IL VANGELO SECONDO LUCA


Catechesi n.1: la preghiera, schierarsi per Dio,
guardarsi dalla defezione;
sincerità di cuore nell'accogliere la rivelazione e
coerenza di vita: requisitoria contro il Giudaismo 

                                                                            (11,1-54)


Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi




Note generali

La prospettiva del vangelo lucano è essenzialmente ecclesiologica. Già lo si è ripetutamente rilevato nel corso di questo nostro studio. Si è visto come i capp. 5,1-9,17 formano tra loro un vero e proprio trattato di ecclesiologia1 e come il cap. 10 ne costituisca un'appendice conclusiva. Un'appendice dove si rileva una chiesa in fermento e in forte espansione e dove i 72 discepoli appaiono come una sorta di emanazione e di dilatazione del gruppo dei Dodici, strettamente uniti a loro, dei quali condividono la missione e partecipano dei loro poteri2. La prospettiva qui è postpasquale e vede una chiesa che si sta muovendo e affermando sempre più in mezzo alle genti, dove l'annuncio della Parola e le guarigioni dalle infermità sono gli strumenti dell'affermazione del Regno di Dio in mezzo agli uomini.

A partire da questo cap.11 e fino a tutto il cap.19,28, con cui si chiude il viaggio verso Gerusalemme, seguono nove capitoli di catechesi, composti da parabole, detti sapienziali e racconti, da cui emergono insegnamenti, esortazioni, ammonizioni, inviti alla riflessione e che formano nel loro insieme un ricco quanto irrinunciabile patrimonio di sapienza e di spiritualità cristiane, quale guida sicura della Chiesa e di ogni credente, lungo il cammino della storia. Proprio per la loro natura catechetica, non si tratta di un coordinato e logico sviluppo tematico, come nel caso dei capp. 5,1-9,17, che abbiamo definito come un piccolo trattato di ecclesiologia, ma di un amalgama di diversi temi giustapposti l'uno all'altro, benché si notino dei tentativi di raggruppare tra loro elementi tematici simili. Pertanto i singoli capitoli verranno denominati successivamente con il titolo di “Catechesi n. ...” seguito da sintetici riferimenti tematici trattati nel capitolo stesso.

La struttura del cap.11 si presenta molto elaborata. Potremmo suddividerla sostanzialmente in tre grandi sezioni: la prima (vv.1-13) riguardante la preghiera, le sue modalità di espletazione e l'oggetto della richiesta; la seconda (vv.14-32) concernente il potere esorcistico di Gesù (vv.14-23), l'irriducibilità di satana (vv.24-28) e il rifiuto di un segno da parte di Gesù che ne provi il potere esorcistico (vv.27-32); la terza sezione (vv.33-54) è incentrata sull'onestà intellettuale e spirituale necessarie nell'avvicinarsi e nell'aprirsi alla rivelazione (vv.33-36), che trova il suo esempio, ma al negativo, nel Giudaismo (vv.37-54). Ogni tema nella seconda e terza sezione è preceduto o fatto seguire, come per il v.23, posto a conclusione della prima sezione, da una breve riflessione sapienziale, tre in tutto (vv.23; 27-28; 33-36), che danno il tono al racconto che segue, mettendone in rilievo il senso.

Commento ai vv.1-54


Prima sezione: la preghiera (vv.1-13)

Testo a lettura facilitata

Cornice introduttiva (v.1)

1 – Ed avvenne che nel mentre egli era in un luogo a pregare, quando cessò, disse uno dei suoi discepoli verso di lui: <<Maestro, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli>>.

La formula di preghiera (vv.2-4)

2 – Disse loro: <<Quando pregate dite: “Padre, sia santificato il tuo nome; venga il tuo regno;
3 – il nostro pane quotidiano da a noi ogni giorno
4 – e rimetti a noi i nostri peccati, perché anche (noi) stessi (li) rimettiamo a ognuno che ci è debitore; e non metterci nella prova”>>.

Come deve essere la preghiera: assillante (vv.5-8)

5 – E disse verso di loro: <<Chi di voi avrà un amico e andrà da lui a mezzanotte e gli dicesse: “amico, prestami tre pani,
6 - poiché un mio amico è venuto da me da un viaggio e non ho di che dargli”;
7 – e quello dal di dentro rispondendo dicesse: “non mi dare fastidi; già la porta è chiusa e i miei figli sono a letto con me; non posso, alzatomi, darte(li)”.
8 - Vi dico, se anche, levatosi, non glie(li) darà per essere suo amico, di certo per la sua sfrontatezza, levatosi, gli darà quanti (ne) ha bisogno.

Esortazione alla preghiera (vv.9-11)

9 – E io vi dico. Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
10 – Infatti, ognuno che chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

Oggetto della preghiera (vv.11-13)

11 – Ora, (se) ad un padre tra voi il figlio chiederà un pesce e al posto del pesce gli darà un serpente?
12 – o (se) anche chiederà un uovo, gli darà uno scorpione?
13 – Se dunque voi che siete cattivi sapete dare doni buoni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che (è) dal cielo, darà lo Spirito Santo a quelli che lo chiedono>>.


Note generali

Questa prima sezione è dedicata interamente alla preghiera, alla sua qualità e all'oggetto delle sue richieste ed ha un'impronta catechetica e parenetica nel contempo. I discepoli, in quanto tali, chiedono di essere istruiti sul come pregare (v.1). L'insegnamento si svolge per tematiche (vv.2-4), in modo parabolico (vv.5-8) ed esortativo (vv.9-10), ricorrendo ad esemplificazioni (vv.11-12), che inducono i discepoli a focalizzare l'oggetto della preghiera: lo Spirito Santo. La preghiera, infine, viene formulata in modo tale da sintetizzare gli insegnamenti principali. I diversi passaggi del “Padre nostro”, infatti, più che una vera propria preghiera, sembrano enunciazioni di temi di catechesi assemblati tra loro, che devono caratterizzare la vita del discepolo e del credente. Una formula, dunque, di preghiera, ma anche mnemonica, per ricordare al discepolo-credente da cosa deve essere sottesa la sua vita e quale debba essere l'oggetto costante della sua richiesta al Padre.

La dinamica di questa sezione, pertanto, è catechetica e, muovendosi su logiche didattiche, non si può escludere che essa rifletta in qualche modo la catechesi battesimale, in cui venivano istruiti i catecumeni, lasciando trasparire in qualche modo la tecnica del loro ammaestramento: enunciazione dei temi, oggetto del loro insegnamento, sotto forma di preghiera, che li deve accompagnare lungo il cammino della loro vita e diventare non solo oggetto di preghiera, ma anche motivo di riflessione costante su di essi; il tutto viene supportato da parabole, esemplificazioni ed esortazioni. Ma ciò che più lascia intendere che qui ci si trovi di fronte ad una catechesi battesimale è la conclusione esortativa di questa sezione: chiedere al Padre il dono dello Spirito Santo, che veniva infuso nel battesimo.

La preghiera del “Padre nostro” viene qui formulata in modo completamente diverso da quella matteana, che risente, per la sua accurata formulazione, sia di un suo uso liturgico ormai ampiamente consumato, sia, ancor prima, del contesto giudaico e giudeocristiano in cui è nata. Il “Padre nostro” matteano, infatti, può essere pensato come ad una riformulazione e ad un riadattamento, da parte dell'ambiente giudeocristiano palestinese, del Qaddish3 (Santificazione) e delle Shmoneh Esreh4 (le Diciotto benedizioni), che facevano parte della vita liturgica e quotidiana del giudaismo e formavano, assieme allo Shemà Israel (Ascolta sraele), la spiritualità del pio ebreo. Non si può quindi parlare di una preghiera originale, sgorgata dall'inventiva e dalla spiritualità di Gesù, quanto piuttosto di una rielaborazione e una sintetica ricomposizione di preghiere già esistenti nel culto ebraico, a cui il “Padre nostro” si è ispirato da vicino e in buona parte ne ha mutuato i contenuti.

La formula lucana, pur sempre di fonte Q come quella matteana, riproduce, quasi certamente, il testo originale. La formulazione e i passaggi da un tema ad un altro, infatti, sono privi di interventi redazionali, ma si presentano in modo grezzo come un susseguirsi di accostamenti tematici, discostandosi notevolmente dall'elegante e piacevole stile narrativo di Luca. Entrambe le formule hanno in comune cinque elementi originali. I due elementi in più, che si riscontrano nella formula matteana, vanno considerati come aggiuntivi e, quindi, redazionali. Infatti, le due richieste aggiuntive di fatto non aggiungono niente alla richiesta originale a cui sono accostati, ma semplicemente la specificano. Per cui, al comune “Venga il tuo regno”, Matteo aggiunge “si compi la tua volontà, come in cielo anche in terra” (Mt 6,10b). Un'esortazione questa che è già implicitamente ricompresa nel “Venga il tuo regno”; così similmente, al comune “non metterci nella prova” Matteo aggiunge, completandone il senso, “ma proteggici dalla perversione”, che nel contesto storico di persecuzione a cui erano sottoposte le comunità credenti di quel tempo, fa rima con “defezione” o “apostasia”, la quale cosa lo stesso Luca paventerà, quasi subito dopo il suo “Padre nostro”, ai vv.24-26.

La struttura di questa prima sezione si snoda su cinque punti, già anticipati nella sezione del “Testo a lettura facilitata”. Per cui si avrà:

  1. Una cornice introduttiva che, se da un lato dà il tono all'intera sezione e ne annuncia il tema, dall'altro presenta Gesù come esempio e maestro di preghiera (v.1);

  2. la formula lucana del “Padre nostro”, sintetica ed essenziale, che scandisce i temi della catechesi cristiana (vv.2-4);

  3. la parabola, che presenta la caratteristica fondamentale della preghiera: deve essere assillante, cioè incessantemente continua e tale da formare uno stile di vita (vv.5-8);

  4. pertanto, ecco l'esortazione a fare della propria vita una preghiera, che si snoda su tre verbi, che devono dare il ritmo di preghiera alla propria vita: chiedete, cercate, bussate. (vv.9-10)

  5. L'oggetto della preghiera: sull'onda delle dispute rabbiniche, a minore ad maius, viene introdotto l'oggetto della richiesta al Padre: se i padri terreni, pur essendo cattivi, sanno dare cose buone ai figli, similmente e ancor di più il Padre celeste sa dare le sue cose buone, come lo Spirito Santo, mirabile dono di Dio agli uomini, che in Lui vengono associati alla sua stessa vita divina (vv.11-13).

Commento ai vv.1-13

Cornice introduttiva (v.1)

Il primo versetto del cap.11 funge da cornice introduttiva della prima sezione (vv.1-13) riguardante la preghiera, che ha il suo vertice nella formula del “Padre nostro”, che in Mt 6,9-13 viene collocato all'interno del primo grande discorso5, del quale riserva la pericope 6,5-15 al tema della preghiera. La prospettiva matteana della preghiera rientra pertanto all'interno della sapienza e della ricchezza spirituale del credente. Diversamente Luca vede la preghiera come una relazione di comunione con il Padre, che ha il suo esempio e la sua fonte in Gesù.

Il v.1 si apre con un'espressione cara a Luca: “Kaˆ ™gšneto” (Kaì eghéneto, Ed avvenne). È il verbo dell'accadere con cui Luca scandisce l'accadere della storia della salvezza. Ciò che pertanto tale verbo regge va compreso all'interno di questo progetto salvifico, che in Gesù, nei suoi discepoli, nella chiesa e negli stessi credenti si va lentamente attuando, prendendo forma in quel Regno di Dio che Luca vede vicino (10,9), anzi, già giunto in mezzo agli uomini (11,20). E ciò che qui sta accadendo sono due eventi: da un lato Gesù è presentato in preghiera; dall'altro i discepoli, già configurati a Gesù nei suoi poteri (9,1-2), gli si vogliono configurare anche nella preghiera. Due momenti consequenziali l'uno all'altro: la preghiera di Gesù cessa e trova ora la sua continuità in quella dei discepoli. Due momenti, pertanto, tra loro separati dal verbo “cessare”, che segna da un lato la fine di un tempo storico, quello di Gesù, e l'inizio di un altro tempo, quello della Chiesa. Un verbo, quindi, che funge da spartiacque tra il prima e il dopo. Esso, infatti, è inserito in un contesto postpasquale, già prospettato nei capp.9,1-17 e 10, e vede qui il cessare della preghiera di Gesù, che prosegue ora in quella dei discepoli, che già gli sono configurati quanto ai poteri e al mandato (9,1-2; 10,16). Lo stesso modo di esprimersi dei discepoli nei confronti di Gesù dice che qui ci troviamo in un tempo successivo al Gesù della storia: “Signore”, un titolo con cui i discepoli designavano il Risorto. Viene qui pertanto sottolineato come la preghiera dei discepoli ha la sua origine non nella pietà dei discepoli, bensì in Gesù stesso. Una preghiera, quella di Gesù, che va ben oltre a delle semplici formule, ma si presenta come una profonda ed intima comunione di vita tra lui e il Padre in cui ora sono coinvolti anche i credenti6, che proseguono in loro quella stessa preghiera di Gesù. Una preghiera, che è un modo di essere in e con il Padre, e che i discepoli mutuano da Gesù stesso. Tuttavia, non c'è nulla di miracolistico, ma tutto viene posto sotto l'egida dell'insegnamento, di una catechesi. Compare, infatti, qui per due volte il verbo che è proprio dell'ammaestramento: “did£skw” (didásko, insegnare, istruire). E il termine di paragone qui è Giovanni e i suoi discepoli, come dire il maestro e i suoi discepoli. Una figura questa che soltanto Luca richiama non solo qui, ma anche in 5,33. Una figura che l'evangelista forse, nel suo girovagare missionario, sentiva ancora molto presente presso le comunità credenti e tale da creare anche stati di conflittualità tra queste due scuole, quella del Battista e quella di Gesù, che meglio si riscontrano nel vangelo giovanneo. I discepoli di Gesù, pertanto, si muovono sulla stessa scia del rapporto tra Giovanni e i suoi discepoli, tra il maestro e i suoi discepoli. Ciò che i discepoli, tuttavia, qui chiedono non è tanto quello di insegnare loro una qualche tecnica di preghiera, quasi una sorta di formula magica che consenta un particolare rapporto privilegiato con la divinità. La preghiera che i discepoli chiedono a Gesù, come si evince ai vv.2-4, è una preghiera che sia distintiva del suo insegnamento, che in qualche modo lo raccolga e lo sintetizzi e ne tracci gli aspetti più importanti e significativi, così che la preghiera diventi una sorta di promemoria dell'insegnamento di Gesù, in cui si traccia in qualche modo il cammino di Vita; una preghiera in cui è racchiusa la chiave stessa della Vita.

La formula di preghiera (vv.2-4)

Obbedienti al comando del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, osiamo dire: Padre nostro ...”. Così la tradizione della Chiesa ci ha passato la preghiera del “Padre nostro” come la preghiera per eccellenza inventata da Gesù e insegnata ai suoi. Una preghiera che certamente contiene in se stessa i tratti essenziali del suo insegnamento o, quanto meno, ne riflette in qualche modo il pensiero. Definirla tuttavia come originaria di Gesù e da lui così formulata sembra azzardato. Si tratta, come si è visto sopra, di una formula che contiene in realtà una sorta di amalgama di preghiere ebraiche variamente e prevalentemente mutuate dal Qaddish e dalle Shemoneh Esreh. Già le due diverse formulazioni della stessa preghiera dicono come questa abbia avuto una sua storia molto complessa al punto da poter pensare a due diverse tradizioni all'interno della stessa fonte Q; benché sia più credibile che quella lucana sia la formula originaria proprio perché più breve e meno elaborata, mentre quella matteana, finalizzata all'uso prevalentemente liturgico, ha subito notevoli rimaneggiamenti e adattamenti, diversamente da quella lucana. Tutto questo non sarebbe accaduto se la preghiera fosse uscita dalle labbra di Gesù.

Luca presenta il “Padre nostro” più che come una preghiera, come una enunciazione di tematiche, che racchiudono i tratti fondamentali su cui si fondano le comunità credenti e le loro relazioni intracomunitarie.

Già fin dalla suo inizio l'invocazione è rivolta a Dio non come “Padre nostro”, bensì come “Padre”, la quale cosa tradisce in qualche modo lo spirito missionario di Luca rivolto al mondo dei pagani. L'aggettivo possessivo “nostro” infatti, se da un lato dice l'appartenenza del credente a Dio che sente come Padre, dall'altro delimita la natura di questo Padre, il quale, se è “nostro”, non può essere di altri; di fatto escludendo tutto il mondo che sta al di là dei propri confini. Il “nostro” è delimitativo e tende, più che abbracciare, a discriminare, tradendo in qualche modo la natura stessa di Dio, che “che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (Mt 5,45b). Vi è infatti “Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4,6). Tuttavia il sentire Dio come Padre non è esclusivo del N.T. ma già nel Primo Testamento Jhwh è percepito come tale e tende a sottolineare l'origine divina di Israele7: “Allora tu dirai al faraone: Dice il Signore: Israele è il mio figlio primogenito; Io ti avevo detto: lascia partire il mio figlio perché mi serva! Ma tu hai rifiutato di lasciarlo partire. Ecco io faccio morire il tuo figlio primogenito!” (Es 4,22-23) e similmente in Dt 3,6.18: “Così ripaghi il Signore, o popolo stolto e insipiente? Non è lui il padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito. La Roccia, che ti ha generato, tu hai trascurato; hai dimenticato il Dio che ti ha procreato!”. Ma benché Dio sia Padre per Israele, questa sua paternità lo è soltanto in senso metaforico e tende a definire un modo di sentire e di rapportarsi di Israele con Jhwh.

Nel N.T. Dio continua ad essere sentito, designato e invocato come Padre8. Nel vangelo di Matteo, espressioni come “Padre”, “Padre nostro”, “Padre vostro”, “Padre celeste o che è nei cieli”, “Padre mio o tuo” e simili ricorrono per ben 43 volte a testimonianza di come il Giudaismo sentisse profondamente la paternità divina. Matteo, infatti, è quasi certamente quello scriba, che dopo aver incontrato Gesù se ne fa suo discepolo (Mt 8,19) e “fattosi discepolo del regno dei cieli” diviene “simile ad un uomo, padrone di casa, che tira fuori dal suo tesoro cose nuove e antiche” (Mt 13,52)9, così che queste persistenti invocazioni di Dio come Padre lasciano trasparire anche la preoccupazione, quasi ossessionante, di Matteo di trasmettere alla sua comunità tale senso della paternità divina, in cui i nuovi credenti sono pienamente coinvolti ancor più che nel Giudaismo e lo sono in un modo completamente nuovo e diverso. In Marco il termine Padre ricorre solo due volte (Mc 13,32 e 14,36) ed è riferito esclusivamente a Gesù; mentre in Luca ricorre 17 volte, ma soltanto cinque volte con riferimento alla paternità nei confronti dei credenti10. Luca, tuttavia, con una creazione sua esclusiva, la parabola del “Figliol prodigo”, canta in modo mirabile la paternità di Dio nei nostri confronti: indipendentemente dalla posizione in cui noi ci troviamo nei suoi confronti egli ci è sempre e comunque Padre. Non più un Padre padrone, un Padre giudice, un Padre la cui paternità ci viene rinfacciata dopo ogni nostra defezione, ma sempre accogliente, sempre disponibile, che con ansia è in attesa del nostro ritorno ed è lì pronto ad abbracciarci e a fare festa per ciascuno di noi (15,11-32).

Come già si può intuire, nel N.T., con la venuta di Gesù, cambia radicalmente il concetto di Padre e il modo di rapportarsi a lui. Dio non è più metaforicamente Padre, ma lo è realmente per ogni credente, che da lui è stato generato nel sangue di Gesù per mezzo dello Spirito: “Ma quanti lo accolsero, diede loro potere di diventare figli di Dio, a coloro che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo, ma da Dio vennero generati” (Gv 1,12-13). Una generazione che avviene attraverso l'acqua e lo Spirito (Gv 3,3-7). Similmente Gal 4,4-7 insiste sulla figliolanza divina avvenuta per adozione nel Figlio: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare coloro che erano sotto la legge, perché ricevessimo l'adozione a figli. E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abba, Padre! Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio”. E 1Gv 3,1a rimarcherà questo concetto di reale figliolanza: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!”. Ma Ef 2,19 va oltre, affermando che “voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio”. La posizione dei nuovi credenti nei confronti di Dio, pertanto, è quella di essere non solo “concittadini dei santi”, cioè di quelli che appartengono alla cerchia di Dio, ma sono “suoi familiari”, sottolineando non soltanto la stretta figliolanza, ma anche la profonda comunione di vita che li lega a Dio e in Dio ad ogni altro credente, creando in in tal modo un'unica e grande famiglia divina, in cui Dio è l'unico Padre di tutti (Ef 4,6). E tutto ciò è plausibile poiché Gesù ha condiviso con noi il suo stesso Padre (Gv 20,17b), così che noi siamo divenuti figli nel Figlio.

Il primo assioma è l'esortazione “sia santificato il tuo nome”. Il verbo greco qui è un aoristo imperativo passivo in forma iterativa. In quanto aoristo, corrispondente all'incirca al nostro passato remoto, definisce un'azione puntuale nel tempo. C'è stato, dunque, un momento in cui è iniziata questa santificazione, che è, come vedremo subito, manifestazione di Dio, che è essenzialmente donativa a favore dell'uomo. Tende, cioè a inglobare l'uomo nella vita stessa di Dio. Tale momento ha il suo inizio storico con la creazione, che è manifestazione rivelativa; prosegue, poi, nella chiamata di Abramo, nella elezione di Israele, nei profeti per trovare, infine, la sua piena affermazione nel Risorto e continua ora nella Chiesa e nei credenti. Per questo potremmo considerare tale aoristo come iterativo, cioè un'azione che, avuto il suo inizio puntuale nel tempo, come un'eco si espande continuamente e si riverbera sugli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine, indipendentemente dalla posizione in cui questi si trovino. Ed è, infine, un verbo posto al passivo, la quale cosa va interpretata come un passivo divino o teologico, poiché il soggetto di tale verbo è Dio stesso. L'esortazione esclamativa, pertanto, non è rivolta verso i credenti o gli uomini in genere, esortandoli a santificare il Padre, ma la supplica è rivolta al Padre, esortandolo a santificare sempre il suo nome in mezzo agli uomini. Che cosa questo significhi viene chiarito da Sir 36,3, in cui si invoca Dio a manifestarsi nella sua onnipotenza e nella sua grandezza in Israele e nei confronti dei suoi nemici: “Come ai loro occhi ti sei mostrato santo in mezzo a noi, così ai nostri occhi mostrati grande fra di loro”. L'esortazione, pertanto, è un invito al Padre di manifestarsi per quello che egli è realmente: Santo. La santità, infatti, è un attributo riferibile soltanto a Dio, che lo qualifica in modo esclusivo nella sua natura divina, così che egli soltanto può giurare sulla sua Santità (Sal 88,36a), cioè su se stesso. In cosa consista questa santità ci viene suggerito da Os 11,9: “Non darò sfogo all'ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira”. La santità, quindi, qualifica Dio stesso nella sua natura, che viene contrapposta a quella dell'uomo: Dio non è un uomo, poiché egli è il Santo. La santità, pertanto, segna il limite invalicabile tra Dio e l'uomo. È significativo in tal senso il racconto di Es 19,9-25, dove il popolo, raccolto ai piedi del monte Sinai, che Dt 5,4 definirà come il monte di fuoco, nel frangente in cui Dio sta per scendere sul monte e manifestarsi in tutta la sua terribile onnipotenza, viene diffidato da Dio stesso, pena la morte, a oltrepassare il limite invalicabile tra il monte, il luogo della santità di Dio, e il popolo: “Fisserai per il popolo un limite tutto attorno, dicendo: Guardatevi dal salire sul monte e dal toccare le falde. Chiunque toccherà il monte sarà messo a morte” (Es 19,12). Un limite che dice tutta la distanza incolmabile che intercorre tra Dio e l'uomo. E similmente allorché Mosè chiederà a Dio di mostrargli la sua Gloria (Es 33,18-23). Dio acconsentirà, ma gli proibirà di guardarlo in volto poiché nessuno può guarda Dio e rimanere vivo: “Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo” (Es 33,20). La Gloria di Dio non è un attributo diverso dalla Santità, ma ne costituisce una sfaccettatura. Per questo la pena per l'uomo è sempre la morte. Tutto ciò dice l'incompatibilità tra l'uomo decaduto, in cui l'immagine e la somiglianza con Dio si sono spente, e Dio stesso. Da qui la pressante esortazione di Lv 19,2 di diventare santi perché Dio è santo, anzi è il Santo per definizione e Signore di ogni santità (2Mac 14,36a): “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo”. Un invito ad avvicinarsi a Lui a partecipare della sua Santità nell'osservanza della Legge, ma irrealizzabile per l'uomo a motivo della sua fragilità (Rm 7,1-25). Per questo si dovrà attendere la venuta di Gesù nel quale e per il quale non vi è più nessuna condanna per l'uomo: “Non c'è dunque più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte” (Rm 8,1-2). Egli, infatti, “vi ha riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto” (Col 1,22). La Santità del Padre, pertanto, trova la sua piena manifestazione in Gesù e nel Gesù risorto e punta alla santificazione dell'uomo, a riassorbire, cioè, l'uomo nella stessa dimensione divina da cui è drammaticamente uscito e con lui l'intera creazione (Rm 8,19-23).

