, infatti, “non si allontanava dal tempio, servendo notte e giorno con digiuni e preghiere”. Un'espressione questa che dice la sua totale dedizione a Dio e la sua profonda comunione con Lui. Lo sfondo biblico, su cui viene costruita la figura di Anna, sembra essere qui quello dei Sal. 22,6; 26,4; 133,1 e 134,2. Non è da escludersi, a mio avviso, che sul racconto di Anna abbia in qualche misura influito anche il racconto del piccolo Samuele, consacrato a Dio fin dalla sua giovanissima età e che viveva nel tempio giorno e notte, servendo fedelmente il sacerdote Eli (1Sam 2,21a.26; 3,1.3).

L'importanza di Anna si esaurisce tutta nel v.38, in cui lei, mossa dallo Spirito, in quanto profetessa, dà testimonianza sul quel bambino, fungendo in qualche modo da eco alle parole di Simeone.

I vv.39-40 concludono questa prima ampia sezione riguardante la nascita di Gesù. Il v.39a, come si è già visto sopra (pag.29), forma inclusione con il v.27b per il movimento uguale e contrario: là si entra nel Tempio per compiere le cose previste dalla Legge; qui se ne esce dopo averle compiute. Un'inclusione rafforzata anche dalla presenza del termine Legge che compare in entrambi i versetti. La seconda parte del v.39 vede il ritorno della famiglia di Gesù a Nazareth in Galilea, la sua terra di origine. Qui Luca segue la tradizione di Mt 2,22-23, pur modificandone le motivazioni. Per Luca Gesù torna a Nazareth di Galilea perché vi abita. Per Matteo, invece, la scelta fu imposta dalla presenza di Archelao, il figlio di Erode il Grande, succeduto al padre nel governo della Giudea, e noto, come suo padre, per la sua crudeltà, tale da far intervenire lo stesso Cesare Augusto, che lo detronizzò nel 6 d.C. e lo esiliò a Vienne.

Il v.40 ricalca lo standard dei racconti riguardanti i personaggi, come avvenuto in 1,80 per Giovanni. Qui, come al v.52, che si riallaccia a questo v.40 con l'espressione “E Gesù progrediva”, dandone una sorta di continuità narrativa, Luca riprende sostanzialmente 1Sam 2,26: “Invece il giovane Samuele andava crescendo in statura e in bontà davanti al Signore e agli uomini”. Un ulteriore indizio che lascia pensare come nel breve racconto di Anna, appena qui sopra concluso, Luca abbia pensato a quello del piccolo Samuele. La crescita di Gesù rientra nelle logiche naturali di tutti i bambini e quei due verbi posti all'imperfetto indicativo dicono il regolare sviluppo di questa crescita persistente nel tempo, che qui Luca non vede soltanto in senso fisico e naturale, ma anche morale e spirituale. Il bambino, infatti, è “riempito di sapienza”, in cui la sapienza va intesa come l'intelligenza delle cose di Dio. Is 11,2, che verrà richiamato da Lc 4,18a, assomma, infatti, la sapienza all'intelligenza e alla conoscenza di Dio. Vengono qui delineati gli interessi e l'orientamento esistenziale di questo bambino, che gravitano attorno alla conoscenza delle cose del Padre, al cui mondo egli appartiene e da cui proviene (1,32a.35). Per questo egli è posto “sotto la grazia di Dio”, che qui vale per “sotto la personale tutela di Dio”, in cui la grazia si configura come una “benefica azione divina”, che favorisce e incide sulla crescita di questo bambino.

Sezione B: eventi riguardanti l'infanzia di Gesù (vv.41-52)

Testo a lettura facilitata

L'antefatto e il contesto pasquale

41 – E i suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di pasqua.
42 – E allorché fu di dodici anni, essendo essi saliti, secondo l'usanza della festa,
43 – ed avendo terminati i giorni, nel ritornare essi, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, e i suoi genitori non (lo) seppero.
44 – Ora, avendo pensato che egli fosse nella comitiva, percorsero la strada di un giorno e lo ricercavano tra i parenti e quelli che conoscevano,
45 – e non trovato(lo), tornarono indietro a Gerusalemme, ricercandolo.

L'evento rivelativo

46 – Ed avvenne (che) dopo tre giorni lo trovarono nel tempio seduto in mezzo ai maestri e mentre li ascoltava e li interrogava;
47 – Ora, tutti quelli che lo ascoltavano erano fuori di sé dallo stupore per la sua perspicacia e le sue risposte.
48 – E vedendolo, rimasero sbalorditi, e disse verso di lui la sua madre: <<Figlio, perché ci ha fatto così? Ecco tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo>>.
49 – E disse verso di loro: <<Che cosa (c'è), perché mi cercavate? Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?
50 – Ed essi non compresero la parola che disse loro.


La conclusione

51 – E scese con loro e andò a Nazareth ed era sottomesso a loro. E sua madre conservava tutte queste parole nel suo cuore.
52 – E Gesù progrediva (nella) sapienza e (in) età e grazia preso Dio e gli uomini.


