IL VANGELO SECONDO LUCA

Una Chiesa in espansione: contenuto e senso
della sua missione

(10,1-42)

Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi





Note generali


Per poter comprendere il senso di questo cap.10 è necessario fare un passo indietro al cap. 9,1-17, che costituisce l'ultima sezione del lungo trattato di ecclesiologia lucana (5,1-9,17)1. Se là veniva sottolineato l'ultimo atto della costituzione dei Dodici, rilevandone il vicariato nei confronti di Gesù, che in quella sezione, da un lato, trasmette i propri poteri ai Dodici, inviandoli e dando loro alcune regole essenziali di comportamento per la loro missione (9,1-6); dall'altro, comparirà sempre in seconda posizione rispetto ai Dodici, che fungeranno da tramite tra lui e le folle (9,11-17.52). Qui, al cap.10, le cose cambiano completamente di prospettiva. Il cap. 10,1-20, infatti, non va compreso né come un doppione di 9,1-6, né come un racconto parallelo a quello. In realtà si tratta di un'appendice di 9,1-6, che vede una chiesa in forte espansione rispetto al primo gruppo dei Dodici, che qui compare moltiplicato per sei volte (12 x 6= 72), mentre si fa rilevare non solo che la “messe è molta”, ma si auspica anche che il Padrone della messe mandi altri operai ancora. Ci troviamo, quindi, di fronte ad una Chiesa in fermento e in larga diffusione2. Vi è, poi, una differenza tra il gruppo dei Dodici e questi 72. Per questi ultimi non c'è una trasmissione ufficiale di poteri come in 9,1-2, dove i Dodici vengono “convocati” e poi insigniti di “potere e autorità” e solo successivamente inviati. Qui, invece, i 72 vengono solo “nominati” e poi “inviati”, benché si sottolinei come questo folto gruppo comunque operi con potere sui demoni (v.17b), mentre da Gesù hanno ricevuto non un apposito potere, ma soltanto un mandato a guarire gli infermi e ad annunciare il Regno di Dio (v.9), precisando che “Chi ascolta voi, ascolta me; chi rifiuta voi, rifiuta me; ma chi rifiuta me, rifiuta colui che mi ha inviato” (v.16), creando tra questi nuovi inviati e lui una sorta di identità, che in ultima analisi rifletta quella stessa del Padre. I 72, pertanto, si discostano dal gruppo costitutivo dei Dodici, che operano, per così dire, in persona Christi e si presentano, invece, come loro stretti collaboratori, una sorta di loro emanazione moltiplicativa per far fronte alla “molta messe”. Con 10,1-20 ci troviamo, quindi, di fronte ad una chiesa in crescita dove sembra individuarsi un doppio livello di responsabilità: i “Dodici”, che formano il nucleo costitutivo e fondante della chiesa, lo zoccolo duro attorno al quale tutto gira e si compatta, e una sorta di loro emanazione moltiplicativa, che potremmo definire collaboratori, che partecipano, pur non essendone insigniti, degli stessi poteri dei “Dodici”. È significativo, infatti, come il 72 sia pari a 6 volte 12, in cui il sei denota un numero imperfetto e mancante3 e che trova la sua perfezione e la sua pienezza soltanto se si associa al gruppo dei Dodici, che forma il settimo elemento fondante e costitutivo.

La Chiesa, pertanto, è qui colta nel suo evolversi postpasquale e ne viene tratteggiata la figura: essa è colei che ha saputo cogliere e accogliere la rivelazione del Padre in Gesù (vv.21-24); è colei che è chiamata ad accostarsi, sull'esempio di Gesù, ad ogni uomo, a prendersene cura, risollevandolo dal suo grave stato di indigenza spirituale, che lo vede spiritualmente tramortito dal peccato e gli prospetta una nuova vita (vv.25-37); lo strumento per fare tutto ciò è la Parola che guarisce e rigenera a vita nuova (vv.38-42).

La struttura del cap.10, che è stata sostanzialmente già qui sopra delineata, è semplice ed è scandita in quattro parti, tra loro tematicamente concatenate, anche se narrativamente solo giustapposte l'una all'altra, e sono finalizzate a tracciare l'identità della Chiesa postpasquale nel suo cammino espansivo in mezzo agli uomini:

  1. Una Chiesa in cammino verso le genti, in cui i nuovi apostoli sono colti come un'emanazione del gruppo dei Dodici, loro stretti collaboratori, ma nel contempo loro eredi (vv.1-20);

  2. Gesù, rivelazione del Padre, si è manifestato ai suoi che lo hanno saputo accogliere nelle loro vite (vv.21-24). La Chiesa, pertanto, è depositaria della Rivelazione;

  3. Amore verso Dio e verso il prossimo sono i due elementi costitutivi e guida della missione della Chiesa (vv.25-28), il cui senso e le cui modalità vengono approfondite dalla parabola del Buon Samaritano (vv.29-37);

  4. Lo strumento con cui si attua la missione della Chiesa è la Parola che viene somministrata presso chi è disposto ad accoglierla e il suo ascolto accogliente è l'elemento fondamentale che rigenera alla vita (vv.38-42).

Commento ai vv. 1-42


Una Chiesa in espansione (vv.1-20)

Testo a lettura facilitata

La nomina e l'invio

1 – Ora, dopo queste cose, il Signore nominò altri settanta[due] e li inviò due a [due], davanti alla sua persona, in ogni città e luogo dove egli stava per andare.

Le condizioni ambientali entro cui opereranno

2 – Ora diceva verso di loro: <<La messe (è) molta, ma gli operai pochi: pregate, dunque, il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe.

3 – Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi.

Le modalità con cui si deve svolgere la missione presso le case ...

4 – Non portate borsa, né bisaccia, né calzari, e non salutate nessuno per la strada.

5 – Ma in qualunque casa entrate prima dite: “pace a questa casa”.

6 – E qualora là vi sia un figlio di pace, su di lui si poserà la vostra pace; se invece no, ritornerà su di voi.

7 – Rimanete in quella casa mangiando e bevendo ciò (che c'è) presso di loro, poiché l'operaio (è) meritevole della sua ricompensa. Non passate da casa in casa.

. e presso le città

8 – E in qualunque città entriate e vi accolgono, mangiate le cose che vi mettono davanti

9 – e guarite gli infermi (che sono) in essa e dite loro: “è vicino a voi il regno di Dio”.

10 – Ma in qualunque città entriate e non vi accolgono, usciti nelle sue piazze dite:

11 - “Anche la polvere attaccata a noi sui piedi dalla vostra città togliamo contro di voi”. Tuttavia sappiate questo: che il regno di Dio è vicino.

12 – Vi dico che Sodoma in quel giorno avrà (una sorte) più tollerabile che quella città.

Il giudizio e gli anatemi contro il rifiuto

13 – Guai a te Corazìn, guai a te Betsaida! Poiché se in Tiro e Sidone fossero avvenuti i miracoli che sono avvenuti in (mezzo a) voi, da un pezzo, seduti in sacco e cenere, si sarebbero pentiti.

14 – Tuttavia per Tiro e Sidone ci sarà nel giudizio (una sorte) più tollerabile che per voi.

15 – E tu, Cafarnao, forse che sarai innalzata fino al cielo? Fino all'Inferno andrai giù.

L'identificazione tra Gesù e gli inviati

16 – Chi ascolta voi, ascolta me; chi rifiuta voi, rifiuta me; ma chi rifiuta me, rifiuta colui che mi ha inviato>>.

Il ritorno e gli effetti della missione

17 – Ora, ritornarono i settanta[due] con gioia dicendo: <<Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome>>.

18 – Disse loro: <<Guardavo Satana che cadeva dal cielo come una folgore.

19 – Ecco, vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e contro ogni forza del nemico, e niente vi offenderà.

20 – Tuttavia, non gioite in questo, poiché gli spiriti si sottomettono a voi; gioite, invece, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli>>.


Commento ai vv.1-20

La nomina e l'invio (v.1)

Il v.1 si apre con un'espressione di tipo redazionale che crea una sorta di continuità narrativa con il capitolo precedente. La logica che qui muove Gesù è sostanzialmente identica a 9,52 dove Gesù invia dei messaggeri davanti alla sua persona per preparare la sua venuta. Se là definiva gli inviati come “messaggeri”, la cui missione era quella di preparare la venuta di Gesù, creando un contesto escatologico, che in qualche modo riprendeva quello di 1,76, dove Giovanni è inviato davanti al Signore per preparargli le strade, qui Luca dice che Gesù ne inviò altri Settantadue4, senza precisare se si tratta di altri “messaggeri” o di altri “inviati” sull'onda del primo invio, quello dei Dodici (9,1-2). Questa imprecisione in realtà consente di abbracciare entrambi i casi: si tratta di inviati che sono una sorta di prolungamento dei Dodici, ma che nel contempo vanno compresi come dei “messaggeri inviati” a preparare la venuta di Gesù, “dove egli stava per andare”. Questa è la vera natura di questi inviati e il senso della loro missione. La prospettiva è qui chiaramente postpasquale dove i Settantadue sono soltanto un numero simbolico che riprende il Dodici originale (9,1) e lo moltiplica per sei volte per dire che qui ci si trova di fronte ad un allargamento della missione affidata ai Dodici da Gesù; ci si trova di fronte ad una forte espansione della Chiesa, che tuttavia si origina e si fonda sui Dodici, poiché soltanto se quel “sei” si assomma al primo nucleo dei Dodici, quelli che sono stati “scelti” (6,13), “convocati”, insigniti di “potere e autorità” e poi “inviati” (9,1-2), diventa “sette” un numero perfetto e perfettamente capace di operare con efficacia, poiché partecipa ai Dodici, anzi ne è una loro emanazione moltiplicativa ed espansiva. Del resto è significativo come questi Settantadue non siano stati scelti e inviati da “Gesù”, ma dal “Signore” (v.1), il titolo postpasquale attribuito e riconosciuto al Risorto. Di conseguenza questi Settantadue vanno compresi come nominati e inviati dai Dodici, in cui opera il Signore e il loro operare è l'operare del Signore. I Settantadue, pertanto, operano come loro prolungamento espansivo con la loro stessa autorità, che è quella stessa che Gesù ha conferito loro in origine (9,1-2).

L'invio dei Settantadue avviene a “due a due”. La sottolineatura di questa accoppiata, “due a due”, non è casuale, ma si richiama alla validità legale della testimonianza sancita da Dt 17,6 e 19,15 e richiamata anche da 2Cor 13,1. La sottolineatura della validità legale della testimonianza va compresa all'interno del contesto in cui sono colti questi “messaggeri”, che precedono la venuta di Gesù. Si tratta di un cotesto escatologico e il loro annuncio assume l'aspetto di una sorta di ultimatum che viene lanciato agli uomini prima della venuta finale di Gesù. Un ultimatum che convoca gli uomini di fronte a questo ultimo e definitivo annuncio e li costringe, loro malgrado, a prendere posizione. La testimonianza dei “due”, pertanto, attesta legalmente non solo che l'annuncio è stato compiuto come da mandato, ma anche la reazione degli ascoltatori a tale annuncio. L'accoglienza o meno di tale annuncio, infatti, costituirà motivo di giudizio (vv.10-16).

Le condizioni ambientali entro cui opereranno gli inviati (vv.2-3)

Con questi due versetti viene tratteggiato il contesto sociale entro cui sono chiamati ad operare gli inviati. Il primo aspetto (v.2) riguarda l'ampio orizzonte, di fatto privo di ogni limite, che abbraccia l'intera umanità. Benché la comparsa del termine “messe” sembri far evocare contesti escatologici di giudizio universale finale, le cui immagini ci vengono suggerite da Gl 4,13 e Ap 14,15-20, tuttavia qui non si parla di falci, né di messe mature pronte ad essere falciate, ma soltanto di “messe”, quale misura di grandezza di ciò che sta davanti agli inviati. Il sollecito, poi, a pregare il padrone della messe perché mandi altri operai alla messe sta ad indicare la cura di questo padrone per la messe. Nessun senso negativo incombe su questa messe, ma solo una preoccupazione perché a questa non vengano fatte mancare le cure necessarie.

Il secondo aspetto (v.3), che caratterizza il contesto dove andranno ad operare gli inviati, è quello di “agnelli in mezzo ai lupi”. Un'immagine agreste e ben nota ai pastori. Un'accoppiata, lupo-agnello, che ricorre nel linguaggio sapienziale e profetico sia per designare l'incompatibilità tra i due (Sof 13,17); sia per descrivere i tempi messianici dove i due, cosi inconciliabili tra loro, diventeranno in quei tempi conviventi (Is 11,6; 65,25); sia, infine, per descrivere la devastante corruzione dei capi di Israele in mezzo al popolo (Ez 22,27; Sof 3,3). Qui, il linguaggio lucano, che proviene dalla fonte Q, ricalca quello metaforico e simbolico delle sentenze e dei detti sapienziali, che ritroviamo similmente anche nel N.T.5. Ciò che qui interessa, tuttavia, è questo accostamento di “agnelli in mezzo ai lupi” che descrive la condizione ambientale in cui verranno a trovarsi gli inviati durante l'espletamento della loro missione. Ciò che qui raffigura l'agnello è la fragilità e la debolezza dell'inviato, che si trova completamente indifeso e completamente esposto all'altrui aggressività. Torna, quindi, qui nuovamente il tema della fragilità e della debolezza dei missionari, dal cui successo traspare inequivocabile non la loro bravura e la loro abilità, né tanto meno la potenza dei loro mezzi, ma la sola potenza di Dio6. A tal punto, Mt 10,16 aggiunge al detto lucano, di stessa fonte Q, l'esortazione “pertanto, siate accorti come i serpenti e integri come le colombe”, che invece Luca omette, poiché per l'autore è importante sottolineare la totale spogliazione e indifesa dell'inviato, che non deve contare in alcun modo neppure sulle sue naturali risorse che in qualche modo lo possano salvaguardare da un ambiente ostile. Egli deve abbandonarsi totalmente nelle mani di Dio per il quale opera. Da lui verrà la sua difesa e la sua forza (12,11-12).

