IL VANGELO SECONDO LUCA

La vera natura di Gesù e il senso della sua missione
alla luce della sua passione:
egli è re, salvatore, giudice

(19,1-48)

Commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi




Note generali

Continua la catechesi di Luca sulla passione e morte di Gesù. Con il cap.18 l'autore sollecitava i credenti a prepararsi al dramma del Golgota con una preghiera umile e incessante (vv.1-14), con la semplicità di un animo fiducioso e accogliente (vv.15-17), spogliandosi dei beni terreni e dalle logiche di potere del mondo (vv.18-30), ricomprendendo i Profeti e le Scritture (vv.31-35), illuminati dalla fede in Gesù (vv.35-43). Ora con il cap.19 l'evangelista, ormai giunto con il suo racconto al termine del viaggio verso Gerusalemme (v.28) e avvicinandosi ai drammatici eventi della passione e morte, apre una sorta di indagine sulla sua identità di Gesù e sul senso della sua missione, che proprio in tali eventi trova il suo vertice. Pertanto sull'esempio di Zaccheo, li esorta a darsi da fare per “cercare di vedere Gesù, chi è” (v.3), poiché comprendendo la sua identità si comprenderà anche il senso della sua missione e del suo apparente fallimento. Già la questione dell'identità di Gesù era stata posta in 9,18 e la risposta di Pietro fu “il Cristo di Dio” (9,20b), rivelando così la sua messianicità, che Gesù indirizzava fin d'allora verso la sua passione, morte e risurrezione (9,22). Ma qui Luca fa un ulteriore passo in avanti: che cosa significa essere messia votato alla morte di croce? Quale identità attribuire ad un simile messia? Come dunque interpretare tale messia crocifisso? È soltanto uno dei tanti messia autoproclamatisi tali e falliti miseramente con la crocifissione? Da qui la necessità di “cercare di vedere Gesù, chi è lui” veramente; comprendere, dunque, la sua vera natura e la sua vera identità, che proprio sulla croce sta per rivelarsi, per evitare la delusione e lo scoramento dei due discepoli di Emmaus (24,21). Sarà questo il compito del cap.19, un cammino di comprensione sostenuto spiritualmente dalle esortazioni del precedente cap.18. Si scoprirà in tal modo che Gesù è un salvatore, venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (v.10); egli è quel uomo nobile che è venuto per prendere possesso del suo regno (v.12). Un re, dunque, che sta per essere intronizzato sulla croce e che in qualche modo riceve il riconoscimento della sua investitura regale dai suoi discepoli (vv.35-38); una regalità che lo rivelerà anche quale giudice escatologico contro chi lo ha rifiutato (vv.14.27.41-44). Ma nel contempo egli si mostrerà l'atteso Messia, prendendo possesso del Tempio, proclamato come sua casa, rovesciando con gesto profetico l'antico culto, fatto di sacrifici di animali, sostituendolo con un'altra Vittima, che sta per rivelarsi sulla croce; un Tempio dal quale uscirà con autorità e autorevolezza la sua Parola, che si diffonderà su tutte le genti, realizzando le profezie di Is 2,3 e Mi 4,2.

Il cap.19 si presenta come un capitolo di transizione tra la fine del fittizio viaggio verso Gerusalemme (v.28) e l'attività missionaria in Gerusalemme, che avrà il suo esordio con l'episodio della purificazione del Tempio (vv.45-48), mentre i versetti di mezzo, vv.29-44, potremmo definirli come l'attuazione della parabola delle dieci mine, dove “Un uomo nobile partì per una regione lontana a prendere per se stesso un regno e ritornare” (v.12), ma dove si scopre anche come “i suoi cittadini lo odiavano e inviarono un'ambasceria dietro di lui, dicendo: <<Non vogliamo che costui regni su di noi>>” (v.14) e sui quali si riverserà il giudizio di condanna del re: “portate qui questi miei nemici che non vollero che io regnassi su di loro e trucidate(li) davanti a me” (v.27). Ed ecco che la nobiltà di questo uomo, che sta per essere intronizzato, si rivelerà nella sua prescienza, descrivendo minuziosamente gli eventi che da lì a poco sarebbero accaduti ai due suoi discepoli inviati a prendere un puledro su cui salirvi (vv.30-34); questo nobile uomo verrà poi riconosciuto e in qualche modo intronizzato quale re dalla moltitudine dei suoi discepoli (vv.35-38), preludendo in tal modo ad una regalità che apparirà sulla croce (23,3.37.38) e nella sua risurrezione; ed ancora, come l'odio dei suoi avversari non solo si oppone a questo re (v.39), ma progettano anche di ucciderlo (v.47b); Ed infine, come proprio su questi ultimi si prospetta il giudizio escatologico della loro totale distruzione (vv.41-44).

Ci troviamo di fronte ad un capitolo importante, perché creando un'ultima pausa catechetica sull'identità di Gesù e del senso della sua missione, apre ad un incalzante susseguirsi di eventi che cadenzeranno gli ultimi sei capitoli:

Il materiale di questo capitolo proviene sia da materiale proprio di Luca (vv.1-11.28.39-44), sia dalla fonte Q (vv.12-27.), che condivide con Mt 25,14-30; sia, infine, seguendo (vv.29-38.45-48) Mc 11,1-10.15-18. Tuttavia, benché Luca attinga sia dalla fonte Q che da Marco, va detto che non lo fa trasferendo i testi da una fonte al suo vangelo, ma il materiale usato viene profondamente rielaborato e riadattato al suo racconto, tenendo conto della sua teologia e della sua platea di greco-ellenisti.

L'identità di Gesù e il senso della sua missione (vv.1-44)

Questa ampia sezione, che occupa quasi per intero il cap.19, costituisce una sorta di ricerca della vera identità di Gesù in rapporto agli eventi che stanno per compiersi a Gerusalemme. Una ricerca che si snoda su tre passaggi: a) il racconto di Zaccheo (vv.1-10), che “cerca di vedere Gesù” e “chi egli è” e quale sia il senso della sua missione, la cui risposta verrà data dal v.10; b) la parabola delle dieci mine (vv.11-28), che lascerà intravvedere come Gesù, da un lato, sia un re che, seppur respinto dai suoi concittadini (v.14), sta per essere intronizzato (v.12); dall'altro, invece, viene presentato come il giudice escatologico, che al suo ritorno (v.15), chiederà conto sul come sono stati gestiti i suoi beni affidati ai suoi servi, emettendo nel contempo una pesante sentenza di condanna su chi lo ha respinto (v.27); c) il terzo e ultimo passaggio, che funge da transizione dal viaggio fittizio verso Gerusalemme, che termina con il v.28, all'attività nella stessa Gerusalemme, che inizia con il racconto della purificazione del Tempio (vv.45-48), costituisce come una sorta attuazione della parabole delle dieci mine.

Zaccheo, ossia la ricerca dell'identità di Gesù e del senso della sua missione (vv.1-10)

Testo a lettura facilitata

Dalla cecità guarita (18,43) alla visione di Gesù (v.3)

1 – Ed entrato, passava per Gerico.

La ricerca di Gesù (vv.2-4)

2 – Ed ecco un uomo chiamato (con il) nome di Zaccheo, ed egli era capo dei pubblicani ed egli (era) ricco.
3 – E cercava di vedere Gesù, chi è, e non poteva a causa della folla, poiché era piccolo di statura.
4 – E corso in avanti, salì su di un sicomoro per vederlo, poiché stava per passare di lì.

La proposta salvifica: la risposta di Zaccheo e il rifiuto della gente (v.5)

5 - E quando giunse sul posto, alzati gli occhi, Gesù disse verso di lui: <<Zaccheo, affrettatoti, scendi, poiché oggi bisogna che io rimanga nella tua casa>>.
6 – E affrettatosi, scese e lo accolse gioendo.
7 – Ed avendo visto, tutti mormoravano dicendo che è andato ad alloggiare presso un uomo peccatore.

La conversione e la salvezza (vv.8-10)

8 – Ma Zaccheo, stando fermo, disse verso il Signore: <<Ecco, la metà dei miei averi, Signore, do ai poveri, e se defraudai qualcosa di qualcuno, restituisco il quadruplo>>.
9 – Ma verso di lui Gesù disse che oggi (la) salvezza è avvenuta per questa casa, poiché anch'egli è figlio di Abramo.
10 – Infatti il Figlio dell'uomo venne a cercare e salvare ciò che era perduto.


Commento ai vv.1-10

Dalla cecità guarita (18,43) alla visione di Gesù (v.3)

Il v.1, che introduce il racconto di Zaccheo, funge da aggancio, dandone continuità narrativa, con il precedente racconto del cieco guarito (18,35-43). Due gli elementi che inducono a pensarlo: il “Kaˆ” (Kaì, E) con cui inizia il versetto e che fa da congiunzione tra questo racconto e quello del cieco; e il richiamo a Gerico, verso il quale Gesù si stava avvicinando in 18,35a, mentre qui in 19,1 “passava per Gerico”. Non solo vi è una continuità narrativa tra i due racconti, ma anche un'affinità: da un lato abbiamo un cieco, incapace di vedere, ma la sua persistente fede in Gesù lo apre alla luce, così che egli “lo seguiva glorificando Dio”. Ne diventa quindi discepolo e testimone. Il verbo “ºkoloÚqei aÙtù” (ekolútzei autô, lo seguiva) non lascia dubbi in proposito1; dall'altro abbiamo Zaccheo, che “cercava di vedere Gesù”, cerca di capire “chi è”. Anche qui compare il verbo “vedere”, quel vedere che tanto aveva invocato il cieco; un vedere che dice desiderio di conoscenza di Gesù; anche qui come là, tra Gesù e il cieco e tra Gesù e Zaccheo si frappone la folla che impedisce l'avvicinarsi a Gesù; anche qui come là sono l'insistenza e l'intraprendenza del cieco e di Zaccheo che consentono ai due l'incontro con Gesù, da cui traggono la luce della loro conoscenza su Gesù e sarà per loro un'esperienza salvifica.

La ricerca di Gesù (vv.2-4)

Con tre tocchi magistrali, scanditi da altrettanti versetti (vv.2-4), Luca inquadra il dramma di Zaccheo, il cui nome è un diminutivo grecizzato di Zaccaria, che significa “Dio si è ricordato” o anche “Dio ha pensato a qualcuno”2. Ed è ciò che accade a quest'uomo (v.5) alla ricerca di chi sia veramente Gesù (v.3). Ed è su questo atteggiamento di ricerca di Zaccheo che Luca accentra l'attenzione dei suoi lettori, appartenenti anche loro alla categoria dei pagani e quindi dei peccatori, come questo personaggio, che viene loro proposto come un esempio da imitare.

Due sono i tratti che ne definiscono la figura: “Egli era un capo dei pubblicani”, una categoria di persone disprezzate dal popolo sia perché collaboravano con i Romani, opprimendo fiscalmente la gente; sia perché, a motivo del loro continuo contatto con il mondo pagano, erano ritenute ritualmente impure e fonti d'impurità e quindi pubbliche peccatrici. Non è un caso, infatti, che nei vangeli la figura del pubblicano sia quasi sempre associata a quella dei peccatori e talvolta a quella delle prostitute (Mt 21,31.32). Il secondo elemento che qualifica quest'uomo è che “egli era ricco”. Una ricchezza, considerato il tipo di lavoro che faceva, non sempre limpida, ma che per certi aspetti va capita e in qualche modo giustificata. Il sistema fiscale romano, infatti, prevedeva per la riscossione delle tasse locali l'appalto. Gli appaltatori, organizzati in società, anticipavano di tasca propria i pesanti tributi richiesti da Roma, esponendosi quindi finanziariamente ed economicamente, e la cui riscossione non era sempre certa, talvolta anche per motivi contingenti causati da carestie, guerre, pestilenze o scarsi raccolti. Ai Romani tutto questo non importava e dai loro appaltatori pretendevano il tributo stabilito per quel anno Da qui la necessità di recuperare dei tributi maggiorati per autotutelarsi da eventi imponderabili. Tuttavia, al di là di un'equa autotutela, spesso i tributi recuperati erano gravati da interessi e non di rado da frodi a danno dei cittadini. Questi esattori erano seduti ai loro banchi (Mt 9,9) nei posti strategici della città: alle porte di entrata, agli imbocchi dei ponti, agli inizi delle vie o ai loro angoli, nelle piazze, così che nessuno poteva sfuggire alle loro dure e pesanti richieste. Zaccheo era un elemento di spicco all'interno di questo opprimente sistema tributario e gestiva probabilmente una società di riscossione, da cui traeva, anche in modo illecito (v.8), il suo arricchimento3.

Se il v.2 presenta la figura sociale e professionale di Zaccheo, i vv.3-4 presentano il dramma personale di quest'uomo che doveva essere interiormente agitato o quantomeno inquieto. Egli, infatti, “cercava di vedere Gesù, chi è” e nonostante i suoi limiti fisici e il suo isolamento sociale, la folla, infatti, gli impedisce di vedere Gesù, si dà da fare: corre in avanti, cercando di anticipare il tragitto che Gesù sta percorrendo; quasi lo aspetta al varco; sale su di un sicomoro per poterlo vedere. C'è, dunque, in quest'uomo un forte slancio interiore, una sorta di frenesia e di ansia spirituali espresse in quel “cercava di vedere”. Un verbo questo posto all'imperfetto indicativo, che esprime un'azione durativa nel tempo, lasciando intuire come il suo comportamento non fosse mosso da una semplice curiosità passeggera, ma da una sorta di inquietudine spirituale, che lo spinge alla ricerca di un punto di riferimento per la sua vita. Il suo “cercar di vedere”, infatti, non punta su Gesù, ma su “chi è” lui. La ricerca di Zaccheo, quindi, trascende l'aspetto meramente superficiale per arrivare alla sostanza: chi è veramente Gesù? Zaccheo, pertanto, va oltre al rumore della folla, anticipandola nel suo muoversi con Gesù; sopraelevandosi su di lei in quel suo salire sul sicomoro, cosciente della sua bassa statura, più che fisica, spirituale e di conseguenza morale. E in questo contesto di spinta evolutiva spirituale, al di là delle fallaci apparenze umane, si interroga sulla vera natura di Gesù: chi è costui!?. Ed è proprio su questo aspetto che Luca intende sollecitare il suo lettore: interrogarsi, ora chi ci si sta avvicinando al dramma del Golgota, su chi è veramente Gesù per poter comprendere anche il senso e la valenza del suo patire e del suo morire. Le risposte a tale questione verranno date ai vv.9-10 e nella seguente parabola delle dieci mine (vv.11-27).

