IL VANGELO SECONDO LUCA




Catechesi n. 3: a) necessità di conversione per Israele, perché incombe il giudizio divino (vv.1-9);
b) Gesù è venuto a fare del sabato il luogo della salvezza per Israele (vv.10-17);
c) il Regno di Dio è una realtà già presente benché ancora nascosta, ma destinata a manifestarsi (vv.18-21); 
d) la difficile scelta del Giudaismo: lasciare Mosè per Gesù (vv.23-30); 
e) il tempo di Gesù è quello della misericordia di Dio (vv.31-33), 
dopo vi sarà il giudizio divino che già sovrasta su Israele (34-35);

(13,1-35)


Commento esegetico e teologico

a cura di Giovanni Lonardi







Note generali

Il tema di questo cap.13 è del tutto inatteso in quanto interamente dedicato alla pervicace incredulità di Israele, sul quale viene posto il giudizio divino di condanna, perché non ha saputo riconoscere il tempo di Gesù (12,56-57; 19,44b) e ne ha rifiutato il messaggio. Ci saremmo aspettati un simile capitolo in Matteo, uno scriba convertito1, che scrive il suo racconto alle comunità dei giudeocristiani, ma non in Luca, un pagano convertito che scrive per gli etnocristiani, ai quali poco importava dell'incredulità dei giudei. Tuttavia Luca dedica alla questione sull'incredulità dei Giudei questo capitolo per un duplice motivo: sia per ammonire il mondo greco-ellenistico a non cadere nello stesso errore del giudaismo, evitando in tal modo di subirne la stessa sorte; sia per mettere in rilievo come il mondo pagano sia stato privilegiato al posto di Israele (vv.29-30), che invece è stato respinto e condannato per la sua incredulità (vv.24-27). Un tema questo che aveva già affrontato anche Paolo in Rm 9-11 e in particolar modo messo in rilievo in 9,30-32 11,11-15.25 e in Ef 3,6.

La tematica del cap.13 era già stata in qualche modo preannunciata da 12,56-59, dove, da un lato, si accusava i Giudei di non aver riconosciuto i segni dei tempi, significati nella venuta di Gesù, nella sua missione, operata con parole e segni (12,56-57); dall'altro, li si sollecitava ad approfittare di questo tempo per convertirsi, prendendo una radicale posizione esistenziale a favore di Gesù, accogliendone il messaggio, prima che giungesse il giudizio finale di condanna (12,58-59). Un tema questo che verrà ripreso nello specifico da 13,6-9, dove in termini metaforici si allude sia ad Israele, simboleggiato dal fico; sia al tempo di Gesù, significato nei tre anni, il tempo della sua missione.

Il cap.13 è scandito in due sezioni dal v.22, che nella sua prima parte, v.22a, allude alla missione di Gesù, che “passava per città e villaggi insegnando”, in cui quel verbo all'imperfetto indicativo dice la persistenza di questo suo passare, la cui finalità era l'annuncio, portando in tal modo a conclusione, sintetizzandola come in una sorta di sommario, la prima sezione del cap.13 (vv.1-21), dove prevale il tema della missione di Gesù a favore di Israele (vv.6-9); del suo significato salvifico (vv.10-17), che ha come centro vitale l'annuncio e la fondazione del Regno di Dio (vv.18-21); mentre la seconda parte del v.22 ha una duplice finalità: da un lato, Luca ricorda al suo lettore che Gesù è in cammino verso Gerusalemme, dove dovranno compiersi i misteri della salvezza, generata dalla sua morte-risurrezione; dall'altro introduce la seconda sezione del cap.13 (vv.23-35), dove emerge prepotentemente il tema della sofferenza e della morte, significata nella lotta che sia il giudeo che il giudeocristiano devono sostenere per far parte del discepolato di Gesù e mantenersi fedele a lui (vv.23-30); e nel contempo, del giudizio di condanna che grava su di loro, qualora ne rifiutassero l'adesione (vv.27-28a; 34-35); e come tale missione di Gesù obbedisca ad un progetto divino (v.33) e non potrà mai essere ostacolata finché non sarà compiuta (vv.31-32). Lo sfondo su cui si muove l'intero capitolo è escatologico e sottolinea come il tempo di Gesù sia l'ultimo concesso ad Israele, prima che il giudizio divino si abbatta su di lui (vv.6-9.27-28a.34-35a).

La struttura del cap.13, come già si è accennato qui sopra, è divisa in due sezioni dal v.22, che potremmo considerarlo di transizione, poiché da un lato (v.22a) conclude la prima sezione (vv.1-21); dall'altro (v.22b) introduce la seconda sezione (vv.23-35), che lega il discepolato di Gesù alla sua stessa sorte di sofferenza e di morte.

La prima sezione (vv.1-21) è suddivisa in quattro parti e allude all'attività missionaria di Gesù in mezzo ad Israele, che da questa viene interpellato e chiamato a prendere posizione nei suoi confronti, in un contesto di urgenza escatologica:

  1. la rievocazione di due eventi dolorosi, che devono aver segnato i ricordi dei Giudei, posti qui in modo paradigmatico, richiamano il giudizio divino che interviene se non ci si converte (vv.1-5);

  2. a cosa Gesù alluda con l'appello alla conversione, posta sotto l'imminente giudizio divino, viene detto dalla parabola del fico: la venuta di Gesù e la sua presenza storica in mezzo ad Israele hanno carattere escatologico e lo interpellano direttamente, esigendo da lui una netta presa di posizione nei suoi confronti (vv.6-9);

  3. la guarigione della donna ricurva in giorno di sabato per iniziativa di Gesù dice il senso della sua attività salvifica a favore di Israele; e come il sabato, ormai svuotato di ogni significato, ma riqualificato da Gesù, diviene il luogo della salvezza per Israele (vv.10-17);

  4. viene qui indicato l'oggetto della missione di Gesù: la fondazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini, il quale, benché ancora in nuce nella presenza di Gesù e nella sua predicazione, è perentoriamente destinato ad affermarsi (vv.18-21).

La seconda sezione (vv.23-35) è suddivisa in tre parti:

  1. in un misto intriso di esortazioni e di minacce incombenti, si rammenta il triste destino di chi, durante la missione di Gesù, non ha aderito al suo messaggio di salvezza, di fatto, rifiutandolo, a differenza dei Padri e dei profeti e dello stesso mondo pagano, che invece, lo hanno accolto (vv.23-30);

  2. Gesù avverte le autorità religiose che la sua missione si compirà comunque, loro malgrado, poiché essa fa parte di un progetto divino di salvezza destinato anche ai Giudei e finché non si sarà compiuto non gli potrà accadere nulla, poiché la meta finale del suo viaggio e della sua stessa missione è Gerusalemme, il luogo dove si compirà per tutti il Mistero della salvezza (vv.31-33).

  3. Come una sorta di eco, causato dal nome “Gerusalemme” con cui termina la seconda parte (v.33), pieno di tristezza e di rammarico, Gesù rievoca il senso della sua missione, fallita per la pervicace incredulità di Israele, su cui è già stato posto il giudizio escatologico di Dio (vv.34-35).

Il materiale di cui è composto il cap.13 è quasi esclusivamente proveniente da quelloproprio di Luca2 e da fonte Q, che Luca condivide con Matteo e in piccola parte anche da Marco3, benché il materiale di provenienza comune venga rielaborato dai singoli evangelisti per meglio adattarlo ai propri racconti e ai propri lettori.

Commento ai vv. 1-35

Prima sezione del cap. 13

Il giudizio divino incombente sul giudaismo per la sua pervicace incredulità (vv.1-21)

Testo a lettura facilitata

La missione di Gesù in mezzo ad Israele e l'urgenza della sua conversione (vv.1-9)

1 – In quel tempo erano presenti alcuni che gli riferirono intorno ai Galilei il cui sangue Pilato mescolò con i loro sacrifici.
2 – E rispondendo disse loro: <<Pensate che questi Galilei fossero peccatori rispetto a tutti i Galilei, perché hanno sofferto tali cose?
3 – No, vi dico, ma qualora non vi pentirete, tutti similmente perirete.
4 – O quei diciotto sui quali cadde la torre in Siloe e li uccise, pensate che essi fossero debitori rispetto a tutti gli uomini che abitano (in) Gerusalemme?
5 – No, vi dico, ma se non vi pentirete, tutti perirete allo stesso modo>>.
6 – Ora, diceva questa parabola: <<Un tale aveva un fico piantato nella sua vigna, e andò cercando un frutto in essa e non (lo) trovò.
7 – Disse verso il vignaiolo: “Ecco (sono) tre anni da che vengo cercando frutto in questo fico e non trovo; taglialo, [dunque], a qual fine rende inoperosa la terra?”.
8 – Ma questi, rispondendo, gli dice: “Signore, lascialo perdere anche quest'anno, fino a questo zapperò attorno ad esso e getterò concime,
9 - qualora facesse frutto per il futuro, se no di certo lo taglierai”.

