IL VANGELO SECONDO LUCA



Ultima catechesi: prepararsi al dramma del Golgota:
       con preghiera incessante ed umile (vv.1-14),
                     con la semplicità di un animo accogliente (vv.15-17), 
spogliandosi dei beni terreni (vv.18-30),
                ricomprendendo i Profeti e le Scritture (vv.31-35),
illuminati dalla fede in Gesù (vv.35-43)


(18,1-43)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




Note generali

Se il cap.9, che ha il suo vertice in 9,51 con cui inizia il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, imprime al racconto lucano una radicale sterzata verso Gerusalemme, dove si compiranno i Misteri della passione-morte-risurrezione di Gesù1, questo cap.18, preannunciando la fine di tale viaggio, diventa un preambolo al Golgota. Numerosi sono i segnali in tal senso: il terzo ed ultimo annuncio della passione-morte-risurrezione di Gesù (vv.31-34), l'unico della triade che si collochi non solo all'interno della cornice del fittizio viaggio verso Gerusalemme, ma anche verso la sua fine, benché durante tale viaggio non manchino allusioni alla passione e morte in 12,50; 13,32-33 e 17,25; vi è poi il suo avvicinarsi a Gerico, la porta per Gerusalemme (v.35), mentre in 19,1 Gesù è già entrato in Gerico e la sta attraversando, così che in 19,11 l'autore segnala che Gesù era ormai vicino a Gerusalemme, anzi vi sta salendo (19,28). Ormai è un pressante susseguirsi, quasi precipitoso, di eventi che spingono Gesù verso il Golgota, ma ai quali i discepoli non sono ancora preparati e mostrano fino all'ultimo tutta la loro inintelligenza di quanto sta per accadere (v.34).

Da qui il senso di questo capitolo, la cui finalità è indicare quali sono le qualità morali e spirituali per affrontare ed accettare un evento così sconvolgente come la passione e la morte del tanto atteso messia, che verrà sottoposto alla più umiliante e vergognosa delle morti, quella della croce così da renderla impensabile e incomprensibile. Ci si trova, dunque, di fronte ad un'ultima catechesi, che Luca impartisce alle comunità credenti, sbigottite e dubbiose nel riporre la loro fede jn un uomo travolto da un simile fallimento. Come dunque interpretarlo e come comprenderlo?

Sarà, pertanto, questo un capitolo di preparazione spirituale per i credenti, che li spinge ad affrontare il traumatico evento della passione e morte con una preghiera umile e incessante (vv.1-14); con un animo semplice e accogliente, affidandosi a Dio come un bambino si affida tra le braccia della propria madre, dove trova il suo rifugio e la sua tranquillità (vv.15-17); spogliandosi dei propri beni e con loro di tutte le logiche umane di potere e di prevaricazione, che li sottendono, accettando, per contro la sequela della croce (vv.17-30); un invito a rileggere e a ricomprendere i Profeti e le Scritture circa il destino del Figlio dell'uomo (vv.31-34); ed infine, invocare l'aiuto di Gesù stesso, compreso non come un semplice uomo di Nazareth, come la gente superficialmente lo conosceva (v.37), ma come il messianico “Figlio di Davide” (vv.38.39), il promesso e atteso re, la vera discendenza davidica, che siederà sul trono di Israele, come Natan aveva promesso a Davide (2Sam 7,12-14); ed infine, riponendo la propria fede nella sua parola (v.42), compreso e invocato come il “Signore” (v.41b). Soltanto in tale modo, la fede in Gesù riuscirà ad aprire gli occhi dell'intelligenza spirituale dei discepoli, per scoprire non solo la vera natura di Gesù, uomo di Nazareth e Figlio di Davide, nonché il glorioso e onnipotente Figlio dell'uomo (Dn 7,13-14), invocato qui come il “Signore”, ma anche il senso del suo patire e del suo morire (vv.35-43). Il cap.18 viene pertanto a costituirsi come una sorta di percorso spirituale per giungere alla comprensione della vera natura di Gesù e, di conseguenza, di accettazione della sua passione e morte.

Con il cap.18,1-14 termina il grande inserto lucano, iniziato con 9,51, e riprende lo schema narrativo di Marco a partire da Mc 10,13, da dove l'aveva sostanzialmente lasciato2, tralasciando la diatriba sul divorzio mosaico di Mc 10,1-12, ritenendola una questione tutta interna al giudaismo, ma estranea ai greco-ellenisti, ai quali, tuttavia, in modo lapidario e inequivocabile aveva già riservato il v.16,18, che condanna il divorzio. Non si tratta, tuttavia, da parte di Luca, di una semplice trasposizione di materiale letterario, ma, pur mutuandolo, lo fa a modo proprio, ritagliando dal materiale marciano ciò che gli serve per i suoi intenti; e ciò che prende lo modifica elaborandolo secondo il suo stile narrativo e pensando ai suoi destinatari di cultura greco-ellenistica, pur senza rinunciare ad integrarlo con altro suo materiale proprio3.

Commento ai vv.1-434

Preghiera incessante …. (vv.1-8)

Testo a lettura facilitata

Enunciazione del tema (v.1)

1 – Ora diceva loro una parabola sul bisognare che essi pregassero sempre e non trascurassero (mai),

La parabola paradigmatica (vv.2-5)

2 – dicendo: <<Vi era un giudice in una città, che non temeva Dio e non aveva rispetto per l'uomo.
3 – Ora, vi era in quella città una vedova e andava da lui dicendo: “Fammi giustizia del mio avversario ”.
4 – E (quello) non voleva per (molto) tempo. Ma dopo queste cose, disse in se stesso: “Anche se non temo Dio né rispetto l'uomo,
5 – poiché a causa di questa vedova mi viene molestia, le farò giustizia, affinché, alla fine andandosene, non mi affligga (più)”>>.

Riflessione conclusiva e applicazione (vv.6-8)

6 – Disse il Signore: <<Udiste che cosa il giudice di iniquità dice;
7 – Dio non farà la vendetta dei suoi eletti, di quelli che gridano a lui giorno e notte, e (non) sarà molto sdegnato per loro?
8 – Vi dico che farà la loro vendetta prontamente. Tuttavia il figlio dell'uomo, dopo essere venuto, troverà dunque la fede sulla terra?>>.

. ed umile (vv.9-14)

Enunciazione del tema (v.9)

9 – Ora disse anche questa parabola verso alcuni che si erano convinti in loro stessi che sono giusti e che disprezzavano gli altri:

La parabola paradigmatica (vv.10-13)

10 - <<Due uomini salirono al tempio a pregare, l'uno Fariseo e l'altro pubblicano.
11 – Il Fariseo, stando diritto, tra se stesso, pregava queste cose: “Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, iniqui, adulteri, o anche come questo pubblicano;
12 – digiuno due volte il sabato, pago la decima su tutte quante le cose che guadagno”.
13 – Il pubblicano, invece, stando da lontano, non voleva neppure alzare gli occhi verso il cielo, batteva il suo petto dicendo: “Dio, sii misericordioso con me peccatore”.

Applicazione sentenziale (v.14)

14 – Vi dico, questi discese giustificato a casa sua (diversamente) da quello. Poiché ognuno che esalta se stesso sarà umiliato, ma chi umilia se stesso sarà esaltato>>.

Note generali

Di fronte alla tragedia del Golgota le comunità credenti, specialmente quelle che si erano costituite nel I secolo e quindi nelle immediate vicinanze di tale dramma, dovevano sentire tutta la pesantezza e la contraddizione della croce e i dubbi su questo messia perdente erano del tutto giustificati. Perché Dio non è venuto a liberarlo? Come fidarsi di un salvatore che non è riuscito a salvare neppure se stesso? Come aspettarsi la salvezza da costui? Una pesantezza che Paolo tratteggia molto bene in 1Cor 1,22-25: “E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. Paolo opera qui un capovolgimento di situazione che può avvenire soltanto attraverso la comprensione del senso del patire e del morire di Gesù; una comprensione che soltanto la fede può generare. Ed ecco il dubbio insinuato da Luca: “Tuttavia il figlio dell'uomo, dopo essere venuto, troverà dunque la fede sulla terra?”. Fede, dunque, l'unica chiave che consente l'accesso al Mistero e che rende credibile e accettabile ciò che è umanamente assurdo. Da qui la necessità della preghiera, quale strumento che mette in comunione il credente con il suo Dio, dal quale trae la luce necessaria che alimenta la sua fede illuminante.

Ci si trova ora di fronte a due parabole provenienti da materiale proprio di Luca, da cui traspaiono due diversi contesti sociali: la prima risente del pesante clima delle persecuzioni a cui erano sottoposti i cristiani; la seconda risente della polemica tra il giudaismo e il nascente cristianesimo, là dove viene stigmatizzato il perbenismo religioso dei giudei e la loro presunzione di salvezza. Entrambe sono finalizzate ad evidenziare le qualità che devono caratterizzare una preghiera efficace: essa deve essere incessante (v.1) e pervasa di umiltà fiduciosa nei confronti di Dio (v.9).

Benché diversi autori leghino le due parabole al precedente contesto escatologico e apocalittico (17,20-37), richiamato in qualche modo dai vv.8b e 14b, tuttavia, ritengo personalmente che nulla abbiano a che vedere con tale contesto. Esse fanno parte della catechesi lucana sulla preghiera, la cui prima parte era stata svolta in 11,1-13. Questa, da un lato, metteva in rilievo i contenuti tematici della preghiera (11,1-4); dall'altro, indicava la prima caratteristica che la preghiera doveva avere: un'insistenza che non deve mai demordere (11,5-8). Ora viene completata con queste due parabole. Tuttavia l'accento qui va fatto cadere non soltanto su come deve essere la preghiera, bensì anche su questa, quale strumento per prepararsi spiritualmente alla passione e morte di Gesù. Il loro senso, quindi, va colto nel contesto del cap.18, che funge da preambolo preparatorio per la comprensione degli eventi del Golgota e del Mistero, che li avvolge e che attualizzano, e come questi vanno affrontati. Sarà del resto l'esortazione che Gesù farà per ben due volte ai suoi discepoli nell'orto del Getsemani: “Pregate per non entrare in tentazione” (22,40.46). La preghiera, dunque, quale strumento per affrontare il dramma del Golgota con Gesù, che parimenti, inginocchiatosi, pregava il Padre (22,41). Una preghiera che deve sostenere il credente nella prova e di fronte alla prova per non cadere in tentazione, cioè per non cedere di fronte ad eventi che scuotono e interpellano in profondità la sua fede e la mettono in discussione, come avvenne per i due discepoli di Emmaus, che ormai delusi da questo inutile messia, si stavano allontanando da Gerusalemme, il luogo della prova e del compiersi di un incomprensibile Mistero, che solo la Parola e il Pane sapranno illuminare (24,13-34)

Entrambe le parabole sono costruite su di uno schema narrativo identico:


Commento ai vv.1-14

La preghiera deve essere incessante (vv.1-8)

Il v.1 si apre con l'espressione “Ora diceva loro”, creando una sorta di continuità narrativa con quanto precede, ma nel contempo creando una discontinuità tematica. I destinatari di questa nuova catechesi, ricompresi in quel “loro”, sono i discepoli in genere, sia perché gli ultimi ai quali Gesù stava parlando in 17,22 erano i discepoli, sia perché il tema della preghiera, iniziatosi in 11,1 era rivolto ai discepoli, sia perché tale tema riguarda i discepoli in genere e sia, infine, perché quando Luca si rivolge ai Dodici, a partire dal cap 6,13-17, sa fare questa distinzione5. La catechesi sulla preghiera, pertanto, riguarda la generalità dei discepoli, i quali, come lasciano intuire i vv.7-8, erano oppressi dalla persecuzione, che non doveva essere occasionale e di breve durata, ma estesa all'impero romano e molto pesante.

