IL VANGELO SECONDO LUCA
Catechesi
n. 2: No all'ipocrisia e si alla sincerità di vita, che si
fa testimonianza (vv.1-12);
ciò
che maggiormente conta nella vita (vv.13-34); vigilanza responsabile
(vv.35-48);
tempo
delle scelte radicali e del ravvedimento (vv.49-59)
(12,1-59)
Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
Note generali
La terza sezione del cap.11 (vv.33-52) era tematicamente dedicata alla necessità di accostarsi alla rivelazione con sincerità di cuore e con onestà intellettuale (vv.33-36) e puntava a stigmatizzare il giudaismo sia nel suo modo meramente legalistico di vivere l'Alleanza, significata nella Torah (vv.37-44), sia nel suo modo di interpretarla, appesantendola di precetti così da renderla difficilmente osservabile e al punto tale da oscurarla, sostituendosi ad essa con proprie dottrine, che di fatto la violavano (vv.45-52). Una questione questa particolarmente importante, poiché aveva a che fare con la qualità del rapporto del credente con il suo Dio, pregiudicando in tal modo la sua stessa salvezza. L'importanza è tale che l'autore apre il cap.12 riprendendo il tema di 11,33-52, definendo tale comportamento, per la prima volta qui, come “ipocrisia” (ØpÒkrisij, ipókrisis), cioè recitazione, simulazione, finzione, che descrive bene la natura stessa del rapporto che il giudaismo intratteneva con Dio. Un termine questo che ritroviamo anche al v.56 (ipocriti), formando in tal modo un'ampia inclusione che abbraccia l'intero cap.12, mettendone l'intero insegnamento sotto il segno della messa in guardia dall'ipocrisia, che di fatto inficia il rapporto con Dio.
La catechesi del cap.12 è rivolta sostanzialmente a due soggetti che vengono presentati fin dall'inizio (v.1): le miriadi di folle, in cui Luca intravvede la grande espansione della Chiesa post-pasquale1; e i discepoli, intesi qui come i responsabili delle comunità credenti (vv.35-48). Due soggetti che dividono l'intero cap.12 in due parti: la prima rivolta ai discepoli (vv.1-53), introdotta dall'espressione: “cominciò a dire dapprima verso i suoi discepoli” (v.1b); la seconda alle folle (vv.54-59), introdotta dall'espressione: “Ora, diceva anche alle folle” (v.54). Due soggetti che, tuttavia, animeranno l'intero cap.12, poiché essi serviranno all'autore per introdurre nuovi temi di catechesi. Per cui al v.13 compare “uno della folla”, il cui intervento introduce il tema del rapporto dei credenti con i beni terreni (vv.13-34); mentre al v.41, parallelamente al v.13, compare Pietro, il cui intervento introduce lo sviluppo tematico (vv.41-48) relativo ai vv.35-40, riguardanti la vigilanza. Due attori che si intrecciano tra loro rendendo narrativamente dinamico, diversamente verrebbe notevolmente appesantito, l'intero cap.12, che costituisce un ampio contenitore di sentenze, detti e brevi parabole provenienti da fonte Q e da materiale proprio di Luca (vv.15-21; 33-38; 49-50).
I molteplici contenuti di questo cap.12 costituiscono degli insegnamenti, tratti dal patrimonio culturale, morale e spirituale della chiesa dei primi tempi e che affondano le loro radici nell'insegnamento e nel pensiero di Gesù. Si tratta di materiale catechetico ordinato per tematiche, come, del resto, avviene per tutti i capitoli incorniciati all'interno della finzione narrativa del “viaggio verso Gerusalemme” (9,51-19,28), e per la cui natura sapienziale e scarsamente narrativa, è difficilmente inquadrabile. Trattandosi di fatto di catechesi, ho preferito denominare tali capitoli con il titolo di “Catechesi n. ...”, fatto seguire dai vari temi catechetici propri del capitolo in esame.
Il
cap.12 viene titolato come “Catechesi n.2” e raggruppa quattro
tematiche già indicate nel titolo di testata:
No all'ipocrisia e si alla sincerità di vita, che si fa testimonianza (vv.1-12);
ciò che maggiormente conta nella vita (vv.13-34);
vigilanza responsabile (vv.35-48);
il tempo delle scelte radicali e del ravvedimento (vv.49-59).
No all'ipocrisia e si alla sincerità di vita, che si fa testimonianza (vv.1-12)
Testo a lettura facilitata
Introduzione al tema: l'ipocrisia (v.1)
1 – In quei (giorni) essendosi radunate miriadi di folla, così da calpestarsi gli uni gli altri, cominciò a dire dapprima verso i suoi discepoli: <<Badate a (voi) stessi dal lievito dei Farisei, che è l'ipocrisia.
Sollecito a superare l'ipocrisia perché niente rimarrà nascosto (vv.2-3)
2
– Ora niente è coperto che non sarà manifestato e nascosto che
non sarà conosciuto.
3
– Al pari di tutte quante le cose delle quali diceste nell'ombra,
saranno udite nella luce; e ciò che avete detto all'orecchio nelle
stanze, sarà predicato sui tetti.
Non si deve temere di dare apertamente la propria testimonianza (vv.4-7)
4
– Ma dico a voi, miei amici, affinché non temiate quelli che
uccidono il corpo e dopo queste cose non hanno da fare qualcosa di
più.
5
– Ora vi indicherò chi dovete temere: temete colui che ha il
potere, dopo aver ucciso, di gettare nella Geenna. Si, vi dico,
temete costui.
6
– Forse che non si vendono cinque passeri per due assi? E uno di
essi non è dimenticato davanti a Dio.
7
– Ma anche i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non
temete: siete superiori a molti passeri.
Le conseguenze di una sincera e aperta testimonianza (vv.8-12)
8
– Ora vi dico: ognuno che si riconoscerà in me davanti agli
uomini, anche il figlio dell'uomo si riconoscerà in lui davanti agli
angeli di Dio.
9
– Ma chi mi ha ricusato davanti agli uomini, sarà respinto davanti
agli angeli di Dio.
10
– E ognuno che dice una parola contro il Figlio dell'uomo, gli sarà
rimesso; ma a chi ha bestemmiato contro lo Spirito Santo, non (gli)
sarà rimesso.
11
– Qualora vi portino nelle sinagoghe o dai i magistrati o dalle
autorità, non angustiatevi per come o per che cosa vi difenderete o
che cosa direte;
12
– poiché lo Spirito Santo vi istruirà in quell'ora ciò che
bisogna dire>>.
Note generali
Se la terza sezione del cap.11 si scagliava contro il sistema religioso giudaico, gravemente compromesso da un diffuso quanto profondo legalismo, che sterilizzava il rapporto dei credenti con il loro Dio al punto tale da rendere la propria vita impenetrabile a Dio stesso2 (Is 6,9-10), qui l'autore riprende il tema rivolgendosi in senso generale ai seguaci di Gesù affinché non cadano nello stesso errore del giudaismo. L'oscuro male del giudaismo viene qui definito da Luca, per la prima volta, con il termine “ipocrisia”, cioè una sorta di recitazione, di sceneggiatura, che simula un profondo rispetto per Dio e un culto che si espleta in ricchi e studiati rituali, ma non coinvolge minimamente il cuore del popolo, così che lamenta Is 29,13: “[...]questo popolo si avvicina a me solo a parole e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani”. Una profonda idiosincrasia, quindi, separa Dio dal suo popolo. Ma il problema che qui sta più a cuore all'autore non è tanto la finzione nel culto o nella vita religiosa in genere, quanto la testimonianza, che deve essere sincera, aperta e diretta, senza sotterfugi o manipolazioni.
Luca svilupperà il tema della testimonianza, libera da ogni finzione, attraverso quattro passaggi, che, da un lato, puntano a rassicurare il nuovo credente; dall'altro, lo mettono in guardia da ogni macchinazione che tenda a mascherarsi davanti agli uomini. Lo schema, già preannunciato nella sezione del “testo a lettura facilitata”, si sviluppa come segue:
Introduzione al tema dell'ipocrisia, definita come il lievito corruttore dei Farisei (v.1);
un'ipocrisia che tende a mostrare la superficie, l'esteriorità del proprio comportamento, ma ne nasconde la realtà più vera e profonda, che comunque sarà svelata nell'imminente parusia del Signore o, forse, ben oltre a questa, nel giudizio finale (vv.2-3);
a questo punto l'autore crea uno stacco, che funge da preambolo alla pericope seguente (vv.8-12) e cerca di rassicurare i credenti, incitandoli, da un lato, a non temere le minacce degli uomini, quanto piuttosto il giudizio divino che incombe su di loro; dall'altro, assicura loro una particolare attenzione e cura da parte del Padre, facendo loro capire che Dio non li abbandonerà mai al loro destino (vv.4-7);
dopo aver incoraggiato i nuovi credenti, spronandoli ad una testimonianza senza esitazioni e senza timori (vv.4-7), Luca entra nel vivo della testimonianza che il credente è chiamato a dare con fermezza, poiché egli otterrà dal Signore lo stesso trattamento che gli ha riservato davanti agli uomini; e, peggio ancora, il rinnegamento della fede non avrà perdono.
Commento ai vv.1-12
Introduzione al tema: l'ipocrisia (v.1)
Il primo insegnamento di Gesù è qui incorniciato all'interno di due distinti destinatari: da un lato un'enorme moltitudine di persone; dall'altro i discepoli di Gesù, definiti come “suoi discepoli” e, quindi, suoi stretti collaboratori (6,12-13; 9,1-2) verso i quali Gesù si rivolge per primi; mentre le grandi moltitudini sono lasciate sullo sfondo. Si ripete qui in qualche modo la scena delle beatitudini, dove Gesù attorniato dai suoi si rivolge alla moltitudine dei discepoli e della gente (6,17). Qui come là la prospettiva lucana è ancora una volta ecclesiologica e si muove in modo dinamico: da Gesù verso i discepoli e da questi verso le moltitudini, che sono definite come “miriadi” e tali “da calpestarsi” per indicarne sia la quantità che la consistenza. Luca ha sempre questa grandiosa visione missionaria dell'affermarsi e dell'espandersi della chiesa, che ritroviamo anche nel racconto degli Atti3. Il processo di questo espandersi è storico: “Dapprima”, infatti, Gesù lascia il suo messaggio ai “suoi” e soltanto successivamente alle folle (v.54). Il movimento quindi è espansivo, dal meno al più, richiamando il rapido diffondersi della chiesa. Significativo è il verbo posto al passivo, riferito alle folle: “™pisunacqeisîn” (episinactzeisôn), che ritroviamo in tutta la Bibbia otto volte e soltanto nei Sinottici4. Esso significa essere raccolto, riunito, radunato assieme e, in quanto verbo al passivo teologico o divino, ha per soggetto primario Dio stesso, che raduna attorno alla parola di Gesù, lasciata in eredità ai suoi e alle “miriadi di folle”. Un verbo che mette in rilievo l'azione stessa di Gesù, che vuole creare attorno a sé, attorno ai suoi e alla comunità credente un grande movimento escatologico per condurre l'intera umanità verso il Padre e che ritroviamo in questo senso sia in Mt 23,37 che nello stesso Lc 13,34. Un verbo che possiede in se stesso anche un senso di giudizio finale, là dove Dio manderà i suoi angeli a raccogliere i suoi eletti dai quattro angoli della terra e che con tale senso viene usato in Mt 24,31 e Mc 13,27; similmente Lc 17,37 usa tale verbo in un diverso contesto di giudizio escatologico. La comparsa quindi di questo verbo qui lascia intendere la visione lucana della chiesa, quale comunità credente ed escatologica in cui si sta compiendo il giudizio finale. E in questa prospettiva si muoverà l'intero cap.12.
Il discorso di Gesù è introdotto e qualificato dall'espressione “½rxato lšgein” (érxato léghein, cominciò a dire), significando come all'inizio di questo grande raduno dinamico ed espansivo, questa grande costituzione ecclesiale ci stia sempre il dire di Gesù, la Parola. Da questa parte tutto, così come partì la prima creazione (Gen 1,1-31) e come Giovanni ha dato inizio alla sua grandiosa contemplazione del Verbo Incarnato (Gv 1,1-2.14). Un verbo questo che in Luca compare otto volte e che per sei volte si accompagna al verbo “dire”, ponendo al principio di tutto, come Giovanni, la Parola da cui tutto dipende e tutto discende. La Parola come forza missionaria (At 4,31; 6,2; 8,4; 13,49) e generatrice di nuovi credenti (At 2,41; 6,7; 8,14.25; 11,1; 12,24) e di cui le comunità si alimentano e sulla quale sussistono (At 2,42).
L'espressione temporale “In quei giorni”, con cui inizia il cap.12, è di chiara marca redazionale e tende a dare una tenue continuità narrativa tra il capitolo precedente e questo capitolo, che invece, meglio si lega tematicamente alla terza ed ultima sezione del precedente capitolo (11,33-52) con il tema dell'ipocrisia: “Badate a (voi) stessi dal lievito dei Farisei, che è l'ipocrisia”. L'espressione con cui il Gesù lucano sollecita i suoi, si ritrova sostanzialmente identica sia in Mt 16,6 che in Mc 8,15, ma diverso è il significato che ogni autore attribuisce a questa messa in guardia; una diversità che viene definita dal contesto in cui tale espressione viene a trovarsi. Per Mt 16,12b il lievito dei Farisei e dei Sadducei è la loro stessa dottrina, che va a formare la Torah orale, elaborata sulla Torah scritta, e che Gesù, riportando le parole di Is 29,13 l'aveva duramente stigmatizzata: “questo popolo mi onora con le labbra, ma tiene il suo cuore lontano da me; inutilmente mi onora, insegnando dottrine che sono comandamenti di uomini” (Mt 15,8-9). Per Mc 8,15 il lievito da cui ci si deve guardare non è soltanto quello dei Farisei, ma anche quello di Erode, indicando in tale lievito l'incredulità. Ipocrisia e incredulità, dunque, sono per Marco sinonimi. In Mc 8,11, infatti, i farisei chiedono a Gesù un segno dal cielo per provare le sue pretese messianiche; mentre Erode, similmente ai Farisei, vede in Gesù soltanto il Battista redivivo a motivo dei miracoli che compiva; mentre l'Erode lucano comprende Gesù come una sorta di saltimbanco o di giullare di corte: “Ora Erode, visto Gesù, gioì grandemente, infatti era da molto tempo che voleva vederlo per aver udito su di lui e sperava di vedere un qualche segno compiuto da lui” (Lc 23,8).
Quanto a Luca, la messa in guardia, qui al v.1b, viene indicata dallo stesso autore come l'ipocrisia, definita lievito dei farisei. Il lievito nella cultura e nell'immaginario ebraici era considerato come fonte di impurità e di corruzione (1Cor 5,6-8; Gal 5,9) ed era per i rabbini il simbolo delle cattive inclinazioni dell'uomo. L'ipocrisia nel rapportarsi a Dio, limitandosi a compiere preghiere e rituali o ad eseguire pedissequamente disposizioni normative, corrompe tale rapporto, facendolo apparire santo, ma in realtà si tratta di una menzogna di vita. Il sesto “Guai” (11,44) lascia trasparire quanto questa ipocrisia, questo fare, questo apparire non supportato dall'essere, siano contaminanti: “Guai a voi perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”.
Sollecito a superare l'ipocrisia perché niente rimarrà nascosto (vv.2-3)
Dopo l'enunciazione del tema, l'ipocrisia (v.1b), intesa come menzogna di vita sia nei confronti degli uomini e, peggio, nei confronti di Dio, dando a chi la pratica una manipolata e distorta sensazione di sicurezza e di santità; un'ipocrisia che, quindi, nasconde la verità della vita e la realtà delle cose, ora l'autore preannuncia come tutto questo verrà smascherato. I verbi al futuro, che si contrappongono sia al presente (“niente è coperto”) che al passato (“diceste”) lasciano intravvedere in filigrana come tale ipocrisia sarà sottoposta al giudizio finale, quale luogo dove tutto verrà alla luce e non vi è più possibilità di finzione. I verbi al futuro, infatti, sono posti tutti al passivo teologico o divino, lasciando intravvedere come il soggetto primo di tale svelamento sarà proprio Dio stesso.
Entrambi i vv.2.3 si ritrovano parimenti in Mt 10,26-27 e, limitatamente al v.2, anche in Mc 4,22. Ma mentre in Matteo il contesto è quello dell'invio in missione dei discepoli (10,1-8), e in Marco è quello della “spiegazione a parte” (4,10-11) della parabola del Buon Seminatore (4,1-20), per cui il sollecito a rendere apertamente manifesto a tutti ciò che i discepoli hanno ricevuto in modo privilegiato da Gesù, prospetta in questo il futuro missionario della chiesa, per Luca, mutando il contesto, non più missionario ed ecclesiologico, ma di testimonianza personale di fronte a tutti gli uomini sempre, senza esitazioni e senza finzioni, cambia di conseguenza anche il senso dei vv.2.3 rispetto a Matteo e Marco. Ciò che determina, pertanto, la diversità del senso di questi versetti, benché sostanzialmente identici per tutti tre i sinottici, è il contesto. L'ipocrisia, afferma l'autore, non è pagante, poiché la finzione, la messa in scena e la recita del “buon credente osservante”, non solo è sottoposta ad un giudizio escatologico fin d'ora, e pertanto fin d'ora condannata, ma verrà svelata in quello finale davanti a Dio, in cui l'ipocrita sarà chiamato a rendere conto della sua menzogna di vita non solo a Dio, ma anche all'intera comunità credente che ha ingannato.