Il secondo assioma è l'invocazione per la venuta del Regno di Dio: “Venga il tuo regno”. Se l'esortazione “Sia santificato il tuo nome” sollecitava il Padre a rendersi manifesto nella sua natura divina e di Padre in mezzo agli uomini, la quale cosa trova la sua piena attuazione in Gesù, manifestazione e rivelazione stessa del Padre (Gv 5,19.30; 14,8-11), al quale si rivolge chiamandolo “Padre santo” (Gv 17,11b), mentre Gesù stesso è riconosciuto come il “Santo di Dio” (Gv 6,69), in quanto manifestazione della sua stessa santità, spesa a tutto favore degli uomini, che vengono attirati in lui e a lui conformati (Gv 3,16; 12,32), il “Venga il tuo Regno” dice come tale manifestazione e rivelazione del Padre siano state rese definitive e stabili nel Risorto e come il suo potere sia stato ristabilito in mezzo agli uomini. Sia i miracoli che, in particolar modo gli esorcismi, vanno in questo senso. Negli esorcismi viene posto fine allo strapotere di satana (Gv 12,31; 14,30; 16,11), mentre nei miracoli viene prefigurata la guarigione e la rigenerazione dell'uomo, sottratto al potere del diavolo e ricollocato in Dio, al quale apparteneva fin dal momento della sua creazione (Gen 1,26-28). In Gesù, quindi, il Padre non solo si è manifestato e rivelato agli uomini, ma è venuto a riprendersi ciò che da sempre era stato suo fin dalla creazione, anzi ancor prima della creazione (Ef 1,4). Un Regno dai tratti messianici, che già in qualche modo era stato prefigurato in quello di Davide, al quale Dio, per mezzo di Natan, aveva promesso una discendenza (Gal 3,16.19) e un Regno stabile e duraturo: “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu giacerai con i tuoi padri, io assicurerò dopo di te la discendenza uscita dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno. Io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio” (2Sam 7,12-14a); mentre Gesù entrando in Gerusalemme tra le grida di gioia dei suoi discepoli, che videro i suoi portenti, viene acclamato <<Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore; pace nel cielo e gloria nelle altezze>> (19,37-38). Gesù, dunque, è riconosciuto re di quel Regno messianico promesso a Davide. Ma sarà Gv 18,33-38 che metterà a fuoco la regalità di Gesù, che non è di questo mondo, così come il suo Regno non vi appartiene. Re e Regno sono due realtà metastoriche, ma che in qualche modo già appartengono anche alla storia, anche se non ancora pienamente e definitivamente ed anche se non ancora in modo apertamente manifesto. È, dunque, un Regno in fieri. E Gesù è venuto a rivelarlo agli uomini, dandone loro attestazione: “Gli disse dunque Pilato: <<Dunque, tu sei re?>>. Rispose Gesù: <<Tu dici che sono re. Io per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità; ognuno che è dalla verità ascolta la mia voce” (Gv 18,37). E la verità che Gesù è venuto a portare e attorno alla quale convoca gli uomini è la rivelazione stessa del Padre che l'uomo, liberato dal potere di satana è stato ricollocato in quel Dio, dal quale era drammaticamente uscito ancora nei primordi dell'umanità. Dio, dunque, in Gesù è ritornato in mezzo agli uomini per ristabilire il suo potere in mezzo a loro e riprendersi ciò che gli appartiene fin da principio. Tutto questo è racchiuso nei termini di Re e di Regno, che definiscono con linguaggio umano rispettivamente chi detiene il potere e il luogo dove tale potere si esprime, che tuttavia non hanno un senso limitativo, bensì espansivo poiché possiedono la stessa dimensione di Dio. L'invocazione “Venga il tuo Regno” va letta, tuttavia, in una prospettiva escatologica del “già, ma non ancora”. Essa, sollecita il Padre perché questo suo Regno e la sua regalità siano rese anche manifeste agli uomini nella loro pienezza definitiva. Un'esortazione che trova una sua eco nella pressante invocazione delle prime comunità credenti “Maranà tha”, “Vieni Signore nostro”11 ( 1Cor 16,22b; Ap 22,20b).

Termina qui la prima parte del “Padre nostro” dedicata al Padre, alla sua manifestazione, rivelazione ed affermazione in mezzo agli uomini, che trovano la loro pienezza nella persona di Gesù. Lo sfondo su cui si muove questa prima parte, dedicata al Padre, è l'uomo verso il quale è rivolta la manifestazione, la rivelazione e l'affermazione del Regno di Dio. Vedremo, ora, come le cose nella seconda parte del “Padre nostro” si invertono.

Il terzo assioma “il nostro pane quotidiano dà a noi ogni giorno” apre la seconda parte del “Padre nostro”, dedicata all'uomo, colto nelle sue necessità quotidiane e nei suoi rapporti con gli altri. Lo sfondo su cui si muovono qui le invocazioni ha per attore principale il Padre, che si intreccia con le esigenze dell'uomo.

Il pane costituiva nell’antichità l’elemento base e indispensabile dell’alimentazione12 e sovente nell’A.T. era preso come sinonimo di cibo in genere13. Per la sua importanza nell’alimentazione e nella vita, a cui è associato, il pane diviene talvolta, nell’ambito della riflessione sapienziale, metafora di particolari condizioni esistenziali dell’uomo14. Esso spesso si accompagna assieme all’acqua, così che pane ed acqua simbolicamente costituivano il minimo indispensabile per il sostentamento del povero e del popolo in genere15; meno frequente è l'accoppiamento pane-vino, che compare soltanto 12 volte in tutto l’A.T. con riferimento a situazioni particolari, che richiamano l’abbondanza o il privilegio e comunque non estendibili al comune nutrimento del popolo16. Il pane è il frutto di una vita attiva ed operosa, saggiamente condotta17 e strumento anche di carità verso gli indigenti, che rende l’uomo gradito a Dio18. Il pane sovente è colto come oggetto di benedizioni (Es 23,25) e strumento, a sua volta, di particolari benedizioni e attenzioni divine verso l’uomo19. Espressione della vita e del sostentamento dell’uomo, il pane assume una sua sacralità all’interno dei rituali e del culto divini20, divenendo anche sinonimo di sacrifici offerti a Jhwh, che sono definiti come il “pane di Dio”21. Ma la sublimità del pane veterotestamentario tocca il suo vertice nella promessa che Dio fa al suo popolo nel deserto e che contiene in sé scenari messianici inattesi e insospettabili, che soltanto la riflessione sapienziale lascerà trasparire come in filigrana, ma non riuscirà ancora chiaramente a dipanare22: “Allora il Signore disse a Mosè: <<Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi …>>” (Es 16,4a). Il popolo si nutrirà di questo pane celeste, figura di un altro pane che Dio ha in serbo per i suoi fedeli. Un pane che proviene da Dio e sul quale Egli detterà le sue regole e le sue condizioni per potersene cibare (Es 16,4b-5), per far comprendere al popolo come la vita e il suo sostentamento dipendono da Lui.

Nel N.T. il pane attenua notevolmente la sua concretezza del vivere quotidiano, benché essa non venga negata23, per assumere prevalentemente sfumature simboliche e metaforiche fino a identificarsi con la persona stessa di Gesù (Gv 6,48-51) e segno della sua viva e reale presenza (22,19-20).

Il termine pane compare per la prima volta nel N.T. come l’oggetto di prova per Gesù (Mt 4,3; Lc 4,3), che deve scegliere tra un facile messianismo e il compiere in diverso modo la volontà del Padre, rinunciando alle sue prerogative divine24. Il pane diviene anche motivo di preghiera da parte della comunità, che riconosce in tal modo come tutto provenga da Dio e tutto sia suo dono (Mt 6,11; Lc 11,3). Come per l’A.T. , proprio per la centralità che ricopre il pane nella vita dell’uomo, esso diviene anche metafora e motivo di esemplificazioni nei racconti evangelici25. Il pane diviene il segno della partecipazione al Regno di Dio (Lc 14,15) e all’abbondanza dei tempi messianici26; ma sarà soltanto in Giovanni che questo pane acquisirà il suo significato più vero e profondo e si rivelerà come il vero cibo per il credente, assumendo le fattezze della carne e del sangue di Gesù stesso, pane che si spezza per tutti, e in qualche modo prefigurato nell’episodio veterotestamentario della manna27. Ma la verità di questo pane si disvela pienamente nell’ultima cena, dove Gesù con la potenza della sua Parola crea una sorta di identificazione tra il pane e la sua persona, legando ad esso la sua reale presenza28, così che il gesto dello spezzare il pane diviene una sorta di sinonimo della cena del Signore (Lc 24,35). E a questo gesto sono legate le prime comunità credenti; un gesto, divenuto il comune linguaggio per indicare la celebrazione rituale e cultuale dell’ultima cena29.

In questo sintetico excursus biblico sul pane, necessariamente incompleto, possiamo rilevare l’evolversi della significazione del pane da semplice cibo-base dell’uomo, che lo sostiene e lo nutre quotidianamente, a simbolo di realtà celesti che trovano il loro definitivo compimento nella persona stessa di Gesù, passando attraverso un lento e graduale cammino simbolico-metaforico trasformatore, ma senza mai perdere la sua primaria identità di fondamentale nutrimento quotidiano per l’uomo, da cui anche la nuova accezione mutua parte del suo nuovo significato.

E Matteo, diversamente da Luca, si inserirà in questo contesto di nuova significazione del pane. Luca, invece, preferisce soffermarsi sulla necessità quotidiana del pane, come alimento corporale dell’uomo, e dove il termine pane sta per nutrimento in genere. L'indicazione viene suggerita dalla diversa impostazione testuale delle due formule molto simili tra loro, ma profondamente diverse per l’uso del verbo didomi e le due espressioni avverbiali semeron per Matteo e katz’emeran per Luca. Di conseguenza diverso significato va attribuito anche alla comune espressione epioúsion.

Analisi testuale

tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion d…dou ¹m‹n tÕ kaq' ¹mšran: (Lc 11,3)

(tòn árton emôn tòn epiúsion dídu emîn tò katz'emeran)

tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion dÕj ¹m‹n s»meron: (Mt 6,11)

(tòn árton emôn tòn epiúsion dòs emîn sémeron)


Quanto al verbo “didomi”, Luca lo pone all’imperativo presente indicativo (dídou). L’uso del presente in greco dà all’azione un senso di contingenza e di continuità nell’oggi; un oggi che si protrae nel tempo (katz’emeran, ogni giorno). Il verbo al presente pertanto esprime un’azione durativa, evidenziando il compiersi dell’azione, la cui durata tuttavia non si esaurisce nell’azione stessa30, ma viene perpetuata nell’oggi proprio dall’espressione temporale to katz’emeran, che potremmo tradurre con “di giorno in giorno”31. Il senso pertanto della frase lucana è fortemente legato all’oggi, colto nel suo dinamico divenire quotidiano che qualifica il pane, legandolo alle strette e contingenti necessità giornaliere proprie dell’uomo. Non v’è dubbio pertanto, a nostro avviso, che Luca, quando qui parla di pane, intende riferirsi al cibo, colto come un dono proveniente dal Padre, da cui la vita stessa dell’uomo dipende nelle sue necessità. La radicalità dell’oggi oltre che essere evidenziata dall’espressione verbale katz’emeran è rafforzata anche dalla stessa teologia lucana dell’oggi, quale luogo privilegiato in cui si compie l’azione salvifica di Dio32.

Diversa è la prospettiva di Matteo. Il verbo didomi qui è posto all’imperativo aoristo (dos), un aoristo che, a nostro avviso, è di tipo ingressivo; una ingressività che gli viene assegnata dall’avverbio temporale semeron (oggi); tale avverbio, se da un lato radica nel presente l’azione del dono (oggi), dall’altro le assegna un punto di partenza lontano (dos). Questo donare pertanto viene visto come un’azione puntuale nel tempo (aoristo), colta nel suo punto iniziale33 che si protrae nell’oggi (ingressività). A cosa dunque pensa Matteo con questa invocazione? Considerando che si tratta di un’azione che si pone nel passato e da lì trae la sua origine, ma che continua anche nell’oggi, sembra di poter concludere che qui Matteo stia pensando al pane dell’ultima cena del Signore. Tale riferimento sembra essere rafforzato da quel semeron. L’invocazione matteana infatti prevede che questo dono non sia dato a piene mani tutti i giorni o in qualsiasi momento, ma soltanto semeron, cioè solo per oggi, perché non si tratta di un pane atto a soddisfare una fame corporale più volte al giorno, ma un pane di comunione che lega e fonde l’intera comunità con il suo Signore ogni giorno, facendo delle due realtà una cosa sola (1Cor 10,17); un pane che è stato dato dal Padre per la vita del mondo (Gv 6,51). Questa unicità del dono, ristretta all’oggi, richiama molto da vicino l’episodio della manna, là dove Jhwh, rivolto a Mosè dice: “<<Ecco, io sto per far piovere pane dal cielo per voi: il popolo uscirà a raccoglierne ogni giorno la razione di un giorno …>> (Es 16,4a) e questo per far capire al popolo come quel pane è un dono esclusivo di Dio e come la sua vita dipenda esclusivamente da Lui. Non è un dono di cui si possa abusare, farne incetta, riempire i granai e farne commercio. È un pane legato strettamente all’oggi dell’uomo e finalizzato al suo sostentamento nell’oggi, poiché il domani è soltanto nelle mani di Dio. è un pane che va ricercato pertanto nei ristretti confini dell’oggi dove si trova Jhwh, che cammina con il suo popolo. “Io sono colui che sono”, una definizione del suo nome e della sua natura che dice presenza nell’oggi, una presenza che non è quotidianità, non è cioè presenza scontata che si ripete stancamente, ma va ricercata e invocata, poiché “Il Signore è vicino a quanti lo invocano, a quanti lo cercano con cuore sincero” (Sal 144,18). Un dono quindi che si rende presente ogni giorno e si fa nutrimento spirituale per l’uomo che lo cerca. Il pane invocato da Matteo pertanto non è cibo per il corpo, come per Luca, ma forza spirituale che sgorga dal pane eucaristico e che deve sostenere la comunità credente lungo il difficile cammino della fede e della testimonianza. Tale senso viene sostenuto anche nei versetti successivi (Mt 6,25-34), dove l’evangelista invita i suoi discepoli a non spendere il loro tempo in una affannosa ricerca delle cose materiali, ma ad anteporre ad esse la ricerca dei beni spirituali; non una ricerca proiettata nel futuro o aperta ad esso, ma una fatica spesa nell’oggi, poiché il domani avrà già la sua pena. Forse c’è in questa invocazione un richiamo e un monito da parte dell’evangelista alla sua ricca e benestante comunità, troppo sicura di se stessa e troppo occupata nei beni materiali, proiettata troppo verso il futuro alla ricerca di nuovi spazi per ampliare le proprie ricchezze e renderle stabili, legando la sicurezza della propria vita ad esse34. Questo slancio verso il futuro probabilmente faceva loro dimenticare la ricerca del vero pane, che si fa presente nell’oggi del cammino dell’uomo. Non a caso infatti Matteo chiuderà il cap. 6 con l’invito a cercare “ … prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena” (Mt 6,33-34). L’esortazione è molto forte e radica il vero discepolo nel presente del suo oggi, dove cercare e testimoniare il regno di Dio. Il verbo cercare, infatti, è posto al presente indicativo e non a caso il Gesù matteano invita il giovane ricco a liberarsi delle sue ricchezze per poter seguirlo (Mt 19,16-22). Anche qui tutti i verbi sono posti al presente. È nell’oggi che l’uomo deve porsi e spendersi nella ricerca del pane del cielo e lo deve invocare dal Padre, poiché tale pane non è scontato.

Stabilite le diverse posizioni di Luca e Matteo circa il pane, materiale per Luca ed eucaristico per Matteo, rimane ora da precisare il significato di quel ™pioÚsion (epiousion), che va letto all’interno dei rispettivi contesti lucano e matteano.

Il termine è particolarmente raro, unico in tutta la Bibbia, anzi esclusivo di Matteo e di Luca,. Lo stesso Girolamo, autore della Vulgata, evidenzia la particolarità del termine sconosciuto sia al greco letterario che parlato e riportato soltanto in un papiro del V sec. in cui il significato rimane comunque incerto35. Secondo i diversi autori36 l’espressione ™pioÚsion ha una doppia possibile derivazione etimologica da epi-einai, che letteralmente significa sono sopra, sto sopra; e da epi-ienai, che significa mi avvicino, avanzo, sono imminente e, aggiunto al sostantivo giorno, indica il giorno seguente o che verrà. Nella prima derivazione etimologica (epi-einai) il senso è statico e riconduce all’esserci qui nell’oggi; nella seconda (epi-ienai), invece, il senso è dinamico e travalica i ristretti confini dell’oggi per proiettarsi nel futuro. Lo stesso Girolamo nel tradurre i due versetti Mt 6,11 e Lc 11,3 a fronte dell’identico testo greco (tÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion) propone due soluzioni diverse legate probabilmente al senso che i rispettivi evangelisti hanno voluto dare:

In Matteo il termine tÕn ™pioÚsion viene tradotto da Girolamo con supersubstantialem, che letteralmente significa ciò che va al di là della sostanza stessa del pane. Secondo Girolamo quindi sembrerebbe che Matteo parli non tanto del pane materiale, ma di una realtà che, pur legata alla substantia panis che si attua nell’oggi (hodie), la travalica e la sovrasta proprio perché è super, rimandando il credente a realtà future, che in qualche modo già si attuano nell’oggi. Così facendo, a nostro avviso, Girolamo con questo supersubstantialem, che è una sorta di traslitterazione latina del termine greco (epi = super; ousion = substantialem), dà, forse senza avvedersene, un senso dinamico al termine senza violarne l’altra etimologia dal senso più statico. Con questa traduzione, quindi, Girolamo sembra soddisfare entrambi i significati di epiousion.

Tuttavia, a nostro avviso, il termine tÕn ™pioÚsion in Matteo va legato etimologicamente a epi-ienai, con riferimento al pane che verrà e che già è presente nell’oggi (semeron). Molto similmente i Sinottici, raccontando l’ultima cena, riportano concordemente la seguente espressione di Gesù: “In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio”37 (Mc 14,25). Notiamo qui come Gesù dà un senso escatologico al bere il vino nell’oggi della sua passione e proprio in riferimento al vino presente parla di un vino nuovo che si pone nel futuro compiuto del Regno di Dio. Anche qui il vino diviene il segno presente di una realtà futura che già è iniziata proprio in e da quel vino che la richiama, proiettando il credente nei tempi nuovi che la risurrezione di Gesù sta per inaugurare. Personalmente ritengo che non è da escludersi che Matteo nella sua invocazione “TÕn ¥rton ¹mîn tÕn ™pioÚsion dÕj ¹m‹n s»meron:” (Mt 6,11) abbia voluto dare questo senso escatologico, un’escatologia che parte da un punto preciso e ben circostanziato definito da quel aoristo ingressivo “dos” e che si evolve in ogni giorno (semeron) verso il suo pieno compimento. C’è pertanto in quel pane un dinamismo che trae la sua origine e la sua vitalità nell’ultima cena, simbolicamente indicata da quell’aoristo ingressivo “dos”, e si compie nell’oggi, in ogni oggi fino alla pienezza dei tempi. Il Gesù matteano infatti è venuto per dare pienezza e compimento (Mt 5,17) all’A.T. , una pienezza che si è compiuta in lui, ma non ancora definitivamente compiuta. Tale pienezza e compiutezza parte da Gesù, ma troverà la sua definitiva realizzazione nel Regno dei cieli, già presente, ma non ancora pienamente compiuto. Tale pane, definito da Matteo come l’ epioúsion, evidenzia questo cammino dinamico che si attua e si compie nell’oggi, ma che nel contempo lo supera verso la meta finale dei cieli nuovi e della terra nuova, dove tutto ciò che qui ha avuto il suo inizio troverà là il suo definitivo compimento e dove il simbolo viene sostituito dalla realtà, qui significata nei ristretti spazi dell’oggi temporale.

Ben diverso è il contesto in cui si muove Luca, che con quell’imperativo presente (didou), rafforzato dall’espressione temporale katz’emeran, lega il pane alla necessità del presente, che si reitera di giorno in giorno, proprio come il bisogno di nutrimento corporale dell’uomo. E Girolamo, a nostro avviso, sa cogliere bene il pensiero di Luca e non traduce più il termine epiousion con supersubstantialem come ha fatto in Matteo, ma si limita a tradurre con il termine latino cotidianum, rafforzato a sua volta dall’avverbio cotidie, dando in tal modo un senso di contingenza reiterata nel tempo e ad esso strettamente legata, che nasce, si muove e si esaurisce nel tempo, proprio come il vivere dell’uomo e le sue esigenze fisiche e corporali in genere.

Il quarto assioma è l'invocazione: “e rimetti a noi i nostri peccati, perché anche (noi) stessi (li) rimettiamo a ognuno che ci è debitore”. Un'invocazione che diviene la logica conseguenza di quanto fin qui chiesto al Padre, in quanto Padre.

