IL VANGELO SECONDO LUCA
Catechesi
n. 6: il buon uso dei beni terreni sotto la guida delle
Scritture
procura
quelli eterni
(16,1-31)
Commento
esegetico e teologico
a
cura di Giovanni Lonardi
Non è la prima volta che Luca affronta il tema della ricchezza in rapporto al messaggio evangelico e alla vita credente. Già in qualche modo ne aveva messo le premesse nell'annuncio della nascita di Gesù ai pastori (2,8-14). Una scelta che è andata a cadere sugli ultimi della scala sociale e religiosa. Persone povere e, a motivo del lavoro svolto, considerate ritualmente impure e, pertanto, escluse dalla ritualità ebraica, attraverso la quale il pio ebreo si poneva in relazione con Dio. Ma proprio per questa loro condizione di vita, libera da limitazioni e vincoli socio-religiosi, erano disponibili, al di là di questi, ad accogliere il Dio che viene in modo inusitato, fuori dagli schemi convenzionali e pensati dai sapienti. Proprio per questa loro libertà interiore ed accogliente, Dio si rivela loro, diventandone i primi testimoni (2,16-18) in mezzo a quella società che li ha rifiutati e ghettizzati.
Lo aveva in qualche modo preluso nelle beatitudini, ponendo in cima alla lista l'elogio dei poveri: “Beati i poveri, poiché vostro è il regno di Dio” (6,20). Solo chi è povero, cioè libero, sia interiormente che esteriormente, dalle cose materiali è in grado di accogliere l'annuncio del Regno. E così similmente, per contro, un pesante “guai” riservato ai ricchi, perché, ripieni delle cose materiali, sono totalmente disinteressati e insensibili alle esigenze di Dio, poiché tutte le loro sicurezze sono riposte nei loro beni: “Nondimeno guai a voi ricchi, poiché ricevete (già) la vostra consolazione” (6,24). E sarà proprio sulla falsariga di questo contrasto “ricchi-poveri” che si giocherà la parabola del ricco epulone e Lazzaro (16,19-31).
E l'effetto deleterio della ricchezza e dei beni materiali e degli affanni della vita sul buon seme della Parola gettato dal Seminatore, viene posto in evidenza dalla parabola del Seminatore (8,14). Una questione questa che verrà esemplificata nel racconto del notabile del popolo, che declinò l'invito di Gesù a seguirlo, dopo aver venduto i suoi beni ai poveri, perché, commenta l'evangelista: “era molto ricco” (18,18-25). Un esempio diametralmente opposto si ha con il racconto di Zaccheo, un ricco pubblicano, che non disegna di disfarsi della sua notevole ricchezza, donandola ai poveri e a chi aveva ingiustamente frodato, pur di ricevere Gesù nella sua casa, liberata da tutto ciò che gli impediva di accoglierlo (19,5-9).
Con 12,13-33 Luca condanna duramente la ricerca dei beni terreni, quale luogo dove riporre le proprie sicurezze. Un comportamento che verrà stigmatizzato in modo drammatico con la parabola del ricco che fece ampliare i suoi magazzini per riporre i suoi beni, vedendo in questi la soluzione a tutti i suoi problemi, non pensando a quanto questi fossero effimeri (12,16-21). Un monito che prosegue in termini esortativi più morbidi, attraverso un linguaggio sapienziale, che spinge i credenti, sull'esempio dei gigli del campo e degli uccelli del cielo, a confidare non nelle cose, ma nella Provvidenza divina, così che, liberati dagli assilli delle cose e dei beni terreni, diano spazio nella propria vita alle cose spirituali, con riguardo alle esigenze di Dio (12,22-31).
Significativa è la conclusione del lungo discorso sulla ricchezza, propria di Luca: “Vendete i vostri beni e date elemosina; fate a (voi) stessi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove un ladro non (lo) raggiunge né tignola rovina; poiché dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (12,33-34). Usare, dunque, dei beni terreni non per arricchirsi materialmente, ma per produrre per se stessi una ricchezza spirituale, che non verrà mai meno. E sarà proprio questo il tema che verrà ripreso dalla parabola dell'amministratore infedele (16,1-8).
Vi è, dunque, in Luca una continuità di pensiero in merito alla ricchezza, che ora con il cap.16 affronta da una nuova angolatura: se il riporre la propria fiducia nei beni terreni e farne della loro ricerca una ragione di vita costituiscono un impedimento per raggiungere Dio e i beni spirituali, il loro accorto uso (vv.8-9), sotto la guida delle Scritture (vv.29.31), garantisce la salvezza (v.9). La ricchezza in se stessa, pertanto, non è né un bene né un male, ma è l'atteggiamento che l'uomo sviluppa nei suoi confronti che lo può salvare o dannare. In questo cap.16 Luca presenta la ricchezza e i beni materiali come un'opportunità per arricchire spiritualmente e ne indica la via.
La struttura del cap. 16 è formata da due parabole (vv.1-8.19-31), intercalate tra loro da una raccolta di detti, dai toni sentenziali e sapienziali, con intenti esegetici riguardo alla prima parabola. Nella prima parabola Luca presenta l'uso accorto dei beni terreni, finalizzato a procurarsi la salvezza futura; mentre nella seconda mostra un loro uso distorto, che ha come finalità soltanto un godimento egoistico dei beni terreni. Nella prima parabola i beni fluiscono dal proprio Io verso l'altro; nella seconda i beni rimangono a disposizione del proprio soddisfacimento, ignorando completamente le esigenze dell'altro. Ci si trova, pertanto, di fronte ad un esempio positivo ed uno negativo, che nel loro insieme formano un gioco di chiaroscuro e di contrasto che mette in rilievo quale sia l'uso proficuo e intelligente dei beni materiali, che per Luca non sono un male, ma un'opportunità di salvezza spirituale.
Per poter comprendere correttamente le due parabole è necessario partire dalla loro conclusione: quanto al primo racconto i vv.8-9 rilevano l'accortezza nell'uso presente dei beni materiali gestito con uno sguardo rivolto al crearsi un proprio futuro rassicurante (v.8). Da qui il sollecito a spendere le proprie ricchezze per gli altri, poiché in tal modo si acquisisca la vita eterna (v.9). Quanto al secondo racconto, sono i vv.29.30 quelli illuminanti: le Scritture sono la chiave di lettura della propria vita e del modo di gestirla.
Il materiale che compone il cap.16 è di provenienza lucana, con esclusione dei vv.13.16.17.18 di fonte Q, che Luca condivide rispettivamente con Mt 6,24; 11,12.13; 5,18.32.
Commento ai vv.1-31
La parabola dell'amministratore accorto (vv.1-8)
Testo a lettura facilitata
Il giudizio e la sentenza (vv.1-2)
1
– Ora diceva anche verso i discepoli: <<C'era un uomo ricco,
che aveva un amministratore, e questi fu accusato presso di lui come
colui che dissipa i suoi averi.
2
– E chiamatolo, gli disse: “Che cos'(è) questo che sento su di
te? Rendi ragione della tua amministrazione, poiché non puoi
amministrare ancora”.
La riflessione sulla situazione presente (vv.3-4)
3
– Ora, disse in se stesso l'amministratore: “Che cosa farò,
poiché il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare non sono
capace, mendicare mi vergogno.
4
– So che cosa farò, affinché, quando sarò allontanato
dall'amministrazione, mi accolgano nelle loro case”.
L'attuazione del piano (vv.5-7)
5
– E chiamato uno (per uno) ciascuno dei debitori del suo stesso
padrone, diceva al primo: “Quanto devi al mio padrone?”.
6
– Questi disse: “Cento bati di olio”. Ma questi gli disse:
“Prendi i tuoi scritti e, seduto, scrivi rapidamente cinquanta”.
7
– Poi disse ad un altro: “Tu quanto devi?”. Questi disse:
“Cento cori di grano”. Gli dice: “Prendi i tuoi scritti e
scrivi ottanta”.
La conclusione della parabola (v.8)
8 – E il padrone elogiò l'amministratore dell'iniquità poiché agì con accortezza; poiché i figli di questo secolo sono più accorti dei figli della luce verso la loro stessa razza.
Note
generali
La parabola dell'amministratore accorto rappresenta la prima esemplificazione, quella positiva, dell'amministrazione dei beni terreni, gestiti nel presente in prospettiva futura, così che la preoccupazione del futuro spinge questo abile amministratore ad operare efficacemente fin d'ora con intelligenza, accortezza e impegno perché ben sa come il suo futuro dipende esclusivamente da come egli si sa giocare il presente.