Preambolo ai vv.8-12: non si deve temere di dare apertamente la propria testimonianza (vv.4-7)
Dopo aver fornito ai suoi lettori la motivazione teologica contro l'ipocrisia, la menzogna di vita che inficia lo stesso rapporto con Dio e, di conseguenza, con la comunità credente, di fatto, ponendo l'ipocrita fuori da questa, facendo gravare su di lui il giudizio di Dio (vv.2-3), ora Luca sospinge il suo lettore ad una riflessione su parametri prevalentemente umani, più concreti, più vicini alla difficile quotidianità, con la quale il credente deve di continuo misurarsi: i dissidi interni alla propria cerchia familiare (vv.52-53) e le persecuzioni a motivo della nuova fede che ha abbracciato (v.11). Si tratta di una sorta di arringa che l'autore tiene per sostenere e incoraggiare il credente nella testimonianza della sua nuova fede, fornendogli le motivazioni teologiche e umane per far fronte alle difficoltà della testimonianza.
La pericope in esame (vv.4-7) costituisce, infatti, il preambolo ai vv.8-12, dove si parla della testimonianza da dare in un contesto di persecuzione, ma prelude in qualche modo anche ai vv.13-34, lasciandoli trasparire come in filigrana ai vv.6-7. La sua struttura richiama e preannuncia quella seguente, di cui è preambolo. I vv.4.5, infatti, si contrappongono tra loro, così come i vv.8.9, mentre i vv.6.7 tendono a rassicurare i credenti sottoposti alla prova della testimonianza, così come i vv.11.12 promettono ai perseguitati il sostegno dello Spirito in tale frangente.
Quanto ai vv.6.7, richiamandosi alla cura solerte del Padre, preannunciano e impostano e in qualche modo anticipandola, sia nella loro struttura che nel tema, la riflessione sul rapporto “beni materiali-credenti” (vv.13-21), che si concluderà con l'esortazione nella fiducia nella provvidenza del Padre (vv.22-34). Vedremo come le logiche siano sostanzialmente identiche: qui si parla di cinque passeri per due assi, per indicarne la pochezza del valore, ma che tuttavia godono delle attenzioni del Padre; là, vv.22-34, si parla di corvi e di gigli del campo, che parimenti beneficiano delle cure del Padre, pur essendo anche questi di poco conto. In tutti questi esempi il ragionamento si muove sulla falsariga delle dispute rabbiniche, dal meno al più: se il Padre si occupa di queste pochezze quanto più si occuperà di voi che valete ben di più.
Sia per la tematica che per la loro struttura e il loro modo di procedere è probabile che questi vv.6.7.24-28 nella fonte Q facessero parte di un raggruppamento di detti riguardanti la provvidenza di Dio, che qui Matteo e Luca utilizzano a modo loro e secondo le loro necessità narrative e teologiche.
La struttura della pericope viaggia su di un doppio binario: i vv.4.5 sono incentrati su chi si deve temere: non certo gli uomini, che al più possono uccidere fisicamente una persona, ma non possono andare oltre (v.4); bensì bisogna temere Dio, il cui giudizio di condanna la può far perdere completamente (v.5). Un concetto questo che Luca riprenderà anche in At 5,29, dove Pietro, rispondendo al sommo sacerdote che lo redarguiva per aver disobbedito all'ordine di non predicare nel nome di Gesù, testimoniava che “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”, facendo in tal modo una netta scelta di campo a tutto favore di Dio, opponendolo agli uomini. Quanto ai vv.6.7, questi costituiscono una sorta di riflessione rassicurante, che si muove su di uno sfondo sapienziale: Dio ha certamente cura dei suoi amici, che lo sanno testimoniare fino all'estremo e non li abbandona.
Con il v.4 il tono cambia completamente e diventa più intimo e rassicurante. I discepoli non sono più tali, ma sono definiti “miei amici”. Viene qui trasformato il rapporto che lega Gesù e i suoi: non più maestro-discepolo, ma Gesù e chi ne fa parte, chi ne condivide la sorte e i destini e, in quel “miei”, gli appartiene, come lui appartiene ai suoi. Un legame profondo e tale che fa dei due una cosa sola, come Gesù e il Padre sono una cosa sola, creando una sorta di parallelismo tra il rapporto che Gesù ha con i suoi e quello che egli ha con il Padre (Gv 10,30; 17,11.21.22.). C'è dunque un qualcosa di familiare in tutto questo. Gesù attrae nella sua cerchia familiare i suoi per condividerla con loro: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio” (Ef 2,19). Che cosa provoca questa trasformazione? Lo dice lo stesso Gesù giovanneo in 15,15: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi”. La rivelazione accolta, dunque, produce nel discepolo questa trasformazione, che è condivisione di vita con Gesù e in Gesù con il suo stesso Padre, che proprio in in virtù di questa condivisione, che diviene partecipazione, il Dio di Gesù è anche il nostro Dio, così come suo Padre diviene anche nostro Padre (Gv 20,17). Significativo è infatti come si apre il v.4: “Ma dico a voi, miei amici, affinché non temiate”. Il dire di Gesù, la sua rivelazione, la sua Parola, che ha ricevuto dal Padre e ha condiviso con noi è finalizzata al non temere, poiché è una parola di vita che ha vinto il mondo (Gv 16,33). Un'esortazione che ricorre complessivamente nei vangeli, negli Atti e nell'Apocalisse 23 volte e proviene sempre da Dio o da Gesù verso i discepoli o i credenti in genere ed ha sempre attinenza o con una rivelazione o con una visione o con un'apparizione o con eventi che in qualche modo hanno la loro radice nel divino, come la fede e la sua testimonianza5. L'esortazione, che ritroviamo sostanzialmente identica anche in Ap 2,106, è rivolta al non temere le persecuzioni fino alla testimonianza estrema. Sullo stesso tono ricorre l'esortazione del Gesù giovanneo ai suoi, che saranno oppressi dalla persecuzione: “Ecco viene l'ora ed è (già) venuta in cui sarete dispersi, ciascuno verso le proprie cose, e mi lascerete solo; e non sono solo, poiché il Padre è con me. Vi ho detto queste cose affinché in me abbiate pace. Nel mondo avete afflizione, ma abbiate coraggio, io ho vinto il mondo” (Gv 16,32-33). Il dire di Gesù, pertanto è finalizzato non solo al “non temere”, ma anche al ritrovare la pace in lui, sintonizzando la propria vita con la sua e ricomponendola in lui, poiché il male che il mondo può fare non potrà mai travalicare i confini dello spazio e del tempo, se noi non lo permettiamo.
In contrapposizione al “non temete” del v.4, viene ora indicato chi, invece, deve essere temuto. Per ben tre volte il verbo “temere” compare nel breve v.5, formando inclusione tra il “dovete temere” posto in apertura del versetto, e il “temete costui”, posto a sua chiusura, ponendo in tal modo l'intero v.5 sotto l'egida del timore divino, dando così maggiore pregnanza all'esortazione. Oggetto del timore è colui che “dopo aver ucciso” può anche “gettare nella Geenna7”. Vengono qui indicate due azioni sequenziali, che nella prima richiamano quella del v.4, propria degli uomini: la capacità di togliere la vita; nella seconda si prospetta un potere che va ben oltre a quello degli uomini, delimitati dallo spazio e dal tempo, ed è in grado anche di “gettare nella Geenna”, cioè è in grado di dare la perdizione piena, non solo quella della vita terrena, ma anche quella della vita eterna. Pertanto ci si trova qui di fronte ad un potere assoluto, che supera quello degli uomini, limitato dai confini spazio-temporali, poiché non solo, alla pari di quello degli uomini, “può uccidere”, cioè togliere la vita, ma anche può far perdere quella ultraterrena, potere quest'ultimo che invece è sottratto agli uomini, ma riservato a Dio. Ci si trova, dunque, qui di fronte al Signore della vita e della morte. Il v.5 si muove lasciando trasparire sullo sfondo la prospettiva di un giudizio di condanna per chi, anziché temere Dio, teme gli uomini.
Dopo la prospettiva minacciosa del v.5, Luca torna a parlare ai suoi lettori con toni più amichevoli, così come aveva iniziato con quel “amici miei”, aprendoli ora, con i vv.6-7, alla fiducia nella provvidenza, riportando due esempi, che si ritrovano parimenti in Mt 10,29-31 e provenienti entrambi dalla comune fonte Q. Le immagini proposte riportano cose minime come dei passeri, il cui valore si aggira su due assi8, e i capelli del proprio capo9. Su queste cose di poco conto si accentra l'attenzione di Dio, al quale nulla sfugge e per il quale nulla ha poco valore. Se così è, conclude l'autore muovendosi sulla logica delle dispute rabbiniche del “a minore ad maius”, a maggior ragione anche l'attenzione di Dio su di voi, che valete ben più dei passeri e dei capelli, non verrà certamente meno. Lascia perplessi la conclusione del v.7b che si riferisce al solo esempio dei passeri, ignorando totalmente quello dei capelli. La quale cosa fa pensare che il v.7a sia stato inserito successivamente.
La diversità dei numeri tra Mt 10,29 (2 passeri per un asse) e Lc 12,6 (5 passeri per due assi), va compresa all'interno di due diverse tradizioni che sono confluite nella stessa fonte Q. Non c'è ragione, infatti, per cui gli evangelisti siano stati spinti a modificare i numeri, se non che li abbiano trovati così nella loro stessa fonte.
Le conseguenze di una sincera e aperta testimonianza (vv.8-12)
Dopo aver sollecitato i credenti a giocare apertamente e con franchezza la partita della testimonianza della propria fede, poiché ogni sotterfugio verrà svelato, lasciando intravvedere in quello “svelato” un implicito giudizio di condanna (vv.1b-3); e dopo aver rincuorato i discepoli a sostenere la dura battaglia della testimonianza, confidando nella provvidenza del Padre, che si prende cura dei suoi (vv.4-7), ora Luca, dopo questo lungo preambolo, finalizzato a fornire le motivazioni della testimonianza, entra nel vivo della questione: i credenti sono chiamati ad affrontare con determinazione le persecuzioni e le continue pressioni intimidatorie, provenienti da ogni dove: dalla sinagoga, dai magistrati e dalle autorità in genere (vv.8-12).
La pericope circoscritta dai vv.8-12 si struttura su tre passaggi di cui il primo (vv.8-9) e il terzo (vv.11-12) sono tra loro paralleli e complementari, mentre il v.10, posto centralmente, è quello più importante e costituisce il cuore e il senso della pericope stessa. Il parallelismo tra il primo e il terzo alinea è dato da una enunciazione (vv.8-9), che ha il suo luogo storico nei vv.11-12. Quanto al v.10, questo formula un principio, che ha una stretta attinenza con la stessa testimonianza: i dubbi e le incertezze sulla figura di Gesù, in quanto che nella sua veste di uomo non lascia trasparire la sua divinità, possono essere compresi e perdonati; ma il suo annuncio di Verità, qualora non creduto o respinto, costituisce una grave offesa allo Spirito Santo, che di quell'annuncio di Verità è l'anima (Gv 16,13-15).
Il v.8 definisce la natura della testimonianza: riconoscersi in Gesù davanti agli uomini. Diversamente, Mt 10,32 definisce la testimonianza come il riconoscere Gesù davanti agli uomini. Apparentemente le due definizioni di testimonianza sembrano sostanzialmente identiche, poiché, in ultima analisi, si tratta sempre di riconoscere Gesù, dandone testimonianza davanti agli uomini. Tuttavia la definizione di testimonianza offerta da Luca va oltre alla semplice testimonianza e presuppone in quel “riconoscersi in Gesù” il ritrovare se stessi, la propria identità in lui; presuppone che Gesù non sia uno da testimoniare, ma il luogo del proprio vivere; presuppone una identificazione tra il credente e Gesù, così che il Risorto traspaia dalla vita stessa del credente non soltanto nell'ora suprema della testimonianza pubblica, ma anche nelle piccole e private cose della quotidianità, nella cui gestione si manifesta uno stile di vita, un modo di vedere e di sentire che lo contraddistingue. Il vero discepolo viene riconosciuto non da quello che dice, ma da quello che è e da quello che fa: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35) e similmente: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: <<Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli>>” (Gv 8,31). Rimanere, dunque, nella Parola, che si attua attraverso il reciproco amore, che affonda le sue radici in Gesù stesso sono gli elementi che definiscono e caratterizzano il vero discepolo, che ne fanno un autentico testimone. Uno stile di vita che rivela nel vero discepolo la presenza di Gesù, così che la vita del discepolo diviene vita di testimonianza, che Paolo sintetizza mirabilmente in quel “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me” (Gal 2,20b) fino a giungere ad esclamare: “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21a). La contropartita di questo riconoscersi in Gesù è speculare a Gesù stesso, il quale si riconosce nel discepolo, creandosi in tal modo una sorta di comune identità che si fa simbiosi. Tutto ciò per Luca è la vera testimonianza a cui è sollecitato il credente.
Il v.9 presenta la scena opposta: quella di chi, invece, ha ricusato Gesù davanti agli uomini. Anche in questo caso la risposta di Gesù è speculare a quella del mancato testimone: “sarà respinto davanti agli angeli di Dio”. In entrambi i casi il riconoscimento o il respingimento avverranno davanti “agli angeli di Dio”, i quali assumono qui il ruolo di testimoni a favore o a sfavore del giudizio. Il contesto, quindi, qui si richiama al giudizio finale, poiché Gesù emetterà la sua sentenza a favore o contro i discepoli, a seconda dei casi. Un versetto questo che riecheggia da vicino 9,26: “Poiché chi si è vergognato di me e delle mie parole, di questi il figlio dell'uomo si vergognerà, allorché sia venuto nella sua gloria e del Padre e dei santi angeli”. Il contesto qui è chiaramente di giudizio escatologico, dove Gesù e il Padre appaiono nella loro gloria attorniati dalla corte celeste.
Se i vv.8-9 hanno creato una sorta di casistica giudiziale, prospettando la sorte dei discepoli che testimoniano o rinnegano, precisando nel contempo il concetto di testimonianza, che va ben oltre ad una semplice attestazione verbale, ma si radica nel proprio modo di vivere, i vv.11-12 circoscrivono il contesto storico dove tale giudizio si compie: “Qualora vi portino nelle sinagoghe o dai i magistrati o dalle autorità”. Lo scenario, dunque, è quello delle persecuzioni provenienti da due diversi ambienti: la sinagoga, che rimanda al giudaismo; e i magistrati, che alludono al potere civile romano. L'elenco si conclude con il termine “autorità”, che si richiama agli apparati del potere, sia giudaici che romani. La situazione opprimente della persecuzione, tuttavia, non va vissuta con angoscia, poiché già ai vv.6-7 Luca si era richiamato alla provvidenza del Padre che ha cura di tutto e di tutti e che qui, ai vv.11b-12, assume la forma dello Spirito Santo.
Quanto al v.10, questo è posto centralmente e, quindi, secondo le logiche della retorica ebraica, il più importante o, quantomeno, il più significativo della pericope: “E ognuno che dice una parola contro il Figlio dell'uomo, gli sarà rimesso; ma a chi ha bestemmiato contro lo Spirito Santo, non (gli) sarà rimesso”.
Il v.10, di fonte Q, è presente anche in Mt 12,32 ed è diviso in due parti: la prima riguarda il “Figlio dell'uomo”; la seconda lo “Spirito Santo”. Due personaggi che scandiscono la storia neotestamentaria in due parti fondamentali: la venuta di Gesù, che innesca un processo di giudizio escatologico, richiamato in qualche modo dall'espressione “Figlio dell'uomo” (Dn 7,13-14), ma che nel contempo allude anche alla sua umanità con riferimento al Gesù storico10. Quanto allo Spirito Santo, esso caratterizza i tempi post-pasquali. Da qui il distinguo dell'autore: “E ognuno che dice una parola contro il Figlio dell'uomo, gli sarà rimesso”. La minor severità nei confronti di chi ha rifiutato Gesù dipende dal fatto che Gesù ha nascosto la sua divinità sotto le sembianze umane e nulla in quel uomo, dalle pretese spesso provocanti e rivoluzionarie, lasciava trasparire la sua divinità. Per cui la difficoltà di leggere Gesù in chiave divina era alquanto arduo e in merito i suoi stessi discepoli hanno sovente mostrato tutti i loro limiti e la loro inintelligenza. Come del resto poteva essere diversamente?11 La comprensione di Gesù quale Dio e la lettura del significato salvifico della sua vita e della sua opera sono avvenuti soltanto nel tempo, dopo una rilettura e una ricomprensione delle Scritture alla luce del Risorto (Lc 24,27.45; Gv 20,9).