Ci si è rivolti a Dio con l'appellativo di Padre e, di conseguenza, ci si riconosce suoi figli e lo si è realmente, rimarca 1Gv 3,1a; figli per adozione ricorda Gal 4,5-6, consentendoci di poter così chiamare Dio, a pieno diritto, Abbà e di essere per ciò stesso eredi della sua stessa vita; lo si è invocato perché si manifesti e si riveli nella sua vera natura di Padre, sollecitandolo ad affermare il suo Regno in mezzo agli uomini, riscattandoli dal potere di satana e rigenerandoli alla sua vita. Gli abbiamo teso la mano perché ci faccia avere ogni giorno quel pane quotidiano, di cui necessitiamo, riconoscendo in tal modo come la nostra vita dipenda da Lui; un pane che in qualche modo ci rimanda ad un altro pane, che ha lo stesso sapore di Dio, il sapore dell'eternità (Gv 6,32-35.48.51), invitandoci in tal modo a non soffermarci sulla quotidianità delle nostre necessità, ma di andare oltre. Un pane, quindi, che nutrendoci nell'oggi ci apre ai tempi escatologici, ricordandoci che “l'uomo non vive soltanto di pane, ma che l'uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3; Lc 4,4). In questo ampio contesto teologico e nel contempo escatologico anche il nostro modo di relazionarci agli altri viene modificato e completamente innovato e viene improntato alla comprensione, alla benevolenza, alla misericordia e al perdono; un modo di relazionarci agli altri che rifletta in qualche modo quello con cui il Padre si relaziona a noi nel Figlio. Un modo di relazionarci che viene sollecitato da Ef 4,31-32: “Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo”. Si è dunque chiamati a perdonare perché si è stati perdonati. All'origine del perdono per l'altro ci sta, dunque, quello del Padre per noi. Un modo completamente nuovo di relazionarsi agli agli altri, poiché si muove sullo stesso schema di relazione che il Padre intrattiene con ciascuno di noi e in questo il credente si mostra vero figlio del Padre. Ed è questo il senso di questo quarto assioma.

La struttura di questa quarta invocazione è scandita, infatti, in due parti che riguardano, la prima, il rapporto del credente nei confronti del Padre, verso il quale si sente peccatore e dal quale invoca la remissione dei propri peccati; similmente alla prima, la seconda ha per soggetto principale sempre lo stesso credente, ma colto questa volta nella sua relazione con l'altro, che sente e vede come proprio debitore. Al centro di questa invocazione, quindi, ci sta sempre lo stesso credente che nei confronti di Dio assume una posizione passiva, la quale diventa attiva e parallela a quella del Padre nei suoi confronti, nei riguardi dell'altro suo diretto debitore. Soggetto principale di questo quarto assioma è, pertanto, il credente nel suo duplice rapporto con Dio e con l'altro. Ma in realtà si tratta sempre di uno stesso identico rapporto di misericordia e di perdono accogliente che da Dio, passando attraverso il credente, si riversa sull'altro o per meglio dire, il credente investito per primo dall'amore misericordioso e perdonante del Padre diventa anche lui fonte di amore misericordioso e perdonante verso l'altro, segno visibile e testimone dell'amore del Padre.

Per comprendere il senso di tutto questo è necessario rifarsi ai due tempi verbali in cui è posto il verbo “¢fhmi” (afíemi): imperativo esortativo nel primo caso, “¥fej” (áfes), dove il Padre è supplicato a perdonare i nostri peccati; al presente indicativo nel secondo caso, “¢f…omen” (afíomen), in cui il credente è chiamato a perdonare i peccati del proprio debitore. Il primo tempo verbale, che ha per soggetto il Padre invocato, è un aoristo di tipo ingressivo, che segna un evento puntuale nel tempo che sta all'origine del perdono, avvenuto nel Gesù morto-risorto; il secondo tempo verbale, che ha per soggetto il credente perdonato, è un presente indicativo, che dice come questo perdonare del credente sia un evento che deve risuonare continuamente nel suo presente, quale eco di quel perdono originario di cui il credente, per primo, ha beneficiato dal Padre. Perdonati, dunque, siamo chiamati a perdonare, testimoniando nel nostro perdonare quello del Padre.

Una nota va spesa, infine, sul significato del verbo “afíemi”, che aiuta a capire, da un lato, la posizione di chi è oggetto del perdono nei confronti del perdonante; dall'altro chiarisce il senso del perdonare. Il verbo è mutuato dal linguaggio giuridico dei tribunali, esso significa assolvere, prosciogliere e possiede in sé un senso di giudizio a lieto fine, dove il peccatore, quale imputato, è chiamato a rispondere del suo comportamento di fronte al giudizio divino. Un giudizio dove ha prevalso la misericordia sulla giustizia. Ed è proprio questo che impegna il perdonato a perdonare, poiché il giudizio finale sarà senza misericordia con chi non ha usato misericordia. Da qui il sollecito di Gc 2,12-13: “Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio”. Un'altra accezione del verbo “afíemi” chiarisce il senso del perdonare: lasciar andare, lasciar perdere, far cadere ogni accusa e ogni debito. Il perdono pertanto, se da un lato ricorda che c'è un qualcosa che deve essere perdonato, dall'altro, superando ogni ostacolo nella misericordia e nell'amore, rende il perdonato una persona liberata e per questo divenuta nuovamente libera, rigenerata ad una sorta di nuova vita, che nel perdono ha una sua seconda chance.

Il quinto assioma è l'invocazione “non metterci nella prova”. Un'invocazione che lascia perplessi poiché ad una prima lettura superficiale sembra che il credente invochi il Padre a non indurlo nella prova, quasi che Dio concorra alla nostra caduta esponendoci al pericolo. Una richiesta che tuttavia riflette la mentalità ebraica che riconduce ogni cosa ed ogni evento a Dio, quale fonte non solo del bene ma anche del male. In Gen 22,1 Dio mette alla prova Abramo chiedendogli il sacrificio del suo unico figlio. In Es 15,25 Dio mette alla prova il popolo presso le acque di Mara. Alla moglie, che lo incitava a maledire Dio che lo aveva colpito con una piaga maligna, Giobbe risponde: “Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?” (Gb 2,9-10). E sempre nel libro di Giobbe vediamo come sia Dio che sospinge satana a colpire in ogni modo Giobbe per provarne la fedeltà e l'integrità morale adamantine (Gb 1,12; 2,6). Così nel duro scontro tra Mosè e il faraone per la liberazione del popolo dalla schiavitù egiziana, è Dio che indurisce e rende ostinato il cuore del faraone38; similmente in Gdt 8,25-27 Dio è colto come colui che mette alla prova, che castiga e corregge con durezza. Ma anche nel N.T. si riscontrano accenni in tal senso. Gesù è sospinto nel deserto dallo Spirito Santo per essere messo alla prova (4,1-2; Mt 4,1) e similmente in Rm 9,18 sia il bene che il male vengono fatti risalire a Dio, sul cui operato nessuno può sindacare (Rm 8,19-20): “Dio quindi usa misericordia con chi vuole e indurisce chi vuole”. Ci si trova qui di fronte ad una lettura teologica degli eventi, che tende a far risalire a Dio ogni cosa sia nel bene che nel male, quale autore unico e assoluto di tutto. Non v'è dubbio che una simile lettura sia deviante, poiché non è Dio che mette alla prova e sospinge l'uomo nel pericolo fisico, morale o spirituale. Le cose succedono perché esistono e seguono una loro dinamica interna; gli eventi accadono per il combinarsi dello svolgersi dinamico delle cose e per opera della stessa volontà dell'uomo che le determina. Tutta la vita nella sua dinamica quotidiana costituisce un continuo test per l'uomo e lo interpella incessantemente e lo sospinge a dare delle risposte, a compiere delle scelte, che nascono dal cuore stesso dell'uomo, che per sua natura è corrotto dal male ed è propenso verso il male (Mt 15,19; Mc 7,21). Da qui nasce ogni bene ed ogni male, non da Dio. Illuminante si rivela nel merito l'esortazione di Gc 1,12-16: “Beato l'uomo che sopporta la tentazione, perché una volta superata la prova riceverà la corona della vita che il Signore ha promesso a quelli che lo amano. Nessuno, quando è tentato, dica: <<Sono tentato da Dio>>; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male. Ciascuno piuttosto è tentato dalla propria concupiscenza che lo attrae e lo seduce; poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato, e il peccato, quand'è consumato, produce la morte. Non andate fuori strada, fratelli miei carissimi”.

Come, dunque, intendere l'invocazione? Quel “non metterci nella prova” va compreso nel senso di “non permettere che soccombiamo nella prova”, come suggerisce il Rossé39 e come similmente propone il Fabris nella sua traduzione del Vangelo Luca: “Fa che non soccombiamo alla tentazione”40. Segnala, infatti, il Rossé, alla nota 33 della citata opera (p.456), come il verbo “esfšrw” (eisféro) proviene dalla fonte Q e il verbo originale, espresso in forma semitica, era probabilmente causativo41 e, quindi, va tradotto con “fa che non entriamo in tentazione”. Ma forse, più che tentazione, è meglio qui tradurre il sostantivo “peirasmÒj” (peirasmós) con “prova”, un termine quest'ultimo che racchiude in se stesso un particolare significato escatologico, con cui le prime comunità credenti designavano la prova finale prima dell'avvento finale del Signore, che portava con sé il giudizio. Del resto l' stesso “Padre nostro” si muove su di uno sfondo escatologico ed apocalittico. Il clima del I sec., infatti, è quello dell'attesa del ritorno glorioso del Signore e con lui la fine della storia e del mondo e l'instaurazione manifesta e definitiva del Regno di Dio. In che cosa consistesse questa prova viene dettagliatamente descritta da tutti tre i Sinottici in Mt 24,1-54; Mc 13,1-37; Lc 21,1-36. Racconti che, al di là della loro veridicità, hanno un valore intrinseco culturale e testimoniale di quale fosse il clima di attesa apocalittico ed escatologico insieme, che animava lo spirito delle prime comunità credenti e le loro attese sugli eventi finali. La prova di cui Luca qui parla, pertanto, non è una prova qualsiasi, una di quelle tante che sono disseminate in abbondanza nella vita di ogni uomo, ma è la “Prova finale”, quella escatologica, quella che ogni credente del I sec. attendeva con ansia, poiché essa preludeva al ritorno glorioso del Signore e la fine di tutte le cose. L'invocazione, pertanto, “non lasciare o non permettere che entriamo nella prova” da un lato lasciava trasparire il timore di soccombere a tale prova; dall'altro il desiderio recondito che tutto questo passasse oltre, rassomigliando in questo alla richiesta dello stesso Gesù lucano nel Getsemani, con la quale pregava il Padre di passare oltre con il calice della prova (22,42).

Come deve essere la preghiera: assillante (vv.5-8)

Luca si sta muovendo in questa prima sezione (vv.1-13) all'insegna di una catechesi, la cui intonazione viene data dal v.1; con i vv.2-4 ha presentato le tematiche fondamentali che devono innervare la vita del credente e della comunità. Ora una nota viene riservata alla modalità della preghiera (vv.5-8).

La pericope in esame (vv.5-8) è scandita in due parti: la prima è formata da una considerazione che gira tutta attorno ad una domanda di tipo retorico, il cui senso è quello di coinvolgere l'ascoltatore in prima persona, imbeccandogli la risposta. Una retorica che si muove all'interno di una parabola, che affonda le sue radici nella reale quotidiana vita in Palestina. L'amico che arriva a mezzanotte riflette l'abitudine del mettersi in viaggio alla sera per evitare le calure e le confusioni del giorno. La preoccupazione dell'amico ospitante è genuina e credibile perché questi si trova di fronte non solo ad un amico, ma anche ad un ospite. Amicizia ed ospitalità caratterizzavano i rapporti sociali ed erano posti a loro fondamento; quanto al pane, questo veniva prodotto per la giornata e in questa consumato. Tre pani era la razione giornaliera per un adulto. Le proteste dell'amico per l'ora e la richiesta insolite, che adducono a giustificazione il fatto di trovarsi già a letto con la propria famiglia, lasciano trasparire l'organizzazione della tipica casa palestinese, circoscritta ad un'unica stanza dove si viveva, si mangiava e, alla sera, stese delle stuoie per terra, si dormiva. In queste condizioni e nel pieno buio della casa, con moglie e figli stesi sul pavimento a dormire, era pressoché impossibile muoversi. Questa era la situazione dell'amico al quale viene richiesto in prestito tre pani, che viene giustamente contrapposta alle pretese dell'altro amico richiedente. Una richiesta inopportuna sia per l'ora che per le pretese, che in qualche modo coinvolgevano, suo malgrado, l'intera sa famiglia.

La seconda parte (v.8) della pericope, la più importante, costituisce la riflessione conclusiva sull'intera situazione sopra esposta e dalla quale viene tratto l'insegnamento. Innanzitutto viene sottolineato come la richiesta non avviene tra estranei, ma tra amici e un'amicizia tale che consente all'uno d'importunare impunemente l'altro amico, nella certezza che egli otterrà ciò di cui ha bisogno. Il v.8, infatti, lascia intuire come l'amico richiedente non si sia per niente arreso alle motivate proteste dell'altro, che si vede costretto, suo malgrado, se non per amicizia, di certo per l'assillante quanto inopportuna richiesta dell'altro, a mettere sossopra l'intera sua organizzazione familiare notturna per soddisfarlo. La preghiera, pertanto, non deve essere timorosa, perché rivolta ad un Dio che in Gesù è diventato nostro amico, anzi, ci è Padre. Una preghiera che ci consente di accostarci alla casa stessa del Padre ed importunarlo in qualsiasi momento, ricordandoci che non siamo più estranei, ma per Gesù e in Gesù, siamo diventati, più che amici, figli. In questo contesto la preghiera deve superare ogni barriera di un timore razionale, diventando insistente, anzi assillante, lasciando intravvedere in questo, più che una semplice richiesta, un atteggiamento di vita. La preghiera, quindi, non più come occasionale strumento di richiesta delle proprie necessità, quanto piuttosto stile di vita che deve caratterizzarla.

Preghiera, dunque, costante ed assillante, che diviene modo di vivere ed orientamento esistenziale verso Dio. Che cosa questo significhi viene ora illustrato dai successivi versetti, che da un lato sono un'esortazione ad una preghiera costante (vv.9-10); mentre dall'altro definiscono l'oggetto della preghiera stessa (vv.11-11). Questi due passaggi costituiscono un ulteriore sviluppo di approfondimento della preghiera, con una gradualità che caratterizza in qualche modo il sistema didattico e catechetico all'interno della comunità credente nei confronti dei credenti e dei catecumeni.

Esortazione ad una preghiera assillante (vv.9-10)

I due versetti sono tra loro concatenati in modo tale che il v.9 costituisce l'enunciazione, mentre il v.10 descrive l'avverarsi di quanto enunciato. Quest'ultimo versetto è introdotto, infatti, da un “g¦r” (gàr, infatti, così che, di conseguenza) il cui senso dichiarativo possiede in se stesso anche un senso consecutivo, “così che; di conseguenza”. Si avrà dunque l'enunciazione: “Chiedete e vi sarà dato” e il suo avverarsi nel credente: “Infatti, ognuno che chiede riceve”, aspetto dichiarativo; oppure: “Così che (o Di conseguenza) ognuno che chiede riceve”, aspetto consecutivo. Pertanto il v.10 diventa lo sviluppo attuativo del v.9.

Due versetti che si rincorrono l'uno nell'altro e sembrano ripetersi, dando l'idea di un appesantimento dell'esortazione. In realtà, proprio perché ci si trova nell'ambito di un'esortazione, questa persegue, da un lato, il suo intento didattico, quello di inculcare nella mente del discepolo o del catecumeno l'esortazione stessa, ripetendone i concetti in modo da facilitarne la memorizzazione; dall'altro, rassicurando il discepolo dell'efficacia di quel chiedere, cercare e bussare.

Chiedere, cercare, bussare” tre verbi che, in quanto tali, descrivono un agire che ha a che vedere con la vita stessa, che per sua natura è azione in essere e in fieri; ma nel contempo ne tracciano un cammino, caratterizzando il modo di vivere del credente come segnato dal chiedere, che definisce la coscienza che la sua vita non dipende da lui, ma ha le sue radici altrove; dal cercare, che dice l'attenzione alla Parola e ai segni dei tempi per saper cogliere ovunque la volontà del Padre, secondo l'esortazione di Rm 12,2: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”. Il cercare diviene pertanto la primaria azione del credente che punta a focalizzare la sua attenzione sulle esigenze della sua fede, che lo spinge a porsi sempre dalla prospettiva di Dio. Ed infine, il “bussare”, che nel contesto è un altro modo di chiedere, dice tuttavia come questo chiedere e cercare abbiano finalmente raggiunto la loro meta dove “bussare”. Questa meta è la stessa casa del Padre, la stessa dimensione divina che verrà aperta in modo accogliente a chiunque ha speso la sua vita nel chiedere e nel cercare. Tre verbi, dunque, che devono ritmare la vita del credente, definendone il modo di vivere e determinandone l'orientamento esistenziale.

Oggetto della preghiera (vv.11-13)

Definita la natura della preghiera, del come essa debba essere (vv.9-10), Luca punta ora a circoscrivere l'oggetto della stessa. Il modo di procedere è simile al precedente: due domande retoriche finalizzate a coinvolgere gli ascoltatori, suggerendo loro la risposta implicitamente racchiusa nella domanda stessa (vv.11-12): nessun padre darebbe cose cattive ai figli che gli chiedono un aiuto. Questi primi due versetti, che parlano della relazione dei padri nei confronti dei propri figli che chiedono loro un aiuto, costituiscono il parametro di raffronto che dovrà misurarsi con il successivo v.13, che li riprenderà rilanciandoli in un confronto perdente con il comportamento di un altro Padre nei confronti dei figli. La procedura che sottende questa breve pericope è caratteristica dei dibattimenti rabbinici e si basa sul metodo a minore ad maius.

I vv.11-13, che chiudono la sezione sulla preghiera, ricalcano sostanzialmente quelli di Mt 7,9-11 con delle leggere differenze da ricondursi più che ai due sinottici alle loro rispettive fonti. Mt 7,9 parla di pane contro pietra, la quale cosa potrebbe far pensare alla prima tentazione di Gesù nel deserto in cui il diavolo spinge Gesù a trasformare la pietra in pane (Mt 4,3). Il richiamo, tuttavia, è da escludere perché non si capirebbe qui il collegamento con la prima tentazione. I contesti e gli intenti creati qui da Matteo sono completamente diversi e senza alcun legame tra loro con quelli del racconto delle tentazioni. Molto più semplice è pensare che Matteo, così come per l'uovo contro lo scorpione di Luca, abbiano tratto le loro esemplificazioni dalle rispettive fonti, non essendoci motivi validi per pensare che i due evangelisti abbiano voluto cambiare la loro fonte.

Ma ciò che più interessa è la sostituzione del matteano “cose buone” che il Padre dà ai propri figli (Mt 7,11b) con il lucano dono dello “Spirito Santo” (v.13b), di esclusiva marca redazionale: “Se dunque voi che siete cattivi sapete dare doni buoni ai vostri figli, quanto più il Padre vostro, che (è) dal cielo, darà lo Spirito Santo a quelli che lo chiedono”. Un versetto conclusivo che si presenta come una brusca e inattesa sterzata, quasi che Luca voglia dissuadere i propri lettori dal chiedere cose materiali al Padre. Per evitare questa possibile interpretazione, Luca accentra la sua attenzione su l'espressione “doni buoni”42 che i padri terreni, pur nella loro connaturata cattiveria43, sanno dare ai loro figli. Il “dono”, infatti, va ben oltre alla materialità della semplice cosa, poiché implica anche il donatore e dice qualcosa del donatore, che in qualche modo è presente in quel dono. Nel dono non vi è più un semplice legame fisico con un oggetto, ma si instaura, attraverso quel oggetto, una relazione con il donante. Il secondo passo è presentare il Padre come una realtà che viene “dal cielo” (“Ð pat¾r [Ð] ™x oÙranoà”, o patèr [o] ex uranû) e che nulla ha a che vedere con i padri umani che, invece, provengono dalla terra, i quali altro non possono offrire che cose terrene. Ma proprio per la sua natura, questo Padre, che ha origini celesti, non può che “donare” ai propri figli se non doni spirituali, anzi il dono spirituale per eccellenza, lo Spirito Santo.

Tuttavia Luca, con questa brusca sterzata verso lo Spirito Santo, non si discosta molto dall'espressione matteana “cose buone” (“¢gaq¦”, agatzà), che il Padre dona ai suoi figli, la cui natura è essenzialmente spirituale e ha a che vedere con questo mondo. I termini “¢gaqÒj” (agatzós, buono) o “kalÒj(kalós, bello, buono), infatti, ricorrono in Matteo 37 volte e il loro significato qualifica una persona o una cosa che hanno a che vedere con la saggezza, con la bontà, con la virtù poste sempre, direttamente o indirettamente, in relazione con il Regno dei cieli.

Seconda sezione: natura e senso del potere esorcistico di Gesù (vv.14-32)

Testo a lettura facilitata

L'esorcismo (v.14)

14 – E scacciava un demonio [ed esso era] muto; ed avvenne che, uscito il demonio, il muto parlò e le folle stupirono.

Le critiche (vv.15-16)

15 – Ma alcuni tra loro dissero: << Per mezzo di Beelzebul, il capo dei demoni, scaccia i demoni>>;
16 – altri, invece, mettendo(lo) alla prova, chiedevano da lui un segno dal cielo.

Precisazioni e senso sul potere esorcistico di Gesù (vv.17-22)

17 – Ma egli, conoscendo i loro pensieri, disse loro: <<Ogni regno, diviso contro se stesso, si devasta; e casa contro casa cade>>.
18 – Se, ora, anche Satana è diviso contro se stesso come sarà reso stabile il suo regno? Poiché dite che io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul.
19 – Ma se io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi (li) scacciano? Per questo essi saranno vostri giudici.
20 – Ma se per mezzo del dito di Dio [io] scaccio i demoni, allora giunse in mezzo a voi il regno di Dio.
21 – Qualora il forte, armato, custodisse il proprio atrio, in pace sono i suoi beni.
22 – Ma appena che un più forte di lui, giunto, lo vincesse, toglie la sua armatura in cui fidava e le sue spoglie spartisce.


Stacco sapienziale: la necessità di schierarsi o con Dio o contro di lui e le sue conseguenze (v.23)

23 – Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me disperde

La dura lotta contro satana e il pericolo della ricaduta (vv.24-27)

24 – Allorché lo spirito impuro sia uscito dall'uomo, vaga per luoghi aridi a cercare sollievo e non (lo) trova. Allora dice: “tornerò indietro nella mia casa da dove uscii”;
25 – e giunto (la) trova spazzata e messa in ordine.
26 – Allora va e prende altri sette spiriti più malvagi di lui, e, entrati, mettono dimora là; e la situazione ultima di quell'uomo diviene peggiore della prima>>.

Stacco sapienziale: l'importanza dell'ascolto della Parola e il perseverare in essa (vv.27-28)

27 – Ora, avvenne che nel mentre egli diceva queste cose, una donna, alzata la voce dalla folla, gli disse: <<Beato il ventre che ti ha portato e i seni che succhiasti>>.
28 – Ma egli disse: <<Anzi, beati quelli che ascoltano la parola di Dio e (la) custodiscono>>.