Premessa

Il racconto è incluso tra i vv.40.52 in cui si parla della crescita di Gesù (v.40) e del suo graduale sviluppo (v.52). Il Racconto, pertanto, è segnato da un progressivo divenire storico del bambino Gesù, che al v.40 si è lasciato in fasce, mentre qui lo si ritrova all'età di dodici anni, alla soglia della sua adolescenza, creando in tal modo un continuum narrativo che dalla nascita approda alla preadolescenza di Gesù. Nascita e preadolescenza di Gesù che l'autore ha incorniciato all'interno di due accadimenti di rilevanza storica41: la prima, posta sotto l'egida di un evento universale, il censimento di Cesare Augusto, che la indicava intorno al 7/6 a.C.; e la seconda, posta all'interno del censimento della Siria sotto Quirino, nel 6 d.C., allorché Gesù aveva dodici anni. La citazione dell'età di Gesù, con cui si apre questo racconto, non è casuale, poiché questa indica il momento importante, presso il mondo ebraico, del passaggio dall'infanzia all'età religiosamente adulta, in cui il bambino assumeva un ruolo di rilievo all'interno della vita religiosa della comunità: egli poteva leggere nella sinagoga la Torah e poteva anche commentarla pubblicamente (forse anche a questo alludono i vv.46-47); la sua presenza era considerata valida come minyan, cioè il numero minimo di dieci persone adulte, perché una preghiera pubblica potesse essere praticata validamente; era responsabile dell'osservanza delle Halakhah, cioè la normativa della Tradizione ebraica; era chiamato ad osservare i 613 precetti, che scandiscono la vita del pio ebreo, facendone una sorta di persona consacrata. Si tratta, dunque di un momento importante, che qui crea un legame compiuto con i vv.21-24, dove si parla delle primissime pratiche di introduzione all'ebraismo di Gesù, che prevedeva tre passaggi: la circoncisione, il riscatto con cinque sicli d'argento, in quanto primogenito e il bar mitzvah o figlio del comandamento, intorno all'età di 12/13 anni42. Di certo qui Luca non richiama esplicitamente il bar mitzvah in senso tecnico, termine questo che comparirà per la prima volta nel Talmud soltanto per indicare una persona soggetta alla Legge, ma si riferisce alla Tradizione ebraica che, secondo alcuni insegnamenti, sembra legarlo a Gen 21,8, allorché “Il bambino crebbe e fu svezzato e Abramo fece un grande banchetto quando Isacco fu svezzato”. Una Tradizione che ha una sua eco anche in Pirqei Avot (200 d.C.)43 o Capitoli dei Padri in 5,24: “Egli affermava: a cinque anni si studia la bibbia; a dieci anni la Mishnah; a tredici anni si adempiono i precetti; a quindici anni si studia il talmud; a diciotto anni si prende moglie; a venti anni si provvede ai mezzi di sussistenza; a trenta anni è l'età' del vigore, a quaranta anni della maturità, a cinquanta del consiglio; a sessanta della vecchiezza, a settanta della canizie; a ottanta arriva colui che e' dotato di una fibra eccezionale; a novanta si cammina ricurvi; a cento anni si e' come se si fosse già' morti e scomparsi dal mondo”. Luca dunque sembra scandire la vita di Gesù in varie tappe importanti: a otto giorni la circoncisione (v.21), il suo riscatto e presentazione al tempio a quaranta giorni (vv.22-24), a dodici anni la sua entrata responsabile nella comunità religiosa ebraica ad ogni effetto e a trenta anni, l'età del vigore, come recita il qui sopra citato Pirqei Avot, l'inizio della sua attività missionaria: “Gesù quando incominciò il suo ministero aveva circa trent'anni ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli” (3,23). Tutto avviene, quindi, in conformità alla Legge e alle Tradizioni. A questo allude probabilmente quel “de‹” (deî, bisogna) del v.49b, che dice come la vita di Gesù si muova secondo un piano prestabilito del Padre, il quale prevede che Gesù venga sottoposto alla Legge in ogni aspetto della sua vita e che porterà Paolo, in Gal 4,4-5, a riflettere proprio su questo: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli”. Con questo racconto si chiude pertanto l'iniziazione di Gesù all'ebraismo, dal cui interno si apre una nuova dimensione per questo giovane ebreo: “Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?” (v.49b), che formerà da guida e da chiave di lettura dell'intero racconto lucano, alle cui soglie è posto.

Se la natura di questo breve racconto è chiaramente rivelativa e trova il suo vertice al v.49, tuttavia non pochi esegeti vi intravedono una marcata allusione alla passione, morte e risurrezione di Gesù. Altri esegeti, invece, la escludono categoricamente. Nondimeno, da un'attenta analisi del racconto, si possono agevolmente rilevare numerosi elementi che aprono a questa ipotesi, che mi trova personalmente d'accordo. L'evangelista qui parla, infatti, di un viaggio di Gesù a Gerusalemme (v.41), che formerà, poi, un'ampia e consistente sezione narrativa del vangelo lucano (9,51-19,28), in cui l'autore continuamente richiamerà la meta verso cui Gesù è diretto44; il contesto in cui avviene questo viaggio è quello pasquale (v.41), lo stesso in cui egli morirà e risorgerà, compiendo il suo transito verso il Padre e di cui si parlerà in 9,31; Gesù non torna con i suoi, ma rimane a Gerusalemme (v.43b), dove si compiranno i misteri della salvezza; un distacco che prelude ad un altro ben più doloroso e definitivo; Gesù viene perduto e ritrovato dopo tre giorni (vv.45-46), in cui il “perduto” allude alla sua passione e morte, mentre l'essere “ritrovato” al terzo giorno45 allude alla sua risurrezione; lo stesso dialogo tra Gesù e Maria, impostato sul tema del “cercare” (vv.48b-49), richiama da vicino le parole dei due angeli alle donne, recatesi alla tomba rinvenuta vuota: “Perché cercate il Vivente tra i morti?”; Gesù è collocato nel Tempio a dibattere con i maestri (vv.46b-47), che in qualche modo richiama il suo dibattimento processuale davanti alle autorità religiose (vv.22,66-71), che si concluderà con la sua condanna a morte. La stessa sua affermazione rivelativa al v.49b fornisce una chiave di lettura del senso del suo patire, morire e risorgere: tutto ciò è conforme al prestabilito disegno del Padre (“de‹”: deî, bisogna). Ad esso Gesù si conforma, essendo egli pienamente addentro alle cose del Padre, da cui dipende e trae la sua vera origine divina. Tutto ciò getta una luce nuova sui tragici eventi del Golgota e della tomba scoperchiata e vuota. Troppi, quindi, gli elementi tra loro concordanti e concatenati per escludere categoricamente le intenzioni di Luca. Elementi che, peraltro, non hanno bisogno di particolari interpretazioni, ma sono facilmente raggiungibili intuitivamente.

La struttura di questo racconto viene scandita in tre parti, come già si evince dalla sezione della “Lettura facilitata”: a) L'antefatto e il contesto pasquale (vv.41-45), b) l'evento rivelativo (vv.46-50), c) la conclusione (vv.51-52).