Il tema qui proposto dal v.1b riguarda la necessità di pregare sempre senza mai tralasciare la preghiera, che deve, quindi, diventare un elemento caratterizzante la vita del credente. Non si parla qui di quale tipologia di preghiera si intenda se di domanda, di ringraziamento, di lode, di adorazione o di azione liturgica, ma semplicemente di preghiera, che deve essere incessante e mai deve essere trascurata o venire meno. La preghiera, di cui si parla, va ben oltre alla recita, più o meno devota, di una qualche formula, ma si radica nella vita stessa del credente e in essa si esprime. Lo sollecita Paolo scrivendo alla sua comunità di Corinto: “Sia dunque che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10,31); un'esortazione che si ritrova simile nella lettera ai Colossesi: “E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,17). Rendimento di gloria e rendimento di grazie a Dio con la propria vita costituisce l'autentica preghiera che trasforma la propria vita in una perenne liturgia di lode e di ringraziamento, espletando in tal modo un'azione sacerdotale che è propria di ogni credente. Un sacerdozio che Paolo stesso ricorda alla comunità di Roma: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Vi sono qui tutti gli elementi propri del sacerdozio: “offrire i propri corpi”, “sacrificio vivente santo”, “culto spirituale”. Ogni credente, pertanto, in virtù della sua fede e del suo battesimo è costituito sacerdote celebrante e orante, capace di celebrare nella sua vita e con la sua vita quella liturgia che è preghiera incessante, poiché ha come luogo primario di culto la propria vita.

Al di là delle elaborazioni teologiche sulla preghiera, che comunque tale era sentita fin dal sorgere delle prime comunità credenti6, Luca esemplifica ora con una parabola il senso di questo pregare in modo incessante e indefesso. Una parabola che per certi aspetti è strettamente imparentata con quella dell'amico inopportuno, che sveglia nel pieno della notte il suo amico per chiedergli del pane per il proprio ospite giunto inatteso nel cuore della notte (11,5-10). Benché molto simili tra loro tuttavia diverso è il senso che l'autore qui intende evidenziare. In 11,5-10 viene presentata una preghiera che ha le caratteristiche dell'insistenza (11,8) e dell'inopportunità (vv.11,7b), quasi rasentando l'impertinenza e la sfacciataggine. Un'insistenza che viene sottolineata con quel triplice sollecito “chiedete”, “cercate”, “bussate” (11,9). Diversa è qui la prospettiva della parabola del giudice iniquo, con la quale Luca intende sottolineare non tanto l'insistenza, ma la continuità costante della richiesta, che arreca molestia al giudice, proprio perché continuamente insistente. Una continuità che viene evidenziata dal commento: “e quello non voleva per molto tempo”. Segno che questa donna continuava a chiedere, venendo sistematicamente ignorata. La preghiera incessante, pertanto, è un qualcosa che va ben al di là dall'essere occasionalmente inopportuna, perché possiede in se stessa una carica che protrae questa insistente inopportunità nel tempo finché non ha ottenuto, trasformandosi in preghiera incessante. Questa stretta parentela tra 11,5-10 e la parabola del giudice iniquo crea di fatto un aggancio tra la prima parte della catechesi lucana sulla preghiera (11,1-13) e questa seconda parte (18,1-14), che la va a completare.

Con i vv.2-3 vengono presentati i due protagonisti della parabola. Il modo con cui essa inizia, l'incisività e la scorrevolezza della narrazione fanno parte dello stile di Luca7. Il giudice viene presentato come un personaggio che si pone nel suo modo di operare in diretto contrasto con le Scritture: non teme Dio e non rispetta l'uomo. Vengono pertanto lesi i due principi fondamentali su cui fondano la Legge e i Profeti8. Non temere Dio ha come logica conseguenza quella di non rispettare gli uomini. L'amore per Dio e per gli uomini sono due realtà tra loro interconnesse e inscindibili, così che “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede” (1Gv 4,20). Ma nella fattispecie Es 22,21-23; Dt 10,18; 24,17; 27,19 impongono una particolare attenzione alle categorie più fragili della società: l'orfano, la vedova e lo straniero. Violare i loro diritti comporta la maledizione divina e il diretto intervento vendicatore di Dio stesso.

Se da un lato vi è un giudice privo di ogni scrupolo morale e insensibile alle esigenze degli uomini, dall'altro vi è una vedova, che non intende demordere, lasciando che gli altri calpestino i suoi diritti, e la cui insistenza è messa in evidenza dal verbo posto all'imperfetto indicativo: “andava da lui”. Un tempo verbale questo che indica un'azione iterativa e che potremmo tradurre con “continuava ad andare”. Quanto duri questa incessante insistenza della vedova è dato dal successivo v.4a dove viene scandito il tempo di questa lunga insistenza: “E (quello) non voleva per (molto) tempo”. Si tratta, dunque, di “molto tempo”, una quantità indefinita, ma certamente non breve, come suggerisce, anche qui, il verbo “non voleva”, posto all'imperfetto indicativo, che indica la iterazione di un'azione che si contrappone a quel “continuava andare” della vedova. Viene in tal modo delineato uno scontro tra la vedova e il giudice, barricato dietro il suo insensato e iniquo rifiuto. Ma l'assedio incessante della vedova, che non gli dà tregua, grava pesantemente sul giudice che, rientrando in se stesso, prende finalmente coscienza della petulanza di questa donna che lo sta affliggendo con continue molestie e, contro i suoi iniqui principi, sui quali fonda la sua vita (“Anche se non temo Dio né rispetto l'uomo”), decide finalmente di darle giustizia, così lungamente richiesta e attesa.

La parabola termina, dunque, con la capitolazione del giudice, che decide di dare udienza alla vedova e di farle giustizia, cedendo alle sue pressanti e persistenti richieste. Non lo fa per una questione di equità e di correttezza, ma per togliersi un impiccio che gli stava rovinando la vita. È questo il cuore della parabola e il messaggio che essa vuole trasmettere: insistenza e persistenza incessanti senza mai demordere, senza mai stancarsi, fiduciosi che prima o poi si otterrà ciò che si chiede.

La parabola è sostanzialmente un'allegoria dei rapporti che intercorrono tra il credente, che chiede aiuto al suo Dio, e Dio stesso. La riflessione che segue (vv.6-8) diventa la traduzione applicativa della parabola stessa. Una riflessione che quasi certamente è stata aggiunta tardivamente. Lo si arguisce dalla sua introduzione “Disse il Signore” e “Udiste”. Due verbi qui posti all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che definisce un'azione puntuale nel tempo e contrasta con il tempo verbale con cui viene introdotta la parabola, posto all'imperfetto indicativo (v.1), così come contrasta con tutti i tempi verbali della parabola stessa, posti o all'imperfetto o al presente indicativo. Chi ha scritto questa aggiunta, pertanto, sta guardando indietro, al tempo in cui questa parabola fu detta, in un tempo che era ormai lontano. Il soggetto del dire, poi, non è più Gesù, ma “il Signore”, titolo questo con cui ci si riferiva al Risorto.

Il contesto in cui avviene questa richiesta a Dio sembra essere quello proprio della persecuzione, che doveva interessare l'intero impero romano, considerato che l'inciso dei vv.6-8 è stato inserito nel vangelo lucano, rivolto al mondo greco-ellenistico. La prima persecuzione che conosciamo di queste dimensioni è quella di Domiziano9 (81-96), epoca in cui venne composta l'Apocalisse, che a tale persecuzione allude (Ap 1,9), ma ebbe breve durata. Per altre persecuzioni di ampie dimensioni, avvenute in modo sistematico e per un tempo molto lungo, circa mezzo secolo (250-305), bisognerà attendere la metà del III sec. con Decio (249-251), Valeriano (253-260) e Diocleziano (284-305), che incisero profondamente sull'assetto dell'intera Chiesa. Altre persecuzioni avvennero ma erano locali e occasionali, comunque di breve durata. I vv.6-8, pertanto, vennero integrati nel testo lucano probabilmente in queste epoche di grandi persecuzioni. E che di contesto di persecuzioni si tratti, lo si arguisce dai termini che compaiono al v.7: “™kd…khsin” (ekdíkesin), che significa giustizia, ma nel senso di vendetta, punizione che Dio compie a favore dei suoi eletti, tali erano considerati i credenti giunti alla fede10. Quel “gridare giorno e notte”, un'espressione questa che si richiama in qualche modo al Sal 88, un grido di dolore rivolto a Dio da un uomo oppresso dalle vicissitudini della vita, dice la drammatica situazione di sofferenza e di dolore in cui questi eletti venivano a trovarsi. Lo lascia chiaramente intendere la domanda retorica finale: “e (non) sarà molto sdegnato per loro?”. Uno sdegno da cui sgorga la giustizia vendicativa e punitiva di Dio contro chi sta perseguitando i propri eletti (v.8a).

Una nota va spesa a giustificazione della mia traduzione, che si scosta da quelle tradizionali: “e (non) sarà molto sdegnato per loro?”, che normalmente viene tradotta con “e tarderà nei loro confronti?”11. La traduzione dipende tutta dal senso, francamente non molto chiaro se non equivoco, che viene dato al verbo “makroqume‹” (makrotzimeî), che letteralmente significa: sono longanime, tollerante, paziente, costante. Il senso del verbo non quadra con il testo né con il contesto di persecuzione che sembra trasparire dal v.7. L'unico modo per giungere ad una conclusione accettabile è scomporre il verbo, composto da “makrÒj”+”qumÒw” (makrós+tzimóo), in cui “makrós” significa molto e “tzimóo” significa “sono sdegnato, adirato, vado su tutte le furie”. Pertanto, mi è sembrato più corretto tradurre “e (non) sarà molto sdegnato per loro?”. Il senso è che Dio, a fonte dello scempio che gli uomini stanno facendo dei suoi eletti, si sdegna intervenendo pesantemente con una vendetta punitiva e giustiziera.

Il v.6 riprende la parabola partendo non tanto dalla vedova, che qui raffigura i credenti che chiedono, bensì dalle ultime parole del giudice, che raffigura Dio stesso. Sono proprio queste ultime che contengono il messaggio principale: il giudice ha ceduto alla vedova per la sua logorante insistenza, tale proprio perché incessante. È questo il punto cruciale: insistenza incessante, che equivale ad un assedio, che dura finché non c'è la capitolazione finale. Quasi a dire che il potere di ottenere ascolto alle proprie richieste non dipende da Dio, ma dall'atteggiamento con cui il credente si rapporta a Dio stesso. Un'insistenza incessante, che deve qualificare la sua preghiera, non come atto di testardaggine o di sfida a Dio, bensì come pieno e fiducioso abbandono a Lui, senza null'altro pretendere, demandando a Lui la responsabilità del loro essere esauditi, là dove il proprio impegno, la propria serietà e correttezza di vita non sanno o non possono andare oltre.