La condanna della ricerca dei segni (vv.29-32)

29 – Ora, radunatesi le folle, incominciò a dire: <<Questa generazione è una generazione perversa; cerca un segno e un segno non le sarà dato se non il segno di Giona.
30 – Infatti, come Giona fu un segno per i Niniviti, così (lo) sarà anche il Figlio dell'uomo per questa generazione.
31 – (La) regina dell'austro sorgerà nel giudizio con gli uomini di questa generazione e li condannerà, poiché venne dai confini della terra ad ascoltare la sapienza di Salomone, ed ecco più di Salomone (c'è) qui.
32 – Gli uomini di Ninive si leveranno nel giudizio con questa generazione e la condanneranno, poiché si pentirono alla predicazione di Giona, ed ecco più di Giona (vi è) qui.

Note generali

Questa seconda sezione (vv.14-32) è interamente dedicata al potere esorcistico di Gesù (vv.14-20), alla dura lotta contro satana (vv.21-23), alla sua recidività (vv.24-26) e, infine, al rifiuto di Gesù di dare un segno per giustificare il suo potere esorcistico (vv.27-32).

L'importanza di questa sezione è determinata dall'ampia attività esorcistica di Gesù, che percorre l'intero vangelo lucano44, e dal senso che le viene attribuito da Gesù stesso: “Ma se per mezzo del dito di Dio [io] scaccio i demoni, allora giunse in mezzo a voi il regno di Dio” (v.20). L'esorcismo, dunque, è il segno della venuta e della presenza del Regno di Dio ed è finalizzato a sradicare il potere di satana nel mondo per ripristinare il potere di Dio in mezzo agli uomini. Con Gesù Dio è venuto a riprendersi ciò che era suo fin dai primordi della creazione e dell'umanità. Giovanni, in termini più espliciti, definisce satana come il principe di questo mondo, sul quale è già stato posto il giudizio (Gv 16,11) e la fine del suo regno è stata già decretata (Gv 12,31) e contro il potere di Gesù quello di satana risulterà vano (Gv 14,30b). Il Gesù lucano, parallelamente a quello giovanneo, confermerà la fine del potere del diavolo: “Guardavo Satana che cadeva dal cielo come una folgore” (10,18). Con l'avvento di Gesù satana è posto sotto il segno della sconfitta, che già in qualche modo era stata preannunciata nel racconto delle tentazioni, benché il duello finale si avrà soltanto nel momento della morte e risurrezione di Gesù (4,13b).

La struttura di questa seconda sezione è scandita in tre unità narrativa tra loro intervallate da due detti sapienziali (vv.23.27-28), il cui intento è quello di evidenziare il senso profondo delle unità narrative a cui appartengono, così che il v.23, collocato tra due unità narrative (vv.14-22 e 24-26), il cui contesto richiama la dura lotta tra satana e Gesù (vv.14-22) e la recidività di satana, che scacciato non si arrende, ma tenta un contrattacco (vv.24-26), sollecita il credente a prendere una netta posizione a favore di Gesù per evitare che la ricchezza della sua fede venga dispersa.

Similmente il detto sapienziale seguente (vv.27-28), posto immediatamente prima della pericope vv.29-32 in cui Gesù si rifiuta di fornire un segno a giustificazione del suo potere esorcistico, esorta il credente a fondare la sua fede sulla Parola e non sui segni.

Quanto a struttura, questa seconda sezione avrà il seguente sviluppo strutturale, che già è stato anticipato nella sezione del “Testo a lettura facilitata”, ma che qui riproponiamo per una più immediata lettura e comprensione:

  1. Breve e sintetica narrazione di un esorcismo, che funge da contesto all'intera sezione (v.14);

  2. critiche (v.15) e pretese (v.16) da parte di alcuni presenti nei confronti di Gesù (vv.15-16);

  3. prima parte della risposta di Gesù a coloro che lo accusano di operare in nome di Beelzebul (vv.17-22);

  4. Primo intermezzo sapienziale: nella lotta contro satana è necessario prendere posizione a favore di Gesù per non vanificare la propria fede (v.23);

  5. recidività di satana, che tenta un contrattacco per riprendere la sua posizione; rischio di ricaduta per il credente (vv.24-26);

  6. Secondo intermezzo sapienziale, che precede, fornendone la chiave di lettura, la seconda parte della risposta di Gesù verso coloro che pretendevano dei segni (v.16): è meglio fondare la propria fede in Gesù sulla Parola più che sui segni (vv.27-28);

  7. Seconda parte della risposta di Gesù nei confronti di quelli che pretendevano un segno (vv.29-32)


Commento ai vv.14-32


L'esorcismo (v.14)

Tra tutti i racconti di esorcismo riportati dagli evangelisti, se escludiamo i sommari che hanno altra natura e finalità, questo lucano è il più breve in assoluto. L'intento dell'autore, in realtà, non è quello di raccontare l'ennesimo esorcismo di Gesù, bensì quello di creare la cornice narrativa dove inserire il dibattito sugli esorcismi, la loro natura, il loro senso e la pericolosità degli stessi, perché satana, benché cacciato, non si arrende tanto facilmente, ma tenta il suo contrattacco (vv-24-26).

Il v.14 si apre con un “Kaˆ” (Kaì, e) di chiara marca redazionale, poco elegante e alquanto posticcio, il cui intento, non molto riuscito, è quello di creare una certa continuità narrativa tra la sezione precedente, quella della preghiera (vv.1-13), e questa seconda sezione sul tema degli esorcismi. Al di là di queste annotazioni letterarie di poco conto, è significativo, invece, come la prima sezione termini con l'espressione “Spirito Santo”, che in qualche modo dà l'aggancio teologico alla seconda sezione anticipandone in qualche modo il tema di fondo: lo Spirito Santo è la vera potenza che opera in Gesù ed è il vero autore degli esorcismi, dando così l'avvio al ripristino del Regno di Dio in mezzo agli uomini (v.20). Ma nel contempo va rilevato come terminando la prima sezione con l'espressione “Spirito Santo” e la seconda iniziando con la presentazione di “un demonio muto” di fatto Luca accosta tra loro i due contendenti, protagonisti che stanno sullo sfondo dell'intero dibattito sull'esorcismo. Da un lato, pertanto, Gesù che opera con la potenza dello Spirito Santo; dall'altro il diavolo che si contrappone e cerca di difendere con caparbietà le sue posizioni, lasciando intravvedere come gli esorcismi non sono una pacifica marcia trionfale, ma una vera e propria battaglia combattuta all'ultimo sangue, quello che verrà sparso da Gesù sulla croce per il riscatto e la redenzione dell'intera umanità e della stessa creazione. Non a caso, subito dopo il racconto delle tentazione, l'autore commenta come il diavolo sarebbe ritornato al tempo opportuno (4,13b), cioè quello della passione e morte d Gesù (22,3).

Il v.14 è scandito in due parti: la prima presenta Gesù che “scacciava”, letteralmente “buttava fuori” (“Ãn ™kb£llwn”, ên ekbállon) per indicare la determinazione e la forza usata contro il demonio. Il verbo qui è posto all'imperfetto indicativo, che in greco indica un'azione che si protrae con continuità nel tempo. L'esorcismo, l'azione contro satana, dunque, non è un fatto occasionale, ma sistematico; ma questo imperfetto dice anche come la cacciata di questo demonio non è stata semplice, ma ha richiesto una continua insistenza da parte di Gesù. Si tratta di una lotta continua e insistente, poiché si tratta di sradicare la potenza del male dalla creazione e da di mezzo agli uomini. L'avversario qui è un demonio muto. L'assenza della parola che affligge il posseduto dice la sua incapacità di comunicare e di relazionarsi non solo con se stesso, ma anche con gli uomini e soprattutto con Dio. In altri termini, questa del demonio muto è della peggiore specie, perché toglie all'uomo ogni capacità di relazionarsi.

La seconda parte del v.14 presenta tout-court l'esito finale dell'esorcismo: il demonio è stato scacciato e l'uomo è stato rigenerato alle sue funzioni naturali e spirituali, tornando a parlare, a relazionarsi con se stesso, con gli altri e con Dio. Il breve accenno all'esorcismo si conclude con la consueta reazione delle folle che “stupirono”. Uno stupore che è la risposta dell'uomo alle teofanie, all'irrompere della potenza di Dio nella storia.

Le critiche (vv.15-16)

Alla risposta entusiastica delle folle, stupefatte di fronte all'esorcismo operato da Gesù (v.14b), Luca contrappone ora la reazione ostile da parte di alcuni presenti, che l'autore non nomina, ma è presumibile che siano i tradizionali avversari e detrattori di Gesù, gli scribi e i farisei, che vengono, invece, indicati in chiaro nei racconti paralleli di Mt 9,32-34; 12,22-30 e Mc 3,22-27. Le critiche rivolte a Gesù, che apriranno il dibattito sul suo potere esorcistico, si snodano essenzialmente su due linee tematiche attorno alle quali si svilupperà l'intera sezione: da un lato si accusa Gesù di mutuare il suo potere esorcistico dallo stesso Beelzebul (v.15); dall'altro, alcuni chiedono che tale potere sia provato da un segno proveniente dal cielo, cioè da Dio stesso (v.16). Pertanto, la prima parte della sezione, vv.17-26, costituirà la risposta alla prima accusa (v.15); la seconda parte della sezione, vv.27-32, replicherà alle pretese mosse dal v.16.

Il v.15 si apre con una particella avversativa, che dà il tono all'intera cornice (vv.15-16) entro la quale viene posta questa seconda sezione (vv.14-32), che si muove, pertanto, su di uno sfondo polemico. La contrapposizione rileva nei confronti dello stupore delle folle, con cui termina il v.14. Da un lato, quindi, le folle che con questo loro stupore lasciano intendere di aver colto la potenza di Dio che opera in Gesù; diversamente dai suoi detrattori, che vedono in lui soltanto un discepolo di Beelzebul, il principe dei demoni, che opera in lui. Similmente altri, diffidenti, “chiedevano” da lui un segno dal cielo. Quel “chiedevano”, posto all'imperfetto indicativo, dice la persistenza della loro richiesta, che qualifica il loro comportamento sospettoso e di chiusura nei confronti di Gesù. Una caratteristica questa tipica del Giudaismo sempre alla ricerca di prove, di segni e miracoli a conferma del divino nel suo manifestarsi e che anche Paolo rileverà in 1Cor 1,22.

Precisazioni e senso del potere esorcistico di Gesù (vv.17-22)

La pericope in esame si sviluppa sulla falsariga di un sillogismo, che parte con un'affermazione di principio (v.17), applicato alla fattispecie (v.18), chiudendosi con una logica conseguenza (v.19). Il v.20, che costituisce il cuore della pericope perché svela il senso dell'esorcismo operato da Gesù, riprende di fatto l'implicita risposta del v.19, cioè che gli esorcisti giudei operano in nome di Dio e non di Beelzebul, e ne trae la logica conclusione: anche Gesù opera in nome di Dio.

Quanto ai successivi vv.21-22, questi presentano l'esorcismo come una dura lotta contro il potere di satana, ostacolato dal potere di uno più forte di lui, ponendo, così, fine al suo regno, fin qui incontrastato.

Il v.17 si apre con un'affermazione ricorrente nei vangeli45, che presenta la superiorità di Gesù sui suoi avversari: egli sa leggere nel cuore degli uomini e conosce tutti i loro pensieri più profondi. Una caratteristica questa che nei testi sapienziali viene riconosciuta soltanto a Dio stesso46.

Segue ora, sull'onda delle dispute rabbiniche, l'attestazione di un principio incontestabile, insito nel buon senso e nelle logiche delle cose, dal quale trarre poi le logiche conclusioni: “Ogni regno, diviso contro se stesso, si devasta; e casa contro casa cade”. Casa, qui, sta per casato e quindi fa riferimento ai gruppi familiari tra loro discordi, l'un contro l'altro armati. Tutto ciò provocherebbe l'inevitabile disgregazione, il caos e la fatale caduta, regno o casato che sia.

Con il v.18a si passa all'applicazione di tale principio all'esorcismo, colto qui come una lotta che satana condurrebbe contro se stesso, facendo emergere immediatamente l'assurdità dell'accusa mossa a Gesù, che egli opera, cioè, contro satana con l'aiuto di satana stesso. La dimostrazione di tale evidente incongruenza, si chiude già con con la prima parte del v.18, risultando del tutto superflua la sua seconda parte, che riprende di fatto il testo dell'accusa: “Poiché dite che io scaccio i demoni per mezzo di Beelzebul”. Si tratta di una forzatura di un qualche scrupoloso copista, che ha voluto, da un lato, accentuare la sottesa polemica, rinfacciando ai farisei l'assurdità della loro accusa; dall'altro legare il v.18 al v.19, che inizia con la ripresa dell'accusa, estendendo ora la questione non più all'interno del potere di satana, bensì anche sulla consuetudine della pratica degli esorcismi da parte degli stessi discepoli dei farisei.

Il v.19 innesca una dura polemica basata sul confronto tra l'attività esorcistica di Gesù e quella praticata dagli stessi farisei. Si passa, pertanto, da un questione intestina al potere del diavolo (v.18) a quella dell'attività esorcistica praticata dai “vostri figli”, un semitismo per indicare i discepoli dei farisei, testimoniata da Mc 9,38, che ha il suo parallelo in Mt 12,27, in Lc 9,49 e in At 19,13-1647. La questione posta è semplice: se Gesù è accusato di collaborare con Beelzebul nei suoi esorcismi, i discepoli dei farisei, che fanno l'identica cosa, in nome di chi li compiono? La risposta implicita nella domanda non poteva essere che in nome di Dio. Di conseguenza sono proprio i loro stessi discepoli che divengono testimoni e giudici contro i loro maestri e accusatori di Gesù.

Ed è proprio sulla tacita e implicita risposta fornita dal v.19, che Gesù non solo giustifica la sua attività esorcistica, ma staccandosi nettamente da quella del giudaismo, va ben oltre, indicando in essa il realizzarsi dell'avvento del Regno di Dio a tutto danno di quello di satana. Non si tratta, pertanto, di liberare qualche povero disgraziato caduto sotto il potere del diavolo, ma l'operare di Gesù diventa testimonianza e annuncio nel contempo dell'avvento del Regno di Dio in mezzo agli uomini. Dio, nella persona di Gesù, è venuto a riprendersi ciò che è sempre stato suo fin dai primordi della creazione e dell'umanità. Gli esorcismi come le guarigioni, pertanto, sono segni visibili dell'avvento di una realtà invisibile (10,9) che nell'operare di Gesù, prima (4,43; 8,1), e della Chiesa, poi (9,2; 10,9), coinvolge l'intera umanità e con essa anche la creazione, rigenerandole alla vita stessa di Dio: “Ma se per mezzo del dito di Dio [io] scaccio i demoni, allora giunse in mezzo a voi il regno di Dio”. Luca è l'unico tra gli evangelisti e gli autori neotestamentari che riporta questa strana espressione, “Dito di Dio”, che si ritrova soltanto altre tre volte in Es 8,15; 31,18 e Dt 9,10 e che certamente da questi ha mutuato. Per comprenderne il significato è necessario considerare il contesto in cui questa espressione è inserita nei testi qui citati. In Es 8,15 i maghi del faraone riconoscono come l'invasione delle zanzare, che tormentavano l'Egitto, era opera del “dito di Dio”, cioè della potenza di Dio, con la quale i maghi del faraone fallirono miseramente il confronto. In Es 31,18 e il parallelo Dt 9,10 il “dito di Dio” scrive sulle due tavole di pietra il patto di alleanza tra Dio e il suo popolo; un patto che esprime la ferma volontà di Dio, capace di incidere la pietra, che diviene il segno di una duratura e inattaccabile alleanza, poiché fondata sulla volontà di Dio. Devono essere stati questi due aspetti che spinsero Luca a mutuare questa espressione dalle Scritture, per indicare come nell'attività esorcistica di Gesù opera e si manifesta con fermezza e determinazione la potenza di Dio, finalizzata a costituire in mezzo agli uomini il Regno di Dio e come questo sia solido e duraturo, realizzando in tal modo la profezia di Natan al re Davide: “Egli edificherà una casa al mio nome e io renderò stabile per sempre il trono del suo regno” (2Sam 7,13). Un Regno di Dio, che esprime in Gesù e in lui sancisce la stabile e duratura alleanza tra Dio e l'umanità, definitivamente redenta e riscattata dal potere del diavolo, l'antico serpente (Ap 12,9; 20,2).

Pertanto, se Gesù scaccia il demonio con il “dito di Dio”, cioè con la stessa potenza di Dio, “allora giunse in mezzo a voi il regno di Dio” (v.20b). Un'affermazione quest'ultima che in Luca assume diverse sfumature. In 10,9.11 e 21,31 si attesta che il Regno di Dio è “vicino”; qui, in 11,20b si dice che “è dunque giunto a voi il regno di Dio”, mentre 17,21 va oltre, affermando che il Regno di Dio non è un luogo fisico, ma una realtà spiritale che risiede nello stesso credente: “il regno di Dio è dentro di voi”; ma in 22,16.18, nel contesto dell'ultima cena, si afferma che il mangiare e il bere la nuova Pasqua non avverranno più “finché non venga il regno di Dio”. Prese nel loro insieme queste affermazioni attorno al compiersi del Regno di Dio danno l'idea di una realtà fortemente dinamica, in continuo divenire e dai forti tratti escatologici, che proietta il credente verso una realtà che è già presente in lui, nella Chiesa e con la Chiesa nell'intera umanità, ma non ancora pienamente e definitivamente compiuta. Tutti, comunque, sono sospinti inesorabilmente verso il compimento finale, che proietta al di là dello spazio e del tempo, questa umanità e questa creazione, che in qualche modo è già gravida di questo Regno ed è in cammino verso il suo pieno e definitivo compimento.

I vv.21-22 mettono in evidenza la vera natura dell'esorcismo e lo rivelano come una lotta all'ultimo sangue tra due poteri, quello satanico, metaforizzato nel v.21, e quello di Gesù, definito come “il più forte”, metaforizzato nel v.22. Un'espressione quest'ultima che già era apparsa in 3,16 dove Giovanni presentava Gesù come “il più forte di me”, perché, mentre Giovanni si limitava a battezzare con l'acqua, Gesù battezzava con “Spirito Santo e fuoco”, cioè con la potenza stessa di Dio, che in quel “fuoco” contiene un implicito giudizio escatologico. La forza di Gesù, pertanto, esprime la potenza stessa di Dio, che è venuta a ripristinare il Regno stesso di Dio, ponendo su quello di satana il segno del giudizio finale e della sua definitiva condanna. Il confronto tra Dio e satana, pertanto, se da un lato ha un esito scontato, dall'altro non va mai pensato come un confronto pacifico, ma si tratta di una lotta dura, che porterà Gesù sulla croce (4,13). Del resto lo stesso Gesù lucano aveva già sperimentato la durezza dello scontro con il diavolo, che, in 8,29, gli opponeva una forte resistenza: “Infatti, ingiunse allo spirito impuro di uscire dall'uomo; poiché per molte volte s'impadronì di lui e veniva legato con catene e custodito con ceppi e, spezzando i vincoli, era spinto dal demonio nei deserti”. Satana non è un docile suddito di Dio, ma uno spirito ribelle, che odia Dio e pur sapendo che non potrà mai in nessun modo prevalere, cerca di resistergli cercando di creargli il maggior danno possibile.

Questo senso della lotta, del combattimento tra Dio e il diavolo, tra il credente e satana è percepito dalle prime comunità credenti fin da subito. Se ne trova traccia in 1Pt 5,8-9, dove l'autore sollecita le proprie comunità perseguitate a resistere nella fede agli assalti del loro nemico, il diavolo, che come leone ruggente si aggira cercando chi divorare. In termini più espliciti di combattimento, di lotta, di battaglia si parla in Ef 6,11-17: “Rivestitevi dell'armatura di Dio, per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti. Prendete perciò l'armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver superato tutte le prove. State dunque ben fermi, cinti i fianchi con la verità, rivestiti con la corazza della giustizia, e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace. Tenete sempre in mano lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutti i dardi infuocati del maligno; prendete anche l'elmo della salvezza e la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio”. Similmente in 1Tm 1,18; 6,12 Paolo sollecita Timoteo a combattere la sua buona battaglia per la fede, così come anche Paolo ricorda di averla combattuta (2Tm 4,7), mentre Eb 4,12 raffigura la Parola di Dio come una spada tagliente a doppio taglio che “penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore”. Si tratta chiaramente di metafore, ma lasciano intravvedere lo stato d'animo con cui le prime comunità credenti vivevano il loro rapporto con la propria fede e, in questa, con il mondo circostante. La storia delle persecuzioni lo sta a dimostrare. Ed è proprio in questo contesto di combattimento e di battaglia che si muove anche Ap 12,7-9 dove l'autore vede la metastorica e vittoriosa battaglia tra Dio e satana, da cui, poi si è originata quella tra la Chiesa e satana sotto forma di persecuzioni (Ap 12,13-17).

Stacco sapienziale: la necessità di schierarsi o con Dio o contro di lui e le sue conseguenze (v.23)

Dopo la presentazione della natura dell'esorcismo, quale strumento di lotta contro il potere di satana per l'instaurazione e l'affermazione del Regno di Dio (v.20), rilevando come questo comporti una dura lotta, una strenua battaglia all'ultimo sangue, tra Gesù e satana (vv.21-22), l'autore, con questo v.23, introduce una breve pausa di riflessione, dal sapore sentenziale e sapienziale, su quanto fin qui detto: “Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me disperde”. Il versetto, che suona minaccioso per la sua radicalità e la sua forza discriminatrice, è scandito in due parti: la prima parte invita il credente, in questo contesto di combattimento, a prendere una drastica posizione a tutto favore di Gesù, poiché l'indifferenza, la titubanza, le perplessità, i temporeggiamenti saranno letti come uno schierarsi contro Gesù. Ap 3,16, infatti, avverte la chiesa di Laodicea, a motivo della sua tiepidezza nell'operare il bene, che sta per essere respinta da Dio: “Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.

La seconda parte del v.23 ammonisce che “chi non raccoglie con me disperde”, come dire che una vita spesa lontana se non contro Gesù è dissipata e vissuta vanamente e su questa pesa fin d'ora quel giudizio di condanna che già è stato posto su satana. La radicalità di questo detto delimita, pertanto, i due contrapposti schieramenti e non lascia spazi a incertezze. Una radicalità che non deve stupire, poiché essa è il segno che il credente nel suo oggi sta vivendo i tempi escatologici in cui già pesa il giudizio divino.