La pericope è suddivisa in due parti: la prima riporta due inediti episodi, del tutto sconosciuti agli storici, ma che citati così, senza alcuna precisazione, lasciano intendere come questi fossero ben noti agli ascoltatori. La loro storicità, pertanto, è indiscutibile. Due episodi che fungono da paradigma al giudizio divino, che sta per compiersi (vv.1-5). Entrambi, infatti, terminano con il duro e identico monito di Gesù: "... se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo". I fatti accaduti, pertanto, vengono presi da Gesù come segno del giudizio divino che si compie su chi non si apre a Dio. Non è da intendersi, quindi, che le due disgrazie siano state provocate da Dio per giustiziare dei peccatori; ma i fatti hanno assunto, in questa cornice di giudizio, un significato simbolico del giudizio divino imminente per coloro che, non volendo cogliere il momento opportuno (la presenza di Gesù), non si decidono per la conversione. Un'imminenza che è data dall'apparire improvviso e inatteso di alcuni messaggeri che annunciano la drammatica sventura occorsa ai Galilei con cui si apre il capitolo. La seconda parte, introdotta dai due episodi paradigmatici, attraverso un racconto parabolico, lascia intendere come il tempo presente, quello di Gesù, ha una senso fortemente escatologico e come egli porti con sé il giudizio di Dio, che ora incombe su Israele. Per due volte di seguito, infatti, viene posto in modo drastico il richiamo alla conversione, che ha come unica alternativa la condanna (vv.3.5), la cui natura viene accennata in 27-28a e in 34-35a. Israele è, pertanto, avvertito e sollecitato ad una scelta radicale, diversamente i suoi destini si compiranno tragicamente (vv.6-9).

Il cap.13 si apre con un'espressione redazionale che si richiama ad un tragico evento, quello di quei “Galilei il cui sangue Pilato mescolò con i loro sacrifici”. Significativa è la nota temporale “In quel tempo” resa in greco con “™n aÙtù tù kairù” (en autô tô kairô), che se da un lato lascia trasparire il tentativo dell'autore di volersi collegarsi alla precedente pericope 12,54-59, dandone in qualche modo una continuità narrativa; dall'altro, la presenza di quel “kairô” dice che non si parla di un tempo qualunque, ma di un tempo particolare, quello specifico di Gesù. Si tratta, dunque, di un tempo che funge da cornice ai vv.6-9, che parlano della presenza e della missione di Gesù, quali elementi di giudizio divino posti su Israele, che già Simeone aveva profeticamente preannunciato: “Ecco questi è posto a rovina e risurrezione di molti in Israele e a segno di contraddizione” (2,34b).

Il primo episodio narra della violenta e cruenta repressione che il governatore Ponzio Pilato aveva scatenato contro dei Galilei che, saliti al tempio, stavano sacrificando degli agnelli, così che il sangue di questi animali sacrificati si mescolò a quello dei Galilei giustiziati da Pilato, forse perché ritenuti dei sovversivi. Questo “mescolare il sangue dei sacrifici con quello dei Galilei” va inteso non in senso reale, ma temporale, cioè mentre stavano facendo dei sacrifici al tempio; o in senso locale, cioè quei Galilei furono massacrati nel Tempio, dove si compiono i sacrifici. Un massacro che qui viene imputato ad un ordine diretto di Pilato, la quale cosa fa pensare che Pilato, lasciata la sua residenza di Cesarea Marittima, sede dei governatori della Palestina, si fosse trasferito per le feste pasquali a Gerusalemme. Una mossa strategica per tenere sotto controllo la situazione, che in questi frangenti, come le festività pasquali, poteva esplodere improvvisamente. Non a caso, infatti, durante tali feste la presenza militare in Palestina veniva rafforzata con un distaccamento della X Legio Fretensis di stanza in Siria.

Tuttavia, altri studiosi ritengono che Luca qui abbia confuso questo episodio, di cui non abbiamo notizia, con un altro simile: il massacro di samaritani, radunatisi nel Tempio e avvenuto sul monte Garizim nel 35 d.C., mentre questi samaritani si stavano preparando ad una sommossa. Tale intervento violento e cruento sollevò la protesta dei Samaritani, che, recatisi da Vitellio, governatore della Siria, da cui Pilato dipendeva, protestarono vivamente per la violenta reazione di Pilato, che venne rimosso dal suo incarico, dopo un decennio di governo, dal 26 al 36 d.C., e rispedito a Roma dove venne sottoposto a giudizio ed esiliato a Vienne dall'imperatore Caligola4.

Quanto al secondo drammatico episodio, quello del crollo della Torre di Siloe, che ha travolto diciotto sventurati, di cui le cronache in nostro possesso nulla dicono, è da ritenersi comunque vero, se non altro per la precisazione del numero delle vittime, numero che non è simbolico, ma reale. Una disgrazia, questa, che deve aver impressionato molto i Giudei del tempo, se Luca la riporta nella sua opera.

In entrambi i casi Gesù sottolinea per ben due volte come la mancata conversione assimilerà i duri di cuore allo stesso tragico destino (vv.3.5). Era diffusa credenza, infatti, che le disgrazie fossero la ricompensa per le colpe commesse dalle persone che ne sono rimaste travolte. In altre parole, Dio giustiziava in tal modo i peccatori. Ma questa convinzione portava i contemporanei di Gesù a pensare che, non essendo loro travolti da particolari sventure, fossero dei giusti e, pertanto, non bisognosi di conversione. Gesù sfata brutalmente tale credenza, che racchiude l'uomo nelle sue sicurezze e lo chiude nei confronti di Dio, provocando in lui una certa arroganza religiosa (18,10-14; Rm 2,17-20). Quegli sventurati, afferma Gesù, non erano affatto più colpevoli di tutti gli altri. Non c'è, dunque, corrispondenza tra peccato e castigo: tutti sono parimenti peccatori e bisognosi di conversione (Rm 3,23). Il Gesù lucano invita, quindi, a leggere i due episodi come un segno dell'imminente ira di Dio contro quegli uomini che non riconoscevano nella sua presenza l'invito del Padre ad aprirsi a Dio e decidersi definitivamente per Lui.

I vv.6-9, fatti seguire immediatamente ai due cruenti episodi, che Gesù invita a leggere in modo paradigmatico come l'incombente giudizio divino, danno corpo, sia pur in modo metaforico, ma molto esplicito, a questo giudizio divino. Il linguaggio qui è profetico ed escatologico e richiama da vicino la dura predicazione del Battista (3,7-9), puntando il dito contro la pervicace incredulità dei Giudei, che si ostinano a rifiutare Gesù e il suo appello alla conversione.

La parabola si apre riportando un doppio simbolismo, ma dall'identico significato: il fico5 e la vigna6, che nel linguaggio profetico simboleggiano Israele. Mentre l'accoppiata fico-vigna si presenta solo in Ger 8,13, in Os 9,10 e in Mi 7,1 dove la doppia immagine è sempre utilizzata per descrivere l'infedeltà e l'infruttuosità di Israele nei suoi rapporti con Dio.

Ma in questa parabola, se la vigna rappresenta Israele, il fico, impiantato nella vigna, similmente a quel fico di Mt 21,19 e di Mc 11,13, rappresenta il modo di vivere di Israele, incapace di produrre frutti per il Regno di Dio. Infatti, Gesù non se la prende con la vigna, ma con il fico. Israele, infatti, è e rimane sempre il popolo privilegiato di Dio, da cui uscirà un resto capace di riconoscerlo ed accoglierlo (Lc 2,25-26.36-38; Rm 11,1-5; Sof 3,13). E', quindi, sull'operare del popolo, sulla sua infruttuosità, che Luca incentra la sua attenzione, stigmatizzandone la condotta e sottoponendola a giudizio: Israele non ha saputo riconoscere e accogliere nella presenza di Gesù il dono che il Padre gli faceva; non ha saputo cogliere il tempo opportuno a lui riservato, per cui la presenza di Gesù diventa per Israele motivo di giudizio. La venuta del padrone in cerca di frutti allude, infatti, a quella di Gesù, richiamata dal v.7, dove nei “tre anni” si evoca la sua missione. Un tempo questo che concorda con Giovanni, che scandisce l'attività missionaria di Gesù in tre pasque (Gv 2,13; 6,4; 11,55). In questa immagine il padrone raffigura il Padre, che in Gesù è tornato in mezzo al suo popolo a cercare quel frutto che Alleanza, Torah e Profeti avevano seminato, ma inutilmente. Da qui il giudizio di condanna che Gesù porta con sé. Il quadro, infatti, è univoco: si parla di venuta, di cercare i frutti e l'impossibilità di trovarne si traduce nella decisione del Padrone di estirpare quel fico inutile perché non ha saputo mettere a frutto quei doni spirituali di Alleanza, Torah e Profeti che gli erano stati concessi, in preparazione della sua venuta in Gesù. Si è giunti, dunque, alla resa dei conti, così come lo è ogni tempo escatologico.

I vv.8-9 fanno intervenire il vignaiolo, la stessa persona di Gesù, che alla stregua di Abramo (Gen 18,20-33), invoca il Padre di attendere fino all'ultimo prima di dare corso al suo giudizio: “un altro anno”, cioè un altro tempo che va oltre i tre anni della missione di Gesù e che allude probabilmente al tempo della chiesa (v.35b). Un tempo che prolunga la salvezza portata da Gesù, che non è venuto per condannare, ma per salvare. Infatti: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” così che “Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio” (Gv 3,17-18). Il tempo della chiesa, pertanto, va colto come un'opportunità, un nuovo tempo di grazia, in cui il giudizio divino è sospeso, benché presente. 2Pt 3,9 richiama le comunità credenti, che ormai avevano perso la fiducia in un imminente ritorno del Signore, proprio su questo aspetto: “Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”. Il tempo della chiesa, pertanto, è il tempo della pazienza di Dio. Un tempo, comunque, di grazia; l'ultimo tempo, dopo di che “se no di certo lo taglierai”.