Il v.8, che chiude la prima parabola, presenta due contrapposte situazioni: da un lato, la certezza che Dio vendicherà prontamente i suoi eletti perseguitati (v.8a); dall'altro l'autore interroga le coscienze dei credenti, interpellandoli sulla persistenza della loro fede. Tutti i verbi qui sono posti al futuro, un futuro che è strettamente legato al ritorno del Figlio dell'uomo. La prospettiva, quindi, è escatologica e apocalittica nel contempo, poiché il manifestarsi della vendetta divina non è da pensare, qui e ora, quasi fosse un automatismo: alla preghiera del credente corrisponde l'immediato intervento liberatore di Dio. Quel “prontamente” (™n t£cei, en táchei), infatti, va inteso come “sicuramente”, poiché è un prontamente che è legato non al tempo dell'invocazione, ma al ritorno del Figlio dell'uomo. Per questo l'autore dei vv.6-8 conclude con un'interrogazione sulla fede, poiché è indispensabile che questa, nonostante il ritardo della tanto attesa e invocata parusia (1Cor 16,22; Ap 22,20), non venga mai meno.

La preghiera deve essere umilmente fiduciosa (9-14)


Con questa seconda parabola si chiude la catechesi lucana sulla preghiera, iniziatasi in 11,1-13, ma che letta nel contesto del cap.18 va colta come momento di preparazione e di sostegno del credente agli eventi del Golgota. Preghiera che deve essere insistente (11,5-13), incessante (vv.1-5) e, ora, anche umilmente fiduciosa, rimettendosi al Padre (vv.9-14). Non va mai scordato il contesto entro cui bisogna leggere la parabola, per poterne comprendere il senso più profondo. Al v.31, Gesù, rivolto ai Dodici, ricorda loro che stanno salendo a Gerusalemme dove si compiranno le Scritture al suo riguardo. Un appunto questo sul quale essi mostreranno tutta la loro inintelligenza (v.34). Anche qui, in questa parabola, vengono presentati due uomini che salgono a Gerusalemme per pregare e fin da subito vengo presentati come diametralmente contrapposti: un fariseo e un pubblicano. Due figure paradigmatiche, fin troppo caricate per essere vere, di cui si metteranno subito in evidenza l'oscurità della luce farisaica e la luce dell'oscurità del pubblicano. Due figure poste lì per interpellare la coscienza di chi sta salendo a Gerusalemme con Gesù, suggerendo il giusto approccio al Golgota: non con la luce della propria razionalità e dei propri meriti e capacità che, con pretesa tutta umana, vuole capire, indagare o chiedere prove (23,35-37), ma accettando l'oscurità del Mistero che solo la luce della fede può illuminare (23,39-43). In ultima analisi ci si trova di fronte ad un giudizio di condanna su chi fa affidamento su se stesso e di premio su chi, invece, si affida a Dio.

Il v.9 introduce il tema della parabola e ne fornisce la chiave di lettura. Una parabola questa che con quel “anche” iniziale si collega in qualche modo a quella precedente, completandola. Quindi, benché ci si trovi di fronte ad una valutazione comportamentale di taluni verso altri, tuttavia questo ha a che vedere con la preghiera, che, non va dimenticato, è un relazionarsi a Dio, in cui pesa in modo determinante il proprio relazionarsi verso gli altri, così da condizionarlo (1Gv 4,20; Lc 10,25-28). Un piccolo racconto, capolavoro tutto lucano, che va a colpire con quel “in loro stessi” un atteggiamento interiore che crea discriminazione, rifiuto e chiusura nei confronti degli altri e tale da precarizzare i propri rapporti con Dio stesso. Non è un caso, infatti, che la parabola, iniziatasi mettendo in rilievo i propri rapporti con gli altri, si concluda rilevando i propri rapporti con Dio e tali da coinvolgere la propria giustificazione (v.14a).

L'identità di questi “alcuni che si erano convinti in loro stessi che sono giusti e che disprezzavano gli altri” verrà fornita all'inizio della parabola stessa (v.10b). Si tratta di un fariseo e di un pubblicano. Una figura, quella del fariseo, emblematica e paradigmatica, che Paolo descriverà magistralmente in Rm 2,1a: “Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi”. Un giudicare che nasce da una particolare ed intima convinzione di santità legale, i cui termini Paolo illustra in Rm 2,17-20: “Ora, se tu ti vanti di portare il nome di Giudeo e ti riposi sicuro sulla legge, e ti glori di Dio, del quale conosci la volontà e, istruito come sei dalla legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di esser guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché possiedi nella legge l'espressione della sapienza e della verità...”. Una santità legale che tuttavia non trova riscontro nella quotidianità del loro vivere. E Paolo enumererà le malefatte che il giudeo compie alla pari di coloro che condanna (Rm 2,21-24), condannando in tal modo se stesso (Rm 2,1b). In egual modo Luca punterà il dito contro questa classe di benpensanti, che amano presentarsi come scrupolosi osservanti della Legge (Mc 7,2-5), che conflagra, tuttavia, con il loro modo di vivere12.

Accanto a questa figura, icona di purità rituale e di santità legale, viene accostata quella del disprezzato pubblicano, che nei vangeli sovente viene accoppiato con i peccatori o con le prostitute, personaggi questi che erano socialmente e religiosamente ghettizzati e considerati già destinati alla perdizione eterna. Gente, dunque, da evitare anche per non contaminarsi, diventando ritualmente impuri. L'accostarsi a loro o soffermarsi con loro, inoltre, certamente ledeva la dignità di questa classe di benpensanti. Un accostamento, dunque, che stride, ma che servirà a Luca per rendere più dirompente la sentenza finale (v.14a), evidenziando così il modo di pensare di Dio, che sovente contrasta con quello degli uomini13. La figura sociale del pubblicano, proprio per il suo lavoro di esattore delle tasse per conto dell'oppressore Romano, era considerato, da un punto di vista religioso, in un costante stato di impurità rituale, in quanto in continuo rapporto con il mondo dei pagani (Gv 18,28). Era socialmente malvisto e odiato perché faceva parte del sistema oppressivo dell'invasore e non di rado caricava le tasse con propri interessi (Lc 20,8c). A tutti gli effetti era considerato un pubblico peccatore (19,7).

I vv.11-12 sono dedicati al fariseo, che manifesta, nel suo relazionarsi con Dio, tutta la sua protervia quasi blasfema e che contrasta profondamente con il comportamento del pubblicano (v.13). Il fariseo si pone di fronte a Dio “stando diritto”. Se questo era il modo di pregare del pio ebreo, tuttavia quel verbo “staqeˆj” (statzeìs) dice ben più di un semplice stare in piedi davanti a Dio. Egli si pone in una sorta di atteggiamento di sfida davanti a Dio, sollecitandolo quasi in modo provocatorio a trovare in lui, perfetto osservante della Legge, una qualche ombra14. E qui sciorina tutta la sua bravura di osservanza legale, che non fa una grinza, ma che rivela tutta la sua insolente arroganza nei confronti di Dio, mettendosi, di fatto, al suo pari. E per meglio farla risaltare chiama in causa non solo la generalità perversa degli uomini, ponendosi al di sopra dell'umanità (“non sono come gli altri uomini”), ma anche il perdente e disprezzato pubblicano, lì presente con lui, sul quale sente di sopravanzare indiscutibilmente di gran lunga. L'intera preghiera del fariseo si snoda all'interno di un serrato confronto tra gli altri, definiti rapaci, iniqui, adulteri e peccatori, e la sua scrupolosa osservanza della Legge, che va ben oltre a quanto essa richiedeva in termini di digiuno, previsto una volta all'anno nel giorno dell'Espiazione15; mentre vi era una ligio rispetto della decima16. Al centro della sua preghiera e del suo rapporto con Dio non c'è Dio, ma soltanto il suo Io, che qui s'impone davanti a Dio a detrimento degli altri.

A fronte di tanta protervia nei confronti di Dio e dell'umanità, viene qui accostata ora la figura del pubblicano (v.13), diametralmente all'opposto di quella del fariseo. Allo “stando diritto” del fariseo si contrappone qui lo “stando lontano” del pubblicano. Quel “stare lontano” dice non solo la distanza che intercorre tra lui e il fariseo, ma anche quella tra lui e Dio. Egli è e si sente peccatore. E ciò che può offrire a Dio è soltanto la sua fragilità, che non gli consente neppure di alzare gli occhi verso di Lui, tanta è la coscienza del suo nulla, rimettendosi, invece, alla sua misericordia, senza nulla pretendere, perché ha la consapevolezza del suo peccato. Ma quel suo essere salito al Tempio, il suo esservi entrato lo associa in qualche modo alla figura del Figliol prodigo, ritornato alla casa del Padre, il quale neppure sta ad ascoltare le parole di quel suo figlio perduto e ritrovato, ma lo accoglie in un abbraccio, che è una promessa di eternità. Sono queste figure monumentali che Luca erige alla misericordia perdonante e accogliente di Dio e che spingono l'uomo, fiducioso, tra le sue braccia.

Con il v.14 si chiude la parabola del fariseo e del pubblicano e, con questa, la catechesi lucana sulla preghiera (11,1-13+18,1-14). Un versetto che è scandito in due parti: la prima va a completare la parabola, informando il lettore sull'esito della diversa e contrapposta preghiera dei due, sottesa da un diverso e contrapposto atteggiamento interiore nel relazionarsi con Dio, che dice come l'atteggiamento che si tiene nei confronti di Dio sia determinante per la propria giustificazione e per la propria salvezza. Nessuno la può contrattare con Dio, nessuno la può barattare secondo le logiche del “do ut des”, poiché non siamo Dio con cui si può trattare da pari a pari, ma soltanto sue immagini, drammaticamente deformate dal peccato. La seconda è una sentenza, che dice quanto sia lontano il modo di ragionare e di vivere dell'uomo dalle logiche divine e tale da essere completamente rovesciato. Ma in quel “chi umilia se stesso sarà esaltato” Luca lascia tralucere in qualche modo l'ormai prossima passione-morte-risurrezione di Gesù, che richiama da vicino Fil 2,8-9: “umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome”.

Con la semplicità di un animo accogliente (vv.15-17)

Testo

15 – Ora, portavano a lui anche i bambini affinché li toccasse; ma i discepoli, visto (ciò), li rimproveravano.
16 – Ma Gesù li chiamò dicendo: <<Lasciate che i fanciulli vengano a me e non impedite loro, poiché di questi tali è il regno di Dio.
17 – In verità vi dico chi non accoglierà il regno di Dio come un fanciullo, non entrerà in esso>>.


Note generali

Con i vv.1-14 Luca, nel chiudere la sua catechesi sulla preghiera, iniziatasi in 11,1-13, presentava la preghiera non solo come il modo per relazionarsi a Dio, ma anche, considerato il contesto, per affrontare spiritualmente il dramma del Golgota. Un tema questo che ritornerà insistente proprio nell'orto del Getsemani17 ed anche in 21,36, che in qualche modo lo preludeva. Ora, con questa breve pericope (vv.15-17), l'autore presenta con quale atteggiamento spirituale tale dramma deve essere affrontato: con la semplicità fiduciosa di un bambino, che si abbandona tranquillo tra le braccia della madre, trovando in essa la propria sicurezza. Un atteggiamento spirituale questo in cui riecheggia in qualche modo il Sal 130,2: “Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia”. Quel semplice affidarsi nelle mani del Padre che ritroviamo, quale ultimo atto della sua vita, nello stesso Gesù crocifisso: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (23,46b). Il verbo “parat…qemai” (paratítzemai), con cui Gesù affida se stesso nelle mani del Padre, significa rimettersi nelle mani di qualcuno, affidarsi a qualcuno. E così similmente si comporterà il buon ladrone, che sta condividendo il dramma di Gesù; egli si affida nelle mani di Gesù, ricevendone in contraccambio la stessa eternità divina (23,42-43), poiché il regno di Dio appartiene non solo a chi è per età bambino, ma anche chi lo è nello spirito (v.16c).

