IL VANGELO SECONDO LUCA

Catechesi n. 7: miscellanea di tematiche riguardanti le comunità;

la salvezza accolta in modo riconoscente dai pagani;

la venuta del Regno in un contesto escatologico


(17,1-37)


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




Note generali

Con il cap. 17 prosegue la catechesi di Luca alle comunità credenti etnocristiane, iniziatasi con il cap.111. Una catechesi che ha per cornice il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28), che verrà qui ricordato in 17,11. Un viaggio fittizio, che funge da contenitore ad un'ampia raccolta di detti, sentenze dai toni sapienziali, parabole, esortazioni, che costituiscono nel loro insieme una sorta di tesoro di spiritualità della chiesa nascente. Si tratta delle prime riflessioni cristiane sulla figura di Gesù, sulla sua missione, sul suo insegnamento, sul senso del suo patire e morire, che vengono fatte risalire a Gesù stesso. In tale contesto è molto difficile trovare una struttura, che presuppone uno sviluppo logico e tematico del pensiero. Ci si trova piuttosto di fronte ad una raccolta, in cui si possono riscontrare soltanto dei tentativi d raggruppare il materiale attorno a delle tematiche, ma non si va oltre. Per tale motivo ho preferito raggruppare tutto questo materiale lucano, compreso nell'ampia sezione 11,1-19,28, sotto il titolo di “Catechesi n. ..”.

All'interno di questa comprensione la sezione 17,1-10, formata da detti e sentenze e una breve parabola, non va vista come il proseguo della parabola del ricco epulone e Lazzaro (16,19-31), ponendola in tal modo in parallelo alla parabola dell'amministratore accorto (16,1-8), fatta seguire subito da una raccolta di detti e sentenze di Gesù (16,9-18), poiché mentre quest'ultima ha una funzione esegetica e di approfondimento della parabola dell'amministratore accorto, la raccolta con cui si apre il cap.17 (vv.1-10) e che segue la parabola del ricco epulone non ha alcun legame con quest'ultima. Si può solo rilevare, da un punto di vista letterario, il parallelismo “parabola+detti”, ma questo gioco letterario non ha alcuna rilevanza utile ai fini di uno sviluppo logico-tematico della teologia lucana, come, invece, lo ha avuto nella parabola dell'amministratore accorto fatta seguire da una riflessione di approfondimento sulla parabola stessa. La simmetria, se di per sé è innegabile, tuttavia questa si pone soltanto a livello letterario ed è, a mio avviso, trascurabile e certamente non è indicativa di schemi o strutture particolari.

Similmente, a mio avviso, non va considerato il v.11 come un segnale di suddivisione in tappe del fittizio viaggio verso Gerusalemme, poiché a tale suddivisione, che da un punto di vista narrativo corrisponde ad una sorta di “girare pagina” per dare inizio a nuove tematiche o a nuovi sviluppi di pensiero o nuove aggregazioni di materiale vario, in realtà non producono niente in tal senso. I versetti che alludono a questo viaggio sono i seguenti: 9,51.53; 10,38; 13,22; 17,11; 18,31; 19,11.28 e la loro funzione primaria non è la suddivisione della narrazione in tappe, ma più semplicemente quella di ricordare al lettore che Gesù si sta muovendo verso Gerusalemme e che tutto ciò che qui sta accadendo va compreso all'interno di questa cornice fittizia del viaggio. In altri termini i versetti citati fungono da cornice e danno consistenza al racconto del viaggio verso Gerusalemme.

Il cap.17 l'ho segnalato come una sorta di miscellanea di diverse tematiche la cui funzione primaria, più che dottrinale, è pedagogica o, per meglio dire, pastorale e riguarda, in primis, le comunità credenti (vv.1-4) e i loro responsabili (vv.5-10). Segue, poi, una sorta di racconto di miracolo di guarigione di dieci lebbrosi, la cui finalità è squisitamente parenetica: sollecitare i credenti, provenienti dal mondo pagano, a cui l'autore si sta rivolgendo, ad essere riconoscenti a Dio, che in Gesù li ha chiamati a vita nuova, rigenerandoli con la sua parola, considerandosi privilegiati rispetto al mondo giudaico che, invece, questa parola ha rifiutato, preferendo rimanere nella ritualità mosaica (vv.11-19). Ed infine, Luca dà una risposta ai suoi, da un lato, circa la venuta del Regno di Dio (vv.20-21), attesa molto sentita nel giudaismo (At 1,6); dall'altro, circa il ritorno del Signore (vv.22-23).

Pertanto il capitolo potremmo dividerlo in tre parti:

  1. esortazioni alla comunità credente e ai suoi responsabili (vv.1-10);

  2. la riconoscenza per la salvezza donata e accolta da parte del mondo pagano (vv.11-19);

  3. il tempo della venuta del Regno di Dio (vv.20-21) e del Signore (vv.22-37)

Il materiale con cui Luca costruisce il suo cap.17 è di varia provenienza: da fonte Q, che condivide con Matteo per complessivi 9 versetti2; da Marco, di cui sta seguendo il vangelo, e che ritroviamo parimenti anche in Matteo, soltanto 6 versetti3; ed infine da materiale proprio che va a formare 22 versetti complessivamente4. Una combinazione molto variegata, che dice la complessità di questa composizione.


Commento ai vv.1-37

Esortazioni alla comunità credente e ai suoi responsabili (vv.1-10)

Testo a lettura facilitata

Inevitabilità degli scandali (vv.1-2)

1 – Ora disse verso i suoi discepoli: <<È impossibile che non avvengano gli scandali, tuttavia guai (a quello) per mezzo del quale vengono.
2 – Gli giova se una pietra da mola viene cinta intorno al suo collo ed è gettato nel mare, piuttosto che scandalizzi uno di questi piccoli.

Il perdono (vv.3-4)

3 – Badate a (voi) stessi! Qualora tuo fratello peccasse, rimproveralo; e qualora si penta, perdonagli.
4 – Anche se peccasse sette volte al giorno contro di te e sette volte si rivolgesse verso di te, dicendo: “mi pento”, perdonagli>>.

La fede (vv.5-6)

5 – E dissero gli apostoli al Signore: <<Aggiungici fede!>>.
6 – Ma disse il Signore: <<Se avete fede come un granello di senape, dite a questo sicomoro: “Sradica(ti) e pianta(ti) nel mare; e vi darebbe ascolto”.

Dedizione e servizio disinteressato per il Signore (vv.7-10)

7 – Ora, chi di voi che ha un servo che ara o che pascola, il quale, ritornato dal campo, gli dirà: “Arrivato, coricati subito”;
8 – ma non gli dirà (piuttosto): “Apparecchia ciò che cenerò e, cintoti, mi servi finché mangio e bevo, e dopo queste cose mangerai e berrai tu?”.
9 – È forse grato al servo, poiché ha fatto ciò che gli è stato comandato?
10 – Così anche voi, quando farete tutte le cose che vi sono state comandate, dite che siamo servi inutili; ciò che dovevamo fare abbiamo fatto>>.


Note generali

A partire dal cap.15,1 la predicazione del Gesù lucano si rivolge, di volta in volta, ad una variegata platea di ascoltatori ai quali viene dedicato il contenuto dell'intero capitolo. Il cap.15 si apre con la scena dei pubblicani e peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltare la sua parola, nel mentre che i farisei e gli scribi si indignano per il come Gesù frequenti una simile gentaglia (15,1-2). A loro viene dedicato l'intero cap.15 (15,3) in cui si parla, da un lato, del ritrovare ciò che si era perduto (15,4-10), con riferimento ai pubblicani e ai peccatori che accorrono a Gesù (15,1); dall'altro, del mondo pagano che, allontanatosi da Dio, ritorna a lui, tra i rimbrotti del giudaismo, che mal sopporta come dei pagani impuri, disprezzati e ultimi arrivati possano godere, a pari suo, della sua stessa promessa che gli era riservata (15,11-32), con riferimento alle critiche di farisei e scribi (15,2). Con il cap.16 la platea viene allargata “anche ai discepoli” (16,1a), coinvolgendo in tal modo l'intera gamma dei personaggi che componeva la società giudaica: i puristi dell'osservanza, quali farisei, scribi, sacerdoti e anziani; ai quali si contrappongono gli iniqui e disprezzati peccatori e pubblicani; ed infine l'elenco viene completato con i discepoli di questa nuova corrente del giudaismo, inaugurata da Gesù, così come era percepita agli inizi del sorgere della chiesa. Il messaggio contenuto nel cap.16 è infatti rivolto non a qualche categoria di persone, ma a tutti gli uomini: è necessario che tutti si impegnino proficuamente in questa dimensione spazio-temprale, usando correttamente dei beni di questo mondo per guadagnarsi l'eternità, verso la quale tutti sono ineluttabilmente incamminati e il cui pensiero deve sempre guidare l'agire e il vivere di ogni uomo.

Ora con il cap.17 l'attenzione è rivolta esclusivamente alle comunità credenti (vv.1a; 22a) e ai loro responsabili (v.5a). La catechesi lucana qui si sviluppa su tre aree. La prima area raccoglie quattro argomenti (vv.1-10): gli scandali che accadono inevitabilmente all'interno delle comunità e che costituiscono un inciampo per i deboli nella fede (vv.1b-2); il dovere del reciproco perdono fraterno (vv.3-4); la necessità di accrescere la propria fede (vv.5b-6) ed infine il dedicarsi ad un servizio intracomunitario incessante, che va sentito come un indiscutibile dovere, puro e semplice, senza secondi fini (vv.7-10).

La seconda area tematica (vv.11-19) riguarda la necessità per il credente, con particolare riferimento a quello etnocristiano, di ringraziare Dio che in Gesù lo ha chiamato e rigenerato ad una nuova vita, risanandolo dalla sua originaria vita di peccato.

Ed infine la terza ed ultima area (vv.20-37) risponde ad entrambe le categorie di credenti, giudeocristiani ed etnocristiani, circa i tempi della venuta del Regno di Dio (v.20a) e del ritorno del Signore (v.22). La cornice qui, trattandosi degli ultimi tempi, è chiaramente apocalittica ed escatologica. Elementi questi che animavano e spesso agitavano le comunità credenti, creando un clima di attesa talvolta esagerata e tale da portare ad un disimpegno nel presente e disordini all'interno della stessa comunità (2Ts 3,10-13).