La dura lotta contro satana e il pericolo della ricaduta (vv.24-27)

Se il v.23 avvertiva il credente della necessità di prendere una radicale posizione a favore di Gesù per non disperdere la propria vita, vivendola inutilmente, questa breve pericope (vv.24-27) lo ammonisce a non abbassare la guardia, poiché la sua radicale scelta esistenziale non lo mette al riparo dagli assalti di satana, che si manifestano nelle persecuzioni e in un ambiente familiare ostile a motivo della sua scelta (12,51-53; 21,12-13.16-17).
L'intento di questa breve pericope, la cui narrazione affonda le sue radici nell'immaginario della demonologia ebraica48, non ha certo come scopo di descrivere quanto realmente avviene, ma punta ad esortare il credente a non ricadere sotto il potere di satana, poiché per lui non ci sarebbe più una seconda possibilità. In tal senso avverte Eb 6,4-6: “
Quelli infatti che furono una volta illuminati, gustarono il dono celeste, diventarono partecipi dello Spirito Santo e gustarono la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro e, tuttavia sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione, dal momento che per loro conto crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all'infamia”. Il pericolo della deviazione o della defezione dalla fede era sempre in agguato ed è testimoniato dalla stessa lettera ai Galati (1,6-7) e dalla prima lettera di Giovanni, dove si parla di anticristi e di persone all'interno della comunità che cercano di deviare i fratelli (2,18-27).

Si sente qui, da un lato, l'eco degli effetti delle prime difficoltà che i credenti, a partire dall'ambiente familiare e dall'entourage degli amici e conoscenti, stavano incontrando e l'avverarsi delle prime defezioni; dall'altro la rigida posizione della chiesa che non ammetteva un rientro nei confronti di chi aveva in qualche modo cercato dei compromessi pur di salvarsi dalle persecuzioni: chi semplicemente rinnegava la propria fede. Erano questi definiti “lapsi”; chi invece si limitava, a richiesta, a bruciare un po' d'incenso davanti alla statua dell'imperatore o di qualche divinità. Erano i thurificati; chi, invece, sacrificava vittime agli dei. Erano definiti i “sacrificati”. Chi, invece, tramite conoscenze e corruzione, acquistava il “libellum”, cioè il documento che attestava di aver bruciato incenso o di aver rinnegato la propria fede, anche se di fatto questo non era avvenuto. Questi erano indicati come i “libellatici” e considerati alla stregua di chi aveva effettivamente tradito. Fenomeni questi che acquistarono notevole importanza sotto Domiziano (81-96), Decio (249-251), Valeriano (253-260) e Diocleziano (284-305) e che crearono notevoli problemi all'interno della stessa chiesa49.

Stacco sapienziale: l'importanza dell'ascolto della Parola e il perseverare in essa (vv.27-28)

Come già si è sopra accennato (pag.22), i vv.15.16 suddividono questa seconda sezione del cap.11 (vv.14-32), interamente dedicata all'esorcismo, in due parti: la prima (vv.17-26) costituisce la risposta all'accusa mossa dal v.15: Gesù scaccia i demoni con il potere dello stesso Beelzebul, capo dei demoni; la seconda (vv.27-32) costituisce la risposta al v.16, in cui si chiede a Gesù un segno dal cielo per provare il suo potere esorcistico. Questa seconda parte, similmente alla prima che si chiudeva con una breve riflessione sapienziale (v.23), inizia in pari modo con un'altra riflessione sapienziale, che funge da chiave di lettura alla pericope successiva (vv.29-32). Si tratta di una sentenza inquadrata (v.28) all'interno di un brevissimo racconto: mentre Gesù parlava, una donna, mossa da un'entusiastica ammirazione per lui, ne esalta la madre, che ha partorito un simile figlio (v.27) e che fornirà a Gesù l'occasione per proclamare, invece, beati coloro che ascoltano e conservano la parola di Dio. Il messaggio trasmesso da questa beatitudine accentra l'attenzione del lettore sull'importanza dell'ascolto della Parola di Dio e della sua salvaguardia, che viene contrapposta alla richiesta di un segno dal cielo (v.16), che troverà la sua risposta ai vv.29-32. Quindi, la morale del racconto suggerisce che è meglio ascoltare e conservare la Parola di Dio, piuttosto che perdersi alla ricerca di inutili segni, che non daranno mai alcuna certezza ad un cuore chiuso a Dio.

Questa breve pericope, introduttiva ai vv.29-32, è esclusiva di Luca, probabilmente costruita dallo stesso autore ricomponendo e rielaborando tra loro 1,42.48 e 8,19-21. Riecheggia, infatti, qui 8,19-21 dove Gesù, attorniato da quelli che stanno ascoltando la sua parola, viene avvertito della presenza di sua madre e dei suoi fratelli. Ma Gesù disconosce la sua parentela carnale a tutto favore di un'altra e nuova parentela, quella generata dalla Parola e dallo Spirito (Gv 1,12-13; 1Pt 1,23), perché dirà in Gv 3,6: “Ciò che è nato dalla carne è carne, e ciò che è nato dallo Spirito è spirito”. Sono due realtà tra loro contrapposte e inconciliabili, irriducibili l'una all'altra. Per questo è necessario per il nuovo credente compiere una radicale scelta di campo.

Quanto alle entusiastiche parole della donna rivolte a Gesù, queste si muovono sullo sfondo dei vv.1,42.48, dove Elisabetta celebra Maria quale “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre”; mentre, proprio nella lode della donna alla madre di Gesù, si sente la profezia di Maria: “Ecco, infatti, da ora tutte le generazioni mi chiameranno beata”.

La condanna della ricerca dei segni (vv.29-32)

La pericope in esame funge da risposta al v.16. L'episodio è riportato, pur con notevoli variazioni, dai tre Sinottici. Il Gesù marciano non fornisce alcun segno ai farisei, che, all'interno di una disputa, glielo chiedevano (Mc 8,10-13). Mt 12,38-39b riprenderà Mc 8,11-12 e lo doppierà in 16,1.4. Similmente farà Lc 11,16.29c. Se, limitatamente ai versetti citati, Matteo e Luca dipendono da Marco, diverso è il proseguo del discorso in Mt 12,39c-42 e Lc 11,29d-32, che si staccano nettamente da Marco, procedendo paralleli tra loro due, benché diversi nelle loro esposizioni: Mt 12,39c-40, riferendosi al segno di Giona, ne dà spiegazione, specificando che Giona fu un segno, indicandolo nei tre giorni in cui rimase nel ventre del cetaceo, richiamando in tal modo la sepoltura di Gesù; diversamente Lc 11,29d-30, quale segno per i Niniviti, indica, in prima battuta, la stessa persona di Giona, che viene posta in parallelo a quella di Gesù (vv.29-30), precisando, poi, al v.32b come tale segno consistesse nella predicazione, alla quale i Niniviti risposero convertendosi. Una nota, quest'ultima, che riflette la sensibilità missionaria di Luca, che tutto fonda sulla predicazione, sull'annuncio della Parola (At 6,7; 12,24). Va segnalata, poi, l'inversione delle citazioni in Luca, rispetto a Matteo: la regina del sud (v.31) e i Niniviti (v.32). Non è chiaro il motivo di questa inversione, forse dipesa da diversa fonte; o più semplicemente per creare una sorta di inclusione per complementarietà tra i vv.30.32, per dare rilievo al centrale v.31, in cui si parla della regina dell'austro che venne dai confini della terra per rendere omaggio alla sapienza di Salomone, lasciando in tal modo riecheggiare la grandezza della Sapienza divina verso la quale tutti i popoli, riconoscendola, verranno e le renderanno il dovuto onore50. Un tema questo che risuonerà anche nel racconto dei magi (Mt 2,1-2.9b-11).

Benché la fonte comune per Matteo e Luca sia la Q, considerate le notevoli diversità, è da ipotizzare come all'interno della stessa fonte vi siano state due diverse tradizioni, l'una riguardante i tre giorni, riportata da Matteo; l'altra con riferimento alla sola persona di Giona, seguita da Luca. Tuttavia si prospetta anche la possibilità di una evoluzione testuale che dal minus, rappresentato da Mc 8,11-12, che forma il testo originale di base, si sia poi evoluto nel plus di quello lucano, che indica genericamente in Giona il segno, senza alcun specifico riferimento alle sue vicende. Giona, pertanto, per Luca, diviene figura di Gesù e come Giona fu un segno del cielo per i Niniviti, così Gesù lo è per i Giudei, ma con esiti diametralmente opposti. Il testo di Matteo riprende quello di Luca, ma lo dettaglia maggiormente, giungendo al maior, vedendo non Giona segno di Gesù, ma in modo più dettagliato e più cristologicamente e teologicamente evoluto, vede il segno nei tre giorni in cui Giona è rimasto sepolto nel ventre del cetaceo, da cui poi uscirà al terzo giorno (Gio 2,11), così come Gesù uscì al terzo giorno dal ventre della terra. In questi tre passaggi si nota l'evoluzione del testo che, enunciato originariamente in modo sintetico ed essenziale, tende nel tempo ad essere dettagliato sempre più, man mano che il pensiero teologico e cristologico si approfondisce.

Quanto al linguaggio e ai toni di questa pericope, questi sono essenzialmente di tipo sapienziale e profetico. L'espressione “generazione perversa” è mutuata da Dt 1,35; 32,5.20 e similmente da Sal 77,8; non manca, poi, secondo lo stile profetico, l'accusa di incredulità nei confronti di Gesù, fatta seguire dal tema del giudizio, in cui giudice sarà proprio il mondo dei pagani che ha saputo, invece, cogliere in Gesù e nella sua Parola l'inviato dal cielo, come avvenne per i Niniviti con riguardo a Giona; e la vera Sapienza del Padre, come avvenne per la Regina di Saba con riguardo a Salomone, in cui splendeva la sapienza stessa di Dio (1Re 3,11-12).

La struttura della pericope in esame è scandita in due parti: la prima (vv.29-30) riguarda la richiesta del segno da parte dei Giudei, che viene indicato in Giona, a cui è assimilato Gesù; la seconda parte (vv.31-32) concerne il giudizio di condanna formulato dal mondo dei pagani contro l'incredulità dei Giudei.

Il v.29 riprende la richiesta di segno formulata al v.16 e ne dà risposta, iniziando con il creare il contesto caratteristico dei processi che Jhwh innescava, ai tempi dei profeti, contro le infedeltà e le incredulità del suo popolo: il popolo, raffigurato nel radunarsi delle folle, è convenuto quale imputato davanti a Dio e quel “incominciò a dire” apre il dibattimento, che inizia con un'accusa pesante, che definisce Israele una generazione perversa; una definizione che contiene già in se stessa un giudizio di condanna, che verrà raffigurato ai successivi vv.31.32. Il tutto si muove su di un confronto tra Giona-Niniviti e Gesù-Israele (v.30), che contiene un implicito atto di accusa: mentre la venuta di Giona e la sua predicazione in mezzo ai Niniviti ha provocato la loro immediata conversione, così non è avvenuto per Gesù in mezzo ad Israele. Qui Gesù è definito con l'appellativo di “Figlio dell'uomo”, un titolo che nei vangeli ricorre soltanto sulle sue labbra. La figura, con cui Gesù definisce se stesso, si richiama a Dn 7,13-14 e il contesto qui riprodotto è, pertanto, messianico ed escatologico e porta con sé un implicito senso di giudizio, che si espleta nel potere assoluto che viene attribuito a questo figlio dell'uomo sopra tutti i popoli, un potere che non conosce fine.

La pesante cornice di giudizio creata dai vv.29-30, funge da premessa ai successivi vv.31-32 dove tale giudizio si esplicita in modo diretto contro Israele, proprio da parte di quel mondo pagano che, a differenza di Israele, è stato invece molto sensibile alla Parola di Dio e ha saputo riconoscere sia in Giona che nella sapienza di Salomone il segno della presenza di Dio. Ma ciò che è sotteso in questo duplice giudizio di condanna sono le due figure con cui Gesù si misura: quella di Salomone, noto per la sua mitica sapienza fino ai confini della terra, di cui la regina di Saba, l'attuale Yemen, ne è la rappresentante; e Giona, il profeta, voce di Dio in mezzo ai pagani. Entrambi questi personaggi scompaiono di fronte alla figura di Gesù, definita come “ben più di” (ple‹on, pleîon), così che Salomone, con la sua sapienza, diviene figura di un'altra Sapienza; mentre Giona, il profeta, la voce di Dio, diviene figura e preannuncio della Parola eterna del Padre, che in Gesù divenne carne (Gv 1,14). In altri termini, se la sapienza di Salomone e Giona erano figure preannunzianti e convergenti verso un'altra Sapienza e un'altra Parola, Gesù non è più figura, ma è l'attualizzazione di quelle figure, quindi ben più grave è la colpa di Israele, che pur possedendo le Scritture, l'Alleanza e i Profeti non ha saputo riconoscere la venuta della vera Sapienza di Salomone e del vero profeta Giona.


Terza sezione: onestà intellettuale e rettitudine spirituale nell'accostarsi alla rivelazione (vv. 33-54)

Testo a lettura facilitata


Riflessione sapienziale introduttiva alla pericope vv.37-54 (vv.33-36)

33 – Nessuno, accesa una lampada, (la) pone in un luogo nascosto [né sotto il moggio], ma sul lucerniere, affinché quelli che entrano vedano la luce.
34 – La lampada del corpo è il tuo occhio. Qualora il tuo occhio sia schietto, anche tutto il tuo corpo è luminoso; ma appena che sia malvagio, anche il tuo corpo (è) tenebroso.
35 – Abbi cura, pertanto, affinché la luce in te non sia tenebra.
36 – Se dunque il tuo corpo (è) tutto luminoso, non avendo una qualche parte tenebrosa, sarà tutto luminoso, come quando la lucerna, per il (suo) fulgore, ti illumina>>.

Critiche al formalismo giudaico che svilisce il rapporto con Dio (vv.37-52)

Contro i farisei (vv.37-44) e ….

37 – Ora, nel mentre che stava parlando, un Fariseo lo prega affinché pranzasse presso di lui; ed entrato si coricò (a tavola).
38 – Ma il Fariseo, visto(lo), si meravigliò perché per prima cosa non si fosse lavato prima del pranzo.
39 – Ma il Signore disse verso di lui: <<Adesso voi Farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e malvagità.
40 – Stolti, chi ha fatto l'esterno non fece anche l'interno?
41 – Nondimeno date in elemosina le cose che sono dentro, ed ecco tutte le cose sono pure per voi.
42 – Ma guai a voi, Farisei, poiché pagate la decima della menta e della ruta e di ogni erba e passate sopra al giudizio e all'amore di Dio. Bisognava fare queste cose e quelle non tralasciare.
43 – Guai a voi, Farisei, poiché amate il primo posto nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze.
44 – Guai a voi, poiché siete come le tombe occulte e gli uomini che vi camminano sopra non (lo) sanno>>.

.. contro i dottori della Legge (vv.45-52)

45 – Ma uno dei dottori della Legge, rispondendo, gli dice: <<Maestro dicendo queste cose offendi anche noi>>.
46 – Ma egli disse: <<Guai anche a voi, dottori della Legge, poiché caricate gli uomini di pesi opprimenti e (voi) stessi non toccate i pesi con una delle vostre dita.
47 – Guai a voi, poiché edificate le tombe dei profeti, ma i vostri padri li uccisero.
48 – Quindi siete testimoni e acconsentite alle opere dei vostri padri, poiché essi li uccisero, ma voi edificate (le tombe).
49 – Per questo anche la sapienza di Dio disse: “invierò a loro i profeti e gli apostoli, e tra loro uccideranno e perseguiteranno”,
50 – affinché fosse chiesto conto a questa generazione del sangue di tutti i profeti effuso dalla creazione del mondo;
51 – da(l) sangue di Abele fino a(l) sangue di Zaccaria, ucciso fra l'altare e il tempio; si, vi dico, sarà chiesto conto a questa generazione.
52 – Guai a voi, dottori della Legge, poiché toglieste la chiave della conoscenza; (voi) stessi non entraste e impediste quelli che entravano>>.

Reazione negativa degli scribi e dei farisei (vv.53-54)

53 – Ed uscito egli di là, gli scribi e i farisei incominciarono a incalzarlo in modo intollerabile e a provocarlo a parlare su molte cose,
54 – insidiandolo (per) carpire un qualcosa dalla sua bocca.


Note generali

La terza sezione del cap.11 (vv.33-54) è interamente dedicata all'atteggiamento interiore con cui accostarsi proficuamente alla rivelazione. È questo, infatti, che determina il successo o meno di questa nei nostri confronti e, di conseguenza, la riuscita umana, morale e spirituale dell'uomo, chiamato a prendere posizione nei suoi confronti. Luca è l'unico evangelista che dedica un'apposita sezione all'argomento, sospinto probabilmente dalla sua esperienza missionaria, che lo ha posto a confronto con le diverse reazioni alla sua predicazione, il cui rifiuto (9,5; 10,3.10-11) doveva essere sotteso sovente da interessi personali (At 19,24-29), da atteggiamenti mentali sospettosi o critici (At 17,1-6.13.18); dalla scarsa volontà di mettersi a confronto con un nuovo annuncio esigente (11,23; 12,51) e, di conseguenza, dal mettersi in discussione (At 17,21-34); dall'opporre la propria fede, tradizionalmente e acriticamente ricevuta, ad un annuncio innovativo (Mt 13,34; Mc 7,1-5), ma che creava fastidi o concreti problemi all'interno della cerchia familiare o degli amici, sospingendo l'ascoltatore a scelte esistenziali fin lì sconosciute e molto impegnative (12,52-53); e infine, da una superficialità del vivere, che sospingeva ad un generico disinteresse per le cose spirituali (Ef 4,17; Col 2,8; 1Pt 1,18). Questo insieme di cose inficiava l'efficacia della rivelazione, vanificando la salvezza che con questa veniva portata. In questa prospettiva Luca propone al suo lettore una riflessione dai toni sentenziali, sapienziali e parenetici (vv.33-36), che lo spinge ad una sorta di analisi introspettiva, e lo aiuti a liberarsi da quegli atteggiamenti mentali e preconcetti, che gli possono precludere l'accesso alla Verità contenuta nella rivelazione. In altri termini, per accostarsi alla Rivelazione si rende necessario una onestà intellettuale e una correttezza culturale, morale e spirituale, che consenta di comprendere e accogliere la Verità in essa contenuta. Serve, quindi, una mentalità e un animo liberi da pregiudizi e interessi personali o di parte, che possono creare faziosità, ma oscurano, avvilendola, la Verità rivelata. In questo contesto predominato dalla sincerità di cuore, l'ascoltatore non sente più neppure il bisogno di chiedere segni o miracoli. All'interno di questa cornice ammonitrice ed esortatrice, l'autore dà ampio spazio all'esperienza religiosa del Giudaismo (vv.37-52), che racchiuso nelle sue sicurezze e certezze non ha saputo scorgere la novità portata da Gesù (Rm 9-11), che non era contraria alla Tradizione dei Padri, ma complementare (Mt 5,17-19) e nel contempo evolutiva, proponendo una nuova lettura della Torah, che pur fedele alla lettera, la sapesse nel contempo superare, cogliendone lo spirito autentico (Mt 5,21-48).

La struttura di questa terza sezione del cap.11 è scandita in tre parti:

  1. La riflessione sapienziale, in cui si sollecita ad accostarsi alla rivelazione con sincerità e rettitudine di cuore (vv.33-36);

  2. Il culto e l'osservanza legalistici del Giudaismo condannati da Gesù (vv.37-52);

  3. La reazione negativa del giudaismo (vv.53-54).


Commento alla terza sezione (vv.33-54)


Stacco sapienziale: onestà intellettuale e morale nell'accostarsi alla rivelazione (vv.33-36)


Note generali

Similmente alla fine della prima sezione (v.23) e all'inizio della seconda (vv.27-28), anche questa terza ed ultima sezione del cap.11 inizia con una sorta di riflessione sapienziale dai toni parenetici ed ammonitori (vv.33-36), che funge da preambolo all'ampia pericope che segue (vv.37-52), fornendone la chiave di lettura: per accostarsi alla Rivelazione e accoglierla proficuamente è indispensabile la sincerità del cuore e l'onesta intellettuale (vv.33-36), diversamente si andrà alla deriva come è avvenuto per il Giudaismo (vv.37-52.53-54).

La pericope in esame si gioca tutta attorno alla contrapposizione luce-tenebre, che ha il suo vertice al v.35, e la cui creazione è tutta redazionale. Ci si trova di fronte ad una pericope la cui costruzione è alquanto singolare e complessa nel contempo. Il materiale che la compone è di varia provenienza: il v.33 è ripreso da 8,16, che ha la sua fonte primaria in Mc 4,21, da cui ha attinto anche Mt 5,15. Quanto al v.34, questo ha il suo parallelo in Mt 6,22-23. Entrambi sono di provenienza Q, anche se Lc 11,34 sembra essere quello più fedele alla fonte Q, a motivo della sua formulazione più grezza e più difficile, rispetto a quella matteana, molto più elegante, scorrevole e tendente a dettagliare il contenuto del materiale. Ed infine, i vv.35-36 provenienti da materiale proprio di Luca.

La struttura è alquanto elaborata: si parte con il v.33, che funge da cornice introduttiva ai vv.34-36, che sono tra loro disposti a forma di parallelismo concentrico sul v.35, che risulta così centrale e, di conseguenza, secondo le logiche della retorica ebraica, il più importante. Pertanto si avrà il seguente assetto strutturale:

A) v.33: enunciazione del tema, che funge da cornice all'intera pericope: la Rivelazione portata da Gesù, lampada che è stata accesa dal Padre, per illuminare tutti quelli che l'accolgono;

B) v.34: come Gesù è la lampada da cui rifulge la luce che illumina gli uomini, così l'occhio, che funge da lampada per l'uomo, è il filtro da cui passa la luce che illumina l'intera persona; la bontà e la qualità di questa luce dipende da come si posiziona l'occhio, se sul bene o sul male;

      C) v.35: esortazione alla vigilanza affinché la luce non diventi tenebra;

B1) v.36: di conseguenza, per un corpo completamente luminoso tutto sarà pieno di luce, perché investito pienamente dalla luce della rivelazione.

Il v.33 presenta Gesù fonte primaria della Rivelazione, che è luce per gli uomini. Come questi si posizionino nei suoi confronti, viene illustrato nel v.34 che ha il suo parallelo complementare nel v.36. Il v.34 presenta le due possibilità: se l'occhio, cioè se il modo di guardare e, quindi, di posizionarsi nei confronti della Rivelazione è positivo, l'intera persona ne verrà investita positivamente; diversamente, l'intera persona verrà avvolta dalle tenebre. Il v.36 riprende la seconda parte del v.34 (“Qualora il tuo occhio sia schietto, anche tutto il tuo corpo è luminoso”) e lo sviluppa, presentando la persona che si è lasciata illuminare come colei per la quale tutto rifulge di luce, cioè tutto le apparirà comprensibile e illuminante per la sua vita, poiché vede con gli occhi della Verità, in cui dimora in virtù della Luce, da cui è stata illuminata, avendola accolta.

