IL VANGELO SECONDO LUCA
I due prologhi
(Lc 1,1-4; 1,5-2,52)
Commento esegetico e teologico
a cura di Giovanni Lonardi
A
modo proprio e a seconda dei propri intenti, ogni evangelista apre il
suo racconto con un prologo, la cui consistenza varia a seconda delle
finalità che l'autore si propone. L'incipit di Marco, che di fronte
a sé ha comunità credenti miste, provenienti prevalentemente dal
paganesimo, ma anche dal giudaismo, apre con un'attestazione di fede,
che forma il tema fondamentale del suo vangelo: “Inizio del vangelo
di Gesù Cristo, [Figlio di Dio]1”(Mc
1,1). Si tratta di una sorta di cammino catecumenale alla scoperta
dell'uomo Gesù come Cristo (8,29b) e come Figlio di Dio (Mc 15,39).
Similmente
Matteo, che di fronte a sé ha comunità di credenti provenienti dal
giudaismo, apre il suo racconto con un'attestazione che rimanda e
lega la persona di Gesù alle promesse fatte a Davide (2Sam 7,12-16)
e ad Abramo (Gen 12,1-3.7; 15,1-19; 16,10; 17,1-22): “Libro
dell'origine di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo”
(Mt 1,1). Gesù, dunque, per Matteo è il Cristo, cioè il Messia,
l'Unto del Signore, l'erede delle promesse, colui che dà compimento
alla Legge e ai Profeti (5,17) e alle attese di Israele (11,3-6). I
racconti dell'infanzia, che seguono immediatamente (1,18-2,23), a mo'
di prologo esteso, posto a dimostrazione di quanto affermato in 1,1,
sono costruiti attorno a cinque citazioni scritturistiche2,
quasi come una sorta di sentenze inquadrate3,
finalizzati a dimostrare come l'evento Gesù non solo sia stato
previsto scritturisticamente, ma come esso ne sia il compimento (Mt
5,17).
Quanto
a Giovanni, similmente a Luca, apre il suo vangelo con un doppio
prologo, il primo poetico o innico4
(1,1-18) e il secondo narrativo5
(1,19-51), benché entrambi i prologhi giovannei siano ben lontani da
quelli lucani, avendo diverse finalità.
Quanto a Luca, va detto che egli presenta due prologhi che potremmo definire di presentazione di se stesso e dei suoi intenti, il primo (1,1-4); narrativo e introduttivo il secondo (1,5-2,52).
Le credenziali di Luca (1,1-4)
Luca, seguendo l'uso degli storici del suo tempo, introduce il suo racconto con una formula che si riscontra anche in altri autori6. Uno per tutti, Flavio Giuseppe, nella sua opera “Guerra Giudaica”, edita intorno all'anno 79 d.C., apre il suo racconto attestando la necessità di dover scrivere gli eventi della guerra giudaica per sanare le deformazioni o la scarsa obiettività degli storici suoi contemporanei: “La guerra dei giudei contro i romani - la più grande non soltanto dei nostri tempi, ma forse di tutte quelle fra città o fra nazioni di cui ci sia giunta notizia - alcuni la espongono con bell'arte, ma senza aver assistito ai fatti e solo combinando insieme racconti malsicuri e disparati, mentre altri, che invece vi assistettero, ne danno una narrazione falsata o per compiacere ai romani o in odio ai giudei, sì che nelle loro opere ricorre sempre ora un giudizio di condanna, ora di esaltazione, ma non v'è mai posto per la verità storica. Mi sono allora proposto di raccontarla io agli abitanti dell'impero romano, traducendo in greco un mio precedente scritto in lingua nazionale dedicato ai barbari delle regioni superiori. Sono Giuseppe figlio di Mattia, di stirpe ebraica, sacerdote da Gerusalemme, che ho avuto parte attiva nelle prime fasi della guerra contro i romani e poi ho dovuto assistere di persona ai suoi successivi sviluppi” (Bel. Jud. I,1-3). Un'opera firmata, in cui l'autore presenta le sue credenziali di attendibilità, dichiarandosi diretto testimone degli eventi che travolsero il popolo ebraico negli anni 66-73. I paragrafi che seguono fino a I,30 costituiscono una sorta di sommario introduttivo degli eventi storici che l'autore intende trattare (Bel. Jud. I,30). È interessante notare come in questi primi 30 versetti del primo libro Flavio Giuseppe metta in rilievo che la sua narrazione dei fatti non sia poi così asettica come egli rivendicava, ma come egli ne sia coinvolto emotivamente (Bel.Jud. I,11) e come il suo giudizio sugli stessi non sia così imparziale e aderente alla verità, lasciando trasparire fin da subito la sua simpatia per i Romani e la sua aspra critica nei confronti dei capipolo giudaici, attribuendo a loro e non ai Romani il drammatico disastro che fu la prima guerra giudaica (Bel. Jud. I,9-11.27 ).
Luca si colloca in questa scia di scrittore storico molto attento all'obiettività e all'oggettività del suo materiale e dei suoi racconti, ma non così disinteressato come vorrebbe Luciano di Samosata nella sua opera “Come si deve scrivere la storia”, in cui tratteggia la figura dello storico così perfetto da sembrare avulso dalla realtà e, come non bastasse, sospinto alla spersonalizzazione: “Così dunque deve essere per me lo storico: impavido, incorruttibile, libero, amico delle franchezza e della verità, e come dice il poeta comico, capace di denominare i fichi, fichi, e la barca, barca, di non risparmiare o concedere nulla per odio o per amicizia; non deve avere riguardo, pietà, vergogna o paura; sia un giudice imparziale, benevolo verso tutti ma non fino al punto di concedere a qualcuno più di quello che gli è dovuto; nelle proprie opere deve essere straniero, senza patria, indipendente da ogni potere, uno che non calcola che cosa penserà questo o quello ma che racconta i fatti così come sono accaduti.” (§41). Un elenco di titoli che secondo Luciano dovrebbero definire la figura ideale dello storico e che certamente sono stati ricavati, per antitesi, dal modo di scrivere storia da parte dei suoi contemporanei7. Ne esce, quindi, la figura caricaturata di uno storico, che funge da paradigma per loro; una figura talmente perfetta e idealizzata che, per contrapposizione, li va a sferzare con potente ironia, denunciando nella perfezione del suo storico i difetti degli storici del suo tempo. In tal senso significativo potrebbe essere quel richiamo al “poeta comico”8, quasi a dire che anche un comico, che sa dire “fichi ai fichi e barca alla barca”, può essere più serio di loro. Comunque, al di là di questa ironica figura di storico, va colto il senso del suo richiamo: lo storico deve essere il più obiettivo possibile, cercando di basare la propria storia sulla ricerca di documenti e informazioni il più oggettivi possibili, secondo gli stessi suggerimenti di Tucidide, che invitava lo storico a ricostruire i fatti attraverso un'indagine attenta e diligente, escludendo aprioristicamente ogni elemento sensazionalistico o fantastico, che potesse in qualche modo distorcere la verità dei fatti stessi. Una storia, quindi, pragmatica, basata sui fatti, spogliati di ogni emozione.
Un altro elemento che caratterizzò la storiografia antica, in particolar modo quella ellenistica, di cui Luca fa parte, fu il particolare interesse per determinate figure storiche come quella di Alessandro Magno, le sue imprese, il suo impero, il dramma del suo disfacimento e le lotte tra i suoi successori. Un tipo di storiografia questa che appartiene prevalentemente al filone drammatico, che si proponeva di suscitare emozioni, sentimenti e riflessioni nei suoi lettori.
Luca appartiene sia alla scuola tucididea per i suoi propositi di rigorosa ricerca dei fatti (1,3) che a quella che mostrava interesse per particolari personaggi e, quindi, prosopografica. Un interesse quest'ultimo che egli mostra immediatamente, facendo seguire ai suoi propositi di storiografo fedele e rigoroso, la narrazione parallela dei suoi due personaggi fondamentali, che animeranno il suo racconto-vangelo: Giovanni e Gesù.
Commento a 1,1-4
Testo a lettura facilitata (1,1-4)
Il contesto letterario neotestamentario in cui Luca decide di scrivere
1 – Poiché molti cercarono di esporre ordinatamente una narrazione circa i fatti compiutisi in mezzo a noi,
La Tradizione
2 - come ci tramandarono coloro che furono testimoni oculari e ministri della parola fin dall'inizio,
La decisione e il metodo di ricerca di Luca
3 – è sembrato anche a me, che ho seguito dappresso accuratamente dal principio tutti (i fatti), di scriverti ordinatamente, eccellente Teofilo,
Lo scopo
4 – affinché (tu) conosca la certezza delle parole sulle quali sei stato istruito.
Con questo breve prologo l'autore presenta non solo le proprie credenziali, che gli dovrebbero garantire la massima credibilità, ma anche il suo metodo di ricerca, la sua fedeltà alla Tradizione e la finalità della sua opera. Quattro versetti all'apparenza molto semplici, ma estremamente sintetici, molto densi. Nessuna parola è spesa in più, nessuna parola è mancante. Il tutto viene distribuito su di una struttura, il cui significato è già stato messo in evidenza qui sopra nel “Testo a lettura facilitata”. Una struttura che sembra avere una sua logica interna, ma che, in realtà, è stata costruita per giocare un ruolo finalizzato a potenziare il senso di questo prologo. Una struttura che può essere letta da tre diverse angolazioni. La prima è quella offertaci dallo stesso autore: Luca si trova in un contesto letterario neotestamentario già abbondantemente ricco (v.1), che si muove sulla testimonianza della Tradizione apostolica (v.2); a questo si associa anche lui (v.3) per dare solido fondamento alla dottrina in cui è stato istruito l'amico Teofilo (v.4). Quattro versetti in tutto in cui i primi tre sono circoscritti da un'inclusione data dal senso del verbo “esporre ordinatamente una narrazione” (¢nat£xasqai di»ghsin, anataxastai diéghesin) (v.1) e “scrivere ordinatamente” (kaqexÁj soi gr£yai, katzexês soi grápsai) (v.3), la cui unità è anche rafforzata da quel “k¢moˆ” (kamoì, anche a me), posto inizialmente al v.3. La seconda angolazione è resa possibile se si associano tra loro i vv.1.3, facendoli entrambi ruotare attorno al v.2, che in tal modo risulta essere centrale e, quindi, il più importante. Per cui si avrà che fra i molti autori, che stanno producendo numerose opere intorno ai fatti accaduti e noti (v.1), anche Luca si aggiunge a loro (v.3), senza però contrapporvisi, come avviene, invece, per Flavio Giuseppe, che scrisse Guerra Giudaica per raddrizzare molti racconti distorti e costituendosi, pertanto, come l'unica vera fonte di autentica e, per questo, attendibile verità. Luca, al contrario, si aggiunge senza contrapporsi perché riconosce come questi molti scritti affondino le loro radici e le loro fonti nella comune e identica Tradizione (v.2). Per questo non si contrappone, ma si associa agli altri, senza creare aree di conflittualità, che potrebbero minare i fragili rapporti inter/intracomunitari, creando disorientamento e confusione tra i credenti. Tutto ruota e tutto si ricompone intorno e all'interno dell'unica Tradizione apostolica, quella dei “testimoni oculari e ministri della parola fin dall'inizio” (1,2). La terza angolazione è costituita dall'associazione dei vv.2.4 che ruotano attorno al v.3, posto così centralmente. Una lettura questa che tende ad accreditare a Luca la massima attendibilità. In altri termini, la Tradizione apostolica, già costituita (v.2) e in cui Teofilo è stato istruito e fonda la propria fede e la propria scelta di vita (v.4), passa ed è filtrata anche attraverso l'opera lucana, il cui intento è quello di rafforzarla in Teofilo, togliendogli ogni ombra di dubbio (v.3). In buona sostanza Luca si colloca, da un lato, assieme ad altri autori neotestamentari, che attingono dalla Tradizione e ad essa sono legati, mettendosi in tal modo nel filone canonico; dall'altro riconosce, proprio per questo, come la sua opera trasmetta e rafforzi, in quanto veicolo della sana dottrina, la fede dei credenti.
Un prologo, pertanto, che imprime all'opera lucana il sigillo della veridicità, posto a fondamento della fede. Luca, quindi, non è la voce della verità che si contrappone alle menzogne degli altri, cercando di fare dei proseliti a suo sostegno, creando scismi all'interno delle comunità9, ma si inserisce nell'ampio e sicuro alveo della Tradizione apostolica, che, a sua volta, è radicata agli “eventi compiutisi in mezzo a noi” e ne sono i diretti testimoni, ministri di quella Parola che è posta a fondamento di ogni credente e grazie alla quale ogni credente è stato generato alla vita eterna (1Pt 1,23).
v.1: il prologo di Luca si apre con un “'Epeid»per” (epeidéper, poiché), una congiunzione di tipo causale, che imprime all'intero versetto la natura di causa, che ha spinto Luca ad intraprendere anche lui, come altri, la faticosa e impegnativa opera di un vangelo. La congiunzione, tuttavia, può avere anche un valore temporale, “dopoché; da che, allorché” che vede Luca, in tal caso, al seguito di altri che, prima di lui, si erano avventurati in una narrazione degli eventi accaduti. In ogni caso Luca ci passa una notizia molto interessante: quando egli decise di intraprendere anche lui un racconto, già c'erano in quel preciso contesto storico, databile seconda parte del I sec. d.C., dei tentativi di comporre un racconto degli eventi. Quel “™pece…rhsan” (epecheíresan), che significa “mettere mano, tentare, cercare di, intraprendere”, lascia trasparire questa situazione di fermento primitivo da parte dei primi credenti di fissare in modo ordinato racconti, parabole, detti di Gesù, perché il suo evento, ricompreso come evento divino di salvezza, non andasse perduto. Sarà proprio la Formgeschichte10 o storia delle forme, il primo metodo di esegesi storico-critica sorto nei primi decenni del 1900, che ci informerà come i vangeli siano una sorta di assemblaggio redazionale di tante piccole unità narrative preesistenti, raccolte presso le prime comunità credenti. Essa ci apre un piccolo spiraglio su quei “molti che cercarono di esporre ordinatamente una narrazione”. Un esempio di questo tentativo fu il vangelo di Matteo, edito inizialmente come raccolta di detti e parabole di Gesù in cinque grandi discorsi, intorno agli anni 8011, su cui lo stesso Papia (70-150), vescovo di Gerapoli tra il 110 e il 130, ci informa, per l'intermediazione di Eusebio di Cesarea, che “Quanto a Matteo dice (Papia) queste cose: Matteo pertanto mise in ordine (sunet£xato) le cose dette in lingua ebraica, ma ognuno le interpretò come era capace”12. Compare qui il verbo composto “sunet£xato” (sinetáxato), che letteralmente significa mettere insieme ordinatamente “t¦ lÒgia” (tà lóghia), cioè le cose dette da Gesù. Un verbo che assomiglia molto e, comunque della stessa natura di quello usato da Luca in 1,1: “¢nat£xasqai” (anatáxastai), che significa esporre ordinatamente. In entrambi i casi si parla dei primissimi tentativi di dare forma ad una ordinata narrazione sull'evento Gesù. Forse qui Luca fa riferimento proprio a questi primi tentativi di narrazione sull'attività missionaria di Gesù. Certamente i vangeli non furono i primi scritti su Gesù, ma essi fecero riferimento ad altri scritti che si trovavano variamente sparsi presso le comunità credenti, come si è qui sopra accennato (cfr. anche nota 9); o elaborati da alcuni predicatori itineranti, che si appuntavano ciò che dovevano annunciare per poterlo fare correttamente con voce univoca; o dover rispondere a questioni poste dagli ascoltatori. Nello stesso racconto degli Atti in 10,37-43 Luca riporta uno schema di predicazione, forse usato da lui stesso durante la sua attività missionaria, che riproduce la struttura del vangelo. Probabilmente la predicazione non era soltanto kerigma, cioè l'annuncio essenziale degli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù, ma anche racconti di miracoli di guarigione, di enunciazione di suoi detti. Quel “passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38b), lascia intendere che il predicatore itinerante doveva anche spiegare ed esemplificare in cosa consistesse questo beneficare e risanare; come si esprimeva concretamente la potenza di Dio che operava in Gesù. Da tutto questo insieme di annuncio, dapprima orale, si passò ai primi tentativi di fissare per iscritto e di dare forma narrativa ordinata ai “fatti compiutisi in mezzo a noi” (Lc 1,1). Quest'ultima espressione è molto densa ed è resa in greco con il verbo “peplhroforhmšnwn” (pepleroforeménon), un perfetto indicativo che indica degli eventi presenti che si sono compiuti nel passato. Un verbo, quindi, che fa da ponte tra passato e presente; che rende presente il passato, dandogli una sua continuità nell'oggi. Ciò che consente questa continuità storica di tali fatti è la “di»ghsin” (diéghesin), cioè la narrazione, il racconto di tali accadimenti. La parola, quindi, quale strumento non solo di trasmissione di fatti passati, ma di attualizzazione degli stessi. Un'attualizzazione che trova la sua concretizzazione nella ritualità della liturgia, che Luca ricorda in At 2,42, dove attesta che i credenti “Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere”. Un'espressione che riecheggia anche nel racconto dei due discepoli di Emmaus, dove la Parola, che infiammava i loro cuori (Lc 24,32), si svela e si attua nel gesto dello spezzare il pane (Lc 24,30-31). Ciò che viene attualizzato attraverso la parola (diéghesin) e il culto sono dei fatti. Luca usa qui il termine “pragm£twn” (pragmáton), che esprime l'accadere storico in tutta la sua concretezza e crudezza; un accadere che costituisce la realtà stessa della storia. Questo uso particolare che Luca fa di questo termine, per esprimere la concreta realtà degli eventi, sottolinea una volta di più la solidità di quegli eventi su cui poggia la fede e che costituiscono la “¢sf£leian” (asfáleian), cioè la solida certezza di quelle parole in cui Teofilo, come tutti i credenti, è stato istruito e su cui fonda la scelta della sua vita (1,4). Eventi, afferma Luca, che si sono compiuti “in mezzo a noi” (“™n ¹m‹n”, en emîn). Ciò che identifica questo “noi” è il verbo “compiutisi”, che, come si è visto, assume il duplice significato di eventi passati che si compiono e sono attualizzati attraverso la parola e il culto, che avvengono “in mezzo a noi”. Quel “noi” dunque fa riferimento ai credenti, in mezzo ai quali ancor oggi i fatti si compiono nella parola e nel rito, che si fanno culto.
v.2: Questo versetto, posto centralmente tra i vv.1 e 3, costituisce la fonte comune di tutti questi tentativi di narrazione. Un versetto molto denso ed essenziale, in cui ogni parola è attentamente misurata. Esso, unitamente ai vv.1.3, forma la catena di trasmissione dei “fatti compiutisi in mezzo a noi”, anzi ne è la fonte primaria, su cui poggia la certezza della Tradizione, imprimendo il sigillo della veridicità non soltanto sui “molti” (v.1), ma anche sullo stesso Luca (v.3).
Il versetto si apre con l'avverbio “kaqëj” (katzòs, come), che dice in quale modo le narrazioni dei fatti siano, da parte sia dei “molti” che di Luca, in conformità e in linea con quanto fu tramandato loro dai primi diretti testimoni oculari: “come ci ramandarono”. Significativo come al “kaqëj” venga fatto seguire immediatamente il verbo “paršdosan” (parédosan, tramandarono, trasmisero, consegnarono), legandolo pertanto saldamente al verbo che, per eccellenza, definisce la Tradizione: “parad…dwmi”. In tal modo la conformità (kaqëj) alla tradizione (paršdosan) è garantita e indissolubile. Vengono poi fatti seguire gli attori di questa Tradizione, che sono definiti come “aÙtÒptai” (autóptai), qui tradotto come “testimoni oculari” e che letteralmente significa “coloro che vedono con i propri occhi”. Si parla quindi qui di testimoni diretti, coinvolti in prima persona in quei “fatti compiutisi in mezzo a noi”. Testimoni, quindi, legati alla concretezza dei fatti accaduti e collocati in un determinato contesto storico, di cui essi furono attori e spettatori insieme. Non si tratta, quindi, di testimoni indiretti, che tali sono per aver sentito dire, ma i garanti di un evento storico, che loro hanno compreso come salvifico, poiché in tale evento essi furono coinvolti in prima persona e sanno, dunque, come sono andate le cose. La certezza degli eventi, pertanto, quella certezza e quella solidità che Luca vuole trasmettere a Timoteo, è garantita da loro. Il secondo passaggio di questa catena di trasmissione sono gli “Øphrštai [...] toà lÒgou” (ipéretai […] tû lógu), cioè “i servi della parola”, persone che si sono messe a disposizione e a servizio della parola e del suo annuncio. Nella mia traduzione ho assegnato la preferenza al termine “ministri”, perché fin dall'inizio si sentì la necessità di un annuncio che avesse il marchio della serietà professionale e della responsabilità. Un annuncio che non poteva essere affidato a chiunque e certamente non era lasciato alla buona volontà, alla spontaneità e discrezionalità del semplice credente, poiché da tale annuncio dipendeva la fedele trasmissione della fede stessa e l'adesione esistenziale dei credenti ad essa e tale da farne il contenuto fondante della loro vita. Fin dall'inizio, dunque, vi fu una cura particolare nell'annunciare e nel trasmettere. Significativo è in tal senso quanto ci raccontano gli At 6,2-4: “Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: <<Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest'incarico. Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola>>”. Di fronte alla scelta: mense della carità o annuncio della Parola, i Dodici optano per l'annuncio, lasciando l'incarico della carità ad altri. L'annuncio della Parola è più importante della stessa carità, perché dal suo annuncio dipende la fede (Rm 10,14-17) e la carità stessa trova in essa il suo naturale alimento, che la contraddistingue da un semplice pietismo umano, assegnandole una valenza salvifica (1Cor 13,3), poiché attraverso la carità, sostanziata dalla Parola, viene trasmesso Cristo stesso. Ecco, dunque, la decisione dei Dodici, una sorta di delibera, che proprio perché proveniente da loro assume la valenza di apostolicità che le imprime autorevolezza: “Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola”. Significativo il verbo, qui tradotto con “ci dedicheremo”: “proskarter»somen” (proskarterésomen) che significa “perseverare, essere costante, assiduo, costantemente intento, occupato”. Si ravvisa in questo verbo, posto al futuro, quasi a dire che così sarà per sempre, una sorta di dedicazione esistenziale, di consacrazione ad un servizio che qui viene definito con il termine “diakon…v toà lÒgou” (dikonía tû lógu), che significa “ufficio del servitore, ministero, ufficio della parola”. Vi è qui la configurazione di una nuova funzione ecclesiale, che nessuno poteva arrogarsi. Lo stesso Paolo, che dopo l'incontro con il Risorto sulla via di Damasco, si è immediatamente dedicato all'annuncio della Parola, senza consultare i responsabili della Chiesa di Gerusalemme, sente, poi, la necessità di ottenerne l'approvazione ufficiale (Gal 1,15-19; 2,1-2).
Il v.2 si completa con l'espressione avverbiale di tipo temporale “¢p' ¢rcÁj” (ap'archês, fin da principio), che radica sia i testimoni oculari dei “fatti compiutisi in mezzo a noi” che i ministri della Parola, che successivamente questi fatti hanno annunciato e testimoniato, all'origine di tutto, all'origine dell'evento Gesù, legandoli strettamente a tale inizio. Questo “¢p' ¢rcÁj” dice, infatti, l'originarsi storico di un determinato evento in cui sono collocati e strettamente legati i testimoni e ministri, assegnando loro il sigillo di una solida credibilità. Un'identica espressione si trova in 1Gv 1,1 con cui si apre la sua prima lettera, introducendo la testimonianza di un evento storico la cui realtà e verità sono sottolineate, quasi in modo ossessivo, da espressioni di tipo sensoriale più volte ripetute, legando la verità di tale evento alla sensorialità dei testimoni (1Gv 1,1-4), che tale evento, che ha avuto un'origine storica (¢p' ¢rcÁj), attestano quale evento storico e apparso nella storia. La fede, pertanto, non è fondata su di una qualche ideologia o su di una qualche mistificazione di approfittatori occasionali, ma ha avuto la sua origine in un fatto, in un evento storico, saldamente radicato alla storia, da cui si è poi originato l'annuncio e con l'annuncio la fede, cioè l'adesione esistenziale a ciò che fu “fin da principio” (¢p' ¢rcÁj).
Il v.3 strutturalmente si compone di tre parti, ognuna delle quali persegue una sua precisa finalità. La prima parte è costituita dall'espressione: “è sembrato anche a me, [...], di scriverti ordinatamente”. Due qui gli elementi rilevanti, già in qualche modo sopra menzionati (pag.4): “k¢moˆ” (kamoì, anche a me) e “kaqexÁj soi gr£yai” (katzexês soi grápsai, scriverti ordinatamente). La prima espressione “anche a me” lega strettamente il v.3 al v.1 e, di conseguenza, al v.2. L'autore, quindi, con quel “anche a me” si aggancia e si pone sulla stessa scia dei “molti” che intrapresero il tentativo (“™pece…rhsan”, epecheíresan) di una narrazione ordinata circa “i fatti compiutisi in mezzo a noi”. In altri termini, Luca fa sapere che egli si pone nell'ambito della Tradizione (v.2), a cui i “molti” fanno riferimento nella loro narrazione. Similmente a loro, dunque, Luca intraprende a “scrivere ordinatamente”. Quale senso dare a quel “ordinatamente”, che va legato all'avverbio temporale “¥nwqen” (ánotzen, da principio, dall'inizio), che appartiene alla seconda parte del v.3. Il senso è qui di successione temporale, geografica e di sviluppo logico dei fatti. L'avverbio “kaqexÁj” (katzexês) letteralmente significa “di seguito, in ordine, successivamente, uno dopo l'altro”. Si parte, quindi, “dall'inizio” per poi procedere “ordinatamente” (katzexês). La narrazione di Luca, infatti, preceduta dal presente prologo di presentazione (vv.1,1-4), secondo l'usanza degli storici del tempo (e già con questo prologo rispetta un certo ordine di esposizione), parte dall'inizio (ánotzen) con il racconto dell'infanzia, che occupa i primi due capitoli, per poi procedere, riallacciandosi alla tradizione evangelica, con la predicazione del Battista e l'attività galilaica (3,1-9,50), fatta seguire dal racconto di un fittizio viaggio verso Gerusalemme (9,51-19,28), che funge da contenitore di diversi detti, parabole e guarigioni, per poi approdare a Gerusalemme, dove svolge la sua ultima attività missionaria (19,29-21,38), seguita immediatamente dai racconti della passione, morte (22-23), risurrezione e apparizioni (24).