Con questa pericope Luca, dopo aver chiuso con 18,14 il suo grande inserto (9,51-18,14), riprende il racconto marciano da 10,13. Non riporta pedissequamente l'episodio di Gesù e i bambini, ma lo adatta ai propri intenti teologici, omettendo la descrizione degli stati d'animo di Gesù, come il suo indignarsi per il comportamento dei discepoli nei confronti dei bambini (v.14a), così come l'abbracciarli affettuosamente benedicendoli (v.16). La scrematura coreografica operata da Luca, e parimenti da Matteo (19,13-15), è finalizzata a mettere in rilievo, senza dispersioni narrative, il messaggio che il racconto vuole trasmettere: il Regno di Dio appartiene ai semplici e puri di cuore, che per loro natura si affidano al Padre e da lui sono amati. Un messaggio questo, che inserito nel contesto del cap.18, preambolo alla passione-morte-risurrezione di Gesù, suggerisce con quale atteggiamento e disposizione interiore va approcciato il dramma del Golgota: con animo fiducioso, semplice e accogliente come quello di un bambino che si abbandona tra le braccia rassicuranti della madre. La comparsa del sostantivo “bršfh” (bréfe) per indicare i bambini suggerisce l'idea del neonato tra le braccia amorevoli della madre (v.15a)18.

Commento ai vv.15-17

Il v.15a apre una nuova scena con quel “de” (de, ora, or dunque) iniziale, che crea uno stacco con quanto precede, avvertendo il lettore che ora si gira pagina, creando una sorta di discontinuità tematica, ma nel contempo creando una continuità narrativa. Luca, a differenza di Marco e Matteo, dice che gli portavano “anche” dei “bršfh” (bréfe), cioè bambini nati da poco, che certamente dovevano essere tra le braccia delle loro madri. Con quel “anche” l'autore sembra lasciar intendere che stavano portandogli dei bambini e tra questi “anche” dei neonati. Nei successivi vv.16-17, infatti, riprenderà il testo di Marco riportando non più “bršfh” (bréfe), bensì “paid…on” (paidíon) che indica un bambino di età superiore al neonato. La comparsa di questo sostantivo, “bréfe”, non presente negli altri due sinottici, sta ad indicare che Luca ha voluto indicare ai suoi lettori una sorta di paradigma su cui modellare il proprio comportamento: quella del neonato tra le braccia amorevoli della madre, riecheggiando in qualche modo il Sal 130,2.

All'accorrere dei fanciulli e delle madri con i loro neonati verso Gesù si contrappone ora l'opposizione dei discepoli (v.15b). Una scena questa che probabilmente è storica o quanto meno verosimile, ma che servirà a Luca per mettere in rilevo il diverso e contrastante comportamento tra Gesù e i suoi discepoli. Un contrasto che viene rilevato sia dalla particella avversativa “ma”, con cui inizia il v.16, sia dall'opposto comportamento di Gesù, che ignorando il divieto dei discepoli, chiama presso di sé i fanciulli, sui quali, con tale chiamata, è posta l'elezione divina, forse perché, in qualche modo, essi sono un'eco di quell'innocenza primordiale di cui era circonfusa l'umanità alle sue origini, allorché era ancora incandescente di Dio. E che così sia lo attesta la conclusione del v.16, che fornisce la motivazione della scelta di Gesù: “poiché di questi tali è il regno di Dio”. Come dire che questi appartengono a Dio e Dio, in qualche modo, si riconosce in questi, così come, alle origini dell'umanità si riconosceva in tutta la creazione e nell'uomo, anche lui neonato dalle sue mani (Gen 1,31).

Il v.17 conclude con una sentenza su cui grava quel “In verità vi dico”, che le infonde solennità e veridicità dogmatica. Una sorta di sigillo divino. L'espressione “In verità” è resa in greco con “Amen”, di derivazione ebraica, la cui radice 'mn, che esprime fermezza, solidità, certezza, acquista in greco il significato di “certamente, veramente, sicuramente”19. Si tratta, dunque, di una sorta di giuramento che viene posto su quanto segue: “chi non accoglierà il regno di Dio come un fanciullo, non entrerà in esso”. Un'espressione che con quel “chi” iniziale acquista un senso di universalità. L'intento qui è quello di definire una sorta di paradigma su cui conformare il proprio atteggiamento interiore nell'approcciarsi alle realtà divine, non sempre raggiungibili dall'uomo (v.34) e per questo richiedono una fede, che qui viene intesa come abbandono fiducioso in Dio. Un abbandono che si rende ancor più necessario ora che il dramma della croce sta per compiersi.


Spogliandosi dei beni terreni (vv.18-30)

Testo a lettura facilitata

Introduzione (v.18)

18 – E lo interrogò uno dei capi dicendo: <<Maestro buono, facendo che cosa otterrò (la) vita eterna?>>.

Una inaspettata considerazione (v.19)

19 – Gli disse Gesù: <<Perché mi dici buono? Nessuno è buono se non uno, Dio.

L'indicazione della via maestra (vv.20-23)

20 – Conosci i comandamenti: non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non darai falsa testimonianza, onora il tuo padre e la madre>>.
21 – Ma questi disse: <<Tutte queste cose ho osservato dalla giovinezza>>.
22 – Udito (ciò), gli disse Gesù: <<Ancora una cosa ti manca: vendi tutte quante le cose (che) hai e distribuisci(le) ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli; e da qui seguimi>>.
23 – Questi, udite queste cose, divenne triste; infatti era molto ricco.

La triste considerazione sulle ricchezze (vv.24-25)

24 – Ma Gesù, avendolo visto [che era divenuto triste], disse: <<Quanto difficilmente coloro che possiedono ricchezze entrano nel regno di Dio!
25 – Infatti è più facile che un cammello entri attraverso una cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio>>.

La salvezza è opera di Dio (vv.26-27)

26 – Ma dissero quelli che udirono: <<E chi può essere salvato?>>.
27 – Ma questi disse: <<Le cose impossibili presso (gli) uomini sono possibili presso Dio>>.

La ricompensa per chi ha lasciato tutto per il Regno di Dio (vv.28-30)

28 – Ora, disse Pietro: <<Ecco noi, lasciate le nostre cose, ti abbiamo seguito>>.
29 – Questi disse loro: <<In verità vi dico che non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli a motivo del regno di Dio,
30 – che non riceva molto di più in questo tempo e nel tempo che viene la vita eterna>>.


Note generali

Torna qui il tema della ricchezza, vista come un inciampo sia per la sequela di Gesù che per la salvezza. Un tema che Luca aveva già affrontato in senso generico nel “guai ai ricchi” (6,24) e in termini più specifici in 8,14, dove l'iniziale accoglienza della Parola gettata dal seminatore viene soffocata sia dalla ricchezza che dai conseguenti piaceri della vita; una ricchezza che offusca la visione di Do e dei propri destini, radicando l'uomo ai beni terreni, come capitò a quel uomo ricco, dedito ad accumulare i suoi beni ed arricchirsi sempre più, dimenticandosi della fragilità e del senso della sua vita (12,16-21); una ricchezza che alimenta sempre più i propri egoismi, rendendo ciechi e insensibili di fronte alle necessità del prossimo, come capitò al ricco Epulone (16,19-31). Da qui il sollecito di Luca: “Nondimeno date in elemosina le cose che sono dentro, ed ecco tutte le cose sono pure per voi” (11,41). Un'elemosina, dunque, capace di purificare e di giustificare il possesso dei propri beni, colti in una prospettiva di condivisione. Un sollecito che si fa più preciso in 12,33-34, che in qualche modo ricalca e preannuncia il 18,22: “Vendete i vostri beni e date elemosina; fate a (voi) stessi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove un ladro non (lo) raggiunge né tignola rovina; poiché dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”. Beni, dunque, non trattenuti egoisticamente, ma condivisi con gli altri (At 4,36-37). È questo l'ideale lucano delle comunità credenti, dove “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto” (At 4,32.34). Comunità dove chi tratteneva i beni egoisticamente per se stesso veniva duramente punito da Dio (At 5,1-11).

Tuttavia, il tema della ricchezza, mai disgiunta dall'elemosina-condivisione a favore dei bisognosi, per renderla spiritualmente fruttuosa per se stessi e non un inciampo verso Dio, va qui ricompresa nel contesto del cap.18, che funge da preambolo alla passione e morte di Gesù. Una ricchezza che impedisce la sequela di Gesù, che ormai si sta avvicinando al Golgota, offuscandone la comprensione.


La pericope, vv.18-30, è delimitata dall'inclusione data dall'espressione “vita eterna” che compare ai vv.18.30, al cui interno, come in una sorta di parallelismi concentrici20, viene posta la questione del cosa fare per salvarsi (v.18) e che trova la sua eco al v.26, in cui la questione viene capovolta: non più che cosa fare per salvarsi, quasi che questo dipendesse dall'uomo, ma “chi può essere salvato”, demandando implicitamente la propria salvezza a Qualcun'altro (v.27). Al v.19b viene affermata l'unicità di Dio, definito come il “Buono” in senso assoluto (“Nessuno è buono se non uno, Dio”) e, quindi, fonte di ogni bontà. Un'affermazione che trova il suo completamento al v.27, in cui la salvezza si demanda non al fare dell'uomo, ma soltanto a Dio, la cui Bontà qui si esplicita nella Misericordia salvifica. Il v.18a presenta “uno dei capi” del giudaismo, al quale fa riscontro al v.28a un altro capo, quello del gruppo dei Dodici, Pietro, il nuovo nucleo fondante della Chiesa. Ed infine, alla questione posta dal primo capo sul che cosa fare per ottenere la vita eterna (v.18b) corrisponde la domanda posta dall'altro capo, che rileva come loro, i discepoli, il “che cosa fare” l'hanno già fatto, lasciandosi dietro le spalle tutto quanto per seguire Gesù (v.28). Di mezzo a tutto questo viene collocato che cosa è necessario fare e lo si pone in due passaggi: il primo, il più elementare, la “conditio sine qua non”, è l'osservanza dei comandamenti riguardanti le proprie relazioni con il prossimo; il secondo passaggio va oltre, superando la semplice osservanza, e prospetta la spogliazione di tutto a favore del prossimo per abbracciare, liberi da orpelli materiali, ciò che veramente conta: la sequela di Gesù.

Vi è quindi un raffronto tra una situazione antecedente a Gesù, impersonata da uno dei capi del giudaismo (vv.18-27) e quella che Gesù è venuto ad inaugurare, qui raffigurata da Pietro, la quale supera di gran lunga la precedente, poiché non solo invita ad amare il prossimo, ma a liberarsi di tutti i propri beni a favore di questo prossimo, abbracciando la sequela. Soluzione questa che garantisce fin d'ora la “vita eterna”. È la strada che il Gesù matteano definisce perfetta, quasi a dire che la semplice osservanza della Legge mosaica è divenuta del tutto insufficiente ai fini della salvezza: “Se vuoi essere perfetto” (Mt 19,21a).

L'accento, pertanto, va posto su quest'ultima soluzione non solo perché ricomprende la prima, ma perché va oltre, giungendo ad uno stato di perfezione: la spogliazione dei propri averi terreni a favore del prossimo per una libera sequela di Gesù, il cui destino ormai sta per compiersi. Un comportamento questo che riecheggia in qualche modo la scelta stessa di Gesù, che ha rinunciato allo splendore e al potere della sua gloria divina, assumendo una natura umana corrotta dal peccato, sottomettendosi alla volontà del Padre fino alla morte più obbrobriosa, quella della croce, a tutto favore dell'uomo (Fil 2,6-8). Una spogliazione di se stesso, dunque, a favore dell'altro per la sequela, quella della volontà del Padre.