La proposta salvifica: la risposta di Zaccheo e il rifiuto della gente (v.5)

Tre sono i personaggi che si muovo attorno ad un tacito appuntamento di salvezza: Zaccheo, che superando l'ostacolo della folla, frapposta tra lui e Gesù, e anticipandone il percorso, lo attende al varco; Gesù, che non si lascia sorprendere da quest'uomo che lo stava cercando con sincerità di cuore; ed infine, come in una sorta di coro nelle tragedie greche, la folla, che dapprima impedisce a Zaccheo di raggiungere Gesù e, poi, lo critica, gettando discredito su di un uomo, che secondo le logiche del giudaismo, era destinato alla perdizione eterna. La folla, pertanto, funge da azione critica nei confronti di Zaccheo e, di riflesso, anche nei confronti di Gesù, che si concede a questo pubblico peccatore e traditore dei suoi concittadini. Un'azione critica, che nel linguaggio narrativo, viene posta lì per far meglio risaltare, come in un gioco di chiaroscuro, l'incontro tra i due e la conversione di questo personaggio inviso alla gente. Anche per queste persone, dunque, il messaggio di riscatto e di redenzione, inauguratosi con l'avvento di Gesù, ritaglia uno spazio di salvezza, che il giudaismo gli aveva negato.

Tre sono, ancora, i movimenti scanditi dal v.5: “Gesù giunge sul posto”; “alza gli occhi”; Gesù comunica a Zaccheo che “oggi bisogna che io rimanga nella tua casa”. Gesù, dunque, “giunge sul posto”. È il luogo dell'appuntamento tra Zaccheo e Gesù; il luogo dell'incontro di salvezza tra il peccatore e il suo Redentore. Un incontro che non è avvenuto casualmente, ma è stato stabilito fin dall'eternità, come suggerisce Ef 1,4-5: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo”. E che così sia lo lasciano intuire, da un lato, il secondo movimento di Gesù, che “alza gli occhi” verso Zaccheo, incentrando la sua attenzione su di lui, quasi in una sorta di scelta e di predilezione verso quest'uomo, che racchiude nel suo stesso nome l'attenzione di Dio per lui, Zaccheo, l'uomo di cui Dio si è ricordato; l'uomo a cui Dio ha pensato fin dall'eternità; dall'altro, quel “de‹” (deî, bisogna) del terzo movimento, da cui traspare un preciso disegno salvifico del Padre, a cui Gesù si sta conformando in obbedienza. Un progetto di salvezza che si sta attuando nell'oggi di Zaccheo e con lui nell'oggi di ogni uomo, come aveva in qualche modo predetto l'angelo ai pastori: “oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide” (2,11). È, dunque, nel proprio “oggi” che va realizzato l'incontro salvifico con Gesù, poiché è “nell'oggi” di ogni uomo che egli passa per rimanere: “bisogna che io rimanga nella tua casa”. Da qui il sollecito per una risposta urgente: “Zaccheo, affrettatoti, scendi”. C'è racchiuso in questo sollecito una forte tensione escatologica, che sollecita Zaccheo e con lui ogni uomo a smuoversi dalla sua posizione per realizzare l'incontro salvifico con Gesù. Egli è venuto per rimanere in mezzo agli uomini (Gv 1,14), verso i quali volge la sua predilezione salvifica; ma è urgente che l'uomo, interpellato da tale venuta, dia la sua risposta esistenziale e prenda posizione nei confronti dell'evento Gesù nel proprio “oggi”, poiché è qui e ora che la salvezza opera e si compie; non vi è più un domani e l'oggi non è più un oggi di attesa, ma di incontro e di risposta. E Zaccheo, l'uomo di cui Dio si è ricordato e a cui ha pensato fin dall'eternità, percepisce l'urgenza di quel Gesù che passa, ma che non passa per una visita di cortesia, ma per rimanere nella sua casa. La salvezza, infatti, non è un evento effimero, ma stabile, perché trova la sua origine in Dio, e produce una trasformazione nelle persone che la accolgono, evidenziata dal loro stato di gioia: “E affrettatosi, scese e lo accolse gioendo”, così come il bambino sussultò di gioia nel seno di Elisabetta che accolse Maria, la madre del suo Signore (1,40-44). La gioia, un tema che percorre l'intero vangelo di Luca e che appare sempre là, dove si realizza l'incontro di Gesù con l'uomo perduto e ritrovato; nell'incontro di Dio con l'uomo decaduto e degradato dal peccato; un uomo che viene rigenerato ad una vita nuova, che è sempre quella vita antica di cui godeva nei primordi della creazione, allorché era ancora incandescente di Dio: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). E Zaccheo vide in Gesù “un nuovo cielo e una nuova terra, perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare (simbolo del male, ndr) non c'era più” (Ap 21,1). E saranno i successivi vv.8-10 a testimoniare la nuova creazione avvenuta in Zaccheo; talmente nuova che il precedente Zaccheo, fatto di frodi ed oppressioni, non c'era più.

Il v.8 inizia significativamente con con il verbo “staqeˆj de” (statzeìs de), letteralmente “ma stando fermo”. L'espressione verbale ha per soggetto Zaccheo, che viene definito da questo “staqeˆj de” da un lato come in netta contrapposizione alla folla che non solo gli impediva di raggiungere Gesù (v.3), ma criticava Gesù stesso, indicando lui come un peccatore (v.7); dall'altro, il verbo dice la radicale fermezza con cui Zaccheo affronta Gesù, intenzionato a “vederlo” nella sua “Verità” nascosta: chi egli è.

Un verbo, questo staqeˆj de”, che esorta nel contempo il lettore a prendere posizione sia nei confronti della folla, che tende ad oscurare Gesù al credente, sia nella sua ricerca su Gesù, cercando di vedere in lui chi egli veramente è, rimanendo saldo e fermo nella propria fede nonostante la folla; nonostante l'apparente fallimento del Gesù crocifisso.

Ed è proprio in questa sua radicale fermezza che Zaccheo si approccia a Gesù e si rivolge a lui, per due volte, con l'appellativo di “Signore”. Un termine questo con cui la Chiesa primitiva si rivolgeva al Risorto, riconoscendo in quel “Signore” non solo la sua signoria universale, ma anche la sua divinità. Rivolgendosi pertanto a Gesù con tale titolo, Zaccheo dà a vedere che egli ha ottenuto la risposta che stava cercando e “ha visto” chi è Gesù, la sua vera natura di Signore e di Dio. Una scoperta che Luca ostenta anche al suo mondo greco-ellenista, a cui si sta rivolgendo con questo racconto, anch'esso peccatore e respinto dal giudaismo alla pari di Zaccheo, il quale ne è in qualche modo figura.

Da qui la sua decisione che rivela la sua trasformazione e il suo rinnovamento interiore, che ha, secondo i parametri lucani, la sua concreta visibilità nell'oculata gestione dei beni terreni, che vanno condivisi con i poveri. Metà dei beni vanno a questi ultimi, mentre al defraudato, secondo il diritto romano, spetta il quadruplo, ma nei casi normali la restituzione è del doppio. Per i dottori della legge, invece, il pubblicano che si converte doveva dare solo il venti per cento dei suoi beni ai povero. Lv 5,20-24 prescriveva che in caso di frode o di furto o di appropriazione indebita venisse restituito il dovuto al defraudato con l'aggiunta di un quinto4. Luca, a quanto pare, qui applica con quel “quadruplo” il diritto romano; mentre con quella metà dei beni data ai poveri indica ai credenti, che non vivono nelle comunità, per i quali invece vige l'obbligo di donare o condividere tutti i propri beni con quelli della comunità stessa (At 2,45; 4,32.34), la strada equa per testimoniare la propria conversione. Del resto, se Zaccheo avesse donato tutti i suoi beni ai poveri in quale modo avrebbe potuto risarcire i defraudati?

Il v.9 chiude il racconto di Zaccheo, rigenerato ad una vita nuova, dopo un persistente e pervicace cammino di ricerca della Verità, della vera natura di Gesù. Gesù gliene dà atto e attesta come nell'oggi di Zaccheo, un oggi che definisce lo spazio temporale di ogni uomo, quello utile per incontrare Gesù, si è compiuta la sua salvezza, poiché non solo egli ha trovato Gesù, ma ha compreso chi egli è veramente, accogliendolo nella propria vita per sempre. Un per sempre che già Gesù aveva preannunciato a Zaccheo in quel “rimanere nella sua casa”: “oggi bisogna che io rimanga nella tua casa” (v.5b). Il v.9 rivela pertanto un aspetto fondamentale dell'identità di Gesù: egli è i salvatore, che rigenera a vita nuova chiunque lo cerchi con cuore sincero, rivelandosi a lui come il Signore (v.8)

L'attestazione di Gesù si chiude affermando che “anch'egli è figlio di Abramo”, riconoscendo in tal modo che anche nel giudaismo c'è uno spazio di salvezza per chi crede e accoglie Gesù, il quale non è venuto ad abolire il giudaismo con i suoi profeti e le sue Scritture, ma a darne compimento (Mt 5,17).

Il v.10 riprende in qualche modo il v.9 e lo sintetizza in una sorta di sentenza, che mette in rilievo il senso della missione di Gesù e, se realmente da lui pronunciata, ne rivela la coscienza. Una sentenza che affonda tematicamente le sue radici nel cap.15, interamente riservato al tema. Vi è quindi in questo versetto un esplicito richiamo a tale capitolo, al quale viene in qualche modo, come in una sorta di corollario applicativo, associato anche il racconto di Zaccheo.

La parabola delle dieci mine, ossia la scoperta di Gesù quale re e giudice escatologico (vv.11-28)

Testo a lettura facilitata


Il motivo che spinge Gesù a raccontare la parabola (v.11)

11 – Ora, mentre essi ascoltavano queste cose, accostatosi disse una parabola poiché egli era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio stesse per essere manifestato nello stesso momento.

La regalità escatologica di Gesù (vv.12-14)

12 – Disse pertanto: <<Un uomo nobile partì per una regione lontana a prendere per se stesso un regno e ritornare.
13 – Ora, chiamati dieci suoi servi diede loro dieci mine e disse verso di loro: “Datevi da fare nel mentre che vado”
14 – Ma i suoi cittadini lo odiavano e inviarono un'ambasceria dietro di lui, dicendo: “Non vogliamo che costui regni su di noi”.

Gesù giudice escatologico: sui suoi servi …. (vv.15-26)

15 – Ed avvenne che egli, preso il regno, nel mentre che ritornava, allora disse che gli fossero chiamati questi servi, ai quali aveva dato il denaro, per sapere che cosa avessero guadagnato trafficando.
16 – Ora venne il primo dicendo: “Signore, la tua mina ha guadagnato dieci mine”.
17 – E gli disse: “Bravo, servo buono, poiché sei stato fedele in cosa insignificante, abbi potere su dieci città”.
18 – E venne il secondo dicendo: “La tua mina, Signore, produsse cinque mine”.
19 – Ora, disse anche a questo: “Sii anche tu sopra cinque città”.
20 – E venne l'altro, dicendo: “Signore, ecco la tua mina, che avevo riposta in un telo;
21 – ti temevo, infatti, poiché sei un uomo severo, prendi ciò che non hai messo e mieti ciò che non hai seminato”.
22 – Gli dice: “Ti giudico dalla tua bocca, servo malvagio. Sapevi che io sono un uomo severo, che prendo ciò che non ho messo e raccolgo ciò che non ho seminato?
23 – E perché non hai dato il mio denaro ad una banca? E io, giunto, (lo) avrei riscosso con interesse”.
24 – E disse ai presenti: “Togliete da lui la mina e date(la) ha chi ha dieci mine”.
25 – E gli dissero: “Signore, ha dieci mine”.
26 – Vi dico che a ognuno che ha sarà dato, ma da chi non ha anche ciò che ha sarà tolto.

. e sui suoi avversari di Gesù (v.27)

27 – Tuttavia, portate qui questi miei nemici che non vollero che io regnassi su di loro e trucidate(li) davanti a me>>.

Oltre Gerico, salendo a Gerusalemme (v.28)

28 – E dette queste cose, camminava davanti, salendo a Gerusalemme.


Note generali

Con il racconto di Zaccheo Luca ha messo in rilievo alcuni importanti aspetti dell'identità di Gesù, che già aveva evidenziato nel corso del suo vangelo5, quali quello di Signore (v.8) e di Salvatore (v.9.10), venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto (v.10), rilevando in tal modo il senso della sua missione, che già era stato ampiamente trattato al cap.15. Ora con la parabola delle dieci mine vengono messi in rilievo altri due aspetti, questa volta inediti, dell'identità di Gesù, quelli di re e di giudice escatologico. Titoli questi ultimi che gli vengono riconosciuti a ridosso della sua passione e morte, ma che meglio appariranno nel corso del racconto. Luca, pertanto, qui sta aiutando il suo lettore a comprendere il senso del patire e del morire di Gesù, il cui significato va colto alla luce dalla titolatura, che viene ora presentata con questa parabola e poi in qualche modo ripresa e parafrasata dai successivi vv.29-48, dove i discepoli lo riconosceranno come messia e re.