La seconda parte è costituita dalla frase subordinata “che ho seguito dappresso accuratamente dal principio tutti (i fatti)”. Se la prima frase presenta un Luca in consonanza alla Tradizione (v.2) e ai “molti”, che tale Tradizione hanno seguito fedelmente, questa seconda parte presenta le modalità con cui l'autore ha compiuto la sua ricerca. Tre sono gli elementi che le qualificano: “ho seguito dappresso”, “diligentemente” e “fin da principio”. Quel “seguire dappresso” (parhkolouqhkÒti, parekolutzekóti) dice come Luca abbia seguito in prima persona o, al più, con l'aiuto di qualche stretto collaboratore, da lui coordinato e diretto, la ricerca del materiale. Un'affermazione questa compatibile con la nostra ipotesi: che Luca abbia reperito il materiale non solo da Marco e dalla fonte Q, ma anche presso le diverse comunità credenti, presso cui veniva ospitato durante i suoi soggiorni missionari. Questo “seguire dappresso” viene ora specificato con l'avverbio “accuratamente” (¢kribîj, akribôs). Già quel “dappresso” lasciava intuire l'apprensione dell'autore nel ricercare e selezionare il materiale; una ricerca, quindi, fatta non solo in prima persona, ma anche in modo accurato. L'uso dell'avverbio “¢kribîj”, al posto dei più tenui e generici “™pimelîj” (epimelôs) o “spouda…wj” (spudaíos), non è stato casuale, ma scelto, anche questo, accuratamente, poiché un simile avverbio ha una pluralità di significati e di sfumature che consentono di approfondire e andare oltre a ciò che il semplice “accuratamente” non riesce ad esprimere. Esso in greco significa non solo “fatto con cura”, ma anche “con diligenza, giustezza, con esattezza, con coscienza, con intelligenza, con scrupolosa puntigliosità, con severità e con rigore”. Si tratta, dunque, di una ricerca degna di uno storico, che riflette in qualche modo i canoni storici del suo tempo, che già si sono analizzati qui sopra (pagg. 2-3). E tutto ciò è avvenuto fin “dal principio” (¥nwqen, ánotzen). Di quale inizio si parla qui? Certamente, come si è già accennato qui sopra, si tratta di una ricerca scrupolosa e accurata che tale si è svolta fin dall'inizio della narrazione, che poi è proseguita ordinatamente, cioè tempo dopo tempo, luogo dopo luogo, episodio dopo episodio, personaggio dopo personaggio, creando un racconto logico ed armonico nel suo sviluppo narrativo. Ma l'avverbio “¥nwqen” consente oltre che una lettura di inizio narrativo, anche una lettura di origine temporale13, riportando in tal modo il lettore lucano all'inizio di quei “fatti compiutisi in mezzo a noi” (v.1,1b). Si tratta, pertanto, anche di una ricerca che è stata eseguita con scrupolosa accuratezza, andando all'origine dei fatti e, quindi, accertandosi della loro veridicità tramite i testimoni diretti, quelli che Luca definisce come “aÙtÒptai” (autóptai). Di questi, all'epoca di Luca, con certezza doveva essercene ancora uno: Giovanni, il discepolo prediletto, con il quale Luca, in qualche modo, durante il suo peregrinare missionario, deve essere venuto a contatto, poiché tra il vangelo giovanneo e quello lucano vi sono molte affinità e diversi punti di contatto.
La terza parte, già in qualche modo anticipata nel pronome “ti” di scriverti della seconda parte, riguarda l'eccellente Teofilo. Quello lucano è l'unico vangelo che è dedicato ad una persona citata per nome. I vangeli, per la loro natura, sono rivolti in genere alle comunità credenti, al cui interno sono nati e delle quali gli evangelisti sono in qualche modo i responsabili e sono finalizzati a dare una risposta ai numerosi problemi che si agitavano all'interno delle stesse comunità credenti. Qui, nessuna comunità credente è supposta14, ma solo un personaggio di un certo rilievo all'interno di una qualche comunità credente o, forse molto più probabilmente, di una certa levatura sociale, visto l'attributo “kr£tiste” (krátiste), che lo qualifica. L'attributo, in tutta la Bibbia si ritrova soltanto in Luca: qui in 1,3, rivolto a Teofilo e in At 23,26; 24,3; 26,25 rivolto a Marco Antonio Felice, procuratore della Giudea dal 52 al 60 d.C. (At 23,26; 24,3); e a Porcio Festo (At 26,25), che successe a Felice nel 60 e fino al 62, anno in cui morì. Considerato l'uso che Luca fa di “kr£tiste” è da supporre che questo Teofilo fosse stato una persona politicamente altolocata e, considerata la posizione sociale di Luca, medico e “abile conoscitore di diritto”, secondo il frammento muratoriano15, doveva esserne amico, probabilmente il finanziatore e sostenitore dell'opera lucana, convertito di recente, considerate le sue probabili incertezze circa le verità su cui era stato istruito (v.4). Si tratta, pertanto, di una persona realmente esistita e certamente in ottimi rapporti con Luca.
v.4: il versetto si apre con un “†na” (ína, affinché), che imprime all'intera frase il senso finale e dice il motivo per cui l'opera lucana è stata scritta: “affinché (tu) conosca la certezza delle parole sulle quali sei stato istruito”. Un'opera, dunque, ad hoc, dedicata a Teofilo, per rafforzarlo nella fede. L'uso del verbo “kathc»qhj” (katechétzes, sei stato istruito), che in tutto il N.T. ricorre otto volte16, compare sempre in contesti in cui ci si riferisce alla somministrazione dell'insegnamento della fede, dei suoi rudimenti e, in particolare, in ambito catecumenale. Quel “kathc»qhj” lascia dunque intendere che Teofilo sia un neoconvertito, di certo convinto della sua nuova fede, ma con non pochi interrogativi su di essa. Interrogativi che gli possono venire sia dalla sua stessa riflessione sui contenuti di questa nuova fede; sia forse anche dalle prime eresie o primi tentativi di una distorta interpretazione di questa nuova fede. Testimonianze in tal senso si hanno in 2Pt 3,15-17; Gal 1,6-7; 1Gv 2,18-28; 4,1-6; 2Gv 1,7; 2Cor 11,3-5. La finalità dell'opera lucana è, quindi, quella di dare solidità, certezza all'incipiente fede di Teofilo circa le “parole sulle quali sei stato istruito”, che costituiscono i contenuti della fede in cui Teofilo è stato istruito. Si noti l'interessante connubio di “fatti” e “parole” con cui si apre e si chiude, come in una sorta di inclusione, questo breve prologo. “Fatti che si sono compiuti in mezzo a noi” e “parole sulle quali sei stato istruito”. Due espressioni che scandiscono il passaggio dall'evento storico alla sua trasmissione orale e scritta, la quale diviene testimonianza, che si consolida nella tradizione e si fa tradizione; una tradizione che, a sua volta, ha le sue radici più autentiche negli eventi della storia, che in essa si attualizzano nuovamente, perpetuandosi nella storia e in essa si propongono a tutti gli uomini di ogni epoca e di ogni latitudine. Questi costituiscono non solo l'oggetto della narrazione lucana, ma anche i contenuti stessi della fede di Teofilo. Fatti e parole che Luca riprende e sintetizza in At 1,1, dando loro una ben definita identità: “Nel mio primo libro ho già trattato, o Teofilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio”. Ciò che Gesù fece e insegnò. I fatti e le parole, in cui Teofilo è chiamato a radicare e rassodare la sua fede incipiente, hanno un volto sicuro, quello di Gesù.
Dare certezza e solidità alla fede nei suoi contenuti, dunque, costituisce il motivo dell'opera lucana, che in questo si mette in sintonia con lo stesso vangelo giovanneo, che chiude la sua lunga contemplazione del Verbo Incarnato (Gv 1,14), dichiarando la finalità della sua opera: “Dunque Gesù in presenza dei [suoi] discepoli fece certamente molti e altri segni, che non sono stati scritti in questo libro; ma questi sono stati scritti affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e affinché credendo abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,30-31).
Il racconto dell'infanzia (1,5-2,52)
Introduzione
Marco, l'inventore del genere letterario vangelo, inizia il suo racconto con la figura del Battista, preceduta e incorniciata all'interno di due imponenti citazioni profetiche di Ml 3,1 in Mc 1,2b e di Is 40,3 in Mc 1,3, maldestramente attribuite entrambe a Isaia (Mc 1,2a). Similmente anche Giovanni, dopo il solenne prologo poetico, una sorta di inno al Verbo del Padre, dapprima contemplato nella sua dimensione di eternità divina (Gv 1,1-5) e poi nel suo dispiegarsi storico (Gv 1,14), inizia il suo vangelo con la testimonianza del Battista (Gv 1,19). Lo stesso Luca in At 10,37-40 ci presenta uno schema di predicazione evangelica, che inizia con il battesimo di Giovanni. Uno schema che doveva essere comune ai predicatori itineranti e che probabilmente lo stesso Luca, avendolo qui riportato, ha usato nella sua predicazione missionaria. Similmente anche in At 1,22, nell'ambito del discorso di discorso di Pietro (1,15), viene riproposto lo stesso schema kerigmatico. Nessun riferimento all'infanzia di Gesù o di Giovanni. Similmente, ampliando l'orizzonte alla restante letteratura neotestamentaria canonica, in nessun modo, con eccezione di Gal 4,4c, si fa accenno all'infanzia di Gesù, a cui, invece, riserveranno ampio spazio i vangeli apocrifi17. Solo Matteo e Luca aprono i loro racconti con episodi significativi inerenti al concepimento e all'infanzia di Gesù. Perché questa loro scelta? Una scelta che si stacca nettamente dal solco della tradizione evangelica e, in particolar modo, dall'annuncio kerigmatico, tutto incentrato sulla passione, morte e risurrezione quali eventi salvifici, che interpellano ogni credente, spingendolo ad aderire esistenzialmente all'annuncio (At 2,22-48). I temi dell'infanzia di Gesù e tanto meno del suo concepimento, per le conoscenze che fino ad oggi abbiamo, non sembrano mai aver mosso dei particolari interessi all'interno della nascente chiesa, che prediligeva, invece, sempre lo spazio temporale che intercorreva tra il battesimo di Giovanni e l'ascensione di Gesù (At 1,22). Perché, dunque, Matteo e Luca dedicano ad essi molta attenzione?
Si deve rilevare sia in Matteo che in Luca, sia pur per motivi e intenti diversi, una certa preoccupazione di legare, ma forse è meglio dire radicare, la figura dei loro personaggi principali, Gesù e il Battista, alle origini, caratterizzandone meglio l'identità, così che fin da subito il loro lettore sappia comprenderne la valenza. Si tratta, quindi, di una sorta di chiave di lettura dei due personaggi, che formano i due punti d'incontro tra i due Testamenti e ciò, in modo più evidente, in Luca, che a questo incontro, simboleggiato in quello tra Maria ed Elisabetta, dedica un apposito racconto (Lc 1,39-56).
Matteo apre il suo racconto con una genealogia, che inserisce la figura di Gesù nella lunga scia delle promesse, i cui capisaldi vengono indicati fin da subito: “Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo” (Mt 1,1). L'interesse per le genealogie, che doveva definire l'identità di ogni ebreo e la sua origine certa di appartenenza al popolo della Promessa e dell'Alleanza, era invalsa fin dai tempi di Esdra e di Neemia (V sec. a.C.), al rientro dall'esilio babilonese (597-538 a.C.). Durante questo sessantennio, infatti, il popolo ebraico esiliato si era integrato con il tessuto sociale e culturale dei babilonesi, sposandosi tra di loro; e così pure la parte di popolo che, invece, era rimasta in patria, si imparentò e si integrò con i popoli limitrofi, assumendone la cultura e i culti loro propri, inquinando il vero culto di Jhwh. Un grande guazzabuglio, quindi, che rischiò di cancellare per sempre il popolo di Israele e con esso tutte le promesse e la stessa Alleanza. Neemia ed Esdra, proprio tramite la genealogia, che ogni ebreo doveva saper dimostrare, per essere identificato come tale e riprendere il suo posto all'interno della comunità (Esd 2,59.62; Ne 7,61), ricostruirono l'identità di Israele. L'uso delle genealogie e l'interesse per queste dovevano essere ancora molto vivi nel I sec. d.C. se l'autore della prima lettera a Timoteo si sente in dovere di sollecitarlo “a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede” (Tim 1,4); e, similmente, l'autore della lettera a Tito: “Guardati invece dalle questioni sciocche, dalle genealogie, dalle questioni e dalle contese intorno alla legge, perché sono cose inutili e vane” (Tt 3,9). E Matteo, ebreo, quasi certamente uno scriba18, che sta parlando ad una comunità di ebrei, non disdegna l'uso della genealogia per definire meglio i contorni del suo personaggio chiave, presentandolo fin da subito non solo come l'erede delle Promesse, ma anche come colui che a tali Promesse ha dato compimento (Mt 5,17).
Tutto il racconto matteano dell'infanzia, come si è sopra accennato (pag.1), è incentrato su cinque quadri finalizzati a mettere in evidenza altrettante citazioni scritturistiche, il cui intento è dimostrare alla comunità ebraica, a cui Matteo rivolge il suo racconto e di cui sembra essere responsabile (Mt 13,52), come Gesù fosse non solo l'erede ultimo della Promessa, ma che anzi egli ne fosse anche il compimento (Mt 5,17). Tutti gli attori principali di questi cinque quadri nonché la dinamica della loro narrazione sono finalizzati a generare situazioni tali da consentire a Matteo di recuperare una qualche citazione scritturistica, che dimostri come tutto ciò che è accaduto fosse già stato previsto dai profeti. È difficile pensare, pertanto, che questi racconti matteani sull'infanzia di Gesù abbiano una qualche attinenza storica; sono invece da considerarsi come creazioni dell'evangelista per rispondere alle sue esigenze cristologiche. I cinque racconti, come già si è accennato sopra (pag.1), assomigliano più a cinque sentenze inquadrate, la cui finalità è quella di incorniciare un detto di Gesù; in questo caso una profezia su di lui.
Quanto a Luca, i suoi racconti sul concepimento e sull'infanzia sono molto più sviluppati e articolati di quelli di Matteo, che al suo racconto dedica soltanto 48 versetti contro i 128 di Luca. I racconti tra i due evangelisti divergono radicalmente: in Matteo si nota una forzatura nei suoi racconti, che sono piegati a dimostrare un qualche evento scritturistico, ma vi è un totale disinteresse per i suoi personaggi, che sembrano lì posticci, usati e strumentalizzati per dimostrare un qualcosa, che ha il suo centro d'interesse nella citazione scritturistica, tolta la quale lo stesso racconto perde molto del suo peso e del suo significato. Molto diversa è l'economia narrativa lucana, avvincente e appassionante. Essa si muove attorno a dei personaggi reali, calati in contesti storici finalizzati a caratterizzarli; personaggi che hanno un loro specifico ruolo all'interno della narrazione e sono protagonisti di una storia divina che si sta attuando attraverso loro. L'interesse di Luca non sono le citazioni scritturistiche, che difficilmente sarebbero state comprese dal suo pubblico ellenista e pagano, ma le persone, il loro contesto storico in cui si muovono e il loro ruolo specifico in rapporto alla storia della salvezza. Entro questa cornice, formata dalla storia degli uomini all'interno del loro habitat, Luca vede il realizzarsi della storia della salvezza, che è la storia del progetto salvifico di Dio che si intreccia con quella degli uomini e si esprime attraverso di essa. Per Luca, pertanto, i veri protagonisti della storia della salvezza sono Dio e gli uomini. Da questo loro intrecciarsi storico prende vita e forma il suo progetto di salvezza. Tutti i personaggi lucani sono caratterizzati: si pensi a Zaccaria ed Elisabetta; al vecchio Simeone e la profetessa Anna; a Maria ed Elisabetta; a Giovanni e a Gesù. Tutti questi personaggi hanno un loro ruolo all'interno della storia della salvezza e ne sono protagonisti. Quanto all'habitat, centrali sono Gerusalemme e il Tempio dove avvengono gli eventi più significativi: l'annuncio della nascita di Giovanni, la sua circoncisione e quella di Gesù; la presentazione di Gesù, quale primogenito, e il suo incontro con Simeone ed Anna, presentato da loro come l'attesa luce di tutte le nazioni e gloria di Israele e di tutti coloro che in Israele attendevano la redenzione e il riscatto. Un tempio che ospiterà ancora una volta il Gesù fanciullo in un momento religiosamente importante per la sua vita, quello del “bar mitzwah” o figlio del comandamento, che lo introduce nell'età adulta, rendendolo membro attivo all'interno della comunità d'Israele. Non trascurabili poi sono le cornici storiche entro cui Luca contestualizza i suoi personaggi ed entro le quali si compiono gli eventi salvifici. La sua storia inizia con Erode, re della Giudea, a cui viene subito posto accanto l'officiante sacerdote Zaccaria (1,5). La storia della salvezza comincia così: storia profana al cui interno si colloca quella sacra. E si continuerà così con altri due imponenti quadri storici in cui, nel primo, si colloca la nascita di Gesù (2,2,1-2), mentre nel secondo si dà inizio al manifestarsi della salvezza (3,1-2).
Due racconti, quello di Matteo e di Luca, molto diversi tra loro, che hanno come fonte comune l'immaginaria creatività dei loro autori. Benché Luca presenti personaggi e contesti storici reali, tuttavia la costruzione dei racconti in se stessa non regge sia per l'inframmischiarsi di elementi che hanno del prodigioso e del portentoso, che sconfinano spesso nell'inverosimile; sia perché l'economia e la dinamica dei suoi racconti ricalcano schemi preordinati, che si riscontrano, come vedremo di seguito, anche nell'A.T. Che Gesù sia nato ormai è stato ampiamente accertato; che sia stato circonciso otto giorni dopo, sia stato presentato al Tempio per il suo riscatto in quanto primogenito e che si sia recato al Tempio al tempo del suo bar mitzwah non c'è dubbio su questo, in quanto erano tappe obbligatoriamente previste dalla Legge e nessuno poteva sottrarsene, pena l'esclusione dal popolo dell'Alleanza, la quale cosa significava, per il bambino e la sua famiglia, una ghettizzazione sociale, una sorta di morte civile. È pertanto pensabile che anche Gesù abbia seguito la comune strada del buon giudeo. Tutto ciò, tuttavia, non sono informazioni sul Gesù storico e sulla sua infanzia, ma soltanto tratti comuni applicati anche a Gesù. Come siano andate realmente le cose non ci è dato di sapere. In altri termini ci manca la fonte diretta sull'infanzia di Gesù, sulla quale si possono fare diverse ipotesi, come del resto si sono fatte, ma non si va oltre a queste. È da chiedersi, tuttavia, se Luca intendesse passarci informazioni storiche o biografiche sui due fanciulli e il loro entourage o se, invece, ancora una volta, si sia servito di racconti di sua propria invenzione o, comunque, se provenienti da qualche tradizione, profondamente rimaneggiati da lui, per sviluppare una sua cristologia, fornendo al suo lettore la comprensione della reale natura dei personaggi di Giovanni e di Gesù. Luca, infatti, benché si sia presentato con le credenziali di uno storico (1,1-4), tuttavia non è del tutto disinteressato, né si accosta alla verità storica in forma asettica. Si, certo, egli è uno storico e ha voluto dimostrarlo nei primi tre capitoli del suo racconto, ma il suo intento dichiarato è far conoscere a Timoteo “la certezza delle parole sulle quali sei stato istruito” e, quindi, la solidità su cui poggia la sua fede e, in ultima analisi, quella di tutti i credenti: su eventi storici e non su fantasie; eventi da cui egli lascia trasparire la sua cristologia e la sua teologia. Sono quindi racconti finalizzati a rafforzare la fede e non a fornire dati biografici o informazioni storiche su Gesù. Si tratta comunque sempre di una storia riletta e riadattata agli intenti teologici e cristologici propri dell'autore.
Ciò che si può dire con certezza è che i racconti delle nascite di Giovanni e di Gesù e alcuni tratti della loro infanzia ricalcano lo schema narrativo delle nascite prodigiose di cui è disseminato, qua e là, l'A.T.; queste, a loro volta, sono sottese da un comune schema narrativo prefissato, e che devono aver fornito a Luca l'ispirazione per i suoi racconti. Non va dimenticato, infatti, che Luca è un profondo conoscitore della LXX19. Si tratta di uno schema che obbedisce più agli intenti narrativi dei vari autori che al rispetto dello svolgimento storico e reale dei fatti. Lo schema narrativo è sempre lo stesso: la nascita di un personaggio importante a cui Dio intende affidare una missione particolare; una nascita che avviene nonostante la vecchiaia o la sterilità, gravi impedimenti su di un piano umano per poter concepire, ma tutto ciò non è di impedimento a Dio, che ha un suo progetto da compiere. La nascita in genere è preannunciata in modo straordinario; i destinatari dell'annuncio muovono delle obiezioni e in risposta ottengono un segno, mentre la nascita è accolta con inni di gioia e di ringraziamento. Tutti elementi questi che tendono a costruire intorno al predestinato un alone di luce divina, sotto la quale esso viene posto fin dal suo concepimento. Già questo lascia intuire come i racconti matteani e lucani siano costruzioni autonome dei singoli evangelisti più che un vero e affidabile reportage storico. L'interesse dei due evangelisti è prevalentemente cristologico e/o teologico, non storico. Della storia fanno uso nella misura in cui essa serve a rafforzare la loro teologia e per rendere i loro racconti verosimili. Essa, tuttavia, può anche essere modificata per rendere più trasparente il messaggio che da essa deve filtrare. Il concetto di storia degli antichi è ben lontano dal nostro: per noi contano solo i fatti, i personaggi, i luoghi, le date, i documenti, in ultima analisi, ciò che appare, si può toccare, circoscrivere e in qualche modo misurare; per lo storico antico, che pur non trascura questi aspetti, tuttavia non sono per lui primari nei suoi racconti, ma quanto, piuttosto, il significato, il senso che tali eventi rivestono per gli uomini. In altri termini, lo storico antico ha più a cuore l'interno che l'esterno di un evento o di un personaggio; un esterno che, si badi bene, è funzionale al suo interno e che quindi può anche essere modificato per farlo meglio trasparire. Luciano di Samosata si lamentava proprio di questo aspetto con gli storici suoi contemporanei, che indulgevano troppo sul personaggio, oggetto del loro studio, per esaltarne le virtù e il valore o, peggio, denigrarlo, se all'occorrenza ciò fosse servito, inventandosi storie o modificando quelle reali per farlo emergere (cfr. pag.3).
Ci soffermeremo ora, con una breve e sintetica analisi, su alcuni concepimenti e nascite prodigiose raccontante nell'A.T., raffrontandole in parte tra loro e con i racconti di Luca. I testi di cui ci serviremo qui riguardano il concepimento e la nascita di Isacco (Gen 17,1-22; 18,1-16; 21,1-5), di Sansone (Gdc 13,1-25) e di Samuele (1Sam 1,1-2,11).
Nel racconto di Samuele, Elkana ha due mogli, Anna e Pennina, la prima sterile, la seconda, invece, aveva dei figli. Questa infierisce su Anna per la sua condizione di sterilità aumentando le sue sofferenze. Una simile scena si presenta nel racconto di Abramo, dove la ormai vecchia e sterile Sara, moglie di Abramo, viene insultata da Agar, schiava di Sara e, ora, madre di Ismaele ad opera di Abramo. Anche la moglie di Manoach, madre di Sansone, al quale Dio affiderà la missione di liberare Israele dall'oppressione dei Filistei, era sterile, ma la potenza del Signore, impersonata da un angelo, toglierà la sua sterilità e genererà Sansone. La comparsa di angeli che annunciano la nascita prodigiosa di Isacco compare anche nel racconto di Abramo, presso il querceto di Mamre. Lo schema è sempre identico: l'impossibilità di generare per sterilità e vecchiaia viene resa possibile e preannunciata da un angelo.
Anche in Luca abbiamo un simile scenario. Due donne, Elisabetta e Maria, la prima sterile, la seconda vergine. Entrambe, quindi, per diversi motivi, impossibilitate a generare. Due donne che, tuttavia, non si contrappongono né sono tra loro rivali, poiché entrambe riconoscono che la loro fecondità viene da Dio e che esse sono parte di un unico progetto divino (Lc 1,39-56). Per entrambe il loro concepimento fu preannunciato dall'angelo Gabriele. Quanto al racconto del concepimento di Maria, esso si avvicina molto a quello della moglie di Manoach, dove un angelo annuncia che essa concepirà e partorirà un figlio, che sarà consacrato fin dal seno materno attraverso un voto di nazireato, così come lo è lei. Questi due elementi di consacrazione e di santificazione, che rendono Sansone e sua madre persone speciali, sacre al Signore fin da subito, vengono ripresi in qualche modo anche da Luca dove Maria è salutata come “riempita di grazia, il Signore è con te” e dove il frutto del suo concepimento è definito “Figlio dell'Altissimo” e “Figlio di Dio”. Sansone, quale segno della sua consacrazione, viene posto sotto voto di nazireato; lo stesso segno sotto il quale verrà posto anche il Battista (Lc 1,15). Quanto al particolare dell'angelo che dapprima parla alla moglie di Manoach e poi allo stesso Manoach, riprendendo l'annuncio già fatto a sua moglie, dandogli istruzioni sul come comportarsi con il figlio, questo viene invece in qualche modo ripreso da Matteo, che riferisce a Giuseppe quanto è avvenuto in Maria, sua promessa, dandogli istruzioni in merito e Giuseppe si conformerà alle disposizioni dell'angelo. Nel racconto di Samuele vediamo Anna recarsi al tempio e qui pregare in modo accorato il Signore perché gli conceda un figlio che gli sarà consacrato; una preghiera che viene supportata dallo stesso sacerdote Eli, lì presente, nel Tempio. E Dio accoglierà la loro preghiera. Luca riprenderà questa scena, sostituendo Anna ed Eli con Zaccaria, anche lui, come Eli, sacerdote officiante nel Tempio, che prega il Signore perché Elisabetta, la sua vecchia e sterile moglie, gli generi un figlio. La preghiera di Anna ed Eli viene accolta e il figlio che gli nasce è consacrato al Signore fin dal suo concepimento, così come avviene per Giovanni e Gesù. La nascita di Samuele farà sgorgare dal cuore di Anna un inno di gioia e di ringraziamento al Signore, così come avverrà per Zaccaria e per Maria. Interessante rilevare come il Magnificat di Maria assomigli molto all'inno di Anna. Compare, poi, nel racconto di Sansone, il tema dello Spirito che investe Sansone: “Lo spirito del Signore cominciò a investirlo quando era a Macane-Dan, fra Zorea ed Estaol” (Gdc 13,25). Quel “cominciò a investirlo” lascia intendere come tutto l'agire di Sansone fosse sotto l'azione dello Spirito, poiché egli è una persona consacrata al Signore fin dal suo concepimento e deve compiere una missione; per questo egli è nato. Uno Spirito che ne ispirerà e ne guiderà le imprese (Gdc 14,6.19; 15,14). Un tema, questo, che pervaderà l'intero racconto dell'infanzia in Luca, dove lo Spirito è il protagonista di tutti gli avvenimenti che riguardano sia il Battista che Gesù.
Ed infine anche il modo di concludere i racconti di Isacco, Sansone e Samuele sono molto simili tra loro. Quanto al racconto di Isacco presenta due chiusure: la prima, Gen 21,5, termina tutta la vicenda del concepimento e nascita di Isacco: “Abramo aveva cento anni, quando gli nacque il figlio Isacco”; la seconda chiusura, Gen 21,8, si conclude con lo svezzamento di Isacco: “Il bambino crebbe e fu svezzato e Abramo fece un grande banchetto quando Isacco fu svezzato”. Quanto a Sansone, il racconto del suo concepimento e della sua nascita si chiude con Gdc 1,24b: “Poi la donna partorì un figlio che chiamò Sansone. Il bambino crebbe e il Signore lo benedisse”; quanto al racconto di Samuele, esso si chiude con 1Sam 2,11b: “Poi Elkana tornò a Rama, a casa sua, e il fanciullo rimase a servire il Signore alla presenza del sacerdote Eli”. Questo schema conclusivo dei racconti sulle nascite prodigiose si ritrova similmente anche in Lc 1,80, per quanto riguarda Giovanni: “Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”. Per quanto riguarda Gesù, similmente per Abramo ed Isacco, vi è, invece, una doppia chiusura: con la prima, Lc 2,40, terminano i racconti del concepimento e della nascita prodigiosi di Gesù: “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”. Con la seconda chiusura, Lc 2,51, conclude il racconto dell'infanzia di Gesù: “E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”. Sono tutte chiusure che concludono dei racconti di eventi prodigiosi, ma nel contempo lasciano degli spazi aperti al futuro, in cui si può intravvedere o quanto meno intuire i destini di questi personaggi consacrati a missioni particolari.