Il
racconto, che ho articolato in quattro quadri, rilevabili nella
sezione del “Testo a lettura facilitata”, sembra tronco, perché
termina con l'amministratore che sta intrallazzando con i debitori
del suo padrone. Resta in sospeso la conclusione: come sono andate a
finire queste trattative? Veramente, poi, i debitori, grati, lo hanno
accolto a casa loro? Come se l'è cavata in seguito questo
amministratore? Questioni queste che non interessavano a Luca, che,
invece, vuole incentrare l'attenzione del suo lettore sul trafficare
di questo amministratore nel suo oggi per procurarsi un futuro
tranquillo. In realtà, da un punto di vista narrativo, il racconto
può ritenersi completo con l'annotazione stessa, come una sorta di
voce fuori campo, dell'evangelista, che attesta come il padrone lodò
l'abilità del suo amministratore per l'accortezza e la perspicacia
con cui ha saputo gestire la sua difficile posizione. Anche qui è
inutile chiedersi perché il padrone abbia lodato chi lo ha derubato,
intrallazzando alle sue spalle come in una sorta di congiura assieme
ai suoi debitori. Non ci si trova di fronte ad un fatto di cronaca,
anche se si possono trovare dei tratti di verosimiglianza con la
realtà, ma ad un racconto che ha delle sue finalità catechetiche,
che sopravanzano la necessità della stessa logica narrativa. È
importante far giungere il messaggio all'ascoltatore e non
raccontargli dettagliatamente l'accaduto, soddisfacendo la sua
curiosità, annacquando in tal modo gli intenti della parabola
stessa. È importante far capire la scaltrezza e l'abilità con cui
questo amministratore ha saputo destreggiarsi, qui e ora, in una
situazione drammatica ribaltandola a suo favore, assicurandosi un
futuro tranquillo. Da qui la lode del padrone al suo amministratore,
finalizzata non a giustificare le malefatte del suo amministratore,
bensì a mettere in rilievo la sua scaltrezza.
Commento
ai vv.1-8
Il
giudizio e la sentenza
(vv.1-2)
Il v.1a, di origine redazionale, ha una doppia finalità: creare una continuità narrativa con il cap.15 ed ampliare la platea dei suoi ascoltatori, includendo in essa anche i discepoli. Quel “diceva”, infatti, posto all'imperfetto indicativa significa “continuava a dire”, legando, in tal modo, il cap.16 a quello precedente; mentre quel “anche verso i suoi discepoli” segnala come quanto segue acquisti una valenza di universalità, poiché da un pubblico, prima limitato ai pubblicani, peccatori e in particolare scribi e farisei (15,1-3), si passa ora ad includere anche i discepoli. Sono dunque ricomprese tutte le categorie di ascoltatori. Vedremo, poi, come al cap.17 la platea si restringerà ai soli discepoli (17,1) e, quindi, quanto seguirà sarà riservato a quelli che hanno compiuto la loro scelta di fede, accogliendo la parola. Il verbo al 17,1 non è più posto all'imperfetto indicativo, la quale cosa creerebbe una continuità narrativa con i precedenti capp.15.16, ma all'aoristo: “disse”, creando uno stacco di continuità tra il cap.17 e i precedenti capitoli.
I
primi due versetti (vv.1b-2), nel presentare i due personaggi, un
uomo ricco, probabilmente un latifondista che ha affidato
all'amministratore la gestione dei suoi beni, creano il contesto in
cui si svolge il dramma dell'amministratore, che viene licenziato,
venendosi così, all'improvviso, a trovarsi in una nuova quanto
drammatica condizione di vita. Il tutto si avviene secondo gli schemi
di un processo sommario dove viene formulata l'accusa di dissipazione
dei beni del padrone; viene chiesto all'amministratore di
giustificarsi presentando la rendicontazione della sua gestione,
restituendo i registri della sua amministrazione; ed infine viene
emessa la sentenza: “non puoi amministrare ancora”. Una carriera
stroncata per negligenza nella gestione. Non necessariamente per
disonestà. L'accusa è, infatti, di dissipare i beni del padrone e
non di frodarli. E la condanna da parte del padrone per la
dissipazione dei suoi beni diviene un primo monito che Luca lancia al
suo lettore: i beni terreni vanno gestiti vanno gestiti con diligenza
e accortezza altrimenti il suo Padrone te ne chiederà conto.
La riflessione sulla situazione presente (vv.3-4)
Sulla
falsariga della parabola del “Padre e dei due figli” (15,1-32),
Luca riprende qui il movimento del figlio più giovane, che trovatosi
in un grave stato esistenziale, rientrò in se stesso e incominciò a
sviluppare un suo ragionamento, che lo ha portato ad una decisione
determinante per la sua vita (15,17-20a). Come il figlio più
giovane, infatti, anche l'amministratore infedele, venuto a trovarsi
in una situazione esistenziale molto critica, rientra in se stesso,
compie una valutazione della sua vita e giunge ad una determinazione,
sulla quale giocherà tutto se stesso e il suo futuro: “So che cosa
farò”. Una sorta di illuminazione esistenziale di cui si riesce a
beneficiare nella misura in cui si rientra in se stessi, poiché è
qui, nel sacrario della propria coscienza, che si incontra Dio e si
riceve le illuminazioni determinanti per la propria vita. E benché
ciò che qui Luca intenda evidenziare è l'accortezza e la
determinazione con cui questo amministratore opera nella sua vita,
tuttavia non va trascurata, in seconda battuta, la fonte primaria di
tale determinazione, che comunque l'evangelista sottolinea: “Ora
disse in se stesso l'amministratore: “Che cosa farò”. Da qui,
dal suo interiore, dal suo interrogarsi sulla vita, dal suo chiedersi
che cosa fare per il proprio futuro, per evitare il fallimento della
sua vita, parte la riscossa che gli consentirà, alla pari del figlio
più giovane, di rialzarsi e di dare attuazione al suo progetto di
vita. In entrambi i casi, in ultima analisi, vi è in gioco il
successo o il fallimento esistenziale. Luca, dunque, sembra indicare
quale elemento determinante delle proprie scelte la via della
riflessione, del silenzio interiore, del sapersi confrontare con se
stessi e, soprattutto, con la Parola, che si colloca nella propria
vita quale elemento di rottura e discontinuità con il tram-tram
della vita e qui simboleggiata dalla sentenza del padrone che viene
emessa sull'operare del suo amministratore, a seguito della quale
tutto cambia e precipita rapidamente per lui.
L'attuazione del piano (vv.5-7)
“So che cosa farò” (v.4a). Con questa battuta l'amministratore concludeva la sua riflessione, mettendo a punto il suo progetto. Che cosa egli intenda fare viene raccontato dai vv.5-7: chiamare i debitori del suo padrone riducendo loro il debito. Chi siano questi debitori non ci è dato di sapere, ma è presumibile che siano dei mezzadri. Il debito, quantificato in cento bati1 e cento cori, è una valorizzazione semplificata per facilitare i conteggi da parte dell'ascoltatore; così come lo sconto di cinquanta bati e di venti cori, che comunque danno un'idea della rilevanza dell'operazione attuata dall'amministratore. Egli ordina ai debitori di modificare i loro scritti (t¦ gr£mmata, tà grámmata), probabilmente il contratto annuale che questi avevano fatto con l'amministratore stesso e che li vincolava ad una certa quantità di produzione, considerato che l'amministratore qui sembra avere autorità e potere di far cambiare i vincoli contrattuali.
Ciò
che qui Luca tende a far rilevare è l'abilità, l'accortezza,
l'impegno attivo ed efficace che questo amministratore, giunto ormai
alla fine della sua amministrazione, mette nel poco tempo che gli
resta per costruirsi un futuro sicuro. Operare, dunque, attivamente e
con serietà nell'oggi in prospettiva del proprio futuro, che viene
costruito, giorno dopo giorno, con il proprio impegno quotidiano. È
su questo aspetto che l'autore intende richiamare l'attenzione del
suo lettore.
La
conclusione della parabola
(v.8)
Il v.8 è scandito in due parti: la prima, che porta a conclusione la parabola, è una valutazione positiva su quel darsi da fare dell'amministratore. L'apprezzamento va posto su ciò che sottende l'agire dell'amministratore, cioè il suo operare nel presente per assicurarsi un futuro economicamente ed esistenzialmente tranquillo e non certo su ciò che ha fatto. La motivazione di tale elogio è indicata dallo stesso narratore, che conclude questa prima parte del v.8: “poiché agì con accortezza”. È quindi sull'agire accorto che va posto l'accento e il senso dell'intera parabola. Certamente il v.8a non va letto come una incentivazione a delinquere, poiché urterebbe contro ogni logica evangelica e contro il pensiero della stessa Parola di Dio, che punta all'affermazione positiva dell'uomo in ogni suo aspetto, così da renderlo perfetto nella sua umanità. Del resto l'amministratore è definito come “amministratore dell'iniquità”.