Commento ai vv.33-36

Si è detto come il v.33 sia stato ripreso da 8,16, mutuato a sua volta da Mc 4,21, da cui ha attinto anche Mt 5,15. Ma mentre quest'ultimo, inserito nel contesto di Mt 5,13-16, assume il senso di una fede che va testimoniata con fermezza all'interno della comunità credente così che ognuno che vi entri la veda splendere tra i suoi componenti, Mc 4,21 e Lc 8,16, cambiando il contesto, vedono nella lampada la luce della Rivelazione, che, accolta ora nel segreto, apparirà ovunque nella sua pienezza. La prospettiva, quindi, qui è ecclesiologica. Proprio su questa immagine della Rivelazione, lampada destinata a rifulgere apertamente, Luca costruisce il v.33. Ma la lampada ora, a motivo del mutato contesto in cui si inserisce, assume un significato diverso ancora: essa diviene la metafora di Gesù fonte della luce, metafora, a sua volta, della Rivelazione che illumina. In questa prospettiva colui che ha acceso la lampada è il Padre stesso, che ha inviato Gesù, luce che illumina gli uomini; lui, infatti, come attesta Gv 1,9, “Era la luce vera, che illumina ogni uomo, quella che viene nel mondo”. Così, similmente, in tale contesto, l'espressione “affinché quelli che entrano vedano la luce” non va più intesa come l'entrare dei convertiti nella comunità credente, ma il riferimento è a coloro che entrano in rapporto con questa Luce a seguito dell'annuncio, così da venirne “illuminati”. E con tale epiteto, “illuminati”, venivano qualificati i nuovi battezzati nelle prime comunità credenti. Riecheggia qui, in qualche modo, l'esperienza missionaria di Luca, intesa come missione di diffusione della Luce in mezzo alle genti, richiamata in At 13,46-49: l'annuncio rifiutato dai Giudei viene ora rivolto ai pagani, che gioiscono nell'accoglierlo: “Allora Paolo e Barnaba dichiararono con franchezza: <<Era necessario che fosse annunziata a voi (Giudei) per primi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco noi ci rivolgiamo ai pagani. Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all'estremità della terra”>>. Nell'udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola di Dio e abbracciarono la fede tutti quelli che erano destinati alla vita eterna. La parola di Dio si diffondeva per tutta la regione”. Il v.33, pertanto, presenta Gesù, quale luce accesa dal Padre, che non può rimanere nascosta, ma è destinata a diffondersi nel mondo, per consentire a tutti quelli che la incontrano di venirne illuminati.

Posta questa premessa, Luca passa ora ad analizzare la duplice reazione nei confronti di Gesù e del suo annuncio (v.33): c'è chi lo accoglie, venendone illuminato; e chi lo respinge, rimanendo in tal modo nelle tenebre (vv.34-36). A chi Luca si riferisca può essere facilmente colto dalla citazione del testo di At 13,46-49, qui sopra riportato: il mondo giudaico in genere ha rifiutato Gesù, rimanendo così vincolato ad una Torah e ad una Alleanza, che erano soltanto il prodromo di ciò che doveva venire51, rifiutando la vera Luce in nome del suo prodromo, rimanendo così racchiuso nelle tenebre, poiché il prodromo della Luce che viene non era la vera Luce; mentre il mondo dei pagani l'ha accolto, rimanendone illuminati. E tutto ciò è dipeso dall'atteggiamento interiore, e qui sia giudei che pagani (Gv 1,10-11), con cui ci si è posti di fronte alla Luce.

Il v.34 si apre riprendendo il tema della lampada, collegandosi al v.33 attraverso la parola aggancio “lampada”, innescando così una sorta di parallelismo tra Gesù, lampada che illumina gli uomini, e l'occhio, attraverso il quale filtrano la luce e le immagini, che illuminano l'intera persona, che pertanto si muove con sicurezza nella luce; contrariamente a chi invece possiede un occhio che non svolge tale funzione, rimanendo così avvolto dalle tenebre. In tal modo il v.33, che in una prima lettura sembra slegato dal resto della pericope, forma invece un blocco unico con questa, lasciando intendere come i vv.34-36 hanno a che vedere con il v.33, in cui si parla di Gesù rivelazione del Padre, mentre i vv.34-36 delineano la contrastante posizione degli ascoltatori di fronte a questa.

Il senso dell'intero versetto si gioca tutto attorno ai due contrapposti aggettivi che qualificano l'occhio, fonte primaria di luce o di tenebra per l'uomo: “¡ploàj” (aplûs) e “ponhrÕj” (poneròs). Quanto al primo, “¡ploàj”, esso significa semplice, singolo, senza doppiezza, schietto, ingenuo, senza raggiri, franco, sincero, onesto, puro; quanto al secondo, “ponhrÕj”, significa cattivo, malvagio, perverso, triste. Da questo elenco di contrapposti significati ben si comprende come qui non si stia parlando di “occhio” o di “corpo” in senso fisico, ma metaforico così che l'occhio diviene metafora del cuore, della mente e dell'anima, di tutto ciò che vi è di più intimo nell'uomo; mentre il “corpo”, che ne viene illuminato o meno, è la metafora della persona. Gli aggettivi qualificativi, infatti, non sono attribuibili all'occhio, ma descrivono piuttosto la condizione morale e spirituale di una persona; ne delineano l'atteggiamento interiore con il quale ognuno si pone di fronte alle cose, alle persone, alla realtà in genere con cui entra in relazione, di fatto accogliendola o rifiutandola.

Il v.36 si apre riprendendo la stessa espressione con cui termina il v.34b, agganciandosi così ad esso e dandone in tal modo continuità, ma nel contempo approfondendone maggiormente il significato. Luca tiene a sottolineare qui come l'atteggiamento interiore dell'ascoltatore, che si accosta alla Rivelazione, deve essere veramente sincero, onesto e corretto, senza che vi siano incertezze o zone d'ombra, che nel tempo possono inficiare la Rivelazione accolta. L'espressione “non avendo una qualche parte tenebrosa” lascia intendere come l'accostarsi accogliente alla Rivelazione non deve avere esitazioni, ma va accolta con onestà e correttezza intellettuali nonché con fermezza, nella sincerità del cuore.

Questa continuità e complementarietà tra i vv.34.36, tra loro paralleli, viene in qualche modo interrotta dal v.35, che si posizione centralmente tra loro, rilevandone in tal modo l'importanza. Si tratta di una sorta di pausa di riflessione, la cui natura è parenetica ed ammonitrice nel contempo: “Abbi cura, pertanto, affinché la luce in te non sia tenebra”. Si tratta di una pressante esortazione all'introspezione, a compiere un sincero esame di coscienza, per analizzare che il proprio accostarsi alla Rivelazione sia veramente, in tutta onestà e correttezza, autentico. Si tratta di un versetto preparatorio a quello successivo e che fornisce in qualche modo la chiave di lettura dell'espressione : “non avendo una qualche parte tenebrosa”, che a tal punto risulta essere il frutto di un attento esame di coscienza, sollecitato dal v.35.

È interessante rilevare come l'ammonizione del v.35 solleciti affinché “la luce in te non sia tenebra”. Non dice “affinché la luce in te non diventi tenebra”, ma “non sia tenebra”. È da chiedersi come sia possibile che una luce sia tenebra. A che cosa e a chi Luca si riferiva? Dal contesto in cui è collocato il v.35 e considerata la dura sferzata contro il Giudaismo, fatta seguire ai vv.37-52, è possibile che Luca stesse pensando alla situazione del mondo giudaico e, ancor più, all'intera storia di Israele. Una storia che inizia con una scelta privilegiata, nata dall'amore di Dio e dalla sua fedeltà alle promesse fatte ai Padri, che affrancarono Israele dalla schiavitù egiziana (Dt 7,7-8); un non popolo, diventato popolo e ai piedi del Sinai, gli viene assegnata una nuova identità, in cui è racchiusa una implicita missione in mezzo alle genti (Es 19,5-6); gli viene affidata la Torah, segno dell'Alleanza tra lui e Jhwh; un popolo al quale Jhwh non fece mai mancare la sua voce per mezzo dei profeti, che costituirono per Israele una sorta di coscienza collettiva, che lo richiamava incessantemente ai suoi impegni di fedeltà all'Alleanza, aprendogli nuovi orizzonti popolati da grandi visioni messianiche. Ma nonostante tutta questa storia di luce, che lo doveva preparare ad accogliere la vera Luce, giunta questa, non la seppero riconoscere e la rifiutarono (Gv 1,11). Sarà proprio questo il tormento e il profondo dolore di Paolo, che non sa capacitarsi come ciò sia potuto accadere (Rm 9-11). Da qui l'ammonimento di Luca: “Abbi cura, pertanto, affinché la luce in te non sia tenebra”, cioè una luce che hai assolutizzato al punto tale da non vedere la vera Luce. E questo fu dovuto al fatto che Israele non ha saputo cogliere il vero senso della luce donatagli, ma si è limitato a bearsi di una luce che non era luce (Rm 2,17-20), ma soltanto annuncio di un'altra Luce. Israele, pertanto, è rimasto vittima della sua stessa luce, che gli ha impedito di vedere la vera Luce. Per questo Luca sollecita a porre attenzione affinché la luce che si possiede non sia tenebra, cioè renda l'illuminato incapace di cogliere la vera Luce. Eppure il salmista lo aveva cantato molti secoli prima: “Quanto è preziosa la tua grazia, o Dio! Si rifugiano gli uomini all'ombra delle tue ali, si saziano dell'abbondanza della tua casa e li disseti al torrente delle tue delizie. E' in te la sorgente della vita, alla tua luce vediamo la luce” (Sal 36,8-10). Ma non fu così per Israele, nonostante i profeti la indicassero al popolo.


La luce che era tenebra: l'ipocrisia del culto giudaico e la manipolazione della Torah condannate da Gesù (vv.37-54)


Note generali

La riflessione sapienziale sviluppata con i vv.33-36, oltre che fornire la chiave di lettura all'ampia pericope qui in esame (vv.37-52), costituisce anche l'enunciazione di una tesi, che sostiene come un cattivo approccio alla rivelazione veterotestamentaria, come è avvenuto per il giudaismo, possa costituire un impedimento all'accedere alla vera Luce, che in qualche modo era racchiusa in quella. Mt 5,20-45, in cui sviluppa le sei controversie, fornisce un esempio di come dovevano essere compresi i dettami della Torah, cercando di superare la formalità della lettera per giungere, attraverso questa, al senso più vero e profondo che in essa era contenuto. Sfortunatamente il giudaismo si legò in modo ottuso alla lettera della Torah, perdendo di vista il senso che essa cercava di trasmettere e il tesoro spirituale in essa contenuto. Neppure i profeti, che ben compresero il senso più vero e profondo della Torah e dell'Alleanza, riuscirono a scuotere l'ingessata e ormai oscurata coscienza di Israele52, vincolata ad una lettera svuotata del suo vero senso e del tesoro che in essa era racchiuso. Ortensio da Spinetoli, nel suo commento al vangelo di Luca, coglie molto bene il male profondo che ha minato il culto e la vita religiosa in genere del giudaismo, ma alludendo nel contempo al formalismo che può minare la vita di fede ancor oggi, affermando che “Il fariseismo rappresenta la deviazione più frequente del fenomeno religioso. L'esperienza di fede viene ridotta a un meccanismo di cerimonie, di riti, di pratiche compiute nel debito tempo, modo, luogo, e senza preoccuparsi di riempirle di un contenuto. Il fariseismo o formalismo sia per l'abbondanza delle pratiche che impone, sia per la meticolosa esecuzione che richiede, ferma tutta l'attenzione a tali esercizi togliendo tempo e spazio alla riflessione, alla partecipazione interiore [...]”53. E Paolo, in 2Cor 3,6 ricorderà questo aspetto caratteristico del giudaismo, ridotto al formalismo della lettera che uccide, oscurandone lo Spirito, che invece vivifica e di cui egli è ministro: “[Dio], che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita”. E la pericope che segue metterà in luce questa profonda contraddizione del giudaismo, che ha saputo trasformare l'amore per Dio e per il prossimo, sancito dalla Torah (Lv 19,18; Dt 6,5), in una assillante esecuzione di regole da osservare e da eseguire fino ad uccidere Dio stesso, che gli si è presentato nello splendore del suo Amore (Gv 3,16), perché questo Amore cercava di superare l'aridità di una lettera che uccide. E questa fu la sorte che, ancor prima, toccò ai profeti (vv.47-51).

Le invettive lucane contro il giudaismo hanno il loro parallelo in Mt 23,1-39 e riflettono, in particolar modo quelle matteane, il duro scontro tra il nascente cristianesimo e il giudaismo del I sec.54. Per entrambi i sinottici la loro fonte comune è la Q, benché i rispettivi testi siano tra loro ben lontani e ampiamente rimaneggiati. Tuttavia è da ritenere più vicino alla fonte Q quello lucano sia per la concisione dei testi, piuttosto grezzi nella loro esposizione, sia per la difficoltà di lettura e per il loro coordinamento; contrariamente al testo matteano, molto elaborato, ben coordinato, accompagnato da molti dettagli e precisazioni e aggiunte, sconosciute a Luca, che meglio rispecchiano la situazione del giudaismo palestinese, ben conosciuta dall'ebreo Matteo, diversamente da Luca, un pagano greco convertito, che non sembra conoscere bene né la Palestina, né i suoi usi e costumi religiosi, per cui ha preso ciò che la fonte Q gli ha passato, limitandosi probabilmente, in modo acritico, a darne una sistemazione all'interno della sua opera.

La pericope in esame (vv.37-54) si snoda secondo la seguente struttura:

  1. Cornice redazionale, che contestualizza l'intera pericope all'interno di un invito a pranzo presso la casa di un fariseo e che nel contempo prelude alla tematica delle invettive: il formalismo religioso (vv.37-39a);

  1. invettive contro il formalismo farisaico, tutto intento alla scrupolosa osservanza della lettera, soprassedendo alla sua sostanza (vv.39b-44);

  2. stacco redazionale (v.45), che introduce le invettive contro i dottori della Legge e che prelude ad un secondo tema, oggetto delle nuove invettive: l'interpretazione della Legge e la formulazione di continue norme che vanno ad appesantire, rendendola insostenibile, l'osservanza della Legge; ma nel contempo chiudendo all'interno di questa ridda di norme il pio ebreo, impedendogli di accedere alla Luce della Rivelazione portata da Gesù, e ancor prima e sulla stessa scia di Gesù, ai richiami dei profeti (vv.46-52);

  3. La subdola e aggressiva reazione dei farisei e dei dottori della Legge nei confronti di Gesù (vv.53-54)

Come già si è potuto intuire, lo sdoppiamento delle invettive, contro i farisei (vv.39b-44) e contro i dottori della Legge (vv.45-52), è dovuto alle due diverse tematiche, che in questa ampia pericope vengono trattate: da un lato il modo di vivere la Legge, riguardante i farisei; dall'altro l'interpretazione della Torah, che nel produrre un'enorme quantità di norme, chiude ogni possibilità di accesso ad una diversa interpretazione, come tentarono i profeti e Gesù, entrambi respinti e uccisi, per salvaguardare la Torah stessa. La difesa della Torah, pertanto, non solo ha impedito ogni possibile evoluzione spirituale dell'ebraismo, fissandolo alla sterilità della lettera (vv.46.52), ma lo ha trasformato in omicida nei confronti di chi ci ha provato (vv.47-51).


Commento ai vv. 37-54


Prima parte: l'invettiva contro il formalismo dei farisei (vv.37-44)

La breve cornice introduttiva all'ampia pericope delle invettive (vv.39b-52) si apre con l'espressione “Ora, nel mentre che stava parlando” (v.37a), creando in tal modo una continuità narrativa tra quanto precede e quanto ora segue. I vv.37-39a formano qui da contesto narrativo dove Luca inquadra le invettive contro il giudaismo. La cornice è redazionale e in qualche modo si rifà a 7,36, dove similmente un fariseo aveva invitato Gesù a pranzare a casa sua. Là come qui, il Gesù lucano avrà modo di porre a confronto il suo pensiero con quello giudaico, perbenistico nel primo caso (7,36-50); formalista e oppressivo in questo secondo caso qui in esame. Mentre in un'altra occasione (14,1-6), sempre in un contesto di un pranzo presso un fariseo, ma in giorno di sabato, Gesù avrà modo di far riflettere sul senso del sabato, la cui osservanza non deve mai prevalere sulle necessità dell'uomo, poiché, altrove, sentenzierà che il sabato è in funzione dell'uomo e non il contrario (Mc 2,27).

Ora, nel frangente di questo pranzo, il fariseo “si meravigliò perché per prima cosa [Gesù] non si fosse lavato prima del pranzo”. La contestazione qui rivolta a Gesù e ai suoi discepoli è riportata parimenti in Mt 15,2 e Mc 7,2 e in quel contesto funge per entrambi da cornice introduttiva al tema della vera purità, che il credente deve coltivare in se stesso: quella interiore del proprio cuore e non quella esteriore del proprio corpo. Diversamente, qui Luca la usa per innescare una serie di invettive contro le usanze rituali del giudaismo, che si limitano ad una mera osservanza esteriore della Legge, trascurandone la sostanza e il senso profondo in essa contenuti. Tuttavia, lo stupore scandalizzato del fariseo per la mancanza di Gesù, non è così ipocrita e così peregrino come vorrebbe far credere Luca, ma ha un duplice serio fondamento: il primo riguarda la ritualità e la sacralità del pasto quotidiano presso i Giudei; il secondo ha a che vedere con la posizione stessa di Gesù, che è ritenuto dalla gente e dalle stesse autorità religiose un maestro (did£skaloj, didáskalos) e una guida spirituale ('Epist£ta, epistáta)55. Il suo comportamento, pertanto, può destare scandalo all'interno non solo del mondo farisaico, ma anche giudaico in genere. Mc 7,3-4 cita, infatti, il rito delle abluzioni come un'usanza comune non solo per i farisei, ma per tutti quanti i giudei.

La questione posta dal fariseo, e con lui dal giudaismo in genere, circa le abluzioni prima di consumare il pasto, trovava la sua origine in Es 30,18-21 ed era una prescrizione riferita inizialmente ai soli sacerdoti ed aveva una valenza di mera purità rituale: <<Farai una conca di rame con il piedistallo di rame, per le abluzioni; la collocherai tra la tenda del convegno e l'altare e vi metterai acqua. Aronne e i suoi figli vi attingeranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno, faranno un’abluzione con l'acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all'altare per officiare, per bruciare un'offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore, si laveranno le mani e i piedi e non moriranno. E' una prescrizione rituale perenne per lui e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni>>”. Nel tempo questa norma venne estesa all’intero Israele, in quanto tutto il popolo era considerato proprietà di Dio, un regno di sacerdoti e una nazione santa (Es 19,5-6); un popolo santificato da una elezione divina e per questo doveva comportarsi santamente (Lv 19,2; 20,26) e, di conseguenza, seguire egli stesso delle regole di purità rituale56, poiché tutto il vivere dell’ebreo era una sorta di celebrazione liturgica e cultuale, che aveva il suo punto forte nell’assunzione del cibo. Una concezione sacrale del vivere che lo stesso cristianesimo ha poi mutuato e assunto fin da subito con riferimento alla nuova condizione di vita del credente in Cristo57. La concezione sacrale e cultuale del pasto, che si svolge come una sorta di celebrazione liturgica, ha acquisito un particolare peso a partire dalla distruzione del Tempio (70 d.C.). Molte prescrizioni riferite alla ritualità cultuale vennero trasferite al banchetto familiare, che in qualche modo sostituiva l’altare e il culto. Pertanto, prima di mangiare ci si lavava le mani, recitando una preghiera di benedizione. Non soltanto, quindi, per motivi igienici, ma prevalentemente per motivi rituali e sacrali (Mc 7,3-4). Il pasto cominciava con una preghiera di benedizione sul pane. Seguiva, quindi, la preghiera della mensa vera e propria in ottemperanza a Dt 8,10: “Mangerai dunque a sazietà e benedirai il Signore Dio tuo a causa del paese fertile che ti avrà dato”. In particolar modo si lodava Dio come colui che nutre il mondo; lo si ringraziava per la terra, in cui ha introdotto il suo popolo, liberandolo dalla schiavitù dell’Egitto e poi per l’Alleanza e la Torah. Seguiva, ancora, una preghiera perché Dio usasse misericordia a Gerusalemme e alla casa di Davide. Infine, si lodava Dio come colui che è buono e fa il bene e sui cui benefici Israele può sempre contare. La preghiera della mensa, quindi, va ben al di là di una semplice preghiera di circostanza e crea un clima di culto, in cui il pasto si trasforma in un rito sacro, in una vera e propria liturgia di lode e di ringraziamento58. Gesù queste cose, da buon giudeo, doveva conoscerle bene, tuttavia la sua palese violazione, così come quella sulla purità, sul riposo del sabato e sui digiuni, non mirava a desacralizzare un'usanza che aveva solide basi teologiche, ma andava a colpire un'usanza che ormai era stata svuotata da tale senso e, come questa, tutto il vivere del giudaismo e del suo rapportarsi alla Torah e all'Alleanza, quali tangibili espressioni del rapporto tra Israele e il suo Dio, si erano ormai ridotte ad una mera esecuzione giuridica. Sarà proprio questo aspetto che Luca, come Mt 23, intende colpire nel giudaismo. Una dura sferzata, che risente della polemica tra giudaismo e nascente cristianesimo del I secolo.

Allo stupore scandalizzato del fariseo per la mancata abluzione rituale da parte di Gesù, provoca una dura quanto incredibile reazione dello stesso. Una reazione che suona improvvisa, inaspettata, smodata e per la sua introduzione anche sgangherata. Insomma, una vera e propria piazzata quella di Gesù di fronte al suo ospite e agli altri conviviali, che a buon senso stona e stride molto con le regole dell'ospitalità. Una veemente quanto ingiustificata scenata, che si conclude con Gesù, che lascia il banchetto e se ne va per i fatti suoi, lasciando lì attoniti ospite ed invitati. Si tratta ovviamente di una forzatura di tipo redazionale. Luca doveva sistemare il materiale di fonte Q e ha pensato di inquadrarlo, unico tra i sinottici, nel contesto di un banchetto. Certo che il lavoro redazionale qui non è stato molto raffinato, già a partire dal come Gesù inizia la sua sferzata, entrando a gamba tesa in polemica con il suo ospite, mettendo a disagio anche presenti (v.45): “Adesso voi Farisei purificate l'esterno della coppa e del piatto, ma il vostro interno è pieno di rapina e malvagità”. Quel incomprensibile “Adesso voi Farisei”, che sembra slegato dal contesto (“Nàn Øme‹j oƒ Farisa‹oi”, Nîn imeîs oi Farisaîoi), probabilmente sta per “Ora, proprio voi Farisei venite a farmi la predica, voi che ...”. Certamente tra il contesto in cui vengono inserite le invettive contro il giudaismo e l'intervento di Gesù sembra esserci stato un rattoppo o comunque una brutta manipolazione del testo. Non è da Luca un simile sconcertante assetto redazionale.

La pericope 39b-44 è scandita in due parti: la prima (vv.39b-41) è costituita da una riflessione che si sviluppa in una progressione graduale, che parte dall'enunciazione del tema (v.39b), prosegue con la tesi contrapposta e correttiva (v.40), per poi concludere con una sentenza di tipo sapienziale, che funge da soluzione della questione introdotta al v.39b (v.41). La seconda parte (vv.42-44) funge da requisitoria, in buona sostanza un atto di accusa che ha la sua giustificazione nella prima parte.