Un'ultima osservazione va posta sul modo con cui Luca inizia sia la sua storia che la sua genealogia, molto simili a quella con cui inizia la storia di Samuele. In 1Sam 1,1a si ha: “C'era un uomo di Ramataim, uno Zufita delle montagne di Efraim, chiamato Elkana”; lo schema si ritrova sostanzialmente identico in Luca 1,5: “Ci fu nei giorni di Erode, re della Giudea, un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia ed egli (aveva) una moglie, dalle figlie di Aronne, e il suo nome (era) Elisabetta”. Sembra di ascoltare le vecchie storie della nonna: “C'era una volta un re...” o “C'era una volta un uomo”. Quanto all'inizio della genealogia lucana, questa ha una sua risonanza sempre in 1Sam 1,1b: “[...] Elkana, figlio di Ierocàm, figlio di Eliàu, figlio di Tòcu, figlio di Zuf, l'Efraimita”. Qui termina la genealogia di Elkana, mentre Luca, riprendendo tale inizio, prosegue con il resto della genealogia, molto più amplia e molto più complessa e finalizzata a far risalire Gesù non più a Davide e ad Abramo, come in Matteo (Mt 1,1), ma ad Adamo e a Dio, poiché la visione della salvezza per Luca è universale e non ristretta agli spazi del giudaismo, come nella visione matteana (Mt 10,5-6; 15,24). Anche Luca segue, sia pur con qualche variazione di adattamento, questo schema: “Ed egli era Gesù, che incominciava (la sua missione) a circa trent'anni, essendo figlio, come si credeva, di Giuseppe di Eli, di Mattat, di Levi, di Melchi, di Iannai, di Giuseppe, [...] ” (Lc 3,23-24).
Da questi cenni si può intuire come i racconti riguardanti personaggi di un certo rilievo all'interno della dinamica e dell'economia della storia della salvezza, seguano tutti un comune schema narrativo, finalizzato a mettere in rilievo il personaggio destinato a compiere la missione salvifica che Dio gli ha affidato, evidenziando, da un lato, la sua grandezza; dall'altro, la presenza di un Dio che interferisce con gli eventi della storia umana, per farne una storia sacra.
Già si è sopra detto come i due racconti sull'infanzia di Gesù, quello matteano e quello lucano, differiscano notevolmente tra loro sia per ampiezza, per struttura che per intenti; sia per il modo di raccontare che per il clima emotivo di cui sono permeati: cupo, carico di tensione e drammatico quello di Matteo; pervaso da una incontenibile gioia, serenità e letizia quello di Luca. Due racconti irriducibili l'uno all'altro, ma non contrapposti tra loro. Nonostante tutte queste differenze tuttavia i due racconti possiedono tra loro dei comuni punti di contatto, attorno ai quali ogni autore costruisce il suo racconto:
Giuseppe e Maria sono tra loro fidanzati (Mt 1,18; Lc 1,27);
entrambi sono genitori di Gesù, ma mentre Maria è considerata la madre carnale di Gesù, Giuseppe è ritenuto soltanto il padre putativo (Mt 1,20; Lc 3,23);
Gesù è concepito per opera dello Spirito Santo (Mt 1,18.20; Lc 1,34-35);
Giuseppe è del casato di Davide e suo discendente (Mt 1,20; Lc 1,27; 2,4);
Gesù è nato a Betlemme (Mt 2,1; Lc 2,4.6.15);
la nascita di Gesù avviene ai tempi di Erode il Grande (Mt 2,1; Lc 1,5a.36)
il concepimento e la nascita di Gesù sono preannunciati da un angelo (Mt 1,20; Lc 1,35);
La nascita di Gesù avviene dopo che Giuseppe e Maria, già promessi sposi, andarono a convivere (Mt 1,20.24; Lc 2,4-6);
il nome Gesù è imposto dall'angelo (Mt 1,21; Lc 1,31);
viene delineata dall'angelo la missione salvatrice di Gesù (Mt 1,21b; Lc 2,11);
Gesù cresce a Nazareth (Mt 2,23; 4,13a; Lc 2,39.51; 4,16a)
Questi elementi comuni ad entrambi gli evangelisti sono troppi per essere considerati casuali e sono tanto più rilevanti quanto più la trama dei racconti diverge, perché ciò significa che, nonostante ognuno dei due evangelisti abbia elaborato una propria diversa narrazione degli eventi, entrambi fanno riferimento ad una comune fonte molto antica, che poi ciascuno ha utilizzato secondo i propri intenti. È da presupporsi, quindi, che alla base dei due racconti sul concepimento e l'infanzia di Gesù ci sia una consolidata ed antichissima tradizione, che, sfrondata dai contenuti prodigiosi come gli annunci e le apparizioni angeliche, costituisce il nucleo storico dei due racconti. Del resto tale ipotesi potrebbe essere confermata dall'analisi letteraria dello stesso Luca: mentre i primi quattro versetti con cui sia apre il suo vangelo sono stilati in un greco elegante e classico, i racconti che seguono, a partire dal v.5 in poi, si presentano con un greco strutturalmente molto semplice, facilmente intuibile e infarcito di semitismi. Tutto ciò lascia pensare che Luca abbia fatto riferimento a dei testi preesistenti, scritti in ebraico o, più facilmente, in aramaico, che poi ha elaborato e adattato al proprio racconto, rispettandone il modo di narrare. Lo stacco letterario tra i primi quattro versetti e i successivi è eccessivo per pensare che sia sempre lo stesso Luca a scrivere. Tuttavia non va scartata l'ipotesi che Luca, profondo conoscitore della LXX e muovendosi sullo schema letterario e narrativo di Marco, ne abbia voluto imitare anche lo stile, cercando in tal modo di allinearsi al linguaggio della tradizione evangelica.
La struttura dei racconti sull'infanzia
Luca compone i suoi racconti sull'infanzia probabilmente sullo stile dei modelli biografici delle vite parallele, inaugurato da Plutarco, contemporaneo di Luca, greco della Beozia, dove Luca sta scrivendo la sua opera. Benché, mentre Luca compone il suo vangelo, l'opera “Vite parallele” di Plutarco non fosse ancora edita, tuttavia era già nell'aria il nuovo modo di scrivere le biografie. La finalità della biografia non era quella di fare della storia, ma accentrare l'attenzione del lettore sulla vita di un personaggio importante. In tale proposito significativa è l'affermazione dello stesso Plutarco nel prologo alle vite di Alessandro e Cesare: “Non scrivo un’opera di storia, ma delle vite: spesso un breve fatto, una frase, uno scherzo, rivelano il carattere dell’individuo più di quanto non facciano le battaglie”. L'attenzione quindi viene accentrata non sulla storia, nella quale comunque l'individuo è collocato, ma sul personaggio, studiato nella quotidianità dei suoi gesti e del suo vivere, finalizzati a metterne in rilievo i tratti più salienti e la sua importanza. Similmente Luca compone i suoi primi due capitoli, dedicati al concepimento e all'infanzia sia di Giovanni che di Gesù. Due racconti incorniciati in precisi contesti storici, la cui finalità è presentare il significato e l'importanza di questi due personaggi di confine: Giovanni, il precursore dei nuovi tempi, l'ultimo dei profeti, segna il limite di confine oltre il quale ha termine il Primo Testamento; Gesù, in qualche modo il preannunciato dal Primo Testamento, segna il confine di inizio del Secondo Testamento, in cui anche il Primo Testamento trova il suo compimento. Non due Testamenti contrapposti, dunque, ma complementari. E sarà proprio l'episodio centrale dell'incontro tra Maria ed Elisabetta a sancirne la solidarietà e la prosecuzione dell'uno nell'altro, saldandoli assieme, formando in tal modo un unico gesto di salvezza che si compie in un unico tempo.
I due racconti si snodano tra loro paralleli, creando una simmetria quasi speculare: l'annuncio a Zaccaria trova il suo corrispondente in quello a Maria; la nascita di Giovanni, l'imposizione del suo nome, la circoncisione otto giorni dopo, trovano la loro eco nella nascita di Gesù, nell'imposizione del suo nome, nella sua circoncisione. Ma mentre l'infanzia di Giovanni è sintetizzata tutta in 1,80: “Ora il fanciullo cresceva e si rafforzava in spirito, ed era nei deserti fino al giorno della sua manifestazione presso Israele”; quella di Gesù trova una sorta di appendice nel racconto dello smarrimento e ritrovamento di Gesù nel Tempio tra i dottori. Poi, come per Giovanni, nell'attesa del suo manifestarsi, anche per Gesù, una volta ritornato a Nazareth, viene detto che egli “[...] progrediva (nella) sapienza e (in) età e grazia preso Dio e gli uomini” (2,52). E qui tutto viene avvolto nel silenzio fino al loro manifestarsi presso Israele.
Tuttavia questo parallelismo non si ferma ai racconti dell'infanzia, ma prosegue fino al cap. 4,22. I capp.3,1-4,22, infatti, riprendendo rispettivamente i vv.1,80 e 2,52, ne danno sviluppo: dapprima viene presentato l'inizio della missione di Giovanni (3,1-20), poi, con quasi parità di versetti, l'inizio di quella di Gesù (4,1-22), preceduto da una genealogia, che inquadra Gesù, quale figlio di Adamo e figlio di Dio (2,38b), rilevando in tal modo l'universalità della figura di Gesù e della sua missione. E similmente per quanto è avvenuto nei racconti dell'infanzia dove le due madri si incontrano e si abbracciano, riconoscendosi reciprocamente come collaboratrici di un unico progetto di salvezza, così anche in Lc 7,20-30 avviene, sia pur in modo indiretto, mediato dai suoi discepoli, l'incontro tra Giovanni e Gesù, che ne tesse, poi, il panegirico.
I racconti dell'infanzia pertanto possono essere strutturati in cinque quadri narrativi. Quattro di questi tra loro specularmente paralleli e uno centrale, l'incontro tra Maria ed Elisabetta, che crea da stacco, ma nel contempo anche da punto di contatto e di confronto tra l'annuncio e il concepimento di Giovanni e di Gesù e le loro nascite. Pertanto, di seguito, proponiamo il seguente schema narrativo:
Annuncio e concepimento di Giovanni
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Annuncio e concepimento di Gesù
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L'incontro tra Maria ed Elisabetta
Constatazione del segno dato dall'angelo a Maria e della veridicità delle sue parole. Inno di lode, di ringraziamento e di riconoscimento delle grandi opere del Signore (1,39-56). |
Nascita di Giovanni
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Nascita di Gesù
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Da questo breve e sintetico schema, che vede snodarsi in modo parallelo gli eventi che accompagnarono il concepimento e la nascita dei due principali protagonisti del vangelo lucano, Giovanni e Gesù, si rileva subito come questo parallelismo abbia la funzione primaria di mettere a confronto le due figure, facendo emergere la grandezza di Gesù su quella di Giovanni. Se, infatti, fino all'incontro tra Maria ed Elisabetta, i due racconti, a cui è dedicato un numero pressoché identico di versetti, si snodano in modo parallelo e speculare, dalla nascita in poi le cose divergono nettamente e sostanzialmente, pur muovendosi in modo parallelo: solo 24 versetti dedicati alla nascita di Giovanni; ben 52 quelli dedicati alla nascita di Gesù, arricchita da episodi che la staccano decisamente da quella di Giovanni, come quello dei pastori (2,8-20), della purificazione di Maria e della presentazione ed offerta di Gesù al tempio, dove avviene il riconoscimento del bambino, quale atteso dalle genti, e della sua missione salvifica (2,22-40); nonché l'aggiunta dell'episodio di Gesù, ormai dodicenne, smarrito e ritrovato nel tempio fra i dottori (2,41-52).
Primo quadro: l'annuncio e il concepimento di Giovanni (1,5-25)
Testo a lettura facilitata
La presentazione di Zaccaria ed Anna
5 – Ci fu nei giorni di Erode, re della Giudea, un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia ed egli (aveva) una moglie, dalle figlie di Aronne, e il suo nome (era) Elisabetta.
6 – Ora, entrambi erano giusti davanti a Dio, camminando irreprensibili in tutti i comandamenti e le prescrizioni del Signore.
7 – E non avevano un figlio, perché Elisabetta era sterile, ed entrambi erano avanzati nei loro giorni.
Il contesto in cui avviene l'annuncio
8 – Ora avvenne che nel mentre egli officiava nell'ordine della sua classe davanti a Dio,
9 – secondo la consuetudine del servizio sacerdotale toccò in sorte di bruciare incenso, entrando nel santuario del Signore,
10- e tutta la moltitudine del popolo stava pregando fuori durante l'ora dell'incenso.
L'annuncio
11 – Ora, gli apparì un angelo del Signore che stava dritto dal lato destro dell'altare dell'incenso.
12 – Visto(lo), Zaccaria fu sconvolto e una paura piombò su di lui.
13 – Ora l'angelo disse verso di lui: <<Non temere Zaccaria, perché la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti genererà un figlio e chiamerai il suo nome Giovanni.
14 – E sarà per te gioia ed esultanza e molti gioiranno per la sua nascita.
15 – Sarà infatti grande davanti al Signore e non berrà vino o bevanda inebriante e sarà riempito di Spirito Santo ancora dal ventre di sua madre,
16 – e farà rivolgere molti figli d'Israele verso il Signore loro Dio.
17 – Ed egli camminerà davanti a lui in spirito e forza di Elia, rivolgerà (i) cuori dei padri verso (i) figli e (i) disobbedienti in sapienza dei giusti, preparerà per il Signore un popolo ben disposto>>.
18 – E disse Zaccaria verso l'angelo: <<Su che cosa conoscerò questo? Io infatti sono vecchio e mia moglie si è avanzata nei suoi giorni>>.
19 – Rispondendo l'angelo gli disse: <<Io sono l'angelo Gabriele, che sta appresso dinnanzi a Dio e (mi) inviò a te per dire e annunciarti queste cose:
20- ed ecco sarai silente e non potrai parlare fino al giorno (in cui) avverranno queste cose, a fronte delle quali non credesti alla mie parole, le quali saranno compiute al loro tempo>>.
Lo stupore del popolo
21 – E vi era il popolo che attendeva Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio.
22 – Ora uscito, non poteva parlare a loro, e compresero che vide un'apparizione nel santuario; ed egli era loro accennante e rimaneva muto.
23 – Ed avvenne che furono compiuti i giorni della sua liturgia, se ne tornò a casa sua.
Il concepimento di Elisabetta
24 – Dopo questi giorni, sua moglie Elisabetta concepì e tenne nascosta se stessa per cinque mesi
25 - dicendo che così mi ha fatto il Signore nei giorni in cui prese cura di togliere la mia ignominia tra gli uomini.
Note generali
Anche Luca, sia pur a modo suo e in modo certamente difforme dalla tradizione, ma in qualche modo nella sua prospettiva, comincia il suo vangelo con la figura di Giovanni. Lo fa partendo dall'origine della storia sia per rispettare i suoi propositi di seguire e raccontare “accuratamente dal principio tutti (i fatti), di scriverti ordinatamente, eccellente Teofilo” (1,3); sia perché in tale modo potrà presentare la vera natura del suo personaggio e il senso della sua missione poste in rapporto con la figura e la missione di Gesù. Così, fin da subito, Luca disbriga i controversi e problematici rapporti della chiesa nascente con il gruppo dei giovanniti, che vedevano il loro maestro superiore a Gesù, in quanto quest'ultimo era stato suo discepolo (Gv 3,22-27; 4,1-3). Anche Giovanni nel suo prologo sottolineerà, non senza una punta polemica, in riferimento al Battista, come “Non era quello la luce, ma (venne) per testimoniare sulla luce” (1,8), evidenziandone il ruolo subordinato, che poi farà emergere sempre più nella presentazione della sua figura20. Tuttavia, Luca non mancherà di sottolineare la grandezza del Battista, la cui presenza, in modo diretto o indiretto, percorrerà l'intero suo vangelo21. Lo farà sia con le parole dell'angelo Gabriele, in cui viene delineata la sua missione, posta sotto la potenza dello Spirito Santo e dove Giovanni compare fin da subito come il prescelto da Dio e a lui consacrato (vv.1,13-17); sia nell'inno di ringraziamento di Zaccaria in occasione della nascita di Giovanni, la cui missione viene collocata all'interno dell'intera storia della salvezza, che ha come tappe fondamentali la promessa di Dio, consegnata a Davide, trasmessa dai profeti, la cui realizzazione e il cui senso vengono preannunciati dallo stesso Giovanni, che radica in questo suo annuncio le promesse che Dio fece allo stesso Abramo (1,68-79).
La struttura del racconto del concepimento di Giovanni si snoda in cinque quadri narrativi, che corrispondono a quelli sopra riportati nella lettura facilitata:
La presentazione di Zaccaria ed Anna (1,5-7)
il contesto entro cui avviene l'annuncio (1,8-10);
l'annuncio (1,11-20);
Lo stupore del popolo (1,21-23)
Il concepimento di Elisabetta (1,24-25)
Un racconto che fin dall'inizio si preannuncia come il compiersi di un evento portentoso, il concepimento da parte di Elisabetta, donna sterile e avanzata in età. In realtà esso è finalizzato a mettere in rilievo la figura di Giovanni. Gli stessi quadri narrativi, infatti, sono predisposti in modo tale da far risaltare al centro l'annuncio dell'angelo, a cui Luca dedica un maggior numero di versetti, evidenziando la centralità della figura di Giovanni e la sua importanza, il cui concepimento miracoloso funge soltanto da cornice.
Commento a 1,5-25: il concepimento di Giovanni
La presentazione di Zaccaria ed Anna (1,5-7)
Con tre pennellate Luca inquadra magistralmente i suoi due personaggi, protagonisti involontari di una storia di salvezza che si sta inaspettatamente manifestando proprio attraverso loro: sono due coniugi appartenenti entrambi alla classe sacerdotale; entrambi sono giusti davanti a Dio; ma la donna è affetta da una sterilità aggravata dall'età avanzata di entrambi. Il tutto è storicamente inquadrato da un semplice accenno ad Erode. Il modo di procedere è squisitamente narrativo, scorrevole ed avvincente, ed è caratteristico dei racconti di nascite prodigiose. L'incedere è molto vicino al racconto del concepimento di Sansone: “C'era un uomo di Zorea di una famiglia dei Daniti, chiamato Manoach; sua moglie era sterile e non aveva mai partorito. L'angelo del Signore apparve a questa donna e le disse: <<Ecco, tu sei sterile e non hai avuto figli, ma concepirai e partorirai un figlio. Ora guardati dal bere vino o bevanda inebriante e dal mangiare nulla d'immondo. Poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un nazireo consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei>>” (Gdc 13,2-5). Sostanzialmente in questi pochi versetti vi si possono riscontrare i tratti essenziali dell'intero racconto del concepimento di Giovanni, ma che richiamano in qualche modo anche quello di Gesù: una donna sterile o vergine a cui Dio, per mezzo del suo angelo, promette un figlio, che gli sarà consacrato con voto di nazireato, e la cui missione è la liberazione del popolo di Israele nel caso di Gesù e di preannunciarla per Giovanni. Sono tutti racconti che si assomigliano tra loro, con qualche variante adattiva, poiché tutti seguono uno stesso schema narrativo, di cui si è sopra accennato.
Sono sorprendenti i dettagli con cui è farcito il racconto lucano: l'inquadramento storico, appena accennato, (“nei giorni di Erode”), contrasta con la ricchezza di dati e l'accuratezza della loro esposizione con quanto segue e denota da subito l'interesse dell'autore: non la storia profana, ma quella sacra, che ha come cornice quella profana e che si muove al suo interno, intrecciandosi con questa e in qualche modo sacralizzandola. Il racconto ha inizio dal piccolo mondo giudaico, quello veterotestamentario, in cui il lettore è immerso fin da subito: i due coniugi appartenenti alla classe sacerdotale, l'azione liturgica svolta all'interno del Tempio in Gerusalemme, nonché l'inquadramento storico, limitato ai “giorni di Erode, re della Giudea”, così come l'annuncio del concepimento di Gesù, avvenuto in una oscura cittadina della Galilea, Nazareth e che contrasta con quello dal respiro universale e solenne della nascita di Gesù (2,1-2) e dell'inizio della predicazione di Giovanni (3,1-2). Tutto questo dice come Luca leghi la storia della salvezza alla promessa e alla stessa storia del popolo ebraico, richiamando da vicino il Gesù giovanneo, che nel dialogo con la Samaritana attesta come “la salvezza è dai Giudei” (Gv 4,22b). Un racconto, quindi, che parte dalle origini della nuova fede, in cui Teofilo deve essere rassicurato (1,4) e rispetta nel contempo i propositi dello storico, che si è dato come regola quella di seguire “dappresso accuratamente dal principio tutti (i fatti), di scriverti ordinatamente, eccellente Teofilo” (1,3).
Così ha inizio la storia di Dio: “nei giorni di Erode, re della Giudea”. Un'annotazione storica molto imprecisa e vaga, ma che rispetta i canoni della storia di quel tempo, che soleva datare gli avvenimenti legandoli al regnante di turno. Si tratta qui di Erode il Grande, che ricevette nel 40 a.C. inizialmente solo il titolo di “re dei Giudei” dal Senato romano, su consiglio di Antonio e Ottaviano, mentre salì effettivamente al trono della Giudea soltanto dopo tre anni, nel 37 a.C., regnando fino al 4 d.C. Con il termine Giudea, nel corso dei secoli e a seconda delle diverse situazioni politiche e amministrative, si designava, talvolta, in senso stretto, il regno del Sud; altre volte, con una accezione più ampia, come in questo caso, l'intero territorio della Palestina22. Accanto al nome di Erode vengono affiancati quelli dei due coniugi, Zaccaria ed Elisabetta. Entrambi appartengono alla classe sacerdotale, Zaccaria in quanto sacerdote ed Elisabetta, sua moglie, in quanto “discendente dalle figlie di Aronne”. Il sacerdozio ebraico non va inteso come il nostro, a cui si accede per provata vocazione e per consacrazione, né aveva la sua sacralità. Era soltanto una funzione di servizio al Tempio, che si ereditava per nascita, per la semplice appartenenza alla tribù di Levi, che Jhwh stesso aveva scelto per il suo servizio, per la fedeltà che questa aveva dimostrato al vero culto di Jhwh durante l'episodio del “vitello d'oro” (Es 32,25-29). All'interno di questa tribù soltanto Aronne e i suoi figli vengono designati come sacerdoti e possono svolgere le funzioni propriamente sacerdotali (Es 28,1). Per questi era prevista una sorta di consacrazione, che prevedeva un rituale specifico: la purificazione con l'acqua, la vestizione con abiti e simboli sacerdotali e l'unzione, riservata quest'ultima al solo Aronne23 (Es 29,4-7), a cui seguiva il sacrificio di due arieti e con il sangue del secondo ariete si toccavano il lobo dell'orecchio destro, del pollice e dell'alluce destri e si aspergevano poi l'altare e le vesti sacerdotali (Es 29,15-25). Il sacerdozio di Aronne veniva, poi, ereditato con un rituale, che prevedeva il passaggio degli abiti sacerdotali di Aronne ed una unzione (Es 29,29-30). Quanto ai leviti, questi sono nettamente distinti dai sacerdoti e sono loro sottomessi per il servizio al tempio. La loro identità e la loro relazione con i sacerdoti viene definita in Nm 3,1-11 e in 4,1-33. Zaccaria faceva parte, pertanto, della tribù di Levi e discendente dei figli di Aronne. Non dunque levita, ma appartenente alla classe sacerdotale, che al tempo in cui Luca scrive contava un numero esorbitante di sacerdoti: circa 18/20.00024, addetti al servizio del Tempio, suddivisi da Davide (1010-970 a.C.) in 24 classi sacerdotali. Zaccaria faceva parte dell'ottava classe, quella di Abia (1Cr 24,1-19) ed ogni classe poteva accedere al servizio presso il Tempio solo due settimane all'anno.
A Zaccaria viene accostato il nome di Elisabetta, sua moglie. Anche questa appartiene alla sacralità della classe sacerdotale, essendo discendente “dalle (™k) figlie di Aronne”. Quel “™k” (ek, da) ne dice l'origine, la provenienza, radicandola in tal modo ad un contesto sacro, di cui fa parte. Diventa, pertanto, un ulteriore motivo di sacralità per il sacerdote Zaccaria. Se questi proviene dai figli di Aronne, solo questi infatti possono fregiarsi del titolo e delle funzioni sacerdotali, Elisabetta proviene dalle figlie di Aronne. Tutti due, pertanto, hanno come unico ceppo di provenienza Aronne, l'uomo che Dio stesso si è scelto non solo per affiancare Mosè nella liberazione del popolo d'Israele dalla schiavitù egiziana (Es 4,14-16), ma anche per il suo esclusivo servizio (Es 28,1). Aronne, così come Mosè, fanno parte di un progetto di liberazione e di salvezza di Israele, che proviene da Dio stesso. In qualche modo ne sono diventati i collaboratori diretti (Es 4,15). Zaccaria ed Elisabetta fanno parte di questo sacro contesto e di questo progetto salvifico. Il richiamo ad Aronne, qui, non è dato solo dalla sacerdotalità di Zaccaria, ma anche dal nome stesso di sua moglie, Elisabetta, lo stesso nome della moglie di Aronne (Es 6,23a). Vi è quasi una sovrapposizione di nomi e di personaggi, che si richiamano a vicenda, quasi a voler trasfondere quel progetto salvifico divino iniziato con Aronne e Mosè su Zaccaria e sua moglie Elisabetta. Un nome, quest'ultimo, che compare dieci volte in tutta la Bibbia: una volta soltanto in Es 6,23 e ben nove volte nel racconto lucano, qui in analisi. Forse Luca ha voluto creare, proprio attraverso il richiamo del nome di Elisabetta, un diretto collegamento tra Aronne e Zaccaria, entrambi facenti parte del medesimo progetto di salvezza, che ora continua nella storia proprio attraverso loro.
I vv.6-7 ci passano due informazioni sulla vita privata di questa coppia, che vanno a completare quel alone di sacralità che l'avvolge, ma che nel contempo lasciano perplesso il lettore: “Ora, entrambi erano giusti davanti a Dio, camminando irreprensibili in tutti i comandamenti e le prescrizioni del Signore. E non avevano un figlio, perché Elisabetta era sterile, ed entrambi erano avanzati nei loro giorni”. Il v.6 riporta un'espressione che è caratteristica del modo di esprimersi veterotestamentario per definire la santità di una persona e il suo gradimento presso Dio25. Il v.6 è scandito in due parti, la prima attesta che “entrambi erano giusti davanti a Dio”. Che cosa significhi questo viene spiegato nella seconda parte: “camminando irreprensibili in tutti i comandamenti e le prescrizioni del Signore”. Quindi, essere giusti significa essere fedeli alla Torah e conformare ad essa la propria vita. Il camminare è sinonimo, infatti, di vivere nei comandamenti e nelle prescrizioni divine. Esso, dunque, dice ben più di una semplice osservanza. Il primo termine, “comandamenti”, allude probabilmente alla Torah scritta; mentre il secondo “disposizioni” allude alla Torah orale. Il comandamento, infatti, esprime la diretta volontà divina, quella che Jhwh aveva dato a Mosè sul monte Oreb; mentre la disposizione definisce quel insieme di norme create dalla Tradizione e finalizzate ad interpretare e dare attuazione al comandamento, in se stesso difficilmente eseguibile per la sua genericità. L'osservanza della Torah di questa coppia è, pertanto, totale. La giustizia della coppia viene rimarcata dall'aggettivo “irreprensibili”, che dice tutta la scrupolosa meticolosità messa nell'osservanza della Torah, definendo in tal modo il livello di santità e di gradimento presso Dio di questa coppia di anziani.