Quanto allo Spirito Santo, il giudizio è decisamente molto più severo con prospettive drammatiche di imperdonabilità e, quindi, di condanna definitiva e senza appello: “ma a chi ha bestemmiato contro lo Spirito Santo, non (gli) sarà rimesso”. Per poter comprendere questa imperdonabilità della bestemmia contro lo Spirito è necessario comprendere il senso della bestemmia. Non si tratta soltanto di epiteti volgari ed empi rivolti a Dio, ma blasfemo è ritenuto anche un atto di ribellione o di rifiuto di Dio o assumere atteggiamenti contrastanti con la sua volontà, orientando la propria vita lontano da lui o contro di lui12. Nel nostro caso la bestemmia imperdonabile contro lo Spirito Santo è l'incredulità o peggio ancora il rifiuto pervicace della Rivelazione. Qui l'imperdonabilità è strettamente legata al rifiuto di accogliere nella propria vita Dio, sbattendogli in tal modo la porta in faccia. Ma in questo caso non è Dio il cattivo, che si vendica non perdonando l'incredulo e condannandolo, ma è questi che si mette nella condizione di non poter essere accolto da quel Dio misericordioso che egli rifiuta. Dio, infatti, non impone la salvezza, ma la propone. Sant'Agostino rimarcava proprio questo concetto: “Qui ergo fecit te sine te, non te iustificat sine te”13. Rifiutare lo Spirito Santo, che per definizione è lo Spirito di Verità (Gv 14,17; 15,26), significa rifiutare Gesù, rivelazione del Padre, da cui lo Spirito attinge la rivelazione, conducendo il credente alla pienezza della Verità (Gv 16,13).
Ciò che maggiormente conta nella vita (vv.13-34)
Testo a lettura facilitata
Preambolo (vv.13-14)
13
– Ora, uno dalla folla gli disse: <<Dì a mio fratello di
dividere con me l'eredità>>.
14
– Ma egli gli disse: <<Uomo, chi mi ha costituito giudice o
spartitore su di voi?>>
Ciò
che veramente conta nella vita: spenderla per Dio (vv.15-21)
15
– Ora disse verso di loro: <<Badate bene e guardatevi da ogni
cupidigia, poiché se a qualcuno sovrabbonda, la sua vita non gli è
da ciò che possiede>>.
16
– Ora disse verso di loro una parabola, dicendo: <<La terra
di un uomo ricco portò molti frutti.
17
– E pensava tra se stesso, dicendo: “Che cosa farò, poiché non
ho dove raccoglierò i miei frutti?”
18
– E disse: “Questo farò: abbatterò i miei magazzini e (ne)
costruirò di più grandi e raccoglierò là tutto il grano e i miei
beni”
19
– e dirò alla mia anima: “Anima, hai molti beni depositati per
molti anni; riposati, mangia, bevi, godi”.
20
– Ma gli disse Dio: “Stolto, questa notte reclameranno da te la
tua anima; per chi saranno le cose che hai apprestato?”.
21
– Così chi accumula per se stesso e non arricchisce per Dio>>.
Ciò che va cercato nella vita (vv.22-31)
22
– Ora, disse verso i [suoi] discepoli: <<Per questo vi dico:
non affannatevi per l'anima che cosa mangiate, né per il corpo che
cosa vestirete.
23
– L'anima, infatti, è più del cibo e il corpo (più) del vestito.
24
– Osservate i corvi poiché non seminano né mietono; non hanno
granaio né magazzino, e Dio li nutre. Quanto più voi siete
superiori agli uccelli!
25
– Ora, chi di voi, affannandosi, può aggiungere un cubito alla sua
età?
26
– Se dunque non potete (fare) una cosa infima, per che cosa vi
affannate sul resto?
27
– Osservate i gigli come crescono: non faticano né filano; ora vi
dico, neppure Salomone in tutta la sua gloria si vestì come uno di
questi.
28
– Ora se Dio veste così l'erba, che oggi è in un campo e che
domani è gettata in forno, quanto più voi, (uomini) di poca fede.
29
– E voi non cercate che cosa mangiate e che cosa beviate e non
siate inquieti.
30
– Queste cose, infatti, cercano i gentili del mondo, ma il Padre
vostro sa che abbisognate di queste cose.
31
– Tuttavia, cercate il suo regno e queste cose vi saranno aggiunte.
Spendere la propria vita e i propri beni materiali per procurarsi beni eterni (vv.32-34)
32
– Non temete, piccolo gregge, poiché il Padre vostro si è
compiaciuto di darvi il regno.
33
– Vendete i vostri beni e date elemosina; fate a (voi) stessi borse
che non invecchiano, un tesoro inesauribile nei cieli, dove un ladro
non (lo) raggiunge né tignola rovina;
34
– poiché dov'è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore.
Note generali
Questa seconda sezione del cap.12 (vv.13-34) riguarda la catechesi circa il rapporto del credente con i beni terreni. Il tema è introdotto dall'intervento di un anonimo personaggio della folla, che crea uno stacco netto dalla precedente sezione riguardante la testimonianza (vv.1-12). Lo sviluppo tematico si presenta nel suo complesso molto articolato e completo nella sua esposizione e pur terminando al v.34, tuttavia viene completato dal successivo tema, quello della vigilanza (vv.35-40), quasi a sollecitare il credente a non perdersi nei beni materiali, ma a tenere alta l'attenzione verso il Signore che viene, operando, quindi, qui nel presente con lo sguardo rivolto verso la sua venuta, che deve condizionare il presente, in cui è già insito il giudizio escatologico. Un tema, quello della vigilanza, che verrà poi esteso anche ai responsabili delle comunità credenti (vv.41-48), della cui gestione verrà loro chiesto conto alla venuta del Signore. L'aggancio e l'estensione sono qui dati dall'intervento di Pietro (v.41), che crea in qualche modo un parallelismo con l'intervento dell'anonimo umo delle folle (v.13).
Il
materiale, di cui si compone la presente sezione (vv.13-34), proviene
sia da materiale proprio di Luca (vv.13-14.15-21.32-34) che dalla
comune fonte Q, che viene condivisa con Matteo ai vv.22-31.
La
struttura di questa seconda sezione si articola in quattro punti, che
già sono stati anticipati nella sezione della “lettura
facilitata”:
Preambolo all'ampia catechesi sui beni terreni (vv.13-14);
Ciò che veramente conta nella vita: spenderla per Dio (vv.15.21);
Ciò che va cercato nella vita (vv.22-31);
Spendere la propria vita e i propri beni materiali per procurarsi beni eterni (vv.32-34).
Commento ai vv.13-34
Preambolo (vv.13-14)
I vv.13-14 fungono da preambolo all'intera sezione. Si tratta di due versetti circoscritti e funzionali all'introduzione del tema riguardante il rapporto del credente con i beni materiali. Il v.13, infatti, introduce la questione, mentre il v.14 chiude il breve episodio; e con il v.15 si apre il dibattito e la riflessione sul tema, che si muovono su di uno sfondo sapienziale. Il protagonista è un anonimo personaggio che emerge dalla folla (tij ™k toà Ôclou, tis ek tû óclu), diventandone in qualche modo il rappresentante, assegnando così al tema un tono di universalità. Una questione quella dei beni posseduti che doveva costituire un problema all'interno delle prime comunità credenti. Luca, infatti, negli Atti dedicherà una particolare attenzione al distacco dei beni, che i credenti alienavano mettendone in comune il ricavato a beneficio di tutti14. Un aspetto, quest'ultimo che verrà richiamato a conclusione di questa seconda sezione (vv.33-34).
La questione posta dall'anonimo personaggio è la divisione dell'eredità che, a quanto pare, il fratello voleva trattenere tutta per sé. La controversia, così come posta, è del tutto insufficiente per capire di cosa effettivamente si trattasse, anche perché non era ancora conosciuta la forma del testamento scritto, ma tutto si regolava per via orale. Tuttavia ci si doveva conformare alle norme e alle usanze. E considerato che l'anonimo personaggio della folla si riferisce a Gesù, scambiandolo probabilmente per un esperto della legge, quindi un dottore della legge, a cui spesso ci si riferiva per simili questioni, è da pensare che il testamento non avesse ancora una propria normativa ben definita, ma si rifacesse ai testi della Torah, Dt 21,15-17 e Nm 27,1-11 e 36,6-9, gli unici che parlano di eredità. Testi questi, che per altro si rifanno a casi particolari. È necessario pertanto integrarli con le usanze, che non sempre appaiono chiare nelle narrazioni bibliche. La regola fondamentale è che i figli hanno diritto all'eredità e il primogenito godeva di una particolare posizione di privilegio, beneficiando del doppio dei beni paterni (Dt 21,17). È probabile che soltanto il patrimonio mobiliare venisse diviso, mentre quello immobiliare, i beni familiari come la casa e i terreni, dovevano rimanere indivisi ed assegnati al primogenito. In assenza di figli maschi, potevano ereditare anche le figlie, purché si sposino con uno del clan della tribù del padre per evitare che i beni paterni passassero ad un'altra tribù (Nm 36,6-9). In quale posizione si trovasse il personaggio anonimo non ci è dato di sapere. Ma a Luca non interessava il dirimere la causa, quanto piuttosto il motivo, l'oggetto del contendere: la divisione dei beni, che non di rado è sottesa dalla cupidigia15.
La risposta di Gesù è lapidaria e si richiama in qualche modo ad Es 2,14a, là dove Mosè si attiva per sedare una lite tra due ebrei (Es 2,13). Il termine “Uomo”, posto al vocativo nella forma greca di “”Anqrwpe” (Antzrope), compare tra gli evangelisti soltanto quattro volte in Luca16, divenendone una sua caratteristica, e che probabilmente deve essere stato mutuato dal modo di esprimersi della LXX, in cui compare sette volte17 e ulteriori cinque volte nel N.T. in Rm 2,1.3; 9,20; in 1Tm 6,11 e in Gc 2,20. Tuttavia, qui, il v.14 suona come una forzatura e si discosta dal linguaggio di Luca. È un versetto troppo caricato di solennità e di importanza, in dissonanza con il resto del contesto sia narrativo che letterario. Probabilmente deve essere stato inserito successivamente da un copista per dare autorità e autorevolezza a Gesù. Togliendolo, infatti, il testo non ne risente e il racconto rimane scorrevole, anzi, risulta più incisivo.
Ciò che veramente conta nella vita: spenderla per Dio (vv.15-21)
In risposta al v.13 giunge ora, sotto forma di sentenza dai toni sapienziali18, l'esortazione, che costituisce come una sorta di principio imperativo, rafforzato da quel iniziale “Badate bene e guardatevi”. Il v.15 riporta tutti gli elementi che poi verranno ripresi e sviluppati nella parabola del “ricco stolto” (vv.16-21): la cupidigia, l'abbondanza dei beni e la precarietà della vita, così da formarne l'introduzione. Una parabola che è qui rivolta alla folla. Si passa, infatti, da “uno dalla folla” a “Ora disse verso di loro” in cui quel “loro” si riferisce alle “miriadi di folla” (v.1a)
La parabola del ricco stolto (vv.16-21), un piccolo capolavoro tutto lucano, per la sua semplicità e scorrevolezza narrative, la sua incisività di immagini e la sua logica stringente che mette in discussione ogni sicurezza, che il credente ritiene di poter trovare nel ricercare i beni materiali, costituisce una sorta di esemplificazione di quanto enunciato dal v.15. La tematica e lo stile sono identici e il linguaggio si muove su di uno sfondo sapienziale: il tono parenetico con cui si chiude la parabola (v.21); la riflessione che il ricco stolto sviluppa sull'abbondanza dei suoi beni (v.17a), nei quali ripone ogni sua sicurezza, e sulla quale è incentrata l'intera parabola; l'uso del termine “stolto” (¥frwn, áfron, lett. “colui che è privo di cervello”) che si ritrova 132 volte solo nei libri sapienziali e profetici e che viene utilizzato per stigmatizzare la dissonanza del comportamento dell'uomo dal pensiero e dalla volontà di Dio19. Da un punto di vista letterario, il breve racconto sembra essere stato mutuato da Sir 11,18-19 e poi adattato agli intenti dell'autore: “C'è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio; ed ecco la parte della sua ricompensa: mentre dice: <<Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni>>, non sa quanto tempo ancora trascorrerà; lascerà tutto ad altri e morirà”. Un tema questo della ricchezza che è ben conosciuto nella Bibbia, in particolar modo nelle riflessioni sapienziali20. L'intera parabola si gioca attorno alla contrapposizione dei progetti del ricco stolto (vv.17-19) e quelli che invece Dio prospetta al ricco (v.20), che viene definito “stolto” perché nelle sue valutazioni non ha tenuto conto di altre possibili prospettive; stolto perché la sua attenzione era esclusivamente incentrata su se stesso e i suoi beni ed escludeva gli altri. Per ben quattro volte, infatti, si ripete l'aggettivo possessivo “miei, mia”; “stolto” perché dalle sue valutazioni ha escluso Dio, perdendo in tal modo il senso della sua vita e dei suoi stessi beni e non ha capito che non giova nulla impegnare la propria vita nella ricerca e nella conservazione dei beni materiali, perché questi gli possono agevolare la vita, ma non gliela possono salvare; non ha capito che la vita è un cammino verso l'eternità e che non deve essere dispersa nelle cose terrene, che per loro natura sono effimere e fugaci; non ha capito che, in fondo, ciò che conta è ciò che rimane veramente e con cui si deve fare i conti: Dio.
Il v.16a è redazionale e introduce la parabola, che inizia presentando il contesto entro cui si muove (v.16b). Due gli elementi narrativamente essenziali: da una parte un uomo ricco; dall'altra, la sua terra che gli ha prodotto molti frutti, arricchendolo ancor di più. Sono sufficienti questi due tocchi narrativi per far comprendere come questo tale non abbia alcun problema materiale e la sua vita sia riposta al sicuro. Due elementi che formano il preambolo al v.17, che si apre con l'espressione: “E pensava tra se stesso, dicendo”. Si tratta, dunque, di una riflessione che il ricco sviluppa con se stesso e che costituirà il cuore dell'intera parabola. Una riflessione che si sviluppa su tre livelli: a) la presa di coscienza della sua grande quantità di beni, tale da non aver più spazio dove metterli (v.17b). Questa prima parte termina con un punto interrogativo, che da un lato costituisce la spinta di ricerca alla soluzione del problema; dall'altro coinvolge sempre più l'ascoltatore, interessato a capire quale soluzione prenderà questo ricco; b) il secondo livello presenta il progetto che risolverà il suo problema, quello della conservazione dei suoi beni (v.18); c) il terzo livello (v.19) va oltre la soluzione del problema e non concerne più né la quantità dei suoi beni né la loro conservazione, ma riguarda lo stesso ricco, la sua vita, la cui sussistenza e la piena soddisfazione lega strettamente ai suoi beni: “e dirò alla mia anima: <<Anima, hai molti beni depositati per molti anni; riposati, mangia, bevi, godi>>”. Tutti i verbi che compaiono nella parabola sono posti al futuro: “Che cosa farò”, “Questo farò”, “abbatterò, costruirò, raccoglierò” , “e dirò”. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un progetto di vita finalizzato a creare un'area di sicurezza e di benessere materiali attorno al ricco. Un progetto che sembra saggio, ben formulato e destinato ad avere pieno successo e dare piena soddisfazione, che in qualche modo il ricco già pregusta. Ma il ricco nell'elaborazione del suo progetto non ha considerato un elemento importante: la precarietà della sua vita, che in qualche modo era inconsciamente insita nella sua preoccupazione di crearsi uno spazio di sicurezza materiale, in cui collocarla. Quella precarietà, che ha cercato di nascondere o di cancellare con i propri beni materiali, ma che il v.20 gli riporterà a galla e gli rinfaccerà in tutta la sua crudezza: “Ma gli disse Dio: “Stolto, questa notte reclameranno da te la tua anima; per chi saranno le cose che hai apprestato?”. Un versetto duro, che suona come una sentenza di condanna e di morte. Un versetto che lascia intravvedere in quel “reclameranno” Dio e la sua corte celeste, una sorta di tribunale celeste in cui la sentenza è già stata emessa, quale risposta all'insensato comportamento del ricco. I toni, qui, non sono più soltanto sapienziali e sentenziali, bensì anche escatologici. In modo significativo il v.20 termina con un interrogativo, su cui l'autore invita a riflettere: a chi andranno, dunque, le cose per le quali hai dedicato inutilmente le tue fatiche e la tua vita? Andranno ad altri, verranno disperse e tu hai faticato invano.
