IL VANGELO SECONDO LUCA


Catechesi n. 4: alcune regole di buon senso che devono guidare la vita intracomunitaria; 

alcune regole fondamentali che normano la sequela

(14,1-35)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





Note generali

Se il cap.13 costituiva una sorta di giudizio escatologico di condanna del giudaismo (13,1-9), perché non ha saputo riconoscere in Gesù l'inviato di Dio e il suo tempo come quello della misericordia divina (13,10-17), che gli stava tendendo la mano, chiamandolo alla conversione, il cap.14 prosegue il discorso, rivolgendosi sempre al giudaismo, ma con riferimento prevalente a quello che ha aderito a Gesù; quello che è stato chiamato a lottare per entrare dalla porta stretta dell'adesione completa a Gesù, abbandonando la legge mosaica (13,24), poiché questa sua indecisione equivarrebbe ad una infedeltà e decadrebbe dalla salvezza portata da Gesù (13,27-28a), a cui, invece, hanno aderito i Padri e i Profeti e con loro il mondo dei pagani (13,28b-29).

Vi è tra i due capitoli un parallelismo che li lega tra loro e li completa. Entrambi collocano il lettore all'interno del cuore del giudaismo: nel cap.13 la novità salvifica di Gesù si svolge all'interno di una sinagoga in giorno di sabato, cioè all'interno del culto giudaico, facendo del sabato e della sinagoga un luogo di liberazione e di riscatto per Israele (13,10-17); nel cap.14 ci si viene a trovare all'interno della casa di un capo dei farisei, sempre in un giorno di sabato, dove c'è la presenza di Gesù (v.1). Si parla di “casa”, che raffigura nel linguaggio evangelico la comunità credente1, dove si trova Gesù e con lui degli esponenti del mondo giudaico tra i quali non si parla più di mondo futuro o di messianismo, espressioni caratteristiche del giudaismo, ma di “Regno di Dio” (v.15b), espressione che contraddistingue il mondo cristiano2. Ci si trova, quindi, all'interno di una comunità giudeocristiana, dove Gesù detta le regole che la devono guidare nei suoi rapporti intracomunitari (vv.2-11). Gesù, infatti, si rivolge a dei farisei all'interno della loro casa non come se fosse un ospite, ma un maestro che indica la via (vv.7a.12a).

In 13,20-23 si parla della dinamica del Regno di Dio, quale realtà seminata da Gesù e fatta fermentare dalla chiesa, caratterizzato da una dinamica espansiva; qui in 14,15-24 si parla di Regno di Dio, raffigurato in un banchetto di festa inizialmente offerto ad Israele, ma, a motivo del suo del suo rifiuto, aperto anche al mondo pagano (Rm 11,11-15.25).

In 13,23 vi è un tale che introduce il tema della salvezza con riferimento al mondo giudaico: sono pochi quelli che si salvano? Una questione molto dibattuta nel giudaismo; in 14,15, similmente, uno dei commensali introduce il tema della salvezza, ma con riferimento al mondo cristiano: “Beato chi mangerà pane nel regno di Dio”, dando in un certo qual modo la salvezza come per scontata.

Se 13,24-28a parlano della difficoltà per il giudaismo di aderire a Gesù e per il giudeocristianesimo a mantenersi a lui fedele, rinunciando alla legge mosaica e decidendosi in modo radicale per lui, pena il loro stesso fallimento, 14,26-35 detta le regole della sequela per evitarlo, sintetizzate in quattro punti: liberarsi dai condizionamenti familiari (v.26b); seguire Gesù sulla via della croce (v.27); rinunciare ai propri beni (v.33); soppesare con molta prudenza e attentamente la scelta della sequela per evitare la propria rovina (vv.27-32).

Il contesto entro cui si muovono i primi 24 versetti del cap.14 è quello di un banchetto in giorno di sabato in casa di un capo dei farisei. Si tratta di una finzione narrativa tutta lucana, che consente all'autore di raggruppare attorno all'evento di un banchetto diverse regole di varia natura, così che potremmo definire il cap.14 come il capitolo delle regole finalizzate a normare, da un lato, le relazioni intracomunitarie (vv.1-14); dall'altro, definire i principi della sequela (vv.15-35). Il loro punto d'incontro e di passaggio da una tipologia all'altra è la parabola degli invitati (vv.15-24). La parabola prende spunto dal tema del banchetto (vv.1.7.12), che richiama da vicino quel altro tema, quello del Regno di Dio, a cui, in termini più espliciti, si riferisce, a differenza di Lc 14,15-24, la cui prospettiva è completamente diversa, Mt 22,1-10 e che già Is 25,6, in qualche modo, prospettava in opposizione al regno degli uomini oppressori dei giusti (Is 25,1-5).

La struttura del cap. 14, pertanto, è scandita in due sezioni:

  1. la sezione delle regole intracomunitarie (vv.1-14), che a sua volta si suddivide in tre parti:

    1. la regola del buon senso nell'uso del sabato, dando priorità all'uomo (vv.1-6);

    2. la regola dell'umiltà nelle relazioni sociali (vv.7-11);

    3. la regola della magnanimità verso gli altri (vv.12-14).

  1. la sezione delle regole per una fruttuosa sequela (vv.15-35), che si suddivide in due parti:

    1. Parabola introduttiva, che mutuando il tema del banchetto dalla sezione precedente, crea una continuità narrativa con la prima sezione, anticipando il tema delle regole per una sequela di successo (vv.15-24);

    2. le regole per la sequela: a) liberarsi dai condizionamenti familiari (v.26b); b) seguire Gesù sulla via della croce; c) soppesare attentamente e con molta prudenza la scelta della sequela per evitare la propria rovina (vv.27-32); d) rinunciare ai propri beni (v.33). Al centro delle quattro regole, la posizione più importante secondo gli schemi della retorica ebraica, si colloca la prudenza nella scelta della sequela (lett. c); mentre le lett. a.b) e c) sono le regole perché la sequela sia fruttuosa.

Quanto al materiale del cap.14, questo va considerato come proprio di Luca limitatamente ai vv.1-14; 28-35; mentre i vv.15-24 sono di provenienza da fonte Q in comunanza con Mt 22,1-10, ma profondamente rielaborati redazionalmente per adattarli ai propri intenti teologici e narrativi. I contesti, infatti, sono molto diversi. Mt 22,1-10 consiste in un pesante atto di accusa e di condanna nei confronti del giudaismo che non solo ha rifiutato Gesù, ma lo ha anche perseguitato e ucciso. Diversamente Luca, pur non parlando apertamente del Regno di Dio, come Mt 22,2, ma lasciando l'immagine sullo sfondo, accentra l'attenzione del suo lettore sulla difficoltà di accedere al Regno di Dio se si antepongono i propri interessi materiali a quelli di Dio. Da qui scaturiranno le regole della sequela (vv.26-35).

Commento ai vv.1-35

Prima sezione: Le regole intracomunitarie (vv.1-14)


Testo a lettura facilitata


Introduzione (v.1)

1 – Ed avvenne che mentre egli andava a casa di uno dei capi [dei] Farisei di sabato a mangiare pane ed essi lo osservavano attentamente.

La regola dell'operare con buon senso in giorno di sabato (vv.2-6)

2 – Ed ecco un uomo idropico era davanti a lui.
3 – E rispondendo Gesù disse verso i dottori della Legge e i Farisei, dicendo: <<È lecito di sabato guarire o no?>>.
4 – Ma essi stettero in silenzio. E presolo(lo), lo guarì e (lo) congedò.
5 – E disse verso di loro: <<(Se) un figlio o un bue di uno di voi cadrà in un pozzo, non subito lo tirerà su anche in giorno di sabato?>>.
6 – E non furono capaci di replicare a queste cose.

La regola dell'umiltà nei rapporti sociali (vv.7-11)

7 – Ora diceva agli invitati una parabola, volgendo (l'attenzione sul) come sceglievano i primi posti, dicendo verso di loro:
8 - <<Qualora fossi invitato a nozze da qualcuno, non coricarti al primo posto, affinché uno più in onore di te non sia stato invitato da lui.
9 – e venuto colui che ha chiamato te e lui, ti dica: “Dai (il) posto a costui”; e allora cominceresti con vergogna a occupare l'ultimo posto.
10 – Ma qualora sia stato invitato, giunto, coricati all'ultimo posto, affinché, qualora venisse colui che ti ha invitato, ti dica: “Amico, avanza più in alto”. Allora avrai gloria davanti a tutti quelli che sono coricati con te.
11- Poiché ognuno che innalza se stesso, sarà abbassato, e colui che abbassa se stesso sarà innalzato>>.

La regola della magnanimità nei confronti degli altri (vv.12-14)

12 – Ora diceva anche a colui che lo aveva invitato: <<Qualora facessi un pranzo o una cena, non chiamare i tuoi amici, né i tuoi fratelli, né i tuoi parenti, né i vicini ricchi affinché anche quelli ti invitino a loro volta e abbia la ricompensa.
13 – Ma qualora faccia un banchetto, invita i poveri, gli storpi, gli zoppi, i ciechi;
14 - e sarai beato, poiché non hanno da ricambiarti, infatti ti sarà ricambiato nella risurrezione dei giusti>>.