Il senso della missione di Gesù per Israele: fare del sabato il luogo della sua salvezza (vv.10-17)

Testo a lettura facilitata

Cornice introduttiva (v.10)

10 – Ora, stava insegnando in una delle sinagoghe di sabato.

Israele, oppresso dalla Torah orale, viene guarito da Gesù (vv.11-13)

11 – Ed ecco una donna che aveva uno spirito d'infermità da diciotto anni ed era ricurva e non poteva sollevare la testa interamente.
12 – Ora, avendola vista, Gesù la chiamò e le disse: <<Donna, sei liberata dalla tua infermità>>,
13 – e le impose le mani; e subito fu raddrizzata e glorificava Dio.

La reazione scandalizzata delle autorità religiose, che perseguitano la folla (v.14)

14 – Ma rispondendo il capo sinagoga, sdegnato perché Gesù guarì di sabato, diceva alla folla che sono sei i giorni in cui bisogna lavorare; in essi, pertanto, venendo, siate guariti e non (nel) giorno di sabato.

L'autentico senso del sabato: luogo del riscatto e della salvezza (vv.15-16)

15 – Ma il Signore gli rispose e disse: <<Ipocriti, ciascuno di voi non scioglie di sabato il suo bue o l'asino dalla greppia e conducendo(li) via dà (loro) da bere?
16 – Ora, questa che è figlia di Abramo, che Satana legò, ecco, da diciotto anni, non bisognava che fosse sciolta da questo vincolo nel giorno di sabato?>>.

La contrastante reazione: vergogna ed esultanza (v.17)

17 – E mentre egli diceva queste cose, tutti quelli che gli si opponevano si vergognavano, e tutta la folla esultava per tutte le cose meravigliose che accadevano per opera sua.

Note generali

Per poter comprendere questo singolare racconto di guarigione in giorno di sabato è necessario tenere presente il contesto del cap.13, interamente dedicato alla pervicace incredulità di Israele, duramente richiamato alla conversione e sul quale pende un giudizio di condanna (vv.3.5.7), qualora non riconosca in Gesù l'inviato di Dio, non ne accetti la missione e la sua predicazione e non si converta.

La finalità di tale racconto, che va colto come metafora e non come un miracolo associabile ad altri simili, è mettere in rilievo il senso della missione di Gesù nei confronti di Israele: Gesù è venuto per liberare Israele dal peso della Torah orale, reinterpretandola non più in funzione di Dio, ma in funzione dell'uomo. Il sabato, infatti, è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato (Mc 2,27). Il giudaismo, come sistema religioso, aveva ridotto la religione, quale luogo d'incontro con Dio, ad una serie di regole da eseguire e tale da impedirne un autentico rapporto, così che Isaia lamentava che: “[...] questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13).

Ci troviamo di fronte, ma solo apparentemente, ad un tradizionale racconto di guarigione, uno dei tanti che popolano i vangeli. E il fatto che venga compiuto di sabato non sorprende. Molti altri miracoli furono compiuti in giorno di sabato da Gesù, creando imbarazzo, scandalo e proteste tra le autorità religiose7. Ma l'intento in tale caso era dimostrare come Dio opera sempre, anche di sabato perché egli ne è il Signore8. Quindi, tutto rientra nella normale catechesi. Ma questa volta le cose qui cambiano notevolmente, poiché qui l'intento dell'evangelista non è dimostrare la potenza di Dio che opera in mezzo agli uomini; né annunciare con tale guarigione la rigenerazione dell'uomo, qualora questi accolga Gesù nella sua vita, anticipando in qualche modo gli effetti della risurrezione. Vi sono alcuni segnali che indirizzano il lettore ad uscire dai soliti schemi di comprensione: a) il miracolo viene compiuto direttamente e spontaneamente da Gesù, senza che vi sia da parte dell'ammalato una esplicita richiesta di guarigione; b) la donna è una persona che è afflitta da uno spirito d'infermità da 18 anni che la tiene ricurva, schiacciata quasi verso il basso, impedendole in tal modo di alzare la testa verso l'alto; c) la donna raddrizzata glorifica Dio, mentre il capo sinagoga si sdegna per questa guarigione in giorno di sabato, ma non rimprovera Gesù, bensì la folla, che Gesù ha beneficato; d) Gesù reinterpreta il senso del sabato giudaico, denunciandone l'ipocrisia; e) il racconto termina con una netta contrapposizione tra le pretese delle autorità religiose svergognate per la loro ottusità spirituale, che continua a legare pesanti interpretazioni legalistiche sulla gente, impedendo loro di vivere un loro autentico rapporto con Dio (11,46; Mt 23,4); e la gente che, invece, esulta per la liberazione portata da Gesù.

Il racconto sembra svolgersi secondo i soliti schemi di guarigione, ma in realtà possiede al suo interno un devastante atto di accusa contro il giudaismo in un crescendo di denuncia: dapprima si presenta la donna affetta da uno spirito d'infermità in senso generico, ma non si parla ancora di diavolo (v.11), tant'è che poi lo spirito d'infermità, diventa semplicemente “la tua infermità” (v.12); ed infine tale infermità assume una configurazione netta: “questa è figlia di Abramo, che satana legò” (v.16a). L'infermità che affligge questa donna e che le impedisce di alzare la sua persona verso Dio è dunque satana. Di quale infermità si tratta e chi è veramente questo satana?

La struttura del racconto è scandita in due parti: da un lato la presentazione della guarigione (vv.10-13); dall'altro il dibattito tra il capo sinagoga e Gesù, in cui viene svelata l'ipocrisia circa l'intendere il sabato da parte delle autorità religiose (vv.14-17). Un sabato che viene reinterpretato da Gesù a tutto favore degli uomini, poiché il senso della missione di Gesù non è l'affermazione di Dio in mezzo agli uomini, costringendoli a rivolgersi verso di Lui, calpestando la loro umanità, soffocandola con obblighi opprimenti, ma dare pienezza alla loro umanità. Una missione, dunque, quella di Gesù che non è teocentrica, bensì antropocentrica. Dio, infatti, ha tanto amato gli uomini da dare loro il suo Figlio, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Gv 3,16); un Gesù che non è venuto a giudicare e a condannare, ma a salvare (Gv 3,17). Una logica antropocentrica che la stessa Chiesa cattolica ha codificato nel suo atto di fede ufficiale: “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”9. Per l'uomo, dunque, Gesù è venuto.

Commento ai vv. 10-17

Prima parte: Gesù, evento di liberazione per Israele (vv.10-13)

La pericope inizia contestualizzando il racconto di guarigione all'interno di una sinagoga e in giorno di sabato. L'evento di salvezza, dunque, viene collocato nel cuore stesso del giudaismo (v.10) dove Gesù si trova ad insegnare, cioè dove Gesù stava svolgendo la sua missione di annuncio. Sono sufficienti questi due tocchi per inquadrare il senso dell'intero racconto: tutto ciò che qui avviene ha a che vedere con la missione di Gesù con riguardo al giudaismo.

Il racconto di guarigione si apre con un “Ed ecco”, una sorta di sipario letterario, la cui funzione narrativa è quella di incentrare l'attenzione del lettore su quanto sta ora accadendo sul palcoscenico del giudaismo. Ciò che qui appare è una donna, che al v.16 viene definita “figlia di Abramo”. Si tratta, dunque, non di una donna qualsiasi, ma appartenente alla discendenza di Abramo, cioè al popolo della promessa, che in qualche modo viene qui raffigurato in questa donna. Questa viene presentata con alcuni tratti significativi: è affetta da “uno spirito di infermità”; lo è da “18 anni”; “è ricurva” così che “non poteva sollevare la testa interamente” (v.11). Viene qui descritta la triste condizione di Israele, afflitto da “uno spirito di infermità”. L'espressione è resa in greco con “pneàma ¢sqene…aj” (pneûma asteneías), che non necessariamente va inteso come uno spirito maligno che la tormentava, ma definisce prevalentemente uno stato di vita di oppressione, che la rinchiudeva nella sua fragilità. Il termine “pneûma”, infatti, oltre che spirito, significa anche soffio vitale, respiro, anima, forza vitale; mentre quell' “asteneías” più che infermità allude ad una condizione di debolezza generale. È, dunque lo spirito di quella donna, la sua condizione di vita che è affetta da debolezza e fragilità generali che la rendono incapace di sollevarsi verso l'alto. Quello spirito di debolezza potremmo pertanto leggerlo come una sorta di endiadi: non più spirito di debolezza, ma debolezza dello spirito. Infatti, Gesù nel guarire la donna non si rivolge allo spirito, ma alla donna stessa; non dà ordini allo spirito, ma semplicemente comunica alla donna che è liberata dall'infermità, che l'affliggeva. Non si parla più di spirito, ma soltanto di “tua infermità”, cioè una infermità, uno stato di debolezza spirituale che quel “tua” dice che apparteneva intrinsecamente alla donna. La donna, pertanto, non era posseduta da uno spirito di debolezza, ma era lei spiritualmente debole e incapace di stabilire un autentico rapporto con il suo Dio. Gesù, qui, non compie nessun esorcismo, ma soltanto rigenera la donna ad una vita nuova, dandole una nuova prospettiva, infondendole con quel gesto di imposizione delle mani (v.13) un nuovo spirito, una nuova forza vitale, togliendole di dosso quel peso che la opprimeva. Uno stato di vita questo che viene reso molto bene da quel suo essere “ricurva” così che “non poteva sollevare la testa interamente”. L'ebreo quando pregava si metteva davanti a Dio diritto in piedi (18,11), mentre questa donna oppressa non riusciva a drizzarsi, ma a stento sollevava a malapena la testa. Questa condizione della donna dice, quindi, la sua incapacità di pregare e di relazionarsi adeguatamente a Dio a motivo della debolezza del suo spirito, che l'appesantiva spiritualmente. E ciò che la rendeva tale era il pesante fardello giuridico impostole dalla Torah orale, che la ingessava nel suo rapporto con Dio, rendendola incapace di osservare una Legge così farraginosa10, la cui pesantezza ci è testimoniata da Mt 23,4 e dallo stesso Lc 11,46 che riduceva tutto ad una mera quanto difficile esecuzione fisica, ma incapace a sua volta di stabilire una sincera relazione di vita con Dio, un vero culto che nascesse dal cuore e dalla vita stessa; incapace, in ultima analisi, di produrre salvezza, rinchiudendo il giudaismo dentro una ritualità ed osservanze asfissianti, che lo schiavizzavano (Rm 3,20). La Torah orale, infatti, investiva ogni aspetto, anche il più minuzioso, della vita, così che non esisteva alcuna cosa al mondo che non fosse oggetto di un precetto da osservare; mentre ricorreva tra gli ebrei un detto significativo: “Prima che finisca di mangiare un pezzo di pane, una persona ha osservato dieci precetti”. L'intera vita del pio ebreo, quindi, si muoveva all'interno di una inestricabile ridda di norme da osservare così che tutta la sua vita era ritualizzata11. Paolo, rivolto alle comunità della Galazia, che, dopo aver aderito a Cristo, lo avevano abbandonato per abbracciare il giudaismo (Gal 1,6-7), si scaglierà con durezza e veemenza contro di loro per aver barattato la libertà acquisita in Cristo con una legge di schiavitù: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. E dichiaro ancora una volta a chiunque si fa circoncidere che egli è obbligato ad osservare tutta quanta la legge. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge; siete decaduti dalla grazia” (Gal 5,1-4).