La parabola viene mutuata dalla fonte Q, che Luca condivide con Mt 25,14-30, ma vi apporta notevoli cambiamenti, inserendovi anche materiale proprio (vv.11.13b-15a.27-28), sia per migliorane la fluidità e l'incisività narrative, sia per meglio adattarla ai propri intenti cristologici. Cambia del resto anche il contesto narrativo: Mt 25,14-30 è collocato all'interno di un capitolo dai tratti fortemente escatologici, interamente dedicato alla vigilanza e al giudizio universale; mentre qui Luca ha inserito la parabola all'interno del cap.19, finalizzato ad evidenziare l'identità di Gesù e il senso della sua missione. Il tutto posto all'interno di una catechesi preparatoria al racconto della passione e morte di Gesù, alla quale ha dedicato i capp.18-19. Una parabola che tuttavia apre anche ad una prospettiva ecclesiologica postpasquale. Rispetto a Matteo, poi, cambia il valore e, di conseguenza, anche il significato dei beni lasciati a servi: ben 8 talenti per Matteo, che costituivano tutto il patrimonio del loro padrone; soltanto 10 mine complessivamente ai dieci servi di Luca. Considerato che una mina equivale ad un sessantesimo di talento, il padrone in Luca lascia ai suoi servi soltanto 10 sessantesimi di talento, equivalente a circa cento denari, pari, dedotti i giorni di riposo, a circa quattro mesi di lavoro di un bracciante. Perché questa sproporzione? Perché, se questo padrone è un nobile ormai sulla soglia della regalità e quindi anche ricco, dà ai suoi servi solo dieci sessantesimi di talento? Una misera elemosina rispetto al padrone della parabola matteana. Per Matteo, poi, il padrone è soltanto un anonimo “uomo” qualsiasi, per Luca, invece è un nobile che sta per ottenere il titolo di re e con esso anche l'annesso regno. Per Matteo i servi sono soltanto tre, mentre per Luca sono dieci. Perché questa diversa quantità? Per Matteo il premio riservato ai servi fedeli è la partecipazione alla gioia del suo padrone, una ricompensa che sembra essere di tipo morale; per Luca, invece, considerato che il padrone è divenuto re ed ha acquisito un nuovo regno ha bisogno ora di amministratori che lo sappiano far fruttare, ed ecco quindi che affida ai suoi servi fedeli il governo di città. A che cosa allude Luca con questo regno, il cui governo è affidato ai servi? Perché, dunque, tutte queste notevoli diversità tra le due parabole, che provengono da una medesima fonte? Provenivano forse da due tradizioni diverse, entrambe presenti nella medesima fonte Q? E se così fosse, che cosa ha spinto Luca a prendere l'una invece che l'altra? O forse Luca aveva una sua fonte propria? È molto più probabile che Luca abbia attinto dalla fonte Q, parimenti a Matteo, la medesima parabola, ma l'abbia poi, con considerevoli modifiche e apporto di materiale proprio, adattata ai propri intenti cristologici, che meglio appariranno immediatamente di seguito alla parabola ai vv.29-48.

La struttura della parabola si snoda su quattro passaggi:

  1. Il motivo che spinge Gesù a raccontare la parabola: la convinzione dei discepoli circa l'imminenza della manifestazione del Regno di Dio (v.11);

  2. la regalità escatologica di Gesù (vv.12-14), quale potere di Dio ristabilito sugli uomini, che si sta per manifestare come giudizio escatologico posto su di loro, siano questi discepoli (v.15) che suoi avversari (v.14)

  3. Gesù si manifesta come giudice escatologico (vv.15-27) sia sui suoi discepoli (vv.16-26), che sui suoi oppositori (v.27);

  4. Oltre Gerico, verso Gerusalemme (v.28) dove apparirà la sua regalità, quale elemento di giudizio sugli uomini.

La parabola costituisce un'unità letteraria ben delineata dall'inclusione data per completamento di movimenti dai vv.11 e 28, dove in 11 Gesù “era vicino a Gerusalemme”, mentre in 28 sta “salendo a Gerusalemme”. Due versetti questi che, assieme ad altri precedenti6, richiamano l'attenzione del lettore, avvertendolo che si è ancora nell'ambito del viaggio verso Gerusalemme, ma nel contempo segnalandogli come questo viaggio sia ormai giunto a conclusione.

Commento ai vv.11-28

Il motivo che spinge Gesù a raccontare la parabola (v.11)

Il v.11 funge da premessa alla parabola e spiega la motivazione per cui essa è stata raccontata e che va tenuta presente per comprenderne il senso. Una motivazione che in qualche modo anticipa e nel contempo allude a quanto avverrà ai successivi vv.35-38, dove Gesù è acclamato re e messia dalla “moltitudine dei suoi discepoli”, mentre è ormai alle porte di Gerusalemme.

Gesù racconta la parabola ad “essi”. Chi siano questi “essi” non ci è dato di sapere, ma considerato quanto avviene subito dopo il racconto, dove si accenna alla “moltitudine dei discepoli” è da pensare che questo “essi” si riferisca ai discepoli di Gesù, che compaiono probabilmente anche sotto il termine più generico ed onnicomprensivo di “folla” in 18,36. Una folla probabilmente composta in prevalenza da discepoli, senza escludere la presenza di altri ammiratori di Gesù o di occasionali pellegrini, che salivano al Tempio. Lo si può arguire in qualche modo dal v.18,39 dove “quelli che precedevano lo rimproveravano affinché tacesse”. Una sorta, quindi, di servizio d'ordine improvvisato dai discepoli e non certo da persone che erano lì per caso.

Il motivo che spinge Gesù a raccontare la parabola risiede nel fatto che “essi credevano che il regno di Dio stesse per essere manifestato nello stesso momento”. L'attesa dell'avvento del messia e della fondazione del Regno di Dio era molto forte in Israele. Segnali in tal senso si rilevano dagli stessi vangeli. Di Simeone si dice che “attendeva la consolazione d'Israele” (2,25); e in questo contesto la profetessa Anna “parlava di lui a tutti quelli che aspettavano la liberazione di Gerusalemme” (2,38b); in 17,20b sono i Farisei che chiedono direttamente a Gesù “quando viene il regno di Dio”; anche Giuseppe d'Arimatea, membro del sinedrio (23,50), ormai divenuto discepolo di Gesù, seppur nascostamente per paura dei Giudei (Gv 19,38), attendeva la venuta del Regno di Dio (23,51); i due discepoli di Emmaus, inoltre, non temono di svelare il loro rammarico e la loro grande delusione per la triste fine di Gesù, su cui avevano puntate le loro speranze per il riscatto di Israele: “Ora, noi speravamo che egli fosse colui che stesse per liberare Israele” (24,21a); mentre i discepoli, dopo la risurrezione di Gesù, gli chiedono esplicitamente “Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?” (At 1,6). Anche i due figli di Zebedeo chiedono a Gesù di sedere alla sua sinistra e alla sua destra nel suo regno (Mt 20,21; Mc 10,37). I discepoli, inviati da Gesù, annunciano che il Regno di Dio è vicino (10,11b); mentre in 9,27 Gesù attesta con solennità: “Vi parlo con verità, vi sono alcuni di quelli che stanno qui, che non sperimenteranno (la) morte finché (non) abbiano visto il regno di Dio”, e nel contempo in 11,20b dichiara che “è dunque giunto a voi il regno di Dio”. Gli stessi Zeloti, che potremmo considerare come il braccio armato dei Farisei, erano mossi da un ideale teocratico: solo Dio doveva essere re e i Romani, in quanto dominatori pagani, erano di ostacolo al governo di Dio su Israele. Da qui le loro sommosse e le loro turbolenze sociali che portarono, poi, alla prima guerra giudaica (66-73 d.C), che fu devastante per Gerusalemme, il Tempio e l'intera Palestina e per lo stesso giudaismo, che dal 70 d.C. in poi dette il via ad un nuovo giudaismo non più fondato sul Tempio, sul sacerdozio e sui sacrifici, ma sul rabbinismo e sullo studio della Torah7.

Il contesto storico entro cui avviene il racconto della parabola è quello posto a ridosso delle feste pasquali e il clima era in genere incandescente per il sovraffollamento di Gerusalemme che in queste occasioni poteva contare anche sei/settecentomila persone, provenienti da tutte le parti dell'impero. Un numero che creava certamente problemi di ordine pubblico e il timore di rivolte. Per questo motivo il prefetto della Palestina, all'epoca di Gesù, Ponzio Pilato (26-36 d.C.), che normalmente risiedeva a Cesarea marittima, trasferiva la sua residenza presso la Fortezza o Torre Antonia, una guarnigione militare erodiana posta a ridosso del Tempio.

In questo clima, che poteva diventare socialmente incandescente e drammaticamente disastroso, il Gesù lucano cerca di gettare acqua sul fuoco con questa parabola, che lascia intravvedere come i tempi della costituzione del Regno di Dio non fossero così imminenti come si credeva e che tra lui, che stava salendo a Gerusalemme, e la fondazione del Regno di Dio doveva trascorrere un lungo tempo di operosa attesa da parte dei discepoli. Comunque, al di là del contesto storico, la parabola lascia intravvedere sullo sfondo la nuova titolatura cristologica di re e giudice escatologico.

La regalità escatologica di Gesù (vv.12-14)

Note generali

La presente pericope si snoda su tre versetti che presentano, in tre diversi quadri interconnessi tra loro, tre diversi personaggi, che verranno, poi, ripresi successivamente nella pericope definita dai vv.15-27: a) un uomo nobile che sta per acquisire la regalità con l'annesso regno (v.12); b) i servi che, durante l'assenza del loro padrone, devono “darsi da fare” (v.13); c) gli avversari del re, che si oppongono alla sua regalità e tramano contro di lui (v.14). Vengono, pertanto, qui delineate due diverse posizioni che rilevano due contrapposti comportamenti: da un lato, i servi, che sono a servizio del loro padrone e pertanto fanno in qualche modo parte della sua famiglia e della sua proprietà; dall'altro, i suoi avversari dichiarati, che ostacolano l'insorgere di questo nuovo regno. In altri termini, queste due contrapposte posizioni delineano altrettante aree spirituali e morali, che semplicisticamente potremmo definire come i buoni e i cattivi, sui quali grava indistintamente il medesimo giudizio (vv.15-27). Una bontà e una cattiveria che sono generate dal diverso rapporto con cui gli uomini si relazionano con il terzo soggetto: la regalità che questo uomo nobile sta per acquisire e che costituisce il discrimine, quindi elemento di giudizio, tra servi e oppositori; tra buoni e cattivi.

Il racconto di questa prima parte della parabola (vv.12-14) sembra rifarsi a dei fatti storici riguardanti Archelao (23 a.C.-18 d.C.)8. Questi, alla morte del padre, Erode il grande (4 d.C.), venne da lui designato suo successore con il titolo di re. Archelao si recò a Roma per riceverne l'investitura ufficiale dall'imperatore Augusto. Ma una delegazione di sudditi, proveniente dalla Samaria e dalla Giudea, si oppose a tale nomina, mettendo al corrente l'imperatore delle atrocità commesse da Archelao e chiedendone la destituzione, avvertendolo di un imminente pericolo di rivolta nel caso in cui la loro richiesta non fosse stata accolta. Di conseguenza Archelao ebbe soltanto il titolo di etnarca. Questi ritornato in patria si vendicò dei suoi oppositori. Nel 6 d.C. l'etnarca venne destituito per crudeltà ed esiliato a Vienne. Da quel momento la Giudea divenne provincia romana9.

Benché la parabola sembri ispirarsi a questi episodi storici tutto ciò va compreso, a mio avviso, come una mera coincidenza del tutto fortuita. Il v.12, infatti, è di provenienza redazionale, non trovandosi nella fonte Q, da cui ha attinto anche Matteo, che parla soltanto di un uomo che parte per un viaggio (Mt 25,14a), quindi un'espressione molto meno elaborata di quella di Luca e pertanto molto più vicina al testo originale. Del resto Luca è un greco, non è mai stato in Palestina, non ne conosce la geografia, non ne conosce la storia né gli usi né i costumi. È singolare, quindi, che per costruire la sua parabola l'autore si rifaccia ad un episodio che quasi certamente non conosceva. Del resto che bisogno aveva di ispirarsi a questi fatti? E se questi non fossero mai accaduti, forse che Luca non avrebbe scritta la sua parabola così come l'ha scritta? Certamente si! Luca, infatti, scrive il v.12 non ispirandosi a quegli episodi, ma alla sua cristologia, che in quel momento gli imponeva in qualche modo di pensare ad un uomo di nobili origini (eÙgen¾j, eughenès), che già aveva anticipato in 1,32 e più velatamente in 1,27; 2,11; in 18,38.39; 20,41. Tutti passi questi che rimandano alla discendenza davidica regale di Gesù. Un uomo di nobili origini davidiche, sulle quali pesava la profezia di Natan al re Davide (2Sam 7,11b-13). Di questo Luca era al corrente, conoscendo molto bene la bibbia, in particolar modo la versione greca LXX. Ora qui, il suo intento, ormai a ridosso dei racconti della passione e morte, è quello di dimostrare al suo lettore, sconcertato dal dramma del Golgota, la regalità di Gesù, che apparirà più evidente in tali racconti (23,1-3; 23,37.38), aiutandolo in tal modo anche a comprendere il senso del suo patire e del suo morire, che secondo le logiche umane sono chiaramente un fallimento. Lo fa richiamando tre momenti importanti di questo uomo nobile: il suo partire per una regione lontana, alludendo al suo ritorno al Padre, dove risiederà “alla destra della potenza di Dio” (22,69); il suo prendere per se stesso un regno, alludendo alla Signoria universale del Risorto; e il suo ritornare, richiamandosi alla Parusia, che porta con sé un altro elemento di identità di questo re escatologico, che meglio apparirà nei vv.15-26: quello del giudizio, che verrà posto indistintamente sui servi, in quanto tali, e sopra i suoi nemici, che tale sua regalità e signoria non solo hanno disconosciuto, ma anche osteggiato.