Commento ai vv.41-52

L'antefatto e il contesto pasquale (vv.41-45)

I vv.41-45 sono scanditi in due parti: la prima (vv.41-43) racconta il consueto pellegrinaggio annuale della famiglia di Gesù a Gerusalemme in occasione della Pasqua; la seconda parte (vv.44-45) la scoperta, ormai sulla strada del ritorno, che Gesù non era né con i suoi genitori né con conoscenti. Pericope estremamente densa di eventi nella sua prima parte; incredibile nella seconda, che apre a numerosi interrogativi: possibile che i due genitori siano stati così sprovveduti e superficiali da non accertarsi dove fosse il loro figlio, primogenito ed unico, prima di partire? Possibile che si accorgano soltanto dopo un giorno di cammino che Gesù non è con loro? Possibile che un ragazzino, poco più che un bambino, se ne stia tranquillamente per tre giorni di seguito nel Tempio a dibattere con i maestri della Legge, senza minimamente preoccuparsi della sua famiglia? E per tutto questo tempo chi gli dava da mangiare e da dormire? E dopo il dibattimento dove andava? Che cosa faceva? Possibile che all'incontro con i genitori non ci sia stato un abbraccio o una lacrima di commozione? Com'è possibile che questo bambino, tratteggiato qui come un adulto navigato e di consumata esperienza, si sia mostrato del tutto indifferente alle ansie e ai rimbrotti dei suoi genitori, anzi è lui che li redarguisce? Si potrebbe continuare a lungo con questi interrogativi, ma Luca qui non sta facendo la cronaca di uno spiacevole incidente, ma fa della teologia rivelativa e costruisce il suo racconto in funzione di questa e non certo per soddisfare la curiosità dei suoi lettori e tantomeno le logiche della critica moderna. Continuare sulla strada degli interrogativi significa non andare da nessuna parte. Qui si deve seguire il pensiero dell'autore e i suoi intenti.

L'osservanza scrupolosa della Torah da parte della famiglia di Gesù già è stata ampiamente provata ai vv.21-24 e rimarcata in 27b e 39a. Qui al v.41 se ne sottolinea la pietà, la fedele e perseverante esecuzione, che in qualche modo scandisce le loro vite: “E i suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di pasqua”. L'uso dell'imperfetto indicativo dice il protrarsi insistentemente di questo loro appuntamento annuale che imponeva loro Es 23,14-17 e Dt 16,16. I testi qui citati prevedono che “Tre volte all'anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore tuo Dio, nel luogo che Egli avrà scelto: nella festa degli azzimi, nella festa delle settimane e nella festa delle capanne; nessuno si presenterà davanti al Signore a mani vuote” (Dt 16,16). L'obbligo di un pellegrinaggio “nel luogo che Egli avrà scelto”, cioè nel Tempio di Gerusalemme, gravava esclusivamente sui maschi, pur non venendo escluse le donne e i bambini o le intere famiglie, come nel caso della famiglia di Gesù. L'obbligo riguarda tre festività dislocate tra marzo-aprile o mese di nisan (festa della pasqua o degli azzimi ad essa strettamente collegata); tra maggio-giugno o mese di sivan (festa delle settimane o pentecoste); fra settembre-ottobre o mese di tishri (festa delle capanne). È significativo come qui Luca riporti la sola festa di pasqua che crea l'occasione e il contesto religioso e teologico entro cui viene collocato il loro salire a Gerusalemme, prefigurando in questo quel altro viaggio di Gesù verso Gerusalemme, che occuperà circa la metà del racconto lucano (9,51-19,28). Un viaggio, quello del Gesù dodicenne che viene indicato come “secondo l'usanza della festa” e quindi compiuto secondo le prescrizioni della Torah. Gesù, quindi, si conforma fin da subito a queste prescrizioni, che secondo l'ebraismo si identificano con la stessa volontà di Dio, che il pio ebreo è chiamato a fare e ad eseguire (Es 24,7), prefigurando la sua personale e unica conformazione alla volontà del Padre che verrà richiamata al v.49b.

I vv.42-43 sono letterariamente combinati in modo incredibile: una frase principale inframmezzata da ben quattro frasi ed espressioni, che riassumo sinteticamente e dinamicamente numerose vicende che hanno il loro vertice nella principale: “E allorché fu di dodici anni […] il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme”. Questo rimanere di Gesù a Gerusalemme al compiersi dei dodici anni, l'età della maturità religiosa e sociale e degli obblighi conseguenti, dice qual è il luogo della dimora di Gesù, dove troverà pieno compimento la volontà del Padre; luogo che diviene la porta del suo ritorno al Padre. Qui troverà definitivamente fine e compiutezza la missione che il Padre gli ha assegnato. Per questo il dodicenne Gesù, giunto a Gerusalemme, non torna indietro, ma rimane in conformità alla volontà del Padre (v.49b). Significativo il verbo che qui Luca usa per indicare il “rimanere” di Gesù a Gerusalemme: “Øpšmeinen” (ipémeinen), che tra le varie accezioni annovera anche “resistere, far fronte, sopportare, sostenere”. Il suo rimanere, pertanto, è denso di significati e lascia intravvedere la sofferenza del suo patire e morire in Gerusalemme, il luogo dove si compiranno i Misteri della salvezza. Per questo il v.43 si conclude affermando che “i suoi genitori non (lo) seppero”. Un'espressione quest'ultima che assume un duplice significato: narrativo, che spiega l'incredibile incidente di un ritorno senza Gesù; teologico, che spiega la totale inconsapevolezza sia di Giuseppe che di Maria dei destini del loro figlio. Inconsapevolezza che verrà confermata anche ai vv.48.50.51b. Inconsapevolezza, in ultima analisi, dell'identità stessa del loro figlio.

I vv.44-45 narrano lo smarrimento angoscioso di questa piccola comunità familiare di fronte al suo rendersi conto di aver perduto Gesù e che in qualche modo richiama e riproduce il dramma dei primissimi nuclei di credenti di fronte alla morte di Gesù e alla tomba vuota. Giovanni renderà bene questo senso di smarrimento iniziale della sua comunità allorché, aprendo il cap.20, quello della scoperta della risurrezione di Gesù, dirà che la Maddalena si recò al sepolcro “quando c'era ancora buio”. La ricerca di Maria e Giuseppe si muove su logiche umane: lo si cerca tra i parenti e i conoscenti, nella speranza di trovarlo tra loro, ma senza alcun esito. Per ritrovare Gesù è necessario “tornare indietro a Gerusalemme”. È lì, nel luogo del compiersi del Mistero, che si può trovare nuovamente Gesù. Ed essi lo ritroveranno mentre parla; lo scopriranno Parola che risuona nel Tempio; Parola che insegna; Parola che si impone tra lo stupore dell'antico insegnamento della Torah. È, in fondo, lo stesso percorso inverso che hanno fatto i due discepoli di Emmaus: “E alzatisi in quella (stessa) ora, ritornarono a Gerusalemme e trovarono gli undici riuniti e quelli con loro”. Per ritrovare Gesù, quindi, è necessario ritornare a Gerusalemme, all'interno della comunità credente, dove si spezza, ancor oggi, la Parola e il Pane.