La parabola, che nell'ambito dei vv.16-19 presenta un dinamismo positivo ed ottimistico, termina con il v.20 in modo drammatico, come una sorta di doccia fredda, dopo il caldo abbraccio di sogni e di progetti di vita, che vengono inaspettatamente frantumati, finendo nel nulla. Un versetto in cui riecheggia lo spirito pessimistico di Qoelet: “Vanità delle vanità, dice Qoelet, vanità delle vanità, tutto è vanità. Quale utilità ricava l'uomo da tutto l'affanno per cui fatica sotto il sole? […] Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole ed ecco tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qo 1,2-3.14). Ma tutto questo pessimismo che percorre il libro di Qoelet viene riscattato nel suo finale e si comprende come la vanità della vita consista nello spenderla per le cose anziché per Dio: “Conclusione del discorso, dopo che si è ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l'uomo è tutto” (Qo 12,13). Ed è la stessa conclusione a cui giunge questa parabola: “Così chi accumula per se stesso e non arricchisce per Dio” (v.21). Si tratta di una sorta di sentenza con quel “così” che si richiama al v.20, traendone qui la conclusione e lasciando intendere come la vita spesa per le cose e non per Dio porta alla dissipazione della vita stessa. Si noti come qui non venga condannato l'uso delle cose, ma l'escludere Dio in tale uso, finalizzandolo solo a se stessi.
La conclusione del v.21 non fa parte della parabola propriamente detta, ma è una sorta di riflessione parenetica aggiuntiva, una sorta di insegnamento tratto dalla parabola, che viene impartito all'ascoltatore, quella che in genere si definisce come la morale della favola. Il v.21, infatti, rassomiglia molto alle conclusioni delle favole di Esopo, che venivano introdotte con una formula tipica: “La favola dimostra che” oppure più semplicemente “Così anche...”, il cui intento era chiaramente didascalico.
Ma qui il racconto parabolico non si chiude, ma trova ora il suo sviluppo nella successiva pericope (vv.22-34), la cui tematica viene in qualche modo anticipata nel v.21. Infatti in v.21a si chiude la parabola del ricco stolto, presentato come un esempio negativo da cui rifuggire; mentre in 21b, che nulla ha a che vedere con la parabola, prelude al tema dello spendere la propria vita per Dio, trovando in questo la propria vera ricchezza. Riflessione quest'ultima che anticipa in qualche modo anche la conclusione (vv.33-34) della pericope che andremo ora ad esaminare e in cui si insegna come arricchire presso Dio e conservare il proprio tesoro, sottraendolo al suo naturale deperimento.
Ci si trova di fatto di fronte a due quadri contrapposti e complementari nel contempo: da un lato, il primo quadro, la parabola del ricco stolto, che per il credente costituisce l'esempio negativo di come egli non deve spendere e disperdere la propria vita, rincorrendo la vacuità delle cose materiali, che rendono difficile la ricerca di Dio e della sua volontà a cui, invece deve dedicare la propria vita (vv.15-21); dall'altro, si contrappone il secondo quadro, che incita il credente, indicandogli la via del fiducioso abbandono nella Provvidenza, a non impegnare la propria vita nelle cose materiali, ma di volgerla piuttosto verso Dio (vv.22-31).
Ciò che va cercato nella vita (vv.22-31)
La pericope in esame potremmo definirla come un inno alla Provvidenza divina, che insegna ai suoi discepoli la via per liberarsi dalle preoccupazioni terrene per dare spazio agli interessi per Dio, orientando la propria vita alla ricerca della sua volontà per conformarsi ad essa (Rm 12,2).
La struttura della pericope si presenta alquanto elaborata e si muove su parallelismi concentrici in C), che risulta essere, secondo i parametri della retorica ebraica, la parte più importante, poiché sviluppa una breve quanto significativa riflessione sull'impotente e vacuo potere dell'uomo sulla propria vita e sui propri destini, spingendo, pertanto, il credente a distogliere la sua attenzione dagli impegni terreni abbandonandosi, invece, fiduciosamente nelle mani del Padre.
Si ha pertanto il seguente sviluppo:
A) Sollecito a
non affannarsi per le cose del quotidiano vivere, simboleggiati nel
mangiare e nel vestire (vv.22-23);
B) prima esemplificazione riguardante il mangiare: Dio si prende cura perfino dei corvi (v.24);
B1) seconda esemplificazione riguardante il vestire: lo splendore dei gigli del campo, che supera di gran lunga lo splendore delle ricche vesti di Salomone (v.27-28);
A1) Sollecito a non affannarsi per le cose terrene, incentrando la propria attenzione sul Regno di Dio (vv.29-31)
In A) si enuncia il tema del non affannarsi per la materialità del quotidiano (mangiare e vestire); in A1) si riprende con il v.29 il tema enunciato in A) e lo si sviluppa in una contrapposizione: l'affannarsi per le cose materiali è proprio dei pagani (v.30); mentre l'affannarsi per le cose di Dio è proprio del vero discepolo (v.31).
In B) e in B1) esemplificazione che dimostra come Dio si prende cura anche delle cose più insignificanti come gli uccelli e i fiori dei campi, che per loro natura sono effimeri e di poco conto. A maggior ragione, quindi Dio si occuperà dei propri figli.Ed
infine, in C), ci sta il cuore dell'intera pericope in cui
essa converge: la riflessione sull'inutilità dell'affannarsi, che
riprende in qualche modo, stigmatizzandolo, il comportamento del
ricco stolto, che si affannava nell'accumulare i propri beni in cui
riponeva la propria sicurezza. Ma questi si sono rivelati del tutto
incapaci di prolungargli la vita anche solo di qualche ora,
dimostrandone in tal modo la vacuità.
Con v.22a, di provenienza redazionale, l'attenzione del lettore viene riportata dalle folle (vv.13.15a) all'interno della cerchia dei discepoli dove l'insegnamento, riprendendo il tema della parabola (vv.15-21), diventa più specifico e più esigente, fornendo motivazioni molto più consone a chi ha fatto nella sua vita una precisa scelta in favore di Dio.
La seconda parte del v.22, di fonte Q fino al v.31, apre la riflessione sapienziale sull'amministrazione dei beni terreni e sul loro uso. Il tono con quel “Per questo vi dico” si fa didascalico e autorevole nel contempo e viene indicata al discepolo la via da percorrere. Il tema di fondo è il “non affannarsi”. Ciò non significa che il credente debba vivere a cuor leggero e spensieratamente, ma non deve incentrare la sua vita sui beni materiali, orientandola verso di essi. Il verbo affannarsi è reso in greco con “merimn£w” (merimnáo) che significa essere in affanno, in pena, in angustie, in ansietà per qualcosa. Viene evidenziato, pertanto, uno stato d'animo inquieto, agitato e preoccupato, tutto teso verso i beni materiali che lo possano soddisfare, togliendogli quella serenità interiore necessaria per una corretta valutazione delle cose e tale da poter orientare correttamente la propria vita. Un simile stato d'animo diviene invasivo e toglie ogni altro spazio a Dio, radicando l'uomo nella sua terrestrità. Vengono qui citati due aspetti fondamentali del vivere quotidiano: l'anima e il corpo. Qui il termine anima non va intesa nel senso spirituale, ma, secondo l'antropologia degli antichi e in particolar modo del mondo greco-ellenista, come il luogo di congiunzione delle due realtà che compongono la persona: lo spirito e il corpo, altrimenti incongiungibili tra loro e per loro natura irriducibili l'uno all'altro. Il termine “anima” ha il suo corrispondente greco in “yuc»” (psiché), che significa letteralmente soffio vitale, respiro vitale od anche forza vitale. La citazione quindi di anima, qui, vale per l'intera persona21. La persona, che ha il suo aspetto visibile e immediatamente raggiungibile nel corpo, vale molto di più nel suo insieme di ciò che le serve per alimentarsi e per vestirsi. Si noti come qui l'autore dà di fatto una valutazione della persona stabilendone la superiorità rispetto alle cose materiali (v.23), per cui essa deve essere fatta prevalere su queste. Un richiamo, quindi, ad occuparsi per ciò che vale e non per l'effimero, che va finalizzato alla persona e non viceversa. Vita e corpo a cui si associa il cibo, quale elemento che alimenta la vita; nonché il vestito a cui è associato il corpo. Due elementi simbolici, che valgono per tutti quei beni materiali che l'uomo ricerca per se stesso e per soddisfare le proprie esigenze, che qui ci, sembra di intendere, vanno ben oltre alla semplice necessità della sopravvivenza dignitosa. L'esortazione a “non affannarsi”, attorno alla quale gira l'intera pericope; il sottolineare come il darsi da fare per i beni terreni non darà sicurezza alla propria vita né la potrà in qualche modo allungare (vv.25-26); l'equiparare allo stile di vita propria del pagano il porre al centro della propria attenzione gli interessi materiali (v.30a); l'esortazione a liberarsi dei propri beni per acquisirne degli altri più duraturi e posti sotto il segno dell'eternità (vv.33-34), l'inseme di queste cose dà l'idea che qui l'autore non voglia disincentivare l'impegno quotidiano per il proprio necessario e doveroso mantenimento, ma lo spendere le proprie energie per procurarsi dei beni effimeri atti a soddisfare oltre il necessario, riponendo in questi la propria sicurezza, come è accaduto al ricco stolto.
vv.24.27-28: I due elementi che simboleggiano il vivere, cibo ed abiti, vengono ora ripresi ed esemplificati nel modo di vivere sia dei corvi che dei gigli del campo, quasi un invito a vivere secondo natura, che opera secondo le leggi in essa inscritte. A differenza di Mt 6,26 che parla genericamente di “uccelli del cielo” e di “Padre vostro celeste”, Luca, invece, parla di “corvi” e di “Dio”. Personalmente ritengo che non si tratti di due tradizioni diverse all'interno della comune fonte Q, ma che Luca abbia di proposito modificato l'originale detto matteano sia per motivi biblici, per quanto riguarda i “corvi”; sia per motivi culturali, per quanto riguarda “Dio”. Il motivo che ha spinto Luca a preferire i “corvi” ai generici “uccelli” trova la sua duplice giustificazione nel fatto che, da un lato, i “corvi”, secondo i dettami di Lv 11,13-19, che ha il suo parallelo in Dt 14,12-18, rientrano tra gli animali impuri e, pertanto, non commestibili. Questo aspetto collocano i corvi tra gli animali spregevoli e inutili. Ciononostante Dio ha cura anche di loro. Dall'altro, i corvi hanno a che vedere con la Provvidenza divina22. Quanto al preferire il nome “Dio” anziché l'espressione matteana “Padre vostro celeste”, questo è dovuto al pubblico greco-ellenista, a cui era indirizzato il racconto lucano. Per i greci, infatti, Dio altro non era che il Logos eterno che tutto crea, tutto pervade, di tutto si prende cura e tutto predispone secondo criteri di giustizia e di equità, sospingendo tutte le cose verso la loro meta prestabilita. Un Dio-Logos, quindi, che si identifica con la Provvidenza stessa, è molto più comprensibile dell'ebraico “Padre vostro celeste”.
La seconda esemplificazione è scandita in due momenti: il primo mette in evidenza lo splendore dei gigli ineguagliato dallo stesso “Salomone in tutta la sua gloria” (v.27); il secondo consiste in una riflessione sulla natura e sul destino del giglio: alla fin fine è soltanto un'erba di un campo che disseca e poi viene bruciata. Eppure Dio fa splendere la sua incomparabile bellezza anche in questa erba di poco conto (v.28). In entrambi gli esempi si rileva la pochezza sia dei corvi che dei gigli, verso i quali, tuttavia, Dio volge la sua provvida attenzione, per poi concludere, secondo le tecniche delle dispute rabbiniche, “a minore ad maius”, mettendo in evidenza il maggior valore e la maggiore importanza dei discepoli rispetto alle cose, di cui comunque Dio si occupa, inculcando in tal modo nei credenti la certezza che Dio non li abbandonerà mai, pur stigmatizzando la pochezza della loro fede nella provvidenza divina.
I vv.25-26 costituiscono il cuore dell'intera pericope e ne mettono in rilievo il tema che la sottende: l'inutilità dell'affannarsi, poiché la vita dell'uomo non dipende da lui e lo dimostra la sua connaturata incapacità di prolungare la sua vita anche di un solo cubito. Una misura minima corrispondente ai nostri 44,5 cm23.
I versetti sono scanditi in due parti: la prima (v.25) formula una domanda in modo retorico, in quanto contiene già in se stessa la risposta: può l'uomo, pur affaticandosi, prolungare la sua vita anche di qualche ora? La risposta è chiaramente no, poiché la sua vita non dipende da lui. Ha avuto modo di esperirlo, suo malgrado, il ricco stolto (v.20). Il v.25, pertanto, formula un principio di totale inadeguatezza dell'uomo nelle faccende della sua vita, che non dipende da lui. La seconda parte (v.26), che non si trova in Matteo, il quale si limita in 6,27 a riportare Lc 12,26, è probabilmente di origine redazionale e con quel “e„ oân” (ei ûn, se dunque), posto all'inizio del v.26 trae le conseguenze dalla premessa del v.25. Ci si trova qui di fronte ad una sorta di riflessione sull'inutilità degli sforzi umani per dominare la propria vita. Un'inutilità che dice tutta la fragilità dell'uomo nel suo voler gestire la propria vita. Basta questo per comprendere come tutti gli sforzi finalizzati a dominare la propria vita siano una sostanziale vacuità. Forse è meglio spenderli più saggiamente per un qualcosa di più proficuo. Sarà questo, infatti, il tema dei vv.29-31.
I vv.29-31 costituiscono la conclusione finale di questa seconda sezione, riguardante la catechesi circa il rapporto dei credenti con i beni materiali ed indica quale sia l'oggetto su cui il credente deve incentrare la sua attenzione e i suoi sforzi.
Il v.29 riprende, sintetizzandoli, i vv.22-23, che aprono la catechesi riservata ai discepoli (v.22a). Si tratta di una sorta di sentenza al negativo, che preclude in tal modo l'accesso ai beni terreni: “non cercate”, che dà il tono all'intero versetto, mettendo le premesse per i vv.30.31. Il cercare dice l'atteggiamento di attenzione che viene posto sull'oggetto della propria ricerca; oggetto che dice anche il centro dei propri interessi, verso cui viene orientata la propria vita per ottenere tale oggetto. Si tratta di un'esortazione che crea un discrimine in base all'oggetto della ricerca, che funge da polo catalizzatore della propria vita: “E voi non cercate che cosa mangiate e che cosa beviate e non siate inquieti”. Mangiare e bere, due verbi che indicano i bisogni primari dell'uomo. Ebbene su questi viene posto il divieto di cercare, cioè di spendere la propria vita per queste cose finalizzate a soddisfare la propria corporeità, qui intesa in senso lato di soddisfazioni materiali. Ma quell'aggiunta di “non essere inquieti” dice la conseguenza di quell'inutile cercare. Un simile cercare agita la propria vita e la propria interiorità, perché spinge l'uomo a cercare soddisfazione e sicurezza in cose effimere che non possono per loro natura rispondere alle esigenze profonde dell'uomo, creando in tal modo stati di tensione e di agitazione che nascono dall'orientare la propria vita all'accaparramento dei beni materiali, così come era successo al ricco stolto, tutto teso a cercare soluzioni e formulare congetture per la conservazione dei propri beni, riponendo in essi tutta la sua sicurezza (vv.17-19).
Se il v.29 stigmatizza l'orientamento di vita verso le cose, il v.30 storicizza tale comportamento identificandolo con i “gentili del mondo”. Un'espressione questa che si discosta dal Mt 6,32a che li definisce, tout-court, “i pagani”. Tale scostamento non è casuale, ma voluto da Luca per almeno due motivi: uno personale, l'altro teologico. Quanto a quello personale, va detto che Luca è un etnocristiano e probabilmente non ama sentirsi dire che lui era un pagano anche per rispetto di quel mondo da cui proveniva e verso il quale guarda sempre con benevolenza. Il termine pagano, infatti, porta in se stesso una nota negativa di spregio e di esclusione, di rifiuto e in qualche modo di condanna rispetto ad un altro mondo, quello ebraico prima e cristiano ora; quanto al motivo teologico, l'espressione “gentili del mondo” consente di spiegare bene il senso di quel cercare, di cui i “gentili del mondo” sono i soggetti principali. Quel “del mondo” li qualifica come persone che appartengono al mondo e che cercano le cose di questo mondo. Un comportamento questo che si contrappone alla seconda parte del v.30, che inizia con una particella avversativa, che contrappone alle logiche pagane quelle dei credenti: i primi confidano in loro stessi e nei loro beni materiali; i secondi, invece, hanno chi pensa a loro e provvede loro, infondendo quella pace interiore e di vita, che va ben oltre a quel semplice “non siate inquieti”, perché “il Padre vostro sa che abbisognate di queste cose”. Questo è il punto di forza: il Logos-Dio del mondo greco-ellenistico, che sorregge il mondo e tutto porta al suo compimento, diviene per i credenti il “Padre vostro”. L'anonimo Logos acquista, ora, per il credente il volto rassicurante di Padre.