Le modalità con cui si deve svolgere la missione presso le case e le città (vv.4-7.8-11)

Note generali

Seguono ora una serie di raccomandazioni ed esortazioni che riprendono, amplificandoli e dettagliandoli, i temi di 9,1-6.10. I Settantadue, infatti sono, una emanazione moltiplicativa dei Dodici (6x12), di fatto, loro stretti collaboratori, e, pertanto, anche le raccomandazioni là indicate vengono fatte riecheggiare qui.

Le modalità, con cui queste esortazioni vengono espresse, sono espansive: vanno da quelle riguardanti la casa (vv.4-7) e, quindi, i singoli nuclei abitativi, a quelle riguardanti la città (vv.8-11). Le due pericopi di fatto sono complementari ed esposte in modo speculare, così che dove termina la prima (v.7), questa viene ripresa all'inizio della seconda (v.8), dando loro una continuità narrativa, ponendo al centro un problema che forse doveva essere rilevante, in particolar modo per i missionari di provenienza giudaica: il cibo, sul quale vigevano, e tuttora vigono, rigorosi divieti in seno al giudaismo. Si insiste, infatti, sul mangiare ciò che viene offerto sia dalle private abitazioni che dalle città: “mangiando e bevendo ciò (che c'è) presso di loro” (v.7a) e “mangiate le cose che vi mettono davanti” (v.8b). In modo molto simile a Luca, suo compagno di viaggi e di missioni, lo stesso Paolo esorta la sua comunità di Corinto: “Tutto ciò che è in vendita sul mercato, mangiatelo pure senza indagare per motivo di coscienza, perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene. Se qualcuno non credente vi invita e volete andare, mangiate tutto quello che vi viene posto davanti, senza fare questioni per motivo di coscienza” (1Cor 10,25-27). Vengono, pertanto, qui superati gli antichi divieti in nome di una nuova missione che vede, da un lato, l'annuncio della pace, quale riconciliazione tra Dio e gli uomini e degli uomini tra di loro, superando così ogni barriera di divisione, ritrovandosi tutti uno nell'unica fede nel Risorto. L'autore delle Lettera agli Efesini ricorderà proprio questo momento di pace, che è la comune riconciliazione tra Giudei e pagani nella fede dell'unico Cristo: “Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l'inimicizia, annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l'inimicizia” (Ef 2,14-16). Il cibo, pertanto, quale elemento di divisione e distinzione diviene il segno qualificante dell'unità tra giudeocristiani ed etnocristiani, a partire proprio dai missionari, in virtù di quel annuncio di cui sono depositari. Non è un caso, infatti, se Paolo dedica particolari attenzioni proprio sulla questione del cibo e del mangiare nelle mense comuni tra giudeocristiani ed etnocristiani7.

Quanto ai contenuti dell'annuncio, questi sono sostanzialmente due: la pace (5-6) e l'annuncio del Regno (v.9), che viene significato nelle guarigioni degli infermi.

Commento ai vv. 4-7.8-11

Il v.3 segnalava come gli inviati erano mandati come agnelli in mezzo ai lupi, cioè in una condizione di estrema fragilità in mezzo ad un ambiente ostile. Il successivo v.4, riprendendo il tema di 9,3, sembra voler rafforzare questo stato di fragilità dell'inviato, andando, quindi, contro ogni logica umana e di buon senso: l'inviato non deve portare con sé la borsa, usata per conservarvi il denaro8. Il divieto, pertanto, riguarda il portare con sé del denaro od oggetti preziosi, su cui fondare la propria sicurezza, anziché riporla in Dio. Luca, infatti, qui sostituisce il più specifico versetto di Mt 10,9 (“Non procuratevi oro, né argento, né denaro nelle vostre cinture”) con il più semplice termine di “borsa”; la bisaccia, invece, era una sacca che si portava a tracolla e che conteneva beni di prima necessità come un ricambio di abiti o del cibo o altri oggetti di utilità come dei calzari per i viandanti di lungo cammino. Mentre il divieto di salutare qualcuno per strada ricalca l'ordine di Eliseo dato al suo servo Giezi: “Cingi i tuoi fianchi, prendi il mio bastone e parti. Se incontrerai qualcuno, non salutarlo; se qualcuno ti saluta, non rispondergli. Metterai il mio bastone sulla faccia del ragazzo” (2Re 4,29). Il messaggio che qui viene trasmesso è che chi deve compiere una missione non può perdere il suo tempo nel lungo cerimoniale di saluto in uso presso gli orientali. Povertà, pertanto, come espressione di libertà dai beni, per dedicarsi interamente alla propria missione dalla quale non ci si deve deconcentrare. Vedremo come al termine di questo percorso di spogliazione dei beni per l'annuncio e l'affermazione del Regno avrà un suo positivo momento di riflessione in 22,35, nel corso dell'ultima cena, dove Gesù ricorderà sia 9,3 che 10,4: “E gli disse: <<Quando vi ho inviati senza borsa e bisaccia e calzari, vi è forse mancato qualcosa?>>. Ma questi dissero: <<Niente>>”.

Sottolineata la necessità della spogliazione dei beni materiali ai fini dell'annuncio e dell'affermazione del Regno, Luca passa ai contenuti di questo annuncio, che va verso la casa, quale luogo del vivere quotidiano che informa la vita di ogni uomo, colto nella sua quotidianità: “Ma in qualunque casa entrate prima dite: “pace a questa casa”. Si tratta, quindi, di un annuncio di “pace”, qui intesa come annuncio di riconciliazione tra Dio e gli uomini nel Risorto. Dio e gli uomini in Gesù morto-risorto hanno fatto pace (Rm 5,1). È significativo, infatti, come il primo atto che Gesù compie nei confronti del paralitico, metafora dell'uomo incapace di relazionarsi con Dio, sia proprio questo atto di riconciliazione e di pace tra lui e Dio: “Uomo, ti sono rimessi i tuoi peccati” (5,20). una riconciliazione che già era stata preannunciata in 1,77 dove il Battista è stato presentato come colui che preannuncia questa pace, questa riconciliazione tra Dio e gli uomini: “per dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Una pace che è, dunque, perdono dei peccati, riammissione e ricollocazione dell'uomo perdonato e riconciliato in Dio. Questo dice l'annuncio di pace, di cui gli inviati sono portatori. Un annuncio che rimane su quella casa se in quella casa vi è “un figlio di pace”, cioè una persona disponibile e capace di accogliere questo annuncio che ha dell'incredibile: Dio è tornato in mezzo agli uomini e nel suo Figlio Gesù tende loro la mano, invitandoli a rientrare nella sua casa. Un annuncio, qualora non accolto o rifiutato, non andrà perduto, ma tornerà all'inviato stesso, che si costituirà testimone contro tale indifferenza o tale rifiuto.

Il v.7 riprende, dettagliandolo, 9,4. Si parla qui dell'ospitalità offerta al missionario da parte della casa che ha saputo accogliere il suo annuncio di pace e di riconciliazione: “Rimanete in quella casa mangiando e bevendo ciò (che c'è) presso di loro, poiché l'operaio (è) meritevole della sua ricompensa. Non passate da casa in casa”. Tre sono gli elementi di rilievo: “mangiare e bere ciò che c'è presso quella casa, senza discriminare il cibo offerto, poiché chi accoglie l'annuncio di pace è già riconciliato con Dio, superando fin da subito ogni disquisizione sul puro o l'impuro, ponendosi nella giusta posizione con Dio. Tutto diventa, pertanto, puro per chi è puro (Tt 1,15a). Il secondo elemento è il mettere in rilievo come “l'operaio (è) meritevole della sua ricompensa”. Una regola che Paolo fa risalire direttamente al Signore: “Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunziano il vangelo vivano del vangelo9 (1Cor 9,14), benché lui vi rinunci per non dare adito a malelingue (1Cor 9,15). Il terzo elemento è l'esortazione a rimanere nella casa ospitale, evitando di passare “di casa in casa”, approfittando dell'ospitalità e dando l'idea del perdigiorno, che approfitta degli altri, rischiando gozzoviglie indegne di un inviato escatologico, testimone di un giudizio divino, legato al suo annuncio e di cui diviene responsabile10.

Con il v.8 si apre la seconda pericope (vv.8-11) riguardante l'annuncio alla città. Il movimento qui si fa espansivo, passando dal singolo nucleo familiare, la casa, alla città. Si passa quindi dall'aspetto individuale a quello sociale, in cui la persona viene colta e coinvolta nella sua identità sociale. Non cambiano i parametri di annuncio, ma si completano rispetto ai precedenti. Se nei primi si parlava di annuncio di pace e di riconciliazione, ma senza alcun elemento di giudizio o di condanna nei confronti delle singole persone in caso di loro rifiuto, qui le cose cominciano ad assumere una diversa prospettiva: al precedente annuncio di pace si aggiunge quello del Regno di Dio, la cui vicinanza è preannunciata dalla guarigione degli infermi. Si apre qui la prospettiva del giudizio nel caso di rifiuto, al quale viene riservato un'apposita pericope (vv.13-15).

Questa pericope (vv.8-11) potremmo definirla come una sorta di ripresa di temi già trattati ed è composta da materiale recuperato da pericopi precedenti. Il v.8, infatti, è una ripresa del v.7, ma verrà letto in una diversa prospettiva; il v.9 riprende 9,2; mentre i vv.10-11 riprendono 9,5. Quanto al v.17, riprende 9,10. Non si tratta, tuttavia, di un doppione, ma la ripresa, quasi pedissequa, di materiale e temi provenienti dalla pericope 9,1-6.10. Questo dice come qui i Settantadue ricalchino il mandato e l'azione missionaria dei Dodici, muovendosi allo stesso modo e nei medesimi spazi e, quindi, vanno considerati come una sorta di emanazione espansiva di quelli. Se, poi, i Dodici hanno ricevuto gli stessi poteri e la stessa autorità di Gesù (9,1), questi Settantadue, nondimeno, vengono identificati dal v.16 con Gesù: “Chi ascolta voi, ascolta me; chi rifiuta voi, rifiuta me; ma chi rifiuta me, rifiuta colui che mi ha inviato”, parafrasato anche questo su 9,48a.

La pericope vv.8-11 si struttura su due parti tra loro contrapposte: la prima riguarda il caso di accoglienza (vv.8-9); la seconda quello di rifiuto (vv.10-11).

Con il v.8 l'azione missionaria acquista una valenza non solo sociale, ma anche universale, certamente espansiva; non a caso, infatti, Luca sottolinea che la messe è molta (v.2). L'esortazione in 8b di mangiare le cose che vi mettono davanti non va presa come una incomprensibile ripetizione del v.7, ma come risposta positiva al v.8a. Si tratta, infatti, il caso di una città che accoglie gli inviati e con loro anche l'annuncio di pace e di riconciliazione. Pertanto il mangiare il cibo da parte degli inviati, offerto loro da questa città, diventa un gesto di alleanza tra la città e gli inviati stessi, così come tutte le alleanze nell'antichità venivano sancite con un pasto comune (Gen 26,28-30; Es 18,12; 24,7-11). Il senso di tale pasto è quello di sedersi ad una mensa comune che prelude, in virtù di questa accoglienza trasfigurante, ad un'altra mensa, in cui il Pane viene spezzato e la Parola somministrata assieme al Pane. Si ripete qui, in buona sostanza, lo schema narrativo di At 2,41-42: “Allora quelli che accolsero la sua parola furono battezzati e quel giorno si unirono a loro circa tremila persone. Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Lo sfondo di questo “mangiare le cose che vi mettono davanti” assume pertanto un significato completamente diverso da quello in cui si muove il v.7, dove il mangiare il cibo offerto dalla casa si muove su uno sfondo prevalentemente giuridico: “poiché l'operaio (è) meritevole della sua ricompensa”. In entrambi i casi la comune esortazione a mangiare ciò che viene offerto, prescindendo dalla tipologia del cibo stesso, se puro o impuro, dice il superamento dei vecchi schemi religiosi.