La situazione di questa povera donna, precisa Luca, durava da 18 anni. Il fatto che l'autore, in materiale proprio, citi il numero sta ad indicare che egli intende attribuirgli un qualche significato. Un numero, quindi, che potremmo considerare simbolico, poiché esso è dato da tre volte sei, in cui il tre, secondo la simbologia, indica una quantità completa e compiuta; mentre il sei dice l'imperfezione12. Il Diciotto, pertanto, esprime un numero che definisce una perfetta imperfezione e come questo fu un tempo, il Primo Testamento, di debolezza, dominato da una Legge schiavizzante13, che di fatto ha reso incapace Israele di riconoscere in Gesù l'inviato di Dio.

L'avvento di Gesù nel cuore del giudaismo, simboleggiato dalla sinagoga e dal giorno di sabato (v.10), porta alla donna ricurva, cioè oppressa da una religione fatta di norme e di prescrizioni di difficile applicazione, un messaggio di liberazione, trasformando in tal modo la sinagoga e il sabato da luoghi di schiavitù in luoghi di liberazione e di promozione dell'uomo. Un intervento formato da due elementi: l'annuncio della sua liberazione e l'imposizione delle mani (v.13). Due elementi, parole ed opere, che costituiscono lo schema fondamentale su cui si basa l'intera missione di Gesù e che rigenererà la donna ad una vita nuova: “e subito fu raddrizzata e glorificava Dio”. L'incontro accogliente di Gesù ha portato la donna, figura di Israele, a raddrizzarsi all'istante, cioè a liberarsi delle imposizioni giudaiche, e quale effetto conseguente “glorificava Dio”. Il verbo all'imperfetto indicativo in greco ha un senso iterativo e durativo nel tempo, segno evidente questo come la liberazione dalle norme mosaiche e l'abbracciare Gesù ha portato il nuovo Israele ad un autentico rapporto con Dio, glorificato non più attraverso una legge oppressiva, ingestibile e difficilmente eseguibile, ma che non toccava il cuore di Israele, bensì attraverso la rigenerazione ad una nuova vita, sottoposta ora ad una legge di libertà secondo lo Spirito (Rm 8,2-4). Un'azione rigenerante che in qualche modo Ez 36,25-27 aveva preannunciato: “Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati […],vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi” e che il Gesù giovanneo farà riecheggiare nel suo dialogo con Nicodemo, parlando di rinascita attraverso l'acqua e lo Spirito (Gv 3,5-6).

Seconda parte: il rifiuto di Israele e la sua ipocrisia (14-17)

La seconda parte di questo racconto è interamente dedicata alla risposta del giudaismo alla proposta liberante di Gesù e si apre con un pesante “¢pokriqeˆj de” (apokritzeìs dè, ma rispondendo). Una risposta che è di opposizione non solo nei confronti di Gesù, ma anche e soprattutto contro la gente, che aveva deciso di accoglierne il messaggio. Il capo sinagoga, che qui raffigura le autorità giudaiche, si sdegna per il comportamento di Gesù in giorno di sabato, ma le sue invettive sono rivolte contro la gente, sollecitandole a cercare la propria guarigione in giorni che non siano di sabato. Un richiamo improprio, poiché la gente era in sinagoga per le funzioni del sabato e certamente non era venuta per farsi guarire da Gesù, ma è questi che si fa parte attiva e, non richiesto, guarisce la donna ricurva. In altri termini, il capo sinagoga ha sbagliato bersaglio. Ma in realtà Luca qui non sta riportando la cronaca di quanto è successo, ma sta tratteggiando simbolicamente la presa di posizione delle autorità giudaiche nei confronti di chi avesse aderito a Gesù. I seguaci di Gesù erano banditi dalla sinagoga (Gv 9,22; 12,42), decretandone in tal modo la morte civile e religiosa; e chi si faceva suo discepolo lo faceva nascostamente per non essere perseguitato (Gv 7,13; 12,42; 19,38; 20,19). Il tentativo delle autorità giudaiche, qui simboleggiate dal capo sinagoga, era quello di impedire alla gente di aderire alla proposta liberante di Gesù e di ricondurre nel giudaismo quelli che invece lo avevano fatto. Da qui il rimprovero: “sono sei i giorni in cui bisogna lavorare; in essi, pertanto, venendo, siate guariti e non (nel) giorno di sabato”. All'annuncio di liberazione generatosi nel cuore del giudaismo, questo si contrappone imponendo ai suoi le prescrizioni mosaiche (v.14).

La controrisposta di Gesù porta allo scoperto l'ipocrisia della Torah orale circa il sabato, che qui raffigura l'essenza del giudaismo, quale fenomeno civile e religioso, mettendone in rilievo la contraddizione: di sabato è lecito accudire alle necessità degli animali o, secondo la fonte di Mt 12,11, di soccorrerli in caso di necessità, ma non a quelle dei figli dell'alleanza, discendenti di Abramo e popolo della promessa. La domanda sottesa è: ma chi conta di più davanti a Dio, un animale o un uomo, che appartiene alla discendenza di Abramo ed è erede della promessa?

Lo scontro tra Gesù e il giudaismo non si limita, tuttavia, soltanto ad un duro confronto sui contenuti della Torah orale, che ha di fatto deformato, vanificandola, e in alcuni casi cambiato quella scritta, sostituendosi ad essa (Mt 23,1-36; Lc 11,11,39-52), ma le autorità giudaiche vengono qui accusate di essere dei satana che hanno legato con vincoli normativi schiavizzanti ed opprimenti la gente (Mt 23,4; 11,46), impedendo loro il libero accesso al Regno di Dio (11,52; Mt 23,13). Si parla, infatti, qui di “Satana che legò” questa donna, figura di Israele, e come questa doveva essere sciolta da “questo vincolo”. L'allusione, come s'è visto sopra, è alla Torah orale. Quanto al “Satana”, che qui raffigura le autorità giudaiche, non è la prima volta che Gesù e le autorità giudaiche si scambiano reciproche accuse in merito: di essere Beelzebùl o di operare in suo nome, nei confronti di Gesù (11,15; Mt 10,25; 12,24; Mc 3,22); mentre il Gesù giovanneo accusa le autorità giudaiche di essere figli del diavolo, che fu omicida e menzognero, e come il loro padre così esse si comportano, come poi lamenterà al v.34a: “Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44).

Con il v.17 si chiude il racconto dell'evento salvifico compiutosi nel cuore del giudaismo e che ha creato in esso una netta spaccatura, che qui viene significata nella contrapposizione tra le autorità giudaiche e il popolo. Le prime sono coperte di vergogna; il secondo esulta per “le cose meravigliose”. Una spaccatura che già in qualche modo era stata profetizzata da Simeone: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (2,34b-35a). Ma in realtà questa netta spaccatura tra il vecchio Israele, tenacemente vincolato all'opprimente legge mosaica, e il nuovo Israele che si è aperto in modo accogliente all'evento salvifico Gesù, va ben oltre alle solite chiusure, a cui ci hanno abituati gli evangelisti nei loro racconti, finalizzate ad esaltare l'azione di Gesù. Qui ci si trova di fronte al compiersi del giudizio divino, già preannunciato e minacciato nella precedente pericope (vv.1-9). I personaggi del racconto, infatti, vengono discriminati in due parti nettamente contrapposte: la prima, quella che si opponeva a Gesù “si vergognava”; la seconda, quella che invece l'ha accolto, “esultava”. Ci sono tutti gli elementi del giudizio: l'oggetto su cui si svolge il giudizio: il rifiuto o l'accoglienza di Gesù; la discriminazione, conseguente il giudizio, tra chi lo ha rifiutato e chi, invece, lo ha accolto; il premio per questi, espresso nel loro esultare; il castigo per gli altri, coperti di vergogna. I verbi, qui tutti posti all'imperfetto indicativo, dicono come il vergognarsi e l'esultare caratterizzano e continueranno a caratterizzare le contrapposte scelte nei confronti di Gesù. Si parla, quindi, di una scelta radicale e definitiva, che il giudizio, portato da Gesù nella sua persona, ha definitivamente sancito. Del resto, Lc 12,8-9 lo aveva già in qualche modo preannunciato: “Inoltre vi dico: Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anche il Figlio dell'uomo lo riconoscerà davanti agli angeli di Dio; ma chi mi rinnegherà davanti agli uomini sarà rinnegato davanti agli angeli di Dio”.