Il v.1 forma da duplice introduzione sia per l'intera sezione (vv.2-14), là dove si parla del pranzare in casa del capo dei farisei; sia per il racconto di guarigione dell'idropico, là dove si annota che si era in giorno di “sabato”.

Esso si apre con un verbo caro a Luca3 e con il quale l'evangelista scandisce l'accadere della storia della salvezza, a cui lega un evento, che accade all'interno di un giorno di sabato e all'interno della casa di uno dei capi dei farisei: “Kaˆ ™gšneto” (Kaì eghéneto, ed avvenne). Ciò che qui viene ora raccontato, pertanto, ha a che vedere con l'attuarsi della salvezza nell'oggi di Gesù e nell'oggi della chiesa.

Vengono qui tracciati alcuni elementi significativi: Gesù è invitato a sedersi a tavola all'interno del mondo giudaico, qui raffigurato da uno dei capi dei farisei e dai suoi commensali, tutti, come il loro capo, dottori e farisei a loro volta (v.3). Il clima tuttavia qui è sereno e disteso e i rapporti non sono conflittuali, minacciosi o paradossalmente turbolenti come si era verificato in una simile situazione in 11,37-54. Ora, attorno all'agire di Gesù in giorno di sabato vi è un pacato ragionare da parte di Gesù sulla questione del sabato. Gesù la introduce come una sorta di discettazione tra maestro e discepoli: “È lecito di sabato guarire o no?”. Es 20,11 e il suo parallelo Dt 5,15 imponevano un riposo assoluto da qualsiasi tipo di attività. Il capo sinagoga, nel racconto della guarigione della donna affetta da una malformazione che le impediva di drizzarsi, rimproverò le folle che venivano a farsi guarire in giorno di sabato da Gesù, sdegnandosi nei suoi confronti (13,11-14). Il quesito qui posto non è di tipo etico come in 6,9, dove veniva introdotta la questione se è lecito fare del bene in giorno di sabato. Qui la questione è di tipo giuridico e ha il suo fondamento nella Torah stessa; si vuol dibattere sulla liceità o meno del guarire una persona in giorno di sabato. In altri termini, qui Gesù invita questi giudeocristiani a rivedere la loro posizione sul sabato, ricomprendendola dal punto di vista di Dio, che è a favore dell'uomo e non di se stesso. A rivedere, quindi, il sabato in modo antropocentrico e non più teocentrico (Mc 2,27).

Quanto ai farisei, il loro atteggiamento, qui descritto all'interno di questa casa, è esemplare: si dice che “lo stavano osservando attentamente” e, per ben due volte, viene sottolineato come questi, di fronte all'agire di Gesù in giorno di sabato e al suo ammaestramento sul sabato non reagiscono protestando, come in genere si verificava in tali occasioni, ma ascoltano in silenzio (vv.4a.6). Un comportamento che richiama da vicino l'atteggiamento caratteristico dei discepoli, che in silenzio ascoltano e osservano attentamente il loro maestro, mentre questi impartisce loro il suo insegnamento. E tutto ciò avviene all'interno di una casa, abitata da farisei e dottori della legge. Il quadro qui tratteggiato da Luca ci porta all'interno di una comunità di giudeocristiani, di cui la casa è figura, e al cui interno Gesù sta per impartire il suo insegnamento con riguardo all'uso sensato del sabato (vv,2-6); alla coltivazione di comportamenti umili e servizievoli all'interno della comunità (vv.7-11) e all'operare al suo interno con generosità disinteressata (vv.12-14).

Gesù, qui, è colto da Luca mentre sta andando nella casa di uno dei capi dei farisei, su suo invito, ma ancora non vi è entrato. Anzi l'autore non dice mai che Gesù entrò in questa casa, benché lo si intuisca al v.7. Quasi a dire come all'interno di questa comunità di giudeocristiani la presenza di Gesù non vi è ancora pienamente giunta per via del “sabato”, istituto emblematico del giudaismo e del suo modo legalistico di vivere il rapporto con Dio. Ci si trova, quindi, di fronte ad una comunità di giudeocristiani giudaizzanti, cioè di quei giudei convertitisi al cristianesimo, ma incapaci di lasciare completamente e definitivamente la legge mosaica e il suo culto a favore della nuova fede. Anzi, ritenevano che questa, per essere veramente salvifica, dovesse passare attraverso Mosè, togliendole in tal modo ogni significato ed ogni novità4.

Ed è proprio nel corso di questo cammino verso la casa abitata da farisei e dottori della legge, nella quale Gesù vuole entrare a pieno titolo e come unico maestro (v.7a), che compare inaspettato e come d'improvviso un idropico5. Questo improvviso comparire decontestualizzato e, quindi, completamente astratto, lascia intendere come qui il maestro stia ponendo ai discepoli un caso di guarigione in giorno di sabato. Come risolvere la questione? La liceità del guarire in giorno di sabato, infatti, era molto dibattuta nelle scuole rabbiniche e abbondava la casistica sul tipo di cure somministrabili in giorno di sabato. In linea di massima si ritenevano lecite le cure all’ammalato solo in caso di pericolo di vita. Il principio era sancito dallo Yoma6 VIII, 6: “Se uno ha male in gola gli si può mettere in bocca l’opportuna medicina in giorno di sabato, perché vi può essere pericolo di vita e per qualunque dubbio di pericolo di vita si può profanare il sabato”. Di fronte alle esigenze primarie di una vita minacciata, Gesù non si perde in inutili quanto indistricabili dispute. Taglia corto e guarisce l'idropico, affermando in tal modo la primarietà dell'uomo sul sabato e sulla stessa Torah. La motivazione che porta a giustificazione del suo gesto è il ricorso, come avviene in Mt 12,10-12, allo 'eruv7, una casistica di eccezioni all'osservanza del sabato, sviluppata nel tempo dalle scuole rabbiniche. Questa prevedeva la possibilità di violare il sabato per salvare la vita ad un uomo o ad un animale, evitando loro delle inutili sofferenze.

Viene, pertanto, sancita la prima regola, riguardante il sabato, offerta dai credenti alle comunità giudeocristiane giudaizzanti: primarietà della vita, primarietà dell'uomo e buon senso, poiché Dio non ama i sacrifici umani, ma desidera l'affermazione dell'uomo e con lui quella del creato. Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato (Mc 2,27).

La regola dell'umiltà nei rapporti sociali (vv.7-11)

La cornice di questa pericope è sempre la mensa del capo sinagoga (v.7a), attorno alla quale stanno prendendo posto gli invitati (v.7b), tutti amici del padrone di casa, individuati dal v.3 come farisei e dottori della legge; personaggi questi ultimi che ricorrono nei vangeli, così definiti, sei volte solo in Luca8 e in At 5,34. Essi corrispondono, secondo il linguaggio degli evangelisti agli scribi, che sovente sono accoppiati con i farisei. Personaggi questi che nella critica evangelica sono presentati come coloro che amano la visibilità sociale, i primi posti nelle sinagoghe e i posti d'onore nei banchetti conviviali; il mettersi in mostra passeggiando nelle piazze con lunghe vesti per farsi salutare dalla gente; il pregare negli angoli delle strade per essere visibili da ogni lato; il far risuonare i soldi gettandoli nelle offerte, così da attrarre l'attenzione dei presenti9. Pertanto, il cercar di accaparrasi i posti d'onore, in genere quelli più vicini al padrone di casa o agli sposi, in caso di banchetti nuziali, sono sottesi da una medesima logica: lo sfrenato desiderio di primeggiare e di mettersi in mostra in mezzo agli altri per ricavarne la maggiore visibilità possibile. Una sorta di tributo sociale al proprio ego, che tende ad affermarsi sovrastando l'altro.

Ed è proprio questo comportamento prevaricatore che diviene oggetto di attenzione da parte di Gesù (v.7b) e sul quale verrà intessuta una parabola (v.7a), scandita in due parti che tendono a mettere in rilievo due contrapposti comportamenti dagli esiti antitetici. Un escamotage, questo, caratteristico della retorica ebraica, che in questo accostamento di chiari-scuri crea un contrasto che punta a mettere in rilievo il contenuto dell'insegnamento. La parabola e con questa la pericope, termina con una sentenza dai toni sapienziali, il cui intento è quello di rilevare la morale del raccontino (v.11).