Il v.39b imposta il tema: la cura dell'esterno, cioè della parte fisica, corporea, quella visibile, che viene contrapposta al disordine e alla fatiscenza di quella interna, metafora del cuore, della mente, dello spirito, dell'interiorità della persona e che troverà il suo vertice drammatico nel terzo guai (v.44), in cui i farisei sono paragonati a delle tombe ben occultate, che contaminano gli uomini. Il v.39b crea, pertanto, nell'uomo una dicotomia e una contrapposizione tra l'esterno e l'interno, quasi fossero due realtà che possano viaggiare pacificamente in parallelo tra loro, e che la santità rituale esteriore nulla avesse a che vedere con quella interiore, anzi, quest'ultima poteva essere ben compensata da quella esteriore, che, invece, rispettava rigorosamente la Torah e la Tradizione dei Padri. In altri termini, con l'eseguire scrupolosamente le disposizioni della Legge, scritta e orale, si soddisfaceva quanto Dio aveva imposto a Israele e, quindi, nulla poteva contestare o pretendere; anzi, al contrario, era l'osservante che poteva pretendere da Dio il riconoscimento per la sua scrupolosa esecuzione della Volontà divina, contenuta nella Torah e nella Tradizione. Un perverso rovesciamento di posizioni: non l'uomo dipendente da Dio, bensì questi debitore dell'uomo.

Il v.40, riprendendo la contrapposizione dicotomica del v.39b, la contesta, attestando che interno ed esterno hanno un unico e comune autore, Dio, per cui qualsiasi azione esterna ha rilevanza sulla propria interiorità; mentre l'atteggiamento interiore si riflette su quello esteriore sostanziandolo, per cui l'esecuzione formale della Torah e della Tradizione, qualora si trovi in netta dissonanza con l'atteggiamento interiore, si traduce in una menzogna di vita e, nei rapporti con Dio, diventa blasfema e dissacrante nei rapporti con gli altri (v.44). Il v.40 sancisce, quindi, un profondo legame e una profonda unità tra esteriorità e interiorità, che costituiscono l'unità e l'integrità della persona, che ha il suo fondamento in Dio.

Il v.41 costituisce il terzo ed ultimo passaggio di questa riflessione che, iniziatasi con una denuncia della schizofrenia della vita religiosa del giudaismo (v.39b), contestata dal v.40, che riconduce l'agire dell'uomo all'unità, che ha per fondamento Dio, conclude con una sentenza dai toni sapienziali: “Nondimeno date in elemosina le cose che sono dentro, ed ecco tutte le cose sono pure per voi”. Tale sentenza afferma la primarietà dell'interiorità dell'uomo quale fondamento della sua stessa vita, da cui si diparte il senso della vita stessa, che innerva l'agire umano fornendolo di senso. Il movimento, infatti, è “da dentro” (“le cose che sono dentro”) verso “l'esterno” (“ed ecco tutte le cose sono pure per voi”). E ciò che è dentro, che deve poi apparire all'esterno e sostanziare il vivere del credente, è il “dare in elemosina ciò che si ha dentro”. Il termine che qui Luca usa è “™lehmosÚnhn” (eleemosínen, elemosina), che ha la sua radice nel verbo “lešw” (eleéo), che significa avere pietà, avere compassione, avere misericordia. Quindi l'elemosina si qualifica come un atto di pietà, di compassione e di misericordia. Ed è ciò che deve sostanziare il cuore e la mente del credente, permeandone l'anima. Se, dunque, l'approccio verso l'esterno è fondato su questo atteggiamento di compassionevole benevolenza e accoglienza, tutte le cose diventeranno pure, cioè libere da vincoli catartici esteriori, che costringono a continue abluzioni o al fare coatto, poiché tale purezza già è presente nel cuore dell'uomo. Ed è ciò che sentenziava il v.34b: “Qualora il tuo occhio sia schietto, anche tutto il tuo corpo è luminoso” e che Paolo rimarcherà nella sua lettera a Tito: “Tutto è puro per i puri; ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro; sono contaminate la loro mente e la loro coscienza” (Tt 1,15).

La seconda parte della pericope in analisi (vv.42-44) contiene la requisitoria contro il giudaismo farisaico e nel contempo una esemplificazione, molto più dettagliata in Mt 23,1-39, della discrepanza tra osservanza esteriore e condotta interiore. L'accusa contro il fariseismo è scandita da tre “Guai”, che suonano come anatemi e i cui toni richiamano gli interventi dei profeti contro le infedeltà di Israele ed aprono su questo una sorta di giudizio escatologico. Il primo “Guai” (v.42) gira attorno ad un paradosso: da un lato, la scrupolosa quanto minuziosa osservanza della decima59 imposta su delle erbe del tutto insignificanti; dall'altro, la violazione di cose essenziali come “il giudizio e l'amore di Dio”, i due elementi costitutivi dell'Alleanza. Il giudizio, che presuppone e si esprime nella Torah e in particolare nei dieci comandamenti, che sono un imperativo sia etico che religioso, dove viene stabilito l'ordine naturale delle cose, che si fonda sul riconoscere Dio come principio della propria dignità (Es 19,5-6) ed elemento determinante della propria liberazione e della propria libertà (Es 20,2). Ma l'Alleanza, cioè il rapporto vincolante tra Dio e Israele e tale da fare di Israele la proprietà stessa di Dio e nel contempo fare di Dio, il Dio che appartiene ad Israele e in cui Israele si riconosce, è nata da una scelta di Dio stesso, che si fonda sull'amore di Dio per Israele, diventato, in virtù di questa scelta divina, suo popolo, a lui consacrato: “Tu infatti sei un popolo consacrato al Signore tuo Dio; il Signore tuo Dio ti ha scelto per essere il suo popolo privilegiato fra tutti i popoli che sono sulla terra. Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re di Egitto” (Dt 7,6-8). All'interno di questo contesto il giudizio di Dio acquista valenza di diritto e di giustizia, in cui tale giudizio è implicito; un diritto ed una giustizia che non sono mai disgiunti dall'amore, anzi il diritto e la giustizia diventano varianti dell'amore di Dio, così che Gc 2,13b attesta che “la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio”. Quindi non è l'osservanza meticolosa della decima sulle erbe che santifica l'uomo, ma l'essere nell'Alleanza, che si fonda sulla giustizia e sull'amore di Dio, al cui interno acquista senso anche la decima, che va colta come atto di solidarietà e di condivisione dei propri beni.

Una simile sferzata si ritrova in Is 1,11-17 rivolta contro Israele, definito da Dio popolo di Gomorra, e i suoi capi, capi di Sodoma, le due città distrutte dal giudizio di Dio con fuoco e zolfo per la loro insopportabile iniquità (Gen 19,1-29). Questi, infatti, erano tutti dediti al culto di Jhwh e alla rigorosa osservanza religiosa, ma il loro cuore era ben lontano da Dio, perché non praticavano l'amore e la giustizia, cose essenziali che davano senso a tutto il resto: “Udite la parola del Signore, voi capi di Sodoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero? dice il Signore. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova”. Un culto sfarzoso ed ostentato, quindi, ma privo di giustizia e di amore, che nei racconti evangelici viene simboleggiato nel fico pieno di lussureggiante fogliame, ma completamente privo di frutti. Su questo cadrà la maledizione di Gesù e il fico, simbolo di Israele, si seccherà60. Così similmente la parabola, tutta lucana, di quel padrone che ordina il taglio del suo fico che da tre anni61 non dava frutti (13,6-9).

Il secondo “Guai” (v.43) va a colpire il comportamento vacuo e superficiale dei farisei che amavano mettersi in mostra, occupando i primi posti nelle sinagoghe ed essere riconosciuti e salutati nelle piazze. “Sinagoghe” e “piazze” sono i due momenti che mettono in rilievo i due aspetti della vita di questi farisei, quello religioso e quello sociale, in entrambe le situazioni essi amavano primeggiare. Questo “Guai” mette a nudo gli interessi primari di questi personaggi, che contrastano con il senso e la finalità della loro stessa setta: quella della ricerca e della pratica scrupolosa della Volontà di Dio, a cui conformare la propria vita. Essi, dunque, avrebbero dovuto essere mossi da un profondo amore verso Dio. Ma in realtà i loro interessi erano rivolti verso se stessi e strumentalizzavano la loro appartenenza alla setta come una sorta di piedistallo per mettere in mostra se stessi. La loro vita solo apparentemente era “teocentrica”, in realtà era “egocentrica” e piena di interessi personali (16,14a), che li porterà anche a tramare per appropriarsi dei beni delle vedove e degli orfani (20,47), la quale cosa ci riporta al primo “Guai”.

Ed è proprio questo comportamento nel suo insieme che porta il lettore al terzo “Guai” (v.44), che denuncia il fariseismo come un male sociale e religioso, proprio per la sua doppiezza: “Guai a voi, poiché siete come le tombe occulte e gli uomini che vi camminano sopra non (lo) sanno”. La prospettiva qui è completamente diversa da quella matteana, dove si accusa i farisei di essere delle tombe imbiancate62, belli all'esterno, ma pieni di impurità all'interno (Mt 23,27), mettendo in rilievo la schizofrenia di vita di questi personaggi. Diversamente, Luca li accusa di essere delle tombe occultate agli uomini dalla loro prestigiosa posizione sociale e religiosa e dal loro perbenismo, in tal modo ingannandoli, e questi, fidandosi della apparente perfezione spirituale di quelli, seguono le loro dottrine e le loro scelte di vita, chiudendosi in tal modo all'annuncio del Regno. Sarà proprio questa l'accusa mossa dal v.52. Pertanto, come le tombe sono motivo di impurità rituale per chi ne viene a contatto, così lo sono i farisei, definiti da Luca come dei contaminatori e inquinatori spirituali del giudaismo, avendolo ridotto ad una ritualità formalistica, che ha rinsecchito il rapporto dei credenti con il loro Dio, escludendoli dal Regno di Dio.

Seconda parte dell'invettiva contro i dottori della Legge e la loro interpretazione della Torah (vv.45-52)

Se le invettive di Mt 23 sono rivolte indistintamente ai farisei e agli scribi, Luca pone un distinguo tra i primi (v.37) e i secondi (v.45), che chiama indistintamente anche dottori della legge. Lo scriba, infatti, a motivo della sua professione, era anche un esperto della Legge63. Ora, Luca, con il v.45, fa intervenire un dottore della Legge, probabilmente di corrente farisaica, considerata la sua protesta. Si viene a creare così uno stacco netto rispetto alla precedente pericope (vv.37-44), dedicata al fariseismo, cioè al modo legalistico di vivere la Torah, che ne svuotava il contenuto. Con questa seconda parte (vv.45-52), introdotta dall'intervento del dottore della Legge (v.45), Luca intende ora colpire le fondamenta stesse della Torah, non tanto quella scritta, la cui origine la Tradizione dei Padri, attraverso una catena di trasmissione, faceva risalire direttamente a Mosè e da Mosè a Dio, che l'aveva donata a Mosè sul Sinai e per ciò stesso inviolabile, quanto quella orale, formatasi successivamente nel corso dei secoli a interpretazione di quella scritta. La Torah orale era venuta a prendere una posizione talmente dominante da oscurare quella scritta e in qualche modo l'aveva sostituita. E sarà proprio il Gesù matteano che denuncerà questa grave anomalia nell'ambito di una dura polemica con con gli scribi e i farisei (15,1-9), in cui accuserà le autorità religiose giudaiche di aver trasgredito il comandamento di Dio in nome della loro Tradizione (Mt 15,3) fino ad annullarlo e sostituirlo: “Così avete annullato la parola di Dio in nome della vostra tradizione” (Mt 15,6b). La diatriba si concluderà con la significativa citazione di Is 29,13: “Questo popolo mi onora con le labbra ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini” (Mt 15,8-9)64. Un durissimo colpo alla Torah orale, considerata alla stessa stregua della Torah scritta e qui definita, invece, come “precetti di uomini”, destituendola in tal modo di ogni valenza morale e religiosa.

Luca, similmente alla prima parte dedicata al fariseismo, ora fa seguire altri tre “Guai” distribuiti in modo tale che il secondo “Guai” costituisca la parte storica ed oggettiva della loro deviazione, che ha origini antiche e non si è ancora fermata, ma su di essa sta per cadere il definitivo giudizio divino.

Il primo “Guai” è volto a stigmatizzare l'enorme massa di disposizioni elaborate nel corso dei secoli dai dottori della Legge e finalizzate all'interpretazione della Torah scritta. I pesanti carichi, di cui si parla qui, fanno riferimento alla Torah orale, il cui compito era quello di interpretare e dare concretezza alla Torah scritta. Questa, infatti, enunciando soltanto dei principi, era di fatto inapplicabile nella quotidianità della vita. Il divieto di lavorare di sabato (Es 20,10) come doveva essere eseguito? Che cosa si doveva intendere per lavoro? In quali casi era possibile comunque lavorare? Delle risposte si occuperà, per l'appunto, la Torah orale. Tuttavia, l'eccesso di zelo e la preoccupazione che nessun comandamento venisse anche inavvertitamente violato, ha portato i dottori della Legge a creare attorno alla Torah scritta una sorta di siepe normativa protettiva, che nel tempo si andava sempre più inspessendo fino a renderla ingestibile, creando non poche difficoltà ed intralci alla quotidianità del vivere; non solo, ma essa arrivò anche ad oscurare la stessa Torah scritta, di fatto violandola. Pesi che andavano a caricarsi sulla gente comune, ma l'esperto dottore della Legge sapeva come dribblarli. Questa ridda di precetti si incentrava tutta sulla loro corretta esecuzione e impediva di fatto di avere un autentico rapporto personale con Dio, quello che metteva in discussione la profondità del proprio cuore, poiché tale rapporto si esauriva nella mera esecuzione di una precettistica asfissiante e impossibile da gestire65 e da praticare.

Il secondo “Guai”, come sopra accennato, costituisce la parte storica della deviazione omicida dei dottori della Legge, che dai loro padri hanno ereditato l'avversione contro i profeti, gli autentici interpreti della Torah (vv.47-48); un'avversione che continua ora contro Gesù, vera Sapienza del Padre, e i suoi seguaci (v.49). Loro, pertanto, la classe dei dottori e degli interpreti della Torah, sono gli eredi finali di una lunga catena di omicidi di innocenti, uccidendo in questi la stessa voce di Dio, e a loro verrà chiesto conto del sangue versato (vv.40-51). Ci troviamo dunque di fronte ad una dimostrazione storica e pertanto oggettiva della loro perversione, che costituisce di fatto un atto di accusa, che prelude ad un imminente giudizio finale. L'accusa assomiglia molto all'arringa finale della pubblica accusa in un'aula di tribunale. Il contesto, pertanto, che qui si viene a creare è quello giudiziale.

I vv.47-48 stigmatizzano la continuità omicida dei dottori della Legge con i loro padri. Ciò a cui Gesù fa qui riferimento era la costruzione di monumenti sepolcrali dedicati ai profeti, che era invalsa a partire dall'epoca di Erode il Grande. Il v.47 enuncia l'accusa, mentre il v.48 ne è il suo sviluppo. I due versetti sono costruiti in forma chiastica: il v.47 viene ripreso nel v.48b, che inverte i soggetti dell'accusa, lasciando al centro il v.48a: “Quindi siete testimoni e acconsentite alle opere dei vostri padri”, che costituisce il cuore dell'accusa: i dottori della Legge nel costruire i monumenti sepolcrali ai profeti divengono testimoni dei misfatti dei loro padri, ma nel contempo ne completano l'opera. Quindi i dottori della Legge, come i loro padri, sono degli omicidi. Una tendenza omicida che si manifestava anche ai tempi di Gesù.

Il v.49 infatti parla della Sapienza di Dio che invia profeti ed apostoli, che vengono perseguitati ed uccisi. In Mt 23,34 l'espressione “Sapienza di Dio” è sostituita dal pronome personale “io” con riferimento a Gesù, che qui Luca percepisce come la “Sapienza del Padre”, che ritroviamo, con riferimento a Gesù, anche in 1Cor 1,24: “ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio”. Similmente in Ef 3,8-11 Gesù è visto come l'attuazione della Sapienza del Padre. E questa Sapienza di Dio invia “profeti ed apostoli”, due figure che, unitamente ad altre, costituivano il fondamento della Chiesa primitiva, perché questa Sapienza venga diffusa e donata a tutti e tutti ne siano compenetrati, così da formare un unico corpo di Cristo: “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose. E' lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all'unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” (Ef 4,10-13). La prospettiva di Luca, diversamente da Mt 23,34, che presenta figure più giudaizzanti, qui è più chiaramente ecclesiologica e vede l'origine della Chiesa nello stesso Mistero di Dio, manifestatosi ed attuatosi in Gesù, Sapienza del Padre, che viene perseguitata ed uccisa e come questa anche tutti i suoi inviati (21,12).

Qui il modo di procedere di Luca è per gradi: con i vv.47-48 associa gli attuali dottori della Legge con i loro predecessori: quelli assassinarono i profeti e gli inviati di Dio e questi non sono da meno; con il v.49 viene storicizzata la tendenza omicida di questi dottori della Legge, contemporanei di Gesù, nei suoi confronti e nei confronti dei suoi seguaci, qui intesi come Chiesa nascente. Il v.50 attribuisce le uccisioni di tutti i profeti, sorti fin dall'inizio della storia del mondo, intendendo qui per profeti tutti quelli che in vario modo si qualificarono come voce di Dio in mezzo al popolo, richiamandolo per le sue infedeltà, le sue idolatrie, ingiustizie sociali e iniquità in genere, comprese, dunque, anche le loro vittime, il cui sangue ingiustamente sparso si alza a loro condanna. Non si parla più infatti di dottori della Legge, ma di “questa generazione”, intendendo in senso generale tutti quelli che dalla creazione del mondo in poi hanno operato con iniquità e in modo omicida. L'espressione “questa generazione” diventa, pertanto, una sorta di collettore storico che accomuna una determinata categoria di persone che operano iniquamente contro Dio, perseguitando e uccidendo i suoi inviati, definiti qui profeti in senso generico, cioè persone che non solo parlano in nome e per conto di Dio, ma lo testimoniano anche con il loro martirio.

Il v.51 dà una storicizzazione al v.50, abbracciando un ampio spettro storico che va da Abele, il primo innocente ucciso (Gen 4,8), fino a Zaccaria, che Mt 23,34 definisce come “figlio di Barachia”. Luca cita soltanto il nome Zaccaria senza il patronimico. Entrambi gli evangelisti legano il nome Zaccaria ad una tragico episodio riportato da 2Cr 24,20-21: “Allora lo spirito di Dio investì Zaccaria, figlio del sacerdote Ioiada, che si alzò in mezzo al popolo e disse: <<Dice Dio: perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore, anch'egli vi abbandona>>. Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidarono nel cortile del tempio”. Questo Zaccaria, tuttavia, non è figlio di Barachia, bensì di Ioiada, che fu sacerdote sotto i regni di Acazia (841), Atalia (841-835) e Ioas (835-796). Perché dunque Mt 23,34 lo chiama “figlio di Barachia”? L'unico Zaccaria, figlio di Barachia, conosciuto nella Bibbia è il profeta Zaccaria (Zc 1,1) che esercitò la sua missione assieme ad Aggeo. Questi furono gli ultimi due profeti postesilici66 che si batterono per la ricostruzione del Tempio di Gerusalemme (520-515 a.C.). Un errore di Matteo, che ha scambiato lo Zaccaria, figlio di Ioiada con l'altro Zaccaria figlio di Barachia? E perché Luca, che si definisce uno storico (1,1-4) ed è un ottimo conoscitore della LXX ha citato solo il nome senza il patronimico? Una superficialità? Quanto a Matteo è difficile pensare che sia incorso in un così banale errore confondendo lo Zaccaria figlio di Ioiada con il “figlio di Barachia”, tra loro distanziati da circa tre secoli. Matteo, quasi certamente fu uno scriba67 e, quindi, un dottore della Legge, ottimo conoscitore delle Scritture e suo interprete. Escluso, pertanto, l'errore, è da chiedersi perché Matteo abbia depistato l'attenzione dei suoi lettori giudeocristiani, per altro buoni conoscitori delle Scritture, dal sacerdote Zaccaria, figlio di Ioiada, al profeta Zaccaria, figlio di Barachia. Il motivo è probabilmente triplice: a) Matteo qui sta parlando di profeti assassinati dai giudei, mentre Zaccaria, figlio di Ioiada era invece un sacerdote, benché in 2Cr 24,20 si dica che lo Spirito di Dio investì Zaccaria, il quale si rivolse al popolo in nome di Dio e, quindi, è da pensare che, sebbene non fosse un profeta in senso stretto, tuttavia svolgesse in quel frangente una finzione profetica, ma certamente non fu un profeta, bensì un sacerdote e, pertanto, non utilizzabile ai fini della polemica; b) Mt 23 è una feroce invettiva contro il giudaismo, che qui viene accusato di essere un uccisore dei profeti (Mt 23,29-33a) e quindi, in questa fase di dura polemica lo Zaccaria sacerdote, figlio del sacerdote Ioiada, viene sostituito con lo Zaccaria profeta, figlio di Barachia, le cui circostanze della sua morte non erano note e quindi facilmente sostituibili, considerato anche che il sacerdote Zaccaria non fu l'unico ad essere ucciso nel tempio e non fu l'unico a chiamarsi Zaccaria. In questo contesto infuocato dalla polemica, è possibile che Matteo abbia voluto addossare al giudaismo anche la morte del profeta Zaccaria, rimescolando un po' le carte della storia a tutto vantaggio di quelle della polemica; c) le Scritture ebraiche sono sempre citate nel N.T. nel loro essenziale “Legge e Profeti”: la Legge (Torah), in quanto normativa e fondativa dell'ebraismo prima e del giudaismo poi; e i Profeti (Nevi'im), in quanto autentici interpreti della Legge, della quale, superando la forma, ne mettevano in rilievo la sostanza, il senso più vero e profondo. Pertanto, Matteo, citando Abele, il prototipo degli innocenti e dei giusti, che compare nella Genesi, e il profeta Zaccaria con cui si chiude il libro dei profeti, se escludiamo l'ultimo, Malachia su cui si pongono degli interrogativi, di fatto citava i due estremi delle Scritture, della Legge e dei Profeti, con cui le Scritture iniziavano e terminavano. In tal modo Matteo chiama a testimonianza l'intera Scrittura contro il giudaismo e i suoi efferati crimini contro gli innocenti, i profeti e i giusti, perpetrati nel corso dei secoli.

Quanto a Luca, di ottimo livello culturale (medico, giurista, ottimo conoscitore della LXX e dichiaratosi storico fin dall'inizio del suo racconto, 1,1-468), cita soltanto il nome di Zaccaria, associandolo ai tragici eventi di 2Cr 24,20-21, ma non il patronimico. Perché una simile superficialità in un uomo di così elevata cultura e preparazione? Arrischio un'ipotesi. Non me ne voglia il lettore. Luca, in realtà, doveva aver precisato il patronimico di quello Zaccaria sacerdote, figlio di Ioiada, la quale cosa, in quanto dato storico, deve aver creato un certo imbarazzo nel mondo giudeocristiano nell'ambito della polemica con il giudaismo, lasciando in tal modo scoperto il fianco di Matteo, il vangelo molto diffuso e molto apprezzato presso le prime comunità credenti e quelle successive dei primi secoli, tanto da oscurare quello di Marco, il vero fondatore del genere letterario vangelo. Questa situazione di contraddizione storica in un contesto di una feroce polemica con il giudaismo, sviluppatasi nel I sec., deve aver spinto una qualche mano anonima a depennare il patronimico “figlio di Ioiada”, lasciando inalterato il nome di Zaccaria.