È dunque questa densa cristologia che sottende il v.12, che ha spinto Luca a scrivere tale versetto e non Archelao e le sue disavventure di potere.

Commento ai vv.12-14


Il v.12 delinea l'identità di una persona che “partì per una regione lontana”. Un'espressione questa che ritroviamo identica nel racconto del “Figliol prodigo” in 15,13, dove viene indicato un luogo lontano dal padre e, quindi, un luogo di sofferenza e di perdizione, come attesterà il successivo racconto parabolico. Qui la posizione di questa “regione lontana” dice l'esatto contrario: essa è un luogo lontano, irraggiungibile dagli uomini e che non fa parte della realtà umana. Già l'anonimato di questo luogo genericamente chiamato “regione” parla di un luogo sconosciuto agli uomini. Anche per questo essa è lontana. Ma questa lontananza dice anche, in qualche modo, la natura di questo viaggio, che non è verso la perdizione e il fallimento, ma verso la piena affermazione di questo uomo dalle nobili origini. La sua metà, infatti, è acquisire un regno e con esso la regalità. Una dipartita che avverrà, lo si vedrà meglio nel racconto della passione e morte di Gesù, attraverso la croce, l'entrata stretta che porta al Padre. Ma già il lettore deve sapere da subito che la natura di questo uomo è “di nobili origini” e il suo lungo viaggio è finalizzato a darne pienezza, preludendo in qualche modo alla sua regalità più volte richiamata nel corso del vangelo, e che gli verrà riconosciuta ufficialmente soltanto dopo che egli ha raggiunto, attraverso un cammino di sofferenza e di dolore, questa “regione”.

Lo scopo di questo viaggio è prendere possesso di un regno che gli è stato riservato. Un regno che fa di questo uomo un “re” e insignito, pertanto, della regalità, di cui il regno è espressione e nel contempo il luogo del suo potere. Quale sia il senso di tutto questo ci viene indicato in una grande visione escatologica e cristologica da 1Cor 15,25-28: “Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti”. Tutte le cose, infatti, sono state create per mezzo di lui e in vista di lui (Col 1,16b). Il senso, dunque, è riportare il potere di Dio nel creato e in mezzo agli uomini, perché Dio sia nuovamente tutto in tutti, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché l'intera creazione era incandescente di Dio.

Una regalità che avrà il suo apogeo nella risurrezione, dove questo uomo dalle nobili origini divine, che non disdegnò di rinunciare allo splendore della sua divinità per assumere la natura umana, facendosi obbediente fino alla morte di croce (Fil 2,6-8), verrà ricostituito nella pienezza del fulgore della sua natura divina (Fil 2,9-11). Mt 28,18b presenterà un Risorto plenipotenziario, da cui traluce l'universalità di questo suo regno: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” e in cui si riflette la grandiosa visione di Dn 7,13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco apparire, sulle nubi del cielo, uno, simile ad un figlio di uomo; giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui, che gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto”.

La sua dipartita per la porta stretta della croce verso il Padre, da cui riceve la gloria e lo splendore della sua divinità, non chiude la sequenza di questo lungo viaggio, che partito dal seno del Padre, passando attraverso le angustie di questo mondo, lo riporta a lui (Gv 16,28), ma viene prospettato anche il suo ritorno. Il viaggio verso Gerusalemme è dunque ben lungi dal suo compiersi definitivo.

Presentata l'identità di questo uomo dalle nobili origini che sta per partire verso una regione lontana dove verrà insignito di una signoria regale per poi ritornare, ora l'autore accentra l'attenzione del suo lettore sul tratto di tempo che intercorre tra la dipartita di questo uomo e il suo ritorno. Uno spazio temporale popolato da servi ed oppositori; un tempo che non sarà neutro e insignificante, ma in cui si giocherà il loro destino. Già, dunque, fin d'ora questo uomo di nobili origini mostra la sua signoria e il suo potere discriminante all'interno di questo spazio, che viene affidato ad entrambi perché giochino la loro partita, il cui risultato li vedrà o vincitori o perdenti, ma non vi sarà un pareggio. Uno spazio temporale, quindi, su cui grava un'ipoteca, venendo sottratto in tal modo alla discrezionalità dei contendenti. Essi lo potranno usare a loro piacimento, ma ne dovranno rendere conto. Benché il senso di tutto questo possa spingere ad una comprensione escatologica, tuttavia il racconto va letto e compreso all'interno del contesto entro cui è collocato: evidenziare la regalità di questo uomo di nobili origini, la cui sovranità e signoria si mostra operante fin d'ora. I padroni, pertanto, non sono coloro che abitano tale spazio, poiché dovrà essere restituito al loro re e sull'uso che se n'è fatto si dovrà rendere conto. È proprio su questo “dover rendere conto” che si rivela il potere e la signoria regale di questo re.

Il v.13 presenta il primo gruppo di personaggi che abitano questo spazio temporale. Si tratta di dieci servi a cui vengono assegnate dieci mine, una mina per ciascun servo. Un dieci che è una cifra tonda ed esprime un tutto compiuto, una totalità10. Non si parla quindi qui di dieci servi, ma di tutti i servi che si sono posti al servizio di questo nobile padrone; e ciò che viene assegnato loro sono dieci mine, cioè, di fatto tutti i suoi beni. Ma perché Luca ha trasformato i talenti della fonte Q in mine, considerato che la mina equivale ad un sessantesimo di talento? Ben poca cosa, del tutto insignificante rispetto al valore offerto dalla parabola originale. Perché l'autore evidenzia come tutti i beni di questo uomo nobile equivalgono soltanto a dieci sessantesimi di un talento? Questa trasformazione dal più al meno lascia intendere che qui non si sta parlando di beni o di ricchezze venali, ma di altri beni ed altre ricchezze, che non sono apprezzate dalle logiche umane e sono considerate di poco conto. Si tratta di beni spirituali. Del resto quali beni poteva lasciare questo uomo dalle nobili origini che se ne sta andando verso una regione lontana, lontana dalle logiche umane, una lontananza la cui dimensione viene ricordata da Is 55,8-9: “... i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”. E tutto questo valore spirituale che questo uomo nobile ha lasciato ai suoi è, agli occhi umani, ben poca cosa: la sua Parola, il suo insegnamento e il suo stesso potere, che risiede tutto nella sua Parola. Da qui il comando “Datevi da fare nel mentre che vado”. Questo “darsi da fare durante il tempo della sua assenza” e in attesa del suo promesso ritorno (v12) delinea uno spazio temporale dove questi servi sono chiamati “a darsi da fare”, cercando di far fruttificare la mina ricevuta. Un “darsi da fare” che non è soltanto un'esortazione, ma anche un comando (28,19-20), che, collocato nella prospettiva del ritorno di questo uomo nobile, lascia intravvedere l'avvento di un giudizio che questo comando porta intrinsecamente con sé, ipotecando fin d'ora lo spazio operativo in cui si trovano i servi. Un “darsi da fare” che delinea il tempo postpasquale, quello della Chiesa, un tempo che Luca racconta nei sui Atti, dove questi servi prendono coscienza che non è giusto perdere il loro tempo per servire la mensa, sottraendolo all'annuncio della Parola (At 6,2), che, invece, proprio per quel loro “darsi da fare”, cresceva e si diffondeva (At 6,7; 12,24; 13,49), producendo ovunque grandi frutti (At 2,41; 8,4.14.25; 11,1; 13,48-49).

Il cammino della Parola di Dio lungo la storia della Chiesa e degli uomini è sempre stato disseminato di chiari-scuri e se il v.13 racconta i “chiari” del proficuo diffondersi della Parola di Dio, il v.14 riporta gli “scuri” della contrapposizione ad essa, al suo affermarsi in mezzo agli uomini, all'instaurarsi del suo regno, mossi dall'odio. È in breve la presentazione di quel giudaismo che ha ostacolato e perseguitato questo uomo nobile fino ad ucciderlo, continuando la sua opera distruttiva contro i suoi discepoli.

Ci troviamo di fronte ai concittadini di tale uomo nobile, cioè i giudei, i quali, come raccontano i vangeli, gli Atti degli Apostoli e le stesse lettere di Paolo, odiavano non solo Gesù, ma anche i suoi seguaci e li perseguitavano. Ma il v.14 allude ad un qualcosa di ben più specifico di una semplice avversione nei confronti della Chiesa, quale prolungamento dell'odio e dell'avversione contro Gesù. Si tratta, infatti, di quei giudei, probabilmente dei rappresentanti delle autorità giudaiche, che deferirono Gesù a Pilato, chiedendo di condannarlo a morte (Gv 18,28a; 19,35), e che qui Luca chiama “delegazione”. Il riferimento inequivocabile è quindi alla passione e morte di Gesù, al come sono andate le cose. Il dialogo che Pilato, nel suo andirivieni tra Gesù e i Giudei, raccontato da Giovanni (Gv 18,29.33.38b; 19,4.9), tra il pretorio dov'era Gesù e le soglie di accesso a questo, dov'erano rimasti i giudei, che gli avevano consegnato Gesù, per non contaminarsi, essendo vicina la pasqua (Gv 18,28), lo aveva fatto certamente non con la folla, come sembra apparire dai racconti sinottici, bensì con una delegazione rappresentante del Sinedrio (19,6), che aveva condannato Gesù. Quella delegazione che Luca richiama qui al v.14 e che aveva rifiutato la regalità di Gesù sui Giudei. Un rifiuto in cui riecheggia quello di Gv 19,14-15: “Ora, era la preparazione della pasqua, era circa l'ora sesta. E dice ai Giudei: <<Ecco il vostro re>>. Gridarono dunque quelli: <<Togli, togli; crocifiggilo>>. Dice loro Pilato:<<Crocifiggerò il vostro re?>>. Risposero i sommi sacerdoti: <<Non abbiamo re se non Cesare>>”.

Gesù giudice escatologico: sui suoi servi …. (vv.15-26)

Note generali

Se la pericope circoscritta dai vv.11-14 presenta i personaggi e i loro ruoli identitari all'interno della parabola delle dieci mine, la presente pericope, vv.15-26, racconta gli eventi che riguardano il ritorno dell'uomo nobile, insignito della regalità e di un regno, che convoca i suoi servi chiedendo loro conto del loro operato, premiando e punendo, svolgendo, quindi, il ruolo di giudice, discriminando i servi in base ad un unico parametro, quello del loro aver saputo o meno ottemperare al suo comando iniziale: “Datevi da fare nel mentre che vado”. L'intento di questa lunga pericope è pertanto rilevare la nuova identità di questo “uomo di nobili origini”, diventato re, e ora divenuto anche giudice. Lentamente Luca sta intessendo per il suo lettore, attraverso una dettagliata titolatura, le diverse sfaccettature della complessa personalità e ruolo di Gesù. Nel racconto di Zaccheo, Gesù appare come il “Signore” (v.8) e il Salvatore (v.9), mettendo in rilievo il senso della sua missione: cercare per salvare ciò che era perduto (v.10); qui, ora, vi aggiunge altri due aspetti più inquietanti: egli è “re” e “giudice” escatologico, esercitando in tal modo il suo potere sia sui suoi servi (vv.15-26) che contro i suoi avversari (v.27).

Benché Luca presenti inizialmente la simbolica quantità dei suoi servi, in numero di dieci, tuttavia, ora, racconta la scena del giudizio limitatamente a tre di questi dieci, allineandosi in tal modo alla parabola originale di fonte Q, che ritroviamo parimenti in Mt 25,20-25. E gli altri sette quale fine hanno fatto? Perché solo tre? In realtà Luca qui non intende presentare dettagliatamente la sorte di tutti i dieci servi, bensì presenta tre categorie di servi: chi si è dato da fare con grande impegno decuplicando la mina ricevuta; chi ha saputo esprimere comunque il suo impegno, anche se in misura minore, limitandosi a quintuplicare la propria mina; e chi, infine, con grave negligenza ha latitato, venendo meno al comando del “Datevi da fare”. Tre categorie di persone con le quali, probabilmente, Luca ha voluto indicare all'interno della chiesa tre diverse posizioni di impegno da parte dei discepoli, a cui corrispondono altrettanti livelli di responsabilità, che si riscontrano nell'assegnazione rispettivamente di dieci e di cinque città; mentre per l'ultimo, che si è dimostrato completamente neghittoso e negligente, rifiutando qualsiasi impegno all'interno della comunità dei servi, è stato spogliato del suo unico bene e, di fatto, destituito dal suo ruolo di servo, la quale cosa potremmo pensare come una sorta di scomunica dalla comunità dei servi operosi. Ed è ciò che appare più evidente nel racconto di Mt 25,30: “Gettate fuori nell'oscurità il servo inutile; là vi sarà il lamento e lo stridore dei denti”.