Il v.7 funge da cornice introduttiva alla pericope in esame (vv.7-11) e colloca il lettore all'interno del banchetto conviviale, preannunciato al v.1, dando in tal modo una sorta di continuità e unità narrative a questa pericope, che diversamente risulterebbe soltanto come una incomprensibile giustapposizione di testi dai diversi contenuti. Un tema, quello del banchetto, che svolgerà la medesima funzione anche in 12-14 e 15-24, delimitando così la prima sezione del cap.14 (v.1-14) e costituendo nel contempo, con la parabola degli invitati (vv.15-24), il passaggio alla seconda sezione (vv.15-35). Un tema, quello del banchetto, che qui si ripete quasi in modo ossessivo e con cui non ci si riferisce mai esplicitamente al Regno di Dio. Ma la comparsa di alcuni elementi nei diversi passaggi narrativi, lascia intravvedere come questo in realtà si muova, quasi impercettibilmente, sullo sfondo. Si parla di invitati e di posti a tavola (v.7), di banchetto di nozze (v.8), di padrone di casa che chiama ed invita (v.12); personaggi e luoghi che poi si ritrovano insieme nella più esplicita parabola degli invitati (vv.15-24), dove un padrone di casa dà un grande pranzo e attorno al suo banchetto conviviale convoca gli invitati e al loro rifiuto apre le porte del suo banchetto e della sua casa a tutti, così che tutti sono invitati nella casa di questo padrone e tutti sono chiamati a condividerne i beni attorno al comune ed unico banchetto, che richiama quello di Is 25,6.

Gli interventi di Gesù, pertanto, collocati all'interno di questo contesto, da cui traspare come in filigrana il racconto del Regno di Dio e delle sue regole, che devono plasmare i nuovi credenti, acquistano un senso che supera di gran lunga il semplice richiamo a delle regole di buona educazione o di savoir faire, e puntano in realtà a stigmatizzare, e nel contempo ad esortare, certi comportamenti all'interno della comunità credente, che va colta come il luogo storico dove si incarna la novità del Regno di Dio in mezzo agli uomini e dove i nuovi credenti sono chiamati a darne testimoniare con il loro modo di vivere.

Il v.7 si apre con Gesù che racconta una “parabola”, che ha per oggetto il comportamento prevaricatore degli invitati. Luca parla di “parabol»n” (parabolén, parabola), ma in realtà quanto segue non ha alcuna attinenza con le parabole che gli evangelisti ci hanno fatto apprezzare. Queste potremmo definirle come racconti metaforici che puntano a coinvolgere all'interno del racconto gli ascoltatori e spingerli a prendere posizione. Qui non vi è nulla di tutto questo. Il racconto qui coinvolge direttamente i commensali e li colloca in un ipotetico banchetto nuziale al cui interno Gesù detta loro delle regole di bon tone. Questo racconto, pertanto, potremmo definirlo come una esemplificazione, rientrante in una sorta di casistica riguardante la buona educazione, ma non certo una “parabola”. Il termine “parabola” pertanto va qui letto non come il racconto metaforico a cui ci hanno abituati i vangeli, ma come sinonimo di esempio, su cui devono riparametrarsi i commensali. Del resto il termine parabola è composto da due termini “par£” + “b£llw”, che significa letteralmente: “lanciare, gettare nei pressi”. Per cui parlare di parabola come esempio e non come racconto metaforico, qui ci può stare.

L'esemplificazione che segue (vv.8-10) è un piccolo saggio di buon senso e di prudente comportamento in caso di invito ad un banchetto, conosciuto da Prv 25,6-7: “Non darti arie davanti al re e non metterti al posto dei grandi, perché è meglio sentirsi dire: <<Sali quassù>>, piuttosto che essere umiliato davanti a uno superiore”; nonché similmente conosciuto anche dalla tradizione giudaica, che con Rabbi Simon ben Azzai di epoca Tannaica di seconda generazione10 (90-130 d.C.), esortava: “Tieniti lontano dal posto assegnato di due, tre posti, e aspetta finché ti si dica: <<Vieni su>>. Però non andare avanti prima, perché ti si potrebbe dire: <<Scendi più in giù>>. È meglio che ti si dica: <<Vieni, vieni su>> che non <<Scendi più in giù, scendi più in giù>>”11.

Questi insegnamenti, tuttavia, posti sulle labbra di Gesù, in un contesto che evoca il Regno di Dio e con il v.11 che, concludendo la pericope, evoca toni da giudizio escatologico, è da pensare che tali ammaestramenti vadano ben oltre a ciò che appare: semplici regole di buon comportamento sociale. La natura di queste norme riguardano innanzitutto i commensali dove c'è presente anche Gesù (v.7), che tra loro si erge a maestro (v.7) e tutti si trovano all'interno di una casa (v.1). Tutte immagini che rimandano alla comunità credente. A questa, pertanto, sono rivolte tali esortazioni che spingono i credenti ad assumere all'interno della loro comunità comportamenti di servizievole umiltà, sui quali pesa un giudizio divino.

Il tema dell'umiltà servizievole traluce non solo nei vangeli, ma in tutto il N.T. ed ha il suo incipit nello stesso Gesù, che non è venuto per essere servito, ma per servire (Mt 20,28; Mc 10,45) e lo ha dimostrato, quale esempio da imitare, lavando, a ridosso della sua passione e morte, i piedi ai suoi discepoli (Gv 13,1-15), lasciando intravvedere in questo suo gesto il senso più vero e profondo della sua morte: un servizio di redenzione e riscatto a favore dell'intera umanità. E sovente nella figura del servo nei racconti evangelici viene metaforizzata quella del credente. Molte volte le parabole raccontano di servi e del loro padrone, lasciando trasparire in qualche modo in questo il rapporto tra Gesù e i suoi12. Per ben 155 volte nel N.T. ricorrono i due termini “servo” e “servire” a testimonianza di quanto l'umiltà che si fa servizio fosse molto sentita nelle prime comunità credenti, tanto da farne una cristologia, cioè un'umiltà servizievole sull'esempio di Cristo, riproducendo nel proprio servire l'altro lo stesso servire salvifico di Cristo (Mc 10,43). Ed è così che Paolo, scrivendo alla sua comunità di Filippi, l'esorta: “Non fate nulla per spirito di rivalità o per vanagloria, ma ognuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a se stesso. Non cerchi ciascuno il proprio interesse, ma anche quello degli altri. Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome” (Fil 2,3-9). Ed è proprio in virtù di questa umiltà servizievole, che si radica in Cristo e trova la sua giustificazione in lui, che il credente ritrova la sua vera natura del suo essere in Cristo, che abbassatosi in un'obbedienza fino alla morte e alla morte di croce, ha trovato paradossalmente in questo suo abbassarsi la sua esaltazione, la pienezza della sua vita, non solo per se stesso, ma per tutti.

In tal modo questo atteggiamento umile e servizievole a favore della comunità credente assume un'importanza tale e vincolante da essere sottoposta al giudizio escatologico: “Poiché ognuno che innalza se stesso, sarà abbassato, e colui che abbassa se stesso sarà innalzato”. Questa sentenza finale dal tono sapienziale sintetizza in sé i due movimenti riprodotti nell'esemplificazione (vv.8-10), in cui nel primo caso chi ha voluto emergere sugli altri è stato rintuzzato all'ultimo posto; contrariamente a chi ha scelto l'ultimo posto è stato fatto sedere, con grande onore davanti a tutti, al primo posto. Questo movimento di capovolgimento di situazioni, dall'alto al basso e viceversa, si muove su di uno sfondo biblico di tipo sapienziale, che spesso ha per cornice il giudizio divino13 e che ritroviamo ricorrente nello stesso Luca: in 1,52-53, nell'inno del Magnificat dove la potenza di Dio “ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”; a conclusione del racconto del pubblicano e del fariseo che salgono al tempio, in 18,14 dove in modo sentenziale si dice che “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”; nel racconto dell'uomo ricco e Lazzaro (16,19-31) dove in 16,25 Abramo sentenzia: “Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti”; e in 22,26 dove Gesù esorta i suoi, colti a discutere su chi fosse tra loro il più grande: “Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve”.

La regola della magnanimità nei confronti degli altri (vv.12-14)

Se con la precedente pericope (vv.7-11) si era stabilita la regola d'oro dell'umiltà, che si fa servizio all'interno della comunità credente, su cui pesa la minaccia di un giudizio divino (v.11), con questa successiva (vv.12-14) il Gesù lucano detta una nuova regola, rivolta al padrone di casa, metafora, in qualche modo, di quel bel mondo benestante che si bea di se stesso, scambiandosi reciproci favori: le tue possibilità spendile con chi non può ricompensarti a motivo della sua triste condizione esistenziale. Quindi una generosità allo stato puro, che non si aspetta contraccambi, ma fatta soltanto in nome di Gesù e di quel amore che deve vincolare naturalmente ogni credente e nel quale si riflette lo spassionato amore del Padre per tutti, indistintamente dalle condizioni personali. Una regola che deve qualificare il modo di vivere del credente e che lo contraddistingue quale autentico discepolo di Gesù, sul quale è chiamato a riparametrare la sua vita: “In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni verso gli altri” (Gv 13,35). Una regola che non va presa come un semplice buon consiglio, ma è resa vincolante da quella beatitudine con cui si chiude l'esortazione: “e sarai beato, poiché non hanno da ricambiarti, infatti ti sarà ricambiato nella risurrezione dei giusti” (v.14). In altri termini, la scelta della magnanimità verso i bisognosi ha una sua immancabile risonanza nell'ultimo giorno, nel giorno della risurrezione dei giusti; e così parimenti vale per il comportamento egoistico, il quale, benché non esplicitamente menzionato, traspare comunque sullo sfondo in quel “ti sarà ricambiato”. Luca lo ricorderà nella sua parabola dell'uomo ricco e di Lazzaro (16,19-35), dove il giudizio verso il ricco sarà di condanna per la sua insensibilità verso Lazzaro.