Commento ai vv.1-10


Il v.1 si apre definendo la platea di ascoltatori a cui sono dedicati gli insegnamenti contenuti nei vv.1b-4: “disse verso i suoi discepoli”, intendendo per tali tutti coloro che hanno fatto una scelta esistenziale, quella di seguire gli insegnamenti di Gesù (6,17b) e che si qualificano per il loro riconoscersi reciprocamente nell'unica fede, costituendosi in comunità credenti. Ed è proprio per regolamentare la vita all'interno di queste comunità credenti che Luca mette in luce due elementi, che probabilmente scuotevano la loro vita: gli scandali (vv.1b-2) e la difficoltà del perdonarsi reciprocamente (vv.3-4). In che cosa consistano questi scandali il generico termine greco “t¦ sk£ndala” (tà skándala) non ci consente di accedere a nessuna precisazione. Esso significa “ostacolo, insidia per far cadere”. Il verbo corrispondente, “skandalƒzw” (skandalízo) significa dare scandalo, procurare delle molestie; mentre il sostantivo corrispondente al femminile, “skand£lh” (skandále) indica il legno della trappola al quale si attacca l'esca. L'insieme di questi significati porta a concludere che gli scandali, a cui qui si allude, riguardano comportamenti tenuti da alcuni o da più persone tali da disturbare e da pregiudicare la vita di fede e la buona condotta morale dell'intera comunità. Comportamenti che possono far deviare dalla retta via e creare confusione e turbamento all'interno dei credenti e della stessa comunità. In tal senso scandali vengono denunciati dalle stesse lettere di Paolo5, mentre Giovanni nella sua prima lettera lascia intravvedere come nelle comunità credenti si sia infiltrato l'anticristo, che punta a destabilizzare la fede, dando interpretazioni fantasiose ai fondamenti della fede stessa6.

I primi due versetti, riguardanti gli scandali intracomunitari, si sviluppano attraverso un ritmo che richiama da vicino quello processuale: la costatazione dell'inevitabilità degli scandali che costituisce il vivere sociale, dovuto alla pluralità delle persone che compongono la comunità e al loro diverso modo di essere, alle diverse motivazioni che le hanno spinte ad accedere alla fede, alla loro diversa maturità di credenti e di sviluppo della loro spiritualità. La comunità pertanto diviene una sorta di crogiolo in cui si mescolano molte e diverse storie, formate da differenti e talvolta traumatiche esperienze di vita, elaborate in contesti socio-culturali e familiari molto diversi tra loro. Tutto questo forma le persone e tutto questo incide nei rapporti interpersonali e intracomunitari, portando talvolta le persone non solo a incontrarsi nell'unica fede, ma talvolta a scontrarsi in essa. Da qui l'inevitabilità degli scandali. Una corretta quanto realistica constatazione. La comunità credente per il fatto di essere tale non significa che sia esentata da problemi e fallimenti. Segue, pertanto, la sentenza su chi commette gli scandali. Si passa, quindi, da una constatazione generale ad una individuazione di una responsabilità personale: “guai (a quello) per mezzo del quale vengono”, per poi passare, infine, all'esecuzione della sentenza stessa. Di certo l'intento dell'autore al v.2 non era quello di definire la consistenza della pena da applicare, ma la sua idealizzazione dice la gravità del comportamento di chi si è reso responsabile dello scandalo, che è stato d'inciampo anche a uno soltanto di “questi piccoli”. Un'espressione quest'ultima con cui l'autore definisce coloro che sono fragili nella fede e che a motivo del comportamento di taluni sono rimasti profondamente turbati.

Il giudizio sugli scandali intracomunitari si conclude con il v.3a, rivolto ai discepoli con tono minaccioso ed esortativo nel contempo: “Badate a (voi) stessi!”, il cui intento è richiamare l'attenzione dei discepoli sulle conseguenze dei loro comportamenti all'interno della loro comunità; un invito a rifletterci diligentemente. Il verbo “prosšcete” (proséchete), infatti, significa anche “riflettere, pensarci su attentamente”.

Seguono ora i vv.3b-4, giustapposti ai primi due, ma che comunque, con questi hanno una certa attinenza. Si parla infatti del dovere di perdonare sempre, che viene posto accanto alla stigmatizzazione di comportamenti turbativi e, in qualche modo, offensivi del quieto e regolare vivere delle comunità e dei suoi singoli componenti. A queste persone problematiche e spesso turbolente, insofferenti delle regole e degli stessi responsabili, ci si deve rivolgere comunque con benevolenza in un atteggiamento di perdono accogliente.

Il v.3b costituisce una sorta di enunciazione del principio che deve conformare il vivere dei singoli credenti: “Qualora tuo fratello peccasse, rimproveralo; e qualora si penta, perdonagli”. Il termine “fratello” è l'espressione con cui vengono definiti i credenti nei loro rapporti. Non si sta, quindi, parlando degli uomini in genere, ma dei discepoli. Si formula, pertanto, la dinamica su cui si deve poggiare il perdono: l'errore va sempre rilevato con un adeguato rimprovero; qualora il rimprovero sortisca il suo effetto, riconoscimento del proprio errore e pentimento, deve seguire il perdono. La regola del perdono, che deve qualificare il vivere delle comunità credenti e dei sui membri, pertanto, non va confuso con un buonismo all'acqua di rose, ma presuppone un cammino di ravvedimento e conversione da parte di chi ha sbagliato, che potremmo così sintetizzare: errore e sua stigmatizzazione da parte della comunità o di un qualche singolo membro; riconoscimento dell'errore da parte di chi ha sbagliato, pentimento, che implica implicitamente il ravvedimento; da ultimo il perdono, che in qualche modo risana e rigenera a nuova vita il fratello che ha sbagliato, reintegrandolo all'interno della vita della comunità, che è di per se stessa salvifica, in quanto depositaria della salvezza stessa e suo sacramento.

Un appunto va fatto sul verbo “peccare”, che ha il suo corrispondente greco in “¡mart£nw” (amartáno), che normalmente si traduce con “peccare”, ma in realtà il suo significato è ben più profondo e dice la natura stessa di questo “peccare”. Esso significa “deviare, non cogliere, fallire, non raggiungere, perdere, essere privato, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità e da ciò che è giusto”. Questo è il senso del peccare, che definisce, quindi, anche il comportamento di chi “pecca” all'interno della comunità. Si tratta, dunque, di comportamenti tali che, se non adeguatamente riconosciuti e corretti, pongono fuori dalla comunità stessa.

Il richiamo al perdono trova una migliore evoluzione in Mt 18,15-17 e tale da costituire una vera e propria regola codificata della gestione del perdono e degli errori all'interno della comunità stessa, che prevede quattro gradi progressivi sempre più coinvolgenti l'intera comunità, fino alla scomunica di chi ha sbagliato: “Ma se il tuo fratello sbagliasse verso di te, avvicinati, lo convincerai dell'errore tra te e lui solo. Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello. Ma se non ti ascolterà, prendilo con te con uno o due, affinché sulla bocca di due o tre testimoni sia stabilita ogni parola. Se non darà retta a loro, riferisci all'assemblea; ma qualora non dia retta all'assemblea, sarà per te come il pagano e il pubblicano”.

A differenza di Matteo, Luca qui preferisce incentrare l'attenzione del suo lettore sulla necessità del perdono personale, quale elemento di base per una buona conduzione della vita intracomunitaria, il quale, tuttavia, come si è visto sopra, ha una sua precisa dinamica.

Dopo l'enunciazione del principio del perdono, condizionato al riconoscimento e al pentimento del proprio errore da parte di chi sbaglia, Luca, con il v.4 passa ad una esemplificazione, ad una sorta di applicazione pratica e paradossale di tale principio nell'ambito della vita quotidiana del credente: “Anche se peccasse sette volte al giorno contro di te e sette volte si rivolgesse verso di te, dicendo: <<mi pento>>, perdonagli”. L'intento di questa esemplificazione è quella di stabilire i limiti del perdonare: “anche se peccasse sette volte al giorno”. Un “sette” che non dice il numero di volte entro cui è necessario perdonare, ma nella simbologia il sette indica pienezza, perfezione, completamento e quindi il senso è che il perdono deve essere sempre pronto, pieno, completo e disponibile. Il rafforzamento e la rilevanza di questo “sette” avviene in Luca nel suo inserirlo all'interno di uno stesso giorno, all'interno, quindi, di un ristretto spazio temporale. A differenza di Mt 18,22 il quale continua a muoversi nell'ambito della stessa simbologia del sette: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”. Il senso è uguale, ma il cambio si è reso necessario per Luca per la diversa platea di lettori rispetto a quella matteana. Un simile perdono, pertanto va a designare nel credente un particolare atteggiamento caratterizzante nei confronti dei suoi confratelli nella fede, qualificandolo come perdonante.

Con il v.5 cambia nuovamente la platea dei destinatari dei vv.5-10: dai discepoli (v.1a), intesi come comunità credente in senso lato, a cui erano destinati i vv.1b-4, agli apostoli, qui intesi come responsabili di comunità, distinti dai comuni discepoli. Una distinzione che appare chiaramente in 6,17 dove gli apostoli sono presentati assieme a Gesù, a differenza dei comuni discepoli, che invece sono presentati insieme alle folle. Due sono qui gli elementi fondamentali che vengono evidenziati e solo apparentemente giustapposti: la crescita della fede (vv.5-6) e il servizio, intendendo per tale l'incarico che gli apostoli ricoprono all'interno della comunità credente di cui sono responsabili. Questo va speso a favore della comunità e non di se stessi (vv.7-10). Crescita di fede e servizio alla comunità sono strettamente correlati tra loro proprio per la natura stessa del servizio, la cui comprensione e la cui attuazione deve svolgersi alla luce di una fede matura per evitare degli scadimenti e dei soprusi nei confronti dei credenti. In tal senso l'autore della Prima Lettera di Pietro esorta i responsabili delle comunità ad essere totalmente dediti, senza secondi fini, alla missione che è stata loro affidata: “Esorto gli anziani che sono tra voi, quale anziano come loro, testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi: pascete il gregge di Dio che vi è affidato, sorvegliandolo non per forza ma volentieri, secondo Dio; non per vile interesse, ma di buon animo; non spadroneggiando sulle persone a voi affidate, ma facendovi modelli del gregge. E quando apparirà il pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce”. Un passo questo significativo perché lascia intravvedere come non sempre le cose filavano bene all'interno delle comunità credenti, se l'autore sente la necessità di richiamare all'ordine i vari responsabili. La tendenza a prevaricare sugli altri viene in qualche modo lasciata filtrare anche nell'episodio dei due figli di Zebedeo, che desiderano occupare i primissimi posti nel Regno di Dio, tra l'indignazione degli altri che si sono sentiti in qualche modo traditi e superati inaspettatamente da questa richiesta, che probabilmente ognuno covava in cuor suo7, se Gesù sente la necessità di riprenderli sul tema del servizio, proponendo se stesso come esempio da imitare, lui che è venuto per servire e non per essere servito, donando la propria vita a salvezza di tutti8. O similmente allorché Gesù percepisce tra i suoi discepoli una discussione sul chi fosse tra loro il più grande nel Regno di Dio, costringendolo ad intervenire, indicando nella semplicità di un bambino la vera grandezza9. Un problema questo non nuovo e che già Ez 34,1-31 aveva denunciato a suo tempo (600-570 a.C.) scagliandosi contro i “Pastori d'Israele”, probabilmente il re, i sacerdoti o comunque chi aveva responsabilità sul popolo.