Ed ecco il contrasto creato dal v.7: “E non avevano un figlio, perché Elisabetta era sterile, ed entrambi erano avanzati nei loro giorni”. Il versetto inizia con un “kaˆ” (kaì, e) che lega il v.7 a quello precedente, creando una sorta di nesso di causalità al contrario. Da qui il disorientante contrasto che viene a crearsi tra i due versetti. Da un lato, viene messa in evidenza la santità di questa coppia; dall'altro, l'assenza di figli, causata sia dalla sterilità che dall'età avanzata, togliendo ai due ogni speranza di discendenza. La gravità della situazione viene rilevata dal tempo verbale posto all'imperfetto indicativo, che nel linguaggio biblico indica la persistente e irreversibile situazione: “non avevano un figlio”. Tutto, dunque, sarebbe finito con loro. I loro nomi non sarebbero più stati ricordati e le loro vite inghiottite dall'oblio, che pesa su di loro più che di una condanna. L'oblio, che Sap 17,3 definisce come un “velo opaco”, è una sorta di seconda morte, che caratterizza lo Sheol, il luogo dell'oblio per eccellenza, della debolezza e della tristezza, dove le anime vivono in uno stato larvale. “Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra>>” (Gen 1,28a). Vi è, dunque, anche un comando divino, che nasce dalla benedizione di Dio stesso, segno inequivocabile di fecondità26, che associa l'uomo a Dio (Dt 7,14). Ma come Dio rende fecondi, così egli rende sterili (Gen 201,8; 1Sam 1,5.6). Se, dunque, la fecondità ha le sue radici nella benedizione divina, per contro, la sterilità scaturisce da una maledizione divina ed è il segno inequivocabile di punizione, posta da Dio sulla sterile. Come, dunque, risolvere il contrasto tra i vv.6 e 7? Come coniugare tra loro santità e sterilità? Per la mentalità giudaica che vedeva nel bene un segno del favore divino e nella disgrazia o nella sfortuna il segno della punizione divina, la questione diventa insolubile. Sarà Gesù, di fronte al cieco nato, ad offrire una soluzione alternativa: “E i suoi discepoli lo interrogarono dicendo: <<Rabbi, chi peccò, costui o i suoi genitori, per essere nato cieco?>>. Rispose Gesù: <<Né costui peccò, né i suoi genitori, ma affinché fossero manifestate in lui le opere di Dio>>” (Gv 9,2-3). Le fortune, dunque, come le sfortune si inseriscono e vanno ricomprese all'interno di un orizzonte più ampio e molto più complesso. La sterilità invincibile, sia per natura che per vecchiaia, ma vinta, al di là degli schemi narrativi a cui l'autore attinge, diventa qui il luogo privilegiato del manifestarsi divino; l'inizio o forse è meglio dire la ripresa e il proseguimento di quel progetto di salvezza che in qualche modo Dio aveva prospettato fin dagli inizi dell'umanità (Gen 3,15; Ef 1,4-5) e che comincerà ad apparire con la chiamata di Abramo e Sara, anche loro, sterili per natura e vecchiaia, come Zaccaria ed Elisabetta. Dio sembra amare le cose impossibili, deboli, fragili perché traspaia da esse in modo più eclatante la sua onnipotenza. Avvenne così anche per la liberazione del suo popolo. Mosè, il figlio adottivo del faraone, poteva essere in quella posizione un mezzo potente per attuare il suo piano di salvezza. Ma ha preferito ridurre all'impotenza Mosè, perché da questo suo nuovo stato di fuggiasco e destituito di ogni potere regale, potesse apparire eclatante la potenza di Jhwh. E Mosè diverrà strumento onnipotente nelle mani di Dio fino a piegare la durezza di cuore del faraone. Questa sembra la logica con cui Dio conduce la sua storia di salvezza: servendosi di ciò che è debole e fragile. Lo ricorda Paolo proprio in merito alla spina nel fianco che sembra tormentarlo e per la quale ha chiesto a Dio di liberarlo: “Ed egli mi ha detto: <<Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza>>. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,9-10). Mentre, altrove, circa la considerazione sulla debolezza e stoltezza della croce e del suo crocifisso, su cui Paolo aveva fondato la sua predicazione e scommesso la sua stessa vita (1Cor 1,17-24), confermerà questa logica dell'uso della debolezza e della fragilità da parte di Dio per condurre a compimento il suo progetto di salvezza: “Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte de li uomini. […]. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio” (1Cor 1,25-29).
Il contesto entro cui avviene l'annuncio (1,8-10)
Dopo aver presentato la sacralità (v.5) e la santità (v.6) dei due coniugi, Zaccaria ed Elisabetta, l'autore compie qui un ulteriore passo che va a definire, parallelamente, la sacralità del contesto (vv.8-9) entro cui vengono poi collocati l'angelofania e l'annuncio del concepimento di Giovanni e della sua missione. Una sacralità ed una santità che vengono maggiormente rimarcate dalla particolare posizione che l'angelo Gabriele occupa nei confronti di Dio: “Io sono l'angelo Gabriele, che sta appresso dinnanzi a Dio” (v.19a). Si tratta di una progressiva descrizione della santità e della sacralità dei personaggi, prima, e del contesto, poi, finalizzati a rilevare la vera natura del messaggio stesso, di provenienza divina. Non è un caso, infatti, che tutto ciò avvenga all'interno del Tempio, nella parte antistante al Sancta Sanctorum, il luogo della presenza divina per eccellenza, in un contesto liturgico, che crea quello spazio sacrale che favorisce il rapporto uomo-Dio, mettendoli tra loro in stretta relazione e collaborazione.
Questa progressiva descrizione di personaggi e di contesti, che convergono gradualmente verso l'annuncio del concepimento e della missione di Giovanni, trova in qualche modo un suo parallelismo nel modo con cui è costruito il Tempio stesso, convergente verso il “Sancta Sanctorum”. L'intero Tempio è, infatti, circoscritto da aree concentriche sempre più sacre fino a raggiungere la solenne sacralità e santità del “Qadosh Qadoshim”, del Sancta Sanctorum, dove vi è la Presenza di Dio, quasi a prepararne l'accesso: la prima area, profana, è il cortile dei gentili, aperto a tutte le genti; la seconda è riservata esclusivamente, pena la morte, ai membri del popolo eletto, definito da Es 19,5-6 come proprietà di Dio, regno di sacerdoti e nazione santa; la terza, il “Qadosh”, il luogo Santo, che qui Luca chiama “tÕn naÕn” (tòn naòn, il santuario, la parte più interna del Tempio, dove si trova anche il “Qadosh Qadoshim”), riservata ai soli sacerdoti officianti; ed infine il “Qadosh Qadoshim”, il luogo della Shekinah, della gloriosa presenza di Jhwh, dove solo il sommo sacerdote, una sola volta all'anno, nel giorno del perdono, lo Yom Kippur, può accedervi. Come per il Tempio, anche qui, tutto converge verso la centralità della santità della Presenza di Dio e del suo annuncio, che rimette in movimento la storia della salvezza, che sta per raggiungere il suo vertice nella venuta di Gesù, preannunciato da Giovanni.
La pericope (vv.8-10) inizia con “'Egšneto” (eghéneto, avvenne, accadde), un verbo che compare nei quattro vangeli 117 volte di cui solo Luca ne conta ben 6927. Si tratta di un suo caratteristico modo di narrare con cui introduce eventi di un certo rilievo, la cui finalità è duplice: letteraria e teologica. In quanto letteraria, l' “eghéneto” ha la funzione di stimolare l'attenzione del lettore su quanto segue; in quanto teologica, sottolinea l'accadere della storia della salvezza, che si sta attuando e compiendo all'interno della storia stessa dell'uomo. La scena qui narrata ha la sua origine in Es 30,7-8, dove Jhwh ordina: “Aronne brucerà su di esso l'incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina quando riordinerà le lampade e lo brucerà anche al tramonto, quando Aronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore per le vostre generazioni”. Il bruciare l'incenso era una funzione propria del sacerdote e nessun altro poteva sostituirlo, come accadde per il re di Giuda Ozia (781-740 a.C.), che in un impeto di orgoglio e di prepotenza, entrò nel Tempio e bruciò l'incenso. Venne per questo redarguito dal sacerdote Azaria, seguito da altri ottanta sacerdoti: “Questi si opposero al re Ozia, dicendogli: <<Non tocca a te, Ozia, offrire l'incenso, ma ai sacerdoti figli di Aronne che sono stati consacrati per offrire l'incenso. Esci dal santuario, perché hai commesso un'infrazione alla legge. Non hai diritto alla gloria che viene dal Signore Dio>>” (2Cr 26,16-18). Il rituale prevedeva il prelevare con una paletta dei carboni ardenti dall'altare degli olocausti, metterli nell'incensiere, spargervi sopra due manciate d'inceso e portarlo sull'altare dei profumi davanti al Santo dei Santi. Un rito questo che si compiva anche nel giorno dello Yom Kippur, in cui l'incenso veniva eccezionalmente portato nel Santo dei Santi dal sommo sacerdote (Lv 16,12-13)28. Una simile scena si ritrova in Ap 8,3-4 in cui si racconta che “Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro. Gli furono dati molti profumi perché li offrisse insieme con le preghiere di tutti i santi bruciandoli sull'altare d'oro, posto davanti al trono. E dalla mano dell'angelo il fumo degli aromi salì davanti a Dio, insieme con le preghiere dei santi”. Anche il salmista ricorda questo momento particolare dell'offerta dell'incenso: “Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera” (140,2).
L'intero racconto qui riportato da Luca in 1,8-20 gli è stato quasi certamente ispirato da Dn 9,20-23, per la stretta somiglianza nello schema narrativo: “Mentre io stavo ancora parlando e pregavo e confessavo il mio peccato e quello del mio popolo Israele e presentavo la supplica al Signore Dio mio per il monte santo del mio Dio, mentre dunque parlavo e pregavo, Gabriele, che io avevo visto prima in visione, volò veloce verso di me: era l'ora dell'offerta della sera. Egli mi rivolse questo discorso: <<Daniele, sono venuto per istruirti e farti comprendere. Fin dall'inizio delle tue suppliche è uscita una parola e io sono venuto per annunziartela, poiché tu sei un uomo prediletto. Ora sta attento alla parola e comprendi la visione [...]>>”. Il contesto è sempre quello liturgico: Daniele, come Zaccaria, sta pregando per se stesso e per il suo popolo, quando giunge l'angelo Gabriele, mosso, come per Zaccaria, dalle suppliche di Daniele, definito uomo prediletto, come Zaccaria (Lc 1,6), per fornirgli delle apposite istruzioni.
Luca coglie ora Zaccaria nel pieno delle sue funzioni sacerdotali (v.8), che il v.9 definisce eccezionali: “secondo la consuetudine del servizio sacerdotale toccò in sorte di bruciare incenso, entrando nel santuario del Signore”. Ora, considerato l'elevato numero di sacerdoti dediti al servizio nel Tempio, tra le 18.0000 e le 20.000 unità, suddivisi in 24 classi; considerato che ogni classe sacerdotale prestava il suo servizio sacerdotale una settimana ogni sei mesi e che ogni classe contava all'incirca 5.000 sacerdoti29, tra i quali veniva sorteggiato chi doveva svolgere la funzione dell'offerta dell'incenso, si può facilmente intuire come questo privilegio potesse capitare soltanto una volta nella vita di un sacerdote. Zaccaria, pertanto, è colto qui da Luca al vertice delle sue funzioni sacerdotali e, potremmo dire con un linguaggio profano, della sua carriera sacerdotale. L'eccezionalità della cosa rende eccezionale e privilegiato anche il tempo dell'annuncio nonché l'annuncio stesso. È giunto, dunque, il tempo dell'azione di Dio, che inizia in un contesto di solenne sacralità e santità.
La scena liturgica viene ora completata con il v.10 “e tutta la moltitudine del popolo stava pregando fuori durante l'ora dell'incenso”. Il versetto inizia con “kaˆ” (kaì, e) che in qualche modo lega il popolo all'azione liturgica del sacerdote, rendendolo partecipe non solo dell'azione sacra dell'offerta, ma anche destinatario dello stesso annuncio che l'angelo porta a Zaccaria. La salvezza e la sua storia, infatti, non sono mai una questione privata tra Dio e qualche privilegiato, ma è finalizzata a coinvolgere l'intera umanità. Quel “kaˆ” dice, quindi, come l'intera umanità sia chiamata ad unirsi ad un'unica azione di lode e di ringraziamento, che, celebrata nella quotidianità della propria vita, trova il suo vertice nell'azione liturgica, dove ogni credente diviene sacerdote ed offerente per se stesso e per ogni uomo (Es 19,5-6; Rm 12,1). Tutto ciò avviene “durante l'ora dell'incenso”. Di quale ora si tratta? Quella mattutina o quella serale? Due sono infatti i momenti della giornata in cui il sacerdote offre l'incenso nel Santo (Es 30,7-8). Quasi certamente l'ora è quella serale, intorno alle 15,00, sul finire della giornata30. Lo si deduce sia dalla scena a cui Luca si è ispirato, Dn 9,20-23, sia dal suggerimento dello stesso salmista in 140,2. In entrambi i casi si parla dell'offerta dell'incenso della sera. L'ora probabilmente più partecipata da parte del popolo, che concludeva la sua giornata con il pensiero rivolto a Jhwh.
L'annuncio (1,11-20)
Se con i vv. 5-10 Luca ha dimostrato di essere uno storico attento e sufficientemente scrupoloso, mantenendo fede al suo proposito di seguire “dappresso accuratamente dal principio tutti (i fatti)” (v3), si rimane qui stupiti del cambio di passo con l'introduzione di questa angelofania che poco ha a che vedere con la logica dei fatti, propria di uno storico. Luca qui abbandona la sua veste di storico, per assumere un'altra veste, quella del teologo o forse è meglio dire dello storico della salvezza; di colui che cerca di leggere la storia in senso teologico, cercandone i significati, che qui vengono espressi con delle immagini, che vengono tra loro assemblate assieme secondo uno schema che è caratteristico delle narrazioni di nascite prodigiose: a) l'inattesa apparizione angelica (v.11); b) la reazione di timore da parte del destinatario del messaggio (v.12); c) l'invito dell'angelo a non aver paura (v.13a); d) l'annuncio del concepimento e della nascita prodigiosa, quale esaudimento delle preghiere (v.13b), accompagnata dalla descrizione della missione a cui il bambino promesso è chiamato e lo stato di consacrazione che lo investe fin dal suo concepimento (vv.14-17); e) esposizione dei dubbi circa l'annuncio da parte del prescelto (v.18); f) concessione di un segno, che in questo caso è anche punitivo per la poca fede mostrata (vv.19-20). Luca si appella, dunque, allo schema della nascita prodigiosa per interpretare e dare significato alla figura di Giovanni. Chi è costui? Da dove viene? Quale rapporto ha con Gesù di Nazareth? Come giustificare la sua predicazione con toni escatologici, minacciosi e talvolta violenti? Quale grado di attendibilità possiede un simile personaggio? Con quale autorità si presenta alla gente e le parla? Tutti questi interrogativi, finalizzati a costruire l'identità di questo personaggio fondamentale nella storia della salvezza, trovano la loro risposta proprio in questo fantasioso racconto di nascita prodigiosa. Nonostante ciò, Luca qui continua a mostrarsi uno storico attendibile, perché segue la logica degli storici del suo tempo, usandone la tecnica: come mettere in evidenza un personaggio? Come descriverne l'autorevolezza e l'attendibilità soprattutto ad un pubblico, come quello greco-ellenista, estraneo agli accadimenti narrati e che, comunque, ha ormai perso i contatti con la verità dei fatti accaduti parecchi decenni prima e non più percepiti nella loro fondamentale importanza? Semplice: si ricorre a questi schemi di nascite prodigiose, che erano conosciuti presso gli storici non solo ai tempi di Luca ma anche antecedentemente. L'intento dello storico qui non era quello di fornire dei dettagli storici sulla figura del suo personaggio, ma la sua statura morale, la sua autorevolezza, le sue virtù, tutte cose difficilmente dimostrabili, misurabili ed appariscenti. Niente di meglio dunque che ricorrere ad uno di questi schemi narrativi per far capire ai propri lettori la dimensione umana e morale del personaggio in questione. A questa logica il pubblico greco-ellenista era assuefatto e ben disposto. Luca, quindi, non si comporta diversamente e, servendosi di simili schemi narrativi, comincia a raccontare la sua storia e a circoscrivere con evidenza la grandezza di Giovanni. Di certo ciò che qui ora analizzeremo non è la storia come la intendiamo noi, secondo gli schemi dalla nostra cultura illuminista e positivista, ma certamente è storia che riguarda un personaggio del quale Luca compie una lettura teologica. In altri termini, Luca fa teologia della storia, cercando di leggere negli eventi, e Giovanni fu un evento, l'agire di Dio. Lo fa a modo suo e secondo gli schemi propri degli storici del suo tempo.
Il racconto dell'angelofania è scandito in tre momenti, che seguono sostanzialmente lo schema narrativo delle nascite prodigiose sopra menzionato: a) apparizione dell'angelo e reazione di paura di Zaccaria (vv.11-12); b) invito a non temere, l'annuncio del concepimento e dell'imposizione del nome al bambino, fatto seguire dalla missione di cui il bambino sarà investito, lasciando intuire fin da subito la sua grandezza morale (vv.13-17); c) obiezioni da parte di Zaccaria e concessione del segno, che attesta la veridicità delle parole dell'angelo (vv.18-20). Lo stesso schema che troveremo nel racconto dell'annunciazione (1,26-38).
Il racconto si apre con la descrizione della posizione dell'angelo: esso “sta diritto in piedi” (˜stëj, estòs) ed è “sul lato destro dell'altare”. Lo stare “diritto in piedi” allude alla posizione propria del messaggero, alla sua prontezza nell'eseguire il suo mandato. Lo stare “diritto in piedi”, dunque, fa parte della natura propria dell'angelo, il cui termine significa “messaggero”. Posizioni simili si trovano in Gen 18,2 dove i tre angeli stanno in piedi davanti ad Abramo nell'annunciargli il concepimento di Isacco; così in Gs 5,13, dove Giosuè si trova davanti a lui un angelo con la spada sguainata; in 1Cr 21,15 “L'angelo del Signore stava in piedi presso l'aia di Ornan il Gebuseo”; mentre in 2Cr 3,13, nel Santo dei Santi, i due cherubini vengono raffigurati “in piedi”; e similmente in Ez 40,3; 43,6; Dn 8,15; 10,16; 12,15.
L'angelo si trova sul lato destro dell'altare. L'altare è il luogo su cui avviene il sacrificio; un luogo che potremmo definire come il punto di contatto tra Dio e gli uomini, poiché attraverso il sacrificio di animali o il bruciare degli incensi e dei profumi l'uomo entra in relazione con il suo Dio e Dio con l'uomo (Es 20,24). Esso rappresenta, in qualche modo, la porta di accesso a Dio (Gen 28,16-18). Ecco perché l'angelo appare accanto all'altare, non solo perché lì si trova Zaccaria. Una simile immagine la troviamo in Ap 8,3: “Poi venne un altro angelo e si fermò all'altare, reggendo un incensiere d'oro”. L'altare, proprio per la sua stretta relazione con Dio, rappresenta anche Dio stesso. In Gen 33,20 Giacobbe costruisce un altare e lo chiama “El”, Dio d'Israele. Esso diviene un segno della presenza di Dio (Gen 35,1; Lam 2,7). Nell'Apocalisse vediamo gli angeli che escono dall'altare per portare il loro messaggio (Ap 14,18) e dall'altare esce la voce che impartisce dei comandi (Ap 9,13; 16,7). L'angelo, dunque, che si trova diritto in piedi sul lato destro dell'altare dice che egli, per sua natura, è un messaggero e che porta con sé un messaggio che proviene direttamente da Dio stesso; ma nel contempo, quel suo essere alla destra dell'altare dice che egli presso Dio occupa una posizione di particolare privilegio, che verrà rivelata in Lc 1,19: “Io sono l'angelo Gabriele, che sta appresso dinnanzi a Dio e (mi) inviò a te per dire e annunciarti queste cose”.
Il v.12 descrive la reazione di Zaccaria all' angelologia: “Visto(lo), Zaccaria fu sconvolto e una paura piombò su di lui”. Paura, timore, sconvolgimento, tremore e simili sono la caratteristica riposta dell'uomo all'irrompere del divino nella storia. Sarà la stessa risposta che troveremo anche nel racconto dell'annunciazione, dove la fanciulla Maria rimane profondamente turbata dalle parole dell'angelo e una sottile lama di inquietudine le penetra nell'animo, che si va interrogando quale senso abbia il saluto rivoltole (1,29). Comportamenti questi che si ritrovano similmente anche nell'A.T. 31.
Il v.13 riporta l'annuncio dell'angelo a Zaccaria ed è scandito in tre parti: a) il sollecito a “non temere”, che rassicura l'intimorito beneficiario della teofania, invitandolo a non lasciarsi prendere dal panico, poiché egli è il destinatario di un annuncio di salvezza, dal quale non gli deriva nessun male. È lo stesso sollecito che troviamo in 1,30, rivolto alla fanciulla: “Non temere Maria, poiché trovasti grazia presso Dio”. Similmente in Ap 1,17 il Risorto, apparso a Giovanni svenuto per la paura, lo rincuora, rassicurandolo: “Appena lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli, posando su di me la destra, mi disse: Non temere! Io sono il Primo e l'Ultimo”. Gdc 6,23 dove Dio rassicura Giosuè per aver visto il volto dell'angelo, per la quale cosa temeva la morte: “Il Signore gli disse: <<La pace sia con te, non temere, non morirai!>>”. Il “non temere” fa parte, dunque, del linguaggio della teofania, destinato a rassicurare il prescelto. La seconda parte del versetto b) riporta la motivazione di quel intervento divino rivolto a Zaccaria: “perché la tua preghiera è stata esaudita”. Non si era mai detto che Zaccaria e sua moglie Elisabetta avessero pregato per ottenere in dono un figlio e togliere, quindi, la vergogna della sterilità dalla coppia. Luca lo lascia sottintendere, poiché fa parte del gioco di questi racconti di nascite prodigiose. Così come avvenne per il concepimento di Samuele (1Sam 1,10-20). La terza parte c) riporta l'essenza dell'annuncio: “e tua moglie Elisabetta ti genererà un figlio e chiamerai il suo nome Giovanni”. Un annuncio che, nel suo schema, si ripeterà anche in quello dell'annunciazione: “Ed ecco concepirai nel tuo utero e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Gesù” (1,31). Annunci questi che richiamano da vicino quello di Gen 17,19a: “E Dio disse: "No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e lo chiamerai Isacco”. Anche queste espressioni, molto simili tra loro, fanno parte del linguaggio standard dei racconti di nascite prodigiose, che Luca, quale storico e da buon esperto della LXX, doveva conoscere bene.
Questa terza parte del v.13 inizia con un “kaˆ” (kaì, e) che la lega strettamente alla seconda parte, quella dell'invocazione, e ne fa una sorta di logica conseguenza: ciò che avviene è a motivo della tua preghiera. Ma nel contempo dice anche come il muoversi della storia della salvezza non è mai un qualcosa di scontato, di autonomo e di indipendente dall'uomo, ma è legato anche alla sua disponibilità a collaborare con Dio ed è, in qualche modo, dipendente anche dall'uomo, poiché senza la sua disponibilità Dio non sarebbe mai potuto entrare nella storia dell'uomo e innescare un dialogo salvifico con lui. S. Agostino, proprio in merito alla questione della giustificazione che avviene per grazia ma non senza la determinazione della nostra volontà, affermava: “Qui ergo fecit te sine te, non te iustificat sine te ” (Sermo 169,11)32. Il cuore dell'annuncio, qui, è “Elisabetta ti genererà un figlio”. Tutto qui. Un annuncio che dice come Dio abbia ascoltato ed esaudito le preghiere dei due coniugi e come questo figlio sia per loro un dono di Dio. Ma niente di più. Si potrebbe definire come una sorta di cronaca teologica: Dio ha esaudito una preghiera; una sorta di miracolo, come tanti ne sono successi, anche ai nostri giorni: madri che non riescono a concepire, ma grazie alla loro insistente preghiera, dopo magari attesa di anni, ecco il realizzarsi delle loro speranze, che attribuiscono a Dio. Dove sta dunque il messaggio della salvezza? Esso consiste in tutto ciò che segue: dall'imposizione del nome alla descrizione della missione a cui, fin dal suo concepimento, il bambino è destinato.
“... e chiamerai il suo nome Giovanni”. Il nome per gli antichi non definiva soltanto l'identità di una persona, finalizzato a distinguerla da un'altra, ma ne esprimeva l'essenza, la sua intima natura e in qualche modo ne condizionava la vita e ne diceva il senso. E quel “chiamerai il suo nome” dice l'imposizione del nome, che imprime il marchio su quella persona, definendone i destini. L'imposizione del nome, infatti, è compito di chi ha autorità. Adamo impone il nome agli animali ed essi saranno definiti da quel nome, esprimendo così la sua signoria sul creato e nello specifico la sua superiorità sugli animali stessi (Gen 2,19-20a). Così un re sconfitto riceve un nome nuovo dal suo vincitore, esprimendone così la sua sudditanza: “Il faraone Necao nominò re Eliakim figlio di Giosia, al posto di Giosia suo padre, cambiandogli il nome in Ioiakim” (2Re23,34a). Ma qui l'imposizione del nome non proviene da un uomo, ma da Dio stesso. In tal modo Dio esprime la sua autorità e il suo potere su quel bambino. Si tratta, pertanto, di una sorta di consacrazione che dice come quel bambino appartenga a Dio e sia destinato ad una missione il cui senso è racchiuso nel nome stesso: Giovanni, in ebraico “Yōhānān”, cioè “Dio fa/è grazia” o “Dio fa/è misericordia”. Un nome, il cui senso verrà esplicitato e ricordato dallo stesso Zaccaria nel suo inno di ringraziamento: “E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo; andrai in avanti, infatti, dinnanzi al Signore a preparare le sue vie, per dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati, per mezzo (delle) viscere di misericordia del nostro Dio” (1,76-78a). Giovanni, dunque, colui che ha il compito di preannunciare la misericordia di Dio per il suo popolo e l'intera umanità. Il suo destino e il senso della sua missione è già in qualche modo contenuto nel suo stesso nome.
I versetti che seguono, 14-17, definiscono l'identità, ma nel contempo l'autorevolezza di questo bambino, che proviene da Dio stesso33 e ne possiede l'autorità, impressagli dallo Spirito Santo, già dal suo concepimento (v.15); nonché la sua missione (vv.16-17). Il tutto è collocato in un contesto di gioia (v.14).