L'esito di questa accoglienza comporta da parte degli inviati un proclama che viene scandito in due momenti: la guarigione degli infermi e l'annuncio dell'avvicinarsi del Regno di Dio. Non si tratta di due comandi distinti e diversi, bensì tra loro complementari, poiché il guarire è già una forma di annuncio. Le guarigioni, così come gli esorcismi, sono, infatti, il segno tangibile dell'avvento del Regno di Dio, che viene a soppiantare quello di satana, ed è qui colto nel suo avvicinarsi ai credenti (™f' Øm©j, ef 'imâs, verso di voi). La prospettiva, quindi, è escatologica. Si tratta di un Regno, il cui potere e la cui natura vengono significati nella guarigione delle infermità, quali eredità del peccato e marchio del dominio di satana sull'uomo. Un Regno che è la dimensione stessa di Dio e che Giovanni descrive come la dimora di Dio in mezzo agli uomini: “Udii allora una voce potente che usciva dal trono: <<Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate>>. E Colui che sedeva sul trono disse: <<Ecco, io faccio nuove tutte le cose>>” (Ap 21,3-5).

La seconda parte della pericope (vv.10-11) tratteggia il comportamento da tenere da parte egli inviati di fronte al rifiuto pubblico dell'annuncio, che deve essere denunciato pubblicamente nelle piazze, quale luogo pubblico di ritrovo della città. Torna qui il gesto che già si è incontrato in 9,5: lo scuotere dai propri calzari la polvere di quella città, che qui, come là, assume un significato di giudizio di condanna: “contro di voi”. Il rifiuto degli inviati, tuttavia, non deve essere motivo per tacere l'annuncio, poiché questo è necessario che comunque si compia. L'annuncio, infatti, è un elemento di vitale importanza perché si costituisce in mezzo agli uomini come elemento di conoscenza e di discriminazione, di fronte al quale gli uomini sono chiamati a misurarsi e, loro malgrado, a compiere la loro scelta esistenziale. Da qui il giudizio che viene posto su di loro.

Il giudizio e gli anatemi contro il rifiuto (vv.12-15)

Il v.12 apre il giudizio sulle città, che si svolge su di un confronto tra città pagane, notoriamente pubbliche peccatrici, come Sodoma, Tiro e Sidone, e quelle giudaiche Corazìn, Betsaida e Cafarnao. In ultima analisi tra chi ha avuto il beneficio della rivelazione, dell'Alleanza, della Torah, dei Profeti, ma nonostante ciò ha rifiutato Gesù; e chi, invece, non ne ha goduto. Per queste il giudizio sarà meno severo perché mancò a loro l'illuminazione della Torah e dei Profeti. Si tratta, in ultima analisi, di una valutazione posta a conclusione dell'attività galilaica di Gesù; una sorta di sguardo retrospettivo posto agli inizi del viaggio verso Gerusalemme. Le tre città galilaiche citate sono collocate a nord del lago di Tiberiade e sono tra loro molto vicine. Esse, pertanto, furono i luoghi della predicazione di Gesù, che agli inizi della sua missione si era stabilito a Cafarnao (Mt 4,13), la quale divenne il suo costante punto di riferimento durante la sua attività missionaria, che, al dire dei vv.13-15, non fu per niente gratificante. Da qui il peso di un giudizio di condanna per il loro rifiuto. Similmente, anche Gv 12,37, a conclusione dell'intera attività pubblica di Gesù, constata amaramente: “Ora, sebbene avesse fatto davanti a loro tanti grandi segni, non credevano in lui”.

Quanto a Sodoma, associata nella distruzione del fuoco e zolfo a Gomorra (Gen 19,24-25), è la città nota per la sua perversione. Gen 13,13 ne definisce gli abitanti come “uomini malvagi, che peccavano molto contro il Signore”. Similmente, Tiro e Sidone, le due città fenice poste sulla costa del mar Mediterraneo. Con il richiamo qui di Tiro e Sidone viene implicitamente richiamato il contesto storico e profetico in cui operarono il proto Isaia (740-700 a.C.), Geremia (627-586 a.C.), Ezechiele (593-571 a.C.), Amos (760-740 a.C.), Gioele (circa 750 a.C.) e Zaccaria (520-515 a.C. circa). Profeti questi che si scagliarono contro il modo materialistico e alquanto riprovevole di vivere delle due città pagane11. Gesù, quindi, si colloca sulla linea degli antichi profeti, che minacciavano il popolo per le sue infedeltà e la sua chiusura nei confronti di Jhwh, che lo aveva stigmatizzato come un popolo dalla dura cervice12.

L'identificazione tra Gesù e gli inviati (v.16)


Il motivo di questa dura condanna nei confronti delle città della Galilea per non aver accolto l'annuncio degli inviati nasce dal fatto che questi sono identificati con Gesù e, in ultima analisi, con lo stesso Padre che in Gesù li ha inviati alle genti. Si risale, pertanto, dagli inviati a Gesù e da Gesù al Padre, attraverso un processo logico induttivo, mentre in Gv 20,21 il processo è logico deduttivo: “Pace a voi! Come il Padre ha inviato me, anch'io mando voi”. Il Padre, pertanto è il punto centrale di tutta la storia della salvezza, che nasce da Lui e a Lui ritorna. In entrambi i casi gli inviati vanno considerati come sacramento vivente di Dio, poiché essi operano in nome e per conto di Dio.

Il detto si trova anche in Mt 16,40, ma mentre questi punta sull'accoglienza degli inviati, Luca, quale missionario annunciatore della Parola, identifica l'accoglienza con l'ascolto della Parola, mentre il rifiuto è implicitamente rifiuto dell'ascolto. Tutto per Luca, come dl resto per Paolo (Rm 10,17), è fondato sull'annuncio della Parola e sulla sua accoglienza (At 6,7).

Il ritorno e gli effetti della missione (vv.17-20)


Al ritorno dei Dodici in 9,10a, che riferiscono a Gesù quanto da loro compiuto, fa da eco qui nei vv.17-20, pericope tutta lucana, il resoconto dei Settantadue, che diviene l'occasione per una riflessione di tipo sapienziale e funge da motivazione e senso della missione stessa. Il tema introdotto dai Settantadue è la sottomissione di satana al potere di Dio, rilevando la potenza del nome stesso di Gesù. La prospettiva qui è chiaramente postpasquale, poiché vede una chiesa che opera nel nome di Gesù. L'avvento di Gesù, pertanto, segna la fine del regno di satana e la ricostituzione di quello di Dio in mezzo agli uomini, così com'era nei primordi dell'umanità, allorché Dio vide che tutto ciò che aveva fatto era cosa molto buona (Gen 1,31); tutto era ancora incandescente di Dio. In Gesù, e ora negli inviati, Dio è venuto a riprendersi ciò che era suo e a ricostituire il suo potere sull'intera umanità e con lei sull'intera creazione (1Cor 15,21-29). Il tema della gioia, che accompagna questa missione dei Settantadue, dice che sono giunti i tempi messianici promessi e come la ricostituzione del regno di Israele da parte del Messia promesso in realtà fosse solo una figura della ricostituzione di un altro Regno, dove Dio, finalmente, è tornato ad essere nuovamente tutto in tutti (1Cor 15,28).

Quanto gli inviati raccontano a Gesù circa il loro successo su satana viene ora confermato da Gesù con una visione, più metaforica che reale, che riecheggia similmente anche in Ap 12,9: “Guardavo Satana che cadeva dal cielo come una folgore”, ma che nel contempo sottolinea l'efficacia dell'operare dei Settantadue nel nome di Gesù e aiuta a capire come il senso della loro missione non sia l'affermazione di un loro potere terreno e tale da ammagliare gli uomini, figurato dal v.19 che parafrasa in qualche modo, sintetizzandolo, il Sal 90, ma quello di porsi al servizio di Dio per l'affermazione del suo Regno: “Tuttavia, non gioite in questo, poiché gli spiriti si sottomettono a voi; gioite, invece, perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”. L'avere i propri nomi scritti in cielo significa che i Settantadue appartengono al mondo di Dio e che il loro operare è l'operare stesso di Dio in mezzo agli uomini (v.16).

Gesù rivelazione del Padre accolto dai suoi (vv. 21-24)

Testo a lettura facilitata

La rivelazione è riservata ai piccoli

21 – In quel momento esultò nello Spirito Santo e disse: <<Ti ringrazio, Padre, signore del cielo e della terra, poiché nascondesti queste cose dai sapienti e dagli intelligenti e le rivelasti ai piccoli. Si, Padre, poiché così si è compiuto il desiderio davanti a te.

Gesù rivelazione del Padre ....

22 – Tutte le cose mi sono state date dal Padre mio, e nessuno conosce chi è il Figlio se non il Padre, e chi è il Padre se non il Figlio e a chi il Figlio avrà voluto rivelar(lo)>>.

. accolta dai suoi

23 – E rivoltosi verso i discepoli, a parte, disse: <<Beati gli occhi che vedono le cose che vedete.

24 – Vi dico, infatti, che molti profeti e re vollero vedere le cose che vedete e non (le) videro; e udire quelle cose che udite e non (le) udirono>>.


Note generali

La pericope in esame, di fonte Q, è una sorta di intermezzo sospensivo del cap.10 in cui sotto forma di preghiera e di considerazione si innesca una riflessione sulla natura rivelativa di Gesù e sui requisiti per poterla cogliere. La formulazione della preghiera, almeno nella sua parte introduttiva, risente del modo di esprimersi degli oranti del mondo veterotestamentario13 e nella sua enunciazione riecheggia molto lo stile giovanneo. I contenuti teologici e cristologici del v.22, infatti, trovano il loro riscontro in Gv 3,35; 5,27; 13,3; 16,15; 17,2.6-7.10 per quanto riguarda il v.22a; e in Gv 1,18; 5,19-20; 6,46; 7,29; 10,15.30.38b; 14,6.7-11.21; 15,15b; 17,6.8 per quanto riguarda il v.22b. Certamente non fa parte del linguaggio lucano, così come non fa parte di quello matteano. Non è da escludersi che Luca, nel suo girovagare missionario, abbia incontrato Giovanni e da questi abbia mutuato in qualche modo questa preghiera. Del resto, difficilmente la preghiera può essere fatta risalire a Gesù stesso, poiché nessuno era presente nei profondi e intimi momenti di comunione tra Gesù e il Padre14, con il quale non aveva certo bisogno di parole per comunicare con lui, perché lui e il Padre sono una cosa sola15. Gesù, infatti, come suggerisce l'introduzione redazionale alla preghiera, si muove nello Spirito Santo.

La struttura della pericope in esame si muove su tre livelli in cui viene da un lato illustrata la logica con cui si muove la rivelazione (v.21), che cosa essa è e come si attua (v.22) e come di fatto si è attuata nei discepoli (vv.23-24). Il v.22, per la sua importanza, è posto centralmente rispetto ai vv.21.23-24, che riguardano, invece, i rapporti della rivelazione con li uomini.

Commento ai vv.21-24


La rivelazione è riservata ai piccoli (v.21)