Annotazioni di rilievo che Luca fa in questi brevi racconti, poiché lascia in qualche modo trasparire come tutto ciò che qui sulla terra viene fatto, sia nel bene che nel male, ha un suo riscontro finale, come nel racconto del Buon Samaritano, allorché, soccorso lo sfortunato incappato nei ladroni lo affida all'oste perché ne abbia cura, prospettandogli che egli ritornerà con la sua ricompensa (10,35). Una logica questa della contropartita per ciò che qui, in questa vita, viene compiuto, che risuona anche nel Padre nostro: “rimetti a noi i nostri peccati, perché anche (noi) stessi (li) rimettiamo a ognuno che ci è debitore” (11,4b), lasciando intravvedere come la nostra salvezza non solo si gioca qui sulla terra, in questa vita, ma come a determinarla sarà proprio il nostro modo di vivere. Una vita, dunque, che va presa in modo estremamente serio, poiché su di essa pesa già fin d'ora il giudizio escatologico, che non ha appelli.

Da un punto di vista narrativo è interessante rilevare come questa breve pericope, relativa alla regola della magnanimità, anticipi in qualche modo la parabola degli invitati (vv.16-24): qui come là, infatti, vi è un padrone di casa che, mosso dalla sua sola magnanimità, indice un grande banchetto attorno al quale vengono convocate persone di ogni rango, ma soltanto quelle di infima condizione riusciranno alla fine a condividere i beni di questo padrone.


Seconda sezione: le regole per una fruttuosa sequela (vv.15-35)


Testo a lettura facilitata


Cornice introduttiva (v.15)

15 – Ora, avendo udito uno dei commensali queste cose, gli disse: <<Beato chi mangerà pane nel regno di Dio>>.

La parabola introduttiva alle regole della sequela (vv.16-24)

16 – Ora gli disse: <<Un uomo faceva un grande pranzo, e invitò molti
17 – e inviò il suo servo per l'ora del pranzo a dire agli invitati: “Venite, poiché è già pronto”.
18 – E tutti incominciarono a scusarsi unanimemente. Il primo gli disse: “Ho comperato un campo e ho necessità, uscito, di vederlo; ti prego, abbimi per scusato”.
19 – Un altro disse: “Ho comperato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego, abbimi per scusato”.
20 – E un altro disse: “Ho preso moglie e per questo non posso venire”.
21 – Giunto il servo, riferì al suo signore queste cose. Allora, adiratosi il padrone di casa, disse al suo servo: “Presto, esci nelle piazze e nelle strade della città e conduci qui e i poveri e storpi e ciechi e zoppi”
22 – E disse il servo: “Signore, è avvenuto ciò che tu hai comandato e c'è ancora posto”

23 – E disse il signore verso il servo: “Esci nelle strade e nei ripari e costringi(li) ad entrare affinché la mia casa sia riempita”.
24 – Vi dico, infatti, che nessuno di quegli uomini invitati gusterà il mio pranzo>>.

Prima regola per una buona sequela: anteporre gli interessi di Dio a quelli personali (vv.25-27)

25 - Ora, andavano con lui molte folle, e, voltatosi verso di esse, disse:
26 – <<Se uno viene verso di me e non disprezza il suo stesso padre e la madre e la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle e di più ancora la sua stessa anima, non può essere mio discepolo.
27 – Chi non porta la sua stessa croce e (non) viene dietro di me, non può essere mio discepolo.

Seconda regola: soppesare bene e con prudenza la scelta della sequela (vv.28-32)

28 – Chi di voi, infatti, volendo costruire una torre, dapprima, postosi a sedere, non calcola la spesa, se ha (soldi) per il (suo) compimento?
29 – Affinché, poste le sue fondamenta e non essendo più capace di finir(la), tutti quelli che vedono non comincino a schernirlo,
30 – dicendo che questo uomo ha incominciato a costruire e non è stato capace di terminare.
31 – O quale re, che va a gettarsi in guerra con un altro re, dapprima, sedutosi, non penserà se è possibile in diecimila andare incontro a colui che viene contro di lui con ventimila?
32 – Se no, quando quello è ancora lontano, inviata un'ambasceria, chieda le (condizioni) per la pace.

Terza regola: la rinuncia ai beni terreni (v.33)

33 – Così, dunque, ognuno di voi, che non rinuncia a tutti i suoi stessi averi, non può essere mio discepolo.

Le conseguenze di una cattiva scelta (vv.34-35)

34 – Il sale, dunque, (è) buono; ma qualora anche il sale è divenuto insipido, con che cosa sarà condito?
35 – Non è adatto né per la terra né per il concime, lo gettano fuori. Chi ha orecchie da udire, oda>>.


Note generali

La seconda sezione del cap.14 (vv.15-35) introduce quattro nuove regole (pag.2) riguardanti la sequela, preannunciate da una parabola, che ha come scenario sempre il banchetto, la cui immagine è stata mutuata dalla prima sezione (vv.1-14), dove si parlava di regole relative al comportamento intracomunitario dei nuovi credenti in genere e, in particolare, dei giudeocristiani. Continuando il tema delle regole, che domina l'intero cap.14, continua pertanto anche quello del contesto entro cui tale regole vengono collocate, quello del banchetto, sul cui sfondo, quasi in filigrana si intravvede il Regno di Dio, i cui contorni storici si materializzano in quel banchetto attorno al quale si aggrega la chiesa. In tal modo viene a crearsi una sorta di continuità narrativa, rafforzata sia dallo stretto legame del termine “beato”, posto a conclusione della prima sezione (v.14), con il “beato” con cui inizia la seconda sezione (v.15); sia perché l'anonimo commensale (v.15) sembra controbattere o quanto meno correggere la beatitudine proclamata da Gesù a conclusione della prima sezione, collegandosi in tal modo ad essa; sia perché al v.15 di apertura della seconda sezione ricorre l'identica espressione con cui si apre la prima sezione: “mangiare/mangerà del pane”14 (vv.1.15), scandendo, da un lato, il cap.14 in due sezioni; dall'altro dando loro una sorta di continuità, legandole tra loro con la medesima espressione e con lo stesso contesto. Vi è, quindi, tra la prima e la seconda sezione una continuità sia narrativa (contesto del banchetto) che tematica (le regole), benché gli obiettivi che l'autore si propone siano diversi: nella prima sezione le regole riguardano i rapporti tra credenti; nel secondo caso le regole riguardano la sequela.

La struttura di questa seconda sezione, già sostanzialmente preannunciata nella sezione del “Testo a lettura facilitata”, si snoda su sei parti:

  1. Cornice introduttiva alla seconda sezione (v.15);

  2. La parabola del banchetto, preambolo alle regole della sequela (vv.16-24);

  3. Prima regola per una buona sequela: anteporre gli interessi di Dio a quelli personali, sulla via della croce (vv.25-27);

  4. Seconda regola: soppesare attentamente e con prudenza la scelta della sequela (vv.28-32);

  5. Terza regola: la rinuncia ai beni terreni (v.33);

  6. Le conseguenze di una cattiva scelta (vv.34-35)


Commento ai vv.15-35


Cornice introduttiva (v.15)


Il v.15 introduce la seconda sezione del cap.14, riconducendo il lettore all'interno di un contesto conviviale, sia per l'intervento di “uno dei commensali”, che richiama gli invitati del banchetto del capo dei farisei, di cui fa parte (vv.7.12); sia per la citazione della medesima espressione “mangiare pane” con cui si apriva la prima sezione (v.1); sia, infine, per quel “beato” che riprende la beatitudine proclamata da Gesù a conclusione della prima sezione (v.14), creando in tal modo una continuità narrativa tra le due sezioni, ma nel contempo introducendo tematicamente la parabola di un altro banchetto, questa volta metaforico, che funge da preambolo al tema delle regole riguardanti la sequela.