Con il v.14 compare per la prima volta il tema della gioia. È significativo, infatti, come il racconto lucano si apra con il tema della gioia e si chiuda sempre con lo stesso tema (24,52b). Si viene in tal modo a formare una grande inclusione che abbraccia l'intero vangelo di Luca, ponendolo sotto il segno della gioia e della letizia, esprimendo in tal modo la vera natura del vangelo, il cui termine significa “lieto annuncio”34.
Il termine “gioia” o “gioire” ricorre in Luca 33 volte, ma con tre accentuazioni diverse dettate sia dal termine stesso, che varia di volta in volta, che dal contesto in cui viene usato. Per ben 12 volte ricorre il verbo “ca…rw” (caíro) e per 3 volte il suo composto “sugca…rw” (sincaíro); 8 volte il sostantivo “car£” (cará); 2 volte il sostantivo “¢gall…asij” (agallíasis) ed altre 2 volte il corrispondente verbo “¢gall…aw” (agallíao); ed infine 6 volte il verbo “eÙfra…nw” (eufraíno). Da questa breve statistica si rileva immediatamente la preferenza che l'autore accorda a “caíro” e ai suoi derivati, che compaiono per ben 23 volte. Il verbo significa rallegrarsi, gioire, essere lieto, essere contento, compiacersi. Si tratta, più che di un sentimento transitorio, di uno stabile stato d'animo, che si riflette in un modo di vivere, caratterizzato da una serenità umile, nascosta, profonda, che pervade interamente la propria vita anche in presenza del dolore o della sofferenza, poiché tale gioia non è legata ad eventi esterni o da questi alterata, ma ad una intima fiducia che trova la sua radice più vera e profonda in Dio, da cui promana una pace profonda e imperturbabile. Una gioia che per sua natura è espansiva e spinge chi la possiede a condividerla con gli altri. È ciò che suggerisce il verbo “sincaíro”, che letteralmente significa “congioire”, gioire assieme a qualcuno, condividere la propria gioia con gli altri, assumendo qui un aspetto ecclesiale. Lo si trova in 1,58 dove vicini e parenti gioiscono assieme ad Elisabetta perché il Signore ha tolto da lei la vergogna della sterilità. La si trova, poi, in due contesti molto simili tra loro: il pastore e la donna di casa che, rispettivamente, ritrovano la pecora e la dracma perdute. Tale è la loro gioia da essere spinti a condividerla con gli amici (15,6.9).
Segue, poi, il verbo con il relativo sostantivo “agallíao” e “agallíasis”, che significa esultare, esultanza. Si tratta sempre di gioia, ma che qui perde la sua serena pacatezza e fa vibrare le corde dello spirito del credente, inebriato da tale possente gioia, che nasce dall'azione dello Spirito Santo. In tutti quattro i casi in cui viene usato tale termine compare sempre nel contesto l'azione diretta o riflessa dello Spirito.
Ed infine il verbo “eufraíno”, che esprime una gioia che diventa godimento e si esprime attraverso la materialità delle cose. È questo il caso della parabola del “Figliol prodigo”, in cui la gioia intima del Padre per il figlio ritrovato diventa un'incontenibile esultanza che si esprime in una gioiosa convivialità (15,23.24.29.32). Fin qui tutto, sembra dire Luca ai suoli lettori ellenisti, è gioia lecita. Ma vi è anche una gioia che non nasce dal profondo dello spirito, ma dal possesso e dall'uso smodato delle cose, come nel caso del ricco stolto, che sollecita la propria anima a godere dei molti beni (12,16-20); o, similmente, come nel caso del ricco banchettante e del povero Lazzaro, in cui la gioia non soltanto è godimento dei beni materiali, ma possiede in se stessa l'aggravante di essere spesa a danno di chi è indigente (16,19-31).
Il v.14, pur nella sua semplicità narrativa, è molto denso. Compaiono due dei tre termini che Luca usa per esprimere la gioia, sia sotto forma di sostantivo, “car£” (cará, gioia) e “¢gall…asij” (agallíasis, esultanza), che verbale: “car»sontai” (carésontai, gioiranno). Vi è in questo versetto un dinamismo espansivo che rispecchia, in qualche modo, il rapido diffondersi del cristianesimo: la gioia si espande in esultanza; il “per te” si espande in “molti”. La gioia e l'esultanza che prima erano di pochi diventeranno di molti. Quel “molti gioiranno per la sua nascita” non riguarda, infatti, soltanto Zaccaria, Elisabetta, i parenti e gli amici come in 1,14.58, ma anche tutti i credenti futuri, come lascia intendere il verbo posto al futuro: “molti gioiranno”.
I vv.15-17 forniscono la carta d'identità di Giovanni e riguardano sia la sua persona (v.15) che la sua missione (vv.16-17). Essi troveranno una loro eco in 7,24-28a, dove Gesù tesserà il panegirico su Giovanni. Il v.15 è scandito in tre parti ognuna delle quali fornisce un'informazione su questo bambino: “è grande davanti al Signore”; “non berrà vino o bevanda inebriante”; “sarà riempito di Spirito Santo ancora dal ventre di sua madre”. Le tre affermazione sono tra loro congiunte dalla particella “e”, che le lega assieme quasi a formare tra loro un tutt'uno, dandoci in tal modo un quadro completo dell'identità di questo bambino. Tutto ciò che da questo momento in poi questo bambino opererà non potrà più prescindere dal v.15, che di fatto ci fornisce la chiave di lettura non solo della sua persona, ma anche della sua missione.
Esso “è grande davanti al Signore”. L'espressione “™nèpion [toà] kur…ou” (enópion kiríu, davanti al Signore) ricorre oltre 109 volte nella LXX35; soltanto cinque nel N.T. Si tratta di un ebraismo per indicare la presenza del Signore; ma dice anche, come nel nostro caso, qual è la posizione di questo bambino davanti a Dio. Come sia considerato, cioè, da Dio stesso: egli è grande, cioè tenuto in grande considerazione presso Dio e, quindi, quale tipo di rapporto lo lega a Dio e che egli intrattiene con Dio. Un'espressione questa che tornerà in 7,28a, dove Gesù dichiara l'assoluta grandezza di Giovanni tra gli uomini: “nessuno è più grande di Giovanni tra i nati di donne”. Tuttavia la grandezza del Battista viene ridimensionata rispetto a quella di Gesù, poiché se Giovanni è “grande davanti al Signore”, Gesù è soltanto “grande” (1,32a); e quale sia il significato di questa grandezza, definita in modo assoluto, viene immediatamente esplicitato dal susseguirsi dei vv. 1,32b-33: “sarà chiamato Figlio dell'Altissimo e gli darà il Signore Dio il trono di Davide suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe per i secoli e non vi sarà una fine del suo regno”. La grandezza di Giovanni, invece, verrà precisata sia nei versetti immediatamente seguenti, in cui si parla della missione subordinata di Giovanni rispetto a quella di Gesù, verso la quale è funzionale (vv.16-17; 76-80).
La seconda informazione che il v.15 ci passa su Giovanni è “non berrà vino o bevanda inebriante”. L'espressione rimanda al voto di nazireato, un temporaneo atto di consacrazione personale a Dio, che è regolamentato da Nm 6,1-21. Esso è aperto indistintamente ad uomini e a donne, che intendono consacrarsi per un certo periodo della loro vita al Signore (Nm 6,2). Quale segno della sua consacrazione il nazireo doveva astenersi dalle bevande alcoliche e da ogni bevanda o frutto che avesse a che fare con l'uva (Nm 6,3-4); non doveva rasarsi in alcun modo, lasciando che la capigliatura crescesse liberamente (Nm 6,5); doveva osservare rigorosamente una purità rituale, astenendosi dal venire in contatto con qualsiasi cadavere (Nm 6,6-8) e se accidentalmente una persona gli moriva accanto improvvisamente, il nazireo doveva sottoporsi ad un rituale di purificazione (Nm 6,9-12). Al termine del del tempo stabilito del suo nazireato la persona consacrata si radeva il capo e poi doveva compiere numerose offerte, sacrifici ed olocausti (Nm 6,13-21). Un simile rituale viene ricordato anche in At 18,18b e 21,23-24, segno che questo particolare voto era ancora in uso presso il giudaismo.
Benché Nm 6,1-21 codifichi il nazireato come voto temporaneo di consacrazione, tuttavia esso doveva essere un'istituzione religiosa ancor più antica e, originariamente, doveva presentarsi come una consacrazione permanente al Signore, una sorta di carisma particolare che investiva la persona fin dal suo concepimento o dalla sua nascita come lascia intuire Am 2,11-12 e lo stesso racconto di Sansone in Gdc 13,4-5.7.13-14. Nm 6,1-21 si limiterà pertanto a riprendere questa antichissima usanza sacra, che investiva l'intero arco della vita, adattandola ad un nuovo e diverso sentire religioso del fedele nel suo rapportarsi a Dio36.
Luca in questo caso sembra attribuire a Giovanni la formula più antica del nazireato, quella a vita e fin dal concepimento del bambino nel seno materno. Una formula questa ormai desueta da secoli, ma che l'autore qui riattiva, ripescandola dal racconto di Sansone, al quale era stato imposto il nazireato da Dio stesso (Gdc 13,4-5), così come qui per Giovanni. Ma forse, al di là degli standard letterari circa le nascite prodigiose, l'evangelista qui intende sottolineare una volta di più la totale appartenenza di Giovanni a Dio.
La terza informazione che il v.15 ci passa è “sarà riempito di Spirito Santo ancora dal ventre di sua madre”. Questa formulazione, unita alla precedente del nazireato a vita fin dal seno materno, accentua maggiormente la consacrazione di questo bambino a Dio e, quindi, la sua totale appartenenza a Dio. Se il nazireato di Giovanni, come per quello di Sansone, è imposto da Dio stesso, sottolineando la consacrazione divina di questo bambino, con la trasfusione dello Spirito Santo, il bambino riceve in se stesso la potenza stessa di Dio così che tutto il suo operare viene posto sotto l'egida divina. In altri termini quel bambino opera con la potenza stessa di Dio. Questo ricondurre la consacrazione e l'unzione dello Spirito Santo fin dal seno materno evoca da vicino la chiamata dei profeti ed è sempre in funzione di una missione da compiere37, lasciando intravvedere in tutto ciò un preciso piano divino, che in questa particolare tipologia di chiamata e di consacrazione, si sta attuando e manifestando nel bambino. Ma la sottolineatura dello Spirito Santo, quale caratterizzazione di questo bambino, dice anche come con questo bambino si inaugurano i tempi escatologici e messianici, qualificati dall'effusione dello Spirito Santo (Gl 3,1-2).
È interessante rilevare come Gesù, contrariamente a Giovanni, verrà riempito dello Spirito Santo soltanto al momento del suo battesimo e a ridosso dell'inizio della sua missione (3,21-22a; 4,1). Tuttavia, se Giovanni, concepito in Elisabetta per opera di Zaccaria, è riempito di Spirito Santo, Gesù è invece generato dallo Spirito Santo (1,35). Padre di Gesù, pertanto, non è Giuseppe bensì lo Spirito Santo, cioè la potenza stessa di Dio, che imprime in quel bambino, di nome Gesù, il DNA stesso di Dio. L'origine di Gesù, pertanto non è ad opera dell'uomo come per Giovanni (1,23-24), ma anche divina e non in senso metaforico, ma reale. Ancora una volta Luca nel suo racconto parallelo dei due concepimenti, di Giovanni e di Gesù, mette in rilievo la decisa e sostanziale differenza tra i due bambini: il primo proveniente da Dio e riempito del suo Spirito; l'altro generato da Dio e Dio lui stesso.
Se il v.15 ha definito i tratti salienti che caratterizzano questo bambino, fornendo nel contempo la chiave di lettura per la sua missione, i vv.16-17 presentano sinteticamente la missione a cui questo bambino è chiamato: “e farà rivolgere molti figli d'Israele verso il Signore loro Dio. Ed egli camminerà davanti a lui in spirito e forza di Elia, rivolgerà (i) cuori dei padri verso (i) figli e (i) disobbedienti in sapienza dei giusti, preparerà per il Signore un popolo ben disposto”. Il contenuto di questi due versetti è disposto a parallelismi concentrici nel v.17a. Pertanto sia avrà il seguente ordine:
A) v.16: “e
farà rivolgere molti figli d'Israele verso il Signore loro Dio”
B) 17a: “Ed
egli camminerà davanti a lui in spirito e forza di Elia”
A1) v.17bc: “rivolgerà (i) cuori dei padri verso (i) figli e (i) disobbedienti in sapienza dei giusti, preparerà per il Signore un popolo ben disposto”
Il v.16, che parla di un riorientamento di Israele verso Dio, trova una sorta di sua specificazione nel v.17b. Che cosa significa, infatti, “far rivolgere molti figli d'Israele verso il Signore loro Dio?”. Sarà appunto il v.17b a dirlo: i padri si rivolgeranno ai figli e i disobbedienti torneranno a vivere nella sapienza che è propria dei giusti; in altre parole preparerà un popolo ben disposto per il Signore. Vi è in questo rivolgersi dei padri verso i figli e nel rigenerarsi dei ribelli nella sapienza dei giusti una gradualità di movimento che associa i padri ai figli e questi ai disobbedienti, e quindi tutti verranno convertiti secondo le logiche della giustizia, costituendo in tal modo un popolo pronto ad accogliere il Signore che viene. E che così sia lo si arguisce dal fatto che Luca, nel riportare il testo di Ml 3,24a, “perché converta il cuore dei padri verso i figli e il cuore dei figli verso i padri”, ne coglie soltanto la prima parte, quella che vede convergere i padri verso i figli. Se Malachia, infatti con 3,24 si riferiva alla riconciliazione familiare in vista della venuta del Signore, a Luca interessava, invece, soltanto associare i padri ai figli, accomunandoli così sotto un'unica ribellione verso Dio, significata nei disobbedienti, che verranno, però, convertiti alla fedeltà dei giusti.
Il v.17b si chiude con un'espressione che riprende e completa il v.16, formando con questo un'inclusione, per cui il “farà rivolgere molti figli d'Israele verso il Signore loro Dio” trova il suo sviluppo e il suo completamento nel “preparerà per il Signore un popolo ben disposto”. Questa inclusione dice come l'intera missione del Battista consista in una preparazione non solo di Israele a ricevere il Messia, riorientandolo verso il suo Dio, ma anche di chi Israele non è, ossia del mondo dei gentili. Tra il v.16 e il v.17b, infatti, vi è un sostanziale cambio di marcia: se in 16 si parla di “figli d'Israele verso il Signore loro Dio”, con un esplicito richiamo ad Israele e a Jhwh nell'espressione “Signore loro Dio”, molto diffusa e comune nell'A.T. per indicare il Dio d'Israele38, in 17b si dice “per il Signore un popolo ben disposto”. Qui non si usa più la formula “Signore loro Dio”, ma semplicemente “Signore”, con allusione al comune modo di riferirsi al Risorto da parte delle prime comunità credenti (Rm10,9); non ci si riferisce più ai “figli d'Israele”, ma al popolo, senza alcuna specificazione di appartenenza, aprendosi in tal modo al popolo, in senso di umanità. Significativo è infatti l'uso che qui Luca fa di “laÒj” (laós), che significa popolo, ma anche “moltitudine”. I molti figli d'Israele, pertanto, diventeranno “moltitudine”, alludendo qui ai futuri credenti e alla futura dimensione ecclesiale, sempre più consistente e sempre più in espansione (At 2,41-48; 6,7; 12,24; 13,46-49)
Al centro di tutto si colloca il v.17a, che va a completare il quadro dell'identità del bambino stilato dal v.15, ma nel contempo sottolinea come la missione di questo bambino consista nel preannunciare la venuta del Messia, come verrà poi ricordato anche in 1,76; e lo farà con la stessa potenza di Elia, il profeta vissuto nel IX sec. a.C., la cui missione consistette nel ricondurre il popolo alla vera fede jahvista; rapito, poi, da un carro di fuoco, secondo la tradizione sviluppatasi successivamente e riportata da Ml 3,23, sarebbe ritornato alla fine dei tempi per ricondurre il popolo al Signore (Ml 3,24). Il vedere, quindi, qui Elia in Giovanni o il suo spirito dice anche come con Giovanni si stiano per inaugurare non soltanto i tempi messianici, ma anche quelli escatologici, ai quali era legata la figura di Elia. Si noti come, a differenza di Mt 11,14; 17,12a e di Mc 9,12a.13, il Battista non venga interpretato da Luca come la reincarnazione di Elia, ma soltanto ne riveste e simula in qualche modo il vigore e la forza del suo spirito. Per Gv 1,21.25, invece, il Battista semplicemente non è Elia.
Entrambi i versetti si muovono su di un unico sfondo, che si rifà al libro di Malachia sia in modo diretto, citando espressamente i vv. di Ml 3,23-24a in 1,17ab; sia in modo indiretto nei vv.16.17c, richiamandosi all'intero testo di Malachia, che stigmatizza il comportamento di tutto il popolo d'Israele, con particolare riguardo sia ai sacerdoti, ai matrimoni misti e alla famiglia, che all'intero popolo in senso generale.
I vv.18-20 riportano il dialogo tra Zaccaria e l'angelo, che segue lo schema caratteristico degli annunci delle nascite prodigiose o di vocazione: il destinatario dell'annuncio o della chiamata presenta i suoi dubbi, le sue titubanze, le sue incertezze; chiede chiarimenti e oppone le sue resistenze. Il tutto è finalizzato ad approfondire il senso dell'annuncio o della chiamata, provocando continue risposte : “Su che cosa conoscerò questo? Io infatti sono vecchio e mia moglie si è avanzata nei suoi giorni”. Sono le stesse osservazioni che Abramo e Sara contrappongono a Dio, che promette loro una numerosa discendenza come le stelle del cielo e i granelli della sabbia del mare (Gen 17,15-20; 18,10-14). Così Mosè, alla chiamata di Dio per liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana, opporrà a Dio, in modo ostinato, molte resistenze, fino a far spazientire Dio stesso (Es 3,10-4,17). Solo Abramo si fida di Dio e accetta la missione affidatagli: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15,6). Ma Sara, all'annuncio che lei sarebbe diventata madre ad opera di Abramo, oppose un ironico riso d'incredulità (Gen 18,10-15); così Mosè, con le sue numerose osservazioni che tendevano ad allontanare da sé la chiamata di Dio, non volle cedere a Dio, fino a farlo stizzire. È lo stesso ciò che capita a Zaccaria, che nel chiedere un segno, una prova della veridicità delle parole dell'angelo, gli contrappone la sua vecchiaia e quella di sua moglie come argomento inoppugnabile, per rendere irrealizzabile il progetto di Dio su di loro. È qui che si inserisce la risposta dell'angelo, scandita in due momenti: da un lato, egli presenta le sue credenziali (v.19); dall'altro dà a Zaccaria un segno punitivo per per la sua resistenza, sottesa da incredulità (v.20).
L'importanza del v.19 ruota tutta attorno al nome di Gabriele, il cui significato è “Forza di Dio”. Si tratta di un angelo, cioè di un messaggero divino e questo spiega il senso della sua missione: “[Dio] mi inviò a te per dire e annunciarti queste cose”. La sua missione fa parte della sua stessa natura. Dio non opera mai direttamente, ma sempre per interposta persona, l'angelo, quasi a creare uno stacco insuperabile tra il mondo degli uomini e quello divino. Significativo è, infatti, il simbolismo dei “cherubini”39, categoria di angeli, mutuata dal giudaismo dalla cultura babilonese, i quali vengono posti a guardia sulla porta del Paradiso Terrestre con la spada fiammeggiante (Gen 3,24), creando uno stacco netto tra il prima e il dopo, tra la dimensione divina e quella, ormai decaduta, umana, sancendo l'incomunicabilità tra le due dimensioni. La citazione qui del nome Gabriele non è casuale, ma rimanda al Libro di Daniele, dove per la prima volta compare la figura angelica di Gabriele in 8,16-19 e 9,15-19. Egli ha il compito di “spiegare e rivelare” (Dn 8,16.19); di “annunciare, istruire e far comprendere” (Dn 9,22.23). Un'azione didattica la sua che si colloca in un contesto escatologico (Dn 8,19; 9,23-29). L'evocazione del nome Gabriele richiama, dunque, un annuncio rivelativo che riguarda gli ultimi tempi. Quanto viene da lui annunciato assume quindi una valenza squisitamente escatologica. Il bambino, pertanto, è il precursore di questi ultimi tempi, mentre ciò che egli annuncia inaugura gli ultimi tempi, caratterizzati dall'effusione dello Spirito Santo (Gl 3,1-2; Prv 1,23; Ez 36,24-28): “Io vi battezzo con acqua; ma viene il più forte di me, di cui non sono degno di sciogliere il legaccio dei suoi calzari; egli vi battezzerà in spirito santo e fuoco” (3,16). E tutto in questi due primi libri lucani è posto sotto l'egida dello Spirito e tutto si muove sotto il suo impulso: il bambino è ripieno di Spirito santo fin dal seno materno (1,15b); Maria concepisce per opera dello Spirito Santo (1,35); Elisabetta è riempita dello Spirito Santo e riconosce in Maria la madre del suo Signore (1,41); anche Zaccaria è riempito di Spirito Santo e profetizza sotto la sua ispirazione (1,67) e così il vecchio Simeone è riempito di Spirito Santo e, da questi mosso, si reca nel Tempio, abbraccia il bambino, Gesù, che riconosce come l'attesa luce delle genti (2,25-28).
Il terzo elemento che qualifica l'identità dell'angelo Gabriele è la sua posizione nei confronti di Dio: egli non solo sta davanti a Dio, ma anche presso di lui. Quel stare “davanti a Dio” (™nèpion toà qeoà, enópion tû tzeû) dice come egli sia, in modo privilegiato, ammesso alla sua presenza; mentre quel stargli appresso dice la sua particolare vicinanza a Dio, di cui gode la personale fiducia. Il verbo “paresthkëj” (parestekòs), infatti, significa letteralmente posto o stare accanto, posto o stare a fianco e dà l'idea di un personaggio che si accompagni in qualche modo a Dio e ne sia la sua longa manus. L'immagine richiama da vicino la corte regale persiana, dove non tutti erano ammessi alla presenza del re, ma soltanto alcuni suoi privilegiati ministri, che condividevano con il re l'amministrazione del regno e la gestione del suo potere40.
Con il v.20 termina il dialogo tra l'angelo Gabriele e Zaccaria a cui viene dato il segno richiesto al v.18: “Su che cosa conoscerò questo”. In se stessa la richiesta è legittima e fa parte dello standard dei racconti di vocazione e di nascite prodigiose. Gedeone chiederà a Dio, che lo incarica di liberare Israele dai Madianiti, un segno (Gdc 6,16-17); il re Ezechia chiederà a Dio un segno che provi la veridicità delle sue parole (2Re 20,8-11); Isaia sospingerà il re Acaz a chiedere a Dio un segno che provi la verità delle sue parole (Is 7,11); il Salmista chiede a Dio un segno della sua benevolenza da opporre ai suoi nemici (Sal 85,17); ma lo stesso Dio, a riprova delle sue promesse e della verità delle sue parole, darà spontaneamente dei segni, che diventano così una sorta di sacramento d'incontro tangibile tra Dio e l'uomo41. Perché, dunque, la richiesta di un segno da parte di Zaccaria deve essere considerata una mancanza di fede? Del resto come dubitare di fronte ad una simile visione? Come dunque comprendere l'incredibile incredulità di Zaccaria? Le parole dell'angelo che stigmatizzano l'incredulità di Zaccaria vanno probabilmente comprese nell'ambito di un confronto che qui l'autore vuole porre tra Zaccaria e Maria, che, invece, si è chinata a Dio in piena disponibilità al suo disegno di salvezza, senza opporgli resistenze: “Ecco la serva del Signore; mi avvenga secondo la sua parola” (v.38). Zaccaria chiede segni (v.18); Maria si fa serva di Dio, mettendo la sua vita a sua disposizione42. Da questo confronto viene esaltata la grandezza di questa fanciulla che diviene un grandioso esempio di collaborazione dell'uomo con Dio: porsi nelle mani di Dio per divenire strumento di redenzione per gli uomini.
Zaccaria per la sua incredulità verrà reso “silente”. Un silenzio che durerà fino al compiersi delle parole dell'angelo, “le quali saranno compiute al loro tempo”. C'è, dunque, un tempo che non dipende dagli uomini, ma è scandito da Dio stesso, che si muove secondo un suo preciso disegno di salvezza. Un tempo che è preceduto ed accompagnato dal silenzio dell'uomo, perché l'uomo in questo suo tacere si prepari ad ascoltare Dio e a saper cogliere, non più frastornato dal fremito frenetico della vita, i segni dei tempi. Viene sottolineato questo silenzio che, in qualche modo, si aggancia al nascondimento di Elisabetta, il quale è un'altra forma di silenzio: “concepì e tenne nascosta se stessa per cinque mesi” (v.24). Il silenzio degli uomini in rapporto a Dio assume nell'A.T. significati diversi. Vi è un silenzio di attesa, che rivolge il credente verso Dio, predisponendolo ad accogliere la sua parola. Il servo, incaricato da Abramo a cercare una moglie per il proprio figlio Isacco, si pone in ascolto di Dio, a cui si era rivolto per riceverne un segno (Gen 24,21); Mosè e i leviti, rivolti ad Israele, lo sollecitano a fare silenzio e porsi in un atteggiamento di ascolto accogliente della parola di Jhwh, poiché ai piedi del monte Oreb il popolo aveva ricevuto la sua consacrazione, divenendo popolo di Dio (Dt 27,9); il Salmista in 36,7 sollecita il credente a porsi in silenzio davanti a Dio e a sperare; lo stesso Paolo, infine, si rivolge al popolo, imponendo autorevolmente il silenzio per creare lo spazio alla parola che egli sta per annunciare: quella della sua conversione e della sua chiamata per l'annuncio del vangelo (At 21,40). Si tratta ancora di un silenzio che si impone all'uomo di fronte all'incontenibile agire di Dio e a fronte del quale l'uomo annichilisce: “Sto in silenzio, non apro bocca, perché sei tu che agisci” (Sal 38,10); mentre la Sapienza, ricordando la notte della liberazione, esordisce sottolineando come lo sterminio dei primogeniti, fu preceduto da un grande e sovrano silenzio: “Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose, e la notte era a metà del suo corso, la tua parola onnipotente dal cielo, dal tuo trono regale, guerriero implacabile, si lanciò in mezzo a quella terra di sterminio, portando, come spada affilata, il tuo ordine inesorabile” (Sap 18,14-15). Le fa eco Ap 8,1, dove l'autore ricorda come l'azione di Dio contenuta nel settimo sigillo viene accompagnata dal silenzio: “Quando l'Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio in cielo per circa mezz'ora”. Un silenzio che in Lam 3,26 diviene spazio di salvezza preparata da Dio; un silenzio che svuota l'uomo di se stesso, lo abilita così a porsi davanti a Dio e lo prepara al giorno del Signore (Sof 1,7). Il silenzio svuota, pertanto, la dimensione spazio-temporale dalla frenesia dell'uomo, dai rumori di una vita dispersiva, caotica e banalizzante e crea uno spazio accogliente dove l'uomo si arricchisce della presenza dialogante e gratificante di Dio.
I vv.21-25 portano a conclusione il racconto del concepimento prodigioso di Giovanni e sono narrativamente strutturati in tre parti: i vv.21-22 concludono l'annuncio del concepimento di Giovanni, avvenuto nel Tempio, durante una sacra liturgia, collocata ai tempi di Erode il Grande; il v.23 è di transizione e indica il cambio di luogo: la scena ora passa dal Tempio alla casa di Zaccaria, dove i vv.24-25 annunciano il realizzarsi della promessa dell'angelo: Elisabetta concepisce Giovanni.