Il tema dell'aumento della fede viene introdotto al v.5 con un'invocazione, che risente del clima della chiesa nascente e la cui formulazione si muove su di uno sfondo liturgico. La formula proviene da materiale lucano ed è introduttiva del v.6, fornendogli in tal modo una sorta di cornice entro cui inquadrarlo e giustificarlo. Il v.6 si ritrova sostanzialmente identico sia in Mt 17,20 e in Mc 11,23. Luca, tuttavia, al posto della montagna, che si ritrova negli altri due sinottici, parla di “sicomoro”. Il cambio di “montagna” in “sicomoro” è stato operato probabilmente per rendere meno paradossale il confronto, ma nel contempo più efficace sia perché il sicomoro è un albero che raggiunge circa i 15mt d'altezza, sia per la sua longevità, può durare fino a qualche secolo e sia, infine, per la profondità delle sue radici, che lo radicano saldamente al suolo10. Non è da escludere tuttavia che Luca abbia sostituito “montagna” con “sicomoro” per creare comunque un paradosso, ponendo in parallelo tra loro il gigantesco e portentoso sicomoro con il piccolo seme di senape, definito da Mt 13,32a e Mc 4,31, sia pur in modo impreciso, come il più piccolo dei semi, per definire le dimensioni della fede sufficiente per compiere portenti. Sono qui gli apostoli, cioè i responsabili di comunità, che si rivolgono non a Gesù, ma al Signore, termine quest'ultimo con cui si designava il Risorto. Il tempo, quindi, qui è postpasquale. L'invocazione è finalizzata a rafforzare la fede di questi pastori non solo perché il loro modo di vivere sia esemplare secondo l'insegnamento di Gesù, ma perché essi devono essere anche maestri di fede, come ricorda Eb13,7: “Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l'esito del loro tenore di vita, imitatene la fede”. Un'invocazione, comunque, che in qualche modo denuncia la fragilità di questi responsabili, mentre la risposta di Gesù (v.6) rileva la difficoltà del credere veramente fino in fondo.

Senza interruzione di continuità, quasi per creare un forte legame tra i due temi, l'attenzione si sposta ora dalla fede all'atteggiamento di servizio che deve qualificare i responsabili di comunità. Non vi può essere un autentico servizio alla comunità, indenne da secondi fini e interessi personali, se non sostenuto da una fede forte, matura e coerente con la propria vita e la missione a cui si è chiamati.

La questione si sviluppa attraverso una breve parabola posta sotto forma di domanda retorica, per cui già nel suo formularsi il lettore conosce la risposta. Questa si sviluppa su tre livelli finalizzati a dimostrare come il servo è soltanto un servo ed è in funzione del suo padrone e che nulla egli può pretendere da esso. Il primo (v.7) mette in rilievo come nessun padrone concede tregua al suo servo; il secondo (v.8) si contrappone al primo mettendo in tal modo maggiormente in rilievo quello che effettivamente e naturalmente il padrone pretenderà dal suo servo: farsi servire, perché ogni servo è tale perché è in funzione del suo padrone e mai di se stesso; il terzo livello (v.9) conclude la parabola rilevando come il padrone non ha da essere grato al suo servo per averlo servito, poiché questo rientra nella sua natura e nei suoi doveri di servo.

L'intera parabola (vv.7-9) è finalizzata al v.10 ed è chiamata a chiarire il rapporto che intercorre tra i responsabili di comunità e Dio stesso, il vero padrone. La loro autorità e responsabilità nelle comunità credenti è pertanto considerato un servizio che essi esercitano in nome e per conto di Dio. Ogni altro diverso elemento va estraniato dal servizio stesso e lo inquina. Questo invito a considerarsi soltanto dei servi inutili dopo aver espletato tutto ciò che era loro dovere compiere non va letto come un dispregio nei confronti di questi servi, che si dedicano al loro padrone, ma dice tutta la distanza che intercorre tra loro e Dio stesso, di cui sono servi e in nome e per conto del quale espletano tale servizio.

La riconoscenza per la salvezza ottenuta (vv.11-19)

Testo a lettura facilitata

Il contesto geografico del viaggio (v.11)

11 – Ed avvenne che nel mentre che andava a Gerusalemme, egli passava tra la Samaria e Galilea.

La guarigione (vv.12-14)

12 – Ed entrando egli in un villaggio, [gli] andarono incontro dieci uomini lebbrosi, che stettero fermi da lontano
13 – ed essi alzarono (la) voce dicendo: <<Gesù maestro, abbi pietà di noi!>>.
14 – Ed avendo(li) visti, disse loro: <<Dopo essere partiti, mostrerete (voi) stessi ai sacerdoti>>. Ed avvenne che nel mentre andavano furono purificati.

Il ringraziamento per la vera salvezza (vv.15-19)

15 – Ma uno di loro, visto che fu guarito, tornò indietro glorificando Dio con gran voce,
16 – e cadde sulla faccia ai suoi piedi ringraziandolo. Ed egli era un Samaritano.
17 – Ma, rispondendo, Gesù disse: <<Non dieci furono purificati? Ma i nove dove (sono)?
18 – Non furono trovati coloro che tornassero indietro a dare gloria a Dio, se non questo straniero?>>.
19 – E gli disse: <<Levatoti, vai; la tua fede ti ha salvato>>.


Note generali

Quasi d'improvviso compare qui il racconto di un miracolo di guarigione di dieci lebbrosi, introdotto dalla nota geografica, che richiama il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (v.11). Un viaggio fittizio che funge, come si è detto, da collettore di sentenze, detti sapienziali, parabole, ma non di miracoli in senso tecnico, come quelli raccontati prima del viaggio verso Gerusalemme, dove il miracolo era finalizzato ad evidenziare l'irrompere del Regno di Dio in mezzo agli uomini, mostrandone la potenza rigeneratrice. Questi miracoli, che compaiono qui all'interno della cornice del viaggio verso Gerusalemme, hanno ben poco di miracolistico e sono finalizzati alla catechesi e ne sono introduttivi. In altri termini, l'attenzione del lettore viene fatta cadere da Luca non sul miracolo in sé, il cui svolgimento narrativo è molto modesto, quasi una impercettibile sintesi, bensì sulla riflessione catechetica che ne segue. Nel racconto della “Guarigione di un'ammalata in giorno di sabato” (13,10-17), non si capisce se si tratta di una vera e propria guarigione (13,12b) o di un esorcismo (13,11a), più che sul miracolo in sé, non richiesto dalla donna, ma su iniziativa di Gesù, l'accento cade sulla questione del guarire in giorno di sabato, a cui viene dato ampio spazio. Similmente il racconto della “Guarigione di un idropico in giorno di sabato” (14,1-6) sottolinea la liceità della guarigione in giorno di sabato, riprendendo in tal modo una questione morale che già era stata posta in 6,9. In questi brevi racconti di miracoli il dialogo con l'ammalato è assente e la gestualità, quasi sfuggente, è ridotta all'essenziale, mentre l'attenzione del lettore viene portata tutta sulla riflessione che li segue. Sono, dunque, miracoli per nulla eclatanti, fatti quasi in sordina, per lasciare spazio alla catechesi e la cui natura è strumentale ad essa. Non fa eccezione il racconto della “Guarigione dei dieci lebbrosi”, il terzo ed ultimo miracolo contenuto all'interno della cornice del viaggio verso Gerusalemme. A fronte della richiesta di guarigione da parte dei lebbrosi, Gesù si limita a inviarli ai sacerdoti, che ne dovevano constatare la guarigione. Nessun gesto e nessuna parola che esprima in qualche modo la potenza guaritrice di Gesù, poiché anche qui la finalità di questo miracolo non è quello di stupire, mettendo in evidenza l'irrompere della potenza salvifica di Dio tra gli uomini e l'instaurazione del suo Regno in mezzo a loro, bensì la riflessione catechetica che ne segue subito dopo e che forma la seconda parte del racconto, la più importante (vv.15-19): il riconoscere come la vera salvezza viene da Gesù e non dalla legge mosaica, e il senso del ringraziamento che deve caratterizzare la vita di chi è stato salvato.

Ci si trova di fronte ad un racconto di miracolo di guarigione che Luca ha probabilmente mutuato da Mc 1,40-45, di cui sta seguendo lo schema evangelico. Un racconto di guarigione che ritroviamo parallelamente sia in Mt 8,1-4 che nello stesso Lc 5,12-15. Tuttavia, qui, Luca lo modifica notevolmente riducendo il tutto ad una invocazione e ad una guarigione semplicemente annunciata dal narratore (v.14b). Lo schema narrativo, scarsamente avvincente e poco convincente, è povero e pecca di artificiosità. L'assenza di qualsiasi gestualità e di qualsiasi parola di comando di guarigione, il numero così tondo dei lebbrosi (dieci), la loro variegata e improbabile composizione (nove giudei e un samaritano), l'invocazione dei lebbrosi, dal tono squisitamente liturgico, tutto questo insieme lascia intravvedere come qui non ci troviamo di fronte ad un racconto di miracolo di guarigione, ma ad una invenzione lucana, il cui intento è squisitamente catechetico. In altri termini il racconto di guarigione è strumentale e finalizzato ad introdurre la seconda parte del racconto, il vero obiettivo di Luca. Ciò che qui importa, quindi, non è ciò che accade ai vv.12-14, ma quanto segue (vv.15-19).

Lo sfondo veterotestamentario su cui si muove il racconto è quello di Naaman il Siro, il generale pagano del re di Aram, colpito dalla lebbra e risanato da Eliseo nelle acque del Giordano. Anch'egli, guarito, ritornò sui suoi passi e andò da Eliseo per ringraziare il Dio di Israele al quale si convertì (2Re 5,1-27). Una guarigione fisica che lo ha aperto alla salvezza. Racconto questo che verrà richiamato esclusivamente dallo stesso Luca in 4,27. Non è, pertanto, da escludersi che l'autore abbia imbastito il racconto della guarigione dei dieci lebbrosi sulla falsariga di quello o quanto meno pensando a quello.

Il racconto di guarigione strutturalmente si suddivide in tre parti: la prima (v.11) riguarda la contestualizzazione geografica e letteraria, che ricorda al lettore che ci si trova ancora all'interno del viaggio di Gesù verso Gerusalemme, in cui si fa un maldestro tentativo di localizzarlo anche geograficamente; la seconda parte (vv12-14) introduce gli attori del racconto di miracolo: dieci lebbrosi e Gesù; la richiesta di guarigione e l'informazione da parte del narratore che questi furono guariti (v.14b); la terza parte (vv.15-19), la più interessante, sviluppa una riflessione sulla differenza tra guarigione e salvezza (vv.14b.19); da chi proviene la vera guarigione, che si fa salvezza; fare della propria vita un atto di rendimento di grazie per la salvezza ottenuta per mezzo della fede, più facile da trovarsi presso il mondo pagano che quello giudaico, ancora legato alla Legge mosaica.