L'evento rivelativo (vv.46-50)

Questa seconda parte del racconto si apre al v.46 con un verbo caro a Luca: “™gšneto” (eghéneto, accadde, avvenne). Essa compare allorché l'autore intende accentrare l'attenzione del suo lettore su di un evento importante che sta per accadere; un evento che ha che vedere con l'accadere della storia della salvezza. L'espressione, molto intensa, assume, pertanto, un significato non soltanto letterario, ma anche teologico. Ciò che accade è il ritrovamento di Gesù che viene inquadrato in una doppia e significativa cornice: temporale, “dopo tre giorni”; e spaziale “nel tempio in mezzo ai maestri”, in cui Gesù è colto dinamicamente: “mentre li ascoltava e li interrogava”. Il ritrovare Gesù “dopo tre giorni”, già lo si è visto sopra46, allude alla sua risurrezione, allorché, dopo lo smarrimento angoscioso della sua passione e morte, Gesù viene ritrovato dai suoi discepoli e scoperto come il Vivente (24,5b). La questione che qui, tuttavia, Luca affronta non è tanto la risurrezione di Gesù, allusa nel suo ritrovamento dopo tre giorni, quanto come questo Gesù lo si è ritrovato dopo i “tre giorni”: esso è ritrovato “nel tempio seduto in mezzo ai maestri”. Nel tempio in mezzo ai maestri e in questo bel mezzo egli è “seduto”. Tempio e maestri alludono al cuore del Giudaismo: culto e Torah. “In mezzo” a tutto ciò si colloca Gesù in un inequivocabile atteggiamento: “seduto”, la posizione, quest'ultima, caratteristica di chi insegna (4,20; 5,3b). In questa posizione Gesù è colto dinamicamente da Luca: “mentre li ascoltava e li interrogava”, i due parametri entro cui si muoveva il rapporto maestro-discepoli. Un rapporto che qui appare evidente fondato sulla Parola. Il Risorto, pertanto, si colloca all'interno del Giudaismo come la nuova Parola, il nuovo Insegnamento, la nuova Torah, destinata a prendere il posto dell'antico Insegnamento, che il Gesù marciano ha definito come “precetti di uomini” (Mc 7,7; Mt 15,9), mettendo in guardia i suoi discepoli da questo insegnamento (Mt 16,12). Ma anche la sua nuova Presenza di Risorto diviene il luogo del nuovo culto, che va reso nello Spirito e non più nel Tempio (Gv 4,20-24). Non a caso Luca, seguendo la tradizione sinottica, sottolineerà che alla morte di Gesù il velo del Tempio, quello che divideva il Santo dal Santo dei Santi, dove dimorava la Presenza di Jhwh, si squarciò, venendo meno la sua presenza (23,45), poiché nel Risorto si è venuto a costituire un nuovo Culto e un nuovo Insegnamento. Vedremo come Luca riprenderà questa immagine di 2,46 in 5,17: “Ed avvenne (che), in uno di quei giorni, egli ammaestrava, e c'erano seduti i farisei e i dottori della legge, che erano venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea e di Gerusalemme; e la potenza del guarire del Signore era su di lui”.

I vv. 47-50 descrivono la reazione dell'uomo all'irrompere dell'evento rivelativo nella storia (v.46). Una reazione che accomuna due categorie di persone: quelli che ascoltano (v.47) e quelli che vedono e ascoltano, ma non comprendono (vv.48-50). Ma diverse sono le motivazioni che causano lo stupore, poiché diversa è la lettura dell'evento rivelativo. I maestri, che stanno attorno a Gesù nel Tempio, sono “quelli che lo ascoltavano”. Si noti come qui Luca non li definisce scribi o farisei o dottori della Legge, ma semplicemente maestri. Il termine “did£skaloj” (didáskalos, maestro) in Luca ricorre diciassette volte di cui sedici attribuite a Gesù e una soltanto, qui, al plurale, assegnata a questi dottori della Legge, che in qualche modo vengono assimilati a Gesù per la loro disponibilità e capacità di ascolto accogliente della sua parola, che riconoscono proveniente da una Intelligenza e da una Sapienza superiori. Anzi è proprio questa che li colpisce profondamente e li sconvolge. Sullo sfondo di questo v.47 sembra esserci Mc 6,2: “Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: <<Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani?>>”. Non va mai dimenticato, infatti, che Luca sta costruendo il suo vangelo su quello di Marco47. Vedremo anche come questo v.47 verrà ripreso da Luca in 4,15-22, almeno nel suo schema narrativo, dove Gesù, seduto nella sinagoga di Nazareth, ammaestra i presenti sul rotolo di Isaia, che attribuisce a se stesso, provocando stupore e meraviglia “per le parole di grazia, che uscivano dalla sua bocca” (4,22).