Il v.21 si apre con un'espressione di tipo redazionale, che crea un collegamento narrativo e contenutistico con i vv.17-20: “In quel momento”. Il momento a cui l'autore fa qui riferimento è quello del ritorno dei Settantadue dalla loro missione e al gioioso resoconto della loro attività, che vede la distruzione del regno di satana a tutto favore di quello di Dio (vv.17-18). La gioia dei Settantadue per l'efficacia della loro missione, si traduce e si amplifica ora in Gesù in un'esultanza nello Spirito Santo. Il verbo “ºgalli£sato” (egalliásato, esultò) ricorre in Luca tre volte e sempre in un contesto in cui l'esultanza è celebrativa dell'opera di salvezza di Dio. Lo si trova in 1,47 dove Maria esulta in Dio per averla resa madre del “Figlio dell'Altissimo” e sua collaboratrice nella redenzione (1,30-38); l'esultanza nello Spirito Santo compare anche qui perché l'opera di Gesù si riflette e prosegue ora nei suoi; ricorre, infine, in At 16,34 dove il carceriere di Paolo e Sila si converte lui e la sua famiglia e celebra in un gioioso quanto significativo banchetto il dono della salvezza: “poi li fece salire in casa, apparecchiò la tavola e fu pieno di gioia insieme a tutti i suoi per avere creduto in Dio”. Un verbo particolare, quindi, che si muove su di uno sfondo di intensa spiritualità, che va ben al di là di una semplice esultanza, e sfocia nel celebrare e nell'onorare, altri due significati di questo verbo. Un'esultanza, quindi, che ha in qualche modo a che vedere con l'aspetto cultuale e spirituale. È in questo contesto di intensa comunione tra Gesù e il Padre, che viene collocata la preghiera, che vede nella sua prima parte il metodo rivelativo di Dio: “poiché nascondesti queste cose dai sapienti e dagli intelligenti e le rivelasti ai piccoli. Si, Padre, poiché così si è compiuto il desiderio davanti a te”. Già lo si era capito fin dall'inizio: le prove che Gesù ha dovuto sostenere vertevano sulle modalità del come compiere la sua missione: se in modo eclatante e con effetti speciali, piegando gli uomini al suo volere; o interpellandoli nel profondo della loro coscienza, accettandone anche il rifiuto. Quest'ultima fu la strada scelta da Gesù e che Paolo riporta nell'inno cristologico di Fil 2,6-8: “Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Per questo, continuerà Paolo in 1Cor 1,17-25, “Dio mi ha mandato a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo. La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l'intelligenza degli intelligenti. Dov'è il sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini”. In buona sostanza il pericolo di una predicazione fondata sulla retorica, con un linguaggio forbito, sulle logiche del disquisire sapiente della filosofia dei greci o l'ossessionante ricerca di prove e conferme che ne attesti la veridicità da parte dei Giudei, portava a svilire e a rendere inutile il contenuto salvifico di tale annuncio. Così che il linguaggio duro e violento della croce diventa devastante per ogni logica umana, costringendola ad abbandonare le proprie sicurezze per accogliere nella propria vita l'operato salvifico di Dio manifestatosi ed attuatosi in Gesù, bypassando il filtro della retorica sapiente e la ricerca di sicurezze nella prova tangibile. Dio si pone di fronte all'uomo avvolto nell'impenetrabilità del suo Mistero, che diventa irraggiungibile con la sola strumentazione umana, per questo si rende necessario accogliere e contemplare tale Mistero, che va oltre ai fragili mezzi dell'uomo, senza pretendere di sondarlo, quasi per impossessarsene, poiché tale Mistero è incontenibile, ma tutto contiene. Per questo tale Mistero, contenuto nell'uomo Gesù, diventa irraggiungibile per chi pretende di misurarlo con la propria fragile strumentazione di una Tradizione costruita da uomini, fondandola sulle pretese di una razionalità che non riesce ad andare oltre a se stessa. Mentre tutto diventa raggiungibile ai piccoli, cioè a coloro che hanno saputo accostarsi al Dio che si manifesta e si rivela in Gesù nella fede, nella coscienza che Dio non è un uomo né si può raggiungere con strumenti umani, “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Is 55,8). Il termine greco con cui vengono definiti questi “piccoli” è “nhp…oij” (nepíois); un termine molto significativo, poiché descrive lo stato di una persona: “piccolo, bambino, fanciullo, puerile, semplice, inesperto, sciocco, stolto”. Un termine, quindi, che si contrappone diametralmente agli altri due: “sofîn kaˆ sunetîn” (sofôn kai sinetôn), che descrivono le persone sapienti, sagge, abili, esperte, intelligenti, perspicaci e capaci. È proprio l'atteggiamento di queste persone, che nel dramma del Paradiso Terrestre ha portato l'uomo non a collaborare con Dio, ma a voler prenderne il posto. In altri termini, un uomo antropocentrico toglie ogni spazio a Dio.

Il v.21 termina attestando: “Si, Padre, poiché così si è compiuto il desiderio davanti a te”. Il termine che qui è stato tradotto con “desiderio” ha il suo corrispondente greco in “eÙdok…a” (eudokía), che significa si desiderio, ma anche “buona volontà” e la sua origine verbale “eÙdokšw” (eudokéo) si muove all'interno della volontà e della deliberazione: mi piace, approvo, stabilisco, voglio, delibero. Pertanto la chiusura del v.21 va colta come una sorta di decretazione divina sulle modalità con cui questa rivelazione avviene e contiene in se stessa una sorta di discriminazione e di giudizio.

Gesù rivelazione del Padre .... (v.22)

Il v.22 costituisce il cuore della pericope (vv.21-24) poiché definisce i contenuti, la provenienza e la destinazione della rivelazione. Il linguaggio qui è squisitamente giovanneo e va a sondare le profondità dei rapporti che intercorrono tra il Padre e il Figlio e lascia pallidamente intuire, oltre non si può andare, la compenetrante esperienza di Vita che lega i Due. La conoscenza reciproca qui non va intesa come un semplice atto intellettivo o cognitivo, ma come una reciproca compenetrazione esistenziale tra i Due e che fa dei Due una cosa sola (Gv 10,30), così che chi vede Gesù vede il Padre (Gv 14,9b), perché il Padre è in Gesù e questi nel Padre (Gv 14,11). Gesù, pertanto, diviene il luogo storico della rivelazione del Padre e il suo operare è l'agire stesso del Padre, e la sua parola è la stessa del Padre (Gv 5,19.30). Per questo “Tutte le cose mi sono state date dal Padre mio”16. Quel “Tutte le cose” che il Padre ha dato a Gesù fa sì che Gesù assuma non soltanto una dimensione cosmica, divenendo il cuore dell'intero creato (Ef 1,10), ma sottolinei anche come egli sia la pienezza della rivelazione del Padre. Tutto il Padre fluisce in Gesù e da Gesù verso “chi il Figlio avrà voluto rivelar(lo)”. Non si tratta di una discrezionalità che mette il Padre in balia di Gesù, ma una discrezionalità che ha come presupposto della rivelazione la fede, cioè l'apertura esistenzialmente accogliente dell'uomo alla proposta salvifica del Padre in Gesù, così che chi li accoglie nella Parola, entrambi verranno in lui e in lui prenderanno la loro dimora (Gv 14,23). Si viene in tal modo a creare un flusso salvifico che vede il Padre confluire in Gesù e da Gesù nel credente. In tal modo Gesù diviene il luogo storico e il sacramento dell'incontro tra Dio e gli uomini.

. accolta dai suoi (vv.23-24)

L'intima comunione di Gesù con il Padre, che si fa esultanza celebrativa e cultuale nello Spirito Santo, ora coinvolge anche i discepoli. Il v.23 si apre, infatti, descrivendo il movimento di Gesù che dal Padre si rivolge verso i discepoli. Non si tratta di due orientamenti diversi, Gesù che lascia il Padre per parlare con i discepoli, ma di un unico movimento che abbraccia ora anche i discepoli. Gesù, infatti, per sua natura, è sempre rivolto al Padre fin dall'eternità allorché era ancora, quale Verbo eterno, presso Dio (Gv 1,1). Ora, quel “kat' „d…an” (kat'idían, a parte), che accompagna il rivolgersi di Gesù ai discepoli, sottolinea come quel suo rivolgersi diventi selettivo, una sorta di abbraccio che attrae i suoi nella sua intima comunione con il Padre e nella sua esultanza celebrativa. La preghiera di Gesù al Padre, che inizia con il ringraziarlo per aver rivelato il suo disegno di salvezza ai piccoli (v.21b), si conclude ora attestando la beatitudine dei suoi discepoli, i cui occhi “vedono le cose che vedete”, cioè vedono Gesù, che sono riusciti a cogliere quale inviato del Padre e sua rivelazione (9,20b; Gv 6,68-69). Quel “vedono”, infatti, assume un duplice significato: il vedere fisicamente Gesù e l'aver saputo vedere in lui la rivelazione del Padre (v.22). Ma nel contempo quel “vedere Gesù”, lì e ora, il verbo, infatti, è posto al presente indicativo, pone i discepoli al termine di una lunga catena di attese, facendoli beneficiari e testimoni finali di ciò che profeti e re, due figure che abbracciano l'intera storia di Israele, avrebbero voluto vedere e udire. Gesù, pertanto, diviene la realizzazione di queste attese che trovano il loro fondamento e la loro giustificazione nelle promesse fatte ad Abramo (1,54-55) e a Davide (2Sam 7,12-16; Lc 1,32.69; 2,11).

Senso e modalità della missione della Chiesa (vv.25-37)

Testo a lettura facilitata

L'etica della vita e principio conduttore del missione della chiesa: amare Dio e amare il prossimo (vv.25-28)

25 – Ed ecco un dottore della legge, questi si alzò per metterlo alla prova, dicendo: <<Maestro, facendo che cosa otterrò la vita eterna?>>

26 – Egli disse verso di lui: <<Che cosa è scritto nella Legge? Come leggi?>>.

27 – Egli, rispondendo, disse: <<Amerai il Signore Dio tuo da tutto il tuo cuore, in tutta la tua anima, in tutta la tua forza e in tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso>>.

28 – Gli disse: <<Hai risposto rettamente; fai questo e vivrai>>.

Chi è il prossimo e le modalità dell'amore (vv.29-37)

29 - Ma quello volendo giustificare se stesso, disse verso Gesù: <<E chi è il mio prossimo?>>.

30 – Avendo compreso, Gesù disse: <<Un uomo discendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò (nei) briganti. Questi e spogliatolo e dati(gli) percosse, se ne andarono lasciando(lo) mezzo morto.

31 – Ora per caso scendeva un sacerdote su quella strada e, vedutolo, passò oltre;

32 – ora, similmente anche un levita [capitato] sul luogo, venuto e visto, passò oltre.

33 – Ma un Samaritano, mentre viaggiava, venne presso di lui e, visto(lo), fu mosso a compassione,

34 – e, avvicinatosi, fasciò le sue ferite, versando sopra olio e vino; ora, fattolo salire sul proprio giumento, lo condusse in un albergo e si prese cura di lui.

35 – e il giorno dopo, tratti fuori due denari, (li) diede all'albergatore e disse: “Prenditi cura di lui, e ciò che avrai speso in più io, quando ritornerò, ti restituirò”.

36 – Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che incappò nei briganti?>>.

37 – Questi disse: <<Colui che usò misericordia con lui>>. Gesù gli disse: <<Vai e anche tu fai similmente>>.

Note generali

Per poter cogliere il senso della pericope in esame (vv.25-37) è necessario comprenderla all'interno dell'ampio quadro del cap.10, la cui prospettiva è postpasquale e vede una chiesa in forte espansione (vv.1-2), impegnata a continuare la missione di annuncio dei Dodici (vv.1-20), gli inviati da Gesù e forniti dei suoi stessi poteri (9,1-2.6), e in stretta comunione con lui e depositaria della sua rivelazione (vv.21-24). Ora, con questa pericope in esame, l'attenzione si sposta sulle modalità pratiche di approccio, alle quali questa chiesa missionaria è chiamata a configurarsi per amministrare la molta messe che le è stata affidata: l'amare Dio, con il quale, per sua natura, è in stretta e profonda comunione di vita (vv.22-23a), attraverso l'amore verso il prossimo. Le modalità di estrinsecazione di questo amore, cioè come debba concretamente dispiegato, verranno illustrate con il racconto del “Buon Samaritano” (vv.30-37). Luca, qui, sta lentamente scrivendo le regole fondamentali attorno alle quali deve muoversi la chiesa postpasquale e che delineano la sua identità; regole che non si è imposta e che non riguardano una corretta organizzazione e gestione delle sue risorse, ma che le sono state date dallo stesso Gesù, che funge come costante parametro di raffronto, su cui deve continuamente modellarsi e rimodellarsi. Egli è il vero Samaritano che, superando ogni barriera di razza e religione, al di là di ogni storia che divide e contrappone, si accosta soltanto all'uomo bisognoso di aiuto, gli tende la mano, gli dà una speranza, s'impegna in prima persona perché questi torni a vivere. È questo l'uomo che il Buon Samaritano, dopo averlo soccorso, curato e rinvigorito, dopo averlo salvato, lo affida alla Chiesa, perché ne abbia cura e di cui le chiederà conto al suo ritorno.

L'ampia pericope è scandita in due parti (vv.25-28.30-37), concatenate tra loro dal v.29. Tuttavia, l'autore ne ha fatto un'unica compatta unità narrativa sia per la doppia inclusione, data dal verbo “fare”, che compare ai vv.25.28.37, e delimita la prima parte (vv.25-28), ma nel contempo ingloba anche la seconda (vv.30-37); sia a motivo del v.29, che funge da trait-d'unione tra la prima e la seconda parte; e sia, infine, per la medesima tematica, enunciata nella prima parte ed esemplificata nella seconda. Entrambe si muovono sul fare. La questione che qui viene posta è pertanto etica e riguarda sia le modalità dell'operare della chiesa che i suoi orizzonti missionari, la cui ampiezza già è stata preannunciata dalla grande quantità della messe (v.2) e la cui vastità viene qui rimarcata dall'assenza di limitazioni, aprendo la sua missione all'intera umanità.