Commento ai vv.11-19


La contestualizzazione geografica e letteraria del racconto (v.11)

Il v.11 ha una duplice funzione: da un lato crea uno stacco netto con quanto precede, dando la possibilità all'autore di introdurre nuove tematiche; dall'altro richiama l'attenzione del lettore sul tema del viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), dove dovranno compiersi i misteri della salvezza, evidenziando, di volta in volta, la centralità della missione di Gesù. La venuta di Gesù, la sua vita, la sua predicazione, l'attività taumaturgica, il suo muoversi tra gli uomini hanno come finalità primaria ed unica la loro salvezza che si compie a Gerusalemme, dove egli sta andando. È questo il senso teologico e cristologico di questa fittizia cornice letteraria del viaggio di Gesù verso Gerusalemme e che Luca ha creato punteggiando con continui richiami questo muoversi di Gesù11.

Un richiamo quest'ultimo che pecca di una duplice incongruenza: geografica e narrativa. Quanto all'aspetto geografico il movimento del viaggio va dalla Galilea verso Gerusalemme, passando attraverso la Samaria e non viceversa. Una incongruenza da addebitare alla scarsa conoscenza della Palestina dell'autore. Quanto all'aspetto narrativo, l'autore già aveva detto in 9,52 che Gesù stava per entrare in Samaria e per questo aveva mandato avanti dei messaggeri per preparare il suo arrivo. Ma dopo ben otto capitoli ci si ritrova ancora a ridosso della Samaria, nonostante che l'autore abbia continuamente ricordato in 9,53; 10,38; 13,22.33 che Gesù stava camminando verso Gerusalemme, dando l'idea di un viaggio che ormai doveva essere ben oltre alla Samaria. Piccole incongruenze che possono soltanto far sorridere l'attento e accorto lettore, ma che certamente non inficiano il ricco e ben solido contenuto teologico, cristologico e dottrinale del racconto lucano.

I personaggi dell'evento di guarigione (vv.12-14)

La scena descritta da questa pericope si richiama ad una situazione verosimile di persone colpite dalla lebbra e che Lv 13-14 codifica scrupolosamente. Se si tratti della lebbra così come oggi noi la intendiamo, come quella infezione causata dal Mycobacterium leprae o Bacillo di Hansen, non ci è dato di sapere. Il termine che ricorre nel testi veterotestamentari è sāra'at che la LXX traduce con “lšpra” (lépra). Termini entrambi generici molto imprecisi per indicare delle macchie e delle rugosità che potevano comparire sulla pelle (Lv 13,1-46), ma anche sugli abiti di lino, di lana, di pelliccia o di oggetti in cuoio (Lv 13,47-59), e sugli stessi muri domestici (Lv 14,33-57). Il termine sāra'at, pertanto, più che una vera e propria malattia di lebbra indicava l'essere macchiati da chiazze di varia natura sulla pelle, sugli abiti o sulle pareti di casa e definiva prevalentemente uno stato di impurità rituale. Da qui la necessità che la diagnosi, meticolosamente descritta in Lv 13,1-59, dovesse essere formulata dal sacerdote, che nulla aveva a che vedere con le diagnosi mediche12.

Una volta che il sacerdote dichiarava immondo chi si sottoponeva alla sua valutazione (Lv 13,3), l'uomo colpito doveva abitare fuori dalla città o dal villaggio e vivere in segregazione o assieme ad altri sfortunati, gridando a tutti il suo essere immondo al fine di evitare che altri gli si avvicinassero: “Il lebbroso colpito dalla lebbra porterà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo! Sarà immondo finché avrà la piaga; è immondo, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento” (Lv 13,45-46). Ma il grido di “immondo” è qui sostituito da una invocazione che risente della fede delle prime comunità credenti e che si muove su di uno sfondo liturgico: “Gesù maestro, abbi pietà di noi!”. Questa sostituzione che Luca ha operato non va trascurata, poiché dice come la nuova fede, che ha per fondamento Gesù, di fatto ha sostituito le stesse prescrizioni della Legge mosaica, che mette sulle labbra dell'uomo colpito soltanto un grido che rileva il suo stato di condanna e che non gli dà alcuno scampo. Come dire che la Legge condanna, ma Gesù salva. Una logica questa che formerà il tema della seconda parte del racconto (vv.15-19). Significativo in tal senso è il termine “maestro”, con cui Gesù viene qui apostrofato, reso in greco con “™pist£ta” (epistáta), che letteralmente significa “colui che sta sopra”, il capo, la guida. Il termine, pertanto, designa Gesù come il fondamento sicuro per il credente.

Ciò che qui appare è un gruppo di dieci lebbrosi, una quantità fin troppo tonda per sembrare reale. Il dieci, infatti, in termini simbolici dice totalità, pienezza, insieme compiuto13 e sta qui ad indicare il mondo giudaico-palestinese preso nel suo insieme e valutato nel suo rapporto con Gesù. Sono lebbrosi che invocano il nome di Gesù, gli vanno incontro, ma rimangono lontani da lui (v.11). Luca sembra qui descrivere la situazione di quei giudeocristiani giudaizzanti, che pur abbracciando la nuova fede non hanno ancora accolto pienamente Gesù, ma rimangono ancora legati alla Legge mosaica, ritenendo che la vera salvezza si possa ottenere soltanto attraverso di essa e quindi, subordinando l'efficacia dell'opera salvifica di Gesù alla Legge stessa, vanificandola. In merito, Paolo, scrivendo alle comunità della Galazia, che dopo aver abbracciato la fede, si aprirono al giudaismo, probabilmente predicato loro successivamente da giudeocristiani giudaizzanti (Gal 1,6-7), attesta che “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge” (Gal 5,1-3). Ed è proprio per questa ultima dichiarazione di Paolo, che chi si fa circoncidere, cioè chi si sottopone alla Legge, è tenuto ad osservala e, quindi, viene meno il suo rapporto salvifico con Gesù, che Gesù invia i dieci lebbrosi ai sacerdoti, così come prescrive Lv 14,1-20. E nel loro andare dai sacerdoti, cioè nel loro continuare a sottostare alla Legge mosaica i dieci non sono guariti, ma soltanto purificati. Non c'è stato contatto con Gesù, non ci sono state parole di guarigione da parte di Gesù, nessun esorcismo, ma soltanto un comando, quello di continuare sotto la Legge mosaica, che può garantire la purificazione, ma non produce la vera e propria salvezza (Rm 7,6-25). Gesù, del resto, non disconosce la Legge mosaica, ma non le attribuisce un potere salvifico intrinseco e autogeno, che solo lui può dare. Al notabile che gli chiede che cosa deve fare per avere la vita eterna, Gesù lo invita ad osservare i comandamenti, che fungono da fondamento ad un vivere umano corretto e realizzante, ma per ottenere la vera e propria salvezza è necessario che egli si spogli di tutto ciò che ha e poi segua Gesù (18,18-22); ci dev'essere una profonda trasformazione interiore. Lo stesso Gesù matteano attesta, infatti, che non è venuto ad abolire la Legge e i Profeti, ma a darne compimento (Mt 5,17). Una Legge, quindi, che salva a metà, cioè è capace di indicare la retta via all'uomo; di indicare ciò che è bene e ciò che è male, ma la vera capacità di salvezza, che trascende le capacità umane, dipende soltanto dalla fede in Gesù, dal proprio aprirsi esistenzialmente a lui, accogliendolo nella propria vita. Ed è ciò che farà il Samaritano in vv.15-19.

Il ringraziamento per la vera salvezza (vv.15-19)

Questa pericope costituisce la seconda parte del racconto di guarigione, la più importante perché mette in luce una fondamentale distinzione tra guarigione e salvezza: la prima riguarda soltanto l'aspetto fisico, ma non dice niente di più; mentre la seconda dà un significato nuovo alla guarigione, essa diventa segno di una rigenerazione interiore. Una distinzione che troviamo in Mc 6,5, dove Gesù, a causa dell'incredulità dei suoi concittadini, operò soltanto alcune guarigioni, ma senza compiere alcun miracolo: “E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì”. Il miracolo, infatti, va ben oltre alla semplice guarigione per diventare un segno dell'irrompere della potenza salvifica di Dio nella storia degli uomini. Una lettura questa che soltanto la fede può compiere. La guarigione, invece, dice soltanto ciò che il guarito riesce a vedere, ma per lui non diventa segno, ma soltanto un colpo di fortuna per aver trovato un taumaturgo a buon mercato. Per cui il guarito è soltanto risanato, ma non salvato. Ed è ciò che qui avviene per il Samaritano, che ritornato sui suoi passi riconosce nella sua guarigione l'operare della potenza di Dio, manifestatasi in Gesù. Per questo egli non è solo guarito, ma anche salvato (v.19)

Significativo per la comprensione della dinamica della salvezza è il v.15, scandito in tre parti: a) la presa di coscienza da parte del risanato: “visto che fu guarito”. Il verbo è qui posto al passivo teologico o divino („£qh, iátze), che nel linguaggio dei vangeli rimanda a Dio l'azione del guarire. Il risanato, pertanto, riconosce che quanto è avvenuto in lui non è opera di un semplice taumaturgo, ma è opera di Dio stesso. b) Lo dice quel suo glorificare Dio a gran voce, dando pubblica testimonianza di quanto è avvenuto in lui. c) Una lode che è preceduta e accompagnata da due movimenti, che rivelano quanto è avvenuto in quest'uomo: “tornò indietro” e “cadde sulla faccia ai suoi piedi ringraziandolo” (v.16a). Quel “tornare indietro” descrive l'atto proprio della conversione e del riavvicinamento a Gesù. Quest'uomo, alla pari degli altri, si fermò lontano da Gesù e assieme agli altri lo aveva lasciato per sottoporsi alla ritualità mosaica. Ma la lettura di fede che egli ha sviluppato sulla sua guarigione (“visto che fu guarito”), lo spinge a rientrare in se stesso e ripercorrere il cammino inverso: dal giudaismo al cristianesimo. Un ritorno che si conclude con il suo prostrarsi davanti a Gesù ringraziandolo per la salvezza che gli aveva donato. Non si tratta ancora di una vera e propria adorazione di Gesù, riconoscendolo Dio, ma in lui vede soltanto operare la potenza di Dio. Luca, infatti, qui dice soltanto che cadde con la faccia ai suoi piedi, da leggere come il volersi porre a servizio di Gesù e, quindi, farsi suo discepolo. L'autore, infatti, qui non usa il verbo tecnico dell'adorazione “proskunšw” (proskinéo), che in tal senso ricorre soltanto tre volte nel suo vangelo (4,7.8.; 24,52), preferisce una circonlocuzione, che non dice adorazione, ma il porsi a servizio di Gesù nella sequela, divenendo testimone dell'operare di Dio in lui.