Lo stupore del popolo (1,21-23)
Con questi versetti l'autore riprende la sua narrazione lasciata in sospeso al v. 10 per dare spazio all'annuncio dell'angelo. Il racconto, dunque, riparte da qui; il popolo, lasciato fuori dal Santo, dove Zaccaria era entrato per bruciare l'incenso e dove aveva avuto la visione, torna ora protagonista. Due sono i verbi che qualificano questo popolo: “attendeva” e “si meravigliava”, che vanno a completare il silenzio con cui è stato avvolto Zaccaria. Di fronte ad un Dio che annuncia il suo agire salvifico, l'uomo, da un lato, zittisce; dall'altro si pone in uno stato di attesa e di stupore. Silenzio, attesa e stupore sono le reazione umane alla teofania, all'irrompere di Dio nella storia dell'uomo. La teofania che aveva coinvolto Zaccaria, viene ora estesa in qualche modo anche al popolo, il quale comprende che il sacerdote ebbe una visione. Come il popolo l'abbia saputo viene spiegato nella parte finale del v.22: “egli era loro accennante e rimaneva muto”. Probabilmente Zaccaria ha spiegato a cenni quanto gli era accaduto e il silenzio, in cui era avvolto, costituiva per il popolo il segno inequivocabile dell'incontro di Zaccaria con un evento divino. Il progetto di salvezza, pertanto, confidato a Zaccaria, si estende ora all'intero popolo, che si è posto in uno stato di attesa e di stupore.
Il v.23 è di
transizione e il cambio di luogo, dal Tempio alla casa di Zaccaria,
dice che si chiude un episodio e se ne sta aprendo un altro:
dall'annuncio del concepimento al compiersi di tale annuncio:
Elisabetta concepì per opera di Zaccaria.
Il concepimento di Elisabetta (1,24-25)
Il v.24 si apre con un'annotazione di tempo: “Dopo questi giorni”. Sono i giorni, una settimana, passati da Zaccaria nel Tempio per compiere il suo servizio sacerdotale. Ma questi furono anche i giorni della visione, il tempo della promessa: “tua moglie Elisabetta ti genererà un figlio” (v13b); il tempo dell'annuncio, dell'aprirsi di tempi nuovi, di tempi messianici ed escatologici, di cui il bambino era il precursore (vv.13c-17). Ed ecco che dall'annuncio si passa subito alla sua attuazione: “sua moglie Elisabetta concepì”. Il richiamo allo stato civile di Elisabetta, “sua moglie”, lascia intendere come il bambino sia stato concepito per opera di Zaccaria. Un'annotazione quest'ultima che innesca in qualche modo un larvato raffronto tra i due diversi modi di concepimento: quello di Elisabetta e quello di Maria, che, invece, “non conosce uomo” (v.34). Se con il v.25 Elisabetta prende atto del suo nuovo stato di vita, riconoscendo a Dio di aver accolto la sua preghiera e ringraziandolo per aver tolto la vergogna della sua sterilità, il v.24 si chiude lasciando perplesso il lettore: “concepì e tenne nascosta se stessa per cinque mesi”. Se è vero che per Elisabetta il concepimento è frutto di un Dio che si è “preso cura di lei”, non si comprende come essa debba tenersi nascosta, anziché condividere la sua gioia con tutti. Già si è detto sopra, commentando il silenzio imposto a Zaccaria dall'angelo, come anche questo “tenersi nascosta” è una forma di silenzio, che si accompagna all'azione salvifica di Dio; una sorta di reazione naturale dell'uomo di fronte al manifestarsi di Dio nella storia e nella vita dell'uomo. Ma è da valutare anche un altro aspetto, dettato più che da una considerazione di ordine teologico da esigenze narrative, poiché la gravidanza di Elisabetta in tarda età deve costituire per Maria la prova della veridicità dell'annuncio dell'angelo Gabriele (v.36) e che troverà immediato riscontro nella visita che Maria farà ad Elisabetta, sua parente (vv.39-40).
Secondo quadro: l'annuncio e il concepimento di Gesù (1,26-38)
Testo a lettura facilitata
Il contesto e la presentazione dei personaggi
26 – Ora nel sesto mese l'angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, che (aveva) nome Nazareth
27 – presso una fanciulla fidanzata ad un uomo, che (aveva) nome Giuseppe dalla casa di Davide e il nome della fanciulla (era) Maria.
Il saluto
28 – E andando verso la fanciulla disse: <<Rallegrati, riempita di grazia, il Signore (è) con te>>.
29 – Essa fu turbata profondamente per la parola e soppesava quale senso avesse questo saluto.
L'annuncio del concepimento e presentazione dell'identità di Gesù
30 – E le disse l'angelo: <<Non temere Maria, poiché trovasti grazia presso Dio.
31 – Ed ecco concepirai nel tuo utero e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Gesù.
32 – Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo e gli darà il Signore Dio il trono di Davide suo padre,
33 – e regnerà sulla casa di Giacobbe per i secoli e non vi sarà una fine del suo regno>>.
Come avverrà il concepimento e completamento dell'identità di Gesù
34 – Disse Maria verso l'angelo: <<Come sarà questo, poiché non conosco uomo?>>
35 – E rispondendo l'angelo le disse: <<Lo Spirito Santo si stenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti adombrerà; per questo anche ciò che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio.
Il segno
36 – Ed ecco Elisabetta, la tua parente, anche lei ha concepito un figlio nella sua vecchiaia e questo mese è il sesto per lei che era chiamata sterile;
37 – poiché ogni parola presso Dio non sarà impossibile>>.
L'accettazione di Maria e la fine della missione dell'angelo
38 – Disse Maria: <<Ecco la serva del Signore; mi avvenga secondo la sua parola>>. E l'angelo se ne andò da lei.
Note generali
Dopo il primo quadro dell'annuncio e concepimento di Giovanni (vv.5-25), Luca pone in parallelo questo secondo quadro di annuncio e concepimento, quello di Gesù (vv.26-38). Un parallelismo da cui risaltano sia la diversa identità che la differente consistenza di taratura dei due personaggi. Benché i due racconti si muovano entrambi sullo stesso schema narrativo, caratteristico delle nascite prodigiose e, quindi, si assomiglino molto nella loro dinamica, tuttavia, differiscono non poco nei loro contenuti. Da un lato abbiamo due coniugi anziani, molto avanti con l'età, che rende loro impossibile concepire, anche per la sterilità di Elisabetta (v.7); dall'altro, abbiamo una fanciulla che non ha mai conosciuto uomo (v34). Entrambi i personaggi, quindi, sono posti nella condizione di non poter concepire. Entrambe le donne, poi, concepiranno un figlio, ma nel primo caso, quale esaudimento della preghiera dei due coniugi (v.13); nel secondo caso perché la fanciulla ha trovato grazia presso Dio (v.30). Cambiano le modalità di concepimento: per Elisabetta ciò avverrà per opera di Zaccaria (vv. 23-24); per Maria ad opera della potenza dello Spirito Santo (v.35). Sostanzialmente diverso è, quindi, il movimento dei due racconti: il primo si muove in senso orizzontale: Giovanni è concepito per azione umana; il secondo in senso verticale: Gesù è concepito per intervento divino. Molto diversi sono anche i contesti in cui sono collocati i due racconti e che dicono molto sulla diversità dei destini dei due bambini: per quanto riguarda Giovanni, il contesto è chiaramente veterotestamentario: Zaccaria è un sacerdote che svolge il suo servizio al Tempio ed è nell'ambito di un'azione liturgica che riceve l'annuncio (vv.5.8-9.11-13). Siamo qui nel cuore della vita religiosa giudaica, ormai giunta al culmine, alla sua piena maturazione, e quindi al suo compimento, significato questo nello stesso officiante, Zaccaria, giunto al culmine della sua carriera sacerdotale43. Per quanto riguarda Gesù, il contesto è posto fuori dalla sacralità del Tempio e dal suo solenne e talvolta pomposo culto religioso, in una sconosciuta città della Galilea, Nazareth (v26), creando in tal modo una discontinuità con l'antico culto che sta per essere sostituito con un nuovo culto. Vedremo, come la citazione di questi due nomi geografici diano un taglio completamente nuovo alla figura di Gesù e al senso della sua missione. Anche il modo di narrare differisce notevolmente nei due racconti: quanto a Giovanni, Luca si sofferma maggiormente sugli aspetti storici; per quanto riguarda Gesù, invece, l'autore imbastisce con solennità la tradizione messianica davidica con una imponente teologia dall'alto.
Lo schema narrativo è decisamente molto più sobrio rispetto a quello riguardante l'annuncio del concepimento di Giovanni, al quale Luca dedica ben otto versetti (vv.5-12), molto densi e ricchi di informazioni storiche, religiose e personali, riguardanti Zaccaria ed Elisabetta. L'annuncio dell'angelo (vv.28-38), qui, invece, è preceduto da due soli versetti, vv.26-27, essenziali per inquadrare la comprensione della figura di Gesù, con riferimento al casato di Davide in v.27; mentre di Maria si dice soltanto che è una fanciulla e che abita in una oscura località della Galilea, Nazareth (v.26). Nient'altro. Nessuna ridondanza nelle informazioni: semplicità, stringatezza ed essenzialità caratterizzano la premessa dell'annuncio dell'angelo Gabriele a Maria. La diversa quantità di informazioni nei due racconti è finalizzata a concentrare il lettore sul messaggio dell'angelo a Maria, ricco di titoli messianici e cristologici, dove gli scarni interventi di Maria servono solo per approfondire l'identità del bambino. Tutto il resto non conta.
La struttura narrativa è costruita su due pericopi, che in qualche modo ricalcano lo schema dell'annuncio di Giovanni:
presentazione dei personaggi e del contesto (vv.26-27);
annuncio dell'angelo Gabriele riguardante il concepimento di Gesù (vv.28-38). Una pericope questa che è circoscritta da un'inclusione, che descrive due movimenti uguali contrari: il racconto si apre con il v.28a, in cui l'angelo Gabriele va verso Maria; e si chiude con il v.38c, in cui l'angelo se ne va da Maria.
Commento a 1,26-38: il concepimento di Gesù
Il contesto e i personaggi (vv.26-27)
Potremmo definire questi due versetti come stringati ed essenziali, ma ricchi di informazioni. Il racconto si apre con una nota temporale: “Ora, nel sesto mese”, richiamandosi al v.24b in cui si dice che Elisabetta “tenne nascosta se stessa per cinque mesi”, poiché spetta a Dio con la luce del suo Spirito rivelare il mistero del suo agire. Viene così creata una continuità temporale tra i due racconti: quello dell'annuncio e del concepimento di Giovanni e questo secondo annuncio-concepimento, quello di Gesù. Altri elementi tuttavia saldano tra loro i due racconti, creando un forte legame tra i personaggi e le due vicende, facendone quasi un unico atto salvifico scandito in due tempi: l'angelo Gabriele è lo stesso che si trova anche nel racconto di Giovanni e la cui identità è stata definita nel v.19. È interessante rilevare come il racconto dell'annuncio a Zaccaria non si chiude con l'angelo che se ne va via da lui, come avviene, invece, alla fine di questo racconto (v.38b), ma soltanto con l'angelo che ha terminato di parlare con il sacerdote. Un angelo, quindi, che non ha ancora compiuta definitivamente la sua missione, che, invece, si chiuderà in modo definitivo con questo secondo annuncio, creando in tal modo una sorta di trait-d'union tra i due racconti di nascite prodigiose, l'uno finalizzato all'altro. Significativo è anche il fatto che Giovanni sia concepito sei mesi prima di Gesù, indicando con ciò che egli è il precursore di Gesù. Avrebbe potuto comunque esserlo anche se il concepimento per i due bambini fosse stato nello stesso mese; ma in questo “precedere” il concepimento di Gesù di sei mesi, l'autore ha voluto indicare anche il senso della missione di Giovanni: colui che precede e annuncia il Messia e che in qualche modo lo riconoscerà già nel seno materno (v.41). A giochi finiti, si rileva come i due racconti non solo sono posti tra loro in parallelo, ma anche come essi siano finalizzati l'uno all'altro e saldamente incastrati l'uno nell'altro: due atti e due tempi, come si diceva sopra, di un unico atto salvifico.
L'angelo è inviato “in una città della Galilea, che (aveva) nome Nazareth”. Un nome, quest'ultimo, completamente ignorato dai testi veterotestamentari e dalla restante letteratura successiva, sia da Giuseppe Flavio che dagli apocrifi e dalla letteratura rabbinica, così da farne dubitare la stessa esistenza, testimoniata, invece, da un'iscrizione ebraica, databile intorno al III/IV sec. d.C., ritrovata a Cesarea Marittima nel 1962, quale sede di una delle 24 classi sacerdotali44. Il nome Nazareth è presente solo dodici volte nel N.T. e quasi esclusivamente nei vangeli45. Una località oscura, che, in modo eccessivamente ridondante, Luca chiama “città” e che certo non doveva godere di buona fama se Natanaele, con fare scettico ed ironico, rispondendo a Filippo, che con entusiasmo gli annunciava di aver trovato il messia, predetto dalle Scritture, gli dice: “Da Nazareth può mai venire qualcosa di buono?” (Gv 1,45-46). Una località oscura e disistimata, collocata nella disprezzata regione della Galilea, abbreviazione di “gĕlil ha-gōyīm”, “territorio dei pagani”, divenuta un insediamento di assiri, dopo la conquista e la distruzione del Regno del Nord da parte di Salmanassar V (726-722 a.C.), a seguito di una politica di espansione inaugurata da Tiglat Pileser III (747-727 a.C.). Una regione, pertanto, imbastardita sia culturalmente che religiosamente e certamente una regione i cui abitanti facevano storcere il naso ai benpensanti della Giudea e di Gerusalemme, che consideravano gli abitanti della Galilea come gente rozza (At 2,7), malvista anche per il loro grezzo dialetto, che distorceva i suoni e la parlata semitica (Mt 26,73; Mc14,70); quanto a religione essi erano disprezzati e veniva loro negato ogni ruolo nella storia della salvezza di Israele. Il messia era atteso da ovunque, ma non dalla Galilea (Gv 7,41; 7,52) e tanto meno da Nazareth (Gv 1,46). Il termine “galileo” risuonava, inoltre, come una sorta di offesa o comunque un modo per sminuire le persone. Gesù stesso era chiamato in modo dispregiativo il “Galileo” (Mt 26,69). Anche i cristiani, alle loro origini, erano soprannominati in modo sprezzante “Galilei”; così similmente gli zeloti46. In questo contesto viene posto l'inizio della storia di Gesù: in un luogo oscuro, disprezzato, semipagano, che Matteo, definisce “Galilea delle genti”, cioè territorio di pagani, di non ebrei, esclusi quindi dal ciclo delle promesse e della salvezza. Ma è proprio questo contesto, di scadente tradizione ebraica e imbastardito da presenze estranee all'ebraismo, che definisce l'universalità della figura di Gesù e il senso della sua missione finalizzata ad ebrei e non ebrei, così com'era abitata la Galilea. Egli si pone fuori da ogni schema di attesa messianica elaborata dagli uomini, ma non da Dio: da Nazareth, infatti, non poteva venire niente di buono, mentre il messia non doveva provenire dalla Galilea. Gesù, invece, comincia la sua missione proprio dalla Galilea (Mt 4,13.18-23), a partire, secondo il racconto lucano, da Nazareth (4,16), oscura e disprezzata località della malvista Galilea. Ed è proprio qui che rivela il suo messianismo, annunciando il proclama della sua missione (4,16-21); e sarà proprio dalla Galilea e non da Gerusalemme che Gesù manifesterà il suo universalismo e farà partire la missione universale della chiesa nascente, comandando ai suoi discepoli di andare ad ammaestrare tutte le genti (Mt 28,16-20). E Luca, ellenista proveniente dal paganesimo e a questo rivolto, probabilmente non a caso cita queste due località, dove ha avuto inizio la storia della salvezza, fin dal suo concepimento: non nel cuore di Gerusalemme, ma in quella terra semipagana, che portava in se stessa i germi dell'universalità.
Il v.27, pur nella sua brevità, è ricco di informazioni. Si dice che l'angelo si reca presso di una fanciulla; questa si chiama Maria; è fidanzata con un uomo; questi si chiama Giuseppe; e appartiene al casato di Davide. Cinque tocchi che incorniciano storicamente quanto l'angelo Gabriele sta per annunciare alla fanciulla, dando in tal modo al progetto divino un radicamento storico.
Il termine che ho tradotto con “fanciulla” ha il suo corrispondente greco in “parqšnoj” (partzénos), che significa “vergine”, ma in egual modo anche fanciulla, giovinetta, donna da marito, fidanzata. Il termine “parqšnoj” viene a perdere il suo significato originale di “donna fisicamente integra” o che non ha mai avuto rapporti sessuali con un uomo, per assumere prevalentemente uno status sociale, una sorta di stato civile, corrispondente al nostro “nubile” o “celibe”. Il termine “parqšnoj” infatti può riferirsi sia ai maschi che alle femmine ed indica semplicemente una persona non sposata. Nel N.T. Il sostantivo compare 15 volte e in tutte ha il senso di giovane non ancora sposata, o di fidanzata, come chiaramente si evince da 1Cor 7,25-37, dove “parqšnoj” assume anche una valenza di genere maschile, come ai vv.27.28 e in Ap 14,4, in cui il termine assume un senso negativo, con una chiara connotazione sessuale, in riferimento a coloro che “non si sono contaminati con donne”. Va detto, tuttavia, che Luca, come del resto Matteo, attribuiscono a “parqšnoj” non solo un significa di status sociale, ma anche teologico: la fanciulla è “vergine”, infatti, non solo perché non è sposata ad un uomo, benché lo stato di fidanzamento nel mondo ebraico già facesse parte del matrimonio, ne è la prima fase e dura un anno, ma anche perché, ed è ciò che interessa ai due evangelisti, non ha avuto rapporti sessuali con nessun uomo (Mt 1,25; Lc 1,34). Questa precisazione serve all'evangelista soltanto per rilevare come Gesù sia frutto di un concepimento divino e come il suo entrare nella storia avvenga per volontà divina e non umana, rilevando in tal modo la sua stessa divinità. Certamente ai due evangelisti non interessava la verginità di Maria, nel senso di integrità fisica; una posizione questa che invece assumerà la Tradizione della Chiesa in tempi successivi, tant'è che lo stesso Matteo non si preoccupa di affermare in 1,25a che Giuseppe “non la conobbe finché non partorì il figlio”47, da cui si può trarre la conclusione che la conobbe in seguito, dopo il parto del suo primogenito, assegnando così a quest'ultimo un'origine divina.
Viene ora fornita l'identità della fanciulla: essa si chiama Maria. Un nome molto diffuso nel N.T., mentre nell'A.T. ricorre solo 15 volte con esclusivo riferimento a Maria, sorella di Aronne e di Mosè, definita in Es 15,20 come la “profetessa”. L'origine è quasi certamente egiziana, Marye, e significa la prediletta o l'amata. Nel N.T. il nome ricorre 54 volte, un numero elevato, che attesta la sua ampia diffusione. Oltre a Maria, madre di Gesù, vi è la Maria, sorella di Marta, la Maria di Magdala, più conosciuta come la Maddalena; Maria madre di Giacomo e l' “altra Maria” (Mt 27,61; 28,1); Maria di Cleofa, Maria madre di Marco; ed infine quella Maria, a cui Paolo indirizza i suoi particolari saluti in Rm 16,6, poiché “molto ha faticato per voi”. Un'oscura fanciulla, quindi, identificata con un nome talmente diffuso da essere quasi un nome generico di persona, che poco identifica; una fanciulla che abita in un oscuro e disprezzato villaggio della Galilea. Ma tutto ciò dice anche come si muove la logica divina nell'attuare il suo disegno di salvezza: non i potenti, ma gli umili per evitare che la potenza dell'uomo impedisca di tralucere quella di Dio, inducendo a credere che l'uomo sia il salvatore di se stesso, spingendolo verso un pericoloso antropocentrismo. Mosè, prima di divenire lo strumento liberatore di Dio a favore del suo popolo, viene ridotto all'impotenza e al silenzio, perché meglio traspaia l'onnipotenza di Dio. Un concetto questo che Paolo riprenderà in 1Cor 1,28-29: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio”, giungendo al paradosso della debolezza dell'uomo, quale forza e potenza di Dio: “Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Una logica che verrà ripresa nel cantico del Magnificat, da cui traspare come le vie del Signore siano ben lontane da quelle degli uomini (Is 55,8). Infatti, “mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio” (1Cor 1,22-24).
Ci viene fornita un'ulteriore indicazione: questa oscura fanciulla di Nazareth era “fidanzata”. Qui Luca usa il verbo generico “mnhsteÚw” (mnesteúo), che letteralmente significa “aspirare alla mano di”, “aspirare alle nozze”, “fidanzare, dare in matrimonio”. Un concetto questo molto simile al nostro, ma lontano da quello del mondo ebraico. Non va mai dimenticato che Luca è un greco, proveniente dal paganesimo ed estraneo alla cultura ebraica. Matteo, invece, un ebreo, forse quello stesso scriba che viene richiamato, come in una sorta di cammeo, in Mt 8,19 e 13,52, è molto più preciso e rispetta la tempistica propria del matrimonio ebraico, che vede i due fidanzati come “promessi sposi” e, quindi, già giuridicamente vincolati da una promessa, che li rendeva ufficialmente esclusivi l'uno all'altra. Una promessa che trovava il suo definitivo compimento circa un anno dopo, allorché la sposa veniva condotta, accompagnata da un festoso corteo di amiche, alla casa dello sposo, dove lo sposo ne prendeva possesso: “Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo” (Mt 1,18). Presso il popolo ebraico, giuridicamente, il matrimonio era scandito in due tempi: il fidanzamento e le nozze. Il fidanzamento durava circa un anno. Le nozze avvenivano quando lo sposo prendeva presso la propria abitazione la sposa. Questa "presa di possesso", la haknashà, costituiva la vera e propria unione tra i due per la vita. I due stati, giuridicamente distinti, di fatto erano, da un punto di vista legale, equiparati e parimenti tutelati. In caso di adulterio durante il tempo del fidanzamento, la donna veniva sottoposta a giudizio e, se ne ricorreva il caso, anche alla lapidazione; mentre, in caso, di morte del fidanzato, la ragazza veniva assimilata allo stato di vedovanza. Il bambino, infine, concepito durante il fidanzamento era considerato, ad ogni effetto giuridico, figlio legittimo. I due momenti, fidanzamento e nozze, pur distinti su di un piano giuridico, di fatto si identificavano e si confondevano tra loro, in quanto la legge riconosceva al fidanzamento, prerogative e obblighi quasi identici a quelli del vero e proprio matrimonio48.
Quanto a Giuseppe, solo poche parole a lui dedicate, ma essenziali, per definire l'uomo a cui Maria era promessa: “Giuseppe dalla casa di Davide”. Ben diversa sorte toccò al Giuseppe matteano, a cui l'evangelista dedica nello stesso contesto quattro versetti (Mt 1,18-21), soffermandosi sulla sua figura di uomo giusto e collaborativo al progetto di Dio. La funzione di Giuseppe, qui in Luca, è finalizzata a fornire, da un lato, un'identità storica e familiare alla persona di Gesù, che meglio verrà completata, come in una sorta di quadretto familiare, in 2,16; dall'altro, agganciare Gesù alla promessa davidica. Giuseppe, infatti, è discendente del casato di Davide. L'espressione “™x o‡kou Dau…d” (ex oíku Dauíd) dice chiaramente, con quella particella di moto da luogo “™x” (ex) l'origine, la provenienza e quindi la diretta discendenza di questo uomo, appartenente alla famiglia regale davidica. Si realizza così la promessa del profeta Natan, fatta a Davide (2Sam 7,12-16). Viene qui anticipato un tema che verrà ripreso successivamente su due diversi livelli tra loro complementari: messianico e teologico ai vv.32-33; storico in 2,4.
L'annuncio dell'angelo (vv.28-38)
Preceduta da un succinto contesto storico e geografico, in cui è collocata la figura di Maria, delineata nella sua identità di “fanciulla, fidanzata ad un uomo di nome Giuseppe, discendente dal casato di Davide”, questa ampia pericope è delimitata da un'inclusione, data dai due movimenti uguali e contrari dell'angelo Gabriele, che in 28a si reca verso la fanciulla, mentre in 38b se ne parte da lei. L'annuncio dell'angelo, più che un annuncio, è una sorta di conciso quanto intensissimo trattato di teologia dall'alto, di messianismo, di cristologia e di pneumatologia, che si muovono su di uno sfondo trinitario, là dove si parla di Altissimo, di Figlio dell'Altissimo, Figlio di Dio, generato per opera dello Spirito Santo. L'intera pericope, alquanto elaborata e complessa nel suo snodarsi strutturale, si distribuisce su parallelismi concentrici in C). Per cui si avrà:
A) v.28: l'angelo va verso la fanciulla sollecitandola alla gioia, da un lato; e investendola di una missione, dall'altro;
B) vv-29-31: Maria è turbata per l'inconsueta parola dell'angelo, che le annuncia il concepimento e il parto di un bambino a cui dovrà imporre il nome di Gesù;
C) vv.32-35: viene definita la natura e l'identità del bambino e le modalità del suo concepimento;
B1) vv.36-37: la parola di Dio è onnipotente così che anche Elisabetta ha concepito pur nella sua vecchiaia;
A1) v.38: Maria accoglie in se stessa la missione affidatale da Dio e l'angelo se ne va.
Il parallelismo di A e A1) è dato per complementarietà: in A) l'angelo investe la fanciulla di una inattesa missione; in A1) Maria accoglie la missione affidatale. In B) Maria è turbata per la parola dell'angelo, che le annuncia il concepimento e il parto di un bambino; in B1) l'angelo rassicura Maria circa l'onnipotenza e l'affidabilità della parola di Dio, che, come in lei, ha già operato similmente in Elisabetta. La lettera C) costituisce il cuore dell'annuncio ed è circoscritta a sua volta da un'inclusione, data dalle due espressioni identiche con cui si apre e si chiude questa pericope centrale: “Sarà chiamato Figlio dell'Altissimo” in 32a; e “sarà chiamato Figlio di Dio” in 35b.