Il v.15, di origine redazionale, si apre con l'intervento di “uno dei commensali”, un escamotage letterario caratteristico di Luca, con cui l'autore, creando degli stacchi narrativi, introduce nuove tematiche all'interno di uno stesso capitolo15. Ciò che questo commensale sente e a cui risponde è la dichiarazione di beatitudine di Gesù, riguardante la magnanimità nei confronti dei poveri, che verrà ricompensata “nella risurrezione dei giusti”. Questa battuta finale della prima sezione trasporta il lettore su di un piano completamente diverso dal banchetto del capo dei farisei e dei suoi invitati, proiettandolo in una dimensione spirituale, preparando in tal modo la battuta dell'anonimo commensale, che si muoverà nell'identica dimensione: “Beato chi mangerà pane nel regno di Dio”. A cosa allude qui il commensale? Si tratta di un pane conviviale, ma ben diverso da quel pane conviviale menzionato al v.1, che riguardava il banchetto di uno dei capi dei farisei, ma che in qualche modo lo ha prefigurato. Si tratta di un pane che ha a che vedere con il Regno di Dio, che la presenza di Gesù è venuta a inaugurare e che prende forma all'interno della comunità credente, qui prefigurata dalla “casa” dove si svolge il “banchetto conviviale”, dove si mangia del pane e dove c'è anche la presenza di Gesù (v.1). Tutti segnali questi che lasciano intendere come questo “mangiare pane nel Regno di Dio” richiami in qualche modo la mensa eucaristica o cena del Signore (At 2,42). Vera beatitudine, quindi, per lo sconosciuto commensale è mangiare di questo pane, con il quale sembra in qualche modo accaparrarsi quella risurrezione dei giusti, che Gesù invece assegnava a chi, con magnanimità e senza secondi fini, condivideva con i meno abbienti i propri beni, prefigurando in qualche modo quel banchetto celeste già preannunciato da Is 25,6, attorno al quale tutti sono chiamati; ma nel contempo anticipando e preparando nei vv.12-15 il tema della successiva parabola degli invitati al banchetto (vv.16-24), consentendo in tal modo al Gesù lucano di introdurre direttamente, senza altri preamboli, il racconto della parabola, quale risposta alle pretese dell'anonimo commensale, che vedeva in questa cena eucaristica il lascia passare garantito per la salvezza

La parabola introduttiva alle regole della sequela (vv.16-24)

Note generali

Già introdotta, pertanto, dai vv.12-15, l'autore entra subito nel vivo della parabola con un semplice quanto stringato “Ora gli disse”, dando l'idea di un dialogo serrato. Il racconto, pertanto, è rivolto al commensale e il suo intento è dimostrare che se l'essere invitati al banchetto conviviale è certo, grazie alla magnanimità del padrone di casa, che ad ogni costo vuole comunque riempire il suo banchetto (vv.21.23), tuttavia, l'aderire all'invito non è una cosa scontata, ma dipende unicamente dall'invitato, dalla sua disposizione interiore e dai suoi interessi primari nella vita. In altri termini, dalla risposta che egli darà. Da questo principio affermato dalla parabola, scaturiranno di seguito le quattro regole che suggeriscono il modo migliore per rispondere alla chiamata alla sequela (vv.26-35), per evitare di intraprendere un cammino, che si traduce poi in un'amara sconfitta per il discepolo, perché non ha saputo valutare adeguatamente le proprie forze spirituali.

La parabola costituisce il preambolo alla seconda tornata di regole riguardanti la sequela, contenendo in se stessa alcuni tratti fondamentali che poi verranno ripesi dalle regole stesse. Per cui le figure dei due personaggi che rispettivamente hanno comperato, l'uno, un campo (v18b), l'altro, cinque paia di buoi (v.19), diventano metafora di quanti antepongono i propri interessi materiali alla chiamata. Una posizione questa che verrà ripresa e stigmatizzata al v.33; mentre il terzo personaggio, che ha preso moglie (v.20), diviene figura di quanti antepongono i propri interessi affettivi e familiari all'invito. Posizione questa che verrà ripresa e redarguita dal v.26.

Tuttavia la parabola possiede in se stessa una forte dinamica a largo spettro, che non si limita soltanto a questa seconda sezione, quella delle regole per la sequela, ma si spinge oltre, preannunciando in qualche modo anche l'intero cap.15. La parabola, infatti, contrappone due categorie di persone: gli invitati che hanno rifiutato la convocazione e quelli che invece tale invito hanno accolto. La parabola termina con l'immagine del il padrone di casa che per ben due volte sospinge il proprio servo a raccogliere e a convocare al banchetto i diseredati provenienti da ogni luogo. E con loro condivide il proprio banchetto e i propri beni, rifiutati dai primi chiamati. E sarà proprio con questo contrasto tra i primi e gli ultimi, che avrà inizio il cap.15, che si apre con i farisei e gli scribi che contestano il fatto che Gesù raccoglie attorno a sé e alla propria mensa i pubblicani e i peccatori (15,1-2). Seguiranno tre parabole, che hanno tutte per sfondo un banchetto gioioso, l'ultima delle quali, quella del figliol prodigo (15,11-32) evidenzierà nel suo finale questo contrasto tra il figlio rimasto sempre accanto al padre, figura del giudaismo, e quello che invece si era allontanato da lui, metafora del mondo pagano e dei peccatori in genere, ma che poi ha saputo ritornare al padre comune. Il tutto terminerà con un banchetto festoso a cui partecipa, però, soltanto il figlio sciagurato, ma riscattatosi; mentre il figlio maggiore, ne è rimasto escluso con grande rammarico del padre. Proprio come in questa parabola in analisi dove i diseredati, ultimi convocati, condividono la mensa di questo padrone magnanime, in cui si intravvede la figura di Gesù; mentre gli altri, primi convocati, ne sono esclusi.

La parabola lucana si trova parimenti in Mt 22,1-10, sostanzialmente identica nel suo impianto narrativo, ma profondamente rimaneggiata da parte di Luca per adattarla ai propri intenti pedagogici e cristologici. La parabola, pertanto, ha come unica fonte condivisa la Q, ma quella matteana, a motivo della sua concisione e del linguaggio molto asciutto e scarsamente ricercato e poco elaborato nei vari passaggi narrativi, va ritenuta, a mio avviso, quella originale. Per contro, la ricercatezza del linguaggio, il gusto del narrare e la vivacità del racconto fa ritenere la parabola lucana una elaborazione che risente profondamente del lavoro redazionale.

La struttura del racconto è scandita in cinque parti:

  1. la cornice introduttiva che contestualizza il racconto (vv.16-17);

  2. il rifiuto dei primi invitati (vv.18-20);

  3. versetto di transizione (v.21);

  4. la convocazione di altre persone, di diversa provenienza dalle prime (vv.22-23);

  5. sentenza finale, che sancisce la definitiva esclusione dei primi invitati (v.24).


Commento ai vv.16-24

Il racconto si apre con la presentazione di un uomo che dà un grande banchetto, invitando molti. Non ci è dato di sapere chi sia quest'uomo magnanime, in qualche modo già preannunciato ai vv.12-14, e similmente chi siano questi invitati, né il motivo per cui tale banchetto, di grandi proporzioni, venga dato. Questo quadro di anonimia colloca l'intera parabola in un contesto di universalità, in cui tutti sono chiamati a riconoscersi. Tuttavia non si tratta di un rigido anonimato, poiché da un'attenta analisi dei personaggi e del contesto traluce come questo uomo “faceva” (“™po…eiepoíei). Il verbo all'imperfetto indicativo dà una continuità al suo banchetto, per cui si potrebbe dire come questo “uomo” “continuava a fare un grande banchetto”. Un banchetto, quindi, che non ha una durata limitata nel tempo, ma che, invece, si prolunga nel tempo, quasi non voglia mai finire. Ed è un banchetto che continua ad essere di grandi dimensioni, perché sono “molti gli invitati”; un numero, quindi, indefinito, dove lo spazio per accoglierli non sembra avere limiti. Ma quel verbo greco “™k£lesen” (ekálesen) tradotto con “invitò”, in quanto richiesto dal contesto narrativo, in greco assume anche altre significative connotazioni, come “chiamare, convocare” attorno a quel grande banchetto. Chi è dunque quest'uomo che invia il suo servo per “l'ora di pranzo” per avvertire gli invitati che “il banchetto ora era pronto”?. La risposta la dà Paolo, che definisce attori, tempi e senso di quel banchetto: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli” (Gal 4,4-5); mentre Mc 1,15 attesta che “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”. È giunto pertanto a compimento il tempo di quel banchetto profetizzato da Is 25,6. Ed ecco che quel Padrone ha mandato il suo “Servo” per raccogliere attorno a sé, come la chioccia raccoglie i suoi pulcini, quel Israele (13,34; Mt 23,37), che già era stato invitato attorno al banchetto dell'Alleanza, della Torah e dei Profeti per prepararsi al banchetto escatologico. Ed ecco, quindi, giunto il tempo di questo banchetto, Dio manda il suo “Servo” nella persona di Gesù, la cui missione è chiamare a raccolta Israele, come in una sorta di grande movimento escatologico per condurlo attorno a quel banchetto che gli era stato preparato e già preannunciato per mezzo dei Profeti. Egli, quindi, venne tra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto (Gv 1,11).