Il v.16 si conclude con una nota polemica, che contrappone il mondo pagano a quello giudaico: “Ed egli era un Samaritano”, ritenuto dai giudei un eretico, un traditore della fede dei Padri ed equiparato ai pagani14. Una nota che probabilmente fu aggiunta successivamente e che certamente non è opera di Luca, sia perché tale nota non aggiunge nulla al racconto di guarigione, che si completa molto bene con i soli vv.15-16a.19; sia perché la polemica non fa parte, a differenza di Matteo e Giovanni e, in parte, anche di Marco, del DNA di Luca, che ha delle cose una visione irenica e preferisce soffermarsi sul diffondersi trionfalistico della Parola di Dio15 e del fervore delle comunità credenti16, piuttosto che sul polemizzare con il giudaismo, che non destava alcun interesse per il mondo greco-ellenistico, a cui il vangelo lucano era rivolto. Forse si tratta di una annotazione vicina all'ambiente di Luca, che desidera contrapporre la disponibilità del mondo pagano a quello giudaico. Una polemica che prosegue con i vv.17-18, finalizzati a mettere in rilievo la figura del Samaritano, volutamente posto in un duro confronto vincente con il giudaismo e che suonano come un giudizio di condanna del giudaismo.

Dopo l'intermezzo polemico dei vv.16a-18, il racconto lucano torna sul tema con il v.19, che fornisce la chiave di lettura della guarigione, che per questo Samaritano si trasforma in vera e propria salvezza, la cui natura è significata tutta in quel “Levatoti”, “'Anast¦j” (Anastàs), un termine tecnico che nel linguaggio della chiesa primitiva alludeva alla risurrezione di Gesù. La guarigione di questo Samaritano, pertanto, è in qualche modo equiparata alla risurrezione di Gesù ed è ad essa legata e da questa fluisce in lui. Questa guarigione, pertanto, assume i connotati di una vera e propria rigenerazione a vita nuova, che fa del Samaritano una nuova creatura nel Risorto, mentre il suo risanamento fisico ne diventa segno. E ciò che produce questa salvezza è la fede di questo Samaritano, annunciata ai vv.15-16: “la tua fede ti ha salvato”. Gesù è fonte di salvezza per tutti, ma la sua salvezza opera efficacemente soltanto nella fede, cioè in chi si apre esistenzialmente a lui, riconoscendosi bisognoso di guarigione (“abbi pietà di noi”) e vedendo in Gesù la sua guida e il suo fondamento sicuro (“Gesù, maestro”).

Il tempo della venuta del Regno di Dio (vv.20-21) e del Signore (vv.22-37)

Testo a lettura facilitata

Quando viene il Regno di Dio (vv.20-21)

20 – Interrogato dai Farisei quando viene il regno di Dio, rispose loro e disse: <<Il regno di Dio non viene con l'investigazione,
21 – né (allorché) diranno: “Ecco(lo) qui o là”; ecco, infatti, il regno di Dio è dentro di voi>>.

Quando ritorna il Signore (vv.22-23)

22 – Ora, disse verso i discepoli: <<Verranno giorni quando desidererete vedere uno dei giorni del Figlio dell'uomo e non (lo) vedrete.
23 – E vi diranno: “Ecco(lo) là [o]ecco(lo) qui”. Non andate né correte dietro.

Modalità ed eventi che precedono e accompagnano il ritorno del Signore (vv.24-30)

24 – Infatti, come la folgore, che lampeggia da una (parte) sotto il cielo e risplende verso l'(altra parte) sotto il cielo, così sarà il Figlio dell'uomo [nel suo giorno].
25 – Ma prima bisogna che egli soffra molte cose e sia rigettato da questa generazione.
26 – E come avvenne nei giorni di Noè, così sarà anche nei giorni del Figlio dell'uomo:
27 – mangiavano, bevevano, prendevano moglie, davano in matrimonio, fino al giorno in cui Noè entrò nell'arca e venne il diluvio e fece perire tutti.
28 – Similmente come avvenne nei giorni di Lot: mangiavano, bevevano, compravano, vendevano, piantavano, costruivano;
29 – ma nel giorno in cui Lot usci da Sodoma, (Dio) fece piovere fuoco e zolfo dal cielo e fece perire tutti.
30 – Sarà secondo quelle cose nel giorno in cui il Figlio dell'uomo si manifesterà.

Istruzione per il giorno dell'avvento del Signore (vv.31-37)

31 – In quel giorno chi sarà sul terrazzo e le sue suppellettili nella casa, non scenda a prenderle; e chi nel campo, similmente non si volga verso le cose di dietro.
32 – Ricordate la moglie di Lot.
33 – Chi cercasse di salvare la propria anima, la perderà; ma chi (la) perdesse, la manterrà in vita.
34 – Vi dico, in quella notte due saranno in un letto, l'uno sarà preso e l'altro lasciato;
35 – due saranno quelle che macinano nello stesso (luogo), l'una sarà presa, ma l'altra lasciata>>.
36 – (Due uomini saranno nei campi, uno sarà preso e l'altro lasciato).
37 – E rispondendo gli dicono: <<Dove, Signore?>>. Egli disse loro: <<Dove il corpo, là si raduneranno insieme anche le aquile>>.


Note generali

Sia nel mondo giudaico che nella chiesa del I secolo vi era un clima di spasmodica attesa per la venuta del messia, che avrebbe ricostituito il regno di Israele nel suo splendore (24,21; At 1,6), cacciando l'invasore romano e inaugurando un nuovo culto a Jhwh, per quanto riguarda Israele17; mentre per quanto riguarda la chiesa primitiva era molto diffusa la convinzione che il Signore sarebbe ritornato a breve, ponendo fine alla storia degli uomini18. Quel “Marana tha” (“Signore nostro, vieni!”), con cui si chiude il libro dell'Apocalisse (22,20b), è molto significativo ed esprime molto bene tutta la tensione escatologica ed apocalittica che animava la chiesa del I sec. Un'invocazione che, muovendosi su di uno sfondo liturgico, costituiva un'invocazione esortativa al Signore perché si manifestasse nel suo ritorno glorioso, ponendo fine al regno di satana e inaugurando i tempi nuovi del suo Regno.

Lo sfondo entro cui si muove quest'ultima sezione del cap.17 è pertanto escatologico ed è definita dagli studiosi la piccola apocalisse lucana19 in contrapposizione alla grande apocalisse del cap. 21,5-38, i cui toni sono drammatici e gli eventi catastrofici e si respira aria da fine del mondo. Qui, in 17,20-37, invece, non vi è nulla di tutto questo. Il clima è più tranquillo e gli intenti dell'autore sono squisitamente catechetici, finalizzati a dare una risposta ad un ingannevole clima di attesa che creava delle agitazioni e dei turbamenti all'interno delle comunità. Un esempio in tal senso traspare da 2Ts 3,10-13: “E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace. Voi, fratelli, non lasciatevi scoraggiare nel fare il bene”. Perché, infatti, impegnarsi nel presente e darsi da fare; perché faticare e lavorare; perché sprecarsi a fare progetti e pensare al proprio futuro se a breve tutto sarebbe finito? Se dunque l'attesa dell'imminente avvento del Signore da un lato portava ad un certo disimpegno nel quotidiano, dall'altro spingeva ad una continua agitazione nel rincorrere sempre nuove notizie di apparizioni o di sedicenti messia, che attestavano di aver visto il ritorno del Signore o di messia che si ritenevano gli inviati di Dio e i liberatori promessi. Un pericoloso clima sociale di attesa che creava turbamenti e scompigli soprattutto tra i più deboli di spirito e che investiva sia il giudaismo che le comunità credenti. Luca sente il dovere di allentare, quasi ridicolizzandola (vv.20b-21.23), questa spasmodica tensione sociale, che investiva le comunità credenti, formate sia da etnocristiani che da giudeocristiani giudaizzanti, i quali, quest'ultimi, portavano con sé le loro attese giudaiche dell'avvento del Regno di Dio e della restaurazione di Israele (24,21; At 1,6), che andavano fondendosi con le attese del ritorno del Signore, creando un guazzabuglio di agitazioni e di turbamenti, che impedivano di vivere serenamente e in modo proficuo la propria quotidianità di fede.

La finalità, pertanto, di 17,20-37 è squisitamente catechetica, anzi, pastorale e ben diversa da quella che traspare dalla sezione 21,5-38, posta a conclusione dell'attività pubblica di Gesù e a ridosso della sua passione e morte e risurrezione (22-24), il cui intento è quello di associare cosmo e umanità ai destini di morte e risurrezione di Gesù (Gv 12,32). Il vecchio mondo e la sua umanità stanno per crollare per lasciare spazio a cieli nuovi e terra nuova (Ap 21,1-5), esortando i credenti ad aprirsi ai cieli nuovi e alla terra nuova che sarebbero stati portati dal ritorno del Signore (21,27-28). Se, quindi, in 21, 5-38 gli intenti sono cristologici e spingono a dare una lettura cristologica alla storia; qui, in 17,20-37 gli intenti sono squisitamente catechetici e pastorali. Ed è in questo contesto e all'interno di questi intenti che va compreso il testo dei vv.20-37, che nulla ha a che vedere con 21,5-38.

Se, dunque, duplice è l'intento di Luca, colpire, da un lato, le attese del giudaismo di una ricostituzione del Regno di Israele, portate all'interno delle comunità credenti dai giudeocristiani giudaizzanti; e dall'altro, colpire le attese di un imminente ritorno glorioso del Signore che avrebbe posto fine alla storia degli uomini per inaugurare il Regno di Dio, allora ogni tensione letteraria tra i vv. 20-21 e i seguenti vv.22-23, paventata dagli studiosi viene a sciogliersi. Luca, infatti, qui sta contemporaneamente trattando del problema delle attese, provenienti sia dal giudaismo che da dicerie intracomunitarie, che agitavano e turbavano il vivere quotidiano dei credenti. Per questo dai vv.20-21 si prosegue senza interruzione con i vv.22-23, poiché la questione posta da Luca è unica, benché abbia un doppia faccia, giudaica (vv.20-21) e cristiana (vv.22-23). Il cambio dei soggetti, dai Farisei (v.20a) ai discepoli (v.22a), non crea tensione o discontinuità, ma qui Luca sta nominando i due ceppi da cui provengono attese e dicerie, che l'autore qui vuole stigmatizzare, un po' ridicolizzando (vv.20a-21.23) e un po' invitando a riflettere seriamente riandando ai testi biblici (vv.26-30.32) e un po' rileggendo il proprio presente in termini più consoni ad una più seria attesa (vv.31-37).

Il materiale di questa ultima sezione del cap.17 (vv.20-37) è variamente composito e costituisce un esempio di come gli autori sappiano scegliere liberamente il materiale per comporre la loro opera, un po' prendendolo da materiale proprio (vv.20-21.22.28-30.32.34.36-37); un po' dalla comune fonte Q, che Lc 17,23-24.26-27.33.35, sia pur manipolandola, condivide rispettivamente con Mt 24,26-27.37-39; 10,39; 16,25; 24,40-41; un po' prendendo (Lc 17,21.25.31.35) da Marco (Mc 13,21-23; 8,31; 13,15-16), di cui sta seguendo lo schema del vangelo.