Commento ai vv.25-37

L'etica della vita e principio conduttore del missione della chiesa: amare Dio amando il prossimo (vv.25-28)

Note generali

La pericope qui riportata (vv.25-28) costituisce la prima parte dell'intera unità narrativa che comprende anche la parabola del Buon Samaritano e potremmo considerarla come l'enunciazione di un principio, quello dell'amore per Dio e per il prossimo, che deve informare e sostanziare non solo l'agire quotidiano della chiesa, ma anche fornirle il senso della sua missione, che la interpella sul piano del fare. Non si tratta, quindi, di due principi tratti da Dt 6,5 e Lv 19,18b su cui sviluppare una riflessione teologica con finalità filantropiche, ma fin dalla prima battuta (v.25b) Luca intende porre la questione su di un piano squisitamente etico: cosa fare per ottenere la vita eterna non solo per ogni singolo credente, ma anche per l'intera umanità, mentre il come farlo viene illustrato dalla parabola del Buon Samaritano. L'autore, quale greco, risente qui del modo di fare filosofia, la cui finalità non è quasi mai speculativa, ma punta sempre al senso pratico del come vivere la propria vita. La filosofia, quindi, come modo di vivere saggiamente. Diversamente, Mc 12,28-34 e Mt 22,34-40, che riportano lo stesso testo, impostano la questione in modo squisitamente speculativo, collocandola all'interno delle diatribe gerosolimitane e, quindi, alla fine dell'attività pubblica di Gesù (Mc 11,27-12,37; Mt 21,23-22,46), contrariamente a Luca che la pone qui all'inizio del grande viaggio verso Gerusalemme: “Maestro, qual è il comandamento più grande nella Legge?” (Mt 22,36) e similmente Mc 12,28b: “Qual è il primo di tutti i comandamenti?”. La questione posta dai primi due evangelisti non era comunque peregrina e tutto sommato aveva anche questa un risvolto pratico, che puntava ad orientarsi all'interno dell'abbondante e ormai ingestibile legislazione rabbinica. All'interno del Giudaismo, infatti, si era sviluppata una ridda di norme, ben 613 comandamenti, che andavano ad incidere direttamente sul vivere quotidiano del pio israelita, rendendogli la vita molto difficile. Mt 23,4 denuncia questo stato di cose scagliandosi contro un sistema di norme oppressive: “Legano carichi pesanti e opprimenti e li pongono sulle spalle degli uomini, mentre loro non vogliono muoverli con un dito”. Ma l'enorme peso della legislazione impediva anche agli stessi dottori della Legge e ai Farisei di osservarla scrupolosamente, per cui si era sviluppato all'interno delle diverse scuole un dibattito, che puntava ad individuare soltanto alcuni comandamenti fondamentali e tali che riassumessero sinteticamente l'intera normativa. Questi erano stati individuati in Dt 6,5 e Lv 19,18b (Mt 22,40; 12,31b). Il tono quindi in Marco e Matteo è squisitamente speculativo e lo si evince sia da come viene posta la questione, l'individuazione del comandamento più grande, sia dall'enunciazione pressoché letterale dei due testi di Dt 6,5 e Lv 19,18b, che fungono da riferimento dottrinale. Per Luca, che davanti a sé ha un pubblico greco-ellenista e pagano in genere, la questione speculativa, tutta interna al Giudaismo, non interessa. Per questo viene spostata sul piano etico: “Cosa fare per ottenere la vita eterna”. Questo è importante: quale senso e quale orientamento si deve dare alla propria vita perché venga spesa efficacemente ai fini della salvezza propria e dell'intera umanità. A differenza, poi, dei primi due sinottici Luca sposta la risposta sulla questione da Gesù al dottore della Legge, secondo il metodo maieutico, che spinge il maestro non a dare delle risposte, ma a stimolare il discepolo a trarle da se stesso. L'intera questione, pertanto, per Luca si pone sul piano del “fare” e diventa una questione etica. Una questione che Luca doveva sentire particolarmente, perché essa tornerà nuovamente in 18,18: “E lo interrogò uno dei capi dicendo: <<Maestro buono, facendo che cosa otterrò (la) vita eterna?>>”. Vedremo, poi, come questa etica, che inizialmente sembra limitata alla singola persona, “che cosa devo fare per ottenere la vita eterna”, acquisterà nel suo sviluppo parabolico (vv.30-37) una dimensione universalistica.

Commento ai vv.25-28

La pericope in esame è delimitata da un'inclusione data da due espressioni complementari tra loro, quella iniziale: “facendo che cosa otterrò la vita eterna” (v.25b); e quella finale: “fai questo e vivrai” (v.28). Tutta la questione, dunque, è posta all'interno del “fare per ottenere la vita eterna”. Due sono gli elementi da considerare, poiché saranno proprio questi due che verranno ripresi nella parabola del Buon Samaritano e applicati non più ad una singola persona, ma al metodo missionario della chiesa: operare per salvare, là dove verranno descritte le modalità di questo operare salvifico (vv.33-34).

Il v.25 si apre con un incisivo “Kaˆ „doÝ” (Kaì idù, Ed ecco), di marca redazionale, che dischiude un nuovo scenario, ma che nel contempo crea una continuità narrativa, dando l'idea che ciò che sta per succedere stia accadendo mentre Gesù sta parlando con i suoi: un dottore della Legge, a differenza di quello marciano e matteano, pone una questione di etica, che solo in apparenza è personale: “Maestro, facendo che cosa otterrò la vita eterna?”. Secondo le logiche del dibattimento rabbinico, in cui a domanda si risponde con un'altra domanda, cercando di ribaltare la questione contro il proprio avversario, mettendolo in difficoltà, un esempio lo abbiamo in 20,1-8, Gesù non dà una risposta diretta al dottore della Legge, ma pone a sua volta una domanda cercando di coinvolgerlo nella sua ricerca, spingendolo a trovare dentro se stesso la risposta. Più che metodo di dibattimento rabbinico, personalmente parlerei di metodo socratico della maieutica, in cui il maestro attraverso una serie di domande spinge il proprio discepolo a cavar fuori da dentro di sé la risposta che cerca. Ciò che differisce tra i due metodi di dibattimento è l'intento polemico del dibattimento rabbinico ed educativo quello socratico. Tenendo presente, poi, che Luca è un greco-ellenista che si sta volgendo a tale mondo, è probabile che qui si debba leggere il metodo socratico della maieutica piuttosto che quello rabbinico. Non vi è infatti, qui, nessun intento polemico, benché Luca, riportando il testo da Marco, collocato in un contesto di diatriba, abbia sottolineato “per metterlo alla prova”. Ma in realtà qui non si respira l'aria di conflitto presente nelle cinque diatribe galilaiche (Mc 2,1-3,6) e gerosolimitane (Mc 11,27-12,37; Mt 21,23-22,46). È probabile che Luca abbia conservato quel “per metterlo alla prova” per poi giustificare in qualche modo il comportamento del dottore della Legge che rimanda nuovamente a Gesù la questione sull'identità del prossimo.

La risposta che il dottore della legge dà si richiama a Dt 6,5 e Lv 19,18b, ma la citazione dei testi lascia a desiderare. Molto più puntuale e dettagliata quella di Mc 12,29-31, che riporta esattamente il testo di Dt 6,4-5, limitandosi a citare con precisione soltanto la seconda parte di Lv 19,18. Il dottore della Legge marciano, poi, riprendendo i testi di Dt e Lv ne svilupperà una riflessione dal sapore sapienziale, che suona come una sorta di ammaestramento per il lettore di Marco: “Hai detto bene, Maestro, e secondo verità che Egli è unico e non v'è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici” (Mc 12,32-33). Similmente Mt 22,37-39 cita testualmente Dt 6,5, anche se non in modo completo come Mc 12,29-30, e Lv 19,18b, tenendo separate le due citazioni. Diversamente, le due citazioni del dottore della Legge lucano, pur con riferimento ai medesimi testi, vengono poste in sequenza e saldate assieme, come se fossero un unico comandamento proveniente da un unico testo: “Amerai il Signore Dio tuo da tutto il tuo cuore, in tutta la tua anima, in tutta la tua forza e in tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Segno questo che ormai all'interno della vita della chiesa l'amore per Dio e per il prossimo erano considerati tra loro interconnessi, così che il primo poteva realizzarsi solo attraverso il secondo. Una prassi questa che viene rilevata dallo stesso Giovanni nella sua prima lettera: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1Gv 4,20-21). Mt 25,40.45 sancirà una sorta di identificazione tra Gesù e i “fratelli”: “In verità vi dico, per quanto faceste a uno di questi miei fratelli, faceste a me”. Non dice “è come se lo faceste a me”, ma “lo faceste a me”, creando un collegamento diretto tra Gesù e l'altro, in cui Gesù è sacramentato, rendendo in tal modo inscindibile il binomio Gesù-fratelli. Ma vedremo come questa prassi non regolerà soltanto i rapporti interpersonali all'interno della comunità credente, ma diventerà anche la logica su cui deve muoversi la missione stessa della chiesa.

Gli elementi che coinvolgono l'amore verso Dio, elencati da Dt 6,5 sono tre: un amore che deve sgorgare dal cuore, dall'anima, intesa come il centro vitale della vita stessa17, e dalla forza, intesa come vitalità stessa della vita nel suo svolgersi dinamico, così che la vita stessa diventi un atto di amore a Dio, una sorta di sua celebrazione. Ed infine, Luca, mutuando da Mc 12,30, aggiunge un quarto elemento: la mente, come capacità dell'uomo di elaborare pensieri e di riflettere Un meccanismo quello della riflessione che è fondamentale per approfondire e metabolizzare nella propria vita il contenuto del comandamento.

La pericope si chiude con l'assenso di Gesù sulla citazione del dottore, affermando come amore per Dio e per il prossimo costituisce un unicum da cui scaturisce la vita eterna, che è per antonomasia la vita stessa di Dio.

Chi è il prossimo e le modalità dell'amore (vv.29-37)


Note generali


Con il v.29 si passa dall'enunciazione del principio dell'amore per Dio e per il prossimo, in cui i due oggetti dell'amore di fatto si identificano o quanto meno sono strettamente interconnessi tra loro (vv.25-28), ad una parabola che è solo apparentemente semplice, ma in realtà è sconvolgente, poiché tutti gli schemi umani e relazionali saltano e perdono della loro logica naturale. La parabola, infatti, se da un lato dovrebbe soltanto chiarire il concetto di “prossimo”, in realtà non solo lo capovolge, per cui “prossimo” non è più chi ti sta o ti è vicino, ma sei tu che ti fai vicino agli altri, così che sei tu che diventi prossimo per l'altro; dall'altro viene cambiata completamente l'identità del vero prossimo: il vero prossimo è Dio stesso che in Gesù si è fatto prossimo all'uomo, travolto dal peccato (vv.30-34a), e dopo averlo salvato lo affida alla chiesa (vv.34b-35a), il cui compito è quello di prendersi cura degli uomini, oggetto della salvezza divina, e di continuare quella prossimità di salvezza, che Dio ha portato a compimento in Gesù. La chiesa, pertanto, e con lei tutti i credenti, è chiamata per sua natura ad un servizio di prossimità divina per l'uomo redento dal peccato, che le è stato affidato e di cui le sarà chiesto conto (vv.35b). Pertanto ogni limite, ogni confine, ogni linea di demarcazione, ogni distinguo vengono a cadere e ciò che rimane è soltanto un abbraccio universale finalizzato ad accogliere nella Chiesa l'intera umanità redenta e con lei l'intera creazione, per un principio di solidarietà che lega strettamente le due.

Lo schema della parabola è formato da diversi strati, che lentamente si snodano, descrivendo il triplice contesto in cui il malcapitato è venuto a trovarsi: si passa dai due addetti al Tempio (vv.31-32) al Samaritano (v.33) e da questi all'albergatore (v.34b-35). Mentre i vv.29.36-37, che includono la parabola, fungono da preambolo e da chiusura alla parabola stessa, e la cui funzione è quella di mettere in rilievo il nuovo concetto e la nuova identità di prossimo. Pertanto si avrà:

  1. La questione: “Chi è il mio prossimo?” (v.29)

  2. Viene presentato lo stato di un uomo, aggredito, spogliato e tramortito da dei briganti (v.30);

  3. vengono presentate, accoppiate tra loro, due figure addette al servizio al Tempio, le quali non prestano alcun soccorso, ma se ne tornano a casa dopo aver terminato il servizio al Tempio (vv.31-32);

  4. viene presentata una terza figura, un samaritano, sul quale Luca si sofferma a lungo nel descriverne il comportamento;

  5. viene presentato l'albergo e l'albergatore, a cui viene affidato il malcapitato perché se ne prenda cura

  6. La risposta in cui si delinea il nuovo concetto di prossimo e la sua vera identità (vv.36-37)


Commento ai vv.29-37

Il v.29 è chiaramente redazionale e funge da elemento di congiunzione tra la precedente pericope (vv.25-28) e la parabola del Buon Samaritano (vv.30-37). Il v.28, infatti, chiude la precedente pericope, che non avrebbe avuto più nessuno sbocco, nessun seguito. Si è reso necessario, pertanto, inserire un trait-d'union che riprendesse e riaprisse il discorso sul tema dell'amore per Dio e per il prossimo. La costruzione del v.29 parte da un presupposto polemico, che era stato in qualche modo innescato al v.25, dove l'intervento del dottore della Legge è posto sotto il segno della controversia: “per metterlo alla prova”, benché il contesto non lo richiedesse. Tuttavia, come si è sopra accennato, Luca ha probabilmente ritenuto di conservare il contesto polemico delle cinque diatribe gerosolimitane, mutuato da Marco, per poter poi su tale contesto costruire e giustificare in qualche modo il v.29, che funge da ponte necessario tra la prima (vv.25-28) e la seconda pericope (vv.30-37).