Se i vv.29-30a definiscono qual è l'oggetto di interesse per il mondo dei gentili, il v.31a indica al credente quale sia e quale debba essere l'oggetto delle sue attenzioni e dei suoi primari interessi esistenziali: cercare il Regno di Dio, che si contrappone al non cercare del v.29. Una contrapposizione che in qualche modo si richiama a Rm 14,17, dove si oppone il mangiare e il bere al Regno di Dio: “Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo”. Il v.31b conclude la lezione sul rapporto credenti e beni terreni attestando che questi ultimi saranno aggiunti. L'aggiunta dei beni terreni di cui si parla qui va considerata non come l'elargizione di un premio al credente, che senza problemi e senza alcuna fatica si trova la tavola imbandita da Dio; ma quell'aggiunta dei beni terreni alla ricerca del Regno di Dio è finalizzata, da un lato, a sottolineare la primarietà della ricerca del Regno di Dio, così che i beni terreni passano in second'ordine, essendo solo un'aggiunta; dall'altro, a sollecitare la fiducia in quel Padre, che tutto regge e tutto conduce al suo compimento (vv.24.27-28), inscrivendo nel creato delle leggi a ciò preposte, e che a maggior ragione è ancor più attento alle esigenze dei propri figli, che hanno deciso di servirlo, dedicandogli la propria vita. Se viene, quindi, posta in evidenza la ricerca delle cose di Dio, tutto il resto acquista il suo vero senso: tutto è solo aggiunta.
Spendere la propria vita e i propri beni materiali per procurarsi beni eterni (vv.32-34)
Dopo la lectio magistralis dei vv.13-31 Luca, a differenza di Mt 6,24-34 che si limita a riportare la sola fonte Q senza aggiunte, ritiene di dovere sollecitare il suo ascoltatore a compiere delle scelte esistenziali nette e radicali, passando in tal modo dalla teoria alla pratica. È questo il senso di questa breve pericope posta a conclusione di questa seconda sezione del cap.12 (vv.13-34).
La breve pericope è composta in parte da materiale proprio di Luca (vv.32-33b) e in parte da materiale di fonte Q (vv.32c-34), che trova il suo riscontro in Mt 6,19-21, disgiunto quindi dal contesto di Mt 6,24-34 e che vede Matteo più rispettoso della fonte Q di Luca. Un esempio quindi di come l'evangelista, Luca in questo caso, usi le proprie fonti, manipolandole e rimodulandole secondo i propri intenti teologici e narrativi, pur rispettandole nel loro insieme, senza modificarne il significato.
Questa breve pericope si snoda su quattro elementi tra loro concatenati in forma sequenziale:
dapprima vi è la rassicurazione del credente, che fa parte del gregge di Dio e quindi gli appartiene; un gregge che Dio ha riservato per se stesso e al quale ha dato in eredità il suo Regno (v.32);
il secondo passaggio è la conseguenza: se il credente, proprio perché tale, ha ricevuto da Dio in eredità il suo Regno e ne fa parte, deve pensare alle cose di lassù e non a quelle della terra (Col 3,2). Alienare, pertanto, i propri beni terreni per darli in elemosina è la forma più visibile e impegnativa di appartenenza a Dio e al suo Regno ed è ciò che qui l'evangelista suggerisce al credente (v.33a);
si apre pertanto per il credente una nuova prospettiva: crearsi uno spazio spirituale a Dio gradito dove tesaurizzare la sua vita, che in tal modo acquista un nuovo significato e un nuovo senso (v.33b);
il vero tesoro che il credente riuscirà ad accumulare in questo spazio spirituale sarà formato dalle scelte della sua stessa vita, dalle più grandi e significative a quelle più insignificanti, perché saranno scelte che saranno dettate dal suo orientamento esistenziale verso Dio, dal suo operare per Dio, che darà alla sua vita un significato spirituale, il cui valore è pari a quello della vita stessa di Dio, di cui fa parte fin d'ora (v.33c);
il motivo di tutto ciò è l'identificazione del tesoro con gli interessi vitali del credente (v.34). In altri termini, la vita stessa del credente, così orientata e determinata, diventa un vero tesoro spirituale a Dio gradito, che diviene fonte di salvezza per se stesso e per gli altri.
Il v.32 è redazionale e potremmo definirlo come di transizione, in quanto chiude la precedente pericope (vv.22-31) e apre questa breve pericope (vv.33-34), che porta a conclusione l'intera catechesi sul come il credente deve relazionarsi ai beni materiali. Il v.31 termina con il sollecito a cercare il Regno di Dio, che deve caratterizzare la vita del vero discepolo; mentre il v.32 riprende l'espressione “Regno di Dio” e lo prospetta come il dono e la dimensione che il Padre ha riservato per lui e a cui questi è destinato. Ciò che verrà dopo, vv.33-34, costituirà in tal modo la logica conseguenza del cercare il Regno di Dio, creando una sorta di priorità negli interessi del discepolo: prima Dio e così il resto, i beni materiali, diventerà strumento di arricchimento spirituale.
Il v.32 si apre con un sollecito a “Non temere”. Un'espressione questa che ricorre in Luca otto volte e ogniqualvolta compare apre ad un annuncio, che prospetta un intervento di Dio sull'uomo e sulla sua storia, che lo rende partecipe della sua azione salvifica, misericordiosa e benefica. Non fa eccezione neppure questa volta, in cui Dio apre il credente ad una nuova prospettiva, di cui già in qualche modo fa parte fin d'ora: quella del suo Regno, che dice la dimensione stessa di Dio e del suo mondo. Tutti i verbi, infatti, sono qui al presente indicativo. Significativa in tal senso è l'attestazione di Col 1,13: “E' lui infatti che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto” e similmente, con un accento più marcato e radicale, Ef 1,4a attesta che “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo”. Il credente, dunque, appartiene già alla dimensione di Dio anche se non ancora in termini pieni e definitivi. Ma è questa l'area in cui si muove e verso cui è incamminato e dalla quale è qualificato. Il Padre, infatti, “si è compiaciuto di darvi il regno”. In quel “compiaciuto” è racchiuso il senso di un intero progetto di eternità riservato a chi crede ed è determinato da una precisa volontà salvifica prospettata fin da principio (Ef 1,4). Luca si rivolge ai credenti definendoli come “piccolo gregge”, espressione questa unica nel N.T., benché sovente il popolo di Dio nell'A.T. come nel N.T. sia assimilato ad un gregge di pecore24, di cui, di volta in volta, Dio, il re o i Sacerdoti sono i pastori. Quanto a quel “piccolo”, non va inteso in termini affettuosi, ma restrittivi e selettivi. Un'espressione in cui riecheggia in qualche modo Dt 7,6-8: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto”.
Il v.32 si prospetta, dunque, come una rassicurazione che sollecita il credente a non temere, poiché egli fa parte ora di un progetto divino, che lo vede erede e partecipe fin d'ora della vita stessa di Dio, per cui tutta la sua vita acquista un nuovo significato e il suo operare fruttifica per la vita eterna. Ed è ciò che dicono i vv.33-34.
Inquadrati all'interno delle rassicurazioni e delle prospettive spirituali del v.32, i vv.33-34 indicano la via maestra per rendersi degni eredi del Regno: vendere e dare in elemosina i propri beni materiali, creando in tal modo una tesaurizzazione spirituale. I beni alienati, pertanto, diventano strumento di arricchimento spirituale. E per capire questo è necessario rifarsi a 11,41 dove l'elemosina viene concepita ancor prima che un'alienazione di propri beni materiali, un sincero dono di se stessi all'altro25. La qualità dell'elemosina, pertanto, trova il suo valore nel cuore stesso di chi la compie. Fin qui (v.33ab) il pensiero di Luca, circa un tema che gli è particolarmente caro e che in vari modi e sotto diverse forme risuona anche in 11,41; 16,9; 19,8 e in At 2,44-45; 4,32.34-37; 5,1-11, in cui si evidenzia come l'alienazione dei propri beni a favore della comunità credente costituiva una sorta di stile di vita che la caratterizzava, fondato su quella parola e su quella testimonianza del Risorto che gli apostoli annunziavano e rendevano con forza (At 4,33). Ma nondimeno, Luca porta esempi di persone pie, credenti o pagani, che si dedicavano a compiere beneficenza con continue elemosine, lasciando trasparire come questa diventi una forma di preghiera a Dio gradita (At 9,36; 10,2.4.31). Un'elemosina che assume in Luca un duplice aspetto: essa si radica nella sincerità di cuore e si fa dono per l'altro, arricchendolo, prima ancora che materialmente, spiritualmente (11,41), perché in quella elemosina il credente dona, ancor prima che un bene materiale, se stesso; e proprio per questo moto spirituale interiore che spinge il credente al dono di sé per l'altro, testimoniato nella condivisione del bene materiale, questo diviene per lui fonte di tesaurizzazione spirituale.
Parimenti a Mt 6,19-21, che si presenta rispetto a Luca molto più elaborato, Lc 33c-34 riprende la fonte Q, probabilmente in modo più fedele alla fonte che Matteo, presentando le caratteristiche di questo tesoro, che non può essere aggredito e sminuito da agenti materiali, poiché questo tesoro non è un qualcosa di estrinseco a chi fa elemosina, ma, ritornando a 11,41, si radica in esso.
Vigilanza e responsabilità (vv.35-48)
Testo a lettura facilitata
Enunciazione del tema (v.35)
35 – Stiano i vostri fianchi cinti e le lampade accese;
Prima trattazione riguardante i discepoli in genere (vv.36-40)
36
– e voi simili a uomini che aspettano il loro padrone, allorché
ritorni dalle nozze, affinché, venuto e dopo aver bussato, gli
aprano subito.
37
– Beati quei servi, che, giunto il padrone, troverà vigilanti. In
verità vi dico che si cingerà e li farà sedere a mensa e,
accostatosi, li servirà.
38
– E se giungesse nella seconda e nella terza veglia e (li) trovasse
così, beati sono quelli!
39
– Ora sappiate questo, che se il padrone di casa sapesse in quale
ora viene il ladro, non lascerebbe che la sua casa sia danneggiata.
40
– Anche voi siate pronti, poiché nell'ora che non pensate, il
Figlio dell'uomo viene>>.
Seconda trattazione riguardante i responsabili di comunità (vv.41-48)
a) Introduzione (v.41)
41 – Ora disse Pietro: <<Signore, dici questa parabola per noi o anche per tutti?>>.
b) il buon servitore (v.42-44)
42
– E disse il Signore: <<Chi dunque è il fedele
amministratore saggio, che il padrone costituirà sulla sua servitù
per donare nel tempo opportuno la misura del grano?
43
– Beato quel servo, che, giunto, il suo padrone troverà mentre
opera così.
44
– In tutta verità vi dico che lo costituirà sopra tutti i suoi
beni.
c) il servitore malvagio (vv.45-48a)
45
– Ma qualora quel servo dicesse in cuor suo: “il mio padrone
indugia a venire”, e incominciasse a percuotere i servi e le serve,
e a mangiare e a bere e a ubriacarsi.
46
– Verrà il padrone di quel servo in un giorno che non si aspetta e
in un'ora che non conosce, e lo separerà e porrà la sua sorte con
gli infedeli.
47
– Ora quel servo, conosciuta la volontà del suo padrone, non
avendo preparato o fatto secondo la sua volontà, verrà castigato
con molte (percosse).
48a – Quello che
invece, non avendo(la) conosciuta, ma avendo fatto cose degne di
percosse, verrà castigato con poche (percosse).
d) Sentenza finale (v.48b)
48b)- Ad ognuno a cui fu dato molto, molto sarà richiesto da lui, e a chi fu consegnato molto, gli chiederanno molto di più.
Note generali
Luca introduce con il v.35 il tema della vigilanza, che va a completare quello sul rapporto del credente con i beni materiali (vv.13-34). Due temi che si integrano naturalmente tra loro, poiché se con la precedente sezione l'autore esortava a concentrare la propria attenzione non sulla fugacità dei beni effimeri (vv.29-30), bensì sulla ricerca del Regno di Dio (v.31), con questa terza sezione, dedicata alla vigilanza (vv.35-48), esorta il credente a non disperdersi in essi e ad operare e a vivere con lo sguardo rivolto al Signore che viene (v.36) e che porta con sé il giudizio (vv.37.44.46-48). In altri termini la tensione escatologica del credente deve catalizzare i suoi interessi, condizionare le sue scelte e il suo oggi. Egli, infatti, pur vivendo qui sulla terra è già cittadino del cielo ed è chiamato a pensare alle cose di lassù e non a quelle della terra (Col 3,1-6). Con un tocco magistrale l'anonimo autore della Lettera a Diogneto (II sec. d.C.) definisce la condizione dei cristiani: “Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo” (Diogneto V,8-9). Un'attestazione che lascia intuire il forte stato di tensione del “già, ma non ancora”, che permea la vita del credente, e che si traduce in una tensione escatologica, che ha una immancabile risonanza su tutta la sua vita, condizionandola inevitabilmente.
Un tema, quello della vigilanza, molto caro alle comunità credenti del I sec. che vivevano nella convinzione di un imminente ritorno del Signore. Significativa, infatti, è l'invocazione con cui si chiude l'Apocalisse (96 d.C.): “Marana tha”, “Signore nostro, vieni!” (Ap 22,20), che esprimeva la speranza escatologica e che risuonava, ancor prima, a testimonianza di questo stato di attesa generale, anche nella 1Cor 16,22b (53/54 d.C.), così come nella stessa Didaché o Insegnamento dei Dodici Apostoli, in 10,6. Uno scritto antichissimo che risale intorno agli anni 50-70, attribuibile non ai Dodici Apostoli, bensì agli apostoli itineranti e che riflette un modo di vivere e di pensare delle primissime comunità credenti, tutte protese verso l'avvento del Signore26. Una parusia che diviene pressoché tangibile in 1Cor 7,29-31 e tale da condizionare lo stesso normale modo di vivere: “Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d'ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l'avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!”. Una vigilanza, quindi, che nasce da due esigenze primarie: da un lato, cercare di non disperdersi nelle cose di questo mondo; dall'altro, la convinzione dell'imminente ritorno del Signore e la fine di tutte le cose. Due motivazioni che vengono illustrate efficacemente nel racconto tutto matteano delle dieci vergini (Mt 25,1-13).
La struttura di questa terza sezione (vv.35-48) si sviluppa secondo lo schema tratteggiato nella sezione del “Testo a lettura facilitata”:
Enunciazione del tema (v.35);
Prima trattazione riguardante i discepoli in genere (vv.36-40);
Seconda trattazione riguardante i responsabili di comunità (vv.41-48), che a sua volta si suddivide in una sotto struttura:
Introduzione (v.41);
il buon servitore (v.42-44);
il servitore malvagio (vv.45-48a)
Sentenza finale (v.48b)
La prima parte di questa sezione, vv.35-37, così come l'ultima, vv.47-48 provengono da materiale proprio di Luca, mentre il v.41 va considerato redazionale, perché ha finalità meramente narrative: introdurre la seconda parte della sezione, dedicata ai responsabili delle comunità.
Commento ai vv.35-48
Enunciazione del tema (v.35)
Il v.35 introduce il nuovo tema di questa terza sezione dedicata alla catechesi sulla vigilanza e lo fa con un'immagine plastica e perentoria, che dipinge in modo significativo la condizione di vita del servo, che arrotola la sua veste, quasi certamente una tunica27, che gli poteva arrivare alle ginocchia o fino alle caviglie, fissandone i lembi ai fianchi con una cinta, per essere maggiormente libero nel suo muoversi con rapidità e sicurezza, evitando che gli si attorcigliasse attorno alle gambe e di inciampare; esso viene presentato con una lampada accesa: “Stiano i vostri fianchi cinti e le lampade accese”. I fianchi cinti stanno ad indicare lo stato di servizio e di prontezza in cui si trova il servo; mentre la lampada dice come questo servizio si prolunghi anche lungo le ore notturne, mettendo in evidenzia lo stato di costante veglia di questo servo. Un servizio, quindi, che non conosce pause; una veglia finalizzata al servizio. Un sevizio che è illuminato dalla lampada, che in qualche modo metaforizza la Parola di Dio (Sal 118,105), che deve sostanziare il servizio del credente, illuminandolo e tenendolo desto, perché non si disperda in servizi futili e ingannevoli, come avvenne per le cinque vergini stolte, che si addormentarono, lasciando spegnere la loro lampada (Mt 25,1-13). Fianchi cinti e lampada accesa sono due immagini emblematiche che dicono lo stato di costante, ininterrotto e solerte servizio di questo servo. A intensificare questa immagine, Luca non dice “Siano i vostri fianchi cinti”, ma “Stiano”. Il verbo greco qui usato è “”Estwsan” (Estosan), il cui senso è rafforzativo di ciò che qui viene descritto. Il verbo, infatti, dà il senso della fermezza e della solidità, del porsi indiscutibilmente e del resistere, del restare fermi sulla propria posizione. Un'immagine, dunque, che delinea l'atteggiamento del vero discepolo, che si qualifica per il suo essere al servizio di Dio, sempre e in modo determinato. Il suo sguardo e la sua attenzione, dunque, devono essere incessantemente tenuti fermi verso di Lui e in Lui. Un'immagine questa, che viene cantata in modo efficace dal Salmista: “Ecco, come gli occhi dei servi alla mano dei loro padroni; come gli occhi della schiava, alla mano della sua padrona, così i nostri occhi sono rivolti al Signore nostro Dio, finché abbia pietà di noi” (Sal 122,2).