L'oggetto dell'annuncio liberante di Gesù: il Regno di Dio (vv.18-21)

Con queste due similitudini, che ritroviamo sia in Mt 13,31-33 he in Mc 4,30-32, che riporta soltanto la prima, quella del granello di senape, Luca presenta, a conclusione della prima sezione del cap.13 (vv.1-21), l'oggetto dell'annuncio della predicazione liberante di Gesù: il Regno di Dio. Un Regno che non è ancora pienamente percepibile, sia perché ancora in nuce nella persona di Gesù e nella sua predicazione (v.19); sia perché è nascosto, cioè non ancora conosciuto (v.21). In entrambi i casi, comunque, tale Regno non è inerte, ma è molto attivo e fecondo. Le due parabole non sono casualmente accostate, né l'una costituisce una sorta di doppione dell'altra, ma scandiscono due tempi successivi l'uno all'altro, che alludono a due diversi tempi di diffusione del Regno di Dio: il primo riguarda l'impianto del Regno, che è descritto come un seme, da cui si origina; pressoché impercettibile, tanto è piccolo, ma è destinato a diventare talmente grande da poter ospitare ogni specie di uccelli, che qui raffigurano le genti. Il Regno di Dio, quindi, diviene una sorta di luogo indistintamente aperto e accogliente per tutti (At 10,34-35). Questa prima immagine raffigura in qualche modo l'attività missionaria di Gesù, che con la sua venuta, la sua predicazione e il suo operare ha posto le basi fondanti e feconde del Regno di Dio. La seconda parabola parla di lievito nascosto in tre staia, circa cinquanta chili. Si tratta, quindi, di una realtà già presente, ma ancora nascosta e capace comunque di far lievitare una consistente massa di impasto. Il lievito altro non era che un po' di pasta già fermentata che veniva inserita in un nuovo impasto da fermentare e lo faceva lievitare a sua volta. È questo il tempo della chiesa, nata da quel seme seminato da Gesù, fermentata dalla sua parola ed ora capace di far fermentare l'intera società umana. Luca nei suoi Atti celebrerà il rapido quanto inarrestabile diffondersi della Parola14. Significativo in tal senso è quel passivo teologico o divino “™zumèqh” (ezimótze, fu fermentata), in cui l'azione del fermentare rimanda a Dio stesso.

In entrambe le parabole viene rilevata la sproporzione enorme tra la modesta e quasi impercettibile origine del Regno di Dio e i suoi effetti dirompenti, rilevandone in tal modo la potente fecondità, che investe l'intera umanità.

Seconda sezione del cap.13

Ultimo appello di Gesù al giudaismo (vv.22-35)

Testo a lettura facilitata

Versetto di transizione (v.22)

22 - E passava per città e villaggi insegnando e facendo (il) cammino verso Gerusalemme

Introduzione al discorso di Gesù (v.23)

23 – Ora, un tale gli disse : <<Signore, (sono) pochi quelli che si salvano?>>. Egli disse verso di loro:

Esortazione ad una scelta radicale (v.24)

24 - <<Lottate per entrare attraverso la porta stretta, poiché molti, vi dico, cercheranno di entrare e non saranno capaci.

Approfittare della presenza di Gesù per evitare il giudizio di condanna (vv.25-29)

25 – A causa di ciò, qualora il padrone di casa si sarà alzato e avrà chiuso la porta e incomincerete a star fuori e a bussare la porta, dicendo: “Signore, aprici”; e rispondendo vi dirà: “Non so da dove voi siete”.
26 – Allora incomincerete a dire: “Abbiamo mangiato davanti a te e abbiamo bevuto e nelle nostre piazze hai insegnato”.
27 – E dirà, dicendovi: “Non so da dove [voi] siete; allontanatevi da me, (voi) tutti, operatori di ingiustizia.
28 – Là sarà il pianto e lo stridore dei denti, allorché vedrete Abramo e Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, ma voi gettati fuori.
29 – E giungeranno da oriente e occidente e da Settentrione e Mezzogiorno e saranno fatti sedere a mensa nel regno di Dio.

Sentenza finale: le parti che si invertono (v.30)

30 – Ed ecco sono ultimi quelli che saranno primi e sono primi quelli che saranno ultimi”>>.

Commento ai vv.22-35

Il v.22 all'interno del cap.13 ha una funzione fondamentale perché, da un lato, come già si è detto sopra (pag.2), divide il capitolo in due sezioni; dall'altro potremmo considerarlo di transizione, perché concludendo la prima sezione del cap.13 (v.22a), richiamando la missione di Gesù, introduce con il v.22b la seconda sezione. Questa seconda parte del v.22 ha, a sua volta, una duplice funzione: da un lato ricorda al lettore che Gesù è diretto verso Gerusalemme, dove si compiranno i misteri della salvezza; dall'altro inquadra l'intera seconda sezione del cap.13 sotto il segno della sofferenza e della morte di Gesù; un destino che coinvolge ogni suo discepolo, chiamato a prendere la croce e a seguirlo (9,23). Significativa in tal senso è l'inclusione che il v.22b forma con il v.33b, non solo per il ricorrere dello stesso nome “Gerusalemme”, ma anche per completamento di significato. Per cui si avrà che Gesù è incamminato verso Gerusalemme (v.22b) […] “poiché non è possibile che un profeta perisca fuori Gerusalemme” (v.33b). Un'inclusione che delimita un'unità narrativa, che da un lato lancia un ultimo appello ad Israele perché si converta e aderisca a Gesù finché le porte sono ancora aperte (vv.23-30); dall'altro, Gesù attesta che la sua missione rientra in un progetto divino (v.33a) e nulla potrà fermarla, finché non sarà giunta al suo compimento (vv.31-33).

Il v.23, di origine redazionale, è caratteristico di Luca che sovente introduce nuovi temi facendo intervenire singoli personaggi o gruppi di persone15. La questione posta dall'anonimo personaggio era molto dibattuta e riguardava la quantità di persone che si salvavano in Israele. C'era infatti chi sosteneva che tutti i figli dell'Alleanza partecipavano, in quanto tali, al mondo futuro, adducendo a sostegno della propria tesi Is 60,21. Chi, invece, sosteneva che soltanto pochi si salvavano16. Un eco di questo dibattito si trova in Mt 3,9; Lc 3,8; Gv 8,33.37a.39a; Rm 2,17-20.

La risposta che segue pone l'accento su due elementi: sulle difficoltà per il giudaismo di aderire alla proposta del Regno e, per chi vi ha aderito, quella di mantenersi fedele, lasciandosi alle spalle il culto mosaico e la Torah (v.24); e l'urgenza di aderire con una risoluta decisione a Gesù, finché egli è presente, poiché quando se ne sarà andato, giungerà impietoso il giudizio divino (v.25) e a nulla varrà il cercar di far valere di essere giudei e di aver condiviso la sua predicazione, se non c'è stata la più sincera e totale adesione a lui (vv.26-27). Ciò porterà al loro disconoscimento da parte del giudice escatologico, che li estrometterà dal Regno, dove invece si siederanno sia i Padri e i Profeti, che tale Regno avevano preannunciato17; sia i pagani che sinceramente hanno accolto il suo annuncio (vv.28-29), così che i giudei, che furono i prescelti da Dio fin dall'inizio del suo progetto di salvezza e destinati a diventare sua proprietà, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19, 4-6), saranno gli ultimi; mentre i pagani, così disprezzati e reietti dal giudaismo, ma che hanno saputo accogliere l'annuncio di Gesù, li precederanno nel Regno (v.30).