La struttura di questa sezione escatologica, già anticipata nella sezione del “Testo a lettura facilitata” è scandita in quattro parti:

  1. Quando viene il Regno di Dio. La questione, posta dai Farisei, rileva come questa fosse di primario interesse del giudaismo e, di conseguenza, dei giudeocristiani giudaizzanti, che riportarono tali attese all'interno delle comunità credenti (vv.20-21);

  2. Quando ritorna il Signore. La questione era presente e radicata nelle comunità credenti e tale, se malintesa, da creare turbamenti al loro interno (vv.22-23). Queste prime due questioni costituiscono la cornice tematica introduttiva al cui interno si collocano e vanno compresi i successivi vv.24-37.

  3. Modalità ed eventi che precedono e accompagnano il ritorno del Signore (vv.24-30): sarà un evento improvviso e folgorante (v.24), inatteso (vv.26-29), che avverrà soltanto dopo la passione e morte di Gesù (v.25) e che allude in qualche modo alla sua risurrezione;

  4. Istruzione per il giorno dell'avvento del Signore (vv.31-37). Quando l'evento accadrà non vi sarà più tempo per pensare alle cose di questo mondo, né come organizzare la propria vita in esso, poiché questo sarà il tempo ultimo, il tempo del giudizio, che avverrà quando avverrà e ovunque avverrà (v.37). Una forte quanto drastica esortazione a non perdersi nelle cose di questo mondo, ma a dare una netta sterzata alla propria vita rivolgendola tutta verso al Signore che viene.


Commento ai vv.17,1-37

Quando viene il Regno di Dio (vv.20-21)

I vv.20-21 fanno parte del materiale proprio di Luca, che ha introdotto qui per aprire una breve riflessione intorno ad un tema molto sentito nel giudaismo: la restaurazione del Regno di Israele, quale Regno di Dio in mezzo alle genti. Una questione questa che era oggetto di continue speculazioni (Gv 7,52), che generavano continue attese, che non di rado sfociavano in turbolenze sociali e in rivolte, duramente represse da Roma. Speculazioni ed attese che non potevano non avere la loro risonanza all'interno delle comunità credenti, in particolar modo in quelle composte da giudeocristiani, sovente giudaizzanti, cioè ancora molto legati al giudaismo e alle disposizioni mosaiche, creando a loro volta fermenti al loro interno. Ne dà testimonianza lo stesso Luca nel racconto dei due discepoli di Emmaus in 24,21: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute”; e similmente in At 1,6: “Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: <<Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?>>”.

Luca liquida in modo drastico tutto questo agitarsi intorno ad una realtà che ha dimensioni molto diverse dalle aspettative umane, tutte protese in senso orizzontale, quale affermazione politica, militare, religiosa e storica del Regno di Dio. Un Regno che si vedeva realizzato nella ricostituzione e nell'affermazione del Regno di Israele in mezzo alle genti. Per quanto si investighi e si speculi su questa realtà; per quanto si cerchi di darne una dimensione storica, tale Regno, dalle prerogative divine e quindi spirituali, non troverà nessuna risposta nelle fantasie degli uomini. Si tratta, infatti, di un Regno che è “™ntÕj Ømîn” (entòs imôn). Un'espressione quest'ultima che assume un duplice significato a seconda di come si traduca quel “entòs”: personale o sociale. L'avverbio di stato in luogo “entòs”, infatti, significa parimenti “dentro di voi” o “in mezzo a voi”. Una equivocità su cui l'autore sembra voler giocare e a cui non dà una precisa risposta, lasciando intendere con quel “entòs” come la realtà del Regno di Dio sia, da un lato, di natura spirituale e quindi storicamente non definibile (v.21a); dall'altro, come tale realtà avvolga e permei profondamente ogni essere umano e con lui l'intera società (v.21b). Un Regno che interpella, quindi, singolarmente ogni uomo, spingendolo a prendere posizione nei confronti di tale Regno, sia nella sua dimensione personale che sociale. Del resto il Gesù lucano è stato chiaro in 11,20: “Ma se per mezzo del dito di Dio [io] scaccio i demoni, allora giunse in mezzo a voi il regno di Dio”. Le guarigioni e in particolar modo gli esorcismi che Gesù operava in mezzo alla gente erano il segno eclatante dell'irrompere della potenza di Dio in mezzo agli uomini. Una potenza che si manifestava negli esorcismi, che andavano letti non soltanto come la liberazione dell'uomo dal potere di satana, ma anche come lo scalzare lo stesso regno di satana di mezzo agli uomini, instaurandovi invece il potere di Dio20. Un potere che si esprime nella potenza stessa di Dio, lo Spirito Santo. Se dunque una investigazione su tale Regno deve essere fatta; se una sua ricerca deve esserci, questa deve puntare sull'evento Gesù, sul suo operare, sulla sua parola, sulla sua missione. Una ricerca ed una speculazione che dovevano andare oltre alla sua persona e ai miracoli, che Giovanni chiama giustamente “segni”, per saper cogliere nell'evento Gesù e nel suo operare l'agire stesso di Dio, venuto in mezzo agli uomini per riprendersi quello che fu ed è sempre stato suo fin dall'eternità (Ef 1,4). Tutto il resto sono fantasie atte a creare illusioni e false speranze, orientando in modo sbagliato il credente.

Quando ritorna il Signore (vv.22-23)

Con questa breve pericope Luca introduce il secondo tema: il tempo del ritorno del Signore. Un tema che si pone in parallelo al precedente e ne è strettamente collegato. Ma se il tema del Regno di Dio ha il suo radicamento nelle attese di Israele, quello dei tempi del ritorno del Signore è squisitamente cristiano, ma, parimenti a quello, crea attese, false speranze, illusioni, turbamenti all'interno delle comunità credenti.

Luca affronta il problema in modo apparentemente anomalo, passando dalla questione posta dai Farisei, “quando viene il regno di Dio”, ad una risposta diretta sul ritorno del Figlio dell'uomo, data ai discepoli, che qui compaiono improvvisamente e inaspettatamente, introducendo un diverso tema senza alcun preambolo, legando in tal modo questo a quello che lo ha preceduto (v.20a). Una risposta che presupporrebbe come contropartita una domanda da parte dei discepoli, così come era stata posta quella dei Farisei. Domanda che qui viene elusa da Luca, passando direttamente alla risposta, lasciando sottintesa la domanda. Il v.22, pertanto, per rispettare la logica narrativa avrebbe dovuto iniziare con “Similmente i suoi discepoli gli chiesero: <<Quando tornerà il Figlio dell'uomo?>>”. È questo il passaggio che qui manca, creando una notevole tensione tra i vv.20-21 e questo secondo passaggio (vv.22-23). Perché Luca lo ha saltato? Una svista? Un successiva rielaborazione redazionale che ha eliso tale passaggio? Una disattenzione del copista? È difficile dare una risposta su quello che effettivamente è successo. Tuttavia, ritengo personalmente che il testo giunto sino a noi nella sua edizione definitiva vada accolto così com'è e che questa elisione sia stata voluta da Luca, lasciando trasparire in tal modo la sua reale intenzione. Luca qui sta facendo una catechesi alle comunità credenti, i cui membri erano di provenienza etnocristiana, al cui interno non era da escludersi, comunque, la presenza di giudeocristiani, i quali portavano con sé le speranze e le attese della ricostituzione del regno di Israele, quale elemento storico della fondazione del Regno di Dio. Queste attese e queste speranze andavano a fondersi con le attese e le speranze del ritorno del Signore, quale momento in cui Dio avrebbe posto fine alla storia degli uomini e fondato il suo Regno. Quello stesso Regno che attendevano i giudeocristiani da parte loro. Luca, pertanto, vista la similarità delle tematiche ha volutamente fuso la duplice questione. Una similarità ed un'unica fusione che già si intuisce dagli identici vv.21a e 23a. E dalle loro conclusioni tra loro complementari: “infatti il regno di Dio è dentro/in mezzo a voi (v.21b) … non andate e non correte dietro (v.23b)”. Significativo, poi, è il fatto che entrambe le questioni verranno fatte confluire in un'unica risposta, che daranno i vv.24-37.

Il v.22 introduce, quindi, inaspettatamente una risposta priva di domanda, saldando in tal modo il tema introdotto del ritorno del Figlio dell'uomo con quello della venuta del Regno di Dio. Due eventi che qui Luca di fatto identifica: “Verranno giorni quando desidererete vedere uno dei giorni del Figlio dell'uomo e non (lo) vedrete”. I toni qui riecheggiano in qualche modo il linguaggio delle grandi visioni dei profeti veterotestamentari: sia l'espressione“Verranno giorni”21 sia gli stessi verbi, tutti posti al futuro. Ci troviamo di fronte ad una profezia ex postea. A cosa allude qui Luca? Probabilmente al desiderio di alcuni credenti che sognavano di vedere il ritorno del Signore o desideravano aver vissuto con lui almeno un giorno della sua vita terrena. Sia nell'uno che nell'altro caso ci si trovava di fronte a rimpianti o a desideri inattuabili. Luca, pertanto, riconduce alla realtà questi credenti mettendo sulle labbra di Gesù la bocciatura del loro vacuo desiderio: “[...] desidererete vedere uno dei giorni del Figlio dell'uomo e non (lo) vedrete”. Come dire: lasciate perdere le vostre fantasie e impegnatevi nella quotidianità del vostro presente.

Modalità ed eventi che precedono e accompagnano il ritorno del Signore (vv.24-30)

La pericope in esame costituisce un'unità narrativa a se stante ed è inclusa dai vv.24b e 30. L'intento dell'autore è quello di dare qui un concreto punto di riferimento su cui far approdare le attese del ritorno del Signore e della costituzione del Regno di Dio, definendo il nuovo tempo che si sta profilando davanti come un inatteso tempo del giudizio escatologico, creandone il contesto con due significativi episodi tratti rispettivamente da Gen 7,7-13 e 19,12-29.