Prima trattazione riguardante i discepoli in genere (vv.36-40)
Questa breve pericope, delimitata dall'inclusione data dal pronome personale “voi” nei vv.36.40, inizia riprendendo il v.35, che descrive un tipo di abbigliamento caratteristico dei servi solerti, applicandolo ai discepoli: “e voi simili a uomini che aspettano il loro padrone”. Il v.36, infatti, inizia con una congiunzione, “kaˆ” (kaì, e), che lo lega a quello precedente e ne trae le conseguenze: dalla descrizione significativa dell'abbigliamento si passa ora all'esortazione dei discepoli a tenere un conseguente comportamento: quello dell'attesa, che implica un “ad tendere” un tenersi in tensione verso qualcosa o qualcuno; un orientare la propria vita verso qualcuno o qualcosa e in modo tale che questa tensione e questo orientamento esistenziale “verso ...” qualifichi la vita del discepolo. L'oggetto di tale attesa è il padrone, che torna dalle nozze. Una precisazione questa che qui non ha significati particolari, metaforici o simbolici, ma si riferisce all'incerta tempistica delle nozze stesse, le cui impegnative usanze potevano farle durare più giorni, in genere una settimana. Parlando di nozze senza alcuna precisazione, Luca fa dunque riferimento a quel insieme di cerimonie e celebrazioni, accompagnate da abbondanti festeggiamenti, che culminavano nel banchetto nuziale28. Precisando, quindi, che il padrone era andato alle nozze e che i servi erano in attesa del suo ritorno, Luca a voluto soltanto dire che il tempo del ritorno di quel padrone non era conosciuto. Da qui la necessità di quei servi di vegliare in ogni istante per essere pronti ad accogliere il ritorno del loro padrone.
I vv.37-38 formano un'unica piccola unità letteraria definita dall'inclusione data dall'espressione di apertura e chiusura “beati quei servi” (v.37a) e “beati sono quelli” (v.38b), definendo in tal modo lo stato di beatitudine dei servi vigilanti. I versetti presentano un graduale e crescente riconoscimento da parte del padrone nei confronti di quei servi che hanno saputo attendere vigilanti il suo ritorno e si sono mostrati pronti ad accoglierlo. Per due volte vengono definiti “beati”, cioè partecipi della beatitudine del loro padrone, entrando così in qualche modo a condividerne la stessa vita, che per definizione è di beatitudine. Una partecipazione ed una condivisione che vengono significate in 37b dove il padrone li fa sedere alla sua stessa mensa e, rovesciando i ruoli padrone-servi, si mette egli stesso a servirli, segno che quei servi sono entrati a far parte della vita del loro padrone e la condividono.
Vi è, infine, un crescendo sempre più premiante a seconda che il padrone rientri durante il giorno, facendoli sedere subito a mensa e mettendosi a servirli; o durante la notte scandita dalla precisazione delle veglie: la seconda e terza veglia. Il riferimento qui è alla suddivisione della notte che iniziava alle ore 18,00 di sera e terminava alle 6,00 del mattino del giorno dopo. È probabile che qui Luca faccia riferimento alla scansione della notte secondo la cronologia romana, che suddivideva la notte in quattro veglie di tre ore ciascuna. Quindi, l'arco di tempo qui indicato va dalle 21,00 serali alle 3,00 del mattino seguente. Se il conteggio, per contro, fosse enumerato secondo la cronologia ebraica, la notte veniva scandita in tre veglie di quattro ore ciascuna. In tale caso Luca definisce l'orario dalle 22,00 alle 6,00 del mattino successivo. Poco conta, comunque, perché ciò che qui l'autore vuole dire è come questi servi hanno dimostrato tutta la loro devozione e la loro solerte fedeltà nei confronti del loro padrone anche durante un tempo che viene dedicato al necessario riposo per il ripristino delle proprie forze. Questi servi hanno saputo mettere da parte le loro naturali e legittime esigenze per porsi a totale servizio del loro padrone, dimostrando come la loro fedeltà e la loro attenzione fossero sempre e comunque presenti anche nei momenti più impegnativi e difficili. Per questo Luca termina questa esaltazione dei servi con un'esclamazione, che accentua ancor più la loro beatitudine: “beati sono quelli!”.
Con i vv.39-40 cambiano sia gli attori che la motivazione, che deve animare l'attesa. L'accento qui non cade più sul comportamento solerte dei servi fedeli, che tali si sono dimostrati in ogni momento della loro vita, anche in quelli più difficili, ma sull'incertezza della venuta del Signore. Se con i vv.37-38 Luca ha voluto presentare l'esempio di una fedeltà sempre attenta e accogliente, con questi vv.39-40 fornisce la motivazione per cui questa fedeltà debba essere sempre persistente: non si conosce il “quando” della venuta del Signore.
Ora Luca opera una trasposizione: l'attenzione passa dai servi al padrone di casa. Questo semplice spostamento di soggetti non è casuale, ma l'autore qui sta preparando la successiva pericope (vv.41-48), che riguarderà la vigilanza dei responsabili sulle comunità credenti loro affidate. Si parla qui (vv.39-40), infatti, di padrone di casa, come dire di responsabile di comunità.
L'incertezza è evidenziata dal fatto del non sapere il “quando” verrà il ladro. Per questo il padrone di casa deve essere sempre attento e vigilante. Si noti come la venuta del Signore è paragonata a quella di un ladro, la cui finalità è mettere a soqquadro la casa e rapinarla di ogni suo bene. Quasi una sorta di punizione inflitta al disattento e negligente padrone di casa, che non ha pensato a questa evenienza. Sembra, infatti, che l'intervento del ladro porti con sé una sorta di giudizio di condanna per quel padrone incurante. Ed è ciò che lascia intendere in termini più chiari il successivo v.40: “Anche voi siate pronti, poiché nell'ora che non pensate, il Figlio dell'uomo viene”. Quel “anche voi” si riferisce nuovamente e in senso generico ai discepoli, e funge da inclusione con quel “voi” iniziale del v.36. Questa pericope, pertanto, forma un'unità narrativa a se stante e riguarda esclusivamente i credenti in genere e si contrapporrà con quella successiva, che riguarda, invece, i soli responsabili di comunità.
L'attenzione che il padrone di casa dovrebbe porre nei confronti dell'imprevedibile venuta del ladro viene trasferita ora, con quel “anche voi”, sui discepoli, sui quali incombe minacciosa (nell'ora in cui non pensate) la venuta del Figlio dell'uomo. Compare qui inaspettatamente la figura di questo Figlio dell'uomo, che si richiama da un lato a quello apocalittico di Dn 7,13-14; dall'altro, e certamente in modo più appropriato, allo stesso Lc 21,27 in un contesto escatologico di deflagrazione cosmica e di fine dei tempi (21,1-36), raccontato all'interno di un capitolo che termina in 21,36 sollecitando i credenti, come qui, a vegliare: “Vegliate, invece, pregando per tutto il tempo, affinché abbiate forza di fuggire tutte queste cose che stanno per accadere e stare saldi davanti al Figlio dell'uomo”. E qua come là, in 21,27, Luca presenta un Figlio dell'uomo non che “verrà”, ma che “viene”, lasciando intendere come questa venuta si sta realizzando nell'oggi salvifico dell'uomo, aprendo in tal modo ad una escatologia presenziale, che richiama da vicino quella giovannea. La salvezza o la perdizione dell'uomo, infatti, sia per Giovanni che per Luca, si giocano e si realizzano già fin d'ora. Da qui la necessità di vegliare per non disperdersi nelle cose del quotidiano, poiché tutto ciò che il credente compie contiene fin d'ora un implicito giudizio di salvezza o di condanna.
Seconda trattazione riguardante i responsabili di comunità (vv.41-48)
Il v.41 crea uno stacco all'interno della catechesi sulla vigilanza (vv.35-48) e orienta il lettore da una catechesi rivolta alla generalità dei credenti (vv.35-40) a quella che invece, è riservata ai preposti all'amministrazione delle comunità e ne hanno la responsabilità. Per farlo Luca, da un lato, introduce la figura di Pietro, che è riconosciuto come il portavoce degli apostoli, cioè di coloro che sono, all'interno delle comunità credenti, i responsabili; dall'altro, contrappone il “per noi” al “per tutti”, creando in tal modo una distinzione netta tra chi è responsabile e la massa dei discepoli; così come era avvenuto nella pianura delle beatitudini, dove gli apostoli, di fresca nomina, apparivano assieme a Gesù e in qualche modo a lui associati, mentre la massa dei discepoli, distinti dal gruppo, stava di fronte a loro (6,17). Il lettore, quindi, è avvertito: quanto segue non riguarda più la generalità dei discepoli, ma in modo particolare chi è stato preposto alla comunità. Il tema che aleggia, tuttavia, è lo stesso e vale sia per la generalità dei discepoli che per i loro responsabili. La conclusione, infatti, è identica: al v.40 si sollecita i credenti a vigilare perché il tempo della venuta del Figlio dell'uomo, con il suo giudizio, è sconosciuta; cosi al v.46 si parla della venuta del Signore, la cui ora non è parimenti conosciuta e la sua venuta porta con sé il giudizio sui responsabili delle sue comunità.
Si noti il cambio di passo: qui non si parla più dell'apocalittico Figlio dell'uomo (v.40), ma del Signore. Pietro si rivolge a Gesù chiamandolo Signore, così come e non è più Gesù che risponde, ma il Signore. Una titolatura, questa, riservata al Risorto. Il racconto parabolico, quindi, riguarda i tempi post-pasquali, quando le figure apostoliche si presenteranno come vicariali del Risorto, attraverso le quali egli continua operare in mezzo ai suoi.
Il buon servitore (v.42-44)
Il v.42, rispondendo all'interrogativo posto da Pietro, delimita il campo d'azione: qui non si sta parlando di tutti, ma degli “amministratori” e tratteggia, attraverso una domanda che non ha una risposta diretta, ma è intrinseca alla stessa domanda, che descrive la figura ideale dell'amministratore: si tratta di un responsabile “saggio”, “costituito come responsabile” perché amministri in modo opportuno la comunità, dandole la giusta “misura di grano”29. E che così sia sembra suggerirlo lo stesso v.43, che dichiara “beato”, cioè appartenente all'alea di beatitudine del padrone, della quale beneficerà, quel sevo che si comporta nel modo descritto dalla domanda stessa. Non vi è quindi una risposta se non nella domanda, quasi a suggerire ai responsabili di interrogarsi sui parametri elaborati dalla domanda. Il versetto si conclude richiamandosi al tema della venuta, che lascia intravvedere l'implicito giudizio, qui favorevole, che tale venuta porta sempre e comunque con sé. Il tema, infatti, in questa catechesi è sempre quella della vigilanza posta in stretta relazione alla venuta del padrone, la cui ora rimane sconosciuta a tutti.
Il v.44 delinea il significato di questa beatitudine, che assume qui il suo volto e la sua dimensione: il servo verrà costituito sopra tutti i beni del suo padrone. In altri termini non solo ne diverrà amministratore, bensì anche compartecipe, una sorta di alter ego del padrone.
Il servitore malvagio (vv.45-48a)
La pericope riguardante il servo malvagio e i suoi tristi destini è scandita in due parti: la prima (vv.45-46) riguarda la descrizione del comportamento del servo malvagio e il contesto temporale entro cui tale comportamento è sorto e si è sviluppato (v.45); nonché le conseguenze di tale comportamento (v.46). La seconda parte (vv.47-48a) risulta più complessa nella commisurazione della pena per lo stesso disdicevole comportamento, per il quale viene posto un distinguo tra due diverse tipologie di malvagità: chi si è comportato malvagiamente nella coscienza di sapere che egli stava trasgredendo la volontà del su padrone (v.47); e chi, invece, pur comportandosi male come il primo servitore, tuttavia riceverà una punizione inferiore, perché non conosceva la volontà del suo padrone (v.48a). A chi l'autore faceva riferimento in questa diversità di pena?
Il v.45 presenta la figura di un servo malvagio, che non solo tiene un comportamento disdicevole, pensando soltanto a soddisfare i suoi bisogni, approfittando della sua posizione dominante, ma perseguita gli stessi servi, che gli erano stati affidati. Un comportamento che dimentica come egli stesso sia un servo con maggiori responsabilità, poiché è stato costituito sopra i beni del suo padrone, comportandosi nel peggiore dei modi, tradendo il mandato e la fiducia del suo padrone. Il contesto temporale entro il quale il servo malvagio sviluppa questo suo comportamento indecoroso e riprovevole è il prendere coscienza che il padrone tarda a venire. Un ritardo che non doveva essere di poco conto, considerata la degenerazione comportamentale che questo servo malvagio ha sviluppato e che certamente non è esplosa improvvisa, ma si è lungamente maturata dentro di lui e tale da lasciare spazio alla sua malvagità, consentendole di affiorare e di prendere concretezza, nella inconscia speranza che forse il padrone non sarebbe più tornato. Luca qui sembra stigmatizzare un comportamento che forse già stava affiorando qua e là tra i vari responsabili delle comunità credenti, che rilevando come il tanto annunciato ritorno imminente del Signore, la cui convinzione era molto diffusa all'interno del I sec., in realtà non era poi così imminente, anzi probabilmente non sarebbe mai avvenuto. Una eloquente testimonianza in tal senso ci viene da 2Pt 3,3-1830, che mette in rilievo proprio la questione del ritorno del Signore: “Questo anzitutto dovete sapere, che verranno negli ultimi giorni schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo le proprie passioni e diranno: <<Dov'è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione>>” (2Pt 3,3-4). Come dunque giustificare tale ritardo, che stava scuotendo gli animi dei credenti? L'autore fornisce la sua interpretazione: “Una cosa però non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell'adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi. Il giorno del Signore verrà come un ladro” (2Pt 3,8-10a). Tre sono gli elementi qui adotti: a) la diversa cognizione di tempo presso l'uomo e presso Dio (v.8); b) Dio è fedele e non manca alle sue promesse (v.9a); c) il ritardo è dovuto al fatto che Dio è paziente e attende che anche i malvagi si ravvedano prima di porre fine al mondo e alla storia (v.9b). Pertanto il ritardo va imputato soltanto alla magnanimità di Dio che vuole che tutti siano salvi (v.15). Era sostanzialmente questo il contesto in cui Luca scriveva: quello di un ritorno del Signore, tanto invocato, tanto sperato e tanto creduto, quanto inadempiuto. Ci si è dunque sbagliati? All'interno di questo clima di incertezza la tensione escatologica dettata dalla imminente parusia viene a cadere, dando adito a comportamenti lassisti e riprovevoli non solo da parte dei credenti, ma, peggio, da parte degli stessi loro responsabili (2Pt 3,14.17-18). Da qui il duro richiamo del v.46: nessuno conosce né il giorno né l'ora di questa venuta, che sarà inattesa. La 2Pt 3,10a definirà l'avvento di questo giorno fatidico come quello di un ladro: “Il giorno del Signore verrà come un ladro”. Espressione che richiama da vicino Lc 12,39-40. Ed è proprio questa incertezza che deve mettere in guardia il responsabile della comunità, poiché questa improvvisa e inattesa venuta porta con sé il giudizio di condanna: “lo separerà e porrà la sua sorte con gli infedeli”. L'espressione si richiama in qualche modo a Mt 18,17, dove nel giudizio nei confronti del fratello che sbaglia e in modo pervicace non intende rientrare dal suo errore, verrà posto fuori dalla comunità e considerato come un pagano o pubblico peccatore: “Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all'assemblea; e se non ascolterà neanche l'assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano”. Così similmente nel caso dell'incestuoso (1Cor 5,1-13) Paolo non usa mezzi termini: “Togliete il malvagio di mezzo a voi!” (1Cor 5,13b). Si tratta dunque di una scomunica per chi si comporta in modo gravemente lesivo della comunità credente e tale da destare grave scandalo. Un istituto, quello della scomunica, che ritroviamo anche presso la comunità di Qumran contro gli ostinati di cuore, che rifiutano la verità: “<<Avrò la pace anche se cammino nell'ostinazione del mio cuore>>; il suo spirito sia esso assetato o abbeverato, perisca senza remissione. La collera di Dio e la vendetta dei suoi giudizi lo consumino in eterna rovina. Aderiscano a lui tutte le maledizioni di questo patto! Dio lo separi per il suo danno; sia reciso di mezzo a tutti i figli della luce, essendo venuto meno alla sequela di Dio a causa della sua iniquità. Egli gli dia la sua sorte tra gli eterni maledetti. E tutti quelli che entrano nel patto dicano: Cosi sia, così sia”31 (1QS14-18).
La sorte di questi amministratori, pertanto, è quello di essere gettati fuori dalla comunità salvifica ed essere associati alla sorte degli infedeli. Scomunica, quindi, il cui significato viene reso bene da Matteo con un'immagine molto espressiva, che ritroviamo anche in Lc 13,28a: “dove c'è pianto e stridore di denti”32.