Degli interrogativi vengono posti su chi formula il giudizio positivo sull'amministratore. Il termine greco “Ð kÚrioj” (o kírios), infatti, significa sia “il padrone” come “il Signore”, con riferimento quest'ultimo al titolo che le prime comunità credenti attribuivano al Risorto. Tuttavia, il sostantivo “Ð kÚrioj”, che si ripete altre tre volte nel racconto parabolico, ai vv.3.5, significa chiaramente “padrone”. Non si capisce, quindi, come il “kÚrioj” del v.8a, che conclude la parabola, debba essere compreso come “il Signore”, considerato che chi sta raccontando la parabola è proprio “il Signore”, cioè Gesù (v.1a). Il quarto “kÚrioj”, pertanto, va compreso all'interno della logica narrativa e, quindi, associato nel suo significato agli altri tre “kÚrioj”. Del resto, l'apprezzamento del padrone non riguarda la frode che ha subito, bensì la scaltrezza di questo suo amministratore, che in qualche modo è riuscito a parare il colpo, rovesciando a suo favore una situazione di drammatica precarietà. Diversamente si dovrebbe considerare la parabola come priva di conclusione, terminando al v.7 e, di conseguenza, l'intero v.8 come la necessaria voce fuori campo dello stesso evangelista, che deve intervenire per concludere un racconto rimasto in sospeso e che lui stesso ha creato. In tutto questo non c'è logica e risulterebbe troppo macchinoso. Del resto, la voce narrante qui è sempre quella di Gesù, che con quel “kÚrioj” non può riferirsi a se stesso come fosse una terza persona.
La seconda parte del v.8 è una sorta di applicazione immediata della parabola, che si gioca tutta sul raffronto tra i figli di questo secolo e i figli della luce, da cui traluce una certa amarezza. Si tratta di una riflessione di tipo sapienziale finalizzata in qualche modo a stigmatizzare lo scarso impegno dei credenti in questo mondo, che dovrebbero, invece, far fermentare come lievito all'interno della pasta (13,21); come sale che dà sapore, cioè senso alla vita stessa e alla storia degli uomini (14,34); come luce di lampada che illumina tutti quelli in mezzo ai quali si trova (8,16). In altri termini testimoniare esistenzialmente ed efficacemente la propria fede nel mondo così da divenirne lievito, sale e luce.
Le due espressioni contrapposte “figli di questo
secolo” e “figli della luce” richiamano le due opposte fazioni
con cui gli uomini di Qumran, nella loro visione apocalittica ed
escatologica della storia, suddividevano l'umanità (1QS I,9-10; 1QM
I,1). E il tono non cambia qui in Luca, che inserendo queste due
categorie di persone si inserisce nella visione escatologica, che
caratterizzava la chiesa dei primissimi tempi, tutta protesa verso la
venuta del suo Signore (Ap 22,17a.20). L'espressione “figli della
luce”, usata tra i sinottici soltanto da Luca, si ritrova parimenti
in Gv 12,36, in cui i figli della luce sono coloro che hanno aderito
alla parola di Gesù. E similmente compare, in contrapposizione ai
figli delle tenebre, anche in Ef 5,8; 1Ts 5,5; mentre Rm 13,12
sollecita i credenti a liberarsi delle opere delle tenebre e
indossare le armi della luce in vista dell'imminente venuta del
Signore. Il clima, dunque, creato da Luca con queste due contrapposte
espressioni è proprio dell'escatologia primitiva, vissuta in un
contesto di persecuzione e di scontro con le forze delle tenebre. E
in tale contesto ritengo che vadano comprese le espressioni
“amministratore dell'iniquità” o “mammona dell'iniquità” o
“mammona iniquo”, in cui l'iniquità è tutto ciò che appartiene
a questo secolo e si contrappone a quello futuro della luce2.
Riflessioni conseguenti la parabola dell'amministratore di iniquità (vv.9-18)
Testo
a lettura facilitata
Il
buon uso dei beni terreni
(v.9)
9
– E io vi dico: procurate a (voi) stessi degli amici dal mammona
dell'iniquità, affinché, quando verrà meno, vi accolgano nelle
tende eterne.
Il
buono o cattivo uso dei beni terreni si riflette su quelli celesti
(vv.10-12)
10
– Il fedele nel minimo anche nel molto è fedele, e l'ingiusto nel
minimo anche nel molto è ingiusto.
11
– Se pertanto non siete stati fedeli nell'iniquo mammona, chi vi
affiderà il vero?
12
– E se non siete stati fedeli in (quello) altrui, chi vi darà il
vostro?
Necessità
di una scelta di campo (v.13-15)
13
– Nessun servo può servire a due padroni; infatti, o disprezzerà
l'uno e amerà l'altro; o si attaccherà ad uno e disprezzerà
l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona>>.
14
– Ora udivano tutte queste cose i Farisei, che sono avidi di denaro
e lo schernivano.
15
– E disse loro: <<Voi siete quelli che mostrano giusti se
stessi davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori; poiché
ciò che è elevato tra gli uomini è abominazione davanti a Dio.
I
tempi nuovi richiedono una nuova mentalità (vv.16-18)
16
– La Legge e i Profeti fino a Giovanni; da allora il regno di Dio è
annunciato e ognuno si sforza per esso.
17
- È più facile che il cielo e la terra passino che un'apice della
Legge cada.
18 – Ognuno che ripudia sua moglie e sposa un'altra
commette adulterio, e chi sposa una ripudiata dal marito commette
adulterio.
Note generali
Dopo
la breve quanto intensa parabola dell'amministratore accorto, seguono
ora una serie variegata di sentenze, detti ed esortazioni (vv.9-18),
che si muovono tutte su di uno sfondo sapienziale, finalizzate ad
approfondire il tema del buon uso dei beni terreni e dell'impegno in
questo mondo, quale luogo in cui si costruisce quello futuro.
L'accostamento dei vari detti non è casuale, ma segue una logica di
sviluppo riflessivo, che è uno sviluppo tematico, come si può
rilevare dalla stessa sezione del “Testo a lettura facilitata” e
in qualche modo ne costituisce una sorta, sia pur labile, struttura;
per cui si avrà:
Il buon uso dei beni terreni (v.1), dove viene suggerita la strada maestra per un costruttivo utilizzo di questi: l'elemosina, un tema questo molto caro a Luca;
Il buono o cattivo uso dei beni terreni si riflette su quelli celesti (vv.10-12), dove si sottolinea come la gestione dei beni terreni, in cui si riflette il proprio orientamento esistenziale, abbia una risonanza determinante per la vita futura;
Necessità di una scelta di campo (v.13-15) è la logica conseguenza che s'impone al credente, che di fronte al come gestire la propria vita e con essa i beni entro cui si muove, è chiamato a compiere la sua scelta a favore di Dio o delle cose;
I tempi nuovi richiedono una nuova mentalità (vv.16-18). La necessità di una scelta è richiesta più che mai con la venuta di Gesù, che ha inaugurato i tempi escatologici, che sono i tempi di Dio, quelli in cui si compie il giudizio divino, che grava su ogni propria singola scelta e, nel suo protrarsi nel tempo, sul proprio orientamento esistenziale.
Sono tematiche univoche, sorrette tutte da un comune denominatore: l'agire terreno nell'oggi ha una risonanza tale da determinare la propria vita futura. Oggi e domani, presente e futuro, terra e cielo, quindi, non sono dimensioni scollegate tra loro, ma la prima influenza e determina la seconda. In qualche modo la questione era stata lasciata filtrare dal v.8b, dove si ponevano a confronto tra loro l'operare dei “figli di questo secolo”, il loro impegno terreno con quello dei “figli della luce”, lasciando intendere come gli impegni in questo mondo e per cose effimere giocava tutto a favore dei primi, rispetto i secondi, il cui impegno in questo mondo a favore delle cose del cielo, invece, lasciava alquanto a desiderare.
Commento ai vv.9-18
Il
buon uso dei beni terreni
(v.9)
Il v.9 si apre redazionalmente con l'espressione “E io vi dico”, che se, da un lato, con quel “Kaˆ” (Kaì, e) iniziale tende a creare una sorta di continuità narrativa e ematica con i versetti precedenti, dall'altro, crea nel contempo uno stacco, avvertendo il lettore che sta per iniziare un'altra sezione narrativa, la cui funzione sarà quella di sviluppare una riflessione e un approfondimento sull'uso dei beni materiali e sulle sue conseguenze.
Mutuato dal v.4 e poi parafrasato, il sollecito che segue, quello di procurarsi “degli amici dal mammona dell'iniquità, affinché, quando verrà meno, vi accolgano nelle tende eterne” lascia alquanto perplessi a motivo di un linguaggio un po' oscuro ed equivoco. Che cos'è il mammona dell'iniquità da cui trarre degli amici, che abbiano la capacità tale da accogliere nelle tende eterne? Quale legame c'è tra questo mammona dell'iniquità e le tende eterne in cui si verrà accolti? E quel “quando verrà meno” a cosa allude? E, infine, chi sono questi amici acquistabili con il mammona dell'iniquità?
Il termine “mamwn©j” (mamonâs, mammona) ricorre in tutta la Bibbia soltanto quattro volte: una in Mt 6,24, che ha il suo parallelo in Lc 16,13, e altre tre volte in Lc 16,9.11.13. Si tratta di una trascrizione dall'aramaico “ māmōnā' ” ed ha un significato simile a quello di “patrimonio”. Il corrispondente babilonese “mimma”, significa “qualunque cosa”. Quindi il termine mammona non indica soltanto il denaro accumulato, ma anche la proprietà3. Noi diremmo “beni mobiliari e immobiliari”. Tutto questo è mammona, che qui viene definito “dell'iniquità”, cioè che appartiene a questo mondo corrotto dal peccato4. Non è pensabile, infatti, che il Gesù lucano qui solleciti a procurarsi degli amici trafficando illegalmente e in modo immorale, cercando di creare delle associazioni a delinquere. L'espressione, quindi, “mammona dell'iniquità” va inteso come “beni terreni; beni di questo mondo”. Il suggerimento, che qui viene offerto da Luca al suo lettore, è quello di procurarsi degli amici con questi beni materiali. L'unico modo per procurarsi questi amici con i “beni materiali” che si possiede è elargirli loro. In altri termini, spogliarsi dei propri beni materiali dandoli in elemosina a chi ne ha bisogno. Un tema, quello dell'elemosina, intesa come la spogliazione dei propri beni materiali a favore dell'altro, molto caro a Luca e sul quale modula lo stile di vita della stessa chiesa primitiva5.
Queste persone beneficate sono definite “amici”,
cioè persone che si relazionano a te con una relazione benefica,
quale è l'amicizia, che in questo contesto non va intesa in senso
umano, nel quale caso il benefattore ne trarrebbe dei vantaggi
personali, legando a sé il beneficato, ma nel senso che il beneficio
da loro ricevuto ha come conseguenza benefica quella di accoglierti
nelle “tende eterne”. In tal senso queste persone beneficate
diventano per te “amici”. Il verbo usato “vi accolgono” non
sta ad indicare che questi amici hanno dei poteri soprannaturali tali
da poter decretare per te la salvezza eterna. Ma quel “vi
accolgano” significa che è l'elemosina loro elargita che procura
il beneficio dell'eternità divina, qui definita con “tende
eterne”6,
equivalente a “dimore eterne”. In altri termini, lo spogliarsi
dei propri beni a favore degli altri ha una risonanza positiva nei
cieli, dove si sta costruendo, proprio attraverso questi gesti di
amore, la propria dimora eterna, nella quale si sarà accolti “quando
verrà meno” il mammona dell'iniquità, ossia quando non sarà più
possibile usare dei beni di questo mondo, perché il cammino della
propria vita ha varcato le soglie dell'eternità, dove i beni terreni
non hanno più alcun valore, se non quello spirituale prodotto dal
loro buon uso, che Luca vede nell'elemosina.
Il
buono o cattivo uso dei beni terreni si riflette su quelli celesti
(vv.10-12)
Dopo l'elogio all'amministratore accorto (v.8a) e l'esortazione ad utilizzare in modo proficuo i beni della terra così da arricchire la propria dimora eterna, che viene costruita, giorno dopo giorno, nel proprio oggi terreno (v.9), segue ora una breve riflessione sull'importanza della buona gestione dei beni terreni al fine di acquisire quelli eterni (vv.10-12). La riflessione è composta da due passaggi: un'affermazione di principio (v.10), fatta seguire da due esemplificazioni sostanzialmente identiche e poste sotto forma di domanda retorica (vv.11-12), che contiene già in se stessa la risposta, indirizzando in tal modo il lettore.
Il v.10 delinea due contrapposti comportamenti, creando un effetto di chiaroscuri per meglio mettere in rilievo il contenuto del principio, caratteristico questo della retorica ebraica. L'effetto del contrasto si gioca sulla contrapposizione di due aggettivi sostantivati: fedele (v.10a) e ingiusto (v.10b). I due aggettivi sono sostanzialmente dei sinonimi, poiché ciò che è fedele si conforma alle regole del gioco e per questo si muove nell'ambito di ciò che è giusto7; mentre ciò che è ingiusto è di fatto infedele a tali regole. Un'infedeltà che, tuttavia, contiene in se stessa un'aggravante, quella dell'iniquità, poiché il giocare fuori dalle regole inscritte nel gioco stesso è produttore di male, poiché porta al fallimento del gioco a danno di se stessi e degli altri
La fedeltà e l'ingiustizia si giocano all'interno di due campi che rappresentano due diverse dimensioni: il minimo e il molto. Il primo riguarda i beni terreni; il secondo quelli eterni. Questa affermazione di principio è estremamente importante perché di fatto crea una stretta e inscindibile connessione tra i beni terreni e quelli eterni; o per meglio dire l'uso che si fa dei beni terreni ha una inevitabile risonanza su quelli eterni. Come dire che la nostra salvezza o la nostra dannazione ce la giochiamo qui e ora. Dopo, al di là dello spazio e del tempo, dove non esiste più il divenire, strettamente legato alle due dimensioni spazio-temporali, saremo totalmente, pienamente e definitivamente ciò siamo stati qui: fedeli o ingiusti.
I successivi vv.11-12 sono una stretta applicazione dell'importante principio enunciato al precedente v.10. In entrambi si parla di un comportamento esistenziale infedele che riguarda due modi diversi di concepire lo stesso identico mammona, colto da due prospettive diverse: quella dell'iniquo mammona, cioè dei beni terreni, che si contrappone al “mammona” vero, cioè i beni eterni. Il secondo riguarda sempre il mammona, che qui non è più definito “dell'iniquità”, ma assume una sfumatura diversa e molto significativa: mammona “altrui”. Non si tratta di una gestione di beni che appartengo ad altri e quindi di una gestione conto terzi, ma è sempre lo stesso “mammona dell'iniquità”, che è stato affidato al credente, ma che qui l'autore sottolinea come tale mammona dell'iniquità, benché gestito dallo stesso credente, non gli appartiene. In altri termini i beni terreni sono, per la natura stessa dei credenti, che vivono sulla terra, pensando al cielo, estranei a loro. Il “chi vi darà il vostro” va inteso come il vostro vero mammona che è quello dei cieli. È la stessa catechesi che l'autore della lettera ai Colossesi imparte alla sua comunità: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio; pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra” (Col 3,1-2). E similmente, l'anonimo autore della lettera a Diogneto, scritto del II sec. d.C., parlando del mistero cristiano, attesta significativamente che i cristiani “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo” (Diogneto 5,8-9).
Pertanto, l'atteggiamento di fedeltà o di ingiustizia
che il credente sviluppa nel corso della sua vita nei confronti dei
beni terreni, ai quali egli deve ritenersi estraneo perché altre
sono le sue mete e altri i suoi veri beni, sarà determinante per
l'acquisizione o la perdita di tali beni ultimi.
Necessità di una scelta di campo (v.13-15)
La conseguenza del principio enunciato al v.10 comporta necessariamente una presa di posizione nei confronti dei beni terreni da parte del credente a tutto favore di quelli eterni, la cui acquisibilità, tuttavia, si gioca, qui e ora, in questa dimensione spazio-temporale ed ha come campo di gioco gli stessi beni di questo mondo. Anche questa breve pericope (vv.13-15) inizia con un'altra affermazione di principio (v.13), che va a completare quella del v.10. Seguiranno i vv.14-15, che sono una sorta di esemplificazione applicativa del principio, che ha come soggetti i Farisei (v.14), che vengono smascherati nel loro doppio giochismo da Gesù (v.15). Lo schema narrativo, pertanto, riprende e ripete quello precedente della pericope vv.10-12.
Il v.13, di fonte Q e che ritroviamo identico anche in Mt 6,248, si sviluppa come una sorta di sillogismo, che da un principio universale giunge all'applicazione particolare, ed è scandito in tre parti tra loro concatenate: a) vi è un'affermazione generica, di tipo universale: “Nessun servo può servire a due padroni”; b) ne segue la motivazione: “infatti, o disprezzerà l'uno e amerà l'altro; o si attaccherà ad uno e disprezzerà l'altro”; c) ed infine vi è l'applicazione specifica o conclusione: “Non potete servire a Dio e a mammona”.
Se le due enunciazioni in a) e in c) sono di chiara e immediata comprensione, più interessante risulta essere la motivazione posta in b), composta in modo speculare, secondo i parametri della retorica ebraica, che nella seconda parte riprende, rimodulandola similmente, la prima. I due verbi centrali, amare e attaccarsi, sono tra loro complementari poiché il primo (“¢gap»sei”, agapésai, amerà) indica un atteggiamento profondo, che coinvolge la persona nella sua interezza; il secondo (¢nqšxetai, antzéxetai, si attaccherà) specifica la durata e la consistenza di questo atteggiamento. Il verbo greco, infatti, oltre che attaccarsi a qualcuno, dice “stare saldo, persistere, tener fermo”, delineando in tal modo un persistente orientamento di vita verso l'uno o l'altro dei padroni. Quanto ai due verbi laterali, “disprezzare”, sono espressi in greco con due diversi verbi che hanno lo stesso significato, ma con sfumature diverse: “mis»sei” (misései), che significa odiare, detestare, disprezzare e si contrappone come intensità e profondità di sentimenti ad “agapésai, amerà”; e “katafron»sei” (katafronései), che significa letteralmente “non tenere in nessun conto, stimare o ritenere vile” e, quindi, disprezzare. Il senso, qui, rispetto al primo verbo (misései) è meno intenso e si accoppia bene con “antzéxetai” che definisce la consistenza dell'attaccamento a qualcosa o a qualcuno. Quindi la prima parte dell'espressione posta in b) esprime maggiore visceralità e sentimenti molto intensi e profondi, che dicono quanto sia coinvolta la persona; mentre la seconda parte esprime la consistenza, la durevolezza di questi sentimenti, delineandone la scelta di fondo o orientamento esistenziale. Una scelta, quindi, che si pone come univoca ed esclusiva; una scelta che non ammette tentennamenti e soprattutto l'impossibilità di stare con un piede su due staffe: “Non potete servire a Dio e a mammona”. Due realtà tra loro irriducibili l'una all'altra e incompatibili tra loro.
Dopo l'enunciazione di questo principio di univocità nella scelta di campo, senza tentennamenti e senza compromessi; senza “se” e senza “ma”, rendendo in tal modo inammissibile la possibilità di un patteggiamento morale, i vv.14-15 riportano, invece, come questo compromesso sia stato attuato tra i Farisei, definiti come “avidi di denaro”, i quali, sentitisi colpiti direttamente, “schernivano Gesù”. Il verbo “™xemukt»rizon” (exemiktérizon, schernivano) ricorre in tutto il N.T. due volte soltanto in Luca: qui e in 23,35b dove, nel contesto della passione, sul Golgota, ai piedi della croce “lo schernivano anche i capi (del popolo)”. Il verbo “exemiktérizon” che qui compare non può essere, pertanto, casuale, ma in quel “lo schernivano” Luca ha inteso legare lo scherno dei Farisei a quello della passione e morte di Gesù, che con questo verbo l'ha qui espressamente richiamata. Del resto non va mai dimenticato che quanto qui sta accadendo avviene all'interno del viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28). Luca, pertanto, non perde occasione per ricordarlo.
Il
v.15 costituisce un richiamo che Luca, nell'ambito della sua lunga
catechesi iniziata con il viaggio verso Gerusalemme, rivolge, alla
stregua dei Farisei, anche a tutti quei credenti, che qualificatisi
come discepoli di Gesù, tuttavia conducono una vita di compromesso
con i beni terreni, facendo convivere in se stessi la scelta a favore
di Gesù con il loro attaccamento al denaro e alle proprietà. Vi è
in tutto ciò una grave forma di ipocrisia e di inganno sia con se
stessi che con la comunità credente. Un comportamento grave, sul
quale il Gesù lucano ha posto la sua sentenza di condanna,
definendolo un abominio davanti a Dio.
I
tempi nuovi richiedono una nuova mentalità
(vv.16-18)
I vv.16-18 riportano le ultime tre sentenze di questa sezione riguardante l'uso dei beni terreni (vv.8b-18) e costituiscono la motivazione fondamentale su cui poggia l'intera sezione. In altri termini, perché si rende necessario gestire questi beni terreni con accortezza, che Luca vede nel donarli in elemosina (v.9)? Perché la posizione che il credente assume nei confronti di questi beni, positiva o negativa che sia, ha un'incidenza rilevante e determinante per i beni eterni? Perché vi è una idiosincrasia tra beni materiali e spirituali? Perché le due dimensioni non possono convivere con qualche accortezza e con qualche compromesso? Saranno proprio questi tre versetti a rispondere a tutti questi interrogativi e a tutti quelli a loro correlati.
I tre versetti, di fonte Q, che Luca condivide, seppur in un contesto diverso, con Mt 5,18.32; 11,12-13, e rielaborati a modo proprio per adattarli alle proprie esigenze narrative e teologiche, danno l'idea di una disordinata giustapposizione, priva di ogni logica e tale da non comprendere quale relazione possano avere con l'intera sezione (vv.8b-18).
Per poter comprendere gli intenti dell'autore è necessario comprendere il v.16, che scandisce i tempi della salvezza in due parti, in cui Giovanni costituisce lo spartiacque: Legge e Profeti, dove predominava la logica mosaica, che acconsentiva anche il divorzio (Mt 19,8; Mc10,5); ma da Giovanni in poi è accaduto un evento straordinario e tale da cambiare radicalmente le cose: l'annuncio del Regno di Dio o in altri termini l'annuncio che Dio, nella persona di Gesù, è ritornato in mezzo agli uomini per riprendersi ciò che gli è sempre appartenuto fin dall'eternità e ancor prima della creazione (Ef 1,4). Annuncio che significa rivelazione di questo progetto divino, che si è attuato in Gesù morto-risorto. Non si tratta soltanto di parole, ma di un evento storico di fronte al quale l'uomo è chiamato a prendere posizione, ma sopratutto è chiamato a cambiare mentalità e modo di approcciare se stesso e gli altri; è chiamato a rileggere e a ricomprendere se stesso, la creazione, la storia, poiché questo evento ha cambiato profondamente tutto e tutto non è più come prima. Da qui l'appello: “e ognuno si sforza per esso”. Ci si trova di fronte ad una realtà che richiede un profondo e radicale rinnovamento interiore e una nuova comprensione delle cose, poiché siamo entrati nei tempi dello Spirito (Rm 8,5-14), nei tempi escatologici, quelli del giudizio divino che si è attuato e si sta attuando nella persona stessa di Gesù. Paolo, rivolgendosi alla comunità di Roma, la esorta: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2).
Questo
nuovo evento, che chiede un profondo e radicale cambiamento nel
proprio modo di vivere, di pensare e di essere, tuttavia, non ha
cancellato il passato, ciò che c'era stato fino a Giovanni, che
comunque fa parte integrante della rivelazione e del progetto
salvifico che Dio stava e sta attuando nella storia; un passato,
quello veterotestamentario, che era preparatorio e in funzione del
nuovo evento Gesù. La sua venuta, pertanto, pur costituendo un punto
determinante di svolta storica e spirituale per l'intera umanità,
non ha rinnegato gli eventi del passato, ma ne ha dato pieno
compimento, realizzando in se stesso tutte le promesse (Mt 5,17) e
creando una continuità evolutiva nel progetto di salvezza, iniziato
ancor prima della creazione (Ef 1,4). Da qui la categorica sentenza
del v.17: “È più facile che il cielo e la terra passino che
un'apice della Legge cada”, con cui viene affermata la validità
fondamentale dell'A.T. poiché con esso ha avuto inizio il progetto
salvifico di Dio, ma che comunque abbisogna ora di essere riletto e
ricompreso alla luce del nuovo evento Gesù. Mt 5,20-48 ne dà un
esempio significativo reinterpretando la Torah alla luce di tale
evento ed è ciò che fa parimenti anche Luca al v.18, in cui viene
reinterpretata la legge mosaica sul divorzio, sottolineando
l'inscindibilità del matrimonio, evidenziandone in tal modo la
sacralità: “Ognuno
che ripudia sua moglie e sposa un'altra commette adulterio, e chi
sposa una ripudiata dal marito commette adulterio”.
La parabola dell'uomo ricco e del povero Lazzaro (vv.19-31)
Testo a lettura facilitata
La
presentazione dei due personaggi e del loro modo di vivere
(vv.19-21)
19
– Ora c'era un uomo ricco, ed era vestito di porpora e di bisso,
divertendosi ogni giorno in modo magnificente.
20
– Ora, un povero, di nome Lazzaro, si metteva presso il suo
ingresso coperto di piaghe,
21
– e desiderando di essere saziato da ciò che cadeva dalla tavola
del ricco; ma anche i cani, venendo, leccavano le sue piaghe.
La
morte dei due, evento che cambia radicalmente il loro modo di vivere
(v.22)
22
– Avvenne che il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di
Abramo. Ma morì anche il ricco e fu sepolto.
La
vita oltre la vita: due contrapposte dimensioni, quella del bene e
quella del male (vv.23-26)
23
– E nell'Ade, alzati i suoi occhi, essendo nei tormenti, vede da
lontano Abramo e Lazzaro nel suo seno.
24
– Ed egli, gridando, disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e
manda Lazzaro affinché intinga la punta del suo dito nell'acqua
affinché rinfreschi la mia lingua, poiché sono afflitto in questa
fiamma”.
25
– Ma disse Abramo: “Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi
beni nella tua vita, e Lazzaro, similmente, i mali; ma adesso (egli)
qui è consolato, tu, invece, sei afflitto.
26
– E in tutto questo, nel framezzo tra noi e voi è stato fissato un
grande baratro, così che quelli che vogliono passare da qui a voi
non possono, né traversino da lì verso di noi”.
Le
Scritture, guida sicura alla salvezza (vv.27-31)
27
– Ma disse: “Ti prego, dunque, padre, affinché lo mandi nella
casa di mio padre,
28
– ho infatti cinque fratelli, di modo che li avvisi, affinché
anche loro non vengano in questo luogo di tormento”.
29
– Ma Abramo dice: “Hanno Mosè e i Profeti; li ascoltino”.
30
– Ma questi disse: “No, padre Abramo, ma qualora qualcuno dai
morti andasse da loro, si pentirebbero”.
31
– Ma gli disse: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se
qualcuno dai morti risorgesse si lasceranno persuadere”>>.
Note
generali
Il cap.16 si apre con il racconto dell'amministratore accorto, che opera qui nel presente nella prospettiva del suo futuro e nella coscienza che il successo di quest'ultimo dipenderà unicamente dall'abilità con cui egli saprà gestire il suo presente. Il futuro che lo attende, pertanto, determina su questo amministratore accorto, un efficace quanto benefico condizionamento del suo presente. Si tratta, dunque, di un modo di vivere escatologico, dove le realtà future influenzano le scelte nel proprio presente.
Ora, lo stesso capitolo si chiude con un'altra parabola, di creazione lucana come la precedente, ma opposta ad essa, dove viene presentato un modo immanentistico di vivere, privo di ogni visione futura, quella del ricco e il povero Lazzaro. Vengono qui presi in esame due aspetti importanti del vivere in questa dimensione spazio-temporale: da un lato, una cattiva e dispendiosa gestione dei beni, finalizzati a se stessi, ignorando le esigenze dei meno fortunati; dall'altro, la rilevanza che qui assumono le Scritture, quali guida necessaria e sicura per una corretta gestione dei beni terreni in rapporto a se stessi e agli altri. Sommando l'insegnamento delle due parabola si potrebbe dire che l'operare in questa dimensione spazio-temporale deve essere attento, accorto, impegnato, senza distrazioni, gestendo in modo proficuo le proprie risorse terrene, tenendo presente i propri destini futuri, verso i quali si è ineluttabilmente incamminati, nella coscienza che il proprio futuro si costruisce qui e ora, lasciandosi guidare dalle Scritture, che devono costituire il punto di riferimento sicuro per operare in conformità alle esigenze di Dio.
Il racconto del ricco e del povero Lazzaro è costruito attraverso vivaci immagini popolari e si muove su di uno sfondo sapienziale. Si tratta in buona sostanza di una sorta di riflessione retrospettiva sul modo con cui si è condotta la propria vita e come questo abbia avuto delle ripercussioni sul proprio futuro, qui raffigurato nell'aldilà. Ci troviamo di fronte ad una sorta di drammatizzazione di Lc 6,20b-21a.24-25a, che contrappone tra loro due categorie di persone: i poveri, che sono proclamati beati e li si fa eredi del Regno di Dio, dove ogni loro penuria verrà colmata; e i ricchi, che qui sulla terra sono stati ampiamente saziati di beni, ma che saranno destinati a soffrirne la penuria. Vi è, dunque, un rovesciamento di sorti, che costituisce il leitmotiv della riflessione sapienziale, che riscontriamo nel cantico del Magnificat dove Jhwh ha abbassato i potenti dai troni ed innalzato i miseri e parimenti ha riempito di cose buone gli affamati e quelli che sono ricchi li ha mandati via spogli (1,52-53); e così 1Sam 2,4-7, che fa da sfondo al Magnificat, celebra la benevolenza di Jhwh verso i poveri: “L'arco dei forti s'è spezzato, ma i deboli sono rivestiti di vigore. I sazi sono andati a giornata per un pane, mentre gli affamati han cessato di faticare. La sterile ha partorito sette volte e la ricca di figli è sfiorita. Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire. Il Signore rende povero e arricchisce, abbassa ed esalta”9. E similmente nella parabola dei due uomini che salgono al tempio dove l'umile pubblicano viene giustificato, diversamente dal fariseo, che ritenendosi giusto e non bisognoso di perdono, se ne va non assolto (18,10-14). E il racconto conclude in modo sentenziale: “Poiché ognuno che esalta se stesso sarà umiliato, ma chi umilia se stesso sarà esaltato” (18,14b).
La parabola viene introdotta senza alcuna premessa redazionale, comparendo quasi all'improvviso nello svolgersi del cap.16. Essa dipende, come l'intero cap.16, da quel iniziale “Ora diceva anche verso i discepoli” (v.1a). Segno questo che la parabola fa parte di un unico insegnamento e ne costituisce lo sviluppo conclusivo. Il racconto si struttura su tre aree: la prima, vv.19-21, presenta i due personaggi e il loro contrapposto e dissonante modo di vivere; la seconda, vv.23-26, preannunciata dal v.22 di transizione, colloca il lettore in un ipotetico e fantasioso aldilà dove si svolge un serrato dialogo tra il ricco ed Abramo e descrive la nuova e rovesciata condizione di vita in cui Lazzaro e il ricco vengono a trovarsi; la terza, vv.27-31, riguarda, al di là dell'inefficace miracolismo e dell'inutile sensazionalismo, la centralità delle Scritture nell'illuminare e guidare la propria vita.
Benché
la parabola presenti la vita oltre la vita, la quale cosa potrebbe
impressionare, tuttavia il suo intento è tutt'altro e certamente non
è quello di creare degli spaccati attraverso i quali sbirciare
nell'aldilà, la cui drammatizzazione è pura invenzione lucana. Del
resto il tema dell'aldilà, che qui Luca propone con queste
immagini, tratte dalla vivace fantasia popolare, non è nuovo e
compare già 10“in
alcuni testi apocalittici anteriori all'era cristiani o
immediatamente successivi. Due distinte dimore sono assegnate ai
giusti e agli empi in attesa della risurrezione per il giudizio
finale11.
Però in queste dimore distinte essi possono ancora comunicare,
perché sono poste l'una di fronte all'altra. <<Allora apparirà
la fossa grande di tormenti e di fronte ad essa il luogo del
refrigerio; la fornace infernale e sarà visibile di fronte ad essa
il paradiso delle delizie>>12.
La visione della felicità dei giusti è un supplemento della pena
dei peccatori13,
che consiste nella sete e nell'angustia grande14,
mentre il soggiorno dei giusti è rallegrato da correnti d'acqua15”.
Commento
ai vv.19-31
La
presentazione dei due personaggi e del loro modo di vivere
(vv.19-21)
Il quadro che qui l'autore presenta è quello caratteristico del mondo antico greco-romano, dove i ricchi vivevano nel lusso e nelle mollezze della vita accanto ad un mondo fatto di poveri ed oppressi. Quel mondo che i profeti hanno condannato16 e che ancora prima era stato stigmatizzato come iniquo e ingiusto dalla Torah17.
Similmente al racconto dell'amministratore accorto, anche questa parabola inizia con un tocco narrativo avvincente: “C'era un uomo ricco”. Un'espressione questa caratteristica di Luca con cui inizia i suoi racconti e che compare nelle sue narrazioni ben otto volte: “”Anqrwpoj tij”18 (Antzropos tis). Un uomo questo, che a differenza del povero, non è definito dal suo nome, la quale cosa lo priva di una sua personale identità, ma lo presenta fin da subito come una persona avvolta nel suo anonimato e destinata all'oblio, che è la peggiore condanna per un uomo e che caratterizza il regno dei morti19. Per contro, questo uomo è definito soltanto dal suo stato di vita: ricco, vestito di porpora e bisso20, si diverte ogni giorno in modo magnificente. Uno stato di vita formato da cose effimere, sulle quali ha fondato la sua vita e alle quali la sta dedicando e oltre le quali non va, subendo il destino della loro ineluttabile deperibilità. Di lui, infatti, si dice soltanto che viene sepolto, a differenza di Lazzaro, che invece, viene elevato dagli Angeli. Un uomo, quindi, che vive in modo immanentistico senza alcuna prospettiva futura, sciupando il suo tempo e le opportunità che questo gli offre in evanescenti frivolezze, spese unicamente a sua soddisfazione.
Giustapposto
a questo personaggio, che viveva nello sfarzo e nelle mollezze della
vita, Luca ne presenta ora un altro, diametralmente opposto al primo,
anzi appartenente ad un'altra dimensione. All'uomo ricco si
contrappone ora quello povero, agli abiti di porpora e bisso, che
ricoprono finemente e delicatamente il corpo del ricco, si
contrappongono le piaghe che invece rivestono quello del povero; al
banchettare sfarzoso e magnificente del ricco si contrappone soltanto
il desiderio del povero di potersi sfamare con qualche avanzo di
questo banchetto, mentre i cani con la loro ruvida lingua
tormentavano il suo corpo piagato. Ma a diversità del ricco, avvolto
nel suo anonimato e destinato all'oblio dell'Ade, questo povero ha un
suo nome, che lo qualifica e lo identifica, dandone consistenza,
poiché il nome nell'antichità esprimeva e definiva l'essenza della
persona stessa che lo portava e ne circoscriveva la vita: Lazzaro21.
La
morte dei due, evento che cambia radicalmente il loro modo di vivere
(v.22)
Il v.22, caratterizzato da due movimenti contrapposti, ascendente per Lazzaro e discendente per il ricco, potremmo considerarlo come di transizione sia perché, chiudendo la prima parte del racconto (vv.19-21), transita il lettore nella seconda parte (vv.23-26); sia perché, nel contempo, funge da spartiacque tra due mondi tra loro incomunicanti: quello terreno e quello ultraterreno. In tale contesto la morte costituisce questo passaggio obbligato dal “di qui” al “di là”. È una sorta di porta di transizione e nel contempo di spogliazione e di liberazione di tutto ciò che è materialità, consentendo in tal modo di superare quella barriera spazio-temporale che tiene separate tra loro due contrapposte dimensioni22. Rm 14,17, infatti, ammonisce che “Il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”, dove le realtà materiali non hanno titolo alcuno. Ma nel contempo, si è detto che la morte è anche liberazione da una materialità decaduta e corrotta, consentendo l'entrata in un mondo di perfezione, di cui l'Apocalisse, parlando per immagini, lascia tralucere alcuni aspetti significativi: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro>>. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,3-4). Un mondo dove “Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada, né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà e regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5).
Se il morire accomuna i due personaggi di questa parabola, diverse sono le modalità con cui avviene il passaggio: Lazzaro “fu portato dagli angeli nel seno di Abramo”; mentre il ricco fu soltanto sepolto. In realtà non ci fu per quest'ultimo una vera e propria transizione, ma semplicemente una sepoltura; venne associato, in attesa della sua più completa assimilazione, a quella terra per la quale egli aveva speso la sua vita. Ben diversa fu la sorte per Lazzaro, che venne accompagnato nel seno di Abramo dagli Angeli. Una sorta di apoteosi sottolineata da due elementi: dagli Angeli traghettatori e dal seno di Abramo. Quanto ai primi, costituiscono una novità all'interno della letteratura biblica, che ritroviamo significativamente solo qui in Luca e che richiamano da vicino il Caronte della mitologia greca, il traghettatore delle anime dei morti, che accompagnava nel loro nuovo mondo e ultima dimora, attraversando il fiume Stige, che segnava il confine tra i due mondi. Non va esclusa questa ipotesi, poiché Luca era un greco di elevata cultura e questi racconti mitologici, molto diffusi anche tra la gente, non gli dovevano essere sconosciuti. Dante ne costruirà un'immagine negativa, un demonio. Ma il nome stesso di Caronte non ha un'accezione negativa, ma significa “dagli occhi di fuoco”. Dante lo definirà “con occhi di bragia”23. In realtà, il nome Caronte assume anche il significato di “splendente, lucente, luminoso”24. È probabile, pertanto, che Luca abbia pescato dalle sue riminiscenze mitologiche e della propria cultura questa immagine, battezzandola secondo le logiche della nuova fede, prospettando al suo pubblico greco-ellenista una diversa immagine dell'aldilà, non più popolata da mostruose creature, ma da un Dio benevolo e dalla sua corte angelica; mentre per il ricco, questo veramente dannato, lo associa soltanto alla terra, facendolo un tutt'uno con essa.
Il
Secondo elemento riguarda la destinazione di Lazzaro “nel seno di
Abramo”, l'uomo primo depositario della promessa, ricolmato di ogni
benedizione divina e per la sua fede e la sua obbedienza, quale segno
di fecondità divina, padre di un popolo numeroso come le stelle del
cielo e la sabbia del mare. Il seno di Abramo, pertanto, diviene
l'immagine di un luogo sicuro, avvolto e permeato da Dio stesso, che
in quel Abramo ha riposto proficuamente la sua fiducia impiantando
con successo, qui in questa dimensione spazio-temporale, il suo
progetto di salvezza, dando l'avvio alla storia della salvezza.
Lazzaro, dunque, traghettato dagli Angeli entrerà a far parte di
questo mondo, che non ci viene descritto, ma è lasciato soltanto
intuire. Del resto non era intenzione di Luca descrivere l'aldilà,
ma semplicemente costruire, attraverso delle immagini popolari, un
contesto di riflessione sui destini della vita futura, che vengono
giocati qui sulla terra.
La vita oltre la vita: due contrapposte dimensioni, quella del bene e quella del male (vv.23-26)
La pericope circoscritta dai vv.23-26 si apre con una nota topografica, che funge da cornice entro la quale viene collocata la scena del dialogo tra Abramo e il ricco: l'Ade, il regno dei morti per il mondo greco-ellenistico, a cui Luca si sta rivolgendo e che difficilmente avrebbe compreso il corrispondente termine ebraico “Sheol”. Si tratta, comunque, del mondo dei morti, un mondo sotterraneo, posto in un luogo imprecisato e irraggiungibile dall'uomo, dove sono stipate le anime che vivono in uno stato larvale e la cui consistenza è quella di un'ombra, avvolte dall'oblio e dall'oscurità delle tenebre, che toglie loro ogni speranza e dove non è più possibile rendere lode a Dio. Significativa è la preghiera struggente di un ammalato grave, che si rivolge a Dio per la sua guarigione: “Compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre a darti lode? Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi? Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi prodigi, la tua giustizia nel paese dell'oblio?” (Sal 8,11-13). E similmente Ezechia, re di Giuda, giunto alla fine della sua vita per una grave malattia (Is 38,1), si rivolge a Jhwh invocando la sua guarigione: “Poiché non gli inferi ti lodano, né la morte ti canta inni; quanti scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà” (Is 38,18).
L'Ade, pertanto, come il suo corrispondente ebraico Sheol, non va inteso in senso negativo come un luogo di dannazione eterna, ma soltanto come una sorta di magazzino, di deposito in cui vengono raccolte e stipate le anime in attesa del giudizio finale. Sia Abramo, che Lazzaro e il ricco ne fanno parte, in quanto non più esseri viventi. Ma già nella letteratura giudaica intertestamentaria, benché il luogo sia unico per tutti, si prospetta una divisione tra buoni e cattivi, tra giusti e ingiusti, una sorta di anticipazione di ciò che sarà il giudizio finale25. Ed è ciò che attesta il v.26: “E in tutto questo, nel framezzo tra noi e voi è stato fissato un grande baratro, così che quelli che vogliono passare da qui a voi non possono, né traversino da lì verso di noi”. Un baratro, il quale più che una demarcazione fisica, definisce una sorta di barriera invalicabile, che separa i giusti dagli ingiusti e che, in qualche modo, rappresenta il giudizio divino, che già grava su queste ombre. Il verbo “™st»riktai” (estériktai, è stato fissato), infatti, è posto al piuccheperfetto, un tempo verbale greco che indica uno stato presente (il baratro) quale conseguenza di un'azione passata (il giudizio). E quanto sia invalicabile questo baratro lo dice il verbo stesso, che significa letteralmente “fissare saldamente”.