Tre sono le motivazioni che vengono addotte per declinare l'invito: le prime due (vv.18-19) riguardano l'acquisto di alcuni beni materiali: un campo e dei buoi. Nulla di insuperabile, dunque. L'opposizione all'invito è pertanto del tutto pretestuosa e suona come una grave offesa nei confronti dell'adirato padrone (v.21b), che ha profuso i suoi beni per questo grande banchetto, così banalizzato dagli invitati, che erano di riguardo, considerati i beni acquistati; così come di riguardo era Israele, la cui sacralità gli era stata insignita da Es 19,5-6: proprietà di Dio, popolo santo e regno di sacerdoti.

La terza motivazione riguarda quel invitato che aveva preso moglie. L'unico che in qualche modo poteva, secondo Dt 24,5, essere giustificato: “Quando un uomo si sarà sposato da poco, non andrà in guerra e non gli sarà imposto alcun incarico; sarà libero per un anno di badare alla sua casa e farà lieta la moglie che ha sposata”. Ma rimane il fatto che anche questo terzo invitato ha anteposto i propri interessi familiari all'invito di questo signore.

L'autore qui ha messo in evidenza tre scusanti, due delle quali riguardavano il possesso di beni materiali; la terza questioni di ordine familiare ed affettivo. Tre, perché simbolicamente il numero indica la totalità in quanto vi è un inizio, una metà e una fine, cioè un intero16. Un numero, quindi, che fa riferimento a qualsiasi tipologia di scuse e di impedimenti. Due riguardano questioni di ordine materiale, quasi a dire come il possesso dei beni materiali incida pesantemente nella scelta a sfavore del banchetto. Lo ricordano parallelamente sia Mt 19,22 che Lc 18,23 al riguardo di quel giovane, che accostatosi con entusiasmo a Gesù, ha rinunciato alla sua sequela “perché era molto ricco”. E tristemente Gesù conclude sentenziando: “Quanto difficilmente coloro che possiedono ricchezze entrano nel regno di Dio! Infatti è più facile che un cammello entri attraverso una cruna di un ago che un ricco entri nel regno di Dio” (18,24-25). Una sequela che Gesù prospetta come sorretta da una vita essenziale e libera anche di quei beni minimi, di prima necessità: “Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo” (9,58).

Una sola giustificazione viene, invece, ricordata per quanto riguarda gli aspetti strettamente personali, per dire come anche questi, benché non prevalenti, abbiano il loro peso nelle scelte. Lo ricorda lo stesso autore in 12,53, all'interno di un contesto di persecuzioni: “si divideranno tre contro due e due contro tre; padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera”; e similmente in 21,16-17: “Ma sarete consegnati anche da genitori e fratelli e parenti e amici e (ne) faranno morire tra di voi. E sarete odiati da tutti per il mio nome”. Conciliare, quindi, aspetti familiari e affettivi con l'adesione al Regno non sempre è facile. Del resto è lo stesso Paolo che, scrivendo alla sua turbolenta e indisciplinata comunità di Corinto, la sollecita di tenersi libera da vincoli familiari per poter servire più liberamente il Signore (1Cor 7,1-40).

E saranno proprio queste due forme di possesso, materiale e affettivo, anteposte all'invito, che saranno oggetto di attenzione nella formulazione delle regole per la sequela (vv.26.33).

I vv.21-23 introducono il lettore in un nuovo e inatteso scenario: si passa dai primi invitati, la cui posizione privilegiata è evidenziata dalla loro ricchezza, ad altre persone, la cui condizione di vita è miserevole. Si noti come questa seconda categoria di persone non è definita come la precedente, “invitati”, la quale cosa presuppone un rapporto già precedentemente instaurato e ben consolidato; persone che erano ben conosciute dal padrone di casa, ma sono qualificate come degli sconosciuti, persone raccogliticce, condotte (v.21b) e costrette ad entrare nella casa del padrone (v.23); qui non si parla più di banchetto, ma di casa che deve essere riempita. Cambia in buona sostanza lo scenario, benché gli attori principali, padrone e servo, siano gli stessi di prima. La comparsa del termine “casa” da riempire; del servo che dapprima percorre le strade e le piazze della città (v.21) e poi le strade secondarie e in mezzo alle siepi (v.23), luoghi quindi extraurbani, suggeriscono che qui ci si trova in un secondo tempo, quello successivo a Gesù, che di fatto ha fallito la sua missione presso Israele (Gv 12,37), quello proprio della chiesa, che ha operato nella sua missione in due diversi momenti: dapprima nelle città e poi nei villaggi di campagna, in latino chiamati “pagi” e i loro abitanti erano definiti “pagani”. Da qui la denominazione di “pagani”, riferita a quelle persone che abitavano fuori città e che ancora non avevano raggiunto la fede, perché non ancora raggiunti dalla predicazione, che invece si diffuse dapprima nelle città, dove vi era una grande concentrazione di persone e, poi, anche nei villaggi di campagna, i “pagi” con i loro abitanti i “pagani”.

Si viene, pertanto, a realizzare la sentenza di Gesù: “Ed ecco ci sono ultimi che saranno primi e ci sono primi che saranno ultimi” (13,30). In altri termini, il mondo dei pagani ha preso il posto di Israele, che non ha saputo riconoscere né Gesù né il suo tempo. Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, ricorda questo aspetto, come “grazie alla caduta di Israele la salvezza è giunta ai pagani” (Rm 11,11b), così che “la loro caduta è stata ricchezza del mondo e il loro fallimento ricchezza dei pagani” (Rm 11,12a).

La parabola termina con una sentenza, che suona come un giudizio di condanna: “Vi dico, infatti, che nessuno di quegli uomini invitati gusterà il mio pranzo”. In altri termini, il rifiuto di Israele lo ha escluso dalla vita stessa di Dio, raffigurata da quel “gustare il mio pranzo”, che dice la condivisione dei beni di Dio con chi ha aderito alla sua chiamata.

Prima regola per una buona sequela: anteporre gli interessi di Dio a quelli personali (vv.25-27)


Note generali

Introdotta dalla parabola degli invitati scortesi, in cui si illustravano le motivazioni del rifiuto (vv.18b-20), segue ora la sezione delle regole, che riprende sostanzialmente quelle motivazioni e le traduce in regole, che vanno a formare la catechesi dei catecumeni, perché soppesino bene la loro scelta, per non trovarsi nelle stesse condizioni di quegli invitati, colpiti dalla condanna di esclusione dalla convivialità con il padrone (v.24).

L'ampia pericope è scandita in tre parti: la prima (vv.26-27) e l'ultima (v.33), a mo' di inclusione, sanzionano in qualche modo le motivazioni che spinsero gli invitati a rifiutare la convocazione al banchetto. Un rifiuto che si tramuterà per loro in una condanna, che sancirà la loro definitiva esclusione. La parte centrale (vv.28-32), che nelle logiche della retorica ebraica va considerata la più importante, consiste in due domande retoriche, che spingono i candidati alla sequela a considerare attentamente la loro scelta, spiegando attraverso le immagini che cos'è la sequela.

I vv.26-27 si ritrovano identici nella sostanza nei tre sinottici. Fonte comune per Mt 10,37-38 e Lc 14,26-27 è Mc 8,34. Tuttavia tra i tre vi sono rilevanti differenze letterarie. Matteo e Luca sono i più affini tra loro, ma non Marco che al posto di Mt 10,37 e Lc 14,26 riporta soltanto uno conciso “rinneghi se stesso”. La differenza del primo e terzo sinottico rispetto a Marco va compresa, a mio avviso, come la necessità per entrambi di spiegare ai propri lettori il senso così equivoco di quello stringato “rinneghi se stesso”. Matteo lo ha compreso come una sorta di rinnegamento delle proprie origini, della propria famiglia, di cui padre e madre sono i fondamenti, che non va anteposta al Regno dei cieli. Similmente lo ha compreso Luca, che, tuttavia, ha ampliato il raggio di comprensione di quel “rinneghi se stesso” ricomprendendo non solo una famiglia ampliata a padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle, ma altresì alla propria stessa anima, quale sede vitale di tutto il proprio essere. Probabilmente Luca, rifacendosi al v.20, dove l'invitato ha preso moglie, ha voluto precisare che non si tratta solo della “moglie”, ma dell'intera famiglia nel senso più ampio del termine, ricomprendendo in tal modo tutti i suoi componenti. In altri termini, tutto ciò che ci lega sentimentalmente e carnalmente non va mai anteposto e tanto meno contrapposto alle esigenze del Regno di Dio.

Commento ai vv.25-27

Il v.25 funge da cornice introduttiva all'intera seconda sezione, quella delle regole circa la sequela: “Ora, andavano con lui molte folle, e, voltatosi verso di esse, disse”. Due gli elementi di rilievo: quel “andavano con lui” (SuneporeÚonto, Sineporeúonto), posto all'imperfetto indicativo per indicare come l'andare “con lui” non fosse un fatto episodico, ma caratterizzava queste folle. L'imperfetto indicativo, infatti, dice il reiterarsi e il protrarsi di un'azione nel tempo. Il termine “Ôcloj” (óclos, folla) ricorre nei vangeli 149 volte, formando una presenza costante che segue Gesù nell'anonimato e con la quale Gesù, non di rado, si rivolge e interloquisce, come in questo caso. Questo personaggio collettivo va considerato come un vero e proprio discepolo, in quanto che, pur nell'anonimato, segue Gesù. Esse sono formate da discepoli che, a differenza dei dodici e altri associati a loro, come i settantadue inviati in missione (10,1.17), pur seguendo Gesù non hanno fatto una scelta specifica, che li faccia emergere dall'anonimato della folla, associandosi a loro, ma si limitano a seguire Gesù e il suo insegnamento. Ed è proprio Luca a definire questa folla come “discepoli” di Gesù in 6,17, contraddistinta dai Dodici e dagli altri discepoli che, invece, sono con Gesù (6,13.17a).