Il v.29 si apre con un “Ð dš” (o dé, ma questo) avversativo che contrappone il dottore della Legge a Gesù, motivando la sua contrapposizione con il “volersi giustificare”. In altri termini, battuto sulla prima questione posta (v.25b), ora non intende recedere, ma cerca un riscatto protraendo la polemica: “E chi è il mio prossimo?”. La questione posta dal dottore della Legge non va tuttavia colta soltanto come l'innesco di una diatriba, ma ha anche un suo fondamento di seria ricerca da parte dello stesso. Nel mondo giudaico, infatti, il prossimo assumeva diversi aspetti: in genere indicava l'appartenenza al popolo dell'Alleanza, il correligionario o il connazionale. Il comando di Lv 19,18b di amare il prossimo come se stessi, va compreso, infatti, all'interno del v.19,18a: “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo” . Prossimo poteva essere considerato anche l'appartenente alla stessa parentela o l'amico; ma poteva estendersi, in taluni casi, secondo Lv 19,34, anche al forestiero che dimorava in terra d'Israele: “Il forestiero dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l'amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d'Egitto. Io sono il Signore, vostro Dio”. Prossimo, in modo esclusivo, poi, poteva essere considerato anche l'appartenete ad una qualche setta ristretta come nel caso di Qumran, dove in 1QS, 9-1118 comanda di amare “tutti i figli della luce, ognuno secondo il posto che ha nel consiglio di Dio” e di odiare “tutti i figli delle tenebre, secondo la colpevolezza che ha di fronte alla vendetta di Dio”19. Non erano certo da considerare prossimo i Samaritani, i nemici e i pagani. Il dibattito, comunque, era aperto, poiché la Torah comandava l'amore e il rispetto per il prossimo, ma la sua individuazione non era scontata e pacifica. L'individuazione di chi fosse il prossimo comportava comunque una delimitazione di persone tale da escluderne altre20.

La parabola, che ha il compito di chiarire chi è il prossimo, presenta due livelli di lettura: il primo, più superficiale e più immediato, che risponde alla domanda del dottore della Legge, definisce il concetto di prossimo: è colui che usa misericordia; il secondo livello, molto più profondo, costituisce il vero messaggio di Luca, che in questa breve parabola condensa l'intera storia della salvezza, che partendo dalla caduta dell'uomo, vittima del peccato e del conseguente suo degrado esistenziale, attraverso l'intervento di Dio, che si rende prossimo all'uomo in Gesù, lo rigenera a vita nuova, affidandone poi l'opera alla chiesa. Questo secondo livello di lettura è reso possibile non soltanto dal testo, ma anche dal contesto ecclesiologico postpasquale del cap.10, in cui è inserita la parabola; anzi, probabilmente tale interpretazione di secondo livello è proprio richiesto dal contesto.

Primo livello di lettura

Il v.30 si apre presentando la figura di uno sventurato che percorrendo la strada che da Gerusalemme, posta a circa 750 mt sul livello del mare, lo doveva portare a Gerico, posto in una depressione, che la colloca a circa 250 mt sotto il livello del mare. Un dislivello quindi di circa 1000 mt. separava Gerusalemme da Gerico, tra loro congiunte da una strada lunga circa una trentina di Km. Ed è durante questo tragitto che il malcapitato si imbatte nei briganti che lo spogliano di ogni suo avere, lasciandolo gravemente ferito sulla strada. Il quadro presentato è storicamente verosimile, quasi fotografico, e probabilmente si rifà ad episodi di brigantaggio molto frequenti da quelle parti, rendendo il percorso molto insicuro. La strada si snoda, a partire dall'ottavo Km dopo Gerusalemme e fino alle porte di Gerico, tra luoghi completamente deserti e montagnosi e spesso impervii e per questo infestati dai briganti, che qui vi trovavano facile rifugio e difficilmente potevano essere snidati. Lo stesso F. Giuseppe ne dà testimonianza in Guerra Giudaica: “il paese da Gerico a Gerusalemme è desertico e pietroso” (Bell. IV, 474). E ancora ai tempi dei Bizantini e dei Crociati una massiccia costruzione, il Khan Hathrur, posta al diciannovesimo Km, fungeva da corpo di guardia di protezione dei pellegrini, offrendo loro anche un riparo per la notte. Lo stesso G. Ricciotti, nel suo libro Vita di Gesù Cristo, attesta che egli percorse numerose volte quella strada dove, poco prima del suo passaggio, negli anni 1931 e 1933, erano avvenute delle rapine a danno di intere comitive di pellegrini, con spargimento di sangue, nonostante fossero stati disseminati lungo la strada numerose pattuglie di polizia21. Luoghi pertanto molto difficili ad alto rischio e probabilmente ancor oggi non ancora sanati.

I vv.31-35 innescano un confronto tra due addetti al culto del Tempio e un Samaritano. La scelta dei personaggi e l'accostamento dei loro contrapposti comportamenti nei confronti del povero disgraziato è finalizzato a creare un evidente contrasto, che difficilmente si può esentare da intenti polemici. Un sacerdote e un levita, persone consacrate al culto di Jhwh, chiamate ad officiare nel suo santo Tempio in nome di Dio stesso a favore di se stessi e del popolo. Un alone di sacralità divina, quindi, li avvolge e stride fortemente con la figura del Samaritano, considerato un eretico, posto fuori dal ciclo delle Promesse e quindi della salvezza e per certi aspetti anche un traditore, considerato alla stregua di un pagano. Non c'era motivo per i due addetti al culto per non soccorrere lo sfortunato uomo incappato nei briganti; stavano, infatti, scendendo da Gerusalemme verso Gerico, dove probabilmente abitavano, come molti addetti al culto al Tempio. Avevano, pertanto, terminato il loro turno di servizio al Tempio, che durava una settimana, e non potevano quindi addurre problemi di contaminazione con il sangue o con un possibile cadavere, cose per le quali sarebbe occorso un apposito rituale di purificazione, che avrebbe potuto, quindi, in qualche modo interrompere il loro servizio. Ai due pertanto viene tolto ogni motivo per il loro rifiuto, smascherando in tal modo tutta la loro meschineria. Non così per l'odiato Samaritano, del quale l'autore descrive con molta cura e ricchezza di dettagli il comportamento amorevole, misericordioso e compassionevole. Viene pertanto accentuato lo stridente contrasto tra i tre personaggi. Un contrasto che affondava le sue radici nella stessa storia che divideva i Giudei dai Samaritani22 (9,51; Gv 4,9). Il confronto tra le due tipologie di personaggi ricorda in qualche modo quella dei due uomini saliti al Tempio per pregare, un fariseo e un pubblicano. Il confronto vincente, qui come là, cade sempre su quello che è considerato un pubblico peccatore, come lo era il mondo dei pagani, dal quale Luca proveniva e verso il quale guarda sempre con molta benevolenza.

Con i vv.36-37 si giunge al dunque della parabola, che per sua natura tende a drammatizzare delle situazioni, coinvolgendo direttamente gli ascoltatori nella storia, facendoli diventare protagonisti assieme ai personaggi della parabola stessa, spingendoli a prendere posizione. La risposta che questi daranno costituirà, pertanto, una sorta di sentenza posta su di loro: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che incappò nei briganti?”. La domanda posta da Gesù di fatto rovescia il tradizionale concetto di prossimo, da sempre considerato come l'altro rispetto a se stessi. Chi dei tre è stato prossimo per lo sventurato. Al dottore della legge non restava che scegliere tra i tre, escludendo dalla cerchia del prossimo lo sfortunato che incappò nei briganti, poiché nel nuovo concetto di prossimo è la persona stessa che è chiamata a farsi prossimo dell'altro. Si passa, pertanto, da un atteggiamento passivo ed esclusivista ad uno attivo e onnicomprensivo. Ogni credente, pertanto, deve farsi prossimo per l'altro, indipendentemente dal suo status religioso o di appartenenza razziale; indipendentemente dalla storia che lo ha delimitato e ne ha definita l'identità. È significativo come allo sventurato non venga attribuita nessuna identità, ma soltanto viene chiamato genericamente “”AnqrwpÒj tij” (antzropós tis), cioè un uomo qualunque, un tale qualsiasi, relegato, quindi, nell'anonimato. Ma proprio grazie a tale anonimato quel uomo acquisisce un'identità precisa, quella dell'intera umanità, verso la quale il dottore della Legge deve farsi prossimo, senza escludere nessuno.

È interessante rilevare come il dottore della Legge non risponde alla domanda di Gesù additando il Samaritano, chiamandolo per nome, ma lo individua per la funzione che egli ha svolto: “Colui che usò misericordia con lui”. Il prossimo pertanto non è soltanto colui che si fa vicino all'altro nel caso di necessità, ma è colui che “usa misericordia” con chi è nel bisogno. Da rilevare il verbo che qui il dottore della Legge usa in riferimento alla misericordia: “`O poi»saj” (O poiésas), cioè “colui che fece” misericordia. Non quindi la persona misericordiosa, ma colui che sul piano del fare attua la misericordia, indipendentemente dal suo stato d'animo o dai sentimenti che può nutrire nei confronti dell'altro, di cui è chiamato a farsi prossimo. La questione iniziale, del resto, era di tipo etico: “facendo che cosa otterrò la vita eterna?”. La risposta, quindi non poteva essere che questa: attuare una prossimità verso l'altro sottesa dalla misericordia.

L'intero racconto termina con il comando esortativo di Gesù: “Vai e anche tu fai similmente”. Quel “fai similmente” è lo stesso verbo che definisce, sempre sul piano del fare, il prossimo come colui che “fa misericordia”. L'accento, quindi cade sul “fare”, cioè sul dare spazio nella propria vita all'altro, avvicinandosi a lui con un atteggiamento accogliente e misericordioso, che in ultima analisi è lo stesso di quello che Dio usa nei confronti di ogni singolo uomo, verso il quale si è fatto prossimo in Gesù.

Secondo livello di lettura


Per poter accedere a questo secondo livello è necessario porsi da una diversa prospettiva di osservazione. A questo livello i personaggi e i loro movimenti acquistano una valenza simbolica, metaforica se non allegorica. È difficile stabilire se tutto ciò fosse nelle intenzioni dell'autore, ma è certo che tutto in questa parabola, ogni singola parola, ogni singola immagine, ogni singolo verbo può essere interpretato univocamente nel senso della storia della salvezza, che vede un uomo decaduto, un culto giudaico incapace di risanarlo, un Samaritano, rigettato dall'ufficialità del culto giudaico, che si fa prossimo a questo uomo decaduto e lo rigenera ad una vita nuova, affidandone le cure all'albergatore, figura della chiesa. Questa lettura di secondo livello si inserisce bene nel contesto del cap.10, che vede una chiesa in rapida espansione (vv.1-2), inviata ad annunciare il l'avvento del Regno di Dio e guarire gli infermi (9,2; 10,9); depositaria della rivelazione attuatasi in Gesù e in lui messa in comunione con il Padre(vv.21-24); chiamata a continuare l'opera di redenzione e di riscatto dell'uomo decaduto a causa del peccato e iniziata dal suo Maestro e Signore, di cui è l'erede spirituale (9,1-2; 10,1.9) e ciò, come vedremo nella pericope seguente, vv.38-42, attraverso l'annuncio della Parola, fondamento della fede e strumento di rigenerazione, di crescita e di evoluzione spirituale.

La parabola si apre presentando la drammatica situazione dell'uomo decaduto. L'uso dell'espressione “”AnqrwpÒj tij” (Antzropós tis), parla non di un uomo particolare, ma di uno in senso generale, un tale. L'anonimato di quest'uomo lo colloca in una prospettiva di universalità. Si sta quindi qui parlando dell'umanità decaduta. È un uomo, infatti, che discendeva da Gerusalemme, dove si trovava, verso la depressione di Gerico, posta a 250 mt circa sotto il livello del mare. L'uso dell'imperfetto indicativo, “discendeva”, dice che questa discesa dall'alto verso lo sprofondamento non conosce né sosta né limiti, ma è persistente. Un uomo che viene descritto come aggredito dai briganti, così come era avvenuto nel Paradiso Terrestre23, dove fu sottoposto alla prova drammaticamente fallita. Luca precisa che questo uomo fu spogliato. Una spogliazione che richiama un uomo rivestito inizialmente dello Spirito di Dio, divenendo un essere vivente, sua immagine e somiglianza, ma che dopo essere incappato nel serpente tentatore si accorse di essere nudo, privo di quello Spirito divino che lo aveva assimilato alla sua vita, così che fu rivestito non più del perduto Spirito, bensì con pelli di animali, assimilando il suo stato di despiritualizzazione a quello degli animali, che come lui furono tratti dalla terra, ma in loro non fu insufflato lo Spirito divino. A motivo della sua despiritualizzazione, l'uomo da carne spiritualizzata divenne carne despiritualizzata con tutti gli esiti conseguenti. Da tutto ciò l'uomo fu duramente colpito e lasciato mezzo morto, come lo furono i suoi progenitori, che uscirono da questa drammatica esperienza travolti dalla sofferenza, dal degrado esistenziale e dalla morte. Ora l'uomo è solo con il suo dramma, incapace di rialzarsi e di riprendere le sue primordiali relazioni con Dio, da cui era drammaticamente uscito. Chi mai potrà essere in grado di risanarlo e riabilitarlo, rigenerandolo nuovamente alla vita?