Il v.28 si apre con un movimento dell'angelo verso Maria. Il movimento è rimarcato sia dal verbo “e„selqën” (eiseltzòn), in cui la particella “e„j” (eis) evidenzia un moto verso luogo, sia dalla preposizione “prÕj” (pròs), che indica non solo una andare verso qualcuno, l'essere rivolto verso qualcuno, ma anche il rimanervi appresso. Un movimento, quindi, che dice tutta l'attenzione di Dio nei confronti di questa fanciulla. La storia della salvezza, proprio con questo movimento, inizia ora a prendere forma storica, concreta e si sta incentrando su questa ragazzina, che all'epoca in cui rimase incinta di Gesù non doveva avere più di 16 o 17 anni, l'età in cui per le donne si metteva su famiglia; mentre per gli uomini l'età consigliata era i 18 anni, secondo i solleciti di Pirkè Abot o Massime dei Padri49. Un approccio completamente diverso si è avuto, invece, con Zaccaria al quale l'angelo ha imposto la sua presenza. I verbi qui usati sono, infatti, “êfqh de aÙtù” (óftze de autô, gli apparì) e “˜stëj” (estòs, stava diritto). Due approcci che rispecchiano due modalità completamente diverse di percepire Dio: nell'A.T. Dio è sentito il Signore che impone la sua volontà, espressa nella Torah; un Dio a cui il popolo appartiene, ne è sua proprietà; mentre nel N.T. Dio non è più il Signore che s'impone, ma che si avvicina all'uomo, si orienta verso di lui, ne ha interesse e ne prova compassione. Non è più l'uomo per Dio, ma Dio per l'uomo. È radicalmente cambiato l'orientamento dell'interesse: non più teocentrico, bensì antropocentrico. Un orientamento che Gv 3,16 sottolinea con grande forza: “Così, infatti, Dio amò il mondo, che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna”; un orientamento che Luca riesce ad incarnare in modo efficace nella sua parabola dell'uomo che incappò nei briganti, mentre discendeva da Gerusalemme verso Gerico: “Ma un Samaritano, mentre viaggiava, venne presso di lui e, visto(lo), fu mosso a compassione, e, avvicinatosi, fasciò le sue ferite, versando sopra olio e vino; ora, fattolo salire sul proprio giumento, lo condusse in un albergo e si prese cura di lui” (Lc 10,33-34). Un Samaritano in cui Luca vede raffigurato Gesù, il Dio che si è fatto compassionevolmente vicino agli uomini e per gli uomini. Un concetto questo che è stato dogmatizzato anche nel nostro stesso atto di fede: “per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”. Al centro di tutto non ci sta più Dio, ma l'uomo verso cui Dio volge tutta la sua attenzione e i suoi interessi, facendosi vicino a lui nella persona di Gesù, per poterlo rendere nuovamente partecipe della sua stessa vita, così che credendo in lui “non perisca, ma abbia la vita eterna”. La storia della salvezza è proprio questo costante movimento di Dio verso l'uomo, finalizzato a ricondurlo in seno a se stesso, da dove se ne fu uscito in modo drammatico e con conseguenze catastrofiche.
Il saluto che l'angelo rivolge a Maria è scandito in tre momenti: “Rallegrati, riempita di grazia, il Signore (è) con te”. Benché il verbo “ca‹re” (caîre, rallegrati), posto all'imperativo, come in questo caso, assume il senso di un semplice saluto, che ha il suo corrispondente latino in “salve, vale, ave”, tuttavia il contesto teologico, cristologico e messianico in cui è posto (vv.32-35) gli assegna un significato particolare. È dunque il contesto che qui definisce il vero significato di “ca‹re”. Per questo mi sono sentito obbligato a tradurre questo saluto con “Rallegrati”. Un'espressione verbale questa che ritroviamo identica in Gl 2,21: “Non temere, terra, ma rallegrati e gioisci, poiché cose grandi ha fatto il Signore”; in Sof 3,14: “Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!”; in Zc 2,14: “Gioisci50, esulta, figlia di Sion, perché, ecco, io vengo ad abitare in mezzo a te - oracolo del Signore -” e in Zc 9,9: “Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d'asina”. Tutti testi profetici che richiamano molto da vicino quanto sta accadendo attorno a questa fanciulla. Sof 2,21 trova una sua eco nel Magnificat: “poiché il Potente mi ha fatto grandi cose” (1,49a); mentre Zc 2,14 e 9,9 sollecita la figlia di Sion, in cui può essere ravvisata la figura di Maria, a rallegrarsi per la venuta del re messianico, che Lc 1,32b vede sedere sul trono di Davide; mentre Sof 3,14, riferendosi sempre alla figlia di Sion, la invita a gioire e a rallegrarsi in senso assoluto per quanto sta accadendole. Quella gioia ed esultanza di cui è pervaso l'intero racconto dell'incontro tra Elisabetta e Maria.
Il saluto si conclude con l'espressione “il Signore (è) con te”, un'espressione tipica che accompagna sempre l'affidamento di una missione51. Essa dice non solo che il prescelto è sostenuto da Dio nella missione affidatagli, ma anche come questa missione è conforme al suo volere e trova in lui le sue radici. Il prescelto, pertanto, con questo saluto bene augurante, sa di avere dalla sua Dio e sa di far parte di un progetto divino vincente.
Il saluto dell'angelo è rivolto a Maria, ma stranamente nel saluto non è riportato il nome del destinatario. Ci saremmo aspettati: “Rallegrati, Maria, il Signore è con te”. Al posto del nome Luca inserisce, invece, un participio perfetto: “kecaritwmšnh” (kecaritoméne) in forma medio-passiva, che abbiamo tradotto con “riempita di grazia”, tale è il significato del verbo “caritÒw”. Si tratta di una forma di passivo teologico, che rimanda l'azione del riempire a Dio stesso; ma l'uso del perfetto fa assumere a quel “riempita di grazia” un significato del tutto particolare. Il perfetto, infatti, esprime uno stato presente che risulta quale conseguenza di un'azione passata. La pienezza di grazia, pertanto, ha le sue radici in un progetto divino, che si colloca al di là della creazione stessa, allorché Dio “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà” (Ef 1,4-6a). Vi è pertanto in questa pienezza di grazia un disegno che toglie ogni casualità allo stato di grazia di questa fanciulla. Rm 8,28-30 sottolinea come: “[...] noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati”. Non più Maria, dunque, ma il nuovo nome di questa fanciulla è “kecaritwmšnh”, “Riempita di grazia”, che la colloca all'interno di un progetto divino fin dall'eternità. Il nome presso gli antichi esprimeva l'essenza stessa della persona che lo portava e ne significava l'intima sua natura e sovente racchiudeva in se stesso il senso del suo esistere e della missione a cui era chiamato già in quel nome. La sostituzione di nome e l'assegnazione di un nome nuovo rispetto a quello originario dice come quella persona sia stata chiamata e predestinata a compiere una missione52 e rivela come in essa sia avvenuta una trasformazione esistenziale che la colloca in un nuovo e completamente diverso stato di vita53.
Il v.29 presenta la normale reazione dell'uomo all'irrompere del divino nella storia e in particolar modo nella sua vita. Lo stesso è accaduto anche per Zaccaria, il quale “fu sconvolto e una paura piombò su di lui” (v.12). Ma mentre Zaccaria è turbato a motivo dell'angelofania, il turbamento di Maria è causato dalla parola dell'angelo. Diversi sono i due tipi di turbamento che vengono prodotti in Zaccaria e in Maria: per Zaccaria il turbamento produce paura e sconvolgimento; per Maria il turbamento non è sconvolgente, ma provoca in lei una riflessione. Il verbo che qui definisce la riflessione di Maria, dielog…zeto (dieloghízeto), è posto all'imperfetto indicativo, un tempo questo che in greco indica il persistere dell'azione del riflettere in Maria, rilevando la profonda risonanza che ha avuto in lei la parola dell'angelo. Il turbamento di Zaccaria si pone a livello emotivo, mentre in Maria si colloca a livello spirituale. Essa infatti è colpita dalla parola che l'angelo le consegna e non dalla sua presenza. Viene così accentuata la profonda sensibilità spirituale di Maria. Del resto lei è la “riempita di grazia” e, proprio per questo, essa sa instaurare un profondo legame e una profonda intesa con Dio.
I vv.30-31 introducono l'annuncio dell'angelo e sono scanditi in due momenti. Il v.30 fa parte degli standard dei racconti di teofanie: a fronte del timore e della paura che turbano il prescelto, Dio lo rassicura: “Non temere”; un'espressione questa che ricorre circa una cinquantina di volte nei racconti veterotestamentari di teofanie, di vocazione e di assegnazione di missioni. Il motivo di questa rassicurazione è l'aver trovato grazia presso Dio. Se l'essere “riempita di grazia” significa essere investita dall'azione di Dio, che la riempie di sé e la rende partecipe e collaboratrice al suo progetto di salvezza, diventando in tal modo Maria spazio storico e umano dell'agire di Dio; l'aver “trovato grazia” dice che essa è stata posta, per il suo stato di “riempita di grazia”, al centro dell'interesse e delle attenzioni di Dio. Il v.31 è il cuore del vero e proprio annuncio, che si dispiega con quella crudezza e con quella concretezza che sono proprie dell'evento storico: “Ed ecco concepirai nel tuo utero e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Gesù”. Un modo di fraseggiare che richiama da vicino il ritmo di Gal 4,4: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge”. Non c'è nulla di commovente o di romantico in questa nascita, nulla di gioioso, ma soltanto tre dati scarni, secchi ed essenziali, messi lì in fila, uno dietro all'altro, come tre punti di un progetto già stabilito altrove e che la fanciulla è chiamata ad attuare. Tre punti che scandiscono i tempi di attuazione: “concepirai nel tuo utero e partorirai un figlio e chiamerai il suo nome Gesù”. Il linguaggio qui è sostanzialmente burocratico. Completamente diverso, pieno di gioia, di esultanza e di frizzante di vitalità, che si espande e coinvolge tutti, è l'annuncio dell'angelo a Zaccaria: “Ora l'angelo disse verso di lui: <<Non temere Zaccaria, perché la tua preghiera è stata esaudita, e tua moglie Elisabetta ti genererà un figlio e chiamerai il suo nome Giovanni. E sarà per te gioia ed esultanza e molti gioiranno per la sua nascita” (vv.13-14). La diversità dei toni ha la sua motivazione nella diversa origine dei due concepimenti e delle due nascite: per Zaccaria questi sono il frutto di un esaudimento delle sue preghiere e la realizzazione delle sue attese e delle sue speranze; per Maria questi hanno il loro radicamento in un progetto divino a cui Maria è totalmente estranea, ma in cui, suo malgrado, viene inaspettatamente coinvolta. Il movimento in Zaccaria è orizzontale, ma che Dio recepisce nel suo progetto; in Maria il movimento è verticale, parte da Dio e coinvolge l'uomo.
In parallelo ai vv.14-17, con cui Luca aveva presentato l'identità di Giovanni, dopo l'annuncio del suo concepimento e della sua nascita, anche i vv.32-37, dopo l'annuncio del concepimento e della nascita di Gesù, presentano ora l'identità di Gesù. Più che un annuncio si tratta di un vero e proprio trattato di teologia e di cristologia, che si muove su di uno sfondo messianico e trinitario, in cui gli interventi di Maria sono soltanto funzionali e non determinanti ai fini narrativi. Se infatti questi venissero tolti, l'annuncio dell'angelo diventerebbe più omogeneo, più compatto e più scorrevole. L'annuncio consta di tre momenti: a) la definizione dell'identità di questo bambino: egli ha origini divine e realizza le attese messianiche di linea davidica (vv.32-33); b) vengono descritte le modalità del concepimento, sottolineando una volta di più la figliolanza divina di questo bambino (v.35); c) a riprova della veridicità dell'annuncio viene dato, benché non richiesto da Maria, un segno (v.36-37). L'annuncio dell'angelo, riguardante l'identità di Gesù (vv.32-35), costituisce la parte centrale dell'intero annuncio ed è delimitato, come si è visto sopra (pag.43), da un'inclusione data dalle due identiche espressioni “sarà chiamato Figlio dell'Altissimo” (v.32a) e “sarà chiamato Figlio di Dio” (v.35b).
Il v.32 è scandito in due parti: la prima, v.32a, definisce la natura e l'origine divina di questo bambino: “egli è grande” ed è “Figlio dell'Altissimo”. I vv.32b-33 ne definiscono la natura messianica: “gli darà il Signore Dio il trono di Davide suo padre, e regnerà sulla casa di Giacobbe per i secoli e non vi sarà una fine del suo regno”. Il v.32a attribuisce al bambino la qualifica di “grande” senza alcuna specificazione. Ed è proprio questo assoluto che definisce la divinità del bambino. Già si è detto (pag.30) come anche Giovanni viene definito “grande”, ma egli lo è nei confronti del Signore (v.15). Qui, invece, Gesù è soltanto “grande”, con chiaro riferimento alla sua natura divina. Nell'A.T., infatti, l'attributo “grande” viene riferito esclusivamente a Dio e ricorre sette volte54. E che tale sia il senso della divinità di questo bambino, viene specificato dall'espressione immediatamente seguente: “sarà chiamato figlio dell'Altissimo”, in cui l'attributo “Altissimo” ricorre ben 107 volte nell'A.T. con esclusivo riferimento a Dio, sia perché all'attributo è associato al nome di Dio, sia perché Dio è indicato con il solo attributo di “Altissimo”. Il bambino, dunque, non solo è di natura divina, in quanto “grande”, ma è anche di origine divina, in quanto “figlio dell'Altissimo”. Un'ultima annotazione va riservata al verbo “sarà chiamato” (klhq»setai, kaletzésetai). Il verbo è qui posto al passivo ed assume pertanto una connotazione teologica o divina, nel senso che è Dio stesso che chiama quel bambino “figlio dell'Altissimo” e “figlio di Dio”, riconoscendolo come tale e, quindi, a lui appartenente per generazione e per natura. Vedremo come sia nel racconto del battesimo di Gesù che in quello della trasfigurazione il Padre indicherà quel uomo Gesù come suo “figlio prediletto” (Lc 3,22; 9,35).
I vv. 32b-33 si rifanno alle aspettative messianiche tradizionali del Giudaismo e il riferimento qui è a 2Sam 7,12-16. Un messianismo davidico attribuito a Gesù che riecheggerà ancora in Lc 18,38.39 e 20,41 e nell'inno di Zaccaria in 1,69: “e risvegliò per noi (il) corno della salvezza nella casa di Davide, suo figlio”, in cui il “corno della salvezza” allude alla potenza salvifica di Dio manifestatasi e operante nel figlio Gesù, appartenente al casato di Davide. In tal modo Luca vede l'attuarsi del messianismo davidico in Gesù, definito quale potenza salvifica di Dio, suscitata dal Dio d'Israele, il Dio delle promesse fatte ad Abramo e a Davide, che ora si realizzano e si rendono presenti in Gesù.
Il v.34 costituisce una sorta di intermezzo finalizzato, nel contesto narrativo, a spingere l'angelo a proseguire nel suo annuncio, focalizzandolo sull'eccezionalità dell'evento del concepimento: “Come sarà questo, poiché non conosco55 uomo?”. Fa parte dello standard dei racconti di annuncio l'opporre delle obiezioni e degli ostacoli a quanto annunciato, il cui intento narrativo è quello di approfondire il senso e le dinamiche di quanto annunciato. Ma ciò che qui stupisce è il contenuto di questa obiezione, poiché dal contesto narrativo il lettore sa che la fanciulla era “fidanzata ad un uomo, che (aveva) nome Giuseppe”. E quindi Maria era attrezzata per poter realizzare quanto annunciatole dall'angelo. Perché, dunque, la fanciulla pone di mezzo questo ostacolo incomprensibile? Quanto detto da Maria all'angelo va ricompreso all'interno del contesto storico-sociale e culturale dell'epoca. La scelta della verginità non era apprezzata presso l'ambiente giudaico sia perché violava il comando genesiaco divino di moltiplicarsi e di riempire la terra (Gen 1,28); sia perché il non procreare riduceva o ritardava la venuta del Messia, costituendone in tal modo un ostacolo; sia perché, infine, la mancanza di figli era considerata una maledizione divina. Elisabetta, infatti, ringrazierà Dio per averle dato un figlio, togliendo così la sua ignominia tra gli uomini (v.25). È difficile, poi, pensare che una ragazzina, poco più che una bambina, avesse voluto consacrare la sua verginità a Dio, all'insaputa del suo fidanzato, imponendogli così la sua verginità a matrimonio avvenuto; o anche in accordo con lui. In entrambi i casi il matrimonio sarebbe stato soltanto una farsa, che violava ogni principio ed ogni diritto istituzionale proprio del matrimonio. Come, poi, spiegare alla gente l'assenza di figli? Tutto sarebbe stato impiantato su di una menzogna e su di una dissacrazione di un istituto divino (Gen 2,24). Certo si può opporre l'esempio di Qumran dove vi erano anche persone celibatarie in vista della venuta del Signore. Queste vivevano in un forte contesto escatologico e apocalittico, preparandosi ad uno scontro finale, inteso in senso fisico, tra i figli della luce e quelli delle tenebre. Si trattava di un contesto eccezionale che non può essere addotto a sostegno della verginità elevata a scelta di vita e tanto meno ad atto di consacrazione a Dio, come invece sembrerebbe apparire dall'obiezione di Maria, letta così superficialmente. La questione del voto di verginità consacrata di Maria, letta nella risposta data all'angelo, si radicalizzò, in particolar modo nel mondo cattolico, dove s'impose il dogma della verginità di Maria prima, durante e dopo il parto, con la presa di posizione di S.Agostino (354-430) nel suo trattatello sulla “Santa verginità”: “Già prima d'essere concepito volle scegliersi, per nascere, una vergine consacrata a Dio, come indicano le parole con le quali Maria replicò all'Angelo che le annunziava l'imminente maternità. Come potrà accadere una tal cosa - disse - se io non conosco uomo?. E certo non si sarebbe espressa in tal modo se prima non avesse consacrato a Dio la sua verginità. Ella si era fidanzata perché la verginità non era ancora entrata nelle usanze degli ebrei; ma s'era scelta un uomo giusto, che non sarebbe ricorso alla violenza per toglierle quanto aveva votato a Dio, che anzi l'avrebbe protetta contro ogni violenza. […] fu lei stessa a consacrare a Dio la sua verginità quando ancora non sapeva chi avrebbe concepito” (De sancta verignitate, 4,4). Una lettura quella di S.Agostino che lascia un po' perplessi poiché da un lato egli legge il racconto dell'annunciazione come un evento di cronaca dell'epoca realmente accaduto e quindi il dialogo tra l'angelo e Maria come storicamente avvenuto; dall'altro presenta il fidanzamento e il matrimonio tra Maria e Giuseppe come una finzione finalizzata a nascondere il voto di verginità di Maria. È pertanto molto difficile se non impossibile sostenere la tesi del voto di castità e della consacrazione verginale fatta da Maria.
Tuttavia l'obiezione mossa da Maria potrebbe essere compresa nell'ambito del suo stato giuridico di “fidanzata”, cioè di donna di fatto sposata ma non ancora convivente. L'avere figli in questo contesto sarebbe stato sconveniente, anche se non scandaloso e certamente non illegittimo, poiché, come s'è visto sopra, il fidanzamento faceva già parte dell'istituto del matrimonio e ne beneficiava di fatto di tutte le tutele e i figli nati durante questo periodo erano considerati del tutto legittimi. In questo contesto Maria, pensando al suo stato di promessa sposa e sentendo la sconvenienza di quanto le si prospettava, oppone all'annuncio dell'angelo questa sua obiezione, pensando di dovere attuare subito quanto detto dall'angelo. Se questa soluzione sembra essere la più logica e che meglio fa comprendere e giustifica la risposta di Maria, tuttavia essa presenta una certa macchinosità di ragionamento. Forse la cosa più semplice e immediata per giustificare una simile risposta all'angelo è da ricercarsi all'interno della dinamica narrativa, che si rifà agli standard narrativi degli annunci: all'annuncio il prescelto oppone la sua obiezione, che spinge l'angelo a proseguire e ad approfondire il suo annuncio, come avverrà nei successivi vv.34-35. E l'obiezione più ovvia e scontata era che Maria non poteva concepire perché era soltanto “promessa sposa” e quindi ancora non si era congiunta al suo sposo. L'uso del verbo al presente indicativo, “non conosco”, rimanda al suo stato attuale di “promessa sposa”, ma non ancora convivente. Del resto qui Luca non intende sviluppare una mariologia, che invece apparirà in modo sistematico intorno al quarto/quinto secolo, bensì una cristologia, cercando di evidenziare come la nascita di Gesù non fosse opera dell'uomo, ma di Dio e come la sua origine fosse squisitamente divina. Questo lo ha potuto fare soltanto facendo dire a Maria che non aveva mai conosciuto uomo.
Il v.35 risponde all'obiezione di Maria, ma nel contempo evidenzia come in quel bambino ci sia il DNA di Dio e come tutto ciò sia diretta opera divina. Gesù, quindi, pur passando attraverso un utero materno per entrare nella storia, è Dio stesso, concepito in Maria dalla stessa potenza operatrice e fecondatrice divina: lo Spirito Santo. Da qui la sua doppia natura di uomo e di Dio.
Il v.35 è scandito in due parti: la prima indica l'agente su Maria: “Lo Spirito Santo si stenderà su di te e la potenza dell'Altissimo ti adombrerà”; la seconda le conseguenze di questa azione in lei: “per questo anche ciò che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio”. Quanto alla prima parte, questa è sinonimica, una caratteristica figura della retorica ebraica che il Meynet chiama “binarietà”56, per cui uno stesso concetto viene ripetuto con espressioni diverse, il cui intento è approfondire con la seconda espressione l'enunciato della prima: Spirito Santo e potenza dell'Altissimo sono due sinonimi, ma quest'ultima dice la natura dello Spirito Santo: egli è potenza dell'Altissimo e in quanto tale è forza creatrice e fecondatrice, capace di creare e infondere vita, la cui origine non può che essere divina. L'intera scena di questa prima parte richiama da vicino la nube della presenza divina che adombra, ricopre e riempie il tempio della gloria di Dio, la shekinah. Essa compare sulla tenda del convegno, il primo tempio in cui dimorava la presenza di Jhwh e che accompagnava e guidava il cammino del popolo d'Israele nel deserto (Es 40,34-37); compare sul tempio di Salomone (1Re 8,10-13) ed infine essa si manifesta nelle teofanie sotto forma di nube (Es 13,21; 16,10; 19,9.16; 20,21; 24,16). Su e in Maria, pertanto, opera la potenza creatrice di Dio, che fin da principio “aleggiava sulle acque” (Gen 1,2b), quasi ad annunciare che quanto sta avvenendo in lei ha il carattere di una nuova creazione e in qualche modo la preannuncia.
La seconda parte del v.35 presenta gli effetti di questa opera creatrice e santificatrice dello Spirito Santo, potenza dell'Altissimo: “per questo anche ciò che nascerà santo sarà chiamato Figlio di Dio”. La santità è una prerogativa esclusiva di Dio, indica un suo stato di vita, che dice la sua netta separazione da tutto ciò che è altro da Dio. Il concetto di santità implica il concetto di “separazione” e di “appartenenza” (Lv 20,26). Essere santo, pertanto, significa appartenere all'alea della divinità. Israele, ai piedi del Sinai, è stato dichiarato proprietà di Dio e, per questo, popolo santo e regno di sacerdoti (Es 19,5-6). Per questo Dio esige dal suo popolo una continua conversione, incitandolo ad essere santo perché Lui lo è: “Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo” (Lv 19,2b). Una conversione che è un cammino di separazione verso una diversa appartenenza: dalle cose verso Dio. Il v.35b si apre con un'espressione significativa: “diÕ kaˆ” (diò kaì, per questo anche), che innesca una sorta di comparazione, che ha una conseguenza: “per questo”, con il quale ci si aggancia al v.35a, che annuncia l'azione creatrice e santificatrice dello Spirito Santo, mentre quel “anche” riversa gli effetti dell'azione pneumatica su “ciò che nascerà”, definito, proprio per questa azione santificatrice, “santo”, cioè proveniente da Dio e appartenente alla sua alea divina. Un concetto questo che verrà ripreso da Giovanni nel suo vangelo e ne fa un atto di professione di fede, che ha il sapore di un'antica di formula di fede57: “e noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Santo Dio” (Gv 6,69). Tutto ciò fa sì che ciò che nascerà a motivo dell'azione pneumatica sia investito della stessa santità di Dio, che da un lato separa quel bambino da tutto e tutti; e dall'altro viene posto sotto il segno dell'appartenenza a Dio, non tanto come “proprietà divina”, quanto come essere divino. Il v.35b si conclude con l'espressione “sarà chiamato Figlio di Dio”. Il verbo qui posto al passivo (klhq»setai, kletzésetai, sarà chiamato) è un passivo teologico o divino, che rimanda l'azione a Dio stesso. Esso ha qui il significato di “essere riconosciuto” quale Figlio di Dio a motivo della sua santità, il segno non solo dell'appartenenza a Dio, ma del suo stesso essere Dio. In quel bambino promesso Dio riflette se stesso. Quel bambino è lo stesso spazio storico di Dio, in cui egli opera il suo disegno di salvezza.
I vv.36-37 riportano il segno che imprime la veridicità alle parole dell'angelo. Fa sempre parte dello standard dei racconti di annunci: all'obiezione contrapposta all'annuncio, il prescelto in genere aggiunge anche la richiesta di un segno. È ciò che è avvenuto anche per Zaccaria, che in 1,18 chiede all'angelo: “Su che cosa conoscerò questo? Io infatti sono vecchio e mia moglie si è avanzata nei suoi giorni”. Anche se Maria non ne ha fatto esplicita richiesta, come per Zaccaria, tuttavia, in quel “Come avverrà questo” si potrebbe leggerne un'implicita esigenza. Comunque, al di là della richiesta o meno da parte di Maria, la consegna di un segno è qui imposta dalla stessa economia narrativa: lo esige lo schema narrativo dei racconti di annunci; lo impone il v.24b, in cui Elisabetta tenne nascosto il suo stato di gravidanza, proprio in funzione di questo segno, che l'angelo doveva offrire a Maria. Ma vi è anche un ulteriore motivo per cui questo segno viene dato: esso in qualche modo anticipa narrativamente il quadro seguente: l'incontro tra Maria ed Elisabetta (vv.39-56). C'è quindi, al di là della domanda, tutta una logica narrativa che lo richiede. Tuttavia, se il segno può soddisfare nel prescelto l'esigenza di una prova rassicurante, ciò che più deve contare per Maria è sapere che la parola di Dio è onnipotente e supera ogni ostacolo, anche quello imposto dalla natura come la sterilità, la vecchiaia o la mancata fecondazione umana: “ogni parola presso Dio non sarà impossibile” (v.37). Un'espressione che l'autore ha quasi certamente mutuata da Gen. 18,13-14, dove Sara, ormai in piena vecchiaia, sorride al sentirsi dire che concepirà e partorirà un figlio: “Ma il Signore disse ad Abramo: <<Perché Sara ha riso dicendo: Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia? C'è forse qualche cosa d'impossibile per il Signore? Al tempo fissato tornerò da te alla stessa data e Sara avrà un figlio>>”. Il contesto di Gen 18,13-14 è sostanzialmente identico al nostro, per cui nel v.37 vi si può leggere un implicito richiamo all'incredulità di Sara a cui si contrappone qui, v.38, la piena adesione di Maria all'onnipotenza della parola divina.
Il v.38 chiude il racconto dell'annuncio del concepimento prodigioso a Maria, rifacendosi ad un titolo biblico che Luca assegna a Maria e che ricorre 27 volte in tutto l'A.T. : “servo del Signore” o “servo di Dio”. Tale titolo è riservato esclusivamente a tre personaggi: Mosè, a cui il titolo è assegnato 23 volte con entrambe le formule; due volte a Giosuè, il diretto successore di Mosè, colui che condurrà Israele alla presa di possesso della terra promessa, dando così continuità e compimento alla promessa fatta da Dio ad Abramo (Gen 12,1; 28,13); due volte a Davide, il re a cui Dio ha promesso la stabilità della sua discendenza e del suo regno (2Sam 7,12-16), che viene qui attuata in Maria, la nuova serva del Signore58. L'uso dell'espressione “serva del Signore” associa, pertanto, Maria ai grandi personaggi veterotestamentari, quelli che hanno collaborato con Dio nel portare a compimento il suo progetto di salvezza; quelli a cui è associata la promessa alla quale, ora, essa dà attuazione storica. Maria, pertanto, con questo titolo, viene posta da Luca al vertice dell'intera storia d'Israele, che è storia di una promessa che trova in lei il definitivo luogo storico della suo compimento. Se il titolo di “serva del Signore” associa Maria ai grandi personaggi della storia di Israele, la sua piena e totale disponibilità alla collaborazione con Dio nel suo progetto di salvezza dà consistenza e significato al titolo di “serva del Signore”: “mi avvenga secondo la sua parola”. Un'espressione che dice l'accoglienza in se stessa della parola di Dio e la sua totale e piena conformazione esistenziale ad essa. È dunque con questo suo “Fiat” che Maria concepisce in se stessa, dandole forma corporea, il Figlio di Dio, generandolo qui nella storia ed offrendolo all'intera umanità e, quindi, a pieno titolo va riconosciuta quale madre di Dio.