Commento ai vv.15-26

Il v.15 funge da transizione dalla pericope vv.11-14 ad un nuovo stato di cose. L'uomo dalle nobili origini che al v.11 era destinato alla regalità ora lo si ritrova qui già intronizzato (“preso il regno”) e nella sua nuova funzione regale esercita anche quella di giudice, convocando i servi ai quali aveva affidato una mina ciascuno unitamente al comando di “Darsi da fare”, che funge da parametro di raffronto sul quale verrà misurato il loro operato. La finalità di questa convocazione è sia conoscitiva che valutativa: “per sapere che cosa avessero guadagnato trafficando”. Il versetto, pertanto, funge da preambolo introduttivo ai vv.16-26, creando una cornice giudiziale da resa dei conti, al cui interno sono collocati, fornendone nel contempo la chiave di lettura.

I vv.16-26 vedono come protagonisti tre diverse categorie di servi: le prime due appartenenti ai servi fedeli, sia pur in diversa misura, al comando del loro padrone, che hanno saputo eseguire con profitto; la terza categoria appartiene ai neghittosi, quelli che all'interno della comunità credente hanno saputo mostrare tutta la loro mediocrità, sciupando il prezioso dono della fede e della Parola, preferendo vivere nell'incolore tran tran della loro vita, cercando di conservare quanto hanno ricevuto, ma senza farlo fruttare, piuttosto che prendere una netta posizione esistenziale da autentico testimone di un tesoro che gli era stato affidato. Gente che non si distingue all'interno della comunità, ma segue una ritualità che non arricchisce la loro vita spirituale, ma la rinsecchisce, impoverendola. Poiché se è vero che la mina è stata conservata, tuttavia essa è stata privata di ogni interesse e svalutata da una naturale inflazione. Ci troviamo di fronte ad una fede fatta di tradizioni, di gesti ripetitivi, che a lungo andare devitalizzano il rapporto del credente con Dio e con la comunità, non distinguendolo più dal resto degli uomini pagani. Per questo il giudizio finale lo vede spogliato della mina che ha ricevuto in dono ed equiparato di fatto a quelli che questa mina non l'avevano mai ricevuta.

Il v.26 conclude la sezione del racconto parabolico riguardante il giudizio sulle tre categorie di servi e costituisce la motivazione del comportamento di questo re-giudice, che tolta la mina al servo neghittoso la assegna a chi ha saputo produrre dieci mine. Si tratta di un detto sentenziale, un loghion che ricorre sei volte nei soli sinottici11. Probabilmente molto diffuso tra le comunità credenti. Quale sia il comune senso che gli viene attribuito, sia pur in contesti diversi o paralleli, viene offerto da Mt 21,43: “Perciò io vi dico: vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. Tolto, dunque, a chi originariamente era stato affidato, per essere assegnato a chi sa farlo fruttificare. E qui, nella fattispecie, chi ha dimostrato di saper far fruttare al massimo la mina che tutti parimenti avevano ricevuto, è quella categoria di servi che ha saputo produrre “dieci mine”, cioè una quantità abbondante e pienamente soddisfacente.

La ricompensa per questa loro fedeltà e la loro capacità amministrativa è l'affidamento rispettivamente di dieci e cinque città di questo regno, diversamente da Mt 21,21.23, per il quale la ricompensa dei servi è indistintamente per tutti la condivisione della gioia del padrone. La modifica che qui viene apportata da Luca rispetto all'originale della fonte Q, che ritroviamo invece in Matteo, lascia intendere come qui l'autore con questa modifica abbia voluto dire un qualcosa lasciando in tal modo intravvedere come questi servi in realtà siano dei veri e propri amministratori dei beni del loro padrone e ora ministri e responsabili di città che appartengono a questo regno. Servi che probabilmente Luca pensa come i diversi responsabili delle comunità credenti, a loro affidate. Una lettura, dunque, ecclesiologica di questa parabola, giustificata dal fatto che l'intero vangelo lucano è scritto in tale prospettiva.

Il v.27 porta a conclusione la parabola delle mine, ma con le mine e i servi non ha nulla a che vedere, richiamandosi, invece, all'altra categoria di persone che hanno avuto a che fare con questo re-giudice: i suoi avversari, di cui al v.14: “Ma i suoi cittadini lo odiavano e inviarono un'ambasceria dietro di lui, dicendo: <<Non vogliamo che costui regni su di noi>>”. Si tratta di una sentenza di condanna con effetto immediato, senza se e senza ma, senza alcun distinguo come è avvenuto per la categoria dei servi. Significativa è la sproporzione narrativa tra questi nemici, per i quali l'autore dedica soltanto i vv.14.27, e quella riguardante, invece ai servi per la quale l'evangelista dedica ben 13 versetti. Il senso di questa drastica riduzione di attenzione per i nemici di questo re-giudice è proprio il fatto che questi sono nemici, gente che nel nuovo regno non fanno storia e per i quali non c'è spazio. Tutto, dunque, si risolve in un versetto.

Il v.27 fa parte di una graduale “rivelazione” sul futuro di Gerusalemme e del Tempio e con loro dello stesso giudaismo. Il primo annuncio è in 13,35a, dove in modo vago e minaccioso si parla dell'abbandono di Israele, quale luogo della promessa: “Ecco vi è abbandonata la vostra casa”; il secondo passaggio è proprio questo v.27, dove si parla in modo allegorico del massacro dei giudei, che hanno rifiutato Gesù, disconoscendolo come l'atteso Messia e realizzazione della Promessa. Quella casa “abbandonata” acquista qui un significato più truculento e feroce e prelude, terzo annuncio, ai vv.19,43-44 dove si configura storicamente quanto già qui preannunciato figurativamente al v.27; il quarto passaggio è l'annuncio di 21,6, che riguarda la distruzione del Tempio e va a completare 13,35, dove si allude vagamente alla distruzione di Gerusalemme; il quinto ed ultimo passaggio è definito dai vv.21,21-24, dove il riferimento storico, assieme ai vv.19,43-44, si fa più esplicito e diretto e riguarda l'assedio di Gerusalemme e il massacro dei suoi abitanti avvenuto durante la prima guerra giudaica (66-73 d.C.), iniziatasi nel 66 d.C. ad opera degli zeloti. Questa ha avuto il suo apogeo nel 70 d.C. con l'assedio, la conquista e la distruzione di Gerusalemme e del Tempio ad opera delle truppe di Tito. Una guerra che ha avuto uno strascico fino al 73 d.C., tempo che servì a Roma per debellare l'ultima resistenza di circa un migliaio di zeloti asserragliati con le loro famiglie, donne e bambini, nell'erodiana fortezza di Masada e che preferirono suicidarsi in massa piuttosto che arrendersi a Roma.

Una gradualità di annunci che si sviluppa nel corso di cinque momenti, i cui contenuti diventano sempre più precisi via via che il racconto procede fino ad indicare in termini esplicitamente storici la disastrosa guerra giudaica, che pose fine al giudaismo del Tempio, leggendo in questo disastro storico la punizione divina: “poiché non hai riconosciuto il tempo della tua visita” (19,44b).

Oltre Gerico, salendo a Gerusalemme (v.28)

Il v.28 potremmo considerarlo di transizione, perché chiudendo la sezione parabolica (vv.1-27), introduce il lettore in un nuovo contesto (vv.29-44), che funge da preambolo agli eventi che si compiranno in Gerusalemme e che occuperanno i successivi cinque capitoli (20-24). Si passa, quindi, da una dimensione, quella del viaggio, ad una completamente nuova, che costituisce di fatto il motivo e la meta dei tale viaggio.

Con il v.28 termina, pertanto, il racconto del fittizio viaggio del Gesù lucano verso Gerusalemme, preluso in 9,31, dove si parla dell'esodo di Gesù verso Gerusalemme, iniziatosi in 9,51, che annuncia l'assunzione, cioè della salita di Gesù a Gerusalemme. Il v.19,28, pertanto, forma inclusione con il 9,51 racchiudendo l'intero quadro di questo lungo viaggio, durato ben dieci capitoli, e che funge nel contempo da grande contenitore di detti e parabole di Gesù, una raccolta di saggezza e sapienza cristiana. Vi è, infatti, un certo qual parallelismo tra i 9,51 e 19,28. In 9,51 Luca presenta il suo Gesù che rese duro il suo volto e, quindi, determinato ad andare a Gerusalemme; qui in 19,28 si dice che Gesù “dette queste cose, camminava davanti”, lasciando trasparire la determinazione del suo andare a Gerusalemme, senza frapporre indugio tra la sua predicazione e il suo andare. Sempre il v.9,51 parla del compiersi dei giorni della sua “assunzione”12 verso Gerusalemme; qui in 19,28 si parla di un Gesù che sale a Gerusalemme, la porta che lo apre alla sua ascesa verso il Padre.

Il verbo “camminava”, posto qui all'imperfetto indicativo, esprime un'azione durativa posta su quel “camminare” di Gesù verso Gerusalemme, che si potrebbe tradurre con “continuava a camminare”, dando una sequenzialità logica all'intero movimento di Gesù, tutto proteso verso Gerusalemme. Una tensione che viene rimarcata una volta di più da quel suo camminare “davanti”.

Gesù, proclamato Re e Messia dai suoi discepoli, si mostra anche giudice (vv.29-44)

Testo a lettura facilitata

Il contesto topografico, che scandisce il tempo dell'avvicinarsi del Golgota (v.29)

29 – Ed avvenne che si avvicinò a Betfage e Betania verso il monte chiamato degli Ulivi, inviò due dei discepoli

La prescienza di Gesù attesta la sua signoria sugli eventi (vv.30-34)

30 – dicendo: <<Andate nel villaggio di fronte, entrando nel quale, troverete un puledro legato, sul quale nessuno (degli) uomini mai si sedette, e slegatolo, conducete(lo qui).
31 – E se qualcuno vi interrogasse: “Per che cosa (lo) slegate?”, così dite: “Perché il Signore ha bisogno di lui”>>.
32 – Ora, partiti, gli inviati trovarono come disse loro.
33 – Ora, mentre essi slegavano il puledro, i suoi padroni dissero verso di loro: <<Perché slegate il puledro?>>.
34 – Questi dissero: <<Perché il Signore ha bisogno di lui>>.


Gesù proclamato messia e re dai discepoli (vv.35-40)

35 – E lo condussero da Gesù e, gettati i loro mantelli sul puledro, fecero salire Gesù.
36 – Ora, mentre egli andava, stendevano sotto i loro mantelli sulla strada.
37 – Mentre già egli si avvicinava alla discesa del monte degli Ulivi, tutta quanta la moltitudine dei discepoli, gioendo, incominciarono a lodare Dio a gran voce circa tutti i portenti che videro,
38 – dicendo: <<Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore; pace nel cielo e gloria nelle altezze>>.
39 – E alcuni dei Farisei dalla folla dissero verso di lui: <<Maestro, rimprovera i tuoi discepoli>>.
40 – E rispondendo disse: <<Vi dico, qualora essi tacessero, grideranno le pietre>>.

Il lamento di Gesù, giudizio divino sulla cecità di Gerusalemme, causa della sua distruzione (vv.41-44)

41 – E quando si avvicinò, avendo visto la città, pianse su di essa,
42 – dicendo che se avessi conosciuto in questo giorno anche tu le cose per la pace; ma ora sono nascoste a causa dei tuoi occhi.
43 – Poiché verranno giorni su di te e i tuoi nemici ti pianteranno palizzate e ti circonderanno e ti stringeranno da ogni parte,
44 – e colpiranno te e i tuoi figli in te, e non lasceranno pietra su pietra in te, poiché non hai riconosciuto il tempo della tua visita.


Note Generali

La sezione circoscritta dai vv.1-27 aveva la funzione, in vista della squalificante e deludente fine di Gesù, di evidenziarne, per contro, la sua identità nascosta di Signore (v.8) e Salvatore (v.9) mettendo in rilievo nel contempo il senso della sua missione (v.10); mentre la parabola delle dieci mine metteva in luce due ulteriori titoli, quello di re (v.12) e di giudice (vv.15-27). Preceduta da questa catechesi sull'identità di Gesù, ora questa nuova sezione narrativa (vv.29-44) ne funge da applicazione storica e nel contempo trova in essa la sua chiave di lettura.

Attraverso diversi passaggi, infatti, si mostrerà la Signoria di Gesù sugli eventi della storia, che egli domina con la sua prescienza (vv.30-34). Gesù, dunque, non è vittima di tali eventi, ma questi eventi accadono perché obbediscono ad un preciso piano salvifico, di cui Gesù è a conoscenza e che gli uomini inconsapevolmente stanno attuando. Egli è anche riconosciuto messia e re dalla moltitudine dei suoi discepoli (vv.35-40), in cui l'espressione “moltitudine” evoca qui una dimensione ecclesiale; una regalità, per come si svolge la narrazione, che si richiama in qualche modo alla profezia di Zc 9,9 e 14,4.9. Ed infine, richiamandosi al v.27 e a Zc 14,1-2, Gesù viene presentato come il giudice escatologico, che emette una sentenza di condanna sulla pervicace incredulità di Gerusalemme, distrutta dalla Guerra Giudaica (66-73 d.C.), letta dalle comunità credenti come la punizione divina per aver respinto l'inviato di Dio (vv.41-44).