Alla domanda rispondono i vv.31-33, che presentano tre personaggi: due addetti al culto del Tempio, un sacerdote ed un levita, e un Samaritano. Tutti tre si imbattono nello sventurato, ma solo uno riuscirà a restituirgli la vita. È significativo come Luca scelga tra i primi due personaggi proprio un sacerdote e un levita e non un dottore della Legge o uno scriba o più semplicemente un qualsiasi giudeo. Perché l'autore accentra invece la sua attenzione su due addetti al culto? Il sacerdote, a cui viene associato anche il levita, dedito al servizio del Tempio, è di fatto il rappresentante del culto divino, colui che si pone quale mediatore e intercessore tra il popolo e Dio, insignito di tale funzione proprio da Dio stesso. Ma queste figure sono presentate mentre scendevano da Gerusalemme, la quale cosa lascia pensare che avessero terminato il loro turno settimanale di culto e se ne stessero tornando alle loro case. Ci si trova, quindi, di fronte a degli addetti ad un culto, che hanno terminato la loro funzione cultuale, per questo passano vicino all'uomo mezzo morto e non lo soccorrono: perché la loro funzione cultuale, figura di un'altra che doveva venire (Col 2,16-17; Eb 8,3.5; 10,1), era del tutto incapace di ristabilire l'uomo decaduto nella giusta relazione con Dio. Essi, pertanto, lasciano il passo ad un'altra figura, quella del Samaritano, che invece si dimostrerà capace di un soccorso efficace e tale da rigenerare nuovamente a vita l'uomo caduto in disgrazia.

I vv.33-35 sono dedicati interamente alla figura di Samaritano e alla sua relazione di amore misericordioso con l'uomo incappato nei briganti. Una figura, quella del Samaritano, decisamente fuori posto. Che ci faceva un Samaritano su quella strada che sale verso Gerusalemme e il Tempio? Non avevano i Samaritani sul monte Garizim il loro tempio? Non avevano un loro culto? Che ci faceva un Samaritano, diviso dai Giudei da un odio profondo e tale da respingere Gesù e i suoi perché erano diretti a Gerusalemme, su quella strada? Certamente la figura del Samaritano, analizzata da un punto di vista storico, è incomprensibile nel contesto della parabola, semplicemente perché un Samaritano non poteva trovarsi lì. Perché, dunque, Luca ha proposto all'attenzione del suo lettore questa incongruente figura del Samaritano? Per due semplici motivi: perché il Samaritano è uno che è respinto dai Giudei, considerato un eretico ed assimilato ai pagani; perché, e questo è il secondo motivo, aveva sviluppato un culto in forte dissonanza con quello giudaico. Ma queste due specifiche caratterizzano parimenti la figura di Gesù: respinto dai suoi (Gv 1,11; 12,37), perché proponeva un diverso culto divino non più legato al Tempio, al sacrificio di animali e ad una rigorosa quanto formale osservanza della Legge (Mt 5,2'-48; 23,1-39), ma legato alla vita stessa; un culto che si radicasse nel cuore. Il Gesù giovanneo, rivolto alla Samaritana, ricorda proprio questo aspetto: “Le dice Gesù: <<Credimi, donna, che viene l'ora allorché né in questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete; noi adoriamo ciò che conosciamo, poiché la salvezza è dai Giudei. Ma viene l'ora ed è adesso, allorché i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; e infatti il Padre cerca (che siano) tali quelli che lo adorano. Dio è spirito, e bisogna che quelli che lo adorano (lo) adorino in spirito e verità” (Gv 4,21-24). La venuta di Gesù, dunque, era finalizzata anche ad un rovesciamento del culto, che ingessava l'uomo in una ritualità tale da renderlo incapace di un autentico rapporto esistenziale con il suo Dio, impedendogli di raggiungerlo e in tal modo di salvarlo. Un rovesciamento del culto che viene significato simbolicamente nel Gesù che scaccia i commercianti dal Tempio e ne rovescia i banchi. Un episodio riportato da tutti gli evangelisti24, ma che certamente non ha alcuna base storica, poiché un simile comportamento urta contro ogni logica storica, come vedremo dettagliatamente a suo tempo (19,45-46).

Luca, ora, comincia ad esporre dettagliatamente la figura del Samaritano, il quale non viene descritto nell'atto di salire o di scendere lungo la strada Gerusalemme-Gerico, anche se ciò è presupposto, visto che pure lui si era imbattuto in quel disgraziato come gli altri due, che stavano scendendo. Ma l'autore preferisce sottolineare che l'incontro era avvenuto “mentre viaggiava”. Quel viaggio che Gesù sta compiendo verso Gerusalemme (9,51.53) e che lo porterà a passare, come quel Samaritano, per Gerico (18,35; 19,1); un viaggio che da Gerusalemme lo riporterà in seno al Padre; un viaggio che Luca ricorderà con molta incisività, quasi scultorea in At 10,38: “come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazareth, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui”. Si parla dunque di un viaggio che, iniziato dal Padre, lo porta nel mondo, dove passa risanando l'uomo posto sotto il potere di satana e le cui infermità dicono il suo degrado esistenziale, causato dalla colpa originale; e dal mondo, poi, lo riporta al Padre. Un viaggio che il Gesù giovanneo sintetizza attestando: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; di nuovo lascio il mondo e vado al Padre” (Gv 16,28). È proprio durante questo suo viaggiare che il Samaritano incontra l'uomo abbattuto dalla colpa.

Ora segue la descrizione di una serie di significativi movimenti che questo Samaritano compie per tendere la mano a questo disgraziato: “mentre viaggiava, venne presso di lui”. Un viaggio che non sembra casuale, ma finalizzato ad andare presso di lui. Questo “andare presso di lui” non significa che si accostò o si avvicinò in qualche modo a lui per curarlo, poiché questo verrà detto subito dopo: “avvicinatosi, fasciò le sue ferite”. Quale senso assume, dunque, quel “andare presso di lui” durante questo suo viaggio? Quel “andare presso di lui” allude all'incarnazione di Gesù, che venne ad abitare in mezzo a noi (Gv 1,14), la quale cosa dice la solidarietà di Dio con questo uomo decaduto e distrutto dal peccato. Questo è il primo passo verso la prossimità: Dio intraprende il suo viaggio di solidarietà con l'incarnazione verso l'uomo decaduto: “Non sono venuto a chiamare (i) giusti, ma (i) peccatori per (la) conversione” (5,32), poiché “Non quelli che stanno bene hanno bisogno del medico, ma quelli che stanno male” (5,31).

Il secondo movimento che il Samaritano compie durante questo suo viaggiare è il prendere atto della pietosa quanto drammatica condizione esistenziale e spirituale in cui il disgraziato versava: “e, visto(lo)”; il terzo movimento esprime il profondo e viscerale coinvolgimento esistenziale di questo Samaritano nei confronti di quest'uomo: “fu mosso a compassione”. Il verbo greco qui usato è “™splagcn…sqh” (esplancníste), che ricorre in tutta la Bibbia soltanto dodici volte e soltanto nei tre Sinottici ed è sempre riferito al commuoversi di Gesù di fronte all'indigenza dell'uomo25. Si tratta di un verbo un po' singolare che trova la sua radice in “spl£gcnon” (spláncnon), che significa “viscere”. Il verbo pertanto significa letteralmente “sentire con le viscere” o “sentire visceralmente”, per indicare la profondità del sentire e, quindi, del coinvolgimento emotivo dell'intera persona, scossa nelle sue profondità. Un verbo che dice il livello di coinvolgimento di Dio in, per e con Gesù nella tragica condizione umana (Fil 2,6-8). Uno stato emotivo che mette in evidenza un aspetto della prossimità di Dio nei confronti dell'uomo: Dio è pienamente coinvolto in Gesù nella sorte dell'uomo e la sente nelle profondità del suo essere. Il quarto movimento, dal quale scaturirà una serie di azioni salvifiche è l'avvicinarsi, che dice l'azione di prossimità di Dio in Gesù nei confronti dell'uomo decaduto, finalizzata alla sua salvezza, che si esplica nel fasciare le ferite, il disinfettarle con del vino e il lenirle con dell'olio. Un intervento di primo soccorso che si completa con il caricarlo sul suo giumento, che dice come questo Samaritano non si è limito a curare il malcapitato, ma se ne fa pienamente carico, ne diviene in qualche modo responsabile, ne sente la responsabilità e il salvarlo viene posto al centro dei suoi interessi. È un Samaritano che Luca definisce in viaggio e, quindi, non è destinato a fermarsi, ma prosegue il suo cammino, va oltre, ma affida a qualcun altro il compito di portare a compimento l'opera di salvezza che egli ha incominciato: “lo condusse in un albergo e si prese cura di lui. E il giorno dopo, tratti fuori due denari, (li) diede all'albergatore e disse: “Prenditi cura di lui, e ciò che avrai speso in più io, quando ritornerò, ti restituirò”. Il malcapitato entra nell'albergo assieme al Samaritano, il quale, finché rimane in quel albergo, si prende cura di lui. Ma sarà un tempo limitato, quanto dura il viaggio di questo Samaritano sulla terra e poi se ne va lasciando mandato all'albergatore di prendersene cura finché egli non tornerà e lo fornisce di una capacità di assistenza: due denari, quanto è la paga di due giorni di un operaio; e quando tornerà egli porterà con sé la ricompensa per l'impegno profuso dall'albergatore. Albergo e albergatore, in cui l'uomo decaduto e travolto dalla colpa, ma riscattato e rigenerato alla vita dal Samaritano, sono la figura della Chiesa, alla quale è affidato l'incarico di proseguire l'opera della salvezza iniziata dal Samaritano, sulla quale pesa un giudizio finale: quando il Samaritano tornerà, infatti, porterà con sé la ricompensa per l'impegno profuso.

Il racconto si conclude con la domanda di Gesù: “Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che incappò nei briganti?”. La risposta viene portata sull'azione: “Colui che usò misericordia”. Il Samaritano, dunque, costituisce il parametro di raffronto su cui modellare il proprio agire. Un parametro di raffronto che non è opzionale, ma possiede in se stesso un obbligo morale, un'etica di vita che deve qualificare chi ha assunto su di sé la responsabilità di proseguire l'azione di salvezza, su cui si verrà misurati al ritorno del Samaritano: “Vai e anche tu fai similmente”.


La Parola annunciata, insostituibile fondamento dell'agire missionario della Chiesa (vv.38-42)

Testo

38 – Nel mentre che essi andavano, egli entrò in un villaggio. Ora, una donna, di nome Marta, lo accolse.

39 – E questa aveva una sorella, chiamata Maria, la quale, sedutasi presso i piedi del Signore, ascoltava la sua parola.

40 – Marta, invece, era occupata per il molto servizio; avvicinatasi disse: <<Signore, non t'importa che mia sorella mi abbia lasciato sola a servire? Dille che mi aiuti invece>>.

41 – Ma il Signore rispondendo le disse: <<Marta, Marta, ti affanni e ti agiti per molte cose,

42 – ma c'è necessità di una cosa: Maria infatti ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta>>.

Note generali

La pericope delineata dai vv.38-42 è di esclusiva provenienza lucana. Questa nota acquista rilevanza poiché è inserita nel contesto del cap.10, che funge da appendice al lungo discorso ecclesiologico di Luca (5,1-9,17), ed è significativa perché è posta a conclusione di questa appendice. Se Luca ha ritenuto necessario inserirla qui, usando materiale proprio, è perché nel suo girovagare missionario ha avuto modo di toccare con mano l'organizzazione delle singole comunità credenti, presso le quali era ospitato, e deve aver rilevato come al loro interno fervesse molta attività non solo organizzativa, ma anche caritativa e tutto ciò a scapito dell'annuncio della Parola, probabilmente trascurata a favore dell'attività, o forse è meglio dire dell'attivismo di queste comunità e che Gesù stigmatizza in Marta come un agitarsi e un affannarsi (v.41). Un problema questo che lo stesso autore rileva in At 6,1-4: “In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: <<Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola>>”. Un problema questo che verrà risolto, come suggerito dal testo, con l'istituzione della diaconia, un apposito servizio alla mensa e di supporto all'attività missionaria degli apostoli, a cui Luca aveva già accennato in 8,1-3.

L'annuncio della Parola acquista in particolar modo negli Atti un peso molto importante, attorno alla quale gira l'intera attività missionaria. Basti pensare che ad essa, alla sua diffusione e alla sua efficacia l'autore si riferisce espressamente per circa una sessantina di volte. Non stupisce, quindi, che dopo aver parlato del mandato dei Settantadue, quale prolungamento espansivo dei Dodici (vv.1-2); dopo che si è attestato come la chiesa sia la depositaria della rivelazione di Gesù (vv.21-24); dopo aver indicato il senso della missione e le sue modalità esplicative nel racconto del Buon Samaritano (vv.25-37), Luca termini questa lunga appendice ecclesiologica del cap. 10, con un forte richiamo alla centralità della Parola, che deve prevalere sull'attivismo che anima le comunità credenti, poiché “La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo” (Rm 10,17).