Commento ai vv.18-30

Il v.18 introduce il personaggio e il tema che verrà sviluppato nel corso dell'intera pericope. A differenza di Mt 19,16 e Mc 10,17, per i quali il personaggio è soltanto “un tale” e più precisamente un giovane per Mt 19,20a.22a, che ha trasformato in sostantivo l'espressione marciana “fin dalla giovinezza”, Luca presenta il suo personaggio come “uno dei capi”. La sostituzione di personaggio, rispetto agli altri due sinottici, è sicuramente intenzionale e il motivo è probabilmente duplice: da un lato, con l'espressione “uno dei capi” fa chiaramente riferimento ai capi del giudaismo, tra questi i farisei, che in più di un'occasione ha definito come avidi di denaro (16,14; 20,47), escludendoli in tal modo dal Regno, anche per questa loro avidità di ricchezza (v.24); dall'altro perché intende innescare un tacito confronto tra questo capo del giudaismo con un altro capo (v.28), quello di una nuova corrente giudaica, così com'era percepito alle sue origini il cristianesimo (At 24,5.14; 28.22), che ha come fondamento Gesù stesso e non più Mosè, Pietro, sottolineando in tal modo sia la differenza che il passaggio tra il vecchio e il nuovo modo di rapportarsi a Dio e agli altri.

Quanto alla questione posta, il cosa fare per ottenere la vita eterna, questa richiama da vicino quella del dottore della legge in 10,25, la quale rimanda, similmente a qui, alle disposizioni della Legge, riguardanti i rapporti con Dio e con il prossimo (10,27). La questione fa parte del dibattito rabbinico che va continuamente alla ricerca di una sofisticata via di perfezione o di un qualche comandamento tale che possa in qualche modo riassumere la foltissima schiera di tutti gli altri, ben 613, che scandivano e tuttora scandiscono il vivere del pio ebreo21. La questione posta dal capo è preceduta dall'appellativo “Maestro buono”. Il sostantivo “maestro” è reso in greco con “Did£skale22 (Didáscale), che significa maestro, nel senso di colui che insegna ai discepoli, definendo così il rapporto tra Gesù e questo capo, che si pone con sincerità nei confronti di Gesù come un discepolo, disponibile, quindi, ad accogliere e mettere in pratica il suo insegnamento, così che Gesù gli proporrà la sequela (v.22b). All'appellativo “Maestro”, Luca, seguendo Marco, aggiunge l'attributo “buono”, che invece Mt 19,16 sposta da Gesù a ciò che il giovane “deve fare di buono” per ottenere la vita eterna, riservando a Gesù solo il titolo di “Maestro”, accentuando, quindi, più che la questione teologica quella morale. Luca, invece, preferisce seguire Marco, sollevando la questione teologica su chi è veramente il “Buono” per eccellenza. Questo gli servirà per preparare la risposta alla questione posta dal v.26: “E chi può essere salvato?”, di cui si farà carico il v.27, chiamando in causa nuovamente Dio, che qui viene presentato come il Buono Misericordioso; anzi Misericordioso proprio perché è Buono, in cui la misericordia divina diventa, pertanto, una variante delle sua bontà.

Il v.19 ha la funzione di focalizzare l'attenzione del lettore sull'attributo “buono” assegnato a Gesù, che reindirizza al Padre, fonte di ogni bontà, poiché essa, come la sua santità, fanno parte della sua stessa natura. Un versetto questo che, comunque, non va letto in senso dottrinale, ma è finalizzato a preparare il contesto entro cui andranno letti e compresi i vv.26-27.

Messa, dunque, tra parantesi la questione teologica, il Gesù lucano elenca ora i comandamenti riguardanti il solo rapporto con gli altri (Es 20,12-17), omettendo, invece, la prima parte riguardante il rapporto con Dio (Es 20,2-11). Questa scelta di campo, tuttavia, non si contrappone ai rapporti con Dio né li esclude, ma li va a completare e ne costituisce la “conditio sine qua non”. Non si può, infatti, amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede (1Gv 4,20). L'amore per il prossimo, pertanto, viene percepito come il fondamento per l'amore per Dio, che passa attraverso quello per il prossimo23. Vi è, pertanto, una stretta connessione tra le due sezioni della Legge, così che il comandamento dell'amore per il prossimo viene definito simile a quello dell'amore per Dio (Mt 22,39; Mc 12,31), e sovente i due comandamenti, pur mutuati da diversi contesti biblici (Dt 6,5; Lv 19,18b), vengono citati assieme (Lc 10,27). Significativo in tal senso è Mt 19,18b, che, riecheggiando Rm 13,9, termina l'elencazione dei comandamenti, a differenza di Marco e Luca, citando Lv 19,18b: “e amerai il prossimo tuo come te stesso”, in quanto che questo comandamento riassume e amplifica tutti gli altri.

Gesù, dunque, propone la via dei comandamenti, storicizzazione della volontà divina e segno dell'Alleanza sancita tra Dio e il suo popolo, quale cammino sicuro per ottenere la vita eterna. Comandamenti che non richiedono particolare impegno esistenziale o particolari propensioni all'ascesi o alla santità, poiché essi si richiamano a quelle regole naturali per una civile convivenza nel rispetto di se stessi e degli altri, le quali sono inscritte nella natura stessa delle persone e delle cose perché queste raggiungano il loro fine che consiste nella loro piena realizzazione. Il violare tali regole, prima che offendere Dio, distrugge l'uomo e la sua società, poiché tali regole fanno parte della sua stessa natura. In altri termini, non si può andare in contromano a tutta velocità in autostrada perché questo determina la distruzione certa di se stessi e degli altri.

Il v.21 riporta la risposta dell'interlocutore di Gesù, che attesta di osservare tali cose fin dalla sua giovinezza. Il riferimento qui è probabilmente al “bar mitzvah” (figlio del comandamento) che si compie a 13 anni per il bambino24. È questo il momento in cui il giovinetto, ormai alle soglie dell'adolescenza, fa la sua entrata ufficiale nella comunità civile e religiosa, assumendo le sue prime responsabilità, partecipando attivamente alla vita religiosa e sociale. Egli può da questo momento essere conteggiato nel “Minjan”, il numero minimo di dieci persone perché la preghiera pubblica in sinagoga abbia valenza comunitaria.

Fin qui Gesù aveva indicato la strada maestra per accedere alla vita eterna. Ma la disponibilità di questa persona a ricercare ulteriori cammini di perfezione spinge Gesù ad indicare una via che non si contrappone alla prima, ma la va a completare, trasformando una semplice osservanza giuridica della Torah in una autentica evoluzione e crescita spirituali, che porterebbero il capo giudaico a quella perfezione spirituale che egli stava cercando.

La risposta di Gesù si articola in tre momenti che costituiscono una sorta di graduale cammino verso la perfezione spirituale: a) la constatazione che la semplice osservanza della Torah, per quanto perfetta, non soddisfa adeguatamente il bisogno di spiritualità di questo tale: “Ancora una cosa ti manca”. Più apertamente il Gesù matteano affermerà: “Se vuoi essere perfetto” (Mt 19,21a). Segno evidente che la Legge mosaica non era in grado di dare quella perfezione spirituale capace di creare un'adeguata comunione tra il credente e Dio, se il Gesù matteano attesterà che egli non è venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (Mt 5,17); b) il secondo momento crea la condizione per accedere a questa perfezione: liberarsi da ogni vincolo materiale, che lega chi lo possiede alla terrestrità, impedendogli ogni elevazione spirituale: “vendi tutte quante le cose (che) hai e distribuisci(le) ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli”. Non si tratta di un semplice ripudio dei beni terreni, ma di una “distribuzione” degli stessi a chi ne ha bisogno e, quindi, di una sorta di condivisione, che i fa comunione di vita, trasformando in tal modo questa ricchezza materiale e deperibile in una spirituale ed eterna. È ciò che Luca aveva già affermato in 12,33-34 e su cui tornerà ancora in At 2,44-45; 4,32.34, facendo di tale condivisione dei beni materiali uno stile di vita delle prima comunità credenti. E così, similmente, in At 9,36; 10,2.4.31 evidenzierà il valore dell'elemosina, intesa come una condivisione dei beni materiali, di Tabità, una discepola presentata come colei che “abbondava in opere buone e faceva molte elemosine”; e similmente il centurione pagano Cornelio, anche questo presentato come “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio”. Elemosine che erano state gradite a Dio (At 10,4.31). Un tema questo dell'elemosina e della distribuzione dei beni ai poveri che Luca riprenderà ancora una volta con il racconto di Zaccheo, che si è acquistato la salvezza accogliendo Gesù nella sua casa (19,9) ed accompagnando la sua accoglienza con la contestuale donazione della metà dei suoi beni ai poveri e restituendo quattro volte tanto il defraudato (19,8). Il tema, dunque, dell'elemosina, intesa come distacco e condivisione dei beni, sembra per Luca l'istituto che deve caratterizzare la vita del vero credente. Il terzo elemento, c), che costituisce la risposta di Gesù, è la sequela: “e da qui seguimi”. Il verbo qui usato è “¢koloÚqei” (akolútzei), che non dice soltanto un seguire Gesù, ma esprime una sequela che si pone a servizio di Gesù e degli altri. Un verbo specifico questo per definire il rapporto che intercorre tra il discepolo che ha deciso la propria vita per Gesù e Gesù stesso. Quello della sequela, pertanto, è un percorso graduale, che nasce dal bisogno di perfezione spirituale, per dare un senso più profondo e vero alla propria vita; da qui la necessità di liberarsi dai vincoli materiali che possono condizionare il cammino di evoluzione spirituale; ed infine la sequela di Gesù, quale momento culminante di questo percorso di spiritualità, che proprio “da qui”, dalla spogliazione di se stessi, ha inizio. Una sequela che è caratterizzata dalla croce: “Se qualcuno vuole venire dietro di me, neghi se stesso e prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (9,23); e lo è ancor più in questo contesto del cap.18, che funge da preambolo alla passione e morte. Liberarsi, dunque, dai beni materiali per poter seguire Gesù sul cammino della croce. È questo il consiglio che Luca propone al mondo pagano perché questo comprenda il significato e il senso della scandalosa morte di croce, la cui predicazione è “scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani” (1Cor 1,23).

Il v.23 viene riservato alla eloquente risposta di questo capo giudaico, che udita la proposta di Gesù, “divenne triste”, perché, commenta l'autore, “era molto ricco”. Una tristezza che è legata, dunque, alla ricchezza perché è proprio questa che gli impedisce di accedere a quella perfezione a cui aspirava. Una tristezza che dice l'annichilimento e la frustrazione di un grande desiderio di Dio. Ma questo non deve stupire poiché l'autore l'aveva già in qualche modo preannunciato in 8,14, al riguardo del seme della Parola caduto tra le spine soffocanti della ricchezza e dei conseguenti piaceri della vita: “Quello caduto nelle spine, questi sono quelli che hanno ascoltato, e, andando, vengono soffocati da affanni e ricchezza e piaceri della vita e non portano frutti”. Proprio per questo, perché la sequela sia efficace, comporta che il proprio cuore sia completamente libero dalla materialità del vivere, poiché essa non è un percorso di potere e di affermazione personale (Mt 20,20; Mc 10,35-37), ma di spiritualità, che, trascendendo la materialità, evolve il discepolo verso Dio e lo conduce a lui attraverso il servizio agli altri.