I vv.47-48a formulano la pena nei confronti dell'amministratore che si è comportato in simile modo. Una pena che verrà, tuttavia, scontata in differente misura per chi era a conoscenza della volontà del padrone (v.47) e chi, invece, pur comportandosi in pari modo, tuttavia non ne era a conoscenza (v.48a). A chi allude, dunque Luca? Perché questa discriminazione pur a parità di infrazione? L'allusione è ai responsabili delle comunità credenti, che hanno conosciuta e accolta la rivelazione e alle autorità religiose ebraiche, sacerdoti, scribi e farisei, che pur commettendo ogni angheria contro il popolo33 (Mc 12,38-40; Lc 20,46-47), tuttavia non erano a conoscenza, sia pur colpevole per il loro rifiuto e la loro pervicace chiusura, della rivelazione. E la motivazione di tale discriminazione viene enunciata in forma sentenziale al v.48b: “Ad ognuno a cui fu dato molto, molto sarà richiesto da lui, e a chi fu consegnato molto, gli chiederanno molto di più”. Una logica questa che si riscontra anche nel giudizio contro le città che hanno accolto o rifiutato l'annuncio di Gesù (Mt 11,21; Lc 10,13).
Il tempo delle scelte radicali (vv.49-59)
Testo a lettura facilitata
Il tempo di Gesù (vv.49-50)
La sua missione (v.49)
49 – Venni a porre il fuoco sulla terra e che cosa voglio se (non che) fosse già acceso!
che si conclude con la sua passione e morte (v.50)
50 – Ma ho un battesimo (con cui) essere battezzato, e come sono oppresso finché questo sia compiuto.
Il tempo della Chiesa (vv.51-59)
Gli effetti della rivelazione portata da Gesù (vv.51-53)
51
– Credete che sia venuto a dare pace sulla terra? No, vi dico, ma
la divisione.
52
– Da adesso, saranno divisi in cinque in una casa: tre contro due e
due contro tre.
53 – Saranno
divisi padre contro figlio e figlio contro padre; madre contro la
figlia e figlia contro la madre, suocera contro la nuora e nuora
contro la suocera>>.
Necessità di
saper leggere con correttezza e onestà intellettuale i tempi
presenti (vv.54-57)
54
– Ora, diceva anche alle folle: <<Quando vedete [la] nube che
sorge da occidente, subito dite che viene pioggia; e così avviene;
55
– e quando austro che soffia, dite che sarà caldo, e avviene.
56
– Ipocriti, sapete esaminare l'aspetto della terra e del cielo,
come mai non sapete esaminare questo tempo?
57
- Ma perché non giudicate da (voi) stessi (ciò che è) giusto?
Tempi
escatologici, spazio del ravvedimento e della riconciliazione,
caricati dal giudizio (vv.58-59)
58
– Quando, infatti, vai con un tuo avversario da un magistrato,
lungo la via datti da fare per accordarti con lui, affinché non ti
trascini dal giudice, e il giudice ti consegnerà all'esattore, e
l'esattore ti getta in prigione.
59 – Ti dico, non
uscirai di là finché non abbia restituito anche l'ultimo
spicciolo>>.
Note generali
Il cap.12 termina con una riflessione (vv.49-59) incentrata sul senso della missione di Gesù (vv.49-50); sulle conseguenze che questa produce sui discepoli (vv.51-53); sulla necessità di comprendere il significato di questi tempi, che la venuta di Gesù ha inaugurato (vv.54-57) e ciò che questo implica per tutti e non solo per il credente (vv.58-59). Una riflessione piuttosto elaborata e composita, che l'autore attinge prevalentemente dalla fonte Q, che ha in comune con Matteo, anche se il riporto dei testi è molto più elaborato e più elegante in Luca, così che Matteo sembra essere più fedele alla fonte Q. In questa ultima sezione del cap.12, la quarta (vv.49-59), Luca aggiunge anche materiale proprio con i vv.49-50, mentre i vv.52.57 sono da considerarsi soltanto redazionali, cioè funzionali al racconto. Il v.52, infatti, è introduttivo al v.53, che diviene una sorta di specificazione del v.52; mentre il v.57 costituisce la riflessione esortativa e conclusiva dei vv.54-56.
Vi è in questa riflessione conclusiva, incorniciata in
un contesto escatologico ed apocalittico, una gradualità tematica,
che funge da struttura alla stessa pericope e che già in qualche
modo si è potuta intuire nella sezione del “Testo a lettura
facilitata”:
Con i vv. 49-50 si parte dall'origine delle cose: la missione di Gesù che, sotto forma di desiderio, si allunga oltre se stesso per abbracciare l'intera umanità (v.49);
sia la sua missione che le prospettive post-pasquali, tuttavia, devono prima passare attraverso il filtro della passione e morte (v.50), che portano a compimento la sua missione, ma nel contempo gettano un'ombra su ciò che sarà il destino della Chiesa, perseguitata alla pari del suo maestro (Lc 9,23; Gv 15,20). Sarà questo, infatti, il tema dei vv.51-53;
la venuta di Gesù, la sua Parola di Vita, in cui si disvela ed opera la volontà salvifica del Padre, si pone i netto contrasto con il mondo così da produrre divisioni e persecuzioni a partire dalla più stretta ed intima cerchia familiare (vv.51-53);
serve, quindi una capacità di lettura e di comprensione dei tempi inaugurati dalla venuta di Gesù e proseguiti successivamente alla sua risurrezione; serve, per poter attingere al loro autentico significato, accostarsi ad essi con sincerità di cuore e onestà intellettuale, poiché tale significato in essi racchiuso non è immediatamente raggiungibile; serve mettere in questa ricerca almeno lo stesso impegno che si mette per la comprensione delle cose di questo mondo, allorché si intenda apprenderle e comprenderle senza distorsioni (vv.54-57);
la comprensione del significato di questi tempi, escatologici e apocalittici nel contempo, spingono il credente a comprendere come questi siano l'unico e l'ultimo spazio offertogli per il suo ravvedimento e la sua riconciliazione, oltre i quali vi è solo il giudizio, il cui esito, favorevole o di condanna, dipende soltanto da noi. Uno spazio, dunque, che non è indifferente, ma porta con sé un giudizio (vv.58-59).
Commento ai vv. 49-59
La pericope delimitata dai vv.49-59 si apre con i vv.49-50 che la incorniciano all'interno di un contesto escatologico dove, qui e ora, nell'oggi lucano, si attua l'agire salvifico di Dio non disgiunto dal suo giudizio (vv.58-59), che si compie nella passione e morte di Gesù (v.50). Si parla infatti di fuoco, di battesimo, di sofferenza, di morte, in cui va letto l'intervento di Dio; si parla di divisione e di stravolgimenti all'interno della famiglia, dove l'uno si mette insanabilmente contro l'altro (vv.51-53); si parla della necessità di saper leggere i segni del tempo presente (vv.54-56) e di convertirsi e riconciliarsi prima che si compia il definitivo giudizio divino, lasciando intendere come questo sia l'ultimo tempo utile per poterlo fare (vv.58-59). In quest'ultima sezione, pertanto, lo sfondo è squisitamente escatologico e l'esortazione finale (vv.54-59) va, quindi, presa molto seriamente, poiché se con la sua venuta Gesù ha teso all'uomo la sua mano misericordiosa, dandogli la possibilità di rientrare nella dimensione divina da cui era drammaticamente uscito (Gen 3,16-24) e farne nuovamente parte; dall'altro ha posto su di lui un giudizio, che già fin d'ora trova la sua attuazione, poiché “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde” (Mt 12,30; Lc 11,23). Un radicalismo che interpella l'uomo nelle sue scelte quotidiane e lo spinge a prendere una definitiva posizione nei confronti di Gesù, poiché anche l'indifferenza è considerata una scelta negativa nei confronti di Dio (Ap 3,16).
Il tempo di Gesù (vv.49-50)
I vv.49-50 delimitano i tempi del Gesù storico, in cui si definisce il duplice senso della sua missione: da un lato, portare il fuoco di Dio in mezzo agli uomini (v.49); dall'altro, suggellarlo e attuarlo nella sua passione e morte (v.50).
Quanto al v.49, questo è scandito in due parti: da un lato la venuta di Gesù porta con sé il fuoco (v.49a); dall'altro, Gesù esprime il suo desiderio che questo fuoco fosse già acceso (v.49b). Il fuoco34 nel linguaggio biblico è associato all'essere stesso di Dio35 e al suo agire36 ed esprime il giudizio di condanna posto in atto da Dio stesso37; ma nel contempo esso simboleggia la Parola di Dio38. Nel N.T il fuoco riproduce significati e immagini mutuati dall'A.T., ma assume anche nuovi aspetti con riferimento a contesti escatologici39, segnati dall'azione dello Spirito Santo, come in At 2,17-21 dove la predicazione di Pietro si richiama a Gl 3,1-5.
Di fronte ad una simile e variegata significanza del termine fuoco, come interpretare il senso che Luca attribuisce a tale sostantivo e tale che possa accordarsi con il resto della sezione? Due sono gli elementi che ci aiutano a comprenderne il significato: questo fuoco posto sulla terra, intendendo per terra questa dimensione spazio-temporale abitata dall'uomo e in particolare con riferimento a quest'ultimo, è stato portato da Gesù, che è manifestazione e rivelazione del Padre (Gv 5,19.30; 14,8-11); è azione di Dio in mezzo agli uomini, che opera attraverso la sua Parola, capace di rigenerare a vita nuova chi l'accoglie nella propria vita (1Pt 1,23) e con la potenza dello Spirito Santo, che opera in Gesù; un Gesù che con gli esorcismi dichiara che egli è venuto a distruggere il regno di satana e a ricostituire in mezzo agli uomini il Regno di Dio (v.11,20); ed è venuto a riprendersi ciò che gli appartiene fin dalla prima creazione. E tutto ciò lo fa con la potenza di Dio che gli è propria, significata non solo negli esorcismi, ma anche nelle guarigioni, che dicono come l'uomo che incontra Dio e a Lui si apre con sincerità di cuore viene ricostituito in novità di vita, così da farne una nuova creazione (2Cor 5,17). Una potenza divina, pertanto, quella dello Spirito Santo, che opera nella Parola e che si diffonde attraverso questa. Così che Spirito Santo e Parola costituiscono una sorta di sodalizio tale che chi ascolta la Parola e l'accoglie, è nel contempo riempito dello Spirito Santo, che lo costituisce in novità di vita e lo rende partecipe della vita stessa di Dio (Gv 14,23). Ed è quanto successe a quelli che, nella casa del centurione Cornelio, ascoltavano le parole di Pietro e le accolsero così che su di loro, ancor prima del battesimo, venne infuso da queste lo Spirito Santo su di loro (At 10,44-48). Un connubio quello tra Parola e Spirito Santo capace di generare e rigenerare alla vita stessa di Dio quanti l'accolgono. Un connubio capace di generare nuove realtà spirituali offrendo all'uomo e all'intera creazione, nata dalla Parola e dalla potenza dello Spirito di Dio (Gen 1,1-31), nuovi spazi e nuovi orizzonti, che i profeti e Giovanni nella sua Apocalisse definiscono come “cieli nuovi e terra nuova”40 e che potremmo sintetizzare con una sola espressione: Regno di Dio. Forse è proprio questo che Luca intendeva significare con quel fuoco, che Gesù è venuto a portare sulla terra, creazione della potenza divina, nuovo spazio di Dio ricostituito in mezzo agli uomini, significato nel fuoco, che esprime le variegate e insondabili sfaccettature di Dio, rivelate da Gesù. Da qui il desiderio di Gesù: “e che cosa voglio se (non che) fosse già acceso!” (v.49b), cioè già affermato. Un desiderio che va oltre il suo tempo e si proietta in quello post pasquale della Chiesa, qualificata da questo fuoco che è lo Spirito Santo, la cui potenza rigeneratrice opera nella Parola.
v.50: Ma tra l'oggi di Gesù e il tempo della Chiesa vi è di mezzo la passione e morte di Gesù, significata dal battesimo con cui Gesù deve essere battezzato. Il Gesù marciano, rivolto ai due fratelli Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che pretendevano di condividere in modo privilegiato il potere di Gesù nel suo regno, risponde: “Voi non sapete ciò che domandate. Potete bere il calice che io bevo, o ricevere il battesimo con cui io sono battezzato?” (Mc 10,38), in cui calice41 e battesimo42 sono due espressioni sinonime per indicare i destini di morte e di vita che sono riservati a Gesù e strettamente legati alla sua missione. Una passione e morte che assumono un significato escatologico ed emblematico. Escatologico in quanto che la morte di Gesù è unica, irripetibile e definitiva ed è decisiva per l'uomo e per l'intera creazione, che, loro malgrado, ne sono direttamente coinvolti (Gv 12,32-33), ponendo fine con essa all'uomo vecchio e con lui alla vecchia creazione: “Sappiamo bene che il nostro uomo vecchio è stato crocifisso con lui, perché fosse distrutto il corpo del peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato” (Rm 6,6). Sulla morte di Gesù, infatti, è stato posto il giudizio di Dio, divenendo in tal modo discriminante per gli uomini: accoglierla e viverla nella propria vita, diventa una promessa di risurrezione per il credente: “O non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova. Se infatti siamo stati completamente uniti a lui con una morte simile alla sua, lo saremo anche con la sua risurrezione” (Rm 6,3-5). Diversamente, la morte di Gesù diviene un elemento di condanna: “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà” (Lc 9,2443). È significativo in tal senso quanto l'assemblea risponde all'annuncio del celebrante: “Annunciamo, Signore, la tua morte; proclamiamo la tua risurrezione nell'attesa della tua venuta”. Il credente, dunque, è chiamato ad annunciare nella quotidianità del proprio vivere la morte di Gesù, che è morte all'uomo vecchio; ma che diviene nel contempo una proclamazione della risurrezione di Gesù, la proclamazione che in questa morte-risurrezione si sono inaugurati dei tempi nuovi, che preludono a quelli definitivi. E il tutto, annuncio della morte e proclama della vita nuova, avvengono nell'attesa della sua venuta. Una vita, dunque, squisitamente pasquale, quella del credente, sottesa da una forte tensione escatologica.
Una morte, quella di Gesù, che è anche emblematica, perché il morire di Gesù diviene il segno che caratterizza e scandisce il vivere del credente44 e tale che la sua sofferenza non solo lo rende partecipe a quella di Gesù, ma in qualche modo la completa (Col 1,24).
Il tempo della Chiesa (vv.51-59)
Definito il senso della missione del Gesù storico (vv.49-50), ora Luca passa ad esaminare i riflessi e le conseguenze di questa sulla Chiesa, che vengono scandite in tre momenti, che vanno comunque letti e compresi non in modo successivo, ma nel loro insieme: a) divisioni e sconvolgimenti all'interno della cerchia familiare (vv.51-53); b) necessità, dunque, di saper riconoscere i segni del tempo presente (vv.54-57); c) e, pertanto, la necessità di scelte radicali decisive e definitive, poiché il tempo, che viene offerto per il proprio ravvedimento, è l'ultimo. Dopo c'è soltanto il giudizio, che è già stato posto sopra ciascuno, qui e ora ed è intrinseco a ciascuna scelta che viene operata non solo dal credente, ma anche da ogni uomo, indipendentemente dalla sua fede (vv.58-59).
Lo si è appena detto come la passione e morte di Gesù sono emblematiche per i credenti e su di essi si riflettono, coinvolgendoli nelle sofferenze e nei patimenti di Gesù, perché “Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno anche la vostra” (Gv 15,20b-d). Di certo l'annuncio che Gesù è venuto a portare il fuoco di Dio su di una terra profondamente segnata dal peccato e che ragiona in termini antitetici a quelli di Dio, non è molto rassicurante e certamente non promette un mondo idilliaco per il credente. Ed ecco dunque l'annuncio, che viene scandito su tre livelli:
l'affermazione di principio: Gesù non è venuto a portare la pace, ma la divisione (v.51). Mt 10,34 parlerà in modo più incisivo ed esplicito di spada contro la pace, che dà meglio l'idea del combattimento e della guerra; una guerra che porta ad una profonda quanto insanabile divisione tra gli uomini (Mt 10,35-36) e che ha portato lo stesso Gesù sulla croce, poiché in gioco c'è la volontà del Padre e la salvezza degli uomini; c'è in gioco l'instaurazione del Regno di Dio contro quello del principe di questo mondo (Gv 12,31; 14,20; 16,11). I toni di questo v.51 sono chiaramente escatologici e richiamano da vicino quelli della comunità di Qumran, che aveva dettagliatamente elaborato la regola della guerra (IQM45) dei figli della luce contro i figli delle tenebre, preparando i propri adepti allo scontro finale in un clima di forte tensione escatologica.