I vv.24-30 affrontano una questione molto importante: quella della posizione del giudaismo nei confronti di Gesù e, associata a questa, quella dei giudeocristiani giudaizzanti, cioè di quei cristiani provenienti dal giudaismo, ma che non l'avevano mai abbandonato, continuando a coniugare il nuovo insegnamento con quello mosaico, anzi, affermando che la salvezza portata da Gesù era possibile soltanto passando attraverso la circoncisione, cioè sottomettendosi alla Legge mosaica (At 15,1.5.10.19). Una posizione simile era inaccettabile, poiché vanificava il messaggio salvifico portato da Gesù e dalla sua stessa persona, riconducendo i nuovi credenti nell'ambito del giudaismo e sottomettendoli nuovamente alla Legge mosaica (At 15,2; Gal 5,2-4). La questione nei vangeli è affrontata in termini specifici soltanto da Luca sia, forse, per la sua vicinanza a Paolo, sia per il proprio interesse ecclesiologico e sia, infine, perché, in quanto missionario come Paolo e a lui molto vicino, ha potuto constatare di persona l'azione deleteria dei giudeocristiani giudaizzanti. In Matteo e Giovanni, benché non abbiano mai affrontata la questione in questi termini, si sente tuttavia una forte tensione e un'accentuata polemica tra il giudaismo e il nascente cristianesimo. La questione verrà invece affrontata in modo passionale da Paolo nelle sue Lettere. In Rm 9-11 egli svilupperà una lunga riflessione sul rifiuto del giudaismo nei confronti di Gesù e cercherà di darsi una risposta, molto elaborata, da cui lascia trasparire tutta la sua sofferenza (9,1-5), facendo rientrare tale rifiuto all'interno del progetto salvifico di Dio, ma prospettando, alla fine, la salvezza anche per il giudaismo (11,1-36). Mentre la questione dei giudeocristiani giudaizzanti, che sviavano gli etnocristiani convertiti, creando in questi confusione e turbamento, verrà affrontata in numerosi passi delle sue lettere, come in quella dei Galati, tutta dedicata al problema; o in 2Cor 11-12 in cui Paolo si rivolge a questi giudaizzanti definendoli in modo ironico “superapostoli” (2Cor 11,5; 12,11) o “falsi apostoli” e ancora “operai fraudolenti” (2Cor 11,13), mentre in Fil 3,2-8 sollecita la comunità a guardarsi sia dai pagani (i cani), sia dai giudeocristiani giudaizzanti (i cattivi operai) che dagli etnocristiani, che avendo ceduto ai giudaizzanti, si sono fatti circoncidere (Fil 3,2) e di considerare tutte queste cose come spazzatura, così come lui le ha considerate, dopo aver conosciuto Cristo.

Introdotta la questione della salvezza per Israele dal v.23, viene ora affrontata nello specifico dalla pericope circoscritta dai vv. 24-28a. I destinatari del messaggio sono qui i giudeocristiani giudaizzanti indicati dal v.26: sono persone che hanno mangiato e bevuto alla mensa del Signore, dopo aver accolto il suo messaggio diffuso dalla predicazione di Gesù e apostolica in Palestina. Si tratta di un messaggio che parla di lotta e di porta stretta attraverso la quale molti hanno cercato di entrare ma senza riuscirci, lasciando trasparire la difficoltà di lasciare la legge mosaica e le sue prescrizioni per entrare, attraverso la difficile adesione al messaggio di Gesù e alla sua persona, nel Regno di Dio. Molti giudei vi avevano aderito e ci avevano provato, ma non hanno saputo fare la scelta definitiva a tutto favore di Gesù, poiché cercavano di far convivere i due insegnamenti, quello di Mosè e quello di Gesù, non avendo colto appieno la novità unica ed esclusiva da lui portata. E che di questi personaggi si parli lo lascia intendere la battuta finale: “ma voi gettati fuori”, che lascia intendere come essi già vi appartenessero.

Quel “lottate” lascia trasparire come l'adesione a Gesù non fosse una cosa semplice perché portava il giudeocristiano a rompere con il contesto sociale e religioso, subendone pesanti ritorsioni e persecuzioni da parte delle autorità religiose, che avevano deliberato l'espulsione dalla sinagoga per quelli che aderivano a Gesù (Gv 7,13; 9,22b; 12,42; 19,38), decretandone di fatto la morte sociale e religiosa; ma nel contempo gli stessi rapporti parentali venivano compromessi, creandosi all'interno della cerchia familiare dei profondi dissidi insanabili (12,53; 14,26; Gv 7,5; 9,20-22a). Forse anche per questo, oltre per l'incapacità di lasciare definitivamente la religione dei Padri, profondamente radicata nell'animo del pio giudeo, si cercava di far convivere Gesù e Mosè, per attutire il contraccolpo dell'adesione a Gesù.

La conseguenza di questo compromesso, che violava la radicalità della scelta esistenziale a favore di Gesù (14,26), è l'espulsione dal Regno, che pesa su questi giudeocristiani come un giudizio di condanna. Si parla, infatti, di padrone di casa che “sta per alzarsi e chiudere la porta”, che richiama da vicino il racconto parabolico di Mt 25,10-12; si parla dell'emissione di un verdetto che qualifica tali giudeocristiani come “operatori di ingiustizia”, cioè infedeli alla scelta inizialmente operata; si parla di un luogo “dove c'è pianto e stridore di denti”, un'espressione che ritroviamo sei volte in Matteo e sempre all'interno di un contesto giudiziale di condanna18. Una condanna che viene aggravata dal constatare da parte di questi giudeocristiani come una parte di Israele, quella fedele ai Padri e ai Profeti (2,25.34.38), che tale regno avevano in qualche modo preannunciato, entrarvi, mentre loro ne vengono gettati fuori. E similmente quando vedranno venire i pagani da ogni luogo della terra, qui significato nei suoi estremi di “oriente e occidente e da Settentrione e Mezzogiorno”. Come dire da ovest e da est; da nord e da sud.

La pericope, vv.22-29, che definisce i termini del giudizio di condanna, già preannunciato nella prima sezione di questo capitolo (vv.1-21), si conclude con la sentenza del v.30: “Ed ecco ci sono ultimi che saranno primi e ci sono primi che saranno ultimi”. Una sentenza dai toni proverbiali che ritroviamo due volte in Mt 19,30; 20,16 e una volta in Mc 10,31. Questo suo ripetersi e in diversi contesti lascia intendere come questa fosse abbastanza diffusa e applicabile a seconda delle occasioni, sia a proposito che fuori luogo. Un'applicazione non molto indovinata quella di Mc 10,31 e del suo parallelo Mt 19,30. Più indovinata in Mt 20,16, applicata alla retribuzione dei lavoratori della vigna, parimenti ricompensati, primi ed ultimi, indipendentemente dalla loro prestazione (Mt 20,1-16); e certamente qui in Lc 13,30, dove la tematica è sostanzialmente identica: i pagani, come i pubblicani e le prostitute a loro assimilati (Mt 21,31-32), precederanno Israele nel nuovo mondo e ne prenderanno il posto (Mt 21,41; Mc 12,9; Lc 20,16) a motivo della loro disponibilità alla chiamata.

Tempi e contenuti della missione di Gesù sono stabiliti dal Padre (vv.31-33)

Testo a lettura facilitata

Introduzione (v.31)

31 – In quel momento si avvicinarono alcuni Farisei, dicendogli: <<Esci e parti da qui, poiché Erode vuole ucciderti>>.

La durata della missione di Gesù e i suoi contenuti (v.32)

32 – E disse loro: <<Andati via, dite a questa volpe: “Ecco caccio i demoni e compio guarigioni oggi e domani e al terzo (giorno) do compimento”.

I tempi della sua missione sono stabiliti dal Padre e non da Erode (v.33)

33 – Tuttavia, bisogna che io oggi domani e (nel giorno) seguente parta, poiché non è possibile che un profeta perisca fuori Gerusalemme.

Note generali e commento

La pericope, che si apre con una nota temporale (v.31a), tende a dare una sorta di continuità narrativa tra questo episodio e il precedente (vv.23-30). Proviene da materiale proprio di Luca, probabilmente, considerata la costruzione così elaborata e complessa, di origine redazionale. Il breve racconto, pertanto, benché popolato da personaggi storici, come i farisei, Erode e Gesù, non va compreso come una nota storica o biografica, ma come una costruzione di Luca, finalizzata a mettere in rilievo sia i contenuti (v.32) che il senso (v.33) della missione di Gesù , dipendente da un mandato divino, che traspare da quel “de‹19 (deî, bisogna, è necessario).

L'apparente atteggiamento favorevole di questi farisei, che si preoccupano della buona salute di Gesù, invitandolo ad allontanarsi quanto prima per sfuggire alle intenzioni omicide di Erode, va compreso alla luce del vv.32, dove Luca associa i farisei, qui compresi come emissari di Erode o in combutta con lui, a Erode stesso, definito volpe, un animale considerato subdolo e immondo20, emettendo in tal modo un giudizio negativo su di loro (11,44). I farisei in tutti i vangeli sono presentati come i nemici storici e tradizionali di Gesù, quindi, non è credibile questa loro sollecitudine e ansia per Gesù.

Quanto a Erode, questi è Antipa, secondo figlio di Erode il Grande, avuto dalla sua quarta moglie Maltace, madre anche di Archelao. Antipa fu tetrarca della Galilea e della Perea, che governò dal 4 a.C. fino al 39 d.C., allorché, accusato di congiura da suo nipote Agrippa I, venne destituito da Caligola ed esiliato21. Antipa è noto ai vangeli per aver imprigionato il Battista e, contro la sua volontà (Mc 6,20), averlo decapitato (Mc 6,14-29). Non risulta tuttavia che avesse intenti omicidi nei confronti di Gesù, che, invece, alla pari di Giovanni, ammirava e desiderava conoscere per averne sentito parlare con ammirazione (9,7-9; 23,8). Del resto gli Erode perseguitavano ed eliminavano soltanto i loro rivali o potenziali attentatori (Mt 2,2-3.13.16), ma non si occupavano di predicatori e taumaturghi, purché non fossero pericolosi per il loro trono. Il fatto che qui Erode venga associato alla morte di Gesù diventa per Luca un escamotage per ricordare, una volta di più, al suo lettore l'evento della passione e morte verso il quale Gesù è incamminato (v.22b). Una sorta di preambolo a 23,6-12 dove l'accoppiata Gesù-Erode tornerà un'ultima volta proprio nel contesto della passione e morte di Gesù.