Tuttavia, il capo giudaico, a differenza di Mt 19,22 e Mc 10,22, non si allontana da Gesù, ma rimane lì nei suoi pressi, ritornando in quel anonimato da cui era uscito. Forse qui Luca ha voluto prospettare una figura di discepolo, che pur rinunciando ad una forte scelta di ascesi come avvenne per Pietro e gli altri (v.28), ha preferito comunque seguire Gesù. Un discepolo, quindi, che in 6,17b torna a far parte di quella “molta folla dei suoi discepoli”, che comunque si distingue dalla “grande moltitudine di popolo” (6,17b), ma che nel contempo si contrappone e si distingue dai Dodici, che invece vengono presentati insieme a Gesù (6,17a). Luca, pertanto, non condanna chi ha fatto una diversa scelta, ma rende possibile anche per questi un cammino di salvezza, rimanendo vicino a Gesù. Del resto è Gesù stesso che attesta come le ricchezze possano costituire un intralcio nel cammino verso il Regno, ma non necessariamente lo impediscono (v.24).

Si chiude qui la triste storia di una evoluzione spirituale mancata a causa di una scelta esistenziale a favore dei beni terreni e che costituirà oggetto di riflessione dei successivi vv.24-25, che sono, a loro volta, preparatori ai vv.28-30, che, invece prospettano il destino di chi, contrariamente a questo capo giudaico, ha fatto la scelta della sequela rinunciando ai beni terreni.

I vv.24-25 sviluppano una breve riflessione di Gesù sulla scelta operata dal ricco capo giudaico, che ha preferito i propri beni materiali alla sequela di Gesù. Essa attesta la difficoltà di fare scelte spirituali quando i propri interessi sono rivolti alle cose materiali. Sembra esserci, infatti, una sorta di idiosincrasia tra gli interessi materiali, di cui le ricchezze sono un emblema, e quelli spirituali, di cui la sequela di Gesù è altrettanto un emblema. Il motivo di questa radicale incompatibilità viene in qualche modo attestata da Rm 14,17-18: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo: chi serve il Cristo in queste cose, è bene accetto a Dio e stimato dagli uomini”. Regno di Dio e beni materiali sono dunque due realtà tra loro contrapposte e sono tali da condizionare lo stesso orientamento esistenziale, così che “Quelli che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito” (Rm 8,5). Una incompatibilità radicale che viene sottolineata dal paradosso del v.25, che vede più agevole il passaggio di un cammello attraverso la cruna di un ago, che l'entrata nel Regno di Dio da parte di un ricco.

Un'attestazione questa così radicale che deve aver creato un notevole turbamento tra quelli che avevano a cuore la propria salvezza e che certamente non dovevano essere poveri, considerata la loro reazione: “E chi può essere salvato?” (v.25). La questione, ora, viene portata da un piano morale, in cui si vedeva l'adesione esistenziale alle ricchezze come un impedimento alla propria salvezza, ad un piano soteriologico, in cui la questione è “chi può salvarsi”, ritornando in tal modo alla questione iniziale del capo giudaico: “facendo che cosa otterrò (la) vita eterna?”. La risposta che Luca dà sposta l'accento dal “che cosa fare”, quasi che la salvezza dipenda dal fare dell'uomo, cosa di cui erano convinti i giudei dediti alla scrupolosa osservanza della Legge, al “fare di Dio”, l'unico che può veramente dare la salvezza, la quale è per definizione l'accedere alla vita stessa di Dio. Una salvezza che non è raggiungibile dagli sforzi umani, che non possono appropriarsene a piacimento, ma è un dono di amore misericordioso di Dio, che resiste ai superbi, ma dà grazia agli umili (Gc 4,6; 1Pt 5,5). Ritorna pertanto qui l'appellativo con cui viene apostrofato Gesù dal capo giudaico: “Maestro buono”. Una bontà che si fa misericordia e salvezza per l'uomo. La capacità di salvezza, pertanto, viene sottratta all'uomo e rimandata esclusivamente a Dio. Una diretta risposta al giudaismo che riteneva di poter acquistare la salvezza con la sola osservanza della Legge, basata sul solo impegno umano, contrattandola in qualche modo con Dio.

Con i vv.28-29 viene ripreso il v.22 e se ne dà attuazione. Se il v.22 costituiva soltanto una proposta al giudaismo, di cui l'anonimo capo era in qualche modo figura, il rilievo di Pietro e con lui i discepoli, che quella proposta non solo l'avevano accolta, ma fatta diventare loro ragione di vita (v.28), costringe ora Gesù a prendere posizione ufficiale. La sua risposta, dai toni sentenziali, viene introdotta in modo solenne da quel “In verità vi dico”, che imprime a quanto segue un carattere di veridicità dottrinale, mentre con quel generico “nessuno”, soggetto principale dell'intera frase, la sentenza acquisisce una valenza di universalità. Se con i vv. 22.28 l'accento cade sulle cose che devono essere lasciate per abbracciare efficacemente la sequela, la risposta che Gesù dà ai suoi sposta l'accento dalle cose alle persone che devono essere lasciate per Gesù e, quindi, su ciò che c'è di più intimo e più profondo nelle persone, quali sono i vincoli affettivi, che si sono costituiti in ciascuno fin dal suo nascere, definendo la sua capacità relazionale e del suo sentire. Una pretesa quella di Gesù quasi draconiana e per certi aspetti crudele, ma che non stupisce, poiché riprende qui quanto già annunciato in 14,26: “Se uno viene verso di me e non disprezza il suo stesso padre e la madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle e di più ancora la sua stessa anima, non può essere mio discepolo”. Simili attestazioni vanno comprese nell'ambito del tempo presente, in cui Luca sta scrivendo, segnato dalle persecuzioni e dalle incomprensioni e divisioni familiari che vi si accompagnavano, allorché un membro della famiglia si convertiva al cristianesimo (12,53). Il suo nuovo stato di vita gli richiedeva la determinazione di lasciare la famiglia per la sequela. Una perdita quella degli affetti familiari che sarebbe stata ampiamente compensata già in questo tempo presente dalla comunità credente, che accoglieva amorevolmente i suoi nuovi figli accudendoli nelle loro necessità: “La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune” (At 4,32). Una comunità, pertanto, che non solo diveniva luogo in cui il credente ritrovava la sua nuova famiglia e la sua nuova identità, che nella fede lo accomunava agli altri, ma essa, per la fede e la Parola che aveva accolta e su cui era fondata, era anche depositaria della promessa di vita eterna. Una comunità, pertanto, che oltre ad una dimensione immanentistica ne possedeva anche una escatologica.

Ricomprendendo i Profeti e le Scritture (vv.31-35)

Testo a lettura facilitata

Terzo annuncio della passione ... (vv.31-33)

31 – Ora presi i Dodici, disse verso di loro: <<Ecco, saliamo a Gerusalemme, e si compiranno tutte le cose scritte per mezzo dei Profeti a riguardo del Figlio dell'uomo;
32 – infatti sarà consegnato ai pagani e sarà schernito e oltraggiato e (gli) sarà sputato (addosso)
33 – e dopo aver(lo) flagellato, lo uccideranno e al terzo giorno risorgerà>>.

. e la sua inintelligenza (v.34)

34 – Ed essi non compresero niente di queste cose e questa parola era per loro nascosta e non capivano le cose dette.


Note generali

Seguendo lo schema del triplice annuncio della passione-morte-risurrezione di Marco (Mc 8,31; 9,31-32; 10,33-34), Luca riporta qui il suo terzo ed ultimo annuncio della passione. Gli altri due precedenti sono stati in ordine quelli di 9,22.44-45. Tutti quindi immediatamente antecedenti al viaggio verso Gerusalemme, iniziatosi con 9,51, divenendone in tal modo una sorta di chiave di lettura. Questo terzo annuncio, tuttavia, posto al termine del viaggio, allorché si sta ormai profilando il dramma del Golgota, acquista un significato più pregnante. Rispetto ai due precedenti si presenta molto più dettagliato, quasi che la vicinanza al Golgota consenta, ora, di mettere meglio a fuoco i dolorosi eventi che si compiranno fra poco. Luca, tuttavia, pur seguendo lo schema marciano del triplice annuncio, tuttavia, a modo suo e lungo il viaggio verso Gerusalemme inserisce altri tre annunci in 12,50; 13,32-33 e 17,25, benché meno diretti e più velati, ma non meno eloquenti, che aiutano il lettore a ricordare e a comprendere il senso di tale viaggio.

Il primo annuncio di 9,22 viene esposto nei suoi tratti essenziali, senza scendere nei particolari e privo della descrizione della reazione dei discepoli a tale annuncio: “[...] bisogna che il figlio dell'uomo soffra molte cose e che sia rigettato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi e che sia ucciso e al terzo giorno sia risuscitato”. Una sorta di kerigma, che qui tratteggia i momenti più salienti del destino che attende Gesù a Gerusalemme e verso il quale egli è incamminato. Tutti i verbi qui sono posti al passivo teologico o divino, lasciando intravvedere che quanto succederà a Gesù ha a che vedere con l'attuazione di un piano divino.

Il secondo annuncio di 9,44-45 si limita ad avvertire i discepoli, rilevando soltanto “che il Figlio dell'uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini. Ma questi non riconoscevano questa parola ed era nascosta a loro, sicché non la comprendevano, e temevano di interrogarlo su questa parola”. L'accento qui, più che sull'annuncio, appena accennato in modo molto vago, cade sulla reazione dei discepoli, dettagliatamente descritta: l'annuncio per loro è avvolto da un mistero intellettivamente irraggiungibile, perché era nascosto da una sorta di velo divino, che la semplice mente umana non poteva divellere. La passione-morte-risurrezione di Gesù, infatti, fa parte del progetto di Dio, inaccessibile agli uomini. Di conseguenza, da un lato essi non lo comprendevano; dall'altro non osavano togliere quel velo per conoscere una verità che essi percepivano, sia pur ancora confusamente, come minacciosa e dolorosa e che contrastava con le loro attese (19,11b; 24,21; At 1,6).

Il terzo annuncio (18,31-34), ormai a ridosso del Golgota, si fa più preciso e vengono qui enumerati e dettagliati i vari passaggi dolorosi della passione, morte e risurrezione, come in una sorta di copione che sarà presto messo in scena e a fronte del quale, riprendendo qui sostanzialmente identico 9,45, viene messa nuovamente in rilievo l'inintelligenza dei discepoli di fronte ad un Mistero, che soltanto la luce della risurrezione e delle Scritture potrà illuminare e che funge da preambolo al racconto del cieco guarito (vv.33-43). Compare qui, rispetto agli altri due precedenti annunci e diversamente da Marco e Matteo, un nuovo elemento, che fornisce la chiave di lettura degli eventi del Golgota: il richiamo agli annunci dei Profeti. Rilevando in tal modo come la passione-morte-risurrezione di Gesù non solo danno attuazione agli annunci dei profeti, ma lasciano intravvedere come queste fanno parte di un progetto divino già da tempo preannunciato. Vi è, quindi, tra i tre annunci della passione una sorta di crescente gradualità pedagogica, che avvicina sempre più al Mistero i discepoli.