La pericope è scandita in due parti: la prima, vv.24-25, definisce due eventi tra loro concatenati e interdipendenti; la seconda parte, vv.26-29, crea il contesto escatologico generato dai due eventi e qui figurato dai due episodi del diluvio universale e della distruzione di Sodoma e Gomorra. Di quali eventi si tratta? A cosa si allude con i vv.24-25? Il v.24 enuncia un evento importante, la cui importanza viene rilevata dal fatto che tale evento viene posto all'inizio della pericope e a questo sono poi concatenati i restanti vv.25-29: “Infatti, come la folgore, che lampeggia da una (parte) sotto il cielo e risplende verso l'(altra parte) sotto il cielo, così sarà il Figlio dell'uomo [nel suo giorno]”. Per comprendere il significato del v.24 è necessario rilevare alcune parole chiave che lo compongono: folgore sfolgorante, il cui bagliore pervade per intero il cielo alle quali si accompagna l'espressione “Figlio dell'uomo”. Quale dunque è l'evento tale che come una folgore lampeggiante (lett. sfolgorante) riempie con la sua luce accecante l'intero cielo che sovrasta la terra e abbraccia l'intera umanità illuminandola con il suo bagliore? Un evento che sfolgora nel cielo, dove ha la sede Dio stesso. Un evento, quindi, che possiede in se stesso il carattere della divinità e sfolgora quindi di una luce divina. Il suggerimento ci viene dal successivo v.25: “Ma prima bisogna che egli soffra molte cose e sia rigettato da questa generazione”. Un versetto quest'ultimo che allude chiaramente alla passione e morte di Gesù e quel “bisogna” dice che questo evento di morte rientra nel progetto salvifico del Padre, così come lo splendore di questa folgore, che avviene nel cielo, porta in se stessa i caratteri dello splendore stesso di Dio. Ebbene, tale evento di passione e morte avverrà prima che la folgore lampeggiante riempia con il suo fulgore divino l'intero cielo e risplenda, abbracciandola con il suo splendore, sull'intera umanità, che vive sotto questo cielo. L'evento annunciato, pertanto, al v.24 è la risurrezione stessa di Gesù, che Luca coglie qui come una sorta di improvvisa quanto inattesa esplosione di luce che abbaglia il cielo e si riflette sulla terra, coinvolgendo l'intera umanità (vv.26-29). Un evento quello quello della risurrezione che l'autore qui percepisce, dunque, come cosmico. E che Luca qui si riferisca alla risurrezione lo lasciano intendere gli stessi termini che ritroviamo in 24,4b dove si parla di due uomini, che annunciano la risurrezione di Gesù, ricoperti di una veste “sfolgorante” (¢straptoÚsV, astraptúse). È lo stesso termine che ritroviamo qui al v.24, dove si parla di una “folgore sfolgorante” (¢strap¾ ¢str£ptousa, astrapé astráptusa). E qui (v.25) come là (24,7) “il bisogna che egli soffra” viene ricordato subito dopo l'annuncio della risurrezione: “il Figlio dell'uomo deve essere consegnato nelle mani di uomini peccatori ed essere crocifisso e al terzo giorno risuscitare”. Ed ecco il terzo elemento che lega il v.24 all'annuncio della risurrezione di 24,7: “Figlio dell'uomo”, che compare in entrambi i versetti (vv.24; 24,7). Non vi è pertanto alcun dubbio, a nostro avviso, che Luca con il v.24 alluda alla risurrezione, che qui concepisce come un'esplosione di luce divina salvifica riversata sull'umanità e il cui evento è cosmico. La risposta, pertanto, del “quando” verrà il Regno di Dio e il ritorno glorioso del Signore, che porrà fine al potere di questo mondo, stabilendo il potere unico e sovrano del Padre, così come era nei primordi dell'umanità (1Cor 15,21-28), riceve la risposta nell'evento travolgente ed escatologico della passione e morte di Gesù, dove il mondo decaduto e corrotto del vecchio Adamo viene distrutto sulla croce (Gv 12,32; Rm 6,6), per essere ricostituito in novità di vita nella risurrezione (Rm 6,4-9; Ap 21,1-5).

L'evento della passione-morte-risurrezione di Gesù, tuttavia, per Luca non è un evento irrilevante da relegarsi nell'oblio del passato, ma ha creato una deflagrazione all'interno dell'intera storia dell'umanità e con il suo accadere interpella ciascun uomo nel suo oggi, il quale, suo malgrado, è chiamato a prendere posizione di fronte a tale evento e qualsiasi sia la sua risposta esso determinerà i suoi stessi destini di salvezza o di perdizione. Non vi sono risposte intermedie come l'indifferenza o il non interesse, poiché queste costituiscono per se stesse una risposta negativa (Ap 3,14-16). In altri termini l'evento passione-morte-risurrezione ha inaugurato i tempi escatologici, quei tempi in cui si sta compiendo il giudizio di Dio sull'intera umanità e su ciascun suo membro. È questo il senso del richiamo qui, in questo contesto, dei due episodi genesiaci, sottesi da un unico schema di fondo: l'attuarsi travolgente e letale del giudizio di Dio su di un'umanità addormentata nel suo tran tran quotidiano intessuto di iniquità (Gen 6,5-7.13; 18,20-22a; 19,13).

Ai vv.26-27, attinti dalla fonte Q e condivisi con Mt 24,37-39, Luca aggiunge, attingendo da materiale proprio, i vv.28-29. Perché, dunque, l'autore al riferimento di Noè e del diluvio universale associa anche il racconto parallelo di Lot e la distruzione delle città di Sodoma e Gomorra? Due racconti, come già si è detto sopra, identici nel loro schema: entrambi alludono al giudizio divino posto su di un'umanità corrotta. Del resto è lo stesso evangelista che introduce il richiamo a Lot con l'avverbio “Similmente” (Ðmo…wj, omoíos), attestando in tal modo che questo episodio non si discosta nel suo senso da quello del diluvio di Noè: là c'è stato un diluvio di acqua che ha sommerso e distrutto un'umanità iniqua; qui c'è stato un diluvio di fuoco e zolfo che ha parimenti distrutto sempre la stessa umanità iniqua. Perché dunque l'aggiunta di questo doppione che non dice nulla di più di quanto dice il diluvio noachico? Il motivo è unicamente strategico. Con questo richiamo al racconto di Lot e della distruzione delle due città con i loro abitanti l'autore anticipa in qualche modo il senso della pericope successiva (vv.31-37), fornendone la chiave di lettura; e in particolare i vv.31-32 dove si allude all'urgenza di un rapido cambiamento senza rimpianti e senza tentennamenti, perché l'evento della passione-morte-risurrezione porta con sé il giudizio divino che si sta compiendo sull'umanità.

Il v.30, che forma inclusione con il v.24b, chiude questa pericope alludendo al giorno del Figlio dell'uomo in cui si manifesterà. La risurrezione, dunque, per Luca è il giorno del Signore, la sua vera manifestazione, la sua vera apocalisse, che inaugura il tempo escatologico, il cui senso va compreso “secondo quelle cose”. Le cose a cui Luca allude sono i due racconti del diluvio noachico e la distruzione di Sodoma e Gomorra, intesi quale giudizio divino posto sull'iniquità di un'umanità corrotta, la vecchia umanità adamitica, destinata alla distruzione, in quanto associata alla passione e morte del Figlio dell'uomo (Gv 12,32; Rm 6,6). Questo, dunque, è il tempo ultimo che viene riservato all'uomo per compiere la sua scelta, che sarà determinante per la sua salvezza o la sua perdizione.

Istruzione per il giorno dell'avvento del Signore (vv.31-37)

Dopo aver creato con i vv.24-29 il clima apocalittico-escatologico in cui l'intera umanità è stata coinvolta con l'evento della passione-morte-risurrezione, ora Luca detta le linee di comportamento che il credente deve tenere in tale contesto per rispondere adeguatamente a tale evento che lo interpella personalmente. Lo fa richiamandosi al racconto della distruzione di Sodoma e Gomorra e in particolare con riferimento a Gen 19,15-17.26: “Quando apparve l'alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: <<Su, prendi tua moglie e le tue figlie che hai qui ed esci per non essere travolto nel castigo della città>>. Lot indugiava, ma quegli uomini presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie, per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuori della città. Dopo averli condotti fuori, uno di loro disse: <<Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!>>. […] Ora la moglie di Lot guardò indietro e divenne una statua di sale”. All'apparire dell'alba, dunque, gli angeli sollecitano Lot e la sua famiglia perché escano dalla città, che sta per essere distrutta e si mettano così in salvo, con l'ordine di non fermarsi e di non guardare indietro per non essere travolti. Un ordine che verrà disatteso dalla moglie di Lot così che verrà trasformata in una statua di sale, subendo così il destino delle due città. E ai tentennamenti di Lot gli angeli lo sospingono fisicamente fuori dalla città, perché ormai non c'è più tempo per i ripensamenti e per gli indugi, poiché ora sta per compiersi il giudizio di Dio sulle due città.

Ed è ciò che Luca intende dire con la pericope vv.31-37. Anche qui è apparsa un'alba nuova di un giorno nuovo, quella della risurrezione, che pone sugli uomini il giudizio divino. Non c'è più, quindi, tempo per tentennare; non c'è più tempo per pensare alle cose di questo mondo; non c'è più tempo per indugiare e guardare indietro, alle cose che ormai sono passate, perché altre ora ne sono sorte di nuove. Cieli nuovi e terra nuova, dunque (Ap 21,1-5). Una nuova realtà in cui il credente, quale nuova creatura (2Cor 5,17; Gal 6,15), è stato inserito in virtù della sua fede e del battesimo. Non è più il tempo di guardare indietro e rimpiangere le cose del passato, poiché se così avvenisse il credente verrebbe associato alla vecchia umanità decaduta e sottoposto al giudizio divino di condanna. È lo stesso sollecito che viene da 1Cor 7,29-31: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!”.

Il v.31 inizia con un'espressione caratteristica del linguaggio profetico: “In quel giorno”, che ricorre nei libri profetici 97 volte e con la quale si richiama il giorno del Signore, uno spazio temporale ideale riservato alla sua azione, che può essere salvifica o di resa dei conti. Un giorno che qui è di giudizio (vv.33-37) e in cui si è sollecitati a non perdere tempo nel cercare le proprie sicurezze nelle cose materiali della propria quotidianità, aggrappandosi ad esse, come il correre a racimolare le suppellettili di casa portandosele con sé; o, se si è all'esterno della propria casa, cercando di rifugiarsi in essa (v.31). Azioni queste insensate che non salveranno il credente, il quale anziché cercare le proprie sicurezze nel Signore che viene, le ripone nelle cose della sua quotidianità, rimpiangendo quasi il proprio passato che ora non c'è più, così come è successo per la moglie di Lot, qui richiamata espressamente dal v.32 quale esempio paradigmatico. Una donna che anziché guardare al suo futuro di salvezza, prospettatole da Dio, ha preferito rivolgersi al passato della sua antica vita. La punizione per questa donna, che non ha saputo staccarsi dal suo passato, è la morte istantanea, con cui Dio ha espresso il suo giudizio su di lei e, per Luca, su quanti, come lei, posti nel momento della prova e della decisione esistenziale, hanno preferito la sicurezza degli uomini e delle cose che il nuovo mondo in cui Dio li aveva introdotti. Un'allusione forse alle persecuzioni o alle difficoltà che potevano nascere nell'ambito familiare o degli amici per la scelta fatta (12,51-53)?

Da qui il monito del v.33: “Chi cercasse di salvare la propria anima, la perderà; ma chi (la) perdesse, la manterrà in vita”, dove il termine anima non va inteso in senso di “spirito”, ma secondo la visione antropologica degli antichi, che concepiva l'uomo come un composto di spirito, anima e corpo (1Ts 5,23). Spirito e corpo, due realtà tra loro inconciliabili e irriducibili per loro natura l'una all'altra, ma che trovavano il loro punto d'incontro, in cui si coniugava la vita, nell'anima, che assurgeva, quindi, a immagine della pienezza della vita dell'uomo. L'anima, pertanto, è qui sinonimo di vita. Cercare di salvare la propria anima, significava quindi cercare di salvaguardare la propria vita fisica, materiale a scapito di quella spirituale. Una vita, quindi, che veniva contrapposta a Dio, ma che aveva come conseguenza di perdere l'anima, cioè l'uomo nella sua interezza, di cui l'anima era l'espressione. Viceversa, il dare maggior peso alla propria vita spirituale e al mondo di Dio, a cui appartiene il proprio spirito, significava salvare integralmente l'uomo, affermandolo nella pienezza della sua umanità.