La sezione, che funge da transizione tra la fine del racconto del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28) e l'inizio della sua attività missionaria in Gerusalemme, inaugurata con la purificazione del Tempio (vv.45-48), e dalla quale non uscirà più se non per ascendere al cielo (24,50), è scandita in quattro parti:

    1. Il contesto geografico, che fa da cornice entro cui si collocano gli eventi qui narrati (v.29);

    2. la prescienza di Gesù, che attesta la sua signoria sugli eventi, che stanno per compiersi in Gerusalemme (vv.30-34);

    3. la proclamazione di Gesù re messianico da parte dei suoi discepoli (vv.35-40);

    4. Il lamento di Gesù quale giudizio divino sulla cecità di Gerusalemme, causa della sua distruzione (vv.41-44)


Commento ai vv. 29-44

Il contesto geografico (v29)

Il v.29 si apre con l'espressione cara a Luca “Kaˆ ™gšneto æj13 (Kaì eghéneto ós, Ed avvenne che), con cui l'autore scandisce l'accadere degli eventi nella storia della salvezza, che ha il suo attuarsi qui, nell'oggi dell'uomo. Un'espressione che avverte nel contempo il lettore che quanto qui avviene ha a che fare con il progetto salvifico di Dio, che si sta attuando negli eventi di seguito descritti.

Da un punto di vista letterario, il v.29 introduce un cambio geografico, creando un nuovo contesto narrativo che dice al lettore che qui si gira pagina e inizia un nuovo racconto, ma nel contempo crea un forte parallelismo con 9,52, dove Gesù, all'inizio del suo viaggio (9,51), invia davanti a sé dei messaggeri per preparare la sua entrata in un villaggio della Samaria. Similmente qui Gesù invia innanzi a sé, per preparare la sua entrata regale in Gerusalemme, due messaggeri. Gesù, infatti sarà proclamato re prima di entrare a Gerusalemme, “Mentre già egli si avvicinava alla discesa del monte degli Ulivi” (v.37a), a poche centinaia di metri dall'entrata in Gerusalemme, così che egli vi entrerà da re per prenderne possesso. Non a caso il suo primo atto sarà la purificazione del Tempio, proclamato casa del Padre. Una sorta di presa di possesso di ciò che gli appartiene. In tal modo tutto quanto qui accadrà si muoverà sullo sfondo della sua regalità, che verrà esplicitamente richiamata nel corso del racconto della passione e morte di Gesù in 23,3.37.38.

Tre sono qui gli elementi geografici che Luca mutua, pari pari anche nello stesso ordine, da Mc 11,1: Betfage, Betania e Monte degli Ulivi, che danno continuità logica, almeno nella sua parte terminale, al viaggio di Gesù, quasi a cronografarne gli ultimi movimenti prima di accedere al Padre. In 18,35 Gesù si avvicina a Gerico, dove guarisce dalla sua cecità un cieco; in 19,1 è già entrato in Gerico e la sta percorrendo; in 19,28, da Gerico, porta per Gerusalemme, sale verso la città santa attraverso un percorso di una trentina di chilometri circa per giungere, qui, a ridosso di Gerusalemme, nell'ordine geografico: Betania, che si trova a 15 stadi da Gerusalemme (Gv 11,18). Si tratta dello stadio alessandrino14, in uso presso la Palestina in epoca ellenistica e poi romana, che misura circa 185 mt. Betania pertanto distava da Gerusalemme soltanto poco meno di tre Km; mentre Betfage, posta sul lato orientale del Monte degli Ulivi, dista cinque stadi (Ant. Jud. 20,169), all'incirca poco meno di un Km.

Si è rilevato come Luca riporta i due villaggi mutuandoli da Mc 11,1 che li elenca citandoli in ordine inverso, rispetto al tragitto di chi viene da Gerico: Betfage e Betania, anziché nella sequenza logica di Betania e Betfage. Una svista di Marco, che Luca non corregge perché non conosce la geografia della Palestina, per cui, incolpevole, riporta i dati in modo acritico dandoli per buoni. Ma è interessante capire perché Marco, pur conoscendo bene la Palestina inverta le due località, quasi che le guardi non dalla parte di Gerico, ma da Gerusalemme. Perché questo? Un errore, una svista o una intenzionalità? Oppure più semplicemente una ingenuità dell'autore che scrive il suo vangelo non a Roma, come si pensa, bensì stando in Gerusalemme? Sarà una questione che affronteremo nel nostro prossimo studio sul vangelo di Marco.

La prescienza di Gesù attesta la sua signoria sugli eventi (vv.30-34)

Questa pericope, preparatoria alla scena successiva (vv.35-40), è scandita in due parti: il comando-profezia di Gesù ai due discepoli (vv.30-31) e l'esecuzione-testimonianza da parte dei due discepoli (vv.32-34). La sua funzione è triplice: a) evidenziare la prescienza di Gesù, che conosce anticipatamente gli eventi, i quali, pertanto, non lo travolgono, ma è lui che si offre a loro. Gesù, quindi, domina gli eventi, anzi, ne è il Signore. b) Ne viene, quindi, sottolineata la signoria con il titolo di “Signore”, che compare due volte in pochi versetti. Anzi, Gesù stesso qui si autodefinisce “Signore”. Una signoria che prelude alla sua regalità messianica, che verrà proclamata nella successiva pericope (vv.35-40). c) Si parla di un puledro “sul quale nessuno (degli) uomini mai si sedette”. Un particolare quest'ultimo in cui riecheggia in qualche modo Zc 9,9: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro nuovo”, in cui quel “puledro nuovo” (pîlon nšon, pôlon néon) è reso da Marco e Luca con la circonlocuzione “un puledro sul quale nessuno (degli) uomini mai si sedette”, evidenziando in tal modo la sacralità di questo “puledro”, sottratto al suo comune uso umano e riservato, in un certo qual modo consacrato, al Signore, al re messianico (v.38)15.

Centrale i questo racconto è il v.32 in cui si attesta che gli inviati, in numero di due (v.29b), come si addice ad una seria testimonianza, “trovarono come disse loro”, mentre i successivi vv.33-34 vanno a completare il minuzioso accadere della profezia. Gesù, dunque, è il Signore della storia e degli eventi che in essa accadono, anzi ne è il protagonista principale.


Gesù proclamato messia e re dai discepoli (vv.35-40)


Note generali

Lo sfondo su cui si muove questo racconto è biblico e si richiama sia a Zc 9,9 e 14,9 che al rituale di intronizzazione regale che riscontriamo in 1Re 1,32-40 e 2Re 9,13 ed avrà il suo vertice nel racconto della “purificazione del Tempio” (vv.45-48), con cui si evidenzia la presa di possesso del Tempio da parte di Gesù, espropriato agli affari degli uomini e restituito al Padre e dove Gesù si insedierà impartendo con autorità, da questo luogo, il suo insegnamento. Tutta la diatriba che ne seguirà, posta sotto l'insegna della morte (v.47b) e a cui verrà dedicato l'intero cap.20, verterà, infatti, sul potere di Gesù, che esautorando di fatto i sommi sacerdoti, si è di fatto appropriato del Tempio, dove “insegnava ogni giorno” (v.47a).

Un racconto costruito con la finalità di evidenziare la regalità di Gesù, che verrà richiamata anche in 23,3.37.38, durante il racconto della passione e morte.

Quanto alla storicità dell'evento, questa lascia molto a desiderare. Qui si parla di una moltitudine di discepoli che acclamano Gesù (v.37b) messia e re (v.38); Mt 21,8 racconta di moltissima folla; mentre in 21,9 si parla di folle che precedevano e quelle che seguivano; similmente Gv 12,12a parla di “gran folla”, Mc 11,8 parla, più genericamente, di “molti”. L'idea che ne esce è che qui ci sia un consistente numero di persone esagitate che acclamano Gesù “figlio di Davide” (Mt 21,9); che invocano lo ristabilirsi del regno davidico (Mc 11,10); in Gv 12,13 si acclama Gesù “re d'Israele”, mentre Lc 19,38b vede in Gesù soltanto “il Re”, affermandone in tal modo la regalità universale, la quale cosa farà anche Gv 18,37. Tutti gli evangelisti, invece, concordano sulla messianicità di Gesù, proclamata con quel “benedetto colui che viene”, in greco “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, colui che viene) con cui si indicava il Messia o “il Veniente”.

Un evento, quello dell'entrata di Gesù in Gerusalemme, che così come raccontato dagli evangelisti difficilmente può essere potuto accadere nelle modalità con cui viene descritto, per il pericolo di sommosse e rivolte, che avrebbero provocato una pesantissima quanto cruenta repressione da parte di Roma, lì presente in Gerusalemme in forze, rafforzate, per l'occasione delle festività della pasqua, dall'invio di coorti in appoggio a quelle già presenti sul territorio palestinese, che avevano funzioni di polizia (ogni coorte comprendeva circa 600 soldati), distaccandole dalla III Gallica, VI Ferrata Fidelis, XII Fulminata e X Fretensis16, tutte legioni di stanza in Siria, da cui la Palestina dipendeva amministrativamente. Pensare, quindi, che una numerosissima folla o comunque molto consistente potesse proclamare Gesù come il Messia, osannandolo re d'Israele, senza creare un certo scompiglio e senza attirare per questo l'attenzione delle autorità romane, lì presenti in forze, non è certamente credibile. Sarebbe stato di certo un massacro, considerata la determinazione e la crudeltà del prefetto Pilato, per l'occasione lì presente in Gerusalemme17, che proprio per la sua rozza crudeltà venne destituito nel 36 d.C. dal governatore romano della Siria Lucio Vitellio, da cui Pilato dipendeva. Un timore questo che riecheggia sia in Gv 11,47-48: “Allora i sommi sacerdoti e i farisei riunirono il sinedrio e dicevano: <<Che facciamo? Quest'uomo compie molti segni. Se lo lasciamo fare così, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione>>”, sia in Lc 19,39 nelle parole dei Farisei, che riprendono le sconvenienti e pericolose acclamazioni della moltitudine dei discepoli di Gesù: “E alcuni dei Farisei dalla folla dissero verso di lui: <<Maestro, rimprovera i tuoi discepoli>>”.

È da pensare, quindi, che i racconti degli evangelisti siano elaborazioni della chiesa primitiva, che ha voluto dare un taglio squisitamente cristologico all'entrata di Gesù in Gerusalemme.

Commento ai vv.35-40

La pericope è scandita in due parti: la prima riguarda l'intronizzazione regale di Gesù, proclamato Messia e Re dai suoi discepoli (vv.35-38); la seconda riguarda la reazione negativa dei farisei alle acclamazioni dei suoi discepoli (vv.39-40).

Lo schema narrativo su cui sono costruiti i vv.35-38 riprende, sostanzialmente identico, quello dell'intronizzazione di Salomone, raccontato da 1Re 1,38-40: “Scesero il sacerdote Zadok, il profeta Natan e Benaia figlio di Ioiada, insieme con i Cretei e con i Peletei; fecero montare Salomone sulla mula (cfr. Lc 19,35b) del re Davide e lo condussero a Ghicon. Il sacerdote Zadok prese il corno dell'olio dalla tenda e unse Salomone al suono della tromba. Tutti i presenti gridarono: <<Viva il re Salomone!>> (cfr. Lc 19,38). Risalirono tutti dietro a lui, suonando i flauti e mostrando una grandissima gioia e i luoghi rimbombavano delle loro acclamazioni (cfr. Lc 19,37b)”. Lo schema viene integrato con l'immagine di 2Re 9,13: “Tutti presero in fretta i propri vestiti e li stesero sotto di lui sugli stessi gradini, suonarono la tromba e gridarono: <<Ieu è re>> (cfr. Lc 19,35a.36.38)”. Un cerimonia quest'ultima che dice simbolicamente la sottomissione del popolo al re, mettendo a sua disposizione le proprie vite. L'abito, infatti, nell'immaginario degli antichi era figura della persona, del suo modo di essere e della sua stessa vita18, e in particolar modo il mantello, che faceva parte dell'abbigliamento quotidiano e si prestava a molteplici usi: da coperta durante la notte o da strumento in cui avvolgere e trasportare i più svariati oggetti. Esso era di tale utilità e così legato al vivere quotidiano che Es 22,25-26 ne proibiva il pignoramento19.

Il richiamo di Luca a queste immagini dell'intronizzazione regale di Salomone, applicate a quella di Gesù, non è casuale, ma è finalizzato a creare un parallelismo tra Salomone e Gesù. Salomone, infatti, è il diretto discendente di Davide, quella “discendenza” che Dio, attraverso il profeta Natan, aveva promesso a Davide: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno” (2Sam 7,12-13). Fu, dunque, lui il diretto discendente di Davide, che venne designato a succedergli sul trono (1Re 1,32-35). Questi è il re che fu investito dalla sapienza divina (2Cr 9,23), che lo rese famoso presso gli uomini (2Cr 9,1-7); fu giudice giusto presso il suo popolo (1Re 3,28) e, infine, fu il re che costruì il primo Tempio in pietra (1Re 6,9), dando, parallelamente alla sua, una reggia a Jhwh. Immagini queste che la chiesa primitiva fa riecheggiare in Gesù, che non solo restituisce al Padre il suo Tempio (vv.45-48), espropriato dal mercanteggiare degli uomini, ma, come Salomone, gli costruisce un nuovo Tempio destinato a durare per sempre: il suo stesso corpo risorto, dove Dio dimorerà per sempre in mezzo agli uomini (Mc 14,58; Gv 2,19-21); egli è il compimento della discendenza davidica, promessa da Natan al re Davide, e la cui regalità e il cui regno sono stati resi stabili con la risurrezione (2Sam 7,12-16); egli è la sapienza eterna del Padre (Lc 2,52; 7,35; 11,49; 1Cor 1,24.30) di gran lunga superiore a quella di Salomone (Lc 11,31). Un'investitura regale, pertanto, che affonda le sue radici nella promessa stessa di Dio fatta a Davide e che qui assume coloriture e sembianze messianiche.