Commento ai vv.31-34

Il terzo annuncio della passione-morte-risurrezione si apre con la scena di Gesù che “prende i Dodici” per dire loro e, quindi, depositare presso di loro tale annuncio, che racchiude il cuore della fede cristiana. Il verbo qui usato è “Paralabën” (Paralabòn), che significa in senso generico “prendere”, ma anche “prendere sotto la propria autorità per educare, per formare”25, dando all'annuncio un senso pedagogico, di preparazione dei Dodici agli eventi del Golgota, la quale cosa concorda con il senso del cap.18, che funge da preambolo a tali eventi. La scelta dei Dodici, anziché dei discepoli in genere, dice la particolare situazione in cui viene collocato questo terzo annuncio: benché riguardi la totalità dei discepoli, tuttavia esso è affidato agli intimi di Gesù, a quelli che, ormai, saranno ben presto il suo alter-ego. Il termine “i Dodici” per indicare gli apostoli e, quindi, gli intimi di Gesù, intesi come la prosecuzione e il prolungamento di Gesù nel dopo Gesù, compare sempre in Luca in contesti simili. Il v.6,13 vede la nascita e la formazione del gruppo dei Dodici, che in 6,17 vengono presentati insieme a Gesù e distinti dalla folla degli altri discepoli; 8,1-3 presenta il primo nucleo ecclesiale formato dai Dodici, associati a Gesù nell'annuncio del Regno, e dalle prime donne che si sono dedicate al servizio dei Dodici e che potremmo definire come le prime diaconesse, nel senso proprio e tecnico del termine. In 9,1 i Dodici sono insigniti degli stessi poteri di Gesù, mentre in 9,12 prendono per la prima volta l'iniziativa davanti alla folla, divenendo, poi, intermediari tra questa e Gesù (9,16). Ed infine, li ritroviamo qui, in 18,31, mentre ricevono questo terzo annuncio, venendo in qualche modo costituiti da Gesù testimoni della sua passione-morte-risurrezione26. È, infatti, significativo come il primo (9,22) e il secondo (9,44-45) annuncio della passione non vengano esplicitamente affidati ai Dodici, ma soltanto ai discepoli lì presenti. I Dodici, pertanto, compaiono solo là allorché in qualche modo essi sono associati a Gesù; un essere associati a lui che viene espresso anche in quel “Ecco saliamo a Gerusalemme” con cui si apre il terzo annuncio. Quel salire a Gerusalemme e da qui al Golgota non è pertanto un evento che riguarda soltanto Gesù, ma anche i suoi (9,23; 14,27). Un luogo, quello di Gerusalemme, dove “si compiranno tutte le cose scritte per mezzo dei Profeti a riguardo del Figlio dell'uomo”. Il riferimento esplicito qui è ai soli Profeti, ma non alla Legge o a Mosè, come invece avverrà in 24,27.44 e, quindi, alle Scritture in senso generico. Luca, pertanto, qui intende richiamare quanto è stato scritto dai Profeti e il riferimento è al Servo di Jhwh (Is 50,6-7; 52,13-53,12; Dn /,13-14; Zc 12,10-11), che in qualche modo era già stato richiamato in 9,51, all'inizio del viaggio verso Gerusalemme, alludendo a Is 50,7b.

Quali siano queste cose scritte dai profeti verranno descritte ai vv.32-33, che si presentano come una sorta di dettagliato indice generale del racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, tracciandone fin d'ora lo schema narrativo.

Il v.34 conclude questo terzo annuncio riprendendo sostanzialmente la conclusione del secondo annuncio (9,45), mettendo in rilievo una volta di più l'inintelligenza dei Dodici di fronte al Mistero della morte e risurrezione di Gesù, che oltrepassa le logiche umane, secondo le quali ci si attendeva, invece la ricostituzione del regno d'Israele. Una inintelligenza che va colta nel contesto del cap.18, che costituisce da un lato il preambolo alla passione e morte di Gesù; dall'altro una sorta di esortazione pedagogica del come affrontare questo drammatico evento che, da un punto di vista umano, è di fatto un fallimento eclatante. Come, dunque, farne di questo drammatico evento il fondamento della propria fede? Come vedere nel Crocifisso la sua regalità? Come vedere in lui l'attuazione delle Scritture? Come vedere in lui il proprio salvatore, lui che non ha saputo salvare neppure se stesso? Come credere, dunque, nella sua parola e nelle sue promesse di eternità? Di fronte a tanta perplessità e ai numerosi interrogativi che agitavano i credenti e ancor prima i Dodici, Luca propone un cammino di spiritualità preparatorio ai drammatici eventi del Golgota attraverso una preghiera incessante ed umile (vv.1-14); accostandosi al Mistero con l'animo semplice e fiducioso del bambino, che si affida alle braccia di una madre amorevole (vv.15-17); rinunciando all'attaccamento ai beni terreni, che oscurano la visione delle cose di Dio, elargendoli ai poveri (vv.18-30); invocando Gesù, quale messia davidico promesso, perché illumini la mente, il cuore e gli occhi su quel Mistero di morte e di vita, aiutando il credente a coglierlo dalla prospettiva di Dio e non da quella degli uomini (vv.35-43).

Ed è in quest'ultima prospettiva pedagogica che Luca fa seguire ora il racconto del cieco, che si trova nelle vicinanze di Gerico, la porta di accesso a Gerusalemme e da qui al Golgota, e la cui cecità, guarita da Gesù, drammatizza l'inintelligenza dei Dodici di fronte al Mistero della croce. L'ultimo suggerimento di Luca, pertanto, sarà quello di invocare la luce divina che illumini la mente e il cuore dei credenti di fronte alla notte buia e pesante dell'incomprensibile Croce.

Illuminati dalla fede in Gesù (vv.35-43)

Testo a lettura facilitata

35 – Ora avvenne che mentre egli si avvicinava a Gerico, un cieco sedeva presso la strada mendicando.
36 – Ora, avendo udita (la) folla che passava, si informava che cosa fosse questo.
37 – Gli riferirono che passa Gesù il Nazareno.
38 – E gridò dicendo: <<Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me>>.g
39 – E quelli che precedevano lo rimproveravano affinché tacesse; ma egli molto di più gridava: <<Figlio di Davide, abbi pietà di me>>.
40 – Ma Gesù, fermatosi, ordinò che egli fosse condotto da lui. Ora, avvicinatosi quello, lo interroò:
41 - <<Che cosa vuoi che ti faccia?>>. Ed egli rispose: <<Signore, che (io) riacquisti la vista>>.
42 – E Gesù gli disse: <<Riacquista la vista; la tua fede ti ha salvato>>.
43 – E all'istante riacquistò la vista e lo seguiva glorificando Dio. E tutto il popolo, avendo visto (ciò), diede lode a Dio.


Commento ai vv.35-43

Il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme si conclude significativamente con la guarigione di un cieco, che si trovava nei pressi di Gerico, la città che funge da porta di accesso verso Gerusalemme e posta a 250 mt sotto il livello del mare, probabilmente la città più depressa al mondo. L'ultimo posto prima di salire sul monte Sion, su cui si colloca Gerusalemme, a circa 750 mt sul livello del mare. Un dislivello di circa mille metri, pertanto, separava le due città, ricongiunte tra loro da una strada lunga circa 30 Km. Qui Luca ambientò la sua verosimile parabola del malcapitato pellegrino che incappò nei briganti, mentre scendeva da Gerusalemme a Gerico (10,30-37). Qui si rifocillavano i pellegrini prima di salire al Tempio o quando ritornavano; qui dimoravano temporaneamente i sacerdoti e i leviti che giungevano dai loro villaggi di residenza per prestare il loro servizio al Tempio, secondo i turni settimanali stabiliti27. Il cieco era seduto lungo la strada che portava a Gerico. Una posizione, quindi, strategica, perché luogo di grande afflusso di persone, da cui sperava di ricevere un qualche spicciolo. Ed è proprio qui che egli un giorno sente un gran vociare e più trambusto del solito ed è proprio qui che egli ha il suo fortunato incontro con Gesù.

Il racconto, pur mutuato da Marco, viene snellito da tutta una scenografia narrativa che lo appesantirebbe, distraendo il lettore dal messaggio che l'autore vuole trasmettergli. Il racconto ne esce più scorrevole ed essenziale, mentre la simbologia traspare in modo più immediato e facilmente coglibile. Più che un vero e proprio miracolo, pertanto, questo va colto come un racconto simbolico sulla guarigione dell'incapacità dei discepoli di comprendere il senso più vero e profondo del patire e del morire di Gesù e del suo risorgere28.

Il v.35 funge da scenario introduttivo: si è nelle vicinanze di Gerico, quindi, a circa un giorno o poco più di cammino da Gerusalemme, il luogo dove si compiranno i Misteri della passione-morte-risurrezione di Gesù. Ma è proprio qui che si manifesta l'inintelligenza di tali Misteri da parte dei Dodici, che, su questa strada di sofferenza e di morte, sono come quel cieco che “sedeva” ai suoi margini. Il verbo posto qui all'imperfetto indicativo esprime un'azione durativa, così che essi continuavano a rimanere seduti lungo questa strada verso il Golgota, incapaci di proseguire, in attesa di un'elemosina di luce, che illuminasse la cecità della loro persistente inintelligenza, già denunciata anche in 9,45 e che solo Gesù sa dare. Ma serve una diversa comprensione di Gesù: egli non va invocato e seguito come il “Nazareno” (v.37), l'uomo proveniente da Nazareth, da cui ci si attendeva, sognando un messianismo tutto umano, la ricostituzione del regno di Israele (24,21a; At 1,6) e, in esso, la fondazione del Regno di Dio: “egli era vicino a Gerusalemme ed essi credevano che il regno di Dio stesse per essere manifestato nello stesso momento” (19,11b). Gerusalemme, infatti, era considerata la città santa29 e il luogo della dimora di Dio30, il luogo ideale, quindi, per poter proclamare la costituzione del Regno di Dio e da qui la riscossa contro l'invasore romano e la liberazione di Israele. Ma tutto questo fa parte della comprensione umana di Gesù. Gesù, invece, va invocato con forza e senza timore, superando ogni ostacolo umano (v.39), quale egli è veramente e che solo la fede può rivelare: “Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me” (v.38). Significativo è l'accostamento che Luca fa qui dei due titoli: “Gesù il Nazareno” (v.37) e “Gesù, Figlio di Davide” (v.38), indicando due diverse posizioni nei confronti di Gesù: c'è chi lo coglie, come la folla, come un semplice uomo, fantasticandoci sopra messianismi tutti umani; e chi, invece, desideroso di vedere, andando oltre, lo sa cogliere come l'uomo che incarna in se stesso le Promesse fatte da Dio ad Abramo e a Davide.

E ciò che conta qui è proprio questa titolatura, che si radica nella profezia fatta dal profeta Natan a Davide: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno” (2Sam 7,12). Una discendenza davidica che aveva la sua origine già nella promessa fatta ad Abramo (At 13,23; Gal 3,16). È, pertanto, necessario riconoscere in Gesù, non soltanto l'uomo originario di Nazareth, bensì anche l'attuazione della promessa che Dio ha fatto ad Abramo e da qui a Davide. In questa prospettiva viene, pertanto, rimarcata la sola titolatura, non più accompagnata dal nome Gesù, e sulla quale viene accentrata l'attenzione del lettore: “Figlio di Davide, abbi pietà di me” (v.39). Una sorta di atto di fede nella Promessa, fatta ad Abramo, consegnata a Davide, attuata in Gesù, la vera Promessa del Padre. Un titolo, quindi, che racchiude in se stesso l'intera storia della Promessa, che si accompagna con quella di Israele fino a Gesù, che ne è il compimento.