Se il v.47 incentra l'attenzione del lettore sull'atteggiamento di ascolto accogliente di questi dottori della Legge al punto tale da essere assimilati a Gesù nel loro titolo di maestri, figura di quel giudaismo ben disposto nei suoi confronti, diverso, anzi opposto è l'indirizzo dei vv.48-50, che sono strutturati in modo tale che la rivelazione di Gesù (v.49b), risulti centrale rispetto ai vv.48.50 che attestano la totale incapacità di raggiungere il Mistero di questo bambino. Un Mistero, quindi, che è avvolto da una profonda incomprensione, che proviene proprio da coloro che sono i più vicini al bambino. Il v.48, infatti, attesta lo stupore di Maria e Giuseppe, che vedono il loro figlio seduto tra i dottori della Legge, ma non capiscono ciò che vedono. Per loro è solo un figlio discolo che va ripreso duramente e che tante ansie e angosce ha provocato a loro: “Figlio, perché ci ha fatto così? Ecco tuo padre ed io, addolorati, ti cercavamo”. La risposta che dà loro Gesù rivela lo stupore di Gesù per l'incapacità di comprendere dei suoi due genitori: “Che cosa (c'è), perché mi cercavate? Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?”. La risposta qui è triplice: “Che cosa c'è?” sembra quasi rivelare un senso di fastidio per questo atteggiamento di ansia e di preoccupazione nei suoi confronti, che lo sta distogliendo dalle cose di suo Padre, a cui appartiene e per cui è venuto. Non ci si accosta a Gesù, quindi, con questi stati d'animo umani, che rendono incapaci a comprenderlo nel suo Mistero e nel suo ministero, distorcendone il significato. Con il secondo passaggio, Gesù chiede ai suoi: “perché mi cercavate?”. Un rimprovero e un invito a riflettere sulle motivazioni della loro ricerca, dettata più da preoccupazioni umane che da una vera comprensione del Mistero, che vive e permea Gesù. È proprio per questo che tale Mistero è loro precluso e reso, pertanto, irraggiungibile per la loro incapacità di andare oltre a ciò che vedono e toccano. Ed infine, dopo questi primi due passaggi critici nei confronti di un approccio puramente umano a Gesù, ecco il terzo ed ultimo passaggio, quello più importante, perché rivelativo: “Non sapevate che devo essere nelle cose di mio Padre?”. L'atto rivelativo è preceduto da una sorta di accusa mista a rimprovero: “Non sapevate … ?”. Essi, quindi, avrebbero dovuto sapere proprio per la loro vicinanza a Gesù, ma sono proprio loro che non sanno leggere e comprendere il senso più vero e profondo di questo bambino. Vedono, ascoltano e toccano, ma la loro cecità spirituale non consente di andare oltre a quanto permettono loro i loro sensi. Questa difficoltà di relazionarsi a Gesù come evento divino del Padre da parte degli stessi familiari di Gesù non è nuova. I racconti evangelici lasciano trasparire, qua e là, la difficoltà dei familiari e amici di Gesù a credere in lui. Già Mc 3,21 attesta che i suoi parenti, tra cui figurava anche sua madre (3,31), lo ritenevano fuori di testa. Gv 7,5 afferma che “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”. Anche i suoi discepoli avevano serie difficoltà di capire Gesù e molti, a testimonianza di Gv 6,61.66, lo criticavano e poi lo abbandonarono. I suoi discepoli, al momento dell'arresto nel Getsemani, fuggono e poi lo rinnegano e, una volta risorto, dubitano di lui (Mt 28,17). Uno, poi, lo tradisce, consegnandolo nelle mani dei suoi nemici. Altri lo seguono pensandolo come un messia militare e politico, venuto a ricostruire il regno di Israele (Lc 24,21a; At 1,6). Non deve stupire questa diffusa incredulità dei familiari e dei discepoli di Gesù. Per comprenderla è necessario spogliare Gesù, quello giunto a noi, dai duemila anni di riflessioni teologiche e sintesi dottrinali e dogmatiche, per rendersi conto del personaggio alquanto singolare, difficile, enigmatico, equivoco, che traspare dai vangeli e tale da far decidere le autorità religiose di eliminarlo per la sua pericolosità sociale e religiosa (Gv 11,47-50)48.

Con il v.49b, dopo un lungo preambolo di incomprensioni, rimbrotti, reciproci stupori, rimproveri e richiami (vv.48-49a), si giunge infine alla rivelazione: “Non sapevate che devo essere nelle cose del Padre mio?”. Due gli elementi di rilievo in questa breve affermazione di Gesù: il verbo impersonale “de‹” (deî, devo, bisogna) e l'espressione “nelle cose del Padre mio”. Il verbo “de‹” compare nei nei quattro vangeli 30 volte, 12 nel solo racconto lucano. Esso, quando compare, dice sempre il muoversi di Gesù conformemente ad un prestabilito piano salvifico del Padre, lasciando intendere come Gesù non si muove mai di sua spontanea volontà secondo progetti suoi personali, ma il suo agire, così come il suo parlare, ha come unica fonte referente il Padre, senza il quale egli non può fare nulla (Gv 5,19.30; 8,28). Il secondo elemento, quello dottrinalmente e teologicamente più rilevante, evidenzia come sia necessario per Gesù “essere nelle cose del Padre mio”. L'espressione “Padre mio” dice non solo l'appartenenza di Gesù a questo Padre e come questo Padre appartenga a Gesù, ma anche l'origine stessa di Gesù, che dal Padre viene generato e da esso dipende (Gv 5,19.30; 8,28; 16,28). Un rapporto molto profondo lega i Due e che Luca in qualche modo cercherà di raccontare in 10,22: “Tutte le cose mi sono state date dal Padre mio, e nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre, e chi è il Padre se non il Figlio e a chi il Figlio avrà voluto rivelar(lo)”. Una profonda intimità di comunione, dunque, amalgama i Due fino a farne una cosa sola (Gv 10,30; 17,11.21-22), pur nella diversità e distinzione di persone senza confusione. Da qui la necessità di Gesù di “essere nelle cose” del Padre. Di quali cose si tratta qui? A quali cose l'autore qui fa riferimento? Si potrebbe fare un lungo elenco di queste ipotetiche cose, ma non è certo questo a cui Luca qui allude. “Essere nelle cose” del Padre significa più semplicemente essere pienamente conforme alla sua volontà, al suo disegno di salvezza, che si esprime e si realizza nella piena fedeltà e conformità della vita stessa di Gesù al Padre e tutta espressa in quel “de‹”. “Essere nelle cose” del Padre significa ancor prima “essere nel Padre”, condividerne la vita, così da fare della propria vita lo spazio storico in cui il Padre agisce ed opera la sua salvezza a favore degli uomini. Gesù, dunque, azione del Padre, spazio storico del Padre, sua manifestazione e rivelazione, al punto tale che i Due formano una cosa sola. Gesù, rispondendo alle pretese di Filippo, che gli chiedeva di mostrargli il Padre, dice tout-court: “Sono con voi da tanto tempo e non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre; come tu dici: “mostraci il Padre”? Non credi che io (sono) nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico non (le) dico da me stesso, ma il Padre che rimane in me compie le sue opere. Credetemi che io (sono) nel Padre e il Padre (è) in me; se no, credete(lo) per le stesse opere” (Gv 14,9-11). Questo è “essere nelle cose” del Padre.

Il v.50 chiude amaramente il racconto sul ritrovamento di Gesù nel tempio con un'annotazione: “Ed essi non compresero la parola che disse loro”. È significativo come Luca qui non dice che Maria e Giuseppe non compresero le parole di Gesù, la quale cosa alluderebbe al v.49, ma afferma che essi non compresero la “parola”. Il termine “rÁma” (rêma, parola) compare 19 volte in Luca e il suo significato, colto nel contesto in cui il termine viene posto, indica la parola di Dio intesa non solo come annuncio, ma anche come contenuto stesso dell'annuncio. Pertanto l'incomprensione dei genitori di Gesù non inerisce soltanto al v.49, bensì trattasi di una incomprensione più estesa che riguarda lo stesso contenuto racchiuso in quel bambino, cioè il Mistero stesso di Gesù. Si ha qui la denuncia di una fede ancora inesistente, ma che il lungo cammino verso il Golgota di Gesù contribuirà lentamente a creare fino a includere nel gruppo dei discepoli nel cenacolo anche Maria. Si tratta di un lungo cammino che Luca scandisce in tre tappe: a) qui i genitori di Gesù vengono presentati come incapaci di comprendere il Mistero; b) in 8,19-21 Luca presenta Maria e i fratelli di Gesù ancora esclusi dal gruppo dei suoi seguaci, ma desiderosi di farvi parte; c) ed infine in At 1,14 Maria e i fratelli di Gesù sono presentati riuniti assieme nel cenacolo assieme al gruppo dei primi credenti, uniti in preghiera. Luca, quindi, narra un cammino di fede difficile, ma possibile, che ha coinvolto in prima persona proprio la madre di Gesù e i suoi fratelli. Del resto, pensando alla persona di Gesù, così come ci viene presentato dai vangeli, diviene difficile pensare il contrario49.

La conclusione (vv.51-52)

I vv.51-52 formano una doppia conclusione: la prima, v.51, riguarda il viaggio da Nazareth a Gerusalemme in occasione della pasqua e tutti gli eventi che in tale circostanza sono accaduti; la seconda, v.52, riguarda la persona di Gesù dopo il suo rientro a Nazareth.

Il v.51 è scandito in tre parti: la prima attiene al rientro della famiglia da Gerusalemme a Nazareth. Quel “scese” riguarda il cammino che da Gerusalemme scende a valle. È lo stesso percorso compiuto dallo sfortunato pellegrino, che incappò nei briganti. Anche lui discendeva da Gerusalemme a Gerico (10,30-36). Gerusalemme, infatti, si trova a circa 750 mt sul livello del mare. Da qui si scende verso Gerico e da Gerico, porta di uscita e di entrata per Gerusalemme, si riprende verso nord, nel nostro caso verso Nazareth. L'indicazione qui è meramente geografica. La seconda parte del v.51 riguarda la condizione di vita di Gesù rispetto alla sua famiglia: “era sottomesso a loro”. Dopo l'atto di “insubordinazione” di Gesù che ha dominato l'intera seconda parte del racconto e che tanti patemi d'animo ha creato ai loro genitori (vv.44-49), Luca vuole rassicurare il suo lettore che Gesù non era uno scavezzacollo, ma un bravo ragazzo, rispettoso dei genitori e a loro fu sempre sottomesso. Non va tuttavia esclusa, in questa sottomissione di Gesù, una nota teologica che in qualche modo si richiama a Fil 2,5-11, dove Paolo evidenzia un processo di svuotamento della gloria del Figlio fino ad assumere la natura umana e “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Anche questa fedele sottomissione di Gesù ai suoi genitori fa parte, dunque, di un processo di spogliazione interiore in cui si prepara e si prelude in qualche modo al drammatico annichilimento della croce. La terza e ultima parte riguarda Maria: “E sua madre conservava tutte queste parole nel suo cuore”. Si riprende qui il motivo di 2,19 con cui Luca sottolinea, qui come là, l'atteggiamento di Maria di fronte al Mistero: “conservava”. Un verbo posto all'imperfetto indicativo, che dice il suo persistente comportamento di fronte al compiersi di questo Mistero, che per lei, come per molti, rimane impenetrabile, ma che tuttavia non rifiuta, ma conserva. Un atteggiamento, questo di Maria, che costituisce anche un invito e un monito per il mondo ellenistico, a cui Luca si sta rivolgendo, profondamente segnato dalla filosofia greca e dal suo razionalismo, che tendeva a spiegare tutto o porre interrogativi su tutto o mettere in discussione tutto. “Conservare”, dunque, questo manifestarsi del Mistero, che, proprio per la sua natura, non è immediatamente accessibile alla ragione, nel silenzio del proprio cuore in attesa che la luce dello Spirito, che conosce le profondità di Dio, illumini anche la mente, conducendo il credente alla pienezza della Verità (Gv 16,13).

Il v.52 chiude l'intero racconto del Gesù dodicenne e con questo si chiude anche il cap.2. Su Gesù viene ora calato un velo di silenzio in attesa del compimento del suo trentesimo anno età, allorché Gesù dette inizio alla sua missione (3,23). L'età del vigore, ricorderà circa due secoli dopo il Pirqei Avot (5,24). Il v.52 è strettamente connesso, come si è già sopra accennato, al v.40 e ne costituisce il proseguimento. Al v.40 si diceva che “il bambino cresceva”; qui, al v.52, si dice che “Gesù progrediva”, creando una sorta di continuità nella crescita di questo bambino ormai giunto alle soglie dell'adolescenza e già ha varcato quelle della maturità religiosa e sociale. I due versetti, poi, si completano a vicenda. Il v.40, infatti, sottolinea la crescita e il fortificarsi di Gesù, evidenziando più una crescita fisica che spirituale, rilevando come egli fosse già “riempito di sapienza” e come la sua crescita e il suo rafforzamento fossero posti sotto l'egida della grazia di Dio. Qui, al v.52, invece, Luca accentra la sua attenzione sulla crescita spirituale di Gesù, riprendendo i termini “sapienza” e “grazia” con cui terminava il v.40, evidenziando come la sua crescita e il suo fortificarsi non fossero solo biologici, ma anche spirituali: “E Gesù progrediva (nella) sapienza e (in) età e grazia presso Dio e gli uomini”. Una crescita probabilmente di coscienza di questo suo speciale rapporto con Dio, che lo lega profondamente a Lui e che lo fa Dio lui stesso. Il sapere di Dio e di essere Dio prende sempre più forza in lui assieme al crescere della sua età. Una crescita che avviene non soltanto presso Dio, ma anche presso gli uomini, nei quali ha già provocato un profondo stupore e un profondo turbamento.