Ora, Luca precisa la posizione di Gesù rispetto a queste folle che lo seguono, raccontando che Gesù “si voltò verso di loro e disse”. Questo voltarsi di Gesù verso di loro dice come Gesù le preceda, come una sorta di pastore che guida le sue pecore; come un maestro che precede e guida i suoi discepoli che camminano con lui e in quel “disse” viene presentato come il loro maestro. In queste folle Luca, probabilmente ravvisa i catecumeni che hanno scelto la sequela di Gesù e ai quali riserva questa catechesi sulla sequela.

I vv.26-27 presentano la prima regola riguardante la sequela, che in modo radicale taglia corto con i rapporti familiari e affettivi del discepolo (v.26), ed è accompagnata da una definizione di modalità di sequela (v.27), che la inquadra in una cornice di sofferenza. Un versetto il 26 che va considerato, come già si è accennato sopra, come lo sviluppo di quel marciano “rinnegare se stessi” (Mc 8,34). Il motivo per cui si rende necessario superare il legame affettivo per accedere al Regno di Dio nasce dal fatto che il contesto familiare, così ben dettagliato da Luca, può costituire un impedimento. Per poter comprendere come ciò possa accadere è necessario porsi nel contesto storico della chiesa nascente: chi intende farsi discepolo esce in genere da una famiglia giudaica o pagana, che difficilmente comprende la scelta del proprio membro e che non intende incorrere in sanzioni da parte delle autorità religiose e civili17 contro chi aderisce al cristianesimo (Gv 9,21-23). Vi era, poi, il contesto sociale, civile e religioso in cui si collocava il neo credente e la sua famiglia, il quale, avverso ai credenti, li perseguitava. Un contesto che l'autore già aveva preannunciato in 12,52-53 e lo ricorderà ancora una volta in 21,16. Da qui la necessità di saper superare i propri legami familiari ed affettivi, le proprie origini carnali per abbracciare con determinazione il Regno di Dio. Una scelta questa che Gesù aveva già, per primo, pubblicamente operato, disconoscendo i rapporti parentali con la propria madre e i propri fratelli a tutto vantaggio di altre madri e di altri fratelli, che avevano operato una scelta a suo favore, prospettando in tal modo una nuova generazione parentale, non più basata su limitanti e precari legami carnali, bensì su di un legame spirituale fondato sulla parola e sulla sequela (8,19-21). Ed è in tal modo, nella stessa sequela di Gesù, che si apre ai credenti una nuova realtà, una nuova dimensione dove la pienezza di vita del nuovo mondo si prospetta già fin d'ora nella scelta da loro operata, nell'attesa di una sua definitiva affermazione, verso la quale i discepoli sono incamminati: “Ora, disse Pietro: <<Ecco noi, lasciate le nostre cose, ti abbiamo seguito>>. Questi disse loro: <<In verità vi dico che non c'è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli a motivo del regno di Dio, che non riceva molto di più in questo tempo e nel tempo che viene la vita eterna” (18,28-30). Al di là, pertanto, delle motivazioni storiche, che giustificano il superamento delle relazioni parentali, se ne prospetta dunque anche una teologica, ben definita dal Gesù giovanneo. Questi, rivolto a Nicodemo che gli chiedeva come fosse possibile rinascere, risponde: “In verità, in verità ti dico, se uno non è generato da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito. Non stupirti perché ti ho detto: bisogna che voi nasciate dall'alto” (Gv 3,5-7). Anche per questo, dunque, è necessario operare una scelta che vada oltre la carnalità condizionante dei rapporti familiari, poiché tale scelta pone il credente, già fin d'ora, in una diversa e nuova dimensione, che nulla ha più a che vedere con questa dimensione spazio-temporale. Egli, infatti, avendo aderito a Gesù e alla sua parola, è stato generato da Dio stesso: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (Gv 1,12-13). In tal modo il credente viene collocato fin da subito in una dimensione e in un'alea divine. Si tratta di una nuova generazione e di una rinascita, per cui il credente non è più semplicemente un essere umano, bensì cristiano. Una nuova specie di umanità che possiede in se stessa i germi dell'eternità; lo stesso DNA di Dio. Anche per questo il credente è chiamato a superare i legami familiari e storico-sociali in cui vive, anteponendo gli interessi del Regno, a cui appartiene, a quelli degli uomini.

Se il v.26 stabilisce la prima regola per la sequela, il superamento dei legami carnali parentali per poter accedere al Regno di Dio, il v.27 stabilisce le modalità sia di accesso che di conduzione della sequela: “Chi non porta la sua stessa croce e (non) viene dietro di me, non può essere mio discepolo”. La dura esortazione rivolta al discepolo non è nuova e già ci si è imbattuti in essa al v.9,23: “Se qualcuno vuole venire dietro di me, neghi se stesso e prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”. L'intento là era quello di smorzare i facili entusiasmi messianici che potevano sorgere dopo la confessione di Pietro sulla natura di Gesù: “Il Cristo di Dio” (9,20b). Qui l'intento è quello di creare il contesto entro cui si muove la sequela di Gesù. Si tratta di una sequela che ha per sfondo la croce. Quanto qui viene detto, infatti, assume una particolare significatività proprio perché Gesù si sta muovendo all'interno del suo viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), dove si compiranno i misteri della salvezza, che passano attraverso la sofferenza e la morte di croce, illuminate dalla luce sfolgorante della risurrezione. Ed è proprio all'interno di questo viaggio verso la sofferenza e la morte di croce salvifiche, che Luca afferma che “andavano con lui molte folle”, proiettando in tal modo il proprio lettore all'interno di una sequela, che si sta muovendo verso Gerusalemme.

Seconda regola: soppesare bene e con prudenza la scelta della sequela (vv.28-32)

Luca, ora, prima di accedere alla terza regola, riguardante il sapersi liberare dai propri beni materiali (v.33), quale presupposto per una efficace sequela, crea una sorta di pausa di riflessione e attraverso due domande retoriche induce il discepolo a valutare attentamente la scelta della sequela prima di addentrarvisi, al fine di non trovarsi poi nella triste e vergognosa necessità di dover abbandonare, la quale cosa non sarebbe del tutto priva di conseguenze e indolore (vv.34-35). Una logica, quella della prudenza nella scelta della sequela, che ritroviamo parimenti in 9,57-58, dove un tale, forse preso dall'entusiasmo, si dichiara pronto a seguire Gesù ovunque egli vada. Una dichiarazione certamente imprudente a cui Gesù risponde prospettando ciò che gli aspetta in quanto suo seguace: “Le volpi hanno tane e gli uccelli del cielo nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo”. Quasi un invito a ponderare attentamente la propria scelta e ciò che questa avrebbe comportato per lui.

Ora Luca torna sul tema della prudenza e di una attenta valutazione prima di operare la propria scelta a favore della sequela. Lo fa con due piccole parabole apparentemente ripetitive, ma che danno, tuttavia, ognuna di esse, l'idea di che cosa significhi scegliere la sequela. La prima riguarda la costruzione di una torre (vv.28-30); la seconda riguarda una guerra che sta per scoppiare tra due re (vv.31-32). Entrambe le parabole sono, da un lato, una esortazione alla prudenza e a soppesare attentamente la propria scelta; ma, dall'altro, ognuna di esse dice che cos'è la sequela: si tratta di costruire non tanto una torre, quanto piuttosto un rapporto nuovo con se stessi, con gli altri e, ancor prima, con Gesù, che è in cammino sulla via della croce; una sequela, che si prospetta inoltre come una dura battaglia con il mondo avverso, che si traduce in rifiuto e persecuzione. Anche quest'ultimo aspetto il catecumeno deve valutare prima di aderirvi.