Se il racconto dell'intronizzazione regale di Gesù è stato costruito su quello di Salomone, creandone un parallelismo, lo sfondo su cui questo si muove è, da un lato, Zc 9,9, che ne sottolinea la regalità: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro nuovo”; dall'altro, è Zc 14,4, che crea un contesto di giudizio escatologico : “In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente, e il monte degli Ulivi si fenderà in due, da oriente a occidente, formando una valle molto profonda; una metà del monte si ritirerà verso settentrione e l'altra verso mezzogiorno”. Una citazione, quest'ultima, che Lc 19,37a, unico tra gli evangelisti, richiama espressamente, ricordando come l'acclamazione di Gesù avvenga “Mentre già egli si avvicinava alla discesa del monte degli Ulivi”, preparando in tal modo il lettore alla successiva pericope vv.41-44, dove Gesù piangerà sul triste destino di Gerusalemme, che verrà richiamato per altre due volte in 21,6 e 21,20-2420 e che hanno per sfondo storico i drammatici eventi della guerra giudaica (66-73 d.C.) e per sfondo biblico Zc 14,1-2.

La seconda parte della pericope (vv.39-40), è formata da materiale lucano e si muove su di uno sfondo ambiguo. Come comprendere l'osservazione di questi farisei? In termini amichevoli, come in 13,31, dove essi avvertivano Gesù che Erode lo stava cercando per ucciderlo o in termini preoccupati o semplicemente avversi? Certamente lo stato d'animo di questi farisei, più che amichevole, doveva essere preoccupato per le possibili conseguenze da parte dei Romani, e riflette in qualche modo le identiche preoccupazioni dei sommi sacerdoti in Gv 11,47-48. Ma in questa loro preoccupazione va letta anche una certa avversità a Gesù, considerato che la setta dei farisei è sempre annoverata assieme ai tradizionali nemici di Gesù, quali scribi, anziani e sommi sacerdoti per la loro caparbia e invincibile incredulità. E sarà proprio questo il motivo del pianto di Gesù su Gerusalemme, raccontato nella pericope immediatamente seguente (vv.41-44), che si muove sullo sfondo di un giudizio divino e proprio richiamando quel disastro che colpirà il Tempio e Gerusalemme, tanto temuto da questi farisei.

La risposta di Gesù è altrettanto ambigua: “Vi dico, qualora essi tacessero, grideranno le pietre”. Di quali pietre qui si parla? Forse un richiamo ad Ab 2,11 dove in un contesto di giudizio contro l'iniquità d'Israele, il profeta chiama a testimonianza la pietra e il legno delle loro case: “La pietra infatti griderà dalla parete e dal tavolato risponderà la trave”; o forse il richiamo è alla “pietra su pietra” a cui sarà ridotta la città e il suo Tempio (v.44) nella successiva pericope. Anche in questo caso le pietre della città e del Tempio distrutti si ergeranno contro l'incredulità di Israele, letta dalla chiesa primitiva come causa della sua distruzione; o forse, più semplicemente, Gesù, che sta scendendo dal monte degli Ulivi verso Gerusalemme, ha di fronte a sé le pietre tombali della valle del Cedron, poste tra Gerusalemme e il monte degli Ulivi, e quindi il riferimento qui è ai padri di questa generazione che non ha saputo riconoscere il tempo della venuta del suo re e messia, rifiutandolo, mentre essi l'hanno sempre desiderato e sognato (10,24)21.

Il lamento di Gesù, giudizio divino sulla cecità di Gerusalemme, motivo della sua distruzione (vv.41-44)


Note generali

Vi è una continuità logica tra la precedente pericope (vv.35-40), dove Gesù è acclamato re e messia dalla moltitudine dei suoi discepoli, e questa pericope in esame (vv.41-44). Una continuità data sia da una nota geografica: Gesù in v.37a sta scendendo dal monte degli Ulivi e qui, in v.41, dove gli si para davanti lo scenario panoramico di Gerusalemme, sulla quale piange la sua triste fine; sia dal v.42a, dove Gesù, rivolto alla città, lamenta in quel “avessi conosciuto in questo giorno anche tu” il suo mancato riconoscimento quale re e messia e quale inviato di Dio, come, invece, è avvenuto per la moltitudine dei suoi discepoli (vv.37-38), innescando in tal modo un confronto tra Gerusalemme e la nuova comunità dei credenti.

La pericope, formata da materiale proprio di Luca, è scandita in due parti: la prima (vv.41-42) riguarda l'accusa contro Gerusalemme, che non ha saputo riconoscere Gesù quale suo re messianico e quale inviato di Dio a causa della sua invincibile cecità; la seconda parte (vv.43-44) contiene la sentenza e la relativa motivazione. Ci troviamo, quindi di fronte ad un processo in piena regola, dove vengono richiamate le fasi principali: a) la convocazione del reo, chiamato a rispondere del suo crimine, sintetizzato in quel “si avvicinò, avendo visto la città” con cui si accentra l'attenzione sulla città (v.41); b) viene formulata l'accusa: Gerusalemme non ha saputo riconoscere in Gesù il suo re e messia, l'inviato divino, a causa della durezza del suo cuore, raffigurata nella sua cecità spirituale (v.42b); c) la sentenza di condanna (vv.43-44a), che verrà perfezionata e richiamata in 21,6.20-24; d) ed infine la motivazione della sentenza: “poiché non hai riconosciuto il tempo della tua visita” (v.44b) e che in qualche modo forma da inclusione per complementarietà con il v.42b.

Commento ai vv.41-44

Con il v.41 l'autore focalizza ora la sua attenzione su Gerusalemme: Gesù si avvicina ad essa e la osserva, la quale cosa si configura come una sorta di convocazione a giudizio. E nel guardare lo splendore della città adornata per le festività pasquali, piange. Un pianto profetico in cui riecheggia quello di Ger 14,17-19: “I miei occhi grondano lacrime notte e giorno, senza cessare, perché da grande calamità è stata colpita la figlia del mio popolo, da una ferita mortale. Se esco in aperta campagna, ecco i trafitti di spada; se percorro la città, ecco gli orrori della fame. Anche il profeta e il sacerdote si aggirano per il paese e non sanno che cosa fare. Hai forse rigettato completamente Giuda, oppure ti sei disgustato di Sion? Perché ci hai colpito, e non c'è rimedio per noi? Aspettavamo la pace, ma non c'è alcun bene, l'ora della salvezza ed ecco il terrore!”. Israele, incurante della sua condotta di vita iniqua (Ger 7,1-10), era convinto che fosse sufficiente la presenza del Tempio in Gerusalemme, concepito come una sorta di amuleto portafortuna, per essere salvaguardato dai suoi nemici. Su di lui piomberà il giudizio di condanna e la città verrà distrutta da Nabucodonosor e i suoi abitanti deportati a Babilonia dove vi rimarranno per un sessantennio (597-538 a.C.). Il contesto di iniquità, punito con la distruzione di Gerusalemme e l'esilio, su cui piange Dio nel suo profeta (Ger 14,17a), viene qui riprodotto in qualche modo da Luca: Gesù piange su Gerusalemme e il suo Tempio, distrutti da Roma nella guerra giudaica (66-73 d.C.) a motivo della sua pervicace incredulità.

Il v.42 riporta il motivo che causa il pianto di Gesù: “dicendo che se avessi conosciuto in questo giorno anche tu le cose per la pace”. Il giorno, di cui qui si parla, è sia il tempo della missione di Gesù che quello del riconoscimento da parte della moltitudine dei discepoli della natura regale e messianica di Gesù (vv.37b-38), che, quale inviato divino, era venuto per indicare la via della pace, cioè della riconciliazione tra Jhwh e il suo popolo, richiamandosi in qualche modo a 1,77-79, dove la venuta di Giovanni ha indicato in Gesù il luogo della misericordia di Dio e della riconciliazione di tutti gli uomini con Lui. C'è chi lo ha riconosciuto, come la moltitudine dei discepoli; e c'è chi, invece, come Gerusalemme, lo ha rifiutato, così che “questo giorno” si è trasformato per Gerusalemme nel giorno del giudizio divino, quello che i profeti ricordano come “quel giorno”, il giorno del giudizio e dell'ira di Jhwh, e che qui ora viene definito come “questo giorno”, poiché il giorno di Jhwh è giunto ora nella persona di Gesù e porta con sé il giudizio divino, che emetterà, motivandola, la sua sentenza di condanna ai vv.43-44.

Con i vv.43-44 il tono cambia radicalmente e il linguaggio si fa profetico ed ha come sfondo biblico Zc 14,1-2. La devastazione qui descritta si richiama ai drammatici eventi della guerra giudaica, che Luca riprenderà in 21,6, qui richiamato dall'espressione “non lasceranno pietra su pietra in te”, e completerà con 21,20-24.

Il motivo di tanta drammatica devastazione consiste nel fatto che “non hai riconosciuto il tempo della tua visita”, richiamandosi ancora una volta a 1,68.77-79, che riecheggerà anche in 7,16b. La venuta di Gesù a Gerusalemme realizza per Luca la preannunciata missione di Gesù da parte di Giovanni, qui richiamata dalle espressioni “le cose per la pace” e “il tempo della tua visita”. Gesù è la via della riconciliazione con Dio, venuto per tendere la sua mano misericordiosa, drammaticamente rifiutata. E il rifiuto comporterà la perdizione, qui simbolicamente raffigurata dalla distruzione di Gerusalemme e del suo Tempio.

Gesù proclamato re messianico entra in Gerusalemme e prende possesso della sua reggia (vv.45-48)

Testo

45 – Ed entrato nel tempio incominciò a buttar fuori quelli che vendevano
46 – dicendo loro: <<È scritto: “e sarà la mia casa casa di preghiera, voi, invece, la faceste una spelonca di ladri”>>.
47 – Ed insegnava ogni giorno nel tempio. Ma i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di ucciderlo ed (anche) i capi del popolo,
48 – e non trovavano che cosa fare, poiché tutto quanto il popolo pendeva (da lui) ascoltandolo.


Note generali

Il racconto della purificazione del Tempio, riportato da tutti gli evangelisti sia pur con delle diversità, dovute alle prospettive teologiche e cristologiche proprie di ogni evangelista, potremmo considerarlo come un'unità letteraria di transizione, perché da un lato conclude il racconto della proclamazione della regalità messianica di Gesù, il quale nel tempio troverà la sua intronizzazione, prendendone possesso con autorità e da questo parlando con autorevolezza; dall'altro inaugura l'attività missionaria di Gesù in Gerusalemme, partendo proprio dal Tempio.

Il racconto della purificazione del Tempio, pertanto, è posto da Luca a conclusione non solo del cap.19, con cui si dà inizio all'attività pubblica di Gesù in Gerusalemme, ma anche del racconto della proclamazione della regalità di Gesù da parte della moltitudine dei suoi discepoli. I riti della consacrazione regale prevedevano sei momenti: la cornice del santuario, l'imposizione delle insegne, l'unzione, l'acclamazione, l'intronizzazione, l'omaggio22. Alcuni di questi momenti, sia pur con i dovuti adattamenti, si riscontrano nei vv.35-38, dove l'imposizione delle insegne regali può essere letta nel coprire la cavalcatura con i mantelli, quale segno di riconoscimento distintivo, legato in qualche modo alla proclamazione di Gesù Re; l'acclamazione regale va letta nella proclamazione di Gesù Re e Messia; e lungo il percorso che lo porta in Gerusalemme, gli viene reso omaggio con la stesura dei mantelli, quale gesto di sottomissione e di servizio; ed infine l'intronizzazione nel racconto della purificazione del Tempio, con cui Gesù prende possesso della Casa del Padre e da dove, insignito del potere regale, comincerà a proclamare la sua parola al popolo.

La pericope è scandita in due parti: la prima riguarda la cacciata dei venditori dal tempio e l'affermazione della titolarità di Dio (vv.45-46); la seconda riguarda, da un lato, l'attività di predicazione di Gesù (v.47a); dall'altro, la reazione ostile dei sacerdoti e degli scribi alla presa di posizione di Gesù.

Storicità del racconto

Il racconto della purificazione del Tempio viene posto da tutti gli evangelisti all'interno della cornice delle feste pasquali; dell'ultima pasqua, quella fatale per Gesù, per quanto riguarda i Sinottici; nella prima pasqua (Gv 2,13-17) per Giovanni, alla quale farà seguire altre due pasque (Gv 6,4; 11,55) prima di giungere al racconto del Golgota.
Le festività pasquali ebraiche erano un tempo molto critico per la sicurezza e, per questo, il livello di attenzione delle autorità religiose, civili e militari, era altissimo23. Oltre all'incremento di reparti militari, provenienti in rinforzo dalla vicina Siria24, va tenuto presente che il gesto di Gesù si compie all'interno del recinto del Tempio, sorvegliato non solo dalla polizia del Tempio25 e dalle stesse autorità religiose, ma anche da una nutrita guarnigione romana, insediata nella Fortezza Antonia o Torre Antonia26, che dall'alto, prospiciente sul Tempio, controllava l'intero flusso e l'intero movimento di persone al suo interno. Se Gesù avesse effettivamente fatto ciò che gli evangelisti raccontano, avrebbe creato un notevole parapiglia generale, generando una situazione di criticità nella sicurezza, in un momento di enorme afflusso di fedeli per le feste pasquali; per questo sarebbe stato immediatamente arrestato e subito imprigionato. Sarebbe stata, quindi, un'ottima occasione per porre fine alle continue sfide di questo sedicente rabbi, che era visto dalle autorità come un pericoloso sobillatore (Gv 11,46-50; 18,14). Inoltre, nessuno avrebbe più avuto nulla da eccepire e le autorità avrebbero avuto in mano una carta vincente, presentando Gesù come un pericoloso e blasfemo sovvertitore dell'ordine pubblico e religioso; un attentatore del Tempio. E chi mai avrebbe potuto dire il contrario? Vi sarebbe, tuttavia, ancora da capire il motivo che spinse Gesù a intervenire così pesantemente sui venditori di animali e sui cambiavalute. Entrambe le figure erano indispensabili per il buon funzionamento del Tempio. Entrambe rendevano un servizio importante. I venditori fornivano sul posto animali di varie taglie, così come stabilito dalla Legge (Lv 1,2), ed erano animali selezionati, perché dovevano possedere tutte le prescrizioni legali, che li rendevano idonei al sacrificio (Lv 1,3a.10; 22,17-33). Quanto ai cambiavalute, questi cambiavano ai numerosissimi pellegrini, provenienti da tutto l'impero, le loro monete, considerate impure e quindi non idonee per l'offerta al Tempio, con l'unica moneta accettata dal Tempio: il siclo d'argento di Tiro27. Da questo commercio non traevano beneficio soltanto venditori e cambiavalute, ma anche il Tempio stesso, che imponeva a questi commercianti una tangente sulle loro attività. Inoltre, questo commercio si collocava in un'area profana, denominata significativamente cortile dei Gentili, che costituiva una sorta di grande piazzale in cui tutti, ebrei e pagani, potevano liberamente accedere. Esso potremmo definirlo un po' come il sagrato delle nostre chiese. Non si comprende, quindi, perché Gesù se l'avesse presa così di petto con persone che, di fatto, rendevano un servizio autorizzato al Tempio e contribuivano in qualche modo anche al suo sostentamento.