L'ampia sezione degli annunci di concepimenti prodigiosi di Giovanni e di Gesù trova qui la sua conclusione: “E l'angelo se ne andò da lei”. È un punto fermo che Luca mette a questa sezione narrativa. Quel punto che non aveva messo a conclusione dell'annuncio a Zaccaria, poiché la missione di Gabriele ancora non era terminata.
Terzo quadro: l'incontro tra Maria ed Elisabetta (1, 39-56)
Testo a lettura facilitata
Introduzione (v.39-40)
39 – In quei giorni Maria, alzatasi, partì con sollecitudine verso una (regione) montuosa, in una città della Giudea,
40 – ed entrò nella casa di Zaccaria e salutò Elisabetta.
Il canto di Elisabetta celebra la grandezza di Maria (vv.41-45)
41 – Ed avvenne (che), come Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino sobbalzò nel suo ventre, ed Elisabetta fu riempita di Spirito Santo,
42 – e gridò con un grande grido e disse: <<Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre.
43 – In che modo questo a me, che venga la madre del mio Signore da me?
44 – Infatti, ecco, come vi fu la voce del tuo saluto alle mie orecchie, il bambino sobbalzò in esultanza nel mio ventre.
45 – E beata colei che ha creduto che ci sarà compimento per quelle cose che le sono state dette dal Signore!>>.
L'inno di Maria celebra le grandi opere del Signore (vv.46-55)
46 – E disse Maria: <<La mia anima glorifica il Signore,
47 – ed esultò il mio spirito in Dio mio salvatore,
48 – poiché volse lo sguardo sulla bassezza della sua serva. Ecco, infatti, da ora tutte le generazioni mi chiameranno beata,
49 – poiché il Potente mi ha fatto grandi cose. E santo il suo nome,
50 – e la sua misericordia per generazioni e generazioni a coloro che lo temono.
51 – Fece potenza nel suo braccio, disperse superbi nel modo di pensare del loro cuore;
52 – abbassò potenti dai troni e innalzò miseri,
53 – riempì di cose buone gli affamati e quelli che sono ricchi ricchi mandò via spogli.
54 – Venne in soccorso d'Israele suo figlio, (nel) ricordarsi della (sua) misericordia,
55 – come parlò ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per i secoli.
Chiusura del racconto (v.56)
56 – Ora Maria rimase con lei circa tre mesi e (poi) ritornò a casa sua.
Note generali
Tra i racconti dei due annunci di concepimenti prodigiosi di Giovanni (vv.5-25) e di Gesù (vv.26-38) e quelli delle loro nascite (vv.57-79; 2,1-20), Luca colloca l'intermezzo dell'incontro di Maria ed Elisabetta (vv.39-56). Una sorta di pausa di riflessione il cui obiettivo è duplice: a) far incontrare le due madri e in esse i due bambini. In realtà in queste due madri, che si riconoscono reciprocamente, Luca incrocia e annoda tra loro i due Testamenti. Elisabetta, infatti, è madre di Giovanni, l'ultimo dei profeti, colui che fa da spartiacque tra il Primo e il Secondo Testamento. Elisabetta, come Zaccaria, rappresenta l'ultimo atto, quello conclusivo, del Primo Testamento e in qualche modo ne è il vertice, che nel figlio preannuncia il Secondo Testamento (v.76), mentre lei, ripiena di Spirito Santo (v.41b), lo riconosce e lo accoglie, proclamando Maria la “madre del suo Signore”, l'atteso dalle genti (2,25.38). Da parte sua Maria, nel ringraziare e nel glorificare Dio per quanto ha fatto in lei (vv.46-48), riconosce e proclama le opere di Dio compiute a partire da Abramo fino a lei (vv.49-55). Vi è dunque nei cantici delle due donne, figure dei due Testamenti, il riconoscersi e l'accettarsi reciprocamente, non contrapponendosi, ma abbracciandosi tra loro, facendo dei due Testamenti un unico atto salvifico di Dio, scandito in due tempi. b) La seconda finalità di questo intermezzo è celebrare attraverso una liturgia innica le grandi opere di Dio che si sono compiute in loro e per mezzo loro estese all'intera umanità. Il tutto è finalizzato a rilevare il carattere teologico e cristologico dei due eventi di concepimento prodigioso. Il racconto dell'incontro tra Maria ed Elisabetta diviene pertanto una sorta di cassa di risonanza dei due eventi prodigiosi, che spingono il lettore a soffermarsi per meditarli e unirsi, assieme alle due madri, alla liturgia di lode e di ringraziamento da loro celebrata.
Il racconto dell'incontro di Maria ed Elisabetta costituisce un'unica unità narrativa delimitata dall'inclusione, data dai due movimenti uguali-contrari di Maria: Maria “entrò nella casa di Elisabetta” in 40a; mentre in 56b “ritornò a casa sua”. All'interno di questa inclusione il racconto si suddivide in due parti: a) il canto di Elisabetta, che riconosce in Maria la madre del suo Signore (vv.41-45); b) l'inno di lode e di ringraziamento di Maria per le grandi opere che il Signore ha compiuto in lei (vv.46-55). Le due parti sono precedute da una breve introduzione (vv.39-40) e concluse dal v.56. All'interno di queste due macro divisioni Luca ridistribuisce il materiale narrativo su altre substrutture, come avremo modo di vedere di seguito nel commento. L'intento è quello di mettere in evidenza gli aspetti maggiormente rilevanti del significato dei due concepimenti, incorniciati all'interno di una liturgia di lode e di ringraziamento in cui il lettore è coinvolto.
Un ultimo appunto va messo sulla natura del racconto. Va detto che si tratta di un'invenzione lucana e certamente non di un episodio storicamente accaduto. Molti gli indizi che spingono a pensarlo. Non viene precisato, se non vagamente, il rapporto che intercorre tra Maria ed Elisabetta, definita genericamente “tua parente” (v.36a), senza precisarne il grado di parentela, mentre la lingua greca, a differenza di quella ebraica, possiede una notevole ricchezza di termini per indicare i vari e diversi gradi di parentela e le loro sfumature. Luca si dichiara uno storico che vuole raccontare con precisione e ordinatamente gli eventi, che ha seguito da vicino in prima persona (v.3), ma si dimostra in questo racconto molto generico, impreciso e talvolta incongruente. Generica è, infatti, la località dove abita Elisabetta: “una regione montuosa, in una città della Giudea” (v.39). Non viene detto il motivo, anche se intuibile e deducibile dalle parole dell'angelo (v.36), per cui Maria si reca da Elisabetta. Non è pensabile che una ragazzina di appena 15-16 anni si metta in viaggio da sola e percorra a piedi una distanza, tra andata e ritorno, di circa 200-250 Km e che Giuseppe, conoscendo certamente il suo stato di gravidanza, la lasci partire senza problemi. Similmente si può dire per i genitori di Maria. Non si dice che cosa Maria, una volta giunta presso Elisabetta, abbia fatto, ma tutto si riduce ad un saluto che sfocia poi in una sorta di liturgia di lode e di ringraziamento per le opere portentose di Dio. È strano come Maria rimanga presso la sua parente tre mesi, ma non ne assista il parto, considerato che quando se ne partì Elisabetta era giunta al nono mese. Non è da pensare che Maria si sia recata da Elisabetta per darle un aiuto, considerando il suo stato di gravidanza e la sua età avanzata. Elisabetta non era sola e poteva contare sui vicini e sui parenti che certamente non mancavano (v.58a). Da questo insieme di osservazioni e considerando il contenuto di questo racconto, una sorta di celebrazione liturgica, si può con una certa tranquillità affermare che Luca non pensasse a riportare un evento realmente accaduto, ma abbia invece voluto creare una sorta di narrazione celebrativa, che costituisce l'essenza e la finalità di questo racconto, posto a conclusione dei due racconti di concepimento prodigioso.
Considerato che il racconto è un'invenzione lucana, da dove Luca ha tratto la sua ispirazione per la sua composizione? Quale modello veterotestamentario si muove sullo sfondo di questo racconto? Molti esegeti e in particolar modo i teologi vedono in questo racconto un'eco di 2Sam 6,1-15: l'arca dell'alleanza che sale verso Gerusalemme, si ferma tre mesi presso Obed-Edom di Gat, dopo che Davide, preso da grande paura per quanto era successo ad Uzza, morto sul colpo per aver toccato l'arca che stava per cadere, aveva esclamato “Come potrà venire da me l'arca del Signore?”; ma dopo tre mesi l'arca riprese il suo cammino verso Gerusalemme, accompagnata da grida di gioia e danze. Sembra quindi che questo racconto abbia fornito da schema narrativo a quello lucano: Maria, la nuova arca dell'alleanza che, similmente all'antica arca, porta in se stessa la Parola, lascia Nazareth e va verso una regione montuosa verso Gerusalemme e giunta a casa di Elisabetta, accolta da grida di gioia e da una sorta di danza del bambino che portava in seno, vi rimane per tre mesi. Lo schema del racconto così come alcuni particolari significativi sono sostanzialmente sovrapponibile: i riferimenti all'arca che contiene in sé le tavole della Legge; i tre mesi che questa si è soffermata in casa di Obed-Edom, mentre il grido di Davide, spaventato per la morte di Uzza, e quello di Elisabetta sembrano quasi identici, benché notevolmente diversi i contesti: di terrore per Davide; di gioia incontenibile per Elisabetta; la danza di Davide e il sussulto del bambino si richiamano vicendevolmente. Tutto ciò considerato sembra inevitabile concludere che Luca abbia preso come schema narrativo del racconto della visitazione 2Sam 6,1-15. Per poter affermare una simile analogia e, quindi, affermare che Luca avesse preso a modello di riferimento per il suo racconto della Visitazione quello di 2Sam 6,1-15, è necessario affermare anche che qui Luca avesse concepito Maria come la nuova arca dell'alleanza. Questo concetto attiene alla mariologia cattolica, che ha fatto la sua prima timida apparizione verso la fine del II secolo con la comparsa sulla scena della letteratura di Giustino (100-165 ca) e di Ireneo (130-202), che per la prima volta contrapposero le due figure bibliche di Eva, da cui uscì la morte per l'intero genere umano; e Maria, da cui, invece, uscì la vita59. Prima di loro la figura di Maria non andava oltre a quanto dicevano i vangeli; mentre un vero e proprio culto sorgerà soltanto intorno IV/V sec. In particolar modo con il concilio di Efeso (431) in cui Maria per la prima volta è ufficialmente riconosciuta come Theotokos, Madre di Dio e come tale ufficialmente proposta alla venerazione dei credenti da parte della Chiesa, benché il culto a Maria e la sua venerazione fossero già diffuse presso il popolo, probabilmente già dal II sec. Diventa molto difficile, pertanto, attribuire a Luca una mariologia ancora del tutto inesistente. È, invece, molto più credibile pensare che Luca qui intendesse creare non una mariologia, pur avendone inconsapevolmente messe le basi per una sua futura nascita e un suo futuro sviluppo, bensì creare una sorta di contesto di santità e di sacralità liturgica entro cui viene collocato quel bambino di nome Gesù e la cui identità ha delineato efficacemente ai vv. 32-33. Qualsiasi diversa attribuzione diventa una forzatura, poiché si assegnerebbe a Luca un pensiero che non gli appartiene sia per diversità di intenti che di tempi storici. Si cadrebbe in buona sostanza in un anacronismo teologico e mariologico.
Commento ai vv. 39-56
Introduzione (v.39-40)
Il v.39 si apre con un'annotazione di tempo di marca redazionale, che sta ad indicare un cambiamento di scena, che viene posto non molto lontano dall'evento dell'annunciazione: “In quei giorni”. Sono i giorni che lo seguono immediatamente. In questo contesto temporale Maria viene colta in una condizione esistenziale decisamente dinamica. I verbi che seguono sono di moto, mentre l'avverbio imprime loro un maggiore slancio e potenza: “alzatasi”, “partì con sollecitudine”. Il verbo greco corrispondente all'alzarsi di Maria è “'Anast©sa” (anastâsa), un verbo tecnico, che nella chiesa primitiva indicava la risurrezione di Gesù. È un verbo che dice l'inizio di una nuova vita causata da una trasformazione avvenuta per opera della potenza dello Spirito Santo (v.35a). Il verbo è posto qui all'aoristo di tipo ingressivo, poiché il partire di Maria è conseguente al suo essersi levata; è il segno di un suo profondo cambiamento interiore. Con il suo alzarsi Maria indica l'inizio di una nuova vita, venutasi a creare in lei dopo l'annuncio accolto (v.38a). Il suo “alzarsi” e il suo “mettersi in cammino con sollecitudine” esprime tutto il dinamismo conseguente a questa trasformazione, che la potenza dello Spirito Santo ha operato in lei, rimarcato non soltanto da quel “partì”, ma anche dalle modalità con cui avviene questa sua partenza: “con sollecitudine”. Maria, dunque, è colei che inizia un nuovo cammino sotto l'egida dello Spirito, che la spinge “verso una (regione) montuosa, in una città della Giudea”. Il verbo, qui tradotto con “partì”, è in realtà un aoristo passivo, “™poreÚqh” (eporeútze), che dovrebbe essere tradotto con “fu sospinta”, “fu fatta partire”. Si tratta di un passivo teologico, la cui azione rimanda direttamente a Dio, il vero autore di quella partenza operata in Maria. Una partenza che dice come la storia della salvezza si sia messa in moto in Maria, sospinta “verso una (regione) montuosa, in una città della Giudea”. Un'indicazione così generica che ogni tentativo di individuazione è inutile60. Questa genericità dice come a Luca qui non interessi soffermarsi sui particolari, poiché i suoi intenti sono diversi e non vuole sviare l'attenzione del suo lettore su particolari che non servono alle sue finalità. Tutto deve incentrarsi su quanto sta per succedere, su quella liturgia di lode e di ringraziamento che costituirà il vero corpus di questo racconto e con il quale il lettore è chiamato ad unirsi alle due donne. Una genericità che richiama da vicino la stessa missione di Abramo: “Il Signore disse ad Abram: <<Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò>>” (Gen 12,1). Si tratta di una terra sconosciuta verso la quale Abramo è chiamato ad incamminarsi, lasciandosi guidare da Dio, di volta in volta; giorno dopo giorno; senza ma, senza se, senza perché, in piena e totale fiducia in Dio. Per questo Dio lo ricolma della sua benedizione, rendendo feconda la sua discendenza: “Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione” (Gen 12,2). Similmente ad Abramo, Maria è chiamata ad andare verso una destinazione che le è ignota. Il verbo “eporeútze” al passivo, dice che i qualche modo Maria è stata insignita di una missione e il suo andare non è opera sua, ma di Dio. Maria, come Abramo, si sta muovendo verso una terra sconosciuta, che Dio le indicherà. Certo, lei sta andando da Elisabetta, ma inconsapevolmente sta intraprendendo anche la strada che la sta portando verso Gerusalemme, quella strada che anche il bambino che porta in seno sta compiendo ora e compirà attraverso un lungo viaggio, che Luca descriverà in 9,51-19,28; un viaggio che lo porta, come lei, verso il compimento di un progetto divino di salvezza. E similmente ad Abramo, anche Maria viene benedetta in modo eccelso da Elisabetta (v.42), così che “da ora tutte le generazioni mi chiameranno beata” (v.49). Non è un caso che il canto del Magnificat inizi con una celebrazione delle grandezze che Dio ha operato in Maria e termini proprio con quelle che Dio ha compiuto in Abramo: “come parlò ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza per i secoli” (v.55). Le promesse fatte ai padri e ad Abramo si stanno ora compiendo in Maria, quelle promesse che Maria celebra in se stessa. Il cammino di Abramo verso quella terra che Dio aveva promesso a lui e alla sua discendenza, termina ora in Maria, che raccoglie il testimone di quelle promesse e, parimenti ad Abramo, essa riprenderà il cammino di Abramo, assieme al suo figlio Gesù, verso la meta del Golgota, dove il Gesù giovanneo proclamerà che tutto è compiuto (Gv 19,30b).
Il v.40 scandisce due nuovi movimenti di Maria, complementari a quelli altri due del v.39: “Entrò nella casa di Zaccaria” e “salutò Elisabetta”. Il termine casa, in greco, viene reso con due sostantivi: “oŒkoj” (oîkos) e “oik„a” (oikía). Il primo indica la casa quale luogo fisico di abitazione e di dimora abituale; il secondo ha un accezione figurata ed indica la casa intesa come famiglia, abitanti, familiari, razza, discendenza, casato, stirpe. Nel nostro caso l'autore usa il primo termine, “oîkos”, il luogo di dimora di Zaccaria, che, ai vv.8-9, viene presentato come appartenente alla classe sacerdotale (v.8) e colto nel momento culminante del suo sacerdozio, mentre sta officiando: “toccò in sorte di bruciare incenso, entrando nel santuario del Signore” (v.9). Zaccaria e la sua casa, quindi, divengono figura dell'antico culto giudaico, giunto ormai al suo pieno compimento. È qui che Zaccaria dimora ed è qui che Maria, la quale porta in se stessa il germe vivo e l'erede della Promessa, il nuovo Agnello di Dio (Gv 1,29.36), che va a sostituire gli innumerevoli quanto inefficaci sacrifici di animali (Eb 9,11-15; 10,1.4); entra, quasi ad assumere in se stessa, sostituendolo efficacemente (Eb 10,8-10), l'intero culto giudaico. E Maria sembra avere questa capacità, allorché Giovanni la presenta ai piedi della croce assieme a suo Figlio (Gv 19,25). In questo contesto, il saluto di Maria rivolto ad Elisabetta va ben oltre ad un semplice atto di buon galateo, per assumere la valenza di un annuncio: Maria è colei che porta in se stessa l'atteso dalle genti (2,25-38). A confermarlo sarà la risposta di Elisabetta e il cantico delle due donne, che duettano tra loro le meraviglie di Dio, che si stanno compiendo in esse.
Il canto di Elisabetta celebra la grandezza di Maria e di tutti i credenti (vv.41-45)
Il canto di esultanza di Elisabetta va compreso come una sorta di celebrazione liturgica. Lo suggerisce il contesto: quel suo essere ripiena dello Spirito Santo, quel suo gridare con un grande grido, il sobbalzo del bambino nel suo seno, assimilabile ad una sorta di danza gioiosa, lo stesso saluto, che si conclude con una beatitudine. Tutti elementi questi che richiamano da vicino il culto giudaico. È questo ciò che sta avvenendo nella casa di Zaccaria, che completerà questo grido di esultanza di Elisabetta con il canto del Benedictus (vv.68-79), in cui al “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre” di Elisabetta, fa da eco il “Benedetto il Signore, Dio d'Israele, poiché visitò e fece redenzione al suo popolo, e risvegliò per noi (il) corno della salvezza nella casa di Davide, suo figlio” (v.68-69).
La pericope circoscritta nei vv.41-44 è strutturalmente disposta su parallelismi concentrici in B) e in cui A) e A1) fungono anche da elementi di inclusione, mettendo in tal modo maggiormente in rilievo la parte centrale e meglio definendo il contesto in cui si muove il cantico di Elisabetta, che costituisce un'unità letteraria a se stante:
A) v.41: al saluto di Maria il bambino risponde con un sussulto, mentre Elisabetta è ripiena di Spirito santo;
B) vv.42-43: canto di benedizione e stupore di Elisabetta;
A1) v.44: ripresa del v.41 e conclusione della pericope.
Il cantico si chiude con una beatitudine (v.45), riferita a Maria, ma alcuni elementi del versetto danno anche un tono di universalità a quel “beata”, che da Maria si estende a tutti i credenti.
Il v.41 si apre con un “kaˆ ™gšneto” (kaì eghéneto, ed avvenne), caratteristico di Luca, che vede la storia della salvezza come un continuo accadimento di eventi salvifici che si attuano nella storia degli uomini. Anche quanto accade qui fa parte di questi eventi straordinari. Quel “kaì eghéneto” posto all'inizio del racconto apre una sorta di squarcio temporale in cui compare l'evento salvifico, che spinge il lettore a meditare su quanto qui avviene; mentre il “kaì” funge da legame con il v.40, così che quanto narrato dai vv.41-55 ne diviene una naturale e logica conseguenza, una sorta di risposta al v.40.
Il v.41 evidenzia tre movimenti scanditi da altrettanti verbi: “Elisabetta udì il saluto di Maria”; “il bambino sobbalzò nel ventre”; “Elisabetta fu riempita di Spirito Santo”. Tutto parte da quel “udì”, dall'ascolto del saluto di Maria, che, come si è detto sopra, va ben oltre al semplice convenevolo, ma diviene annuncio di quanto le è accaduto; un annuncio delle gesta che Dio ha operato in lei e che Maria canterà nel suo Magnificat (vv.46-49). La traccia di quanto disse Maria nel suo saluto, benché non menzionato da Luca, lo si ritrova in qualche modo riflesso nel cantico di Elisabetta, che è risposta a quel saluto61. L'ascolto dell'annuncio di Maria produce due effetti immediati: un sobbalzo di esultanza del bambino (v.44b), una sorta di danza liturgica, che animava le liturgie ebraiche, così come i canti e le grida di gioia, con cui si aprirà il v.4262; mentre Elisabetta, alla pari degli antichi profeti, è riempita di Spirito Santo. Una nota questa che aiuta il lettore a comprendere come quanto viene detto da Elisabetta ai vv.42-45 non è frutto di un'esplosione emotiva di una vecchia donna delirante, ma dell'azione dello Spirito e, quindi, ha a che vedere in qualche modo con la rivelazione del senso di quegli eventi accaduti in Maria. Il v.41, pertanto funge da cornice introduttiva al canto di Elisabetta e ne fornisce la chiave di lettura.
I vv.42-43 costituiscono il cuore del cantico di Elisabetta. Il v.42 si apre con l'espressione: “e gridò con un grande grido e disse”. Un ebraismo che rimanda all'azione dello Spirito, così come i profeti invasati dallo Spirito. Un grido che dice il prorompere della potenza dello Spirito nella storia dell'uomo e gli consegna la sua rivelazione. Elisabetta, quindi, alla pari degli antichi profeti, investiti dallo Spirito di Dio, è da questo sospinta a proclamare Maria “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo ventre”. L'espressione “benedetta tu fra le donne” non è nuova e si ritrova pari pari anche nell'A.T.63 e va letta come una forma ebraica di superlativo relativo. Quindi Maria è riconosciuta da Elisabetta “benedetta” in modo eccelso ed esclusivo e così, parimenti a lei, il frutto del suo ventre64. Qui il termine “benedetta” va compreso nel suo giusto significato: non si tratta della benedizione intesa come l'imporre il favore divino su qualcuno. Qui l'attributo sostantivato significa “fecondata da Dio”, così come il frutto del suo ventre è frutto dell'opera fecondatrice di Dio. Il termine “benedizione”, infatti, in ebraico è reso con “berakhah”, che deriva a sua volta da “berekh”, che significa ginocchio, un eufemismo per indicare gli organi genitali, ai quali è legata la fecondità. La benedizione o il benedire, pertanto, è sempre espressione di fecondità e ha a che fare con la fecondità, che è prerogativa di Dio. È Dio, infatti, che all'atto della creazione benedice, cioè imprime la fecondità, trasmettendo all'uomo e all'intero creato la sua stessa capacità di riprodurre la vita, non in termini assoluti, ma secondo la specie. È significativo in tal senso quanto si dice in Gen 1,22, a riguardo degli animali marini e dei volatili: “Dio li benedisse: <<Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; gli uccelli si moltiplichino sulla terra>>”; e similmente in Gen 1,28a, riferito ad Adamo ed Eva: “Dio li benedisse e disse loro: <<Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra>>”. In entrambi i casi la benedizione di Dio impressa sugli animali, sul creato in genere e in particolare sull'uomo è sempre strettamente legata alla fecondità. Elisabetta, pertanto, proclamando Maria e suo figlio benedetti, riconosce, sotto l'azione dello Spirito, che quanto è avvenuto in Maria è opera fecondatrice di Dio.
Il v.43 esprime lo stupore, lo sbigottimento e lo sbalordimento che seguono alle teofanie. Qui non ci troviamo di fronte ad una vera e propria teofania in senso stretto, ma certamente Elisabetta si trova di fronte ad una inattesa rivelazione, la cui fonte diretta è lo Spirito Santo (v.41c) e lo strumento di rivelazione è lei stessa. Come d'improvviso, per Elisabetta si squarcia il velo della storia e appare nella sua realtà autentica la vera natura di quella ragazzina di circa sedici anni e di quanto è accaduto in lei. Lo stupore e lo sbigottimento sono provocati dal riconoscimento di Elisabetta nei confronti di Maria: “In che modo questo a me, che venga la madre del mio Signore da me?”. Qui Elisabetta sembra quasi uscita da quella sorta di trance estatica causata dallo Spirito Santo, che l'ha pervasa interamente (v.41c), e prende coscienza di ciò che le sta davanti: Maria è la madre del “mio Signore”. L'espressione “mio Signore”, con riferimento ad Elisabetta, non può essere che il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; il Dio dei Padri; il Dio della Promessa, che l'ebreo, al fine di evitare il pronunciamento del tetragramma “Jhwh”, di per sé impronunciabile, gli si riferiva con il sostantivo parallelo di “Adonai”, cioè “Signore”. Elisabetta, pertanto, riconosce che Maria è la Madre del suo Adonai e che in lei si sono realizzate quelle promesse fatte ad Abramo, a Davide e, attraverso i profeti, giunte fino a lei, che in quel “mio Signore” riconosce ed accoglie come in una sorta di primitivo atto di fede, che richiama da vicino quello del Tommaso giovanneo, con il quale egli riconosce e attesta il Risorto (Gv 20,28).
Il v.44 riprende in modo sostanzialmente identico il v.41. Ma se il v.41 era un'enunciazione di un evento, qui, il v.44 diviene la motivazione che giustifica la professione di fede di Elisabetta, avvenuta al v.43. Il v.44, infatti, si apre con con un avverbio e una congiunzione: “„doÝ g¦r” (idù gàr, ecco infatti). La particella “gàr” (infatti, poiché) dice che quanto segue è il motivo per cui Elisabetta giunge alla confessione di fede “madre del mio Signore”; mentre l'avverbio “idù” lo indica in ciò che segue: “come vi fu la voce del tuo saluto alle mie orecchie, il bambino sobbalzò in esultanza nel mio ventre”.
Il v.45 conclude l'intervento di Elisabetta con un'acclamazione che si richiama al v.38, in cui Maria, dichiaratasi serva del Signore, si era resa disponibile ad accogliere in lei il suo progetto di salvezza, preannunciatole dall'angelo. Questo è il motivo della sua beatitudine, che dice l'appartenenza di Maria all'alea divina (v.28), poiché la beatitudine definisce uno stato di vita di Dio stesso, che si origina dalla sua stessