IL VANGELO SECONDO LUCA


                                                                                               Catechesi n. 5:  a) controbattere le accuse di promiscuità di Gesù
                                                                                                                                        con pubblicani e peccatori da parte del giudaismo.

                             b) La dinamica del peccato, della conversione e del riscatto

(15,1-32)


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi






Note generali


I capp. 13, 14 e 15 costituiscono una sorta di trilogia catechetica incentrata sul giudaismo. Il cap. 13 è interamente dedicato alla pervicace incredulità di Israele, sul quale viene posto il giudizio divino di condanna, perché non ha saputo riconoscere il tempo di Gesù (12,56-57; 19,44b) e non ha saputo riconoscere in lui lo speciale inviato di Dio, rifiutandone il messaggio. Il cap. 14 prosegue il discorso, rivolgendosi sempre al giudaismo, ma con prevalente riferimento a quello che ha aderito a Gesù (13,1); quello che è stato chiamato a lottare per entrare dalla porta stretta dell'adesione completa a Gesù, abbandonando la legge mosaica (13,24), poiché questa sua indecisione sarebbe equivalsa ad una infedeltà, decadendo così dalla salvezza portata da Gesù (13,27-28a), a cui, invece, hanno aderito i Padri e i Profeti e con loro il mondo dei pagani (13,28b-29). Ed infine il presente cap.15 dedicato interamente al controbattere le accuse di promiscuità di Gesù con i pubblicani e i peccatori da parte del giudaismo, fornendo, con tre parabole, le motivazioni teologiche di questa promiscuità, facendola risalire ad un piano salvifico di Dio stesso1.

Questa trilogia catechetica sul giudaismo è incorniciata all'interno del viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), dove Gesù verrà soppresso proprio da questo giudaismo. In tal modo l'autore fornisce al proprio lettore greco-ellenistico, a cui il presente vangelo è indirizzato, le motivazioni e le logiche che hanno spinto le autorità giudaiche a uccidere Gesù e chi erano queste.

Per poter comprendere il cap. 15 e di conseguenza il senso delle tre parabole che lo compongono, sono determinanti i primi due versetti in cui vengono presentati le due contrapposte parti: da un lato, i pubblicani e i peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo (v.1); dall'altro, i farisei e gli scribi che accusano Gesù non solo di accoglierli, ma di mangiare con loro, venendo in tal modo in contatto con personaggi considerati per loro natura impuri, condividendone in un certo qual modo la sorte col sedersi a mensa con loro. Per poter comprendere la gravità e la pesantezza dell'accusa contro un Gesù, che di tutta l'erba sembra fare un fascio, è importante comprendere da chi viene l'accusa e cosa ci sta dietro.

Le origini del movimento farisaico non sono chiare. Tuttavia sembra che i farisei siano sorti come gruppo di opposizione collegato alle lotte maccabaiche (167-164 a.C.), sorte per combattere la cultura e i costumi ellenistici imposti da Antioco IV Epifane in mezzo al popolo ebraico per accelerarne il processo di ellenizzazione (1Mac 1,41-53). I loro padri furono gli hasidîm o Asidei, cioè i pii, che si affiancarono alla lotta contro Antioco IV e dai quali si originarono non solo i Farisei, ma anche gli Esseni2, “uomini di grande valore in Israele, tutti impegnati a difendere la Legge” (1Mac 2,42).

Fin dal suo nascere il movimento farisaico, che ai tempi di Gesù contava oltre seimila adepti3, era politicamente intrallazzato e raggiunse il suo massimo potere sotto la regina Alessandra (76-67 a.C.), che affidò loro poteri regali4 e impose al popolo di obbedire a tutte le loro disposizioni, ristabilendo tutti gli ordinamenti da loro introdotti e precedentemente aboliti da Ircano5. Acquisirono presso il popolo una grande fama e godevano del sostegno delle masse, dalle quali erano ammirati, così che la loro parola contro o a favore di re o di sommi sacerdoti influiva immediatamente sulla gente6.

Affondando le loro radici nelle lotte maccabaiche contro l'ellenizzazione della cultura e dei costumi e la profanazione del Tempio e la conseguente violazione della Torah e della Tradizione dei Padri, divennero rigorosi interpreti della Torah sia scritta che orale, a cui conformarono in modo pedissequo il loro modo di vivere7. Il loro rigore nell'interpretazione della Torah e l'autorevolezza del loro insegnamento8 influenzava la stessa classe sacerdotale dei Sadducei, i quali “non compiono praticamente nulla (di loro autorità), poiché allorché assumono un ufficio, involontariamente e per forza, lo sottopongono, loro malgrado, a quanto dicono i Farisei; perché in altra maniera non sarebbero tollerati (dal popolo)” (Ant. Jud. XVIII,17).

L'importanza del movimento farisaico e la sua forza apparirà in particolar modo dopo la prima guerra giudaica (66-73 d.C.), allorché distrutta Gerusalemme e con essa il Tempio e di conseguenza la perdita del culto e la fine del sacerdozio, dell'autonomia e del potere politico esercitato dal Sommo sacerdote e dal Sinedrio, il fariseismo, sotto la guida di Jochannan ben Zakkaj si ritirò a Yavne o, in greco, Jamnia, che divenne di fatto la capitale del nuovo giudaismo e della sua restaurazione, non più attorno al Tempio e ai sacrifici, bensì attorno al culto della Torah. Dal fariseismo, pertanto, nacque una nuova classe dominante, quella del rabbinismo.

Essi, assieme ai Sadducei e agli anziani, cioè i capi delle famiglie aristocratici, facevano parte del Sinedrio, l'organo politico e religioso, che governava e sentenziava sopra i Giudei, composto da settanta membri più il presidente, che ricopriva la carica di Sommo sacerdote in quel momento. La loro autorità e il loro potere, per questo insieme di cose fin qui succintamente menzionate, non andavano sottovalutati, né dovevano essere considerate semplici schermaglie dialettiche tra opposte visioni delle cose, quelle intercorse tra loro e Gesù. L'inimicarsi pubblicamente i Farisei aveva conseguenze disastrose, così come avvenne per Gesù, che certamente non fu crocifisso per semplice invidia o vendetta, ma per la sua sistematica violazione della sacralità del sabato9, delle leggi sulla purità10, di quelle del digiuno11; la sua non ortodossa interpretazione della Torah12, la dura critica ad un culto incongruente e lacunoso, il suo definire la Torah orale, equiparata a quella scritta, come dottrine che sono soltanto precetti di uomini e che non rendono alcun culto a Dio, destituendola di ogni valore13; nonché il suo attacco diretto allo stesso sistema14, con l'aggravante di avere un consistente seguito tra il popolo, la quale cosa esponeva le autorità ad una possibile rivolta, con la conseguente cruenta ritorsione da parte dei Romani e la perdita di privilegi ed autonomia che i Romani riconoscevano agli ebrei15. Tutto questo aveva gravemente esposto Gesù, costringendo le autorità a sanzionare con l'espulsione dalla sinagoga chiunque lo avesse seguito o avesse mostrato simpatia per questo pericoloso rabbi riottoso e dissacrante16.

Se non bastasse, Gesù se la faceva con i bassi fondi della società giudaica, quali i pubblicani, ritenuti traditori, perché riscuotevano le tasse a favore dei Romani invasori, angariando i loro concittadini; e in costante stato di impurità, perché erano in continuo contatto con il mondo dei pagani, con i quali trattavano i propri affari; se la faceva con le prostitute dalle quali si lasciava avvicinare e toccare (Lc 7,37-39). Due categorie sociali considerate un abominio da parte dei puristi Farisei e dai perbenisti del mondo giudaico. Due categorie di persone che Gesù, con fare blasfemo, pone in un confronto vincente contro scribi e Farisei, esaltandone la fede e la loro disponibilità ad accogliere la sua parola (Mt 21,31b-32). Ed è proprio su queste due categorie di persone che l'evangelista richiama ora l'attenzione del suo lettore e con tre parabole spiega il senso del comportamento di Gesù nei loro confronti e, in genere, nei confronti di questo mondo, a cui appartiene anche quello dei pagani, a cui Luca sta scrivendo e da cui egli stesso proveniva.

Un comportamento, quello di Gesù, da un punto di vista umano, folle e insensato e tale da essere disconosciuto dai suoi stessi fratelli, che non credevano in lui (Gv 7,5), così che, assieme alla loro madre Maria, si recarono da lui per portarselo a casa, ritenendolo fuori di testa (Mc 3,21), sia perché in forte dissonanza con le logiche umane e del buon senso e sia perché in tal modo esponeva anche la sua stessa famiglia alle possibili rappresaglie delle autorità religiose e civili (Gv 9,22). A tal punto si pone una questione: o Gesù era soltanto un irresponsabile contestatore fuori di testa, così come testimonia la sua crocifissione; oppure il suo modo di comportarsi rifletteva, proprio perché superava le capacità di comprensione dell'uomo, la sua irraggiungibile e inaspettata dimensione divina e in quest'ultimo caso, allora, le tre parabole sono un inno alla sua misericordia e una testimonianza del modo di pensare e di essere di Dio, perché egli non è un uomo, ma è Dio, il Santo in mezzo ad Israele (Os 11,9b). In quest'ultimo caso siamo in piena rivelazione e le tre parabole meritano tutta la nostra attenzione.

Ci troviamo di fronte a tre parabole che hanno un comune filo conduttore: ciò che era perduto è stato ritrovato e l'esito finale è una grande gioia condivisa con gli amici. Le espressioni “cercare”, “perduto”, “ritrovato” infatti ricorrono numerose volte e costituiscono l'asse portante di tutte tre le parabole; mentre la gioia del ritrovamento è la comune conclusione. Tuttavia non si tratta di tre ripetizioni, ma le prospettive cambiano radicalmente: le prime due parabole (vv.3-10) incentrano l'attenzione del lettore sull'assidua attività di ricerca da parte del padrone e sono finalizzate a mettere in rilievo il senso dell'attività missionaria di Gesù, che non è venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori così che questi si convertano e si associno ai giusti (5,32). Nella terza parabola (vv.11-32), diversamente dalle prime due, non vi è nessuna attività di ricerca del figlio perduto da parte del padre, che, invece, rimane in trepida attesa. L'attenzione qui viene spostata sul contrapposto comportamento dei due fratelli, metafora dei pubblicani e dei peccatori, quello più giovane; del giudaismo, quello maggiore. Il racconto costituisce, come le precedenti due parabole, la risposta ai vv.1-2.

Le tre parabole, pertanto, perseguono due diverse prospettive: le prime due sono incentrate su Gesù; la terza sul contrapposto comportamento di pubblicani e peccatori e i benpensanti giudei, che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri. Un comportamento che verrà ripreso e stigmatizzato una volta di più nella parabola dei due uomini che salivano al Tempio per pregare, lasciando intravvedere la posizione di Dio nei loro confronti (18,9-14). Una suddivisione riscontrabile non soltanto tematicamente, ma anche letterariamente, avendo le parabole una loro autonoma introduzione (vv.3.11a).

La struttura del cap. 15 è semplice: vi è una introduzione, che funge da cornice entro cui sono collocate le tre parabole (vv.1-2); seguono le prime due parabole legate tra loro non solo tematicamente, ma anche strutturalmente al punto tale che l'una sembra la ripetizione dell'altra (vv.4-10); ed infine la terza parabola (vv.11-32), distinta dalle prime due sia per tema, sia per diversa struttura, molto più ricca ed elaborata, sia perché introdotta separatamente dalle prime due dall'espressione “Ora disse”, che sembra voler porre un distinguo rispetto a quelle.


Commento ai vv. 1-32


Cornice introduttiva (vv.1-2)

Testo

1 – Ora, tutti i pubblicani e i peccatori si avvicinavano a lui per ascoltarlo.
2 – E mormoravano i Farisei e gli scribi dicendo che costui accoglie i peccatori e mangia con loro

Commento ai vv.1-2

Questi primi due versetti costituiscono la cornice introduttiva in cui sono collocate le tre parabole e ne forniscono la chiave interpretativa. Due versetti all'apparenza molto semplici e lineari: da una parte pubblicani e peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo; dall'altra, le autorità religiose, espressione di quel giudaismo benpensante e purista, che si riteneva giusto e meritevole di salvezza perché rigorosamente ligio nella sua osservanza, le quali disapprovano il comportamento di Gesù. Tre sono i protagonisti: Gesù, che annuncia e accoglie chi si avvicina a lui e lo fa sedere alla sua mensa. Tratti questi che qualificano la sua missione, che si offre nella sua Parola, che ha il potere di rigenerare e ricostituire in santità di vita coloro che l'accolgono (1Pt 1,23). E sono anche quei tratti che qualificano il padre, che accoglie e fa sedere alla sua mensa il figlio che lo aveva disconosciuto e abbandonato. Vi sono, poi, i pubblicani e i peccatori, per definizione i lontani da Dio se non contrapposti a lui, che qui vengono colti nel loro avvicinarsi a Gesù in un atteggiamento di ascolto accogliente. Il verbo all'imperfetto indicativo dice come questo loro avvicinarsi a Gesù non sia un evento occasionale, ma continuativo nel tempo, descrivendo in tal modo il processo di conversione, che altro non è se non un incamminarsi verso Dio, un avvicinarsi a lui; un percorrere in senso inverso quel cammino che li aveva allontanati da lui; un riorientare la propria vita dalle cose a Dio. Quel cammino che anche il figliol prodigo ripercorrerà per raggiungere il padre. Ed infine, vi sono i Farisei e gli scribi che “mormoravano”, contestando a Gesù il fatto che non solo si lasciava avvicinare da questa gentaglia, ma l'accoglieva e la faceva sedere alla sua mensa, condividendo in tal modo con loro la propria vita e se stesso. È questo, infatti, il senso della convivialità: la condivisione. Significativo è il verbo greco con cui viene espresso il “mormorare” dei Farisei e degli scribi: “diegÒgguzon” (diegónghizon), che significa, oltre che mormorare, anche “brontolare”, che definisce uno stato di insofferenza, di ribellione, di contestazione e di avversione. Un verbo che ricorre in tutto il NT soltanto due volte in Luca: qui e in un contesto parallelo e sostanzialmente identico a questo: nel racconto di Zaccheo, dove Gesù entra nella sua casa e siede alla sua mensa tra lo scandalo dei presenti: “Ed avendo visto, tutti mormoravano dicendo che è andato ad alloggiare presso un uomo peccatore” (19,7). È lo stesso verbo che ricorre dieci volte in tutto l'AT17 e viene usato quasi sempre in contesti di ribellione contro Mosè ed Aronne e contro Dio stesso. Il verbo, pertanto, indica un atto di ribellione e di rivolta contro Dio. Di fatto un suo rifiuto. Ed è ciò che accadrà per il figlio maggiore, metafora del giudaismo, nella parabola del Figlio prodigo, che, respingendo l'invito del padre, si rifiuta di entrare in quella casa presso cui ha sempre vissuto e si rifiuta di sedersi a mensa con lui e, quindi, di condividere quella stessa vita che fino a quel momento aveva sempre condiviso. La motivazione di questo suo rifiuto è la presenza di quel suo fratello sciagurato, che egli disconosce come suo fratello, definendolo come “questo tuo figlio”, addossando la colpa al padre. Il mormorare dei Farisei e degli scribi, pertanto, non va inteso come un sommesso e quasi succube bisbigliare su Gesù, ma una vera e propria indignazione, che si fa rivolta contro il suo comportamento dissacratorio ed offensivo dello stesso giudaismo fino a giungere alla sua soppressione.

La questione che qui Luca presenta ha come sfondo storico il problema che i giudeocristiani, ancora strettamente legati al giudaismo (At 15,1-5), avevano nel condividere la loro nuova fede con gli etnocristiani18, che continuavano a considerare come persone impure.

L'introduzione, pertanto, presenta da un lato la contestata figura di Gesù, che accoglie chi gli si avvicina, condividendo con loro la mensa; dall'altro, viene posto un contrastato confronto tra i perbenisti del giudaismo e quelli che essi considerano la feccia del giudaismo: pubblicani e peccatori. Le prime due parabole risponderanno alla prima questione su Gesù e la sua missione; quella del Figliol prodigo, alla seconda, sulla quale la parabola svilupperà un confronto tra due fratelli, che avrà un finale inaspettato, che vede un rovesciamento di posizioni: il fratello depravato, entrato nella casa del Padre, beneficerà della sua mensa; il figlio, che invece con il padre ha sempre vissuto fin dal suo nascere, ne verrà escluso a motivo del suo atteggiamento di dissenso e di rifiuto sia del fratello ritrovato che dello stesso padre.


Il senso della missione di Gesù (vv.3-10)


Testo

3 – Ma disse verso di loro questa parabola, dicendo:
4 - <<Quale uomo tra voi, avendo cento pecore ed avendo persa una di esse, non lascia le novantanove nel deserto e va da quella perduta finché non la trova?
5 – E trovata(la), (la) pone sulle sue spalle gioendo
6 – e giunto nella (sua) casa, convoca gli amici e i vicini dicendo loro: “Gioite con me poiché ho trovato la mia pecora, quella perduta”.
7 – Vi dico che, così, vi sarà (più) gioia nel cielo per un peccatore che si pente che per novantanove giusti che non hanno bisogno di pentimento.
8 – Quale donna, avendo dieci dracme, qualora abbia persa una dracma, non accende una lucerna e spazza la casa e cerca con cura finché non (la) trova?
9 – E trovata(la), convoca le amiche e le vicine dicendo: “Gioite con me, poiché ho trovato la dracma che persi”.
10 – Così vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un peccatore che si pente>>.


Commento ai vv.3-10

Note generali

La questione sulla natura e le modalità della missione di Gesù vengono qui affrontate da due parabole tra loro parallele, che potrebbero essere considerate come una sorta di doppione in quanto sono sostanzialmente identiche sia nella loro dinamica narrativa, sia nei contenuti che nella loro conclusione. Cambiano soltanto gli attori principali, un pastore e una donna di casa, su cui si incentra l'attenzione dell'autore, nonché le circostanze entro cui si svolge l'azione, ma il senso è lo stesso. Due personaggi che si muovono con solerzia attorno a ciò che era perduto e che poi è stato ritrovato. Due espressioni verbali, che ricorrono ben undici volte in soli otto versetti, rafforzate dal verbo cercare, che qui compare una sola volta, ma è presupposto ed implicito nel ritrovare ciò che era perduto. I tre verbi e la loro insistenza delineano il senso della missione di Gesù, che non è venuto per i giusti, ma per i peccatori (5,32). La sua attività, pertanto, è finalizzata a recuperare ciò che era perduto. E ciò spiega la promiscuità di Gesù con questo genere di persone.

Di fronte a queste due parabole tematicamente e narrativamente identiche, la prima di fonte Q e la seconda di materiale proprio di Luca, è da chiedersi che cosa abbia spinto l'autore ad aggiungere la propria, considerato che non dice nulla di più rispetto alla prima. Personalmente ritengo che la decisione di Luca sia stata determinata dal pubblico verso il quale stava indirizzando il suo racconto: il mondo greco-ellenistico, che possedeva un'organizzazione sociale prevalentemente cittadina, molto più evoluta di quella del mondo ebraico, e dove l'economia, fondata sul commercio e il libero scambio di merci, dava notevole importanza al denaro. Con queste due parabole tra loro parallele, l'autore ha voluto, pertanto, indirizzarsi non solo al mondo agricolo-pastorale, ma anche a quello cittadino, il quale ben comprendeva il valore del denaro, forse un po' meno quello di una pecora perduta, su cento che formavano il gregge. Il fatto, poi, che qui si citi la dracma, moneta greca, favorisce non solo l'origine lucana della parabola, ma anche la sua stessa destinazione.

La prima parabola si ritrova sostanzialmente identica in Mt 18,12-14, benché diversi siano i contesti: in Matteo il racconto della pecora smarrita e ritrovata funge da introduzione alle regole della comunità, che prevedono il paziente recupero del fratello che sbaglia (Mt 18,15-17); qui in Luca funge da risposta all'accusa di promiscuità di Gesù con i peccatori. Significativa è infatti la diversità del verbo usato per indicare la perdita della pecora: in Matteo, “planhqÍ” (planetzê), che significa fuorviare, errare. Verbo questo che ben concorda con la regola da seguire nei confronti di un fratello che sbaglia; in Luca il verbo usato è “¢polšsaj” (apolésas), che significa perdere, rovinare, che ben si concorda con il tema dei peccatori, considerati persone perdute e per questo rovinate. La diversità di contesti, che rivela la diversità degli intenti, incide, pertanto, sul racconto stesso della parabola, che entrambi gli evangelisti condividono dalla comune fonte Q, alla quale è molto più vicina la versione matteana che quella più elaborata ed elegante di Luca.

Dovendo giustificare la promiscuità di Gesù con una disprezzata categoria di persone, Luca sviluppa le due parabole attorno ad una domanda retorica, la cui risposta non poteva che essere, nei due casi in questione, che negativa. In tal modo l'autore indirizza la risposta del suo lettore, spingendolo, da un lato, a giustificare l'attività missionaria di Gesù in mezzo a pubblicani e peccatori; dall'altro, inducendolo ad aprirsi, come Gesù, a loro.

Commento ai vv. 1-10

La pecora perduta e ritrovata (vv.4-7)

La prima parabola, quella del pastore che va alla ricerca della pecora perduta, di fonte Q, affonda le sue radici nei testi profetici e sapienziali che equiparano Dio al Pastore di Israele e il popolo al suo gregge19. Un tema che verrà ripreso anche dal cap.10 di Giovanni, dove Gesù si autodefinisce come l'autentico e unico Buon Pastore, richiamato anche in Eb 13,20 e in qualche modo preluso da Ez 34,23.

Il v.3, di origine redazionale, introduce genericamente le due parabole, ma utilizzando l'espressione “questa parabola” al singolare, anziché al plurale “queste parabole”, considerato che le parabole sono almeno due, se il riferimento è ai soli vv.4-10, se non tre, se si amplia anche a quella del Figlio prodigo. Il sostantivo “parabola”, poi, è accompagnato dall'aggettivo dimostrativo “questa”, orientando e delimitando, quindi, l'attenzione del lettore su di una singola parabola e non su tre. Sulla questione si possono formulare almeno tre ipotesi: a) le parabole inizialmente erano soltanto una, quella del Figliol prodigo, ma successivamente, in una revisione redazionale da parte dell'autore, vengono introdotte le altre due, ma Luca si è dimenticato di correggere il singolare in plurale. Una semplice svista di Luca, dunque. b) C'è chi pensa, come il Rossé20, che l'espressione “questa parabola” sia da prendere in senso generale come “discorso parabolico”. Ipotesi, a mio avviso, un po' debole, poiché Luca sa destreggiarsi bene ed è un abile narratore e qui non ha senso usare il singolare per plurale, quando è più semplice e logico usare il plurale se richiesto. In Luca il termine parabola ricorre 18 volte, di cui 16 al singolare, escludendo quella in questione (15,3), e tutte si riferiscono ad una sola parabola, quella che segue. Soltanto una volta compare al plurale, con riferimento alle modalità di predicazione di Gesù (8,10). Quindi è improbabile che qui Luca abbia voluto dare un senso collettivo a questo singolare. c) Propongo, infine, una terza ipotesi: Luca aveva scritto correttamente “queste parabole”, ma il succedersi di copisti ha trasformato il plurale in singolare, pensando, mentre copiavano il testo, a quella del Figliol prodigo, che è la prevalente, la più elaborata; un notevole capolavoro letterario, che ha sovrastato le prime due, oscurandole nella mente del copista. Da qui il singolare al posto del plurale. Il copista, infatti, non è da pensare come una sorta di macchina fotocopiatrice, ma nel riportare il testo era soggetto a notevoli limiti, non solo umani. Per questo è nata una scienza specifica, quella della critica letteraria, che ha il compito di rilevare tutte le discrepanze, vere o ipotetiche, dal testo originale, andato perduto.

La parabola è scandita in due parti: la prima (v.4) si presenta in forma di domanda retorica, costringendo il lettore ad accettare, da un lato, il comportamento del pastore, che ha a cuore più che la sicurezza delle novantanove, che lascia nel deserto, senza specificare se poste al sicuro entro qualche staccionata o una qualche grotta, che quella perduta, perché sa che tra tutte le sue pecore quella che corre il maggior pericolo di morte non sono le novantanove, ma quella perduta; dall'altro, in quel “finché non la trova”, lascia intendere la pervicace insistenza del pastore che non desiste dalla sua ricerca finché non ha trovato la pecora perduta. Un'immagine questa che carica di tensione la ricerca da parte del pastore e prelude, giustificandola, la seconda parte (vv.5-6), tutta dedicata alla reazione del pastore, che trasforma la sua preoccupazione e la sua tensione che lo avevano spinto all'ansiosa ricerca della pecora smarrita, in un'esplosione di gioia incontenibile, che viene scandita in due momenti: il primo (v.5), nel raccogliere la pecora ritrovata e nel porsela sulle spalle, lasciando trasparire in questo gesto, consueto tra i pastori, tutto il suo affetto per questa sua pecora perduta e ritrovata, poiché solo così il suo gregge può dirsi nuovamente completo. Il secondo momento di espressione di questa incontenibile gioia è la sua condivisione con gli amici. In quale modo questa condivisione sia avvenuta è lasciata sullo sfondo, ma è quasi certo che essa si sia espressa in un banchetto conviviale, poiché questo era il modo consueto per festeggiare, condividendo la propria gioia, così come è avvenuto, in termini più espliciti con la terza parabola, quella del Figliol prodigo, che si conclude con un festoso e gioioso banchetto, anche se si muove su di uno sfondo di amarezza a motivo del figlio più grande, che ne è rimasto fuori.

Il v.7, dai ritmi sapienziali e sentenziali, conclude la parabola, sintetizzandola nei suoi tratti più salienti e significativi, e nel contempo ne traduce il senso metaforico, svelandone il significato. Un detto che si ripeterà sostanzialmente identico al v.10 e che al di là della sua funzione meramente pedagogica, si propone anche come formula catechetica.

La dracma perduta e ritrovata (vv.8-10)

Sulla falsariga della pecora perduta e ritrovata, di provenienza Q, Luca ora crea una sua parabola, accoppiandola alla prima, destinandola al suo mondo, quello greco-ellenistico, quello che abitava in centri urbani e che sapeva maneggiare meglio i soldi che le pecore e che forse non avrebbe capito bene la solerzia e l'ansia di un pastore che si preoccupa molto per una pecora quando ne ha altre novantanove a disposizione e che avrebbe potuto rimpiazzarla con qualche agnello in più nella prossima stagione; né avrebbe capito la sua esplosione di gioia tale da coinvolgere i propri amici e vicini di casa. Una reazione paradossale e per questo poco credibile. Meglio, quindi sostituire la pecora con delle dracme, il cui valore era ben conosciuto nelle poleis. Esse equivalevano all'incirca ad un denaro, la paga giornaliera di un operaio agricolo; perderne una significava buttare una dura giornata di lavoro e, considerato che la donna non ne aveva che dieci, la perdita era piuttosto rilevante. Da qui la sua particolare cura nel ricercarla, che viene descritta con tre verbi: accendere la lucerna, probabilmente per illuminare bene il pavimento e i luoghi bui della casa, la quale cosa si fa ancora ai giorni nostri, prendendo una torcia elettrica, falciando con la lama di luce sotto i mobili o nelle zone d'ombra; spazzare la casa, un gesto che non ci è sconosciuto, qualora si cerchi sul pavimento un qualcosa di minuscolo; ed infine cercare con cura, in cui si legge la meticolosa attenzione posta in quel suo gesto del cercare, che già si era compreso allorché ha usato tutta la strumentazione a sua disposizione per ritrovarla.

Anche qui la parabola si suddivide in due parti: la prima, sotto forma di domanda retorica che suggerisce fin da subito la risposta al lettore, presenta la situazione di preoccupazione di questa donna che con evidente solerzia si dà da fare per ritrovare il suo piccolo tesoro, che per lei significava vita e a cui era legato qualche giorno in più di sopravvivenza. La seconda parte è dedicata alla sua esultanza per il ritrovamento della sua dracma, che, come il pastore, vuole condividere con le amiche attorno ad un banchetto conviviale. Torna nuovamente qui, come sopra per il pastore, il verbo “convocare”, che richiama da vicino quel padrone di casa che manda il suo servo a convocare gli invitati per il suo banchetto (14,17), con esiti completamene diversi: là vi è il rifiuto di sedersi a tavola e condividere i beni del padrone di casa, preferendo i propri interessi e i propri affari; qui l'assenso per condividere la gioia del ritrovamento di ciò che era perduto.

Similmente alla prima parabola (v.7), anche questa si conclude con una sorta di sentenza dai toni sapienziali dove la precedente espressione in “cielo”, quale luogo della dimora di Dio, viene qui sostituito con “davanti agli angeli di Dio”, che formano la corte celeste, richiamando, forse la regalità stessa di Dio. Due espressioni che comunque si equivalgono, ma quel “davanti agli angeli” probabilmente lascia intravvedere come questi siano chiamati a testimoniare e a confermare l'avvenuto recupero di ciò che era perduto, dando in tal modo un tono di ufficialità al ritrovamento, quasi che questo costituisca la realizzazione del progetto di Dio, la cui finalità traluce nella missione stessa di Gesù, il quale “venne a cercare e salvare ciò che era perduto” (19,10).

Il padre e i due figli (vv.11-32)

Testo a lettura facilitata

L'introduzione e titolo della parabola (v.11)

11 – Ora disse: <<Un uomo aveva due figli.

Le pretese dissipatrici del figlio più giovane (vv.12-13)

12 – E disse il più giovane di loro al padre: “Padre, dammi la parte della sostanza che mi spetta”. Egli divise tra loro gli averi.
13 – E dopo non molti giorni il figlio più giovane, raccolte tutte le cose, partì per una regione lontana e là dissipò la sua sostanza, vivendo in modo dissoluto.

Indigenza e umiliazione (vv.14-16)

14 – Speso egli tutto quanto, avvenne una grande fame su quella regione, ed egli incominciò ad essere indigente.
15 – E partito, si unì ad uno dei cittadini di quella regione, e lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci;
16 – e bramava cibarsi delle carrube, che mangiavano i porci, e nessuno gli(ene) dava.

La riflessione (vv.17-19)

17 – Ora, entrato in se stesso disse: “Quanti servi di mio padre (sono) sovrabbondanti di pani, io, invece qui muoio di fame.
18 – Alzato(mi) andrò verso mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e davanti a te,
19 – non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi”.

La decisione che riscatta e redime (vv.20-21)

20 – E alzatosi andò verso suo padre. Quando ancora egli era molto lontano, suo padre lo vide e fu mosso a compassione e, corso, cadde sul suo collo e lo baciò.
21 – Ora il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.

Il Padre (vv.22-24)

22 – Ma disse il padre verso i suoi servi: “Presto, portate fuori la veste, quella più ragguardevole e vestitelo e date un anello nella sua mano e dei calzari ai piedi,
23 – e portate il vitello ingrassato, sacrificate(lo), e mangiando rallegriamoci,
24 – poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato trovato. E incominciarono a rallegrarsi”.

Lo sdegno del fratello maggiore (vv.25-32)

25 – Ora, il suo figlio più vecchio era nel campo; e così, ritornando si avvicinò alla casa, udì un concerto musicale e cori;
26 – e chiamato uno dei servi s'informava che cosa fossero tutte queste cose.
27 – Questi gli disse che è arrivato suo fratello e che suo padre sacrificò il vitello ingrassato, poiché lo ha riavuto in buona salute.
28 – Ora (egli) si adirò e non voleva entrare; ma suo padre, uscito, lo supplicava.
29 – Ma questi rispondendo disse a suo padre: “Ecco ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando e non mi hai mai dato un capretto affinché mi rallegrassi con i miei amici;
30 – Ma allorché questo tuo figlio, che ha divorato le tue sostanze con prostitute, è giunto, gli hai sacrificato il vitello ingrassato”.
31 – Ma questi gli disse: “Figlio, tu sei sempre con me, e tutte le cose mie sono tue.
32 – Ma bisognava rallegrarsi e gioire, poiché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, e perduto ed è stato ritrovato”>>.


Note generali

La parabola del Figlio o Figliol prodigo costituisce il capolavoro narrativo di Luca sia per la ricchezza dei suoi contenuti sia perché, pur nella sua scorrevole semplicità, presenta una dinamica narrativa complessa, rendendo possibili almeno due livelli di lettura: il primo, il più appariscente, quello per cui la parabola è stata scritta, costituisce la risposta diretta alla questione posta dai primi due versetti del cap.15, riguardante il rapporto tra due mondi non solo eterogenei, ma tra loro contrapposti e irriducibili l'uno all'altro, ma, nel contempo, chiamati a ritrovarsi e a convivere in Gesù, superando in lui ogni loro idiosincrasia (Rm 10,12; Gal 3,28; Col 3,11); il secondo offre al lettore una comprensione unica, una vera e propria catechesi, su che cos'è il peccato, cosa esso produce, in che cosa consista la conversione e la sua dinamica, quale rapporto intercorra tra Dio e il peccatore, quale sia il suo comportamento nei suoi confronti e da che cosa è giustificato il comportamento del Padre nei confronti del peccatore. La complessità della parabola è tale che ogni livello di lettura possiede una sua diversa struttura narrativa. Quanto al primo livello, la parabola presenta due quadri contrapposti: da un lato, il racconto della dissipazione e del riscatto del figlio più giovane (vv.11-24); dall'altro, la chiusura e il rifiuto da parte del figlio maggiore, che rinfaccia duramente al padre la sua debolezza nei confronti di “questo tuo figlio” e la sua apparente ingenerosità nei suoi confronti, proprio lui, che aveva scelto di rimanere e di servirlo (vv.25-32). Quanto al secondo livello, questo presenta una struttura narrativa più complessa, che ho suddiviso in sette quadri, quanti sono i passaggi del racconto parabolico, già anticipati nella sezione del “Testo a lettura facilitata”:



Una parabola, la cui complessità e ricchezza, si manifesta nella sua stessa titolatura che, nel tempo e a seconda delle prospettive di lettura e di comprensione dei singoli commentatori, ha assunto, a partire dalla tradizionale denominazione il “Figliol prodigo”, che accentra l'attenzione sulla dissipazione del figlio più giovane mettendo in luce, in tal modo, la grandiosità dell'amore misericordioso del Padre; sullo stesso tono si colloca quello di Jülicher: “Il figlio perduto”; la TOB l'intitola “La parabola del figlio ritrovato” o “del figlio perduto e ritrovato” (J. Dupont); o “del figlio perduto e del figlio fedele” (Bible de Jérusalem); “La parabola del padre” (Rasco); o similmente “La parabola dell'amore del padre” (J. Jeremias); “Il padre e i suoi due figli” di P. Grelot e che il Rossé, da cui è stato tratto questo elenco di titoli, fa suo21. Una titolatura, quest'ultima, a cui mi associo e che mi sento di condividere, perché è la titolatura che lo stesso Luca ha posto a capo della sua parabola, aprendola con l'espressione: “Un uomo aveva due figli” (v.11).

Ci troviamo di fronte ad un indiscutibile capolavoro lucano, ma la domanda che sorge è se questo è tutta farina del sacco di Luca. Certamente è sua la forma e l'intera dinamica del racconto, in cui si riscontra l'incisività e l'accuratezza del narrare; la capacità di rendere bene la situazione dei personaggi e il loro stato d'animo con un semplice tocco. Una parabola decisamente avvincente, che non ti lascia indifferente e ti spinge a prendere posizione per l'una o l'altra parte: il figlio minore viene presentato come uno scapestrato scialacquatore, a cui il padre non sa opporsi e ne subisce le angherie, dapprima dandogli anticipatamente la sua parte di eredità, poi accogliendolo, dopo che questi ha sperperato un capitale con amici e prostitute. Il figlio maggiore viene presentato come una sorta di vittima di un padre debole e incapace di gestire la situazione; incapace di fare una vera e propria giustizia. Come non dargli ragione?! Tutto questo è indiscutibilmente di Luca. Ma il contenuto che sostanzia l'intera parabola; l'idea che qui viene sviluppata e il contesto in cui viene collocata non sono nuovi ed hanno il loro corrispondente in Mt 21,28-32.

Cinque sono sostanzialmente gli indizi che portano a pensare che alla base di questa parabola lucana, nella sua formula originale, che troviamo in Matteo, ci sia la comune fonte Q:


  1. L'identico inizio della parabola: “¥nqrwpoj eŒcen tškna dÚo” (ántzropos eîchen tékna dúo) in Mt 21,28b; “”AnqrwpÒj tij eŒcen dÚo uƒoÚj” (Ántzropós tis eîchen dúo uiús) in Lc 15,11. La diversità di alcuni termini come il sostantivo “figli”, molto più generico in Matteo22; molto più preciso in Luca; così come l'aggiunta al sostantivo “uomo” dell'aggettivo “tis” in Luca per indicare un tale, un uomo qualsiasi e corrispondente al latino “quidam23 sono redazionali e dipendono dallo stile dello scrittore e dal pubblico a cui è indirizzata la parabola: ebraico quello di Matteo, che rispetta sostanzialmente il testo della Q; greco-ellenistico quello di Luca, che, in quanto greco, sa meglio maneggiare la lingua ed è più attento al suo modo di esprimersi.

  2. L'identico contesto in cui è collocata la parabola e al quale il racconto si riferisce. Mt 21,28-32 si rivolge ai sacerdoti e agli anziani (Mt 21,23) che pone in un confronto perdente con pubblicani e prostitute (Mt 21,32); in Lc 15,11-32 la parabola è rivolta ai Farisei e agli scribi (15,2), completando in tal modo l'elenco delle autorità citate da Mt 21,23 e che, parimenti a Matteo, pone in un confronto perdente con i pubblicani e peccatori. Luca qui riprende il sostantivo matteano “pubblicani”, ma lo associa non alle prostitute, per le autorità giudaiche, a cui si riferisce Matteo, il simbolo dell'impurità per eccellenza, bensì ai “peccatori”. Un termine questo con cui il giudaismo designava il mondo dei pagani, ai quali Luca si sta rivolgendo e dal quale egli stesso proviene e che, comunque, ricomprende anche quello delle prostitute. Questi ultimi sono metaforizzati nel figlio minore dissipatore, che vive in modo dissoluto, ma che, pentitosi, alla pari del figlio dissenziente in Matteo, ritorna nell'accogliente casa del padre, così come il matteano figlio dissenziente si conformerà alla volontà paterna. Diversamente ne rimarrà escluso il figlio maggiore, metafora dei Farisei e degli scribi, così come esclusi rimarranno i sacerdoti e gli anziani di Matteo, che saranno preceduti nel Regno di Dio dai pubblicani e dalle prostitute.

  3. A ben guardare vi è tra le due parabole anche l'identico schema narrativo: vi sono gli stessi attori: il padre e due figli; vi è un identico contrapposto comportamento dei due figli. In Matteo il figlio che si rifiuta al padre, sarà quello che alla fine, accogliendo le sue disposizioni, si conformerà alla sua volontà; mentre quello che inizialmente si era mostrato subito disponibile, sarà proprio quello che si negherà al padre, rifiutandone la volontà. Similmente in Luca, il figlio più giovane è quello che se ne va dalla casa del padre, dicendo di fatto no al padre e alle sue regole, ma è anche quello che alla fine, ripensandoci e pentitosi, alla pari del figlio dissenziente in Matteo, sa ritornare (Mt 21,29b; Lc 15,18-20a); mentre il figlio maggiore, che è quello che è sempre rimasto nella casa del padre, servendolo con cura e osservando ogni sua disposizione, dicendo in tal modo il suo “si” al padre, sarà proprio colui che alla fine dirà il suo no al padre e con lui alla sua casa e alla sua eredità.

  4. Vi è, poi, nella parabola lucana dei due figli la presenza di semitisimi, quali l'uso del sostantivo “cielo” in luogo di “Dio” ai v.18.21; l'espressione “rientrato in se stesso” al v.17a; l'uso ripetitivo della congiunzione “ka…” (kaí, e). Elementi questi che non vanno trascurati, poiché denunciano come Luca sia in qualche modo debitore per la sua parabola a un testo preesistente, di fonte Q, che qui sembra condividere con Mt 21,28-32.

  5. Un quinto elemento di riflessione è il particolare che sia Mt 21,28-32 che Lc 15,11-32 siano considerate composizioni dei rispettivi autori, elaborate su materiale proprio e questo perché non si è giunti a comprendere come i due racconti in realtà attingono ad un'unica fonte, la Q, che Mt 21,28-32 ha riportato sostanzialmente identica, mentre Luca ha preferito crearci attorno un racconto parabolico più ampio.

Rimane, pertanto, da chiarire un ultimo aspetto: perché Luca ha voluto dare uno sviluppo così complesso ed alquanto elaborato ad una parabola che ritroviamo molto più semplice e stringata in Mt 21,28-32? Per poterlo comprendere è necessario rifarsi ai vv.1-2 dove da un lato i pubblicani e i peccatori vanno verso Gesù, che non solo li accoglie, ma condivide con loro la stessa mensa. Qui vi sono due attori: Gesù, che accoglie e condivide la sua vita con i peccatori, rendendosi solidale con loro; e i peccatori, che accorrono a lui. Questo crea un notevole scandalo tra i benpensanti Farisei e scribi. Come, dunque, giustificare il comportamento di Gesù? A questo rispondono le due parabole precedenti (vv.3-10): quella del pastore e della donna di casa, che si danno un gran da fare con ogni mezzo e con cura per cercare ciò che è andato perduto al fine di ritrovarlo e ricomporlo nella loro proprietà. In altri termini, viene descritta la missione di Gesù, che è venuto “non a chiamare i giusti, ma i peccatori, perché si convertano” (5,32); del resto “Non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma quelli che stanno male” (5,31). Per questo Gesù si promiscua con i peccatori. Ma chi sono veramente questi? E per contro, chi sono i veri giusti? Sarà proprio la parabola del “Padre e dei suoi due figli” che, nel suo secondo livello di lettura, spiegherà agli ascoltatori chi è il peccatore e chi è il giusto, illustrando la dinamica del peccato, della conversione e della redenzione. Una catechesi, dunque, complessa. Da qui la necessità, partendo da uno schema semplice e conciso, come quello matteano, di fonte Q, che sta alla base di questa parabola, di ampliare, trasformando e arricchendo una parabola essenziale in un capolavoro ineguagliabile. Non va dimenticato che qui Luca sta svolgendo una catechesi, la quinta, secondo il nostro schema di lettura e di comprensione del vangelo lucano.


Primo livello di lettura: la risposta ai vv.1-2


Note generali

Se le due parabole, quella del pastore e quella della donna di casa (vv.4-10), rispondono alla domanda perché Gesù si promiscua con i peccatori; in altri termini spiega il senso della missione di Gesù, questa parabola del “Padre e dei suoi due figli” delinea l'identità di questi due figli e la loro contrapposta e inconciliabile natura. Preminente in questo primo livello di lettura della parabola non è la figura del padre, che sfuma, quasi insignificante, lungo tutto il racconto: egli è cedevole nei confronti di entrambi i figli ed è preso di mezzo a loro e non determina mai la sua posizione a favore dell'uno o dell'altro. Alle pretese del figlio più giovane, infatti, cede senza opporsi (v.12b); diviene oggetto di riflessione opportunistica da parte del figlio scialacquatore, che studia come manipolare il padre pur di salvarsi da una grave situazione, in cui si era cacciato anche per la debolezza del padre stesso (vv.17-20a); è un padre che non prende nessuna iniziativa, ma rimane a casa ad aspettare che qualcosa succeda e quando finalmente vede arrivare suo figlio gli cade letteralmente tra le braccia (v.20b) e, senza riflettere un istante, dà ordine di allestire una grande festa (v.23), accogliendo quel suo figlio disgraziato, ricostituendolo nella sua originale dignità come se nulla fosse accaduto (v.22). A fronte di un comportamento così istintivo e viscerale, ma certamente non razionale e tanto meno educativo, protesta giustamente il figlio maggiore, il quale non era stato avvertito del ritorno del suo fratello disgraziato e, quindi, in buona sostanza, escluso dalla festa, praticamente dimenticato. Anche per questo il maggiore si ribella ad un padre tanto insipiente, che si fa in quattro per il fratello che ha dissipato le sue sostanze con le prostitute, ma non gli ha mai rivolta un'attenzione, lui, che invece lo ha sempre fedelmente servito. Il figlio maggiore, pertanto, si rifiuta non solo di partecipare alla festa, ma di entrare nella casa del padre, il quale l'unica cosa che sa fare è balbettare qualche scusa per giustificarsi, più che per convincere il maggiore (vv.31-32). Vedremo, per contro, come nel secondo livello di lettura, il padre acquista una centralità determinante e tale da far convergere su di sé i suoi due figli con tutto il loro carico di pretese e di povertà.

In questo primo livello di lettura, pertanto, la figura del padre, pur attraversando l'intero racconto, scema di fronte al figlio sciagurato, a cui l'autore dedica l'attenzione maggiore, ben dieci versetti (vv.12-21); e a quello fedele, che riceve, invece, molta rilevanza per la sua protesta e la sua contrapposizione sia al fratello minore che all'inopinata scelta del padre, apparendo come l'unica vera vittima della situazione. E che così sia lo attesta la stessa struttura della parabola che ha due vertici contrapposti, in cui i veri attori sono il figlio minore (vv.12-24) e quello maggiore (vv.25-32), mentre il padre fa da spalla ai due. Luca, pertanto, in questo primo livello, intende accentrare l'attenzione non sul padre, ma sui due fratelli, così diversi e così inconciliabili tra di loro, rispondendo in tal modo ai vv.1-2, in cui appaiono da un lato i peccatori pentiti che accorrono verso Gesù (v.1); dall'altro i Farisei e gli scribi che protestano per questo comportamento così ambiguo e inaccettabile di Gesù. Pertanto, ecco che il fratello minore, scialacquatore delle sostanze del padre, ma che, pentito, ritorna a lui, diviene la metafora dei pubblicani e dei peccatori, che accorrono verso Gesù (v.1); mentre il fratello maggiore, che ha sempre fedelmente servito il padre, ma che ora per protesta, rifiutandosi di entrare in casa, opponendosi sia al fratello minore che al padre stesso, diviene metafora dei Farisei e degli scribi, che protestano per l'accoglienza che Gesù riserva ai peccatori, da loro visceralmente detestati. Così che, a giochi finiti, chi rimane fuori dalla casa del padre non sono i peccatori convertiti, ma coloro che si ritenevano giusti. Sarà l'identica conclusione a cui giungerà lo stesso Mt 21,31-32.


Commento ai vv.11-32


Riprendendo l'espressione “EŒpen dš” (Eîpen dé), con cui si apriva il racconto delle prime due parabole (v.3a), Luca introduce ora il racconto del “Padre e dei due figli” (v.11). Il ripetersi dell'espressione crea una sorta di continuità narrativa, ma nel contempo produce anche uno stacco dalle precedenti due parabole, avvertendo il lettore che qui si sta per introdurre un nuovo racconto, che va letto in modo diverso e con maggiore attenzione sia per la sua complessità narrativa, sia per la sua diversa tematica, che si svolge su due livelli. Infatti, se le prime due parabole accentravano l'attenzione sul darsi da fare del pastore e della donna di casa per ritrovare ciò che era perduto, qui l'attenzione viene spostata su ciò che era perduto e su ciò che non si è mai perso, ma che verrà, invece, perduto, cioè sui due figli.

Ciò che qui si racconta, infatti, è la storia di “Un uomo che aveva due figli”. L'accento qui non cade sul padre, ma sui figli. Lo si arguisce non solo dallo sviluppo narrativo che gira quasi esclusivamente attorno a loro, ma anche dall'uso dei termini che qui l'autore fa. “Un uomo” è qui reso in greco non con “¢n»r” (anér), la quale cosa indicherebbe un uomo specifico, particolare, degno di attenzione, di un certo rilievo o di cui si è già parlato, bensì con “”AnqrwpÒj tij” (Ántzropós tis), espressione questa caratteristica di Luca per indicare un uomo qualsiasi, in senso generico, quasi privo di una sua ben definita identità. E sarà questa, come si è visto poc'anzi, l'immagine del padre che ne uscirà dal racconto. Per contro, l'attenzione qui cade sui “due figli”, che Luca, a differenza di Mt 21,28a, che li definisce genericamente “tškna” (tékna), li chiama in modo più appropriato e specifico “uƒoÚj” (uíus). In questo primo livello di lettura saranno loro, infatti, i veri protagonisti dell'intera parabola; mentre il padre l'attraversa, quasi anonimamente, muovendosi sullo sfondo, quasi invisibile, acquistando appena una sua certa vitalità soltanto alla fine.

Il v.11, pertanto, presenta gli attori principali, ma nel contempo fornisce anche il titolo a questo mirabile racconto, avvertendo il lettore che comunque vadano le cose in questo racconto, i due figli rimangono sempre figli di questo padre. È significativo, infatti, l'uso del tempo verbale che qui l'autore fa: “eŒcen” (eîchen, aveva), imperfetto indicativo, che in greco indica un reiterazione di un'azione continuativa, durativa nel tempo, per cui i due figli continueranno ad essere per questo padre sempre suoi figli.

I vv.12-24 raccontano la storia dello sprovveduto “figlio minore”, che presosi la sua parte di eredità24, inopinatamente la sperperò in dissolutezze, anziché impiegarla proficuamente, lasciandosi prendere la mano dalla sua spensierata giovinezza, in cerca di divertimenti e piaceri (v.30), senza pensare ciò che gli stava davanti e ciò che, invece, aveva lasciato alle spalle. Una storia questa, che si contrappone in senso diametralmente opposto a quella del “figlio più vecchio” (vv.25-32), tutto dedito, invece, agli affari di famiglia. Stava infatti ritornando dal duro lavoro dei campi (v.25); ed inoltre si era posto completamente al servizio del padre, non trasgredendo mai la sua volontà e senza mai pretendere nulla da lui (v.29). Insomma, un figlio esemplare, rimasto da sempre fedele al padre, ma nel contempo molto adirato perché ravvisava nel comportamento del padre una grave ingiustizia nei suoi confronti, che lo spinge a disconoscere il padre stesso, associandolo al suo figlio scapestrato: “questo tuo figlio” (v.30), quasi incolpando il padre di averlo generato e di averglielo dato come fratello, con cui non ha nulla da spartire; anzi egli lo rinnega come fratello, così da costringere il padre a ricordargli che questi è comunque suo fratello: “ma questo tuo fratello” (v.32), contrapponendosi così alla grave presa di posizione del figlio maggiore, che stava, alla pari di quello minore, allontanandosi dalla casa paterna, con l'aggravante di rifiutare la paternità stessa del padre nei suoi confronti. Un autentico atto di ribellione, che, separando il padre da questo figlio maggiore, gli toglie nel contempo la sua stessa identità e la sua stessa storia, esponendolo, alla pari del figlio minore, alla perdizione. Una ribellione e un rifiuto del padre che, invece, non si riscontrano nel figlio minore, desideroso soltanto di farsi una sua vita al di fuori delle mura paterne25, lasciando in tal modo aperta la possibilità di un suo ritorno al padre. La posizione del figlio maggiore, invece, è decisamente più grave sia perché disconosce il padre e suo fratello minore, quindi la sua origine familiare; sia perché, per sua scelta, si è posto fuori dalla casa paterna: “non voleva entrare”. Quel verbo “non voleva” lascia intravvedere, da un lato, un atto della sua volontà, che sottende la sua decisione di non entrare nella casa del padre, di fatto, rifiutandola; dall'altro, il verbo all'imperfetto indicativo dice come questa sua deliberazione non si limitava ad un atto momentaneo, dovuto ad un comprensibile scatto d'ira, ma determinava una vera e persistente scelta di vita, che lo poneva fuori dalla casa del padre. Uno straordinario quanto inaspettato e drammatico capovolgimento di situazione, che lo pone alla stessa stregua del figlio minore, allorché si allontanò da casa paterna, con l'aggravante, che il maggiore, rompendo in modo così grave e irreversibile con la casa paterna, si esclude definitivamente dalla salvezza. In altri termini, un'uscita senza ritorno e per il padre un figlio veramente perduto e non più ritrovato.

Una storia questa che risponde ai vv.1-2, in cui compaiono, da un lato “i pubblicani e i peccatori” che si avvicinano a Gesù per accoglierlo (v.1), raffigurati dal figlio minore che ritorna al padre; dall'altro, “i Farisei e gli scribi” (v.2) che, alla pari del figlio maggiore, protestano per il comportamento accondiscendente di Gesù nei confronti dei peccatori. Non è difficile vedere in questi due figli la metafora e la storia del giudaismo. Nel “figlio più vecchio” si intravvede in quel “più vecchio” la lunga storia di relazione tra Jhwh e Israele, fatta di Patriarchi, di promesse, di alleanza, di Torah, di profeti e di attese messianiche; mentre nella sprovvedutezza del “figlio minore”, la metafora del mondo dei pagani, considerati da Luca come i figli minori, rispetto a quelli maggiori. Quelli che non avevano mai avuto una lunga storia di relazione con Dio, che ancora non conoscevano, ma che comunque, in qualche modo, ne erano figli inconsci e che Gesù è venuto a cercare. Due realtà completamente diverse ed opposte, ma che trovano la loro comune origine e la loro ricomposizione nel comune Padre, loro unico punto d'incontro e di riconciliazione. Una situazione questa descritta da Ef 2,10-17, in cui l'autore sottolinea come la divisione tra giudaismo e mondo dei pagani, fatta di leggi e prescrizioni, sia stata abolita in Gesù, divenuto per i due la loro pace: “Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo. Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani per nascita, chiamati incirconcisi da quelli che si dicono circoncisi perché tali sono nella carne per mano di uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d'Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia. Egli è venuto perciò ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini”. Mentre Paolo, con mirabile sintesi e incisività attesta alle sue comunità della Galazia che “Non c'è più Giudeo né Greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).


Secondo livello di lettura: peccato, conversione e riscatto (vv.11-32)


Se il primo livello di lettura rilevava il rapporto conflittuale che intercorreva tra giudaismo e mondo pagano (vv.1-2.28.29-30), che viene superato in Gesù (v.1.2b.20b-24), pena l'esclusione dalla salvezza (v.28a), il secondo livello di lettura accentra la sua attenzione sulla dinamica che muove i personaggi e in particolar modo su chi è il peccatore e che cos'è il peccato; la dinamica della conversione e quella del riscatto e della redenzione. Il linguaggio qui si fa simbolico e la metafora si fa più accentuata, sconfinando nell'allegoria.

L'intero racconto si muove attorno a tre movimenti: discendente-ascendente per il figlio minore, che allontanatosi dal padre, dissipa in dissolutezze i suoi beni, ed entrato in una situazione di grave necessità arriva a condividere il cibo con i porci che pascola. Da qui in poi riprende la sua risalita, ritornando al padre che lo ricostituisce nella sua primordiale dignità di figlio. Il terzo movimento è il rifiuto-resistenza del figlio maggiore, che ricusa sia il fratello minore che il padre, rifiutandosi di entrare in casa, divenutagli estranea.

Ho suddiviso il racconto per una migliore focalizzazione tematica in sette quadri narrativi, che ho già indicato nel presente studio (pag.10) e che qui riporto per facilitarne la lettura e la comprensione:


Introduzione e titolo della parabola (v.11)


Testo

11 – Ora disse: <<Un uomo aveva due figli..


Il racconto inizia in modo accattivante come una sorta di favola: “Un uomo aveva due figli”, che potremmo tradurre in termini a noi più vicini e comprensibili con “C'era una volta un uomo che aveva due figli”. Vengono subito presentati gli attori di questo dramma e l'attenzione viene indirizzata sulla tipologia dei rapporti che intercorrono tra questi tre uomini: un padre e due figli. Viene a formarsi in tal modo una sorta di triangolo che ha per vertice il padre, da cui discendono e verso il quale convergono e si rapportano in diverso modo i due figli. Viene posta subito in rilievo la centralità del padre, al quale sono inscindibilmente legati i due figli, indipendentemente dai loro contrapposti e complessi destini. Sarà sempre il padre che, legando a sé i due figli, rende inscindibili anche i rapporti tra di loro, così che il loro porsi in contrasto tra di loro provoca necessariamente anche una collisione con il padre, che funge, qui nel racconto, da trait-d'union tra i due. Il rifiuto dell'uno provoca implicitamente anche il rifiuto del padre ed ha come esito finale quello del rimanere fuori di casa, perdendo la propria identità familiare, a cui si è legati, e di conseguenza quella personale. È importante comprendere questo meccanismo di fondo che sottende la dinamica relazionale dei tre personaggi del racconto per poter comprendere le conseguenze delle singole decisioni, che non solo si riflettono su se stessi e sull'altro fratello, ma anche sul padre, poiché tra i tre il legame è e rimane comunque inscindibile. In questo si prospetta la dimensione sia personale, sociale che trascendentale del peccato, della conversione e del riscatto redentivo. Significativa è, infatti, la preghiera del Padre nostro, là dove si chiede al Padre di rimettere i propri debiti come noi li rimettiamo agli altri. Anche qui, come nel racconto lucano, si realizza un triangolo che ci rende tutti inscindibilmente legati gli uni agli altri: noi, gli altri e il Padre, che ci elargisce il suo perdono nella misura in cui noi sappiamo elargirlo agli altri. Non amare l'altro, non perdonarlo, non accoglierlo ha un contestuale riverbero non solo sull'altro, ma contemporaneamente anche sul Padre, che lo riflette su di noi, chiudendosi in tal modo il ciclo personale della salvezza. Non si può, infatti, amare Dio che non si vede se non si ama il prossimo che si vede (1Gv 4,20). In tal modo l'amore per Dio passa attraverso quello per il prossimo. Non è un caso, infatti, che i due principali principi dell'amore di Dio e dell'amore del prossimo sono tra loro interconnessi26.

Viene qui, pertanto, prospettato il contesto umano-divino entro cui si muove il peccato, la conversione, il riscatto e la redenzione, in un intreccio relazionale che coinvolge tutto e tutti, così che niente è neutro in ciò che facciamo; niente è esclusivo e personale nelle nostre scelte.

Le pretese dissipatrici del figlio più giovane (vv.12-13)

Testo

12 – E disse il più giovane di loro al padre: “Padre, dammi la parte della sostanza che mi spetta”. Egli divise tra loro gli averi.
13 – E dopo non molti giorni il figlio più giovane, raccolte tutte le cose, partì per una regione lontana e là dissipò la sua sostanza, vivendo in modo dissoluto.


Due gli elementi di rilievo: da un lato, la divisione delle sostanze del padre, che questi dona a suo figlio. Ciò che il figlio riceve dal padre sono, quindi, i beni del padre, da lui provengono e il figlio li fa suoi. D'ora in avanti gli appartengono e sono messi a sua disposizione perché li usi; dall'altro, il figlio, che, raccolti i suoi beni, si allontana dal padre, in una regione lontana dove egli usa i beni ricevuti dal padre non per investirli, moltiplicarli, rendendoli proficui per se stesso e per gli altri, ma per dissiparli, vivendo in modo dissoluto.

Ecco che cos'è il peccato, non tanto una violazione di qualche prescrizione morale o di qualche comandamento (per questo nessuno si dannerà, rientrando ciò nelle logiche della fragilità umana segnata profondamente dalla colpa originale), ma l'andare in una regione lontana dal Padre, cioè l'allontanarsi da Dio e spendere la propria vita lontani da Lui. Questo allontanamento esistenziale porta a dissipare il bene della propria vita, avendola reindirizzata verso se stessi e verso le cose, in un cammino autoreferenziale. Significativo in tal senso è il verbo greco “¡mart£nein” (amartánein), che si traduce con peccare, ma che in realtà dice molto di più: esso significa letteralmente “deviare, non cogliere, fallire, perdere, essere privato, sbagliare strada, allontanarsi dalla verità e da ciò che è giusto”. Qui non si parla più di una qualche azione sbagliata, ma di un orientamento esistenziale sbagliato e tale che rende inique e perverse anche le cose oggettivamente buone, poiché il loro compiersi non è più rivolto verso Dio. È il Male che intacca e rende vana ogni cosa buona. Ecco perché il giovane vive in modo dissoluto, perché ha perso il senso delle cose e della vita. Non è più Dio il suo referente, ma se stesso e il proprio autosoddisfacimento.


Indigenza e umiliazione (vv.14-16)


Testo

14 – Speso egli tutto quanto, avvenne una grande fame su quella regione, ed egli incominciò ad essere indigente.
15 – E partito, si unì ad uno dei cittadini di quella regione, e lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci;
16 – e bramava cibarsi delle carrube, che mangiavano i porci, e nessuno gli(ene) dava.


Due gli elementi essenziali: da un lato, viene presentata “quella regione”, cioè la regione in cui si trova il figlio, ma che sappiamo essere una regione lontana dal padre. Un luogo che ti ospita e che sembra offrire felicità, ma che in realtà, come tutte le cose umane deperiscono e si rendono inospitali e a lungo andare ti tolgono ogni prospettiva di vita. La regione, infatti, viene colpita da una carestia, che ti priva di ogni bene essenziale per poter vivere. Dall'altro, il giovane viene a trovarsi in uno stato di grave difficoltà, avendo dilapidato tutto ciò che il padre gli aveva benevolmente dato. Ma questo giovane, anziché pensare ad un ritorno alla casa del padre, persiste nel suo rimanere in quella regione e cerca aiuto presso un cittadino di quella regione; “si unisce” a lui, cercando soluzioni alla sua esistenza, che quella regione lontana dal padre e tutti i suoi abitanti non gli possono dare. E tutto ciò che una simile regione gli riesce dare è soltanto ciò che possiede: pascolare i porci, convivere con loro, con animali considerati per loro natura immondi e produttori di impurità. Ma il suo degrado non è finito, poiché egli non si limita a pascolarli, ma condivide il cibo con loro. Ora non c'è più distinzione tra lui e questi porci. Il giovane ha toccato il fondo della sua dissolutezza e della sua depravazione.

Sono qui presentati gli effetti del peccato, dell'orientamento esistenziale sbagliato: la propria vita viene dilapidata e dispersa nella futilità del vivere, che, a giochi finiti, non paga, ma porta l'uomo in una condizione di grave carestia , che è avvenuta proprio in quella regione lontana da Dio; carestia che significa privazione dei beni essenziali per il vivere, ponendo quindi l'uomo in una condizione esistenziale di morte. Questo stato di cose crea necessariamente un profondo senso di disorientamento e di disagio esistenziali, che spingono il giovane, ormai lontano dalla casa paterna, a cercare la soluzione in altri uomini, che come lui abitano in quella regione lontana da Dio, e la soluzione che essi offrono lo porta ad una situazione di degrado esistenziale insostenibile e senza vie di uscita: accudire i porci, desiderando di nutrirsi del loro cibo.

La riflessione (vv.17-19)

Testo

17 – Ora, entrato in se stesso disse: “Quanti servi di mio padre (sono) sovrabbondanti di pani, io, invece qui muoio di fame.
18 – Alzato(mi) andrò verso mio padre e gli dirò: Padre ho peccato contro il cielo e davanti a te,
19 – non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami come uno dei tuoi servi”

Ma la luce in questo giovane dissoluto, tale perché vive in una regione lontana dal padre, non è ancora spenta del tutto e vecchi ricordi popolano ora la sua mente. Ricorda i bei tempi in cui viveva nella casa del padre, dove non vi erano mai carestie e dove anche i servi hanno abbondanza di cibo, mentre lui, suo figlio, perdendo la sua identità ed ogni dignità, convive ora con i porci. Si tratta di un bagliore di luce da cui il giovane è illuminato, rientrando in se stesso. È il primo passo verso il ritorno alla casa del padre, verso la conversione: dalle cose, in mezzo alle quali si vive in modo dissipato, si rientra in se stessi, dove la luce della vita non si spegne mai, poiché la propria coscienza, quella che riesce a farti percepire in modo semplice e diretto ciò che è bene e ciò che è male, altro non è che quel sacrario dove si trova sempre la Verità, che parla lo stesso linguaggio di Dio.

Il giovane, pertanto, rientra in se stesso e qui trova la risposta al suo problema; nel rapporto con se stesso, con la propria coscienza, dove lo attende la Voce della Verità, con cui egli dovrà confrontarsi, pena il proprio fallimento esistenziale, che lo avvolge in una irreversibile spirale di morte. Sant'Agostino, in tal senso, sollecitava: “Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas27 (Non uscire, ritorna in te stesso, nell'uomo interiore abita la verità). È qui dunque, nell'intimità di questo suo sacrario divino, che l'uomo trova il momento del suo ripensamento e del suo riscatto. Rientrare in se stessi dove, nel silenzio della propria coscienza, l'uomo incontra Dio. È qui che scatta la spinta evolutiva; qui che l'uomo ritrova il senso del proprio vivere che lo porta a rialzarsi.

La decisione che porta al riscatto e alla redenzione (vv.20-21)

Testo

20 – E alzatosi andò verso suo padre. Quando ancora egli era molto lontano, suo padre lo vide e fu mosso a compassione e, corso, cadde sul suo collo e lo baciò.
21 – Ora il figlio gli disse: “Padre, ho peccato contro il cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”.


Questi gli effetti del ripensamento interiore : “levatosi andò da suo padre”. Il verbo qui usato per indicare il levarsi del giovane è “¢nast¦j” (anastàs), un verbo tecnico con cui nella chiesa primitiva si indicava la risurrezione di Gesù. Vi è, quindi, in questo “levarsi” del giovane dalla situazione in cui era caduto una sorta di forza rigeneratrice e rinnovatrice, che lo ha trasformato interiormente, dandogli quella forza che lo ha spinto a ritrovare se stesso non più nelle cose, in cui si era perduto, ma dentro di sé. Quel levarsi, pertanto, parla di riscatto, di una ritrovata forza interiore che spinge il giovane in un cammino di ritorno al Padre. È il senso della conversione: il riorientare la propria vita verso il Padre, dove il giovane ritroverà la sua dignità perduta. La conversione è il cammino esatto contrario a quello del peccato.

E il Padre lo stava attendendo e gli corre incontro abbracciandolo, accogliendolo nuovamente nella casa abbandonata e ricostituendolo nella sua primitiva dignità di figlio. Il figlio comincia a sciorinare la sua richiesta di perdono, che si era preparato meticolosamente; ma il Padre neppure lo ascolta, poiché il ritorno del figlio vale ben più di qualsiasi discorso. Il salmista, infatti, ricorda proprio questo aspetto: “Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi” (Sal 50,19). Del resto, già da quell'attesa paziente e vigile del Padre traspare evidente il perdono già concesso al figlio.


Il Padre (vv.22-24)

Testo

22 – Ma disse il padre verso i suoi servi: “Presto, portate fuori la veste, quella più ragguardevole e vestitelo e date un anello nella sua mano e dei calzari ai piedi,
23 – e portate il vitello ingrassato, sacrificate(lo), e mangiando rallegriamoci,
24 – poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato trovato. E incominciarono a rallegrarsi”.


È sconcertante come il padre in tutto il racconto venga presentato come una figura totalmente passiva rispetto al figlio, quasi succube: nessuna opposizione alle sue decisione sbagliate, nessun tentativo di mandare dei servi a cercarlo o a vigilare sul suo comportamento, nessuna minaccia, nessuna prospettiva di punizione, ma soltanto un'attesa vigile e paziente. Certamente un comportamento anomalo per un padre. Ma questo è il comportamento di Dio, che rispetta le nostre decisioni e le nostre scelte, giuste o sbagliate che siano, e in tutto questo non vi è nessuna condanna, ma solo un'amorevole attesa del nostro ritorno. Tutto ci è già stato perdonato in Cristo, per cui “non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù” (Rm 8,1). Non c'è bisogno di altro perdono, se non della nostra risposta esistenziale a questo perdono incondizionato di Dio. È la logica della storia della salvezza, che può anche fallire a causa nostra, non certo di Dio. Quello che Dio doveva fare lo ha fatto: ha inviato suo Figlio e ci ha lasciato la sua Parola e continua ad illuminarci nell'intimità della nostra coscienza. Ora il gioco è soltanto nelle nostre mani e la parola chiave vincente si chiama “conversione”, che non è soltanto un atto occasionale, ma sistematico. Conversione come scelta di vita; conversione come stile qualificante del proprio vivere; conversione che è ricerca di comunione con Dio. Una conversione che ha la sua radice e il suo motore nella Parola di Dio; conversione quale risposta esistenziale alla Parola di Dio, che ci interpella (Mc 1,15).

E gli effetti di questa conversione rigenerante stanno tutti lì: nella veste più ragguardevole, nell'anello e nei calzari, nel vitello grasso, che ogni padrone di casa avveduto teneva a disposizione per le occasioni più importanti e per gli ospiti d'onore, nel gioioso banchetto conviviale di festeggiamento. Il vestito nel linguaggio biblico indica lo stato di vita di una persona28. E il vestito dice che tale figlio è stato ricostituito nella sua originaria condizione di vita; anzi, quel “più ragguardevole” dice che il padre è andato ben oltre e che quel figlio ha acquisito la stessa dignità di vita del padre, poiché nulla c'è di “più ragguardevole” della condizione di vita dello stesso padre. Come di conseguenza, ecco che la mano del figlio viene impreziosita da un anello. Non si tratta di una qualche pietra preziosa incastonata in un anello d'oro, ma del sigillo di famiglia, che indica il potere stesso del padre29, ora condiviso con il figlio, i cui piedi vengono a loro volta rivestiti da calzari, che sono il segno dell'uomo libero, in contrapposizione a quelli degli schiavi, che camminano scalzi.