La risposta di Gesù si articolerà in due momenti, finalizzati, il primo, v.32, a definire i contenuti della sua missione, che verrà portata a compimento nel terzo giorno; quanto al secondo, v.33, a rilevare il senso della sua missione, colta quale esecuzione e compimento della volontà del Padre e che troverà la sua meta ultima e definitiva in Gerusalemme, il luogo per eccellenza, dove si compiono i misteri della salvezza.

I vv.32.33 sono associati tra loro da un'espressione sostanzialmente identica: “oggi e domani e al terzo (giorno)” e “oggi domani e (nel giorno) seguente”, che scandiscono il tempo della missione di Gesù come un tempo che si evolve verso una meta. Al v.32 l'espressione si conclude con “do compimento” in riferimento ai contenuti della missione stessa, che sono fondativi del Regno di Dio e che Luca, qui come altrove similmente (9,2), sintetizza in “cacciare i demoni” e “compiere guarigioni”. Due battute che descrivono il senso della sua venuta: con gli esorcismi Gesù scalza il potere di satana per ripristinare quello di Dio, così come era ai primordi della creazione; mentre con le guarigione annuncia che la sua presenza, nel sottrarre l'uomo al potere del diavolo, lo rigenera ad una nuova vita, quella divina, così com'era ai primordi dell'umanità, creata a immagine e somiglianza di Dio. Una missione che tuttavia trova il suo compimento soltanto a Gerusalemme e soltanto nel terzo giorno, quale vertice della sua missione. Un'espressione quest'ultima che allude, nel linguaggio teologico delle prime comunità credenti, alla risurrezione. Questo “dare compimento” al terzo giorno se da un lato richiama molto da vicino, il verbo è lo stesso (teleioàmai, teleiûmai), quel “Tetšlestai” (Tetélestai, è compiuto) pronunciato dal Gesù giovanneo sulla croce (19,30), soltanto dopo il quale egli restituisce lo Spirito al Padre, perché, infondendolo sui suoi, potesse continuare la sua missione e in essa il suo progetto salvifico lungo il corso della storia; dall'altro, in quel dare compimento al terzo giorno, Luca indica ai suoi lettori nella passione-morte-risurrezione il vertice della missione salvifica di Gesù.

Il v.33 riprende sostanzialmente la medesima espressione, che scandisce parimenti il tempo della missione storica di Gesù, ma l'esito finale è diverso, poiché, ora, il “do compimento” del v.32, viene sostituito da tre nuovi elementi: “bisogna che io oggi domani e (nel giorno) seguente parta”. Si parla di una partenza che deve avvenire nel giorno seguente a quello di oggi e a quello di domani, cioè sempre nel terzo giorno. Perché più semplicemente Luca non dice anche qui “nel terzo giorno”, ma parla di “giorno seguente”? Perché il “giorno seguente” è quello che segue il suo oggi e il suo domani, cioè il suo tempo storico, aprendosi in tal modo al tempo seguente, quello della chiesa, colta qui non solo come il prolungamento storico di Gesù, ma come istituzione originata dalla sua risurrezione, che è nel contempo infusione dello Spirito Santo, finalizzata a proseguire la missione stessa di Gesù (Gv 20,22-23). Da qui la necessità (“non è possibile che”) che egli, come gli antichi profeti, quali voce di Dio in mezzo al suo popolo, perisca fuori Gerusalemme. Viene in tal modo a crearsi una sorta di concatenazione tra il profetismo veterotestamentario e Gesù e da lui con la chiesa, che deve ora operare nel terzo tempo, quello seguente a quello del Gesù storico. E il tutto viene posto sotto il segno del progetto salvifico del Padre, significato da quel “de‹” (deî, bisogna). Come dire, che questo è il progetto del Padre che si è realizzato in tre tempi: quello degli antichi Padri e dei Profeti; quello di Gesù e, ora, quello della Chiesa.

Giudizio, condanna e prospettiva di salvezza (vv.34-35)

Testo a lettura facilitata

Giudizio: i capi d'accusa (v.34)

34 – Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono stati inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli nel modo con cui una gallina (raccoglie) la sua nidiata sotto le ali, e non avete voluto.

La sentenza di condanna (v.35a)

35a – Ecco vi è abbandonata la vostra casa.

Possibilità di riscatto (v.35b)

35b - Ma vi dico, non mi vedrete finché [giungerà (il tempo) allorché] direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”

Note generali

Con i vv.34-35, posti a chiusura del cap.13, una dura invettiva contro il Giudaismo per la sua pervicace chiusura nei confronti di Gesù, Luca ritorna alla fonte Q insieme a Mt 23,37-39. I due testi sono sostanzialmente identici anche se i contesti sono diversi. Mt 23, attraverso una sorta di elencazione di storture nelle usanze e nel culto giudaici, ne trae una pesante critica polemizzante. La conclusione, 23,37-39, pertanto, va a colpire il modo di vivere del giudaismo il suo rapporto con Dio e, di conseguenza, i rapporti sociali, considerato il profondo legame tra la vita religiosa e quella civile. Per Lc 13,34-35, invece, il contesto in cui si inserisce la sua chiusura è quello di una dura invettiva dai toni escatologici, in cui è incombente il giudizio divino per non aver saputo riconoscere in Gesù l'inviato definitivo di Dio e il suo tempo come uno spazio unico della sua misericordia, così che egli “Venne nella (sua) proprietà, e quelli che gli appartenevano non lo accolsero” (Gv 1,11).

Questa pericope, pertanto, va letta e compresa nell'ambito dell'intero cap.13, di cui è la conclusione sintetizzante. Il contesto è quello proprio del giudizio escatologico (vv. 3.5.7.27-29), che trova la sua origine nella passione e morte di Gesù, quali elementi di rifiuto definitivo di Gesù da parte del Giudaismo, che nella sua radicale chiusura ha impedito l'avvicinamento del popolo a Dio alla persona di Gesù (11,52); ma nel contempo apre uno spiraglio nel tempo seguente a quello della morte di Gesù (v.35b). Non tutto, quindi, è perduto. Poiché il tempo della misericordia accogliente di Dio non finisce con Gesù, ma continua anche dopo in quel suo prolungamento storico che è la chiesa.

Ci troviamo di fronte ad una breve quanto importante pericope, che funge da preambolo a temi che Luca svilupperà al termine del lungo viaggio verso Gerusalemme e a ridosso della sua passione e morte. Così che il lamento su Gerusalemme e la minaccia di essere abbandonata da Dio per il rifiuto ricevuto da Israele (vv.34-35a) verrà ripreso e sviluppato in tre successivi passaggi: 19,41-44; 21,20-24 e, quasi come un'eco, in 23,28-31, dove si preciserà da un lato il motivo della sua perdizione: per non aver riconosciuto in Gesù il tempo della sua salvezza; il tempo in cui il Padre gli tendeva la mano; e dall'altro, prenderà forma concreta l'abbandono di Israele da parte di Dio, richiamandosi alla guerra giudaica, che terminerà nel 70 d.C. con l'assedio di Gerusalemme, la sua distruzione e con lei con quella del Tempio.

Pur nella sua brevità, questa pericope è densa di riferimenti biblici, storici, cristologici ed ecclesiologici, nascosti tra le pieghe di espressioni e termini allusivi, che chiedono di essere sciolti per una sua migliore comprensione.

La strutturasi snoda in tre parti, che riproducono lo schema della sezione del “Testo a lettura facilitata”:

  1. Il giudizio: i capi d'accusa (v.34);

  2. La sentenza di condanna (v.35a);

  3. L a possibilità di riscatto (v.35b)


Commento ai vv. 34-35

Il giudizio: i capi d'accusa (v.34)

Se il v.34, da un lato, denuncia in quel “e non avete voluto” il fallimento della missione di Gesù, che riecheggia in Gv 12,37, in cui l'autore constata, a chiusura della missione pubblica di Gesù, come “Sebbene avesse compiuto tanti segni davanti a loro, non credevano in lui”, dall'altro, formula due capi d'accusa: il primo riguarda il comportamento omicida che i Giudei tennero nei confronti degli inviati di Dio, richiamando qui 11,47-51. Un comportamento che viene testimoniato dal Libro dei Giubilei22: “Ed io, per far testimoniare contro di loro, invierò testimoni presso di loro ed essi non ascolteranno, uccideranno il teste e perseguiteranno anche quelli che cercano la legge e renderanno tutto vano e cominceranno a fare il male innanzi ai miei occhi” (Giub. 1,12). Il secondo capo d'accusa riguarda il tentativo di Dio di raccogliere in Gesù, come in una sorta di grande movimento escatologico, il suo popolo per ricondurlo a sé, rendendolo così partecipe della sua vita; un tentativo che trova il suo vertice nell'invio di suo Figlio, quale suo dono di amore (Gv 3,16), ma che si è sempre scontrato in un caparbio rifiuto, che Luca denuncia in quel pesante “e tu non hai voluto”, che condanna di fatto Israele. Un amore, quindi, rifiutato la cui amarezza si sente tutta in quel ripetersi meditativo, carico di tristezza, del nome di Gerusalemme, che ricorre 751 volte nell'A.T. quasi ad indicarne la centralità nella storia della salvezza. Un amore che viene metaforizzato nell'immagine della chiocciola che raccoglie i suoi pulcini sotto le sue ali23, quale segno di amorevole protezione verso la sua nidiata. Un'immagine questa che si ritrova in qualche modo sia in Is 31,5. e che in Dt 32,11.