N O T E

1Sulla questione di Luca storico cfr. il titolo “Le credenziali di Luca”, cap.1, pagg. 2-3

2Il Monumentum Ancyranum indica il tempio dedicato ad Augusto e alla dea Roma ad Ancyra, l'odierna Ankara, capitale della Turchia, sulle cui pareti venne scolpito il testo latino con traduzione greca delle Res gestae divi Augusti. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Res_gestae_divi_Augusti

3Qui di seguito riporto il testo tradotto del cap.8 delle Res gestae divi Aiguisti, riguardante i tre censimenti: “Durante il mio quinto consolato accrebbi il numero dei patrizi per ordine del popolo e del senato. Tre volte procedetti a un'epurazione del senato. E durante il sesto consolato (ndr 28 a.C.) feci il censimento della popolazione, avendo come collega Marco Agrippa. Celebrai la cerimonia lustrale dopo quarantadue anni. In questo censimento furono registrati quattromilionisessantatremila cittadini romani. Poi feci un secondo censimento (ndr 8 a.C.) con potere consolare, senza collega, sotto il consolato di Gaio Censorio e Gaio Asinio, e in questo censimento furono registrati quattromilioni e duecentotrentamila cittadini romani. E feci un terzo censimento (ndr 14 d.C.) con potere consolare, avendo come collega mio figlio Tiberio Cesare, sotto il consolato di Sesto Pompeo e Sesto Apuleio; in questo censimento furono registrati quattromilioni e novecentotrentasettemila cittadini romani. Con nuove leggi, proposte su mia iniziativa, rimisi in vigore molti modelli di comportamento degli avi, che ormai nel nostro tempo erano caduti in disuso, e io stesso consegnai ai posteri esempi di molti costumi da imitare.” Testo e traduzione sono stati mutuati da https://it.wikipedia.org/wiki/Res_gestae_divi_Augusti

4Il testo di tale disposizione recita: “Gaio Vivio Massimo governatore dell'Egitto afferma: poiché si avvicina il conteggio di tutte le famiglie, è necessario ordinare a tutti coloro i quali per qualsiasi motivo si trovino fuori dal proprio distretto di fare ritorno al proprio luogo di origine affinché possano sottoporsi alle normali procedure del censimento e dedicarsi alla coltivazione dei campi che compete loro”. Testo mutuato dalla voce Censimento in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione integrata 2005

5Cfr. la voce Censimento in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione integrata 2005.

6Cfr. la voce “Censimento” in Nuovo dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997; nuova edizione integrata 2005

7I significati qui riportati, relativi al vocabolo “kat£luma” sono stati tratti da L. Rocci, vocabolario GRECO-ITALIANO, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello, 1993

8Il significato di “katalÚw” è stato tratto da L. Rocci, vocabolario GRECO-ITALIANO, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello, 1993

9Sulla scarsa conoscenza della Palestina da parte di Luca cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.37

10Il termine “f£tnh” (fátne) significa soltanto greppia, mangiatoia, non stalla.

11Il testo greco di 1,57 recita: “™pl»sqh Ð crÒnoj toà teke‹n aÙt»n, kaˆ ™gšnnhsen uƒÒn

Il testo greco di 2,6 recita: “™pl»sqhsan aƒ ¹mšrai toà teke‹n aÙt»n, kaˆ œteken tÕn uƒÕn aÙtÁj”. Come si può rilevare i due testi circa la nascita di Giovanni (1,57) e quella di Gesù (2,6) si sovrappongono perfettamente. Questa sovrapposizione quasi perfetta dice come Luca qui usi delle formule preconfezionate, che ritroviamo sostanzialmente identica anche in Gen 25,24a

12Cfr. Gen, 1,1; 2Re 19,15; 2Cr 2,11; Est 4,17c; Sal 120,2; 123,8; 133,3; Ger 51,48;

13Dopo il ritorno dall'esilio babilonese (597-538 a.C.) e a motivo della diaspora, gli ebrei non comprendevano più l'ebraico, lingua con cui erano scritti i Testi Sacri, che venivano letti nelle liturgie. Si rese pertanto necessaria una loro traduzione in aramaico, lingua dell'amministrazione imperiale persiana e che si impose anche in Palestina. Poiché non poteva esserci una vera e propria traduzione della Torah in una lingua diversa da quella ebraica, divenuta ormai lingua sacra e liturgica, s'impose una sua interpretazione, che consisteva in una parafrasi a commento di quanto il lettore leggeva dai testi originali in ebraico. Nacque così il Targum aramaico, termine questo che significa tradurre, interpretare.

14Cfr. Mic 5,1; Mt 2,5-6

15Cfr. Gen 20,3; 1Re 3,5; Gdc 6,25; 7,9; 1Sam 15,6; 2Sam 7,4; 1Cr 17, 3; 2Cr 1,7; 7,12; Zc 1,8.

16Cfr. Es 12,12.42; 2Re 19,25

17Sap 18,14-15 allude all'ultima piaga d'Egitto, quella dello sterminio de primogeniti (Es 12,29), che fu determinante per la liberazione del popolo dalla sua schiavitù egiziana.

18Cfr. Es 40,34; Nm 14,21; 1Re 8,11; 2Cr 5,13.14; 7,1.2; Sir 42,16; Is 4,5; Ez 10,4; 43,5; 44,4;

19Sui riflessi della letteratura ellenistica in Luca cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pag.7 e seguenti.

20Il verbo “eÙaggel…zomai” si trova una sola volta in Mt 11,5, che lo riporta da una citazione di Isaia, ma non fa parte del suo vocabolario.

21Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera.

22Sul tema della gioia in Luca cfr. il commento l primo capitolo della presente opera, pagg. 29-30

23Cfr. Gen 6,7.12-13; Rm 8,19-23

24Cfr. il termine eÙdok…a” in L.Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1993, XXXVII edizione.