Una ricostituzione, quindi, allo stato di vita originario, che porta i segni di una risurrezione vera e propria, già in qualche modo preannunciata in quel ¢nast¦j” (anastàs) ai vv.18.20, e che verrà suggerita in conclusione di questa prima parte della parabola: “poiché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita”.

Lo sdegno del fratello maggiore: rifiuto e resistenza al padre (vv.25-32)

Testo

25 – Ora, il suo figlio più vecchio era nel campo; e così, ritornando si avvicinò alla casa, udì un concerto musicale e cori;
26 – e chiamato uno dei servi s'informava che cosa fossero tutte queste cose.
27 – Questi gli disse che è arrivato suo fratello e che suo padre sacrificò il vitello ingrassato, poiché lo ha riavuto in buona salute.
28 – Ora (egli) si adirò e non voleva entrare; ma suo padre, uscito, lo supplicava.
29 – Ma questi rispondendo disse a suo padre: “Ecco ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando e non mi hai mai dato un capretto affinché mi rallegrassi con i        miei amici;
30 – Ma allorché questo tuo figlio, che ha divorato le tue sostanze con prostitute, è giunto, gli hai sacrificato il vitello ingrassato”.
31 – Ma questi gli disse: “Figlio, tu sei sempre con me, e tutte le cose mie sono tue.

32 – Ma bisognava rallegrarsi e gioire, poiché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, e perduto ed è stato ritrovato”>>.

Se con la prima parte di questa parabola (vv.11-24) l'autore ha presentato un aspetto del peccato, colto come un allontanamento da Dio, che produce uno smarrimento esistenziale ed una dispersione banalizzante della propria vita, che porta a dissiparla nelle cose, in questa seconda parte viene presentato un altro aspetto del peccato, che ha come effetto l'identico risultato: quello del rimanere fuori dalla casa del padre, ponendo il peccatore in rotta di collisione con il padre stesso: il rifiuto del fratello e la resistenza agli inviti del padre.

Luca presenta il secondo fratello come una persona talmente per bene e così devota al padre, tale da farlo sembrare vittima del padre stesso (vv.28a.29-30). In realtà il fratello maggiore si mostra pervicacemente chiuso sia nei confronti del fratello minore che dello stesso padre. Un risentimento che lo porta a rinnegare la stessa casa del padre alla quale egli è sempre appartenuto: “non voleva entrare”, in cui in quel “non voleva”, posto all'imperfetto indicativo, che esprime un'azione durativa nel tempo, lascia trasparire la sua irrevocabile decisione, andandosene egli stesso dalla casa del padre, alla stessa stregua del fratello minore, che, insieme al padre, detestava

È questa l'altra faccia del peccato: la persistente chiusura a Dio, che si riflette nel rifiuto del fratello. Un monito che Luca, probabilmente, lancia a quelli delle comunità credenti, quasi certamente giudeocristiani che si rifiutano di condividere la stessa casa e la stessa mensa dell'unico padre con quelli che essi ritenevano degli impuri e dei peccatori, senza rendersi conto che questo loro comportamento entrava in rotta di collisione con lo stesso progetto di Dio, che traspare da quel “bisognava rallegrarsi e gioire”. “Rallegrarsi e gioire” due verbi che richiamano da vicino il banchetto conviviale indetto dallo stesso padre (v.23), che in qualche modo rievoca quello eucaristico, attorno al quale tutti, giudeocristiani ed etnocristiani sono chiamati a condividere il comune pane, la comune parola, lo stesso Cristo. E quel “bisognava” riporta il credente a quel progetto divino iniziale racchiuso nel mistero ancor prima della creazione (Ef 1,4) e manifestatosi soltanto ora in Gesù: “Questo mistero non è stato manifestato agli uomini delle precedenti generazioni come al presente è stato rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito: che i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo” (Ef 3,5-6). Rifiutare di aprire questo banchetto a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro posizione sociale e religiosa, significa rifiutare questo progetto di salvezza del Padre, ponendosi, ipso facto, fuori dallo stesso progetto salvifico.




NOTE

1Cfr. Mt 9,13; Mc 2,17; Lc 5,32; Gv 12,47;

2Cfr. la voce “Farisei” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

3Cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XVII,42

4Cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XIII,409

5Cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XIII,408

6Cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XIII,288.298; XVIII,

7Cfr. G. Flavio, Antichità Giudaiche, Libro XIII,297; XVII,41

8Cfr. G. Flavio, Guerra giudaica, Libro I,110; II,162

9Cfr. Mt 12,1-2.10-12; Mc 2,23-28; 3,1-5; Lc 6,1-10; 13,10-17; 14,1-6; Gv 5,16.18; 7,23; 9,14.16a;

10Cfr. Mt 9,10-11; 11,19; 15,2-20; Mc 2,15-16; 7,1-5.17-23; Lc 15,2;

11Cfr. Mt 9,14; Mc 2,18; Lc 5,33.

12Cfr. Mt 5,22-48

13Cfr. Mt 15,9; Mc 7,7

14Cfr. Mt 23,1-39; Lc 11,38-54

15Gv 11,47-48

16Gv 7,13; 9,22; 12,42; 19,38a; 20,19.

17Cfr. Es 15,24; 16,2.7.8; Nm 14,2.36; 16,11; Dt 1,27; Gs 9,18; Sir 31,24

18Cfr. At 10,28a; 11,1-3; Gal 2,11-13

19Cfr. Sal 22,1-3; 79,2-3; Is 40,11; Ger 31,10; Ez 34,11-31;

20Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Edizioni, Roma, III edizione 2001; pag. 509

21Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, 1992, III edizione gennaio 2001, pag.606.

22Il sostantivo greco usato da Matteo, “tškna” (tékna), per indicare i “figli” è alquanto generico e in greco assume anche altri significati come figlia, fanciullo, bambino, prole, riferibile anche ai piccoli degli animali o anche in senso figurato come “i figli della terra” o “i figli dell'aria”. Luca, al contrario, usa il sostantivo “uƒoÚj” (uiús), che in greco è univoco e preciso e significa soltanto “figli” con riferimento esclusivo a quelli dell'uomo.

23L'espressione “”AnqrwpÒj tij” (Ántzropós tis) è caratteristica di Luca e in tutto il NT ricorre sette volte soltanto in lui. Cfr. Lc 10,30; 14,2.16; 15,11; 16,1; 19,12; 20,9.

24Dal racconto non pare che vi sia stata una rottura tra padre e figlio minore, ma una sorta di tacito accordo, come se tutto dovesse rientrare nelle logiche degli usi e dei costumi dell'epoca. Infatti, Sir 33,24 sembra suggerire al padre di assegnare ai figli la propria eredità soltanto al momento della morte: “Quando finiranno i giorni della tua vita, al momento della morte, assegna la tua eredità”, lasciando in tal modo intendere che vi era un uso di liquidare ai figli la loro parte di eredità anzitempo. La normativa sull'eredità non era ancora ben precisata per iscritto, né vi erano specifici testi di legge che la regolamentassero, ma ci rifaceva a quanto disponeva la Torah, Dt 21,15-17; Nm 27,1-11 e 36,6-9, gli unici che parlano di eredità. Testi questi, che per altro si rifanno a casi particolari. Era necessario pertanto integrarli con le usanze, che non sempre appaiono chiare nelle narrazioni bibliche. La regola fondamentale è che i figli hanno diritto all'eredità e il primogenito godeva di una particolare posizione di privilegio, beneficiando del doppio dei beni paterni (Dt 21,17). È probabile che soltanto il patrimonio mobiliare venisse diviso, mentre quello immobiliare, i beni familiari come la casa e i terreni, dovevano rimanere indivisi ed assegnati al primogenito. In assenza di figli maschi, potevano ereditare anche le figlie, purché si sposassero con uno del clan della tribù del padre, per evitare che i beni paterni passassero ad un'altra tribù (Nm 36,6-9). Nel nostro caso, al figlio minore dovevano essere spettati soltanto dei beni mobiliari, denaro liquido o beni equivalenti, facilmente spendibili. La prova ne è che da lì a “non molti giorni” se ne parti. Se ci fossero stati beni immobiliari, come terreni e case, difficilmente si sarebbero potuti monetizzare nel giro di qualche giorno. - Sulla questione dell'eredità cfr. Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; pagg. 62-64. Cfr. anche le voci “Eredità, Diritto ereditario” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

25La richiesta di divisione dell'eredità paterna da parte de figlio più giovane, senza per questo incontrare l'opposizione né del padre né del fratello maggiore, al di là degli aspetti narrativi, va compresa nel suo contesto storico. La Palestina, una terra spesso segnata da carestie, dovute alla siccità, alle cavallette e alle guerre e alla loro devastazione, che rendevano insicura l'intera regione; soggetta alla dominazione delle varie potenze che si sono succedute nel tempo, come l'Assiria, Babilonia, l'Egitto, la Grecia e Roma. Tutto questo non assicurava la tranquillità ai propri abitanti. Non è un caso che la popolazione vivesse prevalente fuori dalla Palestina. Vi era, poi, quanto al figlio minore, in quanto secondogenito, una spinta ulteriore ad andarsene dalla casa paterna per costruirsi una vita propria: l'eredità, che, come si è visto nella precedente nota 24, andava per un 75% circa a beneficio del primogenito, mentre agli altri fratelli il restante 25%. Era giocoforza per il figlio cadetto cercare fortuna altrove. - Sulla questione della diaspora cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina ai tempi di Gesù, ed. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986, pagg.53-60; voce “Diaspora” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

26Mt 22,36-40; Mc 12,29-31; Lc 10,27-28

27De vera religione Liber Unus, § 72

28Cfr. la voce “Abito, Abbigliamento” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

29Cfr. Gen 41,42; Est 3,10; 8,2.8.10; 1Mac 6,15; Dn 6,18; 14,11.14