I vv.34-37 aprono lo scenario del giudizio, inteso come il discrimine che viene posto sull'umanità. Non si tratta, dunque, di una sorta di decimazione, ma dice soltanto che, qui e ora, si sta ponendo un giudizio divino che coglie l'uomo sia nella sicurezza della sua intimità familiare (v.34) che nella sua attività sociale e lavorativa (v.35). Due estremi entro cui l'autore ricomprende l'intero vivere quotidiano dell'uomo.

Quanto al v.36, posto tra parentesi, è ricompreso nella numerazione corrente ed è presente in molti testimoni, ma assente nei testi più autorevoli. Un testo, forse aggiunto successivamente da un qualche seguace di Luca, conoscendo come l'evangelista amasse gli accoppiamenti di “uomo e donna”. Il testo, comunque, è stato preso da Mt 24,40.

Questa terza sezione del cap.17 dai toni apocalittici ed escatologici (vv.20-37), si chiude con il v.37 in modo oscuro e certamente suona come una forzatura: “E rispondendo gli dicono: <<Dove, Signore?>>. Egli disse loro: <<Dove il corpo, là si raduneranno insieme anche le aquile>>”. Il versetto si apre in modo incongruente: “E rispondendo gli dicono”. I discepoli, quindi, rispondo a Gesù, ma a che cosa rispondono? Gesù non ha posto loro nessuna domanda. Qual è, poi, il senso di quel “Dove”? L'intera sezione non allude a qualche luogo, ma è soltanto un richiamo generico a non perdere il proprio tempo rincorrendo dicerie. La richiesta del “Dove”, posta dai discepoli, suona pertanto incomprensibile e certamente fuori luogo, a meno che la domanda non si riferisse ad un testo che è stato poi omesso nella redazione finale o comunque eliso inavvertitamente da qualche copista. Comunque sia, la risposta di Gesù, dai toni proverbiali, riprende delle immagini che sono caratteristiche del linguaggio profetico, che alludono al giudizio di Dio posto sull'umanità e al quale nessuno sfuggirà22.

N O T E


1Cfr. il commento al cap.11 della presente opera, pag.1

2Cfr. Lc 17,1.3-4.23-24.26-27.33.35

3Cfr. Lc 17,2.5-6.21.25 (solo con Mc 8,31).31

4Cfr. Lc 17,7-20.22.28-30.32.34.36-37

5Cfr. Rm 14,13-23; 1Cor 5,1-13; 8,1-13; 10,23-33; 2Cor 11,3-5;13-15;12,11; Gal 1,7; 5,7.12.15

6Cfr. La prima lettera di Giovanni, pur nel suoi toni paterni ed esortativi, non va intesa come una generica parenesi, poiché essa fa riferimento ad avvenimenti contingenti precisi, a minacce di divisioni e confusioni che serpeggiano tra le comunità cristiane, che stanno attraversando una grave crisi, per cui il tono si fa duro e polemico contro i fomentatori di queste divisioni. Ma chi sono questi personaggi contro i quali si scaglia l'autore? Sono quasi certamente dei predicatori che si sono presentati presso le comunità e diffondono strane dottrine dal sapore gnosticheggiante. Essi pretendono di conoscere Dio e di vivere in comunione con lui e di essere nella luce, ma in realtà negano che Gesù sia il Messia e il Figlio di Dio e non ammettono l'incarnazione. Inoltre, presumono di essere senza peccato e non si preoccupano di osservare i comandamenti, in particolare quello dell'amore fraterno. Contro questi personaggi, l'autore si scaglia con durezza incredibile e una notevole carica aggressiva, definendoli anticristi, mentitori, seduttori e profeti di menzogna. Tuttavia lo scritto non vuole combattere gli eretici, ma mettere in guardia i credenti. Il tutto sotteso da un'unica tesi: non c'è comunione con il Padre senza il riconoscimento e l'accettazione dell'azione mediatrice del Figlio, incarnatosi e testimoniato dai primi testimoni.

7Cfr. Mt 20,20-24; Mc 10,35-37.41

8Cfr. Mt 20,25-28; Mc 10,42-45

9Cfr. Mt 18,1-4; Mc 9,33-36; Lc 9,46-48;

10Cfr. La voce “Piante e Alberi” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005; cfr. anche G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma1992; III edizione gennaio 2001; pag.653

11I richiami al viaggio verso Gerusalemme sono disseminati lungo i dieci capitoli che lo costituiscono (9,51-19,28): 9,51.53; 10,38; 13,22.33; 17,11; 18,31; 19,11.28.

12Sulla questione della lebbra cfr. la voce “Malattia” e la sub voce “Lebbra” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.

13Cfr. la voce “Dieci” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e la voce “Numero” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005

14Una profonda idiosincrasia divideva e contrapponeva tra loro Giudei e Samaritani, che ha la sua origine sul finire del sec. VIII a.C. allorché, dopo la distruzione del Regno del Nord (721 a.C.) ad opera dell'assiro Sargon II, vennero portati in Samaria dei coloni stranieri da Babilonia e dalla Media. I nuovi arrivati adottarono il culto jhawista, ma lo contaminarono con le loro credenze idolatriche (2Re 17,24-29). Quando nel 538 a.C. ritornarono in patria dall'esilio babilonese i deportati del Regno del Sud, a seguito della sua distruzione nel 597 a.C. ad opera dei babilonesi, epoca questa della prima deportazione (ne seguirono altre due nel 586 e 582 a.C.), i Samaritani si opposero ai rimpatriati e ostacolarono la ricostruzione sia del Tempio che di Gerusalemme (Esd 4,1-5). La rottura, a seguito anche della contrapposizione teologica, tra Giudei e Samaritani fu inevitabile. I Samaritani nel corso del IV sec. a.C. si costruirono un loro tempio sul monte Garizim in contrapposizione a quello di Gerusalemme. L'unico testo sacro a cui essi facevano riferimento era la Torah scritta, disconoscendo i Profeti e gli altri Scritti, riconosciuti, invece, dai Giudei. La contrapposizione tra le due popolazioni si accentuò quando nel 128 a.C. Giovanni Ircano distrusse il tempio del monte Garizim. I Samaritani, quindi, erano originari di due diversi ceppi etnici: quello ebraico, che non fu deportato alla caduta del Regno del nord, e quello formato dai coloni provenienti da Babilonia e dalla Media. Erano, dunque, una razza imbastardita non solo etnicamente, ma soprattutto religiosamente. Erano per questo considerati eretici e impuri. Passare per il territorio dei Samaritani ed entrare in contatto con loro significava rimanere contaminati. È significativo e rivelativo della mentalità giudaica nei confronti dei Samaritani quanto dice la Mishnah in loro proposito: “Le figlie dei samaritani sono in stato di mestruazione fin dalla loro culla […] Inoltre le figlie dei samaritani restano nell'impurità per sette giorni a causa di ogni genere di flusso di sangue”. Un'espressione questa per sottolineare il profondo stato di impurità in cui vivevano costantemente gli abitanti della Samaria; un'impurità congenita. Ma non è tutto, poiché si riteneva non valida la testimonianza di un samaritano, eccetto che per il documento di divorzio. Il samaritano, infatti, era assimilato ad un pagano e considerato alla pari di un 'am ha-haretz, cioè un ignorante, un peccatore e trasgressore.

15Cfr. At 2,41; 6,7; 8,4.14; 12,24; 13,48.49; 19,20.

16Cfr. At 2,42-47; 4,32.

17In quest'ottica escatologica ed apocalittica viveva la comunità di Qumran, tutta protesa a preparare l'avvento del Regno di Dio, che sarebbe stato preceduto da una grande guerra tra le forze del bene e quelle del male. Il contenuto di questa conflagrazione finale era stato minuziosamente codificato nel testo qumranico convenzionalmente denominato “Regola della Guerra” (IQM). Numerosi erano anche i sedicenti messia che comparivano, di tanto in tanto, all'interno della società giudaica, creando turbamenti tra la gente e violente repressioni da parte dei Romani. Una testimonianza in tal senso ci viene da At 22,38. Significativo in questo contesto è quanto attesta Gv 11,47-50 in merito alle preoccupazioni del sommo sacerdote circa le folle che seguivano Gesù. Contemporanei a Gesù, vi erano gli Zeloti, un gruppo politico-religioso integralista, sorto nel I sec. d.C., che potremmo considerare come il braccio armato dei Farisei, alla cui dottrina erano particolarmente legati. Questi erano convinti che non si dovesse aspettare passivamente l'avvento del Regno di Dio, ma che si dovesse intervenire attivamente nella storia per provocare il cambiamento messianico. Alla base delle loro convinzioni stava un ideale teocratico: solo Dio doveva regnare su Israele. L'avvento del Regno di Dio, secondo la loro concezione teologica, era ritardato, se non impedito, per la presenza dei pagani sulla terra di Israele. Scacciare l'invasore romano, quindi, più che un atto politico e di liberazione, aveva finalità prevalentemente teologiche. - Sulla questione cfr. la voce “Zeloti” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni Piemme Spa, Casale Monferrato (AL), 2005. Questo spirito di attesa escatologica traspare inoltre dagli stessi vangeli. Significativi, in proposito, gli interventi di Luca, che lasciano intravvedere lo spirito di attesa che albergava nell'animo di ogni israelita: “Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e timorato di Dio, che aspettava il conforto d'Israele” (Lc 2,25); così similmente, parlando di Anna, la profetessa, sottolinea come essa “Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme” (Lc 2,38). Anche Giovanni, da parte sua, lascia trapelare dalla bocca della Samaritana questa attesa del Messia: “So che deve venire il Messia [cioè il Cristo]: quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa” (Gv 4,25). E ancora, i discepoli di Giovanni si rivolgono a Gesù chiedendogli se fosse lui colui che doveva venire o se dovevano aspettarne un altro (Mt 11,3).

18Cfr. in tal senso Rm 13,11-14; 1Cor 7,29-31; 1Ts 3,13; 5,1-6; 2Ts 2,1-2; Fil 4,5; 1Pt 4,7; 2Pt 3,1-18 Gc 5,7-9; Ap 22,20.

19Cfr. G. Rossé, il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma, III edizione gennaio 2001 – pag.663.

20Cfr. Gv 12,31; 14,30; 16,11

21L'espressione “Verranno giorni” ricorre nell'A.T. 17 volte e sempre nei libri profetici

22In tal senso cfr. Is 18,6; 34,15; Ger 7,33; 12,9; 15,3; Ez 39,17.