La sentenza di condanna (v.35a)

Dopo l'imputazione di omicidio nei confronti dei profeti e degli inviati di Dio, espressione quest'ultima con cui Luca probabilmente si riferisce agli apostoli, intesi come quei discepoli, inviati in missione dalle comunità credenti ad annunciare la Parola, l'autore prospetta ora la punizione per questo persistente rifiuto omicida nei confronti di Dio nei suoi inviati: “Ecco vi è abbandonata la vostra casa”. Una sentenza dai toni profetici, che richiamano da vicino Ger 12,7: “Io ho abbandonato la mia casa, ho ripudiato la mia eredità; ho consegnato ciò che ho di più caro nelle mani dei suoi nemici”; e similmente Ger 22,5: “Ma se non ascolterete queste parole, io lo giuro per me stesso - parola del Signore - questa casa diventerà una rovina”. Cosa si intende per “vostra casa”. La casa di cui si parla è verosimilmente il popolo d'Israele, definito numerose volte come “casa d'Israele”24, benché non sia da escludersi il Tempio, più volte definito nell'A.T. con l'espressione “mia casa” da Dio25. Tuttavia, qui non si parla più di “mia casa”, ma di “vostra casa”. Vi è in quel “vostra” una sorta di presa di distanza e un disconoscimento di Israele e del suo culto da parte di Dio. E che cosa significhi l'essere abbandonata verrà precisato dall'autore in 19,41-44 e 21,20-24, dove l'allusione è chiaramente alla guerra (66-73), che fu distruttiva per il giudaismo e viene letta dagli evangelisti come la punizione divina nei suoi confronti, per non aver riconosciuto nella presenza di Gesù il tempo opportuno che Dio stava offrendo al suo popolo per il suo ritorno a lui (19,42.44c).

Possibilità di riscatto (v.35b)

Dopo le pesanti accuse mosse nei confronti del giudaismo (v.34) e la sentenza di condanna (v.35a), Luca, similmente a Paolo in Rm 11,25-26, apre uno spiraglio ed offre una nuova opportunità di riscatto ad Israele, che prospetterà anche in 21,24b dove l'umiliazione di Gerusalemme, calpestata dalle genti, durerà “finché non si compiano i tempi (dei) popoli”, cioè il tempo della conversione del mondo pagano, che coincide con il tempo della chiesa. Un'opportunità, quindi, che è legata al tempo della chiesa, che l'autore coglie come il prolungamento della missione salvifica del Risorto: “Ma vi dico, non mi vedrete finché [giungerà (il tempo) allorché] direte: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”. Ci sarà dunque un tempo anche per Israele in cui egli potrà “vedere”. Un verbo questo che nei vangeli è quasi sempre associato al credere e ne è sinonimo. Un tempo in cui Israele “dirà”, cioè confesserà la messianicità del Risorto: “Benedetto colui che viene nel nome del Signore”, in cui l'espressione “colui che viene” è reso in greco con “Ð ™rcÒmenoj” (o ercómenos, il veniente), con il quale si indicava il messia. La partita con Israele, pertanto, non è ancora chiusa e si gioca tutta in un tempo supplementare, quello della chiesa, durante il quale Israele è ancora una volta, l'ultima, chiamato a riconoscere in Gesù il messia venuto da Dio. Soltanto allora egli “vedrà”.

NOTE

1È molto probabile che Matteo, più che un pubblicano, esattore delle tasse, fosse uno scriba, sia per la conoscenza scritturistica e le tecniche rabbiniche della dissertazione, che dimostra di possedere nel suo racconto, sia per una sorta di cammeo che egli stesso ha inserito nel suo vangelo e che sembra ritrarlo. Il termine scriba, infatti, ricorre 22 volte nel racconto matteano ed è posto sempre al plurale, tranne due volte: in 8,19 e 13,52, dove il termine posto al singolare. In 8,19 compare uno scriba che decide di seguire Gesù: “Allora uno scriba si avvicinò e gli disse: <<Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai>>”; mentre in 13,52 questo scriba compare già come un affermato discepolo, responsabile di comunità: “Ed egli disse loro: <<Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche>>”. In tal modo Matteo racconterebbe l'inizio della sua vocazione e il suo attuale ruolo di responsabile di comunità credenti ed evangelista, sotto l'immagine di quel padrone di casa che sa coniugare “cose nuove e cose antiche”, cioè sa reinterpretare l'A.T. alla luce del nuovo messaggio di Gesù.

2Quanto al materiale proprio di Luca cfr. Lc 13,1-14.16-17.22-23.31-33.35b;

3Quanto al materiale da fonte Q in comune con Matteo cfr. Lc 13,15 con Mt 12,11; Lc 13,18-21 con Mt 13,31-33 e con Mc 4,30-32; Lc 13,24 con Mt 7,13-14; Lc 13,25 con Mt 25,10-12; Lc 13,26-27 con Mt 7,22-23; Lc 13,28-29 con Mt 8,11-12; Lc 13,30 con Mt 19,30; 20,16 e con Mc 10,31; Lc 13,34-35 con Mt 23,37-39

4L'episodio è riportato da Flavio Giuseppe in Antichità Giudaiche, XVIII; 85-89

5Ger 29,17

6Cfr. Is 5,1-7; Ger 2,21; 6,9; 12,10; Na 2,2;

7Cfr. Mt 12,10; Mc 1,21-26; 3,2; Lc 6,6; 13,10-14; 14,1-6; Gv 5,15-18; 9,6-7.13-14;

8Cfr. Mt 12,8; Mc 2,28; Lc 6,5; Gv 5,16-17.

9Cfr.§§ 456-457 del Catechismo della Chiesa Cattolica, ed. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1992.

10Considerato l'elevato numero dei comandamenti, i rabbini li avevano suddivisi in sostanzialmente in tre categorie: i “mishpatim” o sentenze di natura etica, che costituiscono la base della struttura morale dell'ebraismo; gli “huqim” o decreti erano norme in apparenza prive di una qualche giustificazione, ma che servivano a rendere a Dio un'obbedienza ceca, accettando così comandi che sembrano privi di logica; gli “edot” sono norme che servono a ricordare le verità religiose essenziali o gli eventi fondamentali della storia sacra di Israele, come ad esempio le festività, i tefillìn o filatteri, la mezuzah e simili cose. In base poi alla loro formulazione i precetti erano suddivisi in positivi o negativi: “farai” o “non farai”. Tramandati dalla Tradizioni questi precetti ammontavano a 613, di cui 248 positivi e 365 negativi; i primi corrispondono alle 248 membra del corpo, mentre i secondi 365 ai giorni dell'anno. Sulla questione cfr. cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005

11Sulla questione della formazione della Torah, dei comandamenti e della loro osservanza cfr. A.R. Carmona, La religione ebraica, storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005 – pagg. 356-378

12Circa la simbologia dei numeri 3 e 6 cfr. le voci “Tre” e “Sei” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990

13Paolo, in Gal 3,24-25, parla della Legge come di un pedagogo che è stato imposto ad Israele per condurlo all'età adulta di Cristo. All'epoca di Paolo, il pedagogo nel mondo greco-romano non era un esperto educatore, ma un semplice schiavo, un guardiano a cui venivano affidati da custodire e su cui vigilare, tenendoli assoggettati ad una dura disciplina. Sovente veniva ricordato come una figura rude, con il bastone in mano e pronto a punire ogni disobbedienza. - In merito cfr. le voci “Abramo” e “Legge” in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, a cura di G.F. Hawthorne, R.P. Martin e D.G. Reid; edizione italiana di Romano Penna, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1999 – pagg. 7 e 937.

14Cfr. At 2,41; 4,31; 6,7; 8,4.25; 11,1; 12,24; 13,48.49; 15,35; 19,20.

15Cfr. 10,25; 11,38.45; 12,13.41; 13,1.23.31; 17,20

16Cfr. R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi, 2003

17Cfr. Lc 1,70; 10,24; 18,31; 24,27.44; Gv 1,45; 8,56

18Cfr. Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30

19Il verbo impersonale de‹” compare nei quattro vangeli complessivamente 30 volte (4 in Mt; 5 in Mc; 12 in Lc e 9 in Gv) sottolinea sempre la necessità di ciò che avviene, lasciando intendere che sotto all'accadimento ci sta un preciso piano salvifico che Gesù sta eseguendo pedissequamente e la cui origine è rimandata al Padre.

20Cfr. la voce “Volpe” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990. - Epitteto, nelle sue Dissertazioni, illustra bene il paragone di Erode con la volpe: “I più di noi poi sono volpi, ossia ciò che vi è di più mostruoso tra gli animali. Che cos'è infatti un uomo insolente e vizioso se non una volpe o qualche altra cosa più mostruosa e degradante?” (Diss. I, 3,7-8).

21Cfr. la voce “Erode” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997. - Nuova edizione rivista ed integrata 2005

22Il Libro dei Giubilei, conosciuto anche come la Piccola Genesi, perché parafrasa gran parte della Genesi e il Libro dell'Esodo fino al cap.12, è un testo ritenuto canonico dalla sola Chiesa Copta, scritto verso la fine del II sec. a.C.

23Il termine ali nella letteratura sapienziale, assume il significato di protezione divina. In tal senso cfr. Sal 16,8; 35,8; 56,2; 60,5; 62,8; 90,4;

24Cfr. Es 16,31; 40,38; Lv 10,6; 22,18; Nm 20,29; Gs 21,45; Rt 4,11; 1Sam 7,2.3

25Cfr. Is 56,7; Ger 11,15; Ez 23,39; Os 9,15; Ag 1,8.9; Zc 1,16; Ml 3,10.