Per questo insieme di considerazioni, diventa molto difficile ritenere come realmente accaduto questo episodio, che, invece, a nostro avviso, va letto solo come gesto profetico e simbolico, che Giovanni, Marco e Matteo leggono come il rovesciamento dell'antico culto e l'inaugurazione di un nuovo culto, mentre Luca lo interpreta come il momento dell'intronizzazione regale di Gesù, cioè la presa di possesso della Casa del Padre, che le attività umane avevano espropriato per i propri interessi, e in cui si insedierà e da cui emanerà con autorità e potere la sua parola (v47a.48b). Sarà questa, infatti, la questione della prima diatriba, posta in apertura del cap.20: “Con quale autorità fai queste cose, o chi è che ti ha dato questa autorità?” (20,2).

Commento ai vv.45-48

Il v.45 presenta due azioni tra loro contrapposte: Gesù entra nel Tempio ed altri ne vengono buttati fuori. Vi è dunque una sostituzione di soggetti, che prelude ad un cambio di proprietà e ad una nuova gestione del luogo sacro, divenuto una sorta di piazza d'affari. Il potere e l'autorità in quel luogo è tornato a Dio e l'entrata di Gesù nel Tempio, dove non c'è più spazio per gli intrallazzi dell'uomo, va letto e compreso alla luce del v.12, dove “Un uomo nobile partì per una regione lontana a prendere per se stesso un regno e ritornare”. E la regione lontana, lontana dal luogo di partenza, lo stesso seno del Padre da cui è stato generato, è il Tempio, il cuore di Gerusalemme, da cui poi ritornerà al Padre, dopo esservi entrato ed aver riportato il potere e l'autorità di Dio in questo Luogo, dove egli si insedierà e da dove impartirà con autorità e autorevolezza l'insegnamento di Dio (v.47a). È qui che avviene la sua intronizzazione che dà consistenza alla proclamazione della sua regalità (v.38). È qui che quel uomo nobile, partito per una regione lontana, vi è finalmente giunto ed entrato riceve nel Tempio e in Gerusalemme la sua intronizzazione e la sua regalità universale, che appariranno sulla croce (23,38) e nella risurrezione (Mt 28,18b).

Il v.46 ha per sfondo Is 56,7 e Ger 7,11 e diventa, da un lato, un atto di affermazione con cui si attesta la funzione primaria del Tempio, quale Luogo d'incontro tra Dio e gli uomini (v.46a); dall'altro, un atto di accusa per gli abusi perpetrati all'interno di questo Luogo sacro (v.46b), che hanno sconfinato, di fatto, in un atto di appropriazione indebita di ciò che appartiene a Dio. Diventa pertanto, un atto di consacrazione di un luogo a lungo profanato.

I vv.47-48 costituiscono una piccola unità letteraria delimitata dall'inclusione data, per complementarietà, dai vv.47a e 48b, dove Gesù insegnava nel tempio (v.47a) e tutto il popolo lo ascoltava. Di mezzo, messo in rilievo proprio dalla sua centralità, ci sta l'avversità di sacerdoti, scribi e capi del popolo o anziani, le tre figure che torneranno insistenti nei capp.22-23 riguardanti il racconto della passione e che già hanno fatto la loro fugace comparsa in 9,22, dove si preannunciava la passione e morte di Gesù, che qui Luca lega alla predicazione di Gesù e al suo successo presso il popolo. Una combinazione, per certi aspetti, preoccupante, poiché queste consistenti folle di seguaci e moltitudini di discepoli che si muovevano attorno a Gesù potevano, improvvisamente, trasformarsi in rivolta conclamata con le conseguenti repressioni da parte dell'invasore romano, lì presente in forze. Una preoccupazione che lo stesso sinedrio paventava (Gv 11,48).

Il v.47 si apre significativamente, subito dopo la cacciata dei venditori, con la predicazione di Gesù: “Ed insegnava ogni giorno nel tempio”. Il verbo è qui posto all'imperfetto indicativo, “insegnava”, che dice la reiterazione persistente dell'azione del predicare. Il Tempio, pertanto, è tornato ad essere il luogo dove Dio fa risuonare nuovamente la sua Parola. Un evento questo che già in qualche modo era stato preannunciato in 2,46-47, dove i genitori di Gesù “lo trovarono nel tempio seduto in mezzo ai maestri e mentre li ascoltava e li interrogava; ora, tutti quelli che lo ascoltavano erano fuori di sé dallo stupore per la sua perspicacia e le sue risposte”. Gesù, dunque, maestro tra i maestri, che preludeva in questo quel suo insegnare ogni giorno nel tempio mentre il popolo lo ascoltava estasiato (“pendeva da lui”). Gesù, pertanto, è tornato per riaffermare il primato di Dio e del suo insegnamento nel Luogo che gli appartiene.

I vv.47b-48a hanno la funzione primaria di presentare, da un lato, gli attori principali che opereranno nei capp.22-23, quelli della passione; dall'altro, ricordano al lettore che ormai, giunti al termine del lungo viaggio verso Gerusalemme, dove con l'autoritaria presa di possesso del Tempio, già è iniziata l'ultima missione pubblica di Gesù e già si sta già profilando all'orizzonte il suo drammatico destino.


NOTE

1Il verbo ºkoloÚqei” (ekolútzei, lo seguiva) è un verbo tecnico che nel linguaggio degli evangelisti indica la sequela di Gesù. Il verbo, infatti, dice molto di più di un semplice seguire qualcuno, ma significa seguire qualcuno mettendosi al suo servizio. Non a caso i servi erano definiti come “akolouqoàntej” (akolutzûntes), cioè quelli che seguono il padrone per servirlo. Significativo è anche il tempo in cui il verbo è stato posto, all'imperfetto indicativo, rilevando come questa sequela non sia stata effimera, ma continuativa. L'imperfetto indicativo in greco indica sempre un'azione durativa.

2Cfr. i termini “Zaccheo” e “Zaccaria” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

3Cfr. J. S. Jeffers, Il mondo greco-romano all'epoca del Nuovo Testamento, Edizioni S.Paolo, Cinisello Balsamo 2004, pagg, 192-202.

4Cfr. R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2003, pag.360; - A. Poppi, I quattro Vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di S.Antonio Editrice, Padova 1997.

5Il titolo di Signore, attribuito a Gesù, ricorre nel vangelo di Luca circa una cinquantina di volte; mentre quello di Salvatore, in modo diretto o indiretto, viene riconosciuto circa una ventina di volte.

6Cfr. 9,51.53; 13,22; 17,11; 18,31.

7Cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

8Cfr. Cfr. A. Poppi, I quattro vangeli, commento sinottico, ed. Messaggero di Sant'Antonio Editrice, Padova, 1988, VI edizione, pag.486. - G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992; III edizione gennaio 2001, pag.728; - R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2003, pag. 364.

9Cfr. la voce “Erode” e la sottovoce “Archelao” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

10Cfr. la voce “Dieci” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

11Cfr. Mt 13,12; 21,43; 25,29; Mc 4,25; Lc 8,18; 19,26

12Quanto al significato del termine “assunzione”, cfr. il mio commento al cap.9, pag.35-36, della presente opera.

13L'espressione verbale “™gšneto” (eghéneto, avvenne, accadde) compare nei vangeli 117 volte di cui 69 solo in Luca.

14Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977; ristampa 2002 – pag.205

15Mt 21,2b.7 parla di due animali: di un'asina e di un puledro, per rimanere più fedele al testo di Zc 9,9, che citerà subito dopo in 21,5. Zc 9,9 infatti parla di questo re che entra in Gerusalemme cavalcando™pˆ ØpozÚgion kaˆ pîlon nšon” (epì ipozígnon kaì pôlon néon). Quel “kaì” che viene letto erroneamente da Matteo come disgiuntivo, in realtà è specificativo di “ipozígnon” (asino), cioè si tratta di un asino che è anche “un nuovo puledro”. Infatti non è possibile cavalcare contemporaneamente due animali da soma, come lascia poi intendere in 21,7: “condussero l'asina e il puledro e vi misero sopra i loro mantelli e si sedette sopra di loro”.

16Le quattro legioni erano di stanza in Siria sotto l'imperatore Tiberio (42a.C – 37d.C.), come risulta da un elenco lasciatoci da Tacito nel Liber IV, 5.

17La sede dei procuratori romani e delle autorità era Cesarea Marittima. Il procuratore e il suo seguito, in occasione delle grandi manifestazioni religiose, al fine di meglio controllare la situazione e intervenire con rapidità in caso di sommosse, si trasferivano a Gerusalemme, presso il pretorio. Sarà qui, infatti, che Pilato incontrerà Gesù (Mt 27,27; Mc 15,16; Gv 18,28).

18Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

19Cfr. la voce “Vestito” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, ed. Edizioni PIEMME, casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

20Circa la distruzione di Gerusalemme Luca la richiama in modo progressivo ben cinque volte. Sulla questione cfr. pagg.16 e 17 del presente commento al cap.19.

21Cfr. G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, 1992 – pagg.744-745

22Cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977; ristampa 2002 – pagg.107-114.

23Basti pensare che Gerusalemme ai tempi di Gesù comprendeva circa 60/100 mila abitanti, mentre nei giorni di grande festa, per l'enorme flusso dei pellegrini provenienti da ogni parte dell'impero, arrivava a contenerne anche 500/600 mila. Una massa enorme di persone difficilmente controllabile e gestibile, considerato il carattere piuttosto suscettibile e insofferente dell'ebreo; una simile situazione costituiva una polveriera, che poteva esplodere in rivoluzioni e sommosse in ogni istante. Bastavano pochi individui ben coordinati e organizzati per far esplodere delle rivolte, creando un caos in mezzo ad una massa di persone già di per sé caotica. Per poterne avere una idea si pensi ai grandi pellegrinaggi islamici alla Mecca, in cui confluiscono milioni di persone ogni anno e che, a motivo del grande numero di pellegrini e talvolta per l'intrusione di attentatori o contestatori, non di rado scoppiano momenti di panico, che lasciano sul terreno centinaia di morti. - Circa la quantità di abitanti in Gerusalemme e di pellegrini che vi confluivano nelle grandi festività, cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, ed. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986. - Sempre sulla questione della sicurezza e della sua criticità nei giorni della pasqua, si cfr. anche l'episodio dei disordini all'interno del Tempio avvenuti durante la Pasqua e narrati da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche (XVII, 213-218); essi danno l'idea della situazione di tensione e di pericolosità per l'ordine pubblico durante le grandi celebrazioni festive e della durezza con cui si reprimeva ogni tentativo di sovversione o possibile tale.

24La Palestina era un territorio occupato da Roma, che per l'occasione della Pasqua e di altre festività importanti, rafforzava la sicurezza in Palestina e a Gerusalemme in particolare, inviando delle coorti in appoggio a quelle già presenti sul territorio palestinese, che avevano funzioni di polizia (ogni coorte comprendeva circa 600 soldati), distaccandole dalla III Gallica, VI Ferrata Fidelis, XII Fulminata e X Fretensis, tutte legioni di stanza in Siria, da cui la Palestina dipendeva amministrativamente. Le quattro legioni citate, di stanza in Siria e sotto l'imperatore Tiberio (42a.C – 37d.C.), risultano da un elenco lasciatoci da Tacito nel Liber IV, 5.-

25Cfr. Mt 27,62-66; 28,11-15; 2Cr 23,3-7; Ez 44,10-11.14 - Il Tempio aveva proprie truppe di polizia, soprattutto leviti, conosciute come Guardie del Tempio. Tra i loro compiti vi era anche quello di tenere i non giudei lontani dal Tempio. Cfr. la voce “Guardia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, op. cit.

26La Fortezza Antonia o Torre Antonia era stata costruita da Erode il Grande e sorgeva sul lato settentrionale a ridosso del Tempio. Era la sede di una consistente guarnigione romana, probabilmente una coorte di seicento uomini. Qui vi risiedeva anche il procuratore romano della Giudea, quando si trovava a Gerusalemme, mentre ordinariamente egli dimorava nella sede imperiale di Cesarea marittima. Cfr anche G. Flavio, Guerra Giudaica, I,118; I,401.

27Questa moneta, unità fondamentale del sistema monetario giudaico, aveva assunto la denominazione di “siclo del santuario” per la stabilità della sua valuta. Cfr. la voce “Cambiavalute” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia e R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento. Tutte le opere citate