Una fede in Gesù che non è semplice da proclamare e che trova il suo maggiore ostacolo proprio nella comprensione umana del messianismo di Gesù: da un lato si cerca di zittire questo cieco che crede in Gesù, quale realizzazione della Promessa; dall'altro, il cieco continua ad attestare sempre più la sua convinzione (v.39). Una fede, dunque, che viene contrastata ma che sa andare oltre e che proprio in questo “oltre” si afferma, liberando il credente da ogni sua cecità (v.42).

Ed è proprio in risposta a questa indomita fede che Gesù rivela qui la sua regalità di discendenza davidica proclamata dal cieco, anticipando in qualche modo quella che verrà attestata, sia pur ironicamente, sulla croce (23,38), ma che già in 19,15.27a.38a; 23,3.37 era stata prospettata: “Ma Gesù, fermatosi, ordinò che egli fosse condotto da lui” (v.40a). Il verbo greco qui usato per indicare l' “arrestarsi” di Gesù è “staqeˆj” (statzeìs), che dice ben di più di un semplice fermarsi. Il verbo significa “stare lì fermo, ritto in piedi, con determinazione”, quasi dominando la situazione, mettendo in rilievo in questo suo fermarsi una solennità da cui sprigiona tutta l'autorità e l'autorevolezza di Gesù, che si concretizza non in un desiderio di conoscere il cieco, che lo stava apostrofando in quel modo, ma impartendo un ordine: che il cieco fosse condotto alla sua presenza. Anche l'ordine stesso esprime regalità. Non lui che si avvicina al cieco, ma questi deve essere condotto da lui. Un ordine che supera ogni resistenza della folla, che si infrapponeva tra il cieco e Gesù e la cui forza viene preannunciata in qualche modo da quel “Ma” avversativo con cui si apre il v.40 e che contrappone la vincente volontà di Gesù su quella della folla, così come è propria quella di un re.

Il dialogo salvifico tra Gesù e il cieco, che lo porterà alla luce, ha inizio allorché il cieco si avvicinò a Gesù. Il primo passo verso la guarigione della propria cecità è quello di avvicinarsi a Gesù. Soltanto così si può ascoltare la sua parola di luce da cui trarre la guarigione della propria cecità: “Signore, che (io) riacquisti la vista”. L'invocazione qui non fa più riferimento alla titolatura davidica, né tanto meno quella umana, ma alla Signoria di Gesù, con cui era insignito dopo la sua risurrezione: “Signore”; mentre quel “che (io) riacquisti la vista” esprime il desiderio di trovare la propria luce nel Risorto. E la luce al cieco viene proprio attraverso la Parola di Gesù, scevra da ogni gestualità: “Riacquista la vista”. La fede, dunque, riposta nella Parola del Risorto diviene luce capace di togliere ogni tenebra dalla propria vita: “la tua fede ti ha salvato”, dando piena comprensione di quel Mistero fin qui inintelligibile. La conquista di una fede che avviene attraverso un triplice passaggio, espresso dalla titolatura che l'evangelista assegna a Gesù: dapprima si riconosce Gesù come “il Nazareno”, definendo la sua origine umana; successivamente, attraverso una rilettura delle Scritture, si riconosce in lui la regalità della sua figliolanza davidica, in cui si attua la Promessa: “Figlio di Davide”; ed infine, ma solo dopo essersi avvicinati a lui, lo si attesta “Signore”, riconoscendo in lui la potenza di Dio.

Soltanto dopo questo percorso di fede la luce irrompe in questo cieco e nella cecità dei Dodici, che rotto ogni indugio frapposto tra loro e Gesù dalla pesantezza delle persecuzioni e dalla difficile comprensione e giustificazione di un evidente fallimento, da un punto di vista umano, si giunge, infine, alla sequela, che qui viene espressa con un verbo all'imperfetto indicativo: “lo seguiva”, che indica la persistenza di questa sequela, che diverrà una glorificazione di Dio. Una glorificazione che trova la sua eco, come nei cori delle tragedie greche, nella lode di Dio da parte del popolo, ma che nel contempo lascia intravvedere l'espandersi della fede dal gruppo dei Dodici, illuminati dalla Parola del Risorto, alle genti.

NOTE

1Cfr. il commento al cap.9 della presente opera, pag.1

2Sulla questione della variegata composizione del materiale letterario del vangelo di Luca cfr. la Parte introduttiva della presente opera, pagg. 22-23.

3Materiale proprio lucano dopo 18,14 si troverà in 19,1-10.41-44; 22,28-38; 23,6-16

4Il commento seguirà lo schema tematico indicato nel titolo di apertura del presente cap.18 (pag.1)

5Cfr. Lc 6,13; 8,2; 9,1.10; 17,5; 18,31; 22,3.14.47; 24,10

6Cfr. At 1,14; 2,42; 6,4; 12,5.12; Rm 12,12; 1Cor 10,31; Col 3,17; Ef 6,18; Fil 4,6; Col 4,2; 1Tm 4,5; 5,5; Gc 5,16b; 1Pt 4,7.

7Cfr. Lc 2,25; 4,3; 6,6; 7,3; 8,27.41.43; 10,30; 13,11; 14,16; 15,11; 16,11.19; 19,2.12; 20,9; 23,50;

8Cfr. Dt 6,4-7; Lv 19,18; Mt 22,36-40; Mc 12,30-31; Lc 10,25-29

9Dopo la persecuzione di Nerone, i cristiani godettero di un periodo di trent’anni di sostanziale tranquillità sotto Vespasiano (69-79 d.C.) e Tito (79-81 d.C.). Con l’avvento di Domiziano, negli ultimi anni della sua vita, egli accentuò il suo assolutismo e promulgò il culto all’imperatore anche da vivo. Egli si fece chiamare “Dominus et Deus” e pretese di conseguenza l’adeguato riconoscimento religioso, che trovò, ovviamente, l’opposizione e il rifiuto dei cristiani. Da qui la persecuzione che , secondo Lattanzio, fu di “efferata crudeltà.

10Il termine “™klektÒj” (eklektós) ricorre nel NT 22 volte e il riferimento è costantemente rivolto ai credenti che hanno abbracciato la fede, leggendo in questo una chiamata divina.

11Cfr. A. Poppi, Sinossi quadriforme dei quattro Vangeli, greco-italiano, edizioni Messaggero di S.Antonio – Editrice, Padova, 1999.

12Cfr. Lc 11,42-44.47-54; 20,46-47

13Cfr. Is 55,8-9; 1Cor 1,22-25; Lc 16,15

14Un simile modo di pregare di fronte a Dio, ostentando le proprie qualità morali, trovando in esse il proprio compiacimento, trova degli esempi anche nei Salmi 18,21-25 e 26,2-12

15Cfr. Lv 16,29; 23,27; Nm 29,7. In questo contesto sia Levitico che Numeri definiscono il digiuno come un umiliarsi e un mortificarsi davanti a Dio. Col tempo si aggiunsero altri digiuni nazionali in occasione di anniversari di grandi sventure. Individualmente, le persone pie praticavano il digiuno due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, come qui viene accennato dal fariseo, venendo questo considerato un'opera pia meritevole, di cui ci si vantava (Mt 6,16-18;). A questa categoria appartenevano i discepoli di Giovanni. Lo stesso Paolo si sottoponeva a questa pratica (2Cor 6,5; 11,27). Una pratica che prese piede anche nella chiesa primitiva, in cui si digiunava due volte la settimana il mercoledì e il venerdì. Un digiuno che non di rado si poneva in netto contrasto con il proprio modo di vivere disordinato e in opposizione a Dio, diventando così soltanto una pratica priva di ogni significato morale e di ogni valore spirituale. Contro questo modo di digiunare si scaglierà il terzo Isaia, rilevando l'ipocrisia di questo digiuno (Is 58,1-7) - Sulla questione del digiuno cfr. la voce “Digiuno” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005

16La decima era una tassa, corrispondente al nostro dieci percento, posta sul patrimonio e sul reddito. Era questa una pratica molto diffusa nell'antichità e si riscontrava presso i Fenici, i Cartaginesi, i Babilonesi, i Persiani, gli Arabi e anche presso i Greci e i Romani. Anche Israele la praticava, ma qui essa assumeva una duplice valenza: teologica, in quanto si riconosceva come i beni della terra fossero dono gratuito di Jhwh e, pertanto, a Lui andavano restituiti in parte; e sociale, per il sostentamento dei poveri, per un principio di solidarietà, che legava tra loro tutti i membri dell'Alleanza. La decima trovava il suo fondamento biblico in Lv 27,30.32 e in Dt 14,22 e doveva essere consegnata, secondo Nm 18,21, ai Leviti per il servizio reso nel culto. Tuttavia, ogni tre anni, doveva essere consegnata, oltre che ai Leviti, anche al forestiero, all'orfano e alla vedova (Dt 26,12). Nel periodo intertestamentario, nel N.T e anche successivamente esistevano tre tipi di decime: la prima sui cereali e sulla frutta, spettante ai Leviti; la seconda riservata al Tempio e la terza, ogni tre/sei anni destinata ai poveri (Tb 1,6-8). Quest'ultima era sostitutiva di quella del Tempio. - Sulla questione della “decima” cfr. la voce “Decima” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, II edizione rivista e integrata 2005.

17Cfr. Lc 22,40.41.44.45.46

18Il sostantivo bršfh” (bréfe) compare nel N.T. 8 volte, di cui 6 volte nel solo Luca. Le altre due sono 2Tm 3,15 e 1Pt 2,2.

19Cfr. la voce “Amen” in in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, II edizione rivista e integrata 2005.

20I parallelismi concentrici sono una figura caratteristica della retorica ebraica dove un testo viene steso seguendo lo schema A.B C B1.A1 e dove C costituisce la parte centrale del testo, considerata la più importante, verso la quale le altre lettere convergono. Tuttavia qui Luca non rispetta rigorosamente questo schema, ma lo interpreta a modo proprio.

21Cfr. Mt 22,36.28; Mc 12,28; Gc 2,8

22Per sette volte nel suo Vangelo Luca, in luogo di “Did£skale”, usa l'appellativo “'Epist£ta” (Epistáta), sostantivo che si ritrova in tutta la Bibbia solo in Luca. Questo significa sempre “Maestro”, ma cambia la prospettiva, poiché esso indica “colui che sta sopra, l'arbitro, il capo, il superiore, la guida certa e sicura”.

23Cfr. Rm 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8

24Per le bambine la cerimonia del “bat mitzvah” (figlia del comandamento) dell'entrata in età adulta avviene a 12 anni.

25Cfr. il verbo “paralamb£nw” (paralambáno) in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, ed. Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello 1993.

26Cfr. At 1,8; 2,32; 3,15; 5,32; 10,39.

27La classe sacerdotale, al tempo in cui Luca scriveva, contava un numero esorbitante di sacerdoti: circa 18/20.000, addetti al servizio del Tempio, suddivisi da Davide (1010-970 a.C.) in 24 classi sacerdotali. Ogni classe poteva accedere al servizio presso il Tempio solo due settimane all'anno.

28La cecità come la sordità nei racconti evangelici sono figure dell'inintelligenza su Gesù e della chiusura a lui; mentre la loro guarigione dice l'apertura a Gesù e la raggiunta fede in lui e la capacità di accogliere la sua parola. Sulla questione cfr. J.Mateos-F.Camacho, Vangelo: figure e simboli, edizioni Cittadella Editrice, Assisi, 1^ ediz. 1991; 2^ ediz. 1997; pagg 11-13

29Cfr. Ne 11,1; Tb 13,10; Sir 13,12; Is 52,1; Dn 3,28

30Cfr. Sal 32,14; 67,17; 75,3; 131,13; Is 11,10; Sir, 13,12