Con il v.52 viene lanciato l'ultimo “Guai” contro i dottori della Legge e riguarda l'accusa di aver tolto “la chiave della conoscenza” a chi voleva accedere alla conoscenza. Diversamente da Mt 23,13, Luca usa qui l'espressione “chiave della conoscenza” probabilmente perché qui sta parlando dei dottori della Legge, cioè gli interpreti ufficiali della Torah, coloro che possedevano la capacità tecnica di accedervi, facendone di fatto uno strumento di loro potere contro Dio stesso, poiché interpretandola in senso formale, trascurandone la sostanza, l'avevano di fatto completamente svisata e impedito a Dio stesso di poter accedere al cuore del suo popolo.

Ma con tale espressione il linguaggio qui si fa anche metaforico, così come metaforica era l'espressione “la Sapienza di Dio” (v.49a), un appellativo che riguardava la figura di Gesù, a cui in qualche modo si riferisce l'espressione “chiave della conoscenza”, in cui il termine “chiave” sta ad indicare il “potere” o la “possibilità”69 di accedere alla conoscenza di questa Sapienza di Dio, cioè dello stesso Gesù, manifestazione e rivelazione del Padre70. I dottori della Legge sono, pertanto, accusati di aver impedito l'accesso a tale conoscenza (Gv 9,22; 12,42; 19,38a). Un “Guai” pesante, dunque, che richiama da vicino la condanna che Osea aveva lanciato su Israele per il suo rifiuto della conoscenza di Dio (Os 4,1.6; 6,6).


Reazione negativa degli scribi e dei farisei (vv.53-54)

Con questi ultimi due versetti del cap.11 termina la dura requisitoria sia contro i farisei, quali rappresentanti e modelli di un formalistico modo di vivere l'Alleanza e quindi del rapporto con Dio, a scapito della verità e della sincerità di cuore; sia contro i dottori della Legge, gli interpreti ufficiali della Torah, che somministravano alla gente un pesante formalismo della lettera, svuotandola di ogni contenuto, distogliendo pertanto il credente dalle reali esigenze di Dio. Luca, pertanto, colpisce in tal modo l'intero sistema su cui poggiava il giudaismo. Un duro colpo al cuore delle istituzioni, dunque, che non poteva non suscitare altrettante dure reazioni da parte dei suoi rappresentanti.

Una conclusione che da un punto di vista narrativo è una chiara forzatura, così come il suo inizio. Gesù, infatti, è invitato a pranzo da un fariseo (v.37), dove presenziano anche altre autorità religiose (v.45) e in questo contesto, sullo stile degli antichi profeti, lancia contro di loro sei anatemi (vv.39b-52) e al termine se ne va senza salutare, quasi sbattendo la orta (v.53a); né si sa se Gesù e i suoi commensali abbiano pranzato. È evidente che la questione del pranzo è soltanto una cornice dove collocare la requisitoria contro il giudaismo, una cornice che indubbiamente costituisce una stonatura con il resto del quadro.

La conclusione (vv,53-54), nel suo modo di porsi, richiama il lettore al contesto entro cui essa si colloca: il viaggio verso Gerusalemme (19,51-19-28). Si tratta di un cammino di sofferenza verso una meta che ha per epilogo la croce. E quel “incominciarono ad incalzarlo, a provocarlo, insidiandolo” tratteggiano lo sfondo su cui si sta muovendo questo viaggio e ne preludono l'epilogo.


N O T E

1Cfr. Commento al cap.9, Note Generali, pag.3 della presente opera.

2Cfr. commento al cap. 10, Note Generali, pagg.1-2

3Il Qaddish è la preghiera di santificazione del sabato e dei giorni festivi, proclamata nelle liturgie ebraiche alla presenza di un Minian, il numero minimo di dieci ebrei maschi, che abbiano compiuto l'età adulta religiosa di tredici anni, per poter essere validamente recitata e perché ogni azione liturgica sia valida. Essa celebra la santità di Dio, ne magnifica la grandezza e lo invoca perché riversi sul mondo la pienezza della consolazione e della pace. Originariamente il Qaddish era una formula di benedizione posta a conclusione di riunioni di studio o di preghiera, poi successivamente ha subito degli adattamenti a seconda delle situazioni che nel tempo si erano venute a formare. Per cui oggi il Qaddish si presenta sotto cinque diverse forme: 1) Il Qaddish de-Rabban o dei Maestri, recitato dopo una lezione talmudica alla presenza di un minian; 2) Qaddish shalem o intero, recitato da un lettore al termine di un'azione liturgica importante; 3) Hasi qaddish o mezzo qaddish, recitato da un lettore dopo brevi azioni liturgiche; 4) Qaddish jatom o degli orfani, recitato al termine del servizio liturgico dalle persone in lutto; 5) Qaddish de-ithadta o delle esequie, recitato al cimitero in occasione della sepoltura. Sul tema del Qaddish cfr. A.R. Carmona, La Religione ebraica, Storia e teologia, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) - 2005 - pag 556).

4

5Matteo presenta all'interno del suo vangelo cinque grandi discorsi, che costituiscono altrettanti contenitori di raccolta di detti, sentenze, proverbi e parabole attribuiti a Gesù. Questi probabilmente costituirono la prima stesura del vangelo matteano intorno agli anni 80, successivamente integrato con un'ampia parte narrativa mutuata da Mc, con redazione finale intorno agli anni 100-110. I cinque grandi discorsi sono riscontrabili nelle seguenti sezioni: 5,1-8,1; 10,5-11,1; 13,3-13,53; 18,1-19,1; 24,4-26,1 . Circa la formazione del Vangelo di Matteo cfr. la Parte Introduttiva del Vangelo di Matteo, pagg. 13-16 sul mio sito: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf

6Sul tema della preghiera di Gesù cfr. il commento al cap.9, pag.15 della presente opera

7Cfr. Is 63,16; 64,7; Ger 3,4.19; 31,9; Sal 2,7; 109,3; Os 11,1; Ml 2,10; Tb 13,3-4; 1Cr 1,10

8Cfr. Rm 1,7; 1Cor 1,3; 2Cor 1,2; Gal 1,3.4; Ef 1,2; Fil 1,2; 4,20; Col 1,2; 1Ts 1,3; 3,11.13; 2Ts 1,1; 2,16; Fm 1,3; Gc 1,27

9Nel vangelo di Matteo il termine “scriba” ricorre 22 volte, quasi sempre al plurale. Soltanto due volte lo si riscontra al singolare, nei due passi sopra citati: 8,19 e 13,52, dove uno scriba esprime il suo desiderio di farsi discepolo di Gesù e, divenutolo, lo si ritrova, poi, a capo di una comunità giudeocristiana, per la quale sa coniugare il tesoro dell'Antico Testamento reinterpretandolo alla luce del Nuovo. Proprio per questa singolarità si può azzardare che quello scriba sia lo stesso Matteo, che in qualche modo, si presenta ai suoi lettori, raccontando la sua storia di conversione e di dedizione al Regno dei cieli, senza per questo rigettare il Giudaismo, di cui è figlio, ma reinterpretandolo alla luce del Risorto. Per questo sa trarre fuori dal suo tesoro cose nuove e antiche.

10Cfr. Lc 6,36; 11,2.13; 12,30.32;

11 Il testo greco di Ap 22,20b traduce l'espressione aramaica “Maranà tha” con “œrcou kÚrie 'Ihsoà” (ércu kírie Iesû, vieni Signore Gesù); mentre 1Cor 16,22b riporta l'invocazione originale aramaica traslitterata in greco: “Mar£na q£” (Marána tzá, Vieni Signore nostro).

12 Cfr. Sir 29,21; 34,21

13 Cfr. Gen 3,19; 28,20; 41,54-55; 47,12-13; Dt 10,18; Tb 1,17; 4,16; Gb 22,7; Sal 104,6; 2Re 25,3; Lam 1,11.

14 Cfr. Sir 15,3; Sal 41,4; 79,6; 101,10; Pr 4,17; Sap 9,5; Sir 23,17; Is 30,20.

15 Gen 21,14; Es 23,25; Nm 21,5; 1Sam 25,11; 30,11; 1Re 18,4; 22,27; 2Re 6,22; 2Cr 18,26; Ne 13,2; Pr 25,21; Sir 15,3; 29,21; Is 3,1; 33,16; Ez 4,17; 12,18.

16 Cfr. Gen 14,18; Gdc 19,19; 1Sam 16,20; Ne 5,15; Tb 4,17; Sal 103,14-15; Pr 9,5; Qo 9,7; Ag 2,12.

17 Cfr. Pr 31,27; 28,19.

18 Cfr. Tb 1,17; 4,16; Gb 22,7; Pr 25,21; Is 58,7.10; Ez 18,7.16

19 Cfr. Sal 126,2; 131,15; 145,7; Sir 45,20; Zc 10,1.

20 Cfr. Es 29,23; 34,18..25; Lv 23,20; 24,27; Nm 28,17; 1Cr 23,29.

21 Cfr. Lv 21,6; 22,25.

22 Cfr. Sap 16,20-21: “Invece sfamasti il tuo popolo con un cibo degli angeli, dal cielo offristi loro un pane già pronto senza fatica, capace di procurare ogni delizia e soddisfare ogni gusto. Questo tuo alimento manifestava la tua dolcezza verso i tuoi figli; esso si adattava al gusto di chi l'inghiottiva e si trasformava in ciò che ognuno desiderava”. Per comprendere la profondità della verità di questo pane piovuto dal cielo dobbiamo aspettare l’avvento di Gesù che darà l’autentica interpretazione dell’episodio della manna, riferendolo a se stesso: “<< […] Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo>>” (Gv 6,48-51)

23 Cfr. Mc 6,8; Lc 9,3; 11,5; Gv 6,26; Gv 13,18; 2Ts 3,8.12.

24 Cfr. Fil 2,6-8

25 Cfr. Mt 7,9; 15,26; 16,11-12; Mc 7,27; Lc 11,11; 15,17.

26 Cfr. Mt 14,20; Mc 6,43; Lc 9,17; Gv 6,13

27 Cfr. Gv 6,1-59

28 Cfr. Mt 26,26; Mc 14,22; Lc 22,19.

29 Cfr. At 2,42.46; 20,7; 1Cor 11,23.26;

30 Cfr. Antonino Alessio Neri, Lingua e civiltà dei greci – Grammatica, Ed. G. Principato Spa- Milano 1987

31 Cfr. la voce kata in L. Rocci, Vocabolario Greco Italiano, Soc. Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1993

32 Cfr. Lc 2,11; 4,21; 5,26; 12,28; 13,32.33; 19,5.9; 22,34.61; 23,43.

33 Cfr. Antonino Alessio Neri, op. cit.

34 È probabile che il pane invocato da Matteo nel suo vangelo non faccia riferimento a quello materiale poiché Matteo si rivolge ad una comunità in cui l’abbondanza scorre senza problemi. Non avrebbe senso pertanto insegnare a tale comunità a chiedere a Dio il nutrimento quotidiano. L’intento di Matteo qui è proprio quello di distogliere la sua comunità dalla ricerca dei beni terreni per rivolgersi a quelli spirituali, simboleggiati dal pane eucaristico.

35 Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, Ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992

36 Cfr. G. Rossé, A. Poppi, Ortensio da Spinetoli, L. Rocci, opere citate.

37 Ho preferito la citazione di Marco in quanto fu il primo evangelista e fonte privilegiata da cui Luca (22,18) e in particolar modo Matteo (26,29) attinsero nelle loro composizioni.

38Cfr. Es 4,21b; 7,3; 9,12; 10,1.27; 14,4.8.17

39Cfr. G. Rossé, il Vangelo di Luca, commentario esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, 1992, terza edizione 2001, pag.426

40Cfr. R. Fabris, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi 2003

41Il verbo causativo, fare o lasciare, è fatto seguire in genere da un infinito. Si definisce “causativo” perché il soggetto del verbo causativo è colui che non compie l'azione del verbo retto da quello causativo, ma la “fa o la lascia” compiere agli altri. Fare e lasciare pertanto sono verbi che causano l'azione di altri verbi, il cui soggetto è diverso da quello del verbo causativo. Nel nostro caso l'espressione “non metterci nella prova” va letto come “non lasciare che entriamo nella prova” o “non farci entrare nella prova”.

42Benché l'espressione “doni buoni” che i padri, pur nella loro malvagità, sanno dare ai loro figli, compaia identica anche i Mt 7,11, tuttavia vediamo come Matteo non sappia sfruttare il concetto di “doni buoni” per alludere ad un altro dono, quello dello Spirito, come invece avviene per Luca, ma si limita a concludere che anche il Padre celeste sa dare “cose buone” ai propri figli, creando in tal modo un'equivalenza tra “doni buoni” e “cose buone”. Diversamente, Luca che sfrutta tale espressione per alludere al dono dello Spirito, il vero dono buono del Padre.

43Diversamente da Mt 7,11 che definisce i genitori come “ponhroˆ Ôntej” (poneroì ontes), cioè “che sono cattivi”, Luca usa l'espressione “ponhroˆ Øp£rcontej” (poneroì ipárcontes) sottolineando l'origine malvagia della loro natura e quindi accentuando in qualche modo la loro malvagità, che è loro connaturata.

44Cfr. Lc 4,33-37.40-41; 6,18b; 7,21; 8,2.26-39; 9,1.38-43; 18,17-18; 11,14; 13,11-13.32

45Cfr Mt 9,4: 12,25; Lc 5,20.22; 6,8; 9,47; 11,17; Gv 2,24; 13,18.

46Cfr. Dt 31,21b; 2Re 19,27; Sal 138,1-24; Gb 21,27; Is 37,28; Ger 1,5; Ez 11,5; Sap 9,11a.

47Per un maggiore approfondimento cfr. il commento al cap. 9 della presente opera, pag.32.

48Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, Roma 1992; III edizione gennaio 2001; pag. 441

49Cfr. G. Filoramo e D. Menozzi, Storia del Cristianesimo, l'Antichità, I vol., Editori Laterza, Bari 1997; pagg.244-255.

50Cfr. 2Cr 9,23; Tb 13,13; Sal 21,28; 47,11; 97,3; Is 52,10; Mi 5,3

51Cfr. Col 2,16-17; Eb 8,5; 10,1

52Cfr. Is 1,1-17; 58,1-10; 66,1-2; Ger 7,1-10; Gl 2,13

53Cfr. O. da Spinetoli, Luca,ed. Cittadella Editrice, Assisi, IV edizione 1999, pag.413

54Cfr. Gv 9,22; 12,42; 16,2

55I due appellativi con cui i discepoli si rivolgono a Gesù ricorrono 49 volte con il sostantivo “didáskalos” nei vangeli; e sette volte con il termine “epistáta”, che significa maestro, nel senso di solido punto di riferimento, di guida sicura. Termine questo usato solo da Luca.

56Cfr. A. Poppi, I Quattro Vangeli, commento sinottico,ed. Messaggero di S.Antonio Editrice, IV edizione 1998, pag.168, in commento a Mt 15,1-2

57Paolo stesso, rivolgendosi ai Romani, ricorda loro il sacerdozio proprio di ogni credente, chiamato ad offrire il proprio corpo e con esso le realtà materiali, in cui vive, quale sacrificio vivente, santo e gradito a Dio. Questo, egli affermerà, è il vostro culto spirituale (Rm 12,1); mentre, rivolto ai Corinti, li sollecita: “Sia dunque che mangiate sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio” (1Cor 10,31). Tutta la vita del credente, dunque, per Paolo era una vita rivolta al Signore, a Lui consacrata in una sorta di celebrazione liturgica e cultuale permanente: “Chi si preoccupa del giorno, se ne preoccupa per il Signore; chi mangia, mangia per il Signore, dal momento che rende grazie a Dio; anche chi non mangia, se ne astiene per il Signore e rende grazie a Dio. Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore” (Rm 14,6-8). Da questi brevi passi si evince come Paolo concepisse il vivere del nuovo credente in Cristo, come una sorta di vita santa in cui si svolge la quotidiana liturgia di lode e di ringraziamento a Dio.

58Cfr. Gunter Stemberger, La religione ebraica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna, 1998; pag 27.

59La decima era una tassa, corrispondente al nostro dieci percento, posta sul patrimonio e sul reddito. Era questa una pratica molto diffusa nell'antichità e si riscontrava presso i Fenici, i Cartaginesi, i Babilonesi, i Persiani, gli Arabi e anche presso i Greci e i Romani. Anche Israele la praticava, ma qui essa assumeva una duplice valenza: teologica, in quanto si riconosceva come i beni della terra fossero dono gratuito di Jhwh e, pertanto, a Lui andavano restituiti in parte; e sociale, per il sostentamento dei poveri, per un principio di solidarietà, che legava tra loro tutti i membri dell'Alleanza. La decima trovava il suo fondamento biblico in Lv 27,30.32 e in Dt 14,22 e doveva essere consegnata, secondo Nm 18,21, ai Leviti per il servizio reso nel culto. Tuttavia, ogni tre anni, doveva essere consegnata, oltre che ai Leviti, anche al forestiero, all'orfano e alla vedova (Dt 26,12). Nel periodo intertestamentario, nel N.T e anche successivamente esistevano tre tipi di decime: la prima sui cereali e sulla frutta, spettante ai Leviti; la seconda riservata al Tempio e la terza, ogni tre/sei anni destinata ai poveri (Tb 1,6-8). Quest'ultima era sostitutiva di quella del Tempio. - Sulla questione della “decima” cfr. la voce “Decima” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, II edizione rivista e integrata 2005.

60Cfr. Mt 21,19-20; Mc 11,13.20.21;

61L'espressione temporale “tre anni” probabilmente allude al periodo dell'attività pubblica di Gesù, la quale cosa concorderebbe con il vangelo giovanneo che colloca l'attività pubblica di Gesù all'interno di tre pasque: la prima citata in 2,13.23; la seconda menzionata in 6,4, che funge da contesto al discorso del pane; la terza e ultima pasqua, quella fata, posta a ridosso della passione a morte di Gesù, è ricordata in 11,55, che funge da contesto al racconto della risurrezione di Lazzaro, che prelude a quella di Gesù.

62Durante le festività pasquali molti pellegrini giungevano da ogni parte per le celebrazioni. Per evitare che qualcuno, anche involontariamente, toccasse una tomba, rimanendone contaminato e pertanto soggetto a impurità rituale, che lo rendeva inidoneo al culto, i sepolcri venivano resi ben visibili imbiancandoli. Una questione di purità rituale simile, che si poneva a ridosso della pasqua, viene ricordata anche da Giovanni nel suo racconto della passione: “Allora condussero Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l'alba ed essi non vollero entrare nel pretorio per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua” (Gv 18,28).

63Sulla questione cfr. la voce “Scriba” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 1997; seconda edizione rivista e integrata 2005.

64Cfr. anche i passi paralleli di Mc 7,1-13

65La Torah orale, trasmessa solo oralmente, divenne una massa enorme di prescrizioni e di interpretazioni difficili sia da gestire che da trasmettere. Il timore, poi, che le continue guerre e distruzioni potessero in qualche modo far perdere il ricco patrimonio della Tradizione orale, portò nel 200 d.C. alla determinazione di metterlo per iscritto. Nacque così ad opera di Rabbi Yehudah ha Nasi (Giuda il principe) la Mishnah (ripetizione, perché soltanto nel ripetere continuamente l'insegnamento si poteva imprimerlo bene nella memoria). Essa fu un punto di confluenza sia delle leggi e delle tradizioni orali che dei midrash, un sistema di ricerca del significato profondo della Torah scritta, sviluppato da Esdra e dagli scribi e farisei. Il termine midrash deriva, infatti, dal verbo ebraico "darash" che significa "cercare". Uno dei maggiori maestri di questo sistema midrashico fu rabbi Aqiba, a cui si rivolgevano tutti i tannaim, cioè i dottori della Mishnah. La Mishnah è una sorta di enciclopedia del sapere ebraico. Essa è composta da 63 trattati suddivisi in sei ordini (sedarim): Zeraim che insegna il modo con cui santificare il lavoro; Moed tratta del sabato e delle festività; Nashim, tratta del diritto del matrimonio; Nezikin o del diritto civile e penale; Kodashim dedicato al culto sacrificale; Taharoth parla di purità e impurità rituali. Accanto alla Mishnah esistevano analoghe raccolte, lasciate "al di fuori", le beraitoth, perché non avevano il placet di Rabbi Yehudah. I suoi discepoli, per rispetto al loro maestro, ritenuto unico nel suo genere, non assunsero più il titolo di tannaim, ma quello più modesto di amoraim, cioè di semplici commentatori della Mishnah. La loro attività consisteva nel ricercare, spiegare, confrontare e risolvere eventuali difficoltà. Un lavoro, come si vede, di appoggio alla Mishnah, rendendola più agevole e completa. Tale lavoro, durato secoli, finisce con il cristallizzarsi nella Ghemarah (commentario, completamento). L'insieme della Mishnah e della Ghemarah costituiscono il Talmud (Studio), di cui esistono due versioni: quella di Gerusalemme, elaborata in Palestina; e quella elaborata a Babilonia. Il primo, quello Palestinese, meno ampio e particolareggiato del babilonese, si concluse intorno al 400 d.C. - Il secondo, quello Babilonese, decisamente più ampio, più completo e profondo si concluse alla fine del 500 d.C.,ma venne perfezionato nel corso del VI secolo. Esso si compone di ben 8.744 fogli ed è quello che ha avuto il maggiore successo e costituisce, ancor oggi, il punto di riferimento di tutto il giudaismo. - Cfr.A.R. Carmona, La religione ebraica, Storia e teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005 – pagg. 356-365; cfr. anche le voi “Mishna” e “Talmud e Midrash” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, II edizione rivista e integrata 2005.

66L'ultimo profeta di cui ci è pervenuto il testo, databile intorno la metà del V sec. a.C. è quello di Malachia, il cui nome inventato, è stato mutuato dal suo stesso testo dove si parla dell'invio di un messaggero davanti al Signore che viene: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate” (Ml 3,1b). L'espressione “mio messaggero” è reso in ebraico con “Mal' ākī”, da cui Malachia. L'autore del libretto ci è totalmente sconosciuto e qualche esegeta lo ritiene mai esistito, mentre il Targum lo attribuisce ad Esdra: “Messaggio della parola del Signore per mano del suo angelo, che è Esdra, lo scriba”. L'attribuzione ad Esdra da parte del Targum tuttavia non è un dato isolato, ma rappresenta una tradizione che è testimoniata dallo stesso Gerolamo. - Sulla questione cfr. la voce “Malachia” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, II edizione rivista e integrata 2005.

67Sulla questione cfr. nota 9 del presente commento a pag.6.

68Cfr. la Parte Introduttiva della presente opera.

69Cfr. Is 22,22; Mt 16,19; Ap 3,7; 9,1; 20,1. Cfr. anche il termine “Chiave”in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo,1990

70In tal senso cfr. Rm 1,28; 2Cor 2,14; 4,6; 10,5; Ef 1,17; 4,13; Fil 3,8; Col 1,9.10; 2,2; 1Tm 2,4; 2Tm 3,7; Eb 10,26; 2Pt 1,2.3; 2,20; 3,18