Da qui la necessità per Luca di inserire il breve, ma intenso racconto di due personaggi e del loro diverso e contrastante comportamento nei confronti di Gesù, loro comune ospite: Marta e Maria, in cui Luca delinea due tipologie di persone: Marta, la donna accogliente, che si spende con generosità per Gesù e per gli altri; sempre molto indaffarata nel rendere gli onori di casa, sempre molto attiva e piena di iniziative, c fino a ritienere inopportuna la quiescenza della sorella. Maria, per contro, una figura quasi secondaria, silente, pressoché impercettibile, dedita all'ascolto di Gesù, accovacciata ai suoi piedi, in un atteggiamento quiescente e tale da spazientire la frenetica sorella Marta. Due figure che non sono nuove nella letteratura neotestamentaria, comparendo anche nel vangelo giovanneo, attorno alle quali l'autore ha costruito l'intero cap.11 e i primi otto versetti del cap.12. Due figure che molto probabilmente sono uscite dalla sola fantasia di Luca, che, poi, nel suo peregrinare missionario, in qualche modo le ha fatte conoscere anche a Giovanni o alla sua comunità, che le ha riprese, sviluppando la sintetica tipizzazione lucana di Marta e Maria in un ricco e molto più elaborato racconto, molto movimentato e carico di suspense. È più facile, infatti, che da un testo più semplice e sintetico, che stimola un'idea, si passi ad uno più complesso, piuttosto che pensare ad un processo inverso. Tutte le linee lucane, infatti, si ritrovano nel racconto di Giovanni molto amplificate, molto elaborate e arricchite (Gv 11,1-12,8). Il racconto di Lc 10,38-42 è servito pertanto da base per i capp. 11,1-12,8 di Giovanni.

L'attivismo irrefrenabile e irresistibile della Marta lucana lo vediamo molto amplificato e ben drammatizzato in quella giovannea. La Marta giovannea, infatti, ferita profondamente dalla morte del fratello Lazzaro, non si rassegna e piena di iniziativa va incontro a Gesù e gli rivolge parole quasi di rimprovero, molto vicine ad un atto di accusa, a motivo del suo ritardo di due, tre giorni (11,6): “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!” (11,20-21). Contrariamente, la sorella Maria rimane seduta in casa (11,20), molto simile alla Maria lucana, seduta in casa ai piedi di Gesù. Marta, pertanto, la sollecita a darsi una mossa e la manda a chiamare (11,28), così come l'energica Marta lucana sollecita Gesù a riprendere la sfaticata sorella seduta ai suoi piedi. Il carattere più mite e tranquillo della Maria lucana viene fatto trasparire da quella giovannea, che, infine, cede alla sorella, si alza e va incontro anche lei a Gesù; ma, diversamente da Marta, Maria gli si getta ai piedi, riprendendo le parole di Marta, che qui, però suonano con un tono mesto, quasi di rammarico e di supplica (11,32). Ed ecco torna nuovamente il carattere irruento di Marta, allorché Gesù comanda la rimozione della pietra tombale per far uscire Lazzaro, questa interviene con fare determinato, redarguendolo: “Signore, già manda cattivo odore, poiché è di quattro giorni” (11,39). Serve lo spazientito richiamo di Gesù per calmare la sempre agitata Marta: “Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?” (11,40). Sarà, poi, sempre lei, Marta, sei giorni dopo la risuscitazione del fratello Lazzaro, ad invitare ancora Gesù a cena, mettendosi a servire i commensali (12,2), così come la Marta lucana, accolto Gesù nella sua casa, si sta dando da fare per i commensali, rimbrottando la quiescenza della sorella Maria. Ed è proprio in questo frangente che la Maria giovannea, inaspettatamente, in un umile atteggiamento di servizio, profumerà i piedi di Gesù, tra le critiche dei presenti per tanto spreco di unguento prezioso (12,3-5); un gesto che Gesù interpreterà come anticipatore della sua inumazione (12,7); certamente un gesto di slancio generoso e pieno di amore di questa donna che sia Giovanni (Gv 11,32a; 12,3a) che Luca (10,39) ritraggono sempre ai piedi di Gesù, quasi in un continuo atto di adorazione e di contemplazione del Verbo Incarnato, che Maria accoglie con umiltà e docilità nella sua vita.

Commento ai vv.38-42

Il racconto si apre rammentando il viaggio verso Gerusalemme: “Nel mentre che essi andavano”, creando in tal modo il contesto narrativo entro cui viene inserito il racconto. E benché l'allusione all'andare a Gerusalemme sia evidente fin già da 9,51.53, che ne danno l'intonazione e ne caratterizzano l'intero percorso fino a 19,28, tuttavia, qui l'autore non lo precisa, lasciandolo sottinteso. L'esplicito silenzio su Gerusalemme ha una funzione narrativa precisa, quella di alludere anche ad un altro andare, ad un altro viaggiare, quello missionario, durante il quale l'autore ha potuto rilevare all'interno delle diverse comunità, presso le quali veniva ospitato, l'eccessivo attivismo a scapito della Parola, drammatizzandolo ora nel suo breve racconto, che tipizza il contrastante comportamento riscontrato. È, infatti, durante questo suo “viaggiare” che egli entra “in un villaggio”, che qui viene menzionato anonimamente e che proprio per questo suo anonimato acquista tratti di universalità, abbracciando in tal modo un po' tutte quelle comunità credenti che si possono riconoscere nel racconto, che serve loro da monito. Ed è così che “Marta lo accolse”, alludendo alla sua accoglienza presso queste comunità, dove scopre ciò che ora racconta.

Vi è qui la sorella di Marta, Maria, che nel racconto ricopre uno specifico ruolo di parentela. Tuttavia tale termine, sorelle o fratelli, andava a designare anche i rapporti di consanguineità spirituale tra i vari componenti delle comunità credenti26. Il contrastante comportamento di queste due sorelle, tipizzazione dei contrapposti atteggiamenti, che Luca deve aver rilevato nelle diverse comunità ospitanti, viene posto ora in maggior rilievo dal loro accostamento nei vv.39.40, che costituiscono il cuore del breve quanto intenso racconto: da un lato, “Maria, la quale, “sedutasi presso i piedi del Signore, ascoltava la sua parola” (v.39b); dall'altro “Marta, invece, era occupata per il molto servizio” (v.40a). L'indiscreto e stonato intervento di Marta sulla sorella, coinvolgendo direttamente Gesù nella loro diatriba, ha una duplice funzione: da un lato mettere in rilievo il ruvido e aggressivo comportamento di Marta, che evidenzia sempre più il suo energico attivismo, che non va molto per il sottile e tende a spianare tutto ciò che lo ostacola; dall'altro serve all'autore per coinvolgere Gesù, preparandone in tal modo la sentenza su questi contrastanti comportamenti: “Ma il Signore rispondendo le disse: <<Marta, Marta, ti affanni e ti agiti per molte cose, ma c'è necessità di una cosa: Maria infatti ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta” (vv.41-42).

I vv.41.42 si aprono entrambi con una particella avversativa “ma”, che mette in rilievo la contrapposizione dei due atteggiamenti riscontrati nelle comunità credenti e che nel contempo anticipano in qualche modo il giudizio su questi. Il “servire” di Marta, che non ricomprende in se stesso l'ascolto della Parola, anzi l'avversa come un'inutile perdita di tempo, viene definito da Gesù come un “affannarsi e un agitarsi”, che porta a disperdere il credente nelle cose da fare, banalizzando in tal modo la sua stessa fede e svuotandola di significato e di senso. Pertanto, all'attivismo affannoso e dispersivo di Marta, il Gesù lucano contrappone la quiescenza di Maria, tutta dedita all'ascolto della Parola, delineando in questo il vero discepolato. Maria, infatti, è colta da Luca seduta ai piedi di Gesù, intenta all'ascolto della sua parola. Un atteggiamento, questo, tipico dei discepoli nei confronti del loro maestro.

È significativo come Luca presenti Marta “occupata per il molto servizio” e tale da non dare spazio all'ascolto della Parola. Il termine “servizio” è reso in greco con “diakon…a” (diakonía) e con il corrispondente verbo “diakonšw” (diakonéo), che ricorrono nel N.T., rispettivamente 34 e 37 volte e mettono in rilievo l'importanza di questo atteggiamento di servizio, che i singoli credenti e le stesse comunità dovevano assumere sull'esempio di Gesù, che non è venuto per farsi servire ma per servire (Mt 20,28; Mc 10,45), così che il servizio diviene l'elemento che contraddistingue il vero discepolo (Gv 12,26). Esso acquistava notevole importanza all'interno delle comunità credenti, poiché svolgeva una fondamentale quanto irrinunciabile funzione per il buon funzionamento della comunità stessa. Ma se il servizio diviene sacramento in cui si manifesta nei discepoli e nelle stesse comunità credenti l'azione donativa di se stesso da parte di Gesù, quale pane che si spezza per tutti, un simile servizio, perché mantenga il suo carattere di sacramentalità e di testimonianza, abbisogna di radicarsi nella Parola e in questa trovare il suo alimento, per non scadere in un inutile affanno e in un dispersivo agitarsi nelle cose, che fa scadere la carità e l'amore di Gesù in una mera filantropia, perdendo in questo ogni valenza testimoniale e salvifica.




N O T E

1Per una sintesi panoramica dell'intero trattato di ecclesiologia lucana cfr. pag. del commento al cap.9

2Cfr. At 2,41; 6,7; 11,1; 12,24; 13,48-49; 19,20

3Sul significato del numero sette cfr. il termine “Sette” in M. Lurker, Dizionario delle Immagini e dei Simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e il termine “Numero” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, nuova edizione rivista e integrata 2005.

4I manoscritti oscillano tra il “settanta” e il “settantadue”, benché il primo sia meglio attestato, molto meno il secondo, tuttavia la lettura più difficile è quella che ha più probabilità di essere giusta. È più facile, infatti, che il copista abbia sostituito il “settantadue” con la lettura più facile di “settanta”, che richiama la tavola dei popoli di Gen 10, enumerati in “settanta”, anche se va precisato che la LXX, quella che Luca conosceva e aveva sottomano, ne enumera “settantadue”. In entrambi i casi, se il riferimento lucano fosse stato Gen 10, il “settanta/settantadue” alludeva alla missione universale della Chiesa. Sulla questione cfr. O. Spinetoli, Luca, edizioni Cittadella Editrice, Assisi, 1999, 4^ edizione, note 4 e 5, pag. 363.

5Cfr. Mt 7,15; 10,16; Gv 10,12; At 20,29.

6Sulla questione cfr il commento al cap.9 della presente opera, pagg.30-32

7Cfr. Rm 14; 1Cor 8; 10,24-33; Col 2,16-17; 1Tm 4,3-5; Tt 1,15; Gal 2,11-14

8Il termine borsa è sovente associata al denaro. In tal senso cfr. Gen 42,35; Sir 18,33; Mc 6,8;

9Cfr. anche 1Tm 5,17-18

10Sulla questione dell'ospitalità dei missionari cfr. il commento al cap.9 della presente opera, pagg.5-6

11Circa le invettive dei profeti citati contro Tiro e Sidone cfr. Is 23,1-18; Ger 25,22-38; 27,3-4;47,4; Ez 26,2-21; 27,1-36; 28,1-26; Gl 4,4-10; Am 1,9-10; Zc 9,3-4. -

12Cfr. Es 32,9; 33,3.5; 34,9; Dt 9,6.13; 2Cr 30,8; Bar 2,30; Ez 3,7

13Cfr. 1Cr 29,13; Sal 117,21.28; 137,1; Is 12,1; Gen 14,19.22; Tb 10,14; Gdt 9,12; Sal 145,6

14Sulla natura del pregare di Gesù cfr. il commento al cap. 9, pag.15.

15Cfr. Gv 10,30; 17,11c.21.22

16Cfr. anche Gv 3,35; 17,7.10

17Secondo l'antica antropologia l'uomo è composto di spirito, anima e corpo (1Ts 5,23), in cui l'anima costituisce il punto d'incontro tra il corpo e lo spirito, rendendo in tal modo possibile la vita dell'uomo. Quando si parla quindi di anima, questa allude alla totalità dell'umanità di cui ogni uomo è dotato e capace.

18La sigla “1QS, 9-11” indica che lo scritto citato è stato trovato nella Grotta n.1; Q sta per Qumran e S sta per Serek, termine ebraico che significa “Regola”, con riferimento al rotolo che parla della Regola della Comunità; i numeri che seguono riguardano i versetti di riferimento.

19Cfr. L. Moraldi, I manoscritti di Qumran, edizioni TEA, Milano 1994, pagg.133-134

20Sul tema del prossimo cfr. la voce “Prossimo” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, 2005, nuova edizione rivista e integrata.

21Cfr. G. Ricciotti, Vita di Gesù Cristo, edizioni Oscar Mondadori, Cles 1974, ristampa 2009

22Sulla questione del rapporto tra Samaritani e Giudei cfr il commento al cap.9, nota 36

23Tutte le immagini bibliche riguardanti Gen 2 e 3 sono state interpretate non secondo i parametri dell'esegesi biblica tradizionale, ma in riferimento a quelli del mito. I primi undici capitoli della Genesi, infatti, sono considerati appartenenti all'area del mito.

24Cfr. Mt 21,12-13; Mc 11,15-17; Lc 19,45-46; Gv 2,14-16

25Cfr. Mt 9,36; 14,14; 15,32, 18,28; 20,34; Mc 1,41; 6,34; 8,2; 9,22; Lc 7,13; 10,33; 15,20

26Il termine “fratello-sorella” con questo significato ricorre nella letteratura neotestamentaria canonica all'incirca 343 volte.