All'interno
dei vv.23, che presenta i tre personaggi, e il v.26, che dice la
distanza insuperabile che intercorre tra loro, si colloca il dialogo
tra il ricco ed Abramo, che qui sembra fungere da guardiano del regno
degli spiriti beati, filtrando ogni rapporto tra il suo mondo e
quello di sofferenza del ricco, evidenziando una volta di più questa
impossibilità di comunicazione tra le due dimensioni.
Le Scritture, guida sicura alla salvezza (vv.27-31)
Questa ultima pericope con cui si chiude il racconto è certamente la più interessante da un punto di vista catechetico, poiché presenta una fede fondata non sul miracolismo sensazionalistico, bensì sulle Scritture, la roccia salda su cui fondare la casa della propria vita (Mt 7,24-27).
Similmente al v.22, che costituiva una transizione dal mondo terreno a quello ultraterreno, il v.27 funge a sua volta da transizione, che potremmo definire inversa: dal mondo ultraterreno a quello terreno, e riporta la seconda richiesta del ricco ad Abramo a favore, questa volta, dei propri fratelli, che parimenti a lui, se la stavano spassando allegramente, dissipando il proprio tempo e i propri averi in evanescenti vacuità. L'intento era quello di evitare loro la sua stessa triste sorte di sofferenza.
La tecnica lucana per mettere in rilievo l'importanza delle Scritture sul miracolistico è quella della doppia richiesta da parte del ricco a favore dei fratelli, e del doppio rifiuto da parte di Abramo, che per due volte richiama l'attenzione sulle Scritture, quale guida sicura per la propria vita.
N O T E
1Il bat corrisponde a un decimo di kor, che equivale ad un homer. Quali siano le misure esatte corrispondenti al nostro sistema è estremamente difficile determinarlo e comunque si viaggia sempre nell'ambito dell'ipotetico. Tuttavia, possiamo quantificare molto approssimativamente che un kor dovesse valere circa 450 lt e quindi i 100 kor di grano dovevano essere all'incirca 45.000 lt; mentre i 100 bat di olio, valendo un decimo di kor, dovevano corrispondere a circa 4.500 litri, vale a dire 45 ettolitri. - Sulla questione delle misure nell'antichità greca ed ebraica cfr. R. De Vaux Le istituzioni dell'Antico Testamento, Casa editrice Marietti, Genova, III edizione 1977 e ristampa 2002, pagg.202-215. - Voce “Pesi e Misure” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.
2L'espressione “amministratore dell'iniquità” (v.8a) compare simile in “mammona dell'iniquità” (v.9a) e in “iniquo mammona” (v.11). L'insistenza sul tema dell'iniquità di cui fanno parte sia l'amministratore che mammona, cioè la ricchezza in senso generale, se da un lato può essere inteso come “amministratore iniquo” o “ricchezza iniqua”, che è frutto di iniquità o che spinge ad agire iniquamente, non va escluso, a mio avviso, come questa “iniquità” si possa riferire a realtà che appartengono a “questo secolo” (v.8b) in contrapposizione a realtà che invece appartengono alla “luce” (v.8b). Pertanto, le espressioni “amministratore dell'iniquità” e “mammona dell'iniquità” possono essere letti come “amministratore delle cose di questo mondo” e “mammona di questo mondo” in contrapposizione a quello futuro. Una simile lettura può essere consentita dalla contrapposizione escatologica ed apocalittica che Luca stesso pone tra i figli “di questo secolo” e quelli “della luce”. Del resto tutte le sentenze che seguono (vv.9-13) sono una continua contrapposizione tra le cose di poco conto, con riferimento a queste terrene, e quelle, invece, di grande valore, con riferimento a quelle spirituali. Così che anche “l'iniquo mammona” viene contrapposto a quello vero (v.11).
3Cfr. la voce “Mammona” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; nuova edizione rivista e integrata 2005.
4Sulla questione, cfr. nota 2 del presente studio.
5Cfr. Lc 11,41; 12,33; At 2,45; 4,32; 5,1-11.
6L'espressione “tende eterne” è un'immagine tutta lucana che ricorre soltanto qui in tutta la letteratura sia vetero che neotestamentaria. Forse Luca ha mutuato l'immagine dalla Tenda, la dimora di Jhwh, durante il cammino di Israele nel deserto (Es 40,34). Da qui il termine “tenda” intesa come dimora, in cui la qualifica di “eterna” ha attinenza con il mondo stesso di Dio, dove Dio dimora. Giovanni ha un'espressione simile parlando di “vita eterna” (Gv 3,15.16.36; 5,24), intendendo con questa la vita stessa di Dio. Una analoga immagine, che assimila la tenda alla dimora di Dio, viene dallo stesso Is 40,22: “Egli siede sopra la volta del mondo, da dove gli abitanti sembrano cavallette. Egli stende il cielo come un velo, lo spiega come una tenda dove abitare”. Probabilmente sono queste o simili le immagini che Luca ha elaborato a modo suo, in cui la tenda è sempre associata alla dimora dimora di Dio, quindi luogo di eternità beata, che si contrappone alle tende dell'uomo, immagine questa del corpo stesso dell'uomo (Sap 9,15; Is 38,12; Ger 10,20; 2Pt 1,13.14) o luogo della sua dimora terrena.
7Il termine “giustizia” deriva da “in iure stare”, cioè rimanere nel diritto e, quindi, mostrarsi fedele a questo. Andare fuori dal diritto significa essere un “fuorilegge”, che è il contrario di “stare nella legge”. Questo comportamento denuncia una infedeltà al diritto ed è foriero di iniquità.
8Luca adatterà l'espressione assoluta di Mt 6,24 “Nessuno può servire” in “Nessun servo può servire”. L'aggiunta del sostantivo “servo” probabilmente ha come intento quello di definire meglio l'atteggiamento di dedizione esistenziale al proprio padrone che, nella fattispecie, può essere Dio o i beni terreni; e, di conseguenza, la posizione del credente, che è chiamato a compiere la sua scelta esistenziale, poiché le due realtà sono tra loro incompatibili e irriducibili l'una all'altra.
9Cfr. anche 1Sam 2,8; Tb 4,19b; Gb 22,29; Sal 74,8; 146,6; Sir 7,11;
10Il testo che segue, posto tra virgolette, “ ”, è stato interamente tratto dalla nota n.9 di R. Fabris, Luca, traduzione e commento di Rinaldo Fabris, Cittadella Editrice, Assisi – 1^ edizione ottobre 2003 – pag.330.
11Cfr. I Enoch 22
12Cfr. 4 Esdra, VII, 36
13Cfr 4 Esdra, VII, 58
14Cfr. 4 Esdra, VIII, 59; Sap 5,1-6; 2 Bar 51,5
15Cfr. I Enoch 22,9.
16Cfr. Is 1,17.23; 10,1-2; Ger 5,27-28; 7,5-8; 22,3; Ez 22,7; Am 2,6-7; 4,1; Zc 7,10
17Cfr. Es 22,21-23; Dt 10,18a; 24,17;
18Cfr. Lc 10,30; 14,2.16; 15,11; 16,1.19; 19,12; 20,9;
19Cfr. Sal 6,6; 16,14a; 30,13; 87,6.11-13; 142,3
20L'espressione “porpora e bisso” sta ad indicare il tenore di vita di questo ricco, vestito di “porpora e bisso”, cioè di tessuti raffinati e pregiati, una sorta di status symbol per quel tempo. Da tali tessuti erano gli abiti regali (Est 8,15) e quelli dei sacerdoti (Es 28,4-6) e il velo del Tempio (Es 26,31.36) e costituivano, assieme all'oro, all'argento e al rame, offerta per il Tempio (Es 25,3-4) e fungevano, per la loro preziosità, da moneta per pagare le merci (Ez 27,16).
21Lazzaro è una forma contratta di Eleazaro, dall'ebraico “El 'azar”, che significa “Dio ha aiutato”.
22Il racconto genesiaco della cacciata dell'uomo dal paradiso terrestre termina con la descrizione dei cherubini che con la loro spada fiammeggiante sono posti a custodia del giardino e per impedire l'accesso all'albero della vita, che qui raffigura la vita stessa di Dio e del suo mondo (Gen 3,24). Essi sono in qualche modo l'immagine di una realtà indefinibile, che convenzionalmente chiamiamo tempo.
23Cfr. D. Alighieri, Divina Commedia - Inferno – Canto III – v.109
24Cfr. il vocabolo greco “C£rwn” (Cáron, Carone o Caronte), che rimanda a “caropÒj” (caropós) in L. Rocci, Vocabolario Greco-Italiano, Società editrice Dante Alighieri, Roma 1993
25Cfr. la voce “Sheol” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata, 2005.