Enunciazione che tale guerra sarà posta all'interno della famiglia (v.52). Un versetto questo assente in Matteo, in quanto di natura redazionale, che funge da introduzione al successivo v.53, ma che nel contempo scandisce l'inizio di questa guerra: “Da adesso, saranno divisi in cinque in una casa: tre contro due e due contro tre”. Quel “Da adesso” riguarda il tempo post pasquale, quello successivo a Gesù, quello della Chiesa. È da questo momento che ha inizio la guerra, che da contro Gesù si è trasferita ora contro la Chiesa. Un passaggio questo che verrà consacrato da Giovanni nella sua Apocalisse con la grandiosa scena del cap.12 dove la donna rivestita di sole con dodici stelle attorno al capo e la luna sotto i suoi piedi, eloquente immagine della Chiesa46, viene perseguitata duramente, ma vanamente, dal drago, che si avventò contro di lei, vomitando “dalla sua bocca come un fiume d'acqua dietro alla donna, per farla travolgere dalle sue acque”, immagine che allude alle violenti persecuzioni, scatenate contro i figli della Chiesa, i credenti (Ap 12,13-17). Luca qui parla di cinque componenti della famiglia, probabilmente, di una famiglia tipo, in cui si combattono tra loro “tre contro due e due contro tre”. Chi siano questi verrà detto al v.53.
La presentazione degli avversari all'interno della famiglia (v.53): padre-figlio, madre- -figlia, suocera-nuora, in cui probabilmente il figlio contro il padre, risulta sposato, per cui sua moglie risulta essere la nuora, che si pone contro la madre di suo marito, la suocera. Un intreccio di parentela molto stretto, ma che proprio per questa intima e profonda unione e comunione di rapporti, risalta ancor più quanto questa guerra sconvolga in profondità non solo l'assetto familiare, ma con questo, anche l'assetto sociale. Si noti come le conflittualità avvengono tra persone dello stesso sesso: padre e figlio, madre, figlia e nuora. Quasi a dire che qui lo sconvolgimento non conflagra soltanto all'interno della stretta cerchia familiare, ma anche all'interno della stessa identità sessuale, che è identità propria della persona. Un versetto questo che richiama da vicino e in qualche modo prelude gli eventi che si pongono a ridosso della passione e morte di Gesù, posti in un contesto apocalittico ed escatologico: “Ma sarete consegnati anche da genitori e fratelli e parenti e amici e (ne) faranno morire tra di voi. E sarete odiati da tutti per il mio nome” (21,16-17).
Vi è in questa descrizione della disgregazione familiare, preludio di quella sociale o forse suo riflesso, una progressività che dall'affermazione generale del v.51 penetra sempre più in profondità, passando per il v.52 e raggiungendo, infine, il v.53, all'interno dell'intimità familiare e della stessa identità sessuale e dei ruoli familiari propri dei componenti, quasi a dire che nulla si sottrarrà a questa guerra, che travolgerà anche i rapporti più intimi e più cari dell'uomo e in cui tutto verrà messo in discussione e stravolto. Uno sconvolgimento, quindi, da cui non si salva nessuno, togliendo ogni sicurezza e ogni identità.
Necessità di saper leggere con correttezza e onestà intellettuale i tempi presenti (vv.54-57)
La venuta di Gesù ha acceso un fuoco, i cui segnali consistevano in tre elementi fondamentali: l'annuncio del Regno di Dio con parola potente, accompagnata dagli esorcismi, con i quali veniva annunciata la detronizzazione di satana e l'instaurazione del Regno di Dio (11,20); e dalle guarigioni degli infermi, che preannunciavano la rigenerazione dell'uomo, che accoglie Gesù, ad una nuova vita. Tutti segni che dovevano interpellare l'ascoltatore e spingerlo ad interrogarsi sul loro senso. Soltanto in tal modo si sarebbe potuto raggiungere la Verità nascosta in Gesù e manifestatasi attraverso parole e segni. Ma l'incapacità di leggere la persona di Gesù, determinata da un suo sostanziale rifiuto, ha reso ciechi i Giudei e il mondo dei pagani (Gv 1,10-11), abili interpreti dei segni meteorologici, ma del tutto inadeguati a interpretare i segni dei tempi, preferendo conservare una tradizione ormai svuotata di ogni significato e ampiamente manipolata da una Torah orale, tale da aver oscurato quella scritta (Mt 15,9; Mc7,7), piuttosto che aprirsi alla novità di Dio rivelatasi in Gesù. Già Is 43,18-19a sollecitava il suo popolo in esilio a Babilonia (597-538 a.C.) a imparare a leggere i segni dei tempi, aprendosi al futuro: “Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?”. Un'esortazione che risuonerà simile anche in Ap 21,3-5, che presenta la novità di Gesù quale generatore di un nuovo mondo e propulsore di nuovi orizzonti: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>”.
La pericope 54-57 si apre con una battuta redazionale: “Ora, diceva anche alle folle” (v.54a). Il richiamo è alla scena con cui si apre il cap.12: assieme a Gesù e ai discepoli ci sono numerose folle (v.1a). Gesù inizia la sua predicazione “dapprima verso i suoi discepoli” (v.1b). Ora è giunto il turno delle folle. Il tema qui è l'incapacità di saper leggere i segni dei tempi, ma il motivo più profondo e più vero è l'ipocrisia su cui poggia tale incapacità, che si radica in una insincerità di cuore. I Giudei, infatti, sanno leggere molto bene i segni meteorologici, sia perché facilmente leggibili, sia perché vanno a toccare loro interessi immediati. Quindi la questione non è la difficoltà di saper leggere i segni, perché difficili, ma semplicemente perché è più comodo non leggerli, poiché questo avrebbe comportato un interrogarsi sulla novità portata da Gesù e il dover prendere una netta posizione a suo favore, la quale cosa avrebbe prodotto dei seri problemi per i discepoli47. Meglio quindi ignorare, giustificando il rifiuto accusando Gesù di blasfemia48 e di connivenza con Belzebù49. Vi è dunque in questo loro rifiuto un fondo di ipocrisia. Per questo Gesù li apostrofa come “Ipocriti”. Torna così nuovamente, qui, il tema con cui si apre la prima sezione (vv.2-12) del cap.12, richiamato dal termine “ipocrisia” che compare sia al v.1 che qui, al v.56, formando una grande inclusione.
Il v.57 potremmo considerarlo di transizione perché nel concludere il tema dell'ipocrisia (vv.54-56), esortando gli ascoltatori a valutare attentamente quanto detto sulla loro ipocrita incapacità di leggere i segni dei tempi, significati nella persona e nella stessa missione di Gesù, li sospinge parimenti, ora, a valutare attentamente quanto ne consegue: se i segni dei tempi sono quelli escatologici, significa che il giudizio di Dio è giunto nella persona di Gesù. Da qui la necessità di prendere una netta e radicale decisione esistenziale nei suoi confronti. E proprio perché sono escatologici, sono, quindi, anche gli ultimi tempi; gli ultimi che sono dati all'uomo perché prenda posizione nei confronti di Gesù, nella coscienza che qualunque essa sia, porta sempre con sé, qui e ora, il giudizio di Dio, che diverrà definitivo nel momento in cui egli entrerà nella sua eternità, dove il tempo, l'ultimo, non ci sarà più.
La breve parabola presenta, infatti, la scena di un giudizio imminente, al quale ci si può sottrarre soltanto se si troverà un accordo. I due contendenti, infatti, un debitore e un creditore, si stanno recando dal giudice. Ed è in questo breve lasso di tempo, l'ultimo che gli rimane, che il debitore può ancora accordarsi con il suo creditore. Un tempo, l'ultimo, oltre il quale non ci sarà più nessun altro tempo, ma soltanto una sentenza di condanna.
N O T E
1Cfr. At 2,41; 6,7; 11,1; 12,24; 13,48.49.
2Per nove volte Dio nell'A.T. si rivolge agli Israeliti definendoli “popolo dalla dura cervice” (Es 32,9; 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; 2Cr 30,8; Bar 2,30; Ez 3,7 ) e “generazione tortuosa e perversa ” (Dt 32,5 Ger 25,5; 26,3; 35,15).
3Cfr. At 2,41; 6,7; 8,4.25; 11,1; 12,24; 13,44; 13,48
4Cfr. Mt 23,37; 24,31; Mc 1,33; 13,27; Lc 12,1; 13,34; 17,37
5Cfr. Mt 1,20.28; 14,27; 17,7; 28,5.10; Mc 5,36; 6,50; 16,6; Lc 1,13.30; 2,10; 5,10; 8,50; 12,4.7.32; Gv 6,20; 12,15;
At 18,9; 27,24; Ap 1,17; 2,10;
6Il Risorto, rivolto all'Angelo della Chiesa d Smirne, la sollecita a non temere le persecuzioni, che avranno come esito finale di far ottenere la vita eterna: “Non temere ciò che stai per soffrire: ecco, il diavolo sta per gettare alcuni di voi in carcere, per mettervi alla prova e avrete una tribolazione per dieci giorni. Sii fedele fino alla morte e ti darò la corona della vita” (Ap 2,8-10)
7La Geenna, dall’ebraico “ghe-Hinnom” (valle del fiume Innom), è una sorta di precipizio posto a sud-ovest di Gerusalemme. In questa valle anticamente si erano eretti dei templi al dio Moloch, al quale venivano sacrificati dei bambini, secondo riti pagani cananei, a cui partecipavano anche gli ebrei (2Re 21,1-6). Il re Giosia (640-609 a.C.), nel riformare e nel ristabilire il vero culto a Jhwh, fece abbattere questi templi e ridusse la valle ad un deposito di immondizie e di cadaveri, che non potevano avere sepoltura e dove il tutto veniva bruciato (2Re 23,10). Il fuoco qui dunque era perenne. Da qui, per similitudine, la Geenna divenne la rappresentazione del luogo di ogni impurità sottoposto ad un fuoco eterno, cioè l’Inferno. Questo concetto è stato ripreso nel N.T. in cui il termine Geenna ricorre 12 volte, di cui sette solo in Matteo, e indica il luogo della perdizione eterna e del giudizio divino.
8Un asse o soldo è una moneta romana corrispondente a un sedicesimo di un denaro, la paga di una giornata di lavoro e potrebbe essere quantificato all'incirca a 1,25 dei nostri euro.
9L'immagine del capello come oggetto di poco conto si ritrova in Gdc 20,16; 1Sam 14,45; 2Sam 14,11; 1Re 1,52; Dn 3,94
10L'espressione “figlio dell'uomo” è un ebraismo che sta per “uomo”. È soltanto in Dn 7,13-14 che assume un particolare significato messianico, legato al potere di Dio e al suo giudizio
11In merito alla persona di Gesù in relazione al giudaismo cfr. il mio piccolo studio al eseguente indirizzo: https://digilander.libero.it/longi48/Perfidi%20Giudei.pdf
12Cfr. il termine “Bestemmia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005
13Trd. “Perciò chi ti ha fatto senza di te, non ti rende giusto senza di te” Sermo 169, 11, 13.
14Cfr. At 2,44-45; 4,34-37; 5,1-10.
15Cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, III edizione 1977, ristampa 2002; pagg. 62-64. Cfr. anche le voci “Eredità, Diritto ereditario” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.
16Cfr. Lc 5,20; 12,4; 22,58.60;
17Cfr. 1Re 17,18; 2Re 1,9.11.13; 4,40; Sal 54,14; Mic 6,8.
18Sul tema della vacuità della ricchezza cfr. Sal 38,7; 48,11; 51,9; 61,11; Prv 11,28; Sir 11,18-19
19Cfr. i libri di Giobbe, dei Salmi, dei Proverbi, di Qoelet o Ecclesiaste, della Sapienza, del Siracide e in Geremia.
20Cfr. Sal 38,7; 48,7-11; 49,17-18; Prv 11,4.28; Gb 27,16-23 e in Qo 2,21-23; 5,12-14; Sir 5,1; Ger 17,11;
21In tal senso cfr. 1Ts 5,23
22Cfr. 1Re 17,1-6; Gb 38,41; Sal 146,9.
23I cubito era la distanza fra il gomito e la punta delle dita, per questo era anche detto cubito naturale e serviva per misurare l'altezza delle persone o delle cose. - In merito cfr. la voce “Pesi e Misure” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione riviste ed integrata 2005.
24Cfr. Sal 73,1; 76,21; 77,52; 78,13; 79,2; 94,7; 99,3; Is 40,11; Ger 23,1-3; 31,10; 50,6; Ez 34,1-31; Mi 7,14; Zc 9,16; 10,3; Mt 26,31; Lc 12,32; Gv 10,16; At 20,28.29; 1Pt 5,2.3
25In tal senso cfr. il commento al cap.11, pag. 38
26Sulla questione cfr. “Didaché, dottrina dei Dodici Apostoli”, a cura di S. Cives e F. Moscatelli, edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (1999).
27La tunica era un abbigliamento usuale, la si portava a contatto con la pelle e raggiungeva le ginocchia o le caviglie. La si portava con o senza maniche e se queste c'erano, potevano essere corte o lunghe. Durante il lavoro o durante un viaggio o per correre se ne alzavano i lembi fino ai fianchi e si fissavano con una cintura. E il cingersi i fianchi significava il lavorare, o il tenersi pronti per un viaggio o per compiere un servizio. Esempi di fianchi cinti e le circostanze in cui si cingevano si trovano in Es 12,11; 1Re 18,46; 2Re 4,29; 9,1; Ger 1,17; Na 2,3. Sulla questione cfr. la voce “Vestito” in Nuovo Dizionario enciclopedico Illustrato della Bibbia, Ed. PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.
28Sul come si svolgevano le nozze e la loro ritualità cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, ed. Casa Editrice Marietti, Genova, ristampa della terza edizione 2002; pagg.43-44
29L'espressione “misura di grano” forse allude al pane eucaristico (At 2,42.46; 20,7; 27,35) o alla somministrazione della stessa Parola, sovente associata al pane (At 2,42; 20,11)
30La lettera è stata scritta tra il 125 e il 130 d.C.
31Cfr. L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, ed. UTET, Torino, 1986; prima edizione TEA febbraio 1994
32Cfr. Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30
33Sullo stile profetico (Is 56,10-12; Ger 2,8; 10,21; 12,10; 23,1-2; 25,34-36; Ez 34,1-10; Zc 10,3; 11,4-5), numerose sono le invettive che Gesù lancerà contro la classe dirigente di Israele per la loro ottusità religiosa e la noncuranza verso il popolo (Mt 23,1-36; Lc 11,42-44.46-47.52).
34Cfr. la voce “Fuoco” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990.
35Cfr. Es 3,2; 11,21; 19,28; 24,17; Nm 9,16; Dt 4,24; Is 4,5; 9,29,6; Ez 1,13.27; Eb 12,29
36Cfr. Es 9,23; 14,24; Sal 96,3; 104,32; Is 66,15.
37Cfr. Gen 19,24; Lv 10,1-2; Nm 11,1; 16,35; Dt 32,22; Sal 10,6; 77,21; 78, 5; Is 66,13; Ger 15,14; 17,4; 21,12; Ez 38,22; Os 8,14; Am 5,6; 7,4; Mt 3.10.12; 5,22; 7,19; 13,40; 18,8.9; 25,41; Mc 9,4348.49; Lc 3,9.17; 9,54; 17,29; Gv 15,6; Eb 6,8; 10,27; 2Pt 3,7; Gd 1,7
38Cfr. Dt 4,12.15.33.36; 5,4.22.24.25.26; 9,10; 10,4; Gb 41,11; Sal 17,9; Is 30,27.30; Ger 5,14; 20,9; 23,9
39Cfr. anche 1Cor 3,13 e 2Ts 2,7-8
40Cfr. Is 65,17; 66,22; Ap 21,1-6
41Il calice è metafora della vita, il cui contenuto riservatogli, ognuno è chiamato a bere, sia esso dolce che, sovente, amaro. In tal senso cfr. Sal 15,5; 22,5; 74,9; 115,3; Is 51,17.22; Ger 49,12; Lam 4,21; Ab 2,16; Mt 20,22-23; 26,39.42; Mc 10,38; 14,36; Lc 22,42; Gv 18,11.
42Il termine battesimo come metafora di eventi della vita attraverso i quali ogni uomo, volente o nolente, deve passare, si ritrova soltanto in . Tuttavia al suo posto viene spesso usata l'espressione simile dell'essere travolto o dalle acque. In tal senso cfr. Gb 14,19; 22,11; 2Sam 22,17; Sal 17,17; 28,3; 31,6; 68,3.15-16; 123,4-5; 143,7; Ct 8,7a; Is 17,12-13; 28,2.17; 43,2;
43Cfr. anche Mt 16,25; Mc 8,35; Lc 17,33
44Cfr. Mt 10,25.38; 16,24; Mc 8,34; Lc 6,40; 9,23; Gv 15,20; 1Ts 2,14-15
45La sigla sta per documento trovato nella I grotta di Qumaran, denominato regola della guerra, in ebraico Milhāmāh
46La simbologia della donna incoronata da dodici stelle, allude alla Chiesa al cui fondamento stanno i Dodici apostoli; il suo essere rivestita di sole dice che la sua natura è quella propria del Risorto; mentre i piedi sulla luna, il satellite che con il suo ciclo di 28 giorni, scandisce il tempo, dice che essa si trova nel tempo, ma nel contempo lo domina e lo percorre lungo i secoli.
47 Gv 9,22; 12,42; 7,13; 19,38; 20,19
48Cfr. Mt 9,3; 26,65; Mc 2,7; 14,64; Gv 10,33.
49Cfr. Mt 10,25; 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15;