Terza regola: la rinuncia ai beni terreni (v.33)

Dopo questo spazio di attenta riflessione su che cos'è la sequela e la necessità di soppesarla attentamente, l'autore introduce la terza ed ultima regola, che si richiama in qualche modo ai vv.18-19, dove i due invitati avevano rifiutato la convocazione al banchetto, anteponendo ad esso i propri interessi venali: l'acquisto di un campo e cinque paia di buoi. Questi non gusteranno il banchetto (v.24). Di conseguenza ecco la regola espressa in modo sentenziale, che contiene in se stessa una sorta di giudizio di condanna, che esclude il candidato dalla sequela: “Così, dunque, ognuno di voi, che non rinuncia a tutti i suoi stessi averi, non può essere mio discepolo”. La scelta della povertà per la sequela è di fatto una scelta di libertà, che consente l'intera offerta di se stessi a Dio, senza remore e senza ripensamenti. Un tema questo caro a Luca, che verrà ripreso in 18,22-24 dove un giovane bramoso di eternità (v.18,18) chiede a Gesù la strada maestra per raggiungerla e Gesù la indica nella sequela libera dai beni materiali. Un invito che il giovane declinerà perché ricco: “Udito (ciò), gli disse Gesù: <<Ancora una cosa ti manca: vendi tutte quante le cose (che) hai e distribuisci(le) ai poveri, ed avrai un tesoro nei cieli; e da qui seguimi>>. Questi, udite queste cose, divenne triste; infatti era molto ricco. Ma Gesù, avendolo visto [che era divenuto triste], disse: <<Quanto difficilmente coloro che possiedono ricchezze entrano nel regno di Dio!”. Da qui il sollecito di Luca, a chi ha deciso per la sequela, di liberarsi dai beni materiali. Un tema questo che Luca sente particolarmente, mettendolo in luce nei suoi Atti, dove il liberarsi dai beni materiali, mettendoli a disposizione di tutti, caratterizzerà la vita delle prime comunità credenti (At 2,44; 4,32); mentre la cupidigia viene duramente sanzionata (At 5,1-11).

Le conseguenze di una cattiva scelta (vv.34-35)

Questa seconda sezione (vv.15-35), riguardante le regole concernenti la sequela, si chiude con un detto sentenziale dal sapore sapienziale e che ritroviamo, sia pur in contesti diversi, anche in Mt 5,13 e Mc 9,50a, il quale, quest'ultimo, si mostra molto più vicino a Luca, che compone il suo vangelo tenendo sotto mano quello di Marco18. Il detto, comunque, doveva essere molto comune all'epoca e riportato anche dalla fonte Q, così che Luca riporta la prima parte da Mc 9,50a e poi integra con la fonte Q (v.35), adattandolo alle proprie esigenze narrative e teologiche. Probabilmente il più vicino alla fonte Q è Matteo, poiché Luca nella seconda parte del detto (v.35) tende a dettagliare quella concisa espressione matteana “Ha valore per il nulla” con “Non è adatto né per la terra né per il concime”.

Il significato del detto va compreso nel contesto, per cui il “sale, dunque, (è) buono” diviene metafora della sequela, la quale, come il sale dà sapore, dà senso alla vita discepolo; ma se questo sale diviene insipido, cioè perde la sua motivazione o si affievolisce a motivo delle conflittuali relazioni familiari e/o delle persecuzioni a cui è sottoposto il credente, perderebbe ogni giustificazione la presenza del discepolo all'interno della comunità credente, per cui non resta che essere gettato fuori, cioè viene escluso dalla comunità credente in cui prima era inserito. Ci si trova, pertanto, di fronte ad una vera e propria scomunica.



N O T E

1Cfr. J. Mateos – F. Comacho, Vangelo: figure e simboli, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 1997, II edizione.

2L'espressione “basile…a qeoà” (basileía tzeû), che la traduzione CEI ha reso con “Regno di Dio”, ricorre 69 volte nel N.T. contro una sola volta nell'A.T. in Sap 10,10, dove è inserita nel contesto che si riferisce a Gn 28,10-22, il sogno della scala di Giacobbe, in cui Dio si mostrò a Giacobbe in fuga dal fratello Esaù, a cui aveva sottratto con una sorta di ricatto la primogenitura (Gen 25,29-34). Ciò che Dio mostrò a Giacobbe nel sogno non fu il suo regno, ma la sua regalità e il suo potere. Giusto sarebbe stato dunque tradurre quel “basile…a qeoà” con “regalità o potere di Dio” e non con “Regno di Dio” come ha tradotto la CEI. La TOB, più correttamente, ha reso l'espressione con “regalità di Dio”. Il termine “basile…a”, infatti, oltre che a Regno significa anche governo regio, potestà regia, maestà regale, persona reale.

3Il verbo “™gšneto” (eghéneto) ricorre nei vangeli 117 volte di cui 69 volte solo in Luca.

4Sulla questione cfr. il commento al cap. 13, pagg.13-14

5L'idropisia, termine medico ormai desueto, è un accumulo del liquido sieroso nel tessuto sottocutaneo o nelle cavità seriose del corpo soprattutto in determinate condizioni morbose. - Cfr. la voce “idropisia” in Enciclopedia della medicina, ed. Rizzoli Editore, Milano, 1972.

6La Mishnah è composta da sei ordini, di cui il Mo'ed Qatan (“Tempi delle feste”), che tratta del giorno di sabato e delle festività stabilite, è il secondo, ed è composto da 12 trattati di cui lo Yoma (in ebr. Giorno) è il quinto.

7Il rigore e la rigidità che si riscontrano nell’osservanza del sabato risalgono probabilmente ai tempi dell’esilio (598-538 a.C.). A motivo dell’assenza del tempio, le festività non potevano essere celebrate cultualmente, pertanto il sabato divenne una sorta di distintivo del popolo ebreo in esilio e nel quale il pio ebreo riconosceva la propria identità. Ma sarà soprattutto nel periodo postesilico che l’importanza del sabato si trasformerà in rigida osservanza, a motivo della debolezza politica e religiosa in cui il giudaismo veniva a trovarsi. Tuttavia, tale rigidità non era assoluta, e il buon senso popolare ammetteva di fatto delle trasgressioni del sabato in caso di particolari necessità. Un adagio rabbinico, infatti, recitava: “Se venisse osservato anche un solo sabato, giungerebbe il messia”. Le stesse scuole rabbiniche formularono, poi, una casistica, che costituiva una serie di eccezioni all’obbligo del riposo assoluto in giorno di sabato. Nacque in tal modo lo ‘eruv (mescolanza), una normativa che consentiva lavori proibiti anche in giorno di sabato. Tra questi, a titolo esemplificativo, si consentiva di intervenire quando si trattava di salvare la vita ad un uomo o ad un animale o evitargli delle sofferenze. Ed è proprio allo ‘eruv che Gesù si rifà in questo caso. – Sulla questione dell’osservanza del sabato cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia; R. De Vaux, Le Istituzioni dell’Antico Testamento; la voce “Sabato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia; tutte le opere citate.

8L'espressione “dottore della legge” compare una sola volta anche in Mt 22,35. Tuttavia il termine greco [nomikÕj] (nomikós, dottore della legge) è indicato tra parentesi quadre, che nella segnaletica della critica testuale indica una parola di incerta o dubbia autenticità.

9Cfr. Mt 6,2.5; 23,6-7; 24,31; Mc 12,38; Lc 20,46.

10La tradizione rabbinica divide i suoi rabbini in quattro grandi gruppi: i tannaiti (1-200 d.C.), dall'aramaico tanna', che significa ripetere, trasmettere, insegnare, apprendere. Furono maestri di riconosciuta autorità, il cui compito fu quello di salvaguardare la tradizione e trasmetterla tramite fedele ripetizione; gli amoraiti (220-459 d.C.), dall'ebraico 'amar, che significa dire, raccontare, il cui compito fu quello di commentare gli insegnamenti dei tannaiti; i savorei (450-550 d.C.), da savar, che significa spiegare, la cui attività principale fu quella di rivedere il Talmud babilonese, riordinandone il materiale e integrandone gli argomenti; ed infine i geoni (600-1100 d.C.), dall'ebraico geonim, che significa illustri, eccellenze. Furono gli eredi del Talmud babilonese, che interpretarono e diffusero tra a gente e le loro decisioni esercitarono una grande influenza. - Sulla questione cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005; pagg. 409-413

11Cfr. R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2003 – Pag. 297, nota n.5

12Cfr. Mt 8,15; 13,27-28; 18,23; 22,3; 25,14; 27,55; Mc 1,31; 10,43; 13,34; 15,40-41; Lc 4,39; 12,37.42; 16,13; 17,10; 19,15; Gv 2,5; Gv 12,2.26; 15,15; At 4,29; 20,19; Rm 6,18; Rm 6,22; 15,25; 1Cor 16,15; 2Cor 4,5; 8,4; Gal 5,13; Ef 6,6-7; Fil 1,1; Col 4,7; 2Tm 1,18;

13Cfr. Ez 21,29-31; Gb 22,29; Prv 3,34; 29,23; Sal 17,28; 137,6; 146,6; Mt 23,12; Gc 4,10; 1Pt 5,6.-

14In 14,1 il testo greco riporta: “fage‹n ¥rton” (fagheîn árton, mangiare pane); in 14,15: “f£getai ¥rton” (fághetai árton, mangerà pane).

15Cfr. 9,57;10,25; 11,38.45; 12,13.41; 13,1.23.31; 14,15; 17,20.

16Cfr. la voce “Tre” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.

17Cfr. Gv 7,13; 9,22; 12,42; 19,28; 20,19

18Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 22-23