25Nonostante la mia personale posizione circa il termine “eÙdok…aj” , tuttavia è possibile tradurre il termine “eÙdok…aj” con benevolenza o compiacenza, per cui si avrebbe: “e pace in terra agli uomini della benevolenza” sottintendendo “divina” e aggiungendo “della”; o, similmente, “della sua benevolenza”, anche qui aggiungendo “della” e “sua” e, quindi, “uomini che Dio ama”. Una traduzione quest'ultima alquanto libera che tende a rendere il senso della benevolenza. In breve, per giungere a tradurre “uomini della sua benevolenza” o “uomini della benevolenza divina” o “uomini che Dio ama” è necessario staccarsi dal testo greco e affidarsi ad una libera interpretazione di quello stringato “eÙdok…aj”, poiché il testo greco più di questo non ci concede. Preferisco, quindi, rimanere fedele al testo greco, che mi pare inequivocabile.

26“Ho ricevuto dal Signore”. Con questa espressione Paolo non intende riferirsi a visioni o a segreti messaggi ricevuti dal Risorto, ma sta parlando di una Tradizione che egli fa risalire direttamente a Gesù e da lui inaugurata: l'istituzione dell'eucarestia o Cena del Signore. Sulla questione cfr. G. Barbaglio, Le lettere di Paolo, edizioni Borla, Roma, 1990; I vol. pag. 450

27Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 11-15

28Cfr Gal 1,12-17; 2,11-14; 5,12; At 15,37-40

29Il cap.18 del Libro dei Numeri riguarda gli introiti dei sacerdoti. Qui Jhwh si sta rivolgendo ad Aronne e afferma che tutto ciò che gli appartiene sarà suo. È questo l'unico testo che destina ai sacerdoti i primogeniti e per quelli umani spettava loro un riscatto stabilito in cinque sicli d'argento.

30L'espressione greca completa è “¢pÕ mhnia…ou kaˆ ™p£nw” (apò meniaíu kaì epáno), lett. “dall'età di un mese in su”. In tal senso cfr. il termine “mhniaoj” in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, Società editrice Dante Alighieri, Roma, 1993, XXXVII edizione.

31Il nome di Maria sembra avere un'origine egiziana (mry, amata, prediletta). È questa l'ipotesi più accreditata dagli esperti e, a mio avviso, a ragione. Infatti l'unica Maria conosciuta nell' A.T. è la sorella di Mosé, che compare proprio nel contesto dei racconti della liberazione di Israele dalla servitù egiziana.

32Il nome Simeone proviene dall'ebraico “Šim'ōn”, che deriva, a sua volta, dal verbo ebraico “ šāma' ”, che significa “ascoltare”. Simeone, quindi, è colui che ascolta o che si pone in ascolto. In merito cfr. la voce “Simeone” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I ed, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

33Per gli antichi il nome definisce la natura e l'essenza della persona.

34Le due espressioni “Consolate, consolate il mio popolo” (Is 40,1) e “consolazione di Israele” (Lc 2,25) sono tra loro sostanzialmente sovrapponibili sia per l'uso dell'identico termine (“consolazione” e “consolate”) che per l'oggetto stesso della consolazione in entrambi i casi: il popolo di Israele. Vedremo, poi, come Is 40,3-4 risuonerà sostanzialmente identico in Lc 3,4-5, mentre attorno a Is 40,5 verrà costruito l'intero cantico di Simeone.

35Secondo gli esegeti e gli storici soltanto un 10% degli esiliati fecero ritorno in patria.

36Cfr. Lc 1,15.35.41.67; 2,26.27; 3,16.22; 4,1.14.18

37Sul tema del “servo” cfr. il cap. 1 della presente opera, pag.50

38Rm 1,16; 2,9.10; 3,9; 1Cor 1,22.24; 12,13; Gal 3,28;

39 Rm 10,12; Gal 3,28; Col 3,11; Ef 2,13-19

40Cfr. Is 2,2; 25,6-7; 56,6-7; Ger 3,17; Sof 3,20; Mi 4,1

41Sulla questione cfr. pagg. 3-5 del presente commento

42Benché l'età religiosamente adulta sia considerata presso il mondo ebraico di 13 anni, l'età del bar mitzvah, tuttavia sembra, seguendo Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, che 12 anni fosse l'età dell'impegno religioso e sociale. In tal senso si confronti Ant. Jud. V,348; X,50; XI,69

43Benché il Pirqei Avot compaia circa 100/150 dopo il vangelo di Luca, tuttavia le esortazioni che in esso sono contenute, sono una sintesi di tradizioni orali già presenti all'epoca di Luca. L'evangelista, pertanto, poteva conoscerle anche se con qualche imprecisione.

44Cfr. Lc 9,51.53; 13,22.33; 17,11; 18,31; 19,11.28

45Lc 2,46a afferma che Gesù venne ritrovato nel Tempio dopo “tre giorni” e non al “terzo giorno”, espressione con cui Luca solitamente si riferisce alla risurrezione di Gesù (cfr. 9,22; 13,32; 18,33; 24,7.46). La diversa formulazione, “tre giorni” anziché “terzo giorno” ha fatto concludere ad alcuni esegeti che non era nelle previsioni narrative e teologiche di Luca alludere con il racconto di Gesù dodicenne alla sua passione, morte e risurrezione. Premesso che Luca qui con l'espressione “terzo giorno” segue la tradizione di Matteo, l'unico che usa tale espressione oltre che 1Cor 15,4; premesso che l'espressione “tre giorni” con riferimento alla risurrezione di Gesù viene usata sia da Marco (Mc 8,31; 9,31; 10,34; 14,58; 15,29) che da Giovanni (Gv 2,1.11.19-20) e dallo stesso Matteo (Mt 12,40; 26,61; 27,40.63), va detto che lo stesso Luca usa in 24,21 l'espressione “tre giorni” con chiaro riferimento alla risurrezione di Gesù. Pertanto l'uso della formula “tre giorni” al posto di “terzo giorno” non è determinante per negare l'intento narrativo e teologico di Luca di alludere qui, con il racconto di Gesù dodicenne, alla sua passione, morte e risurrezione.

46Cfr. sull'espressione “dopo tre giorni” la nota nota precedente n.45

47Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera: pagg.3, 22-23, 35

48Sul tema della figura di Gesù nel suo rapporto con il mondo giudaico cfr. il mio studio “Ma veramente i Giudei furono perfidi?”, presente sul mio sito di “Teologia per Tutti”, “Sezione esegetica”, area “Altri scritti”

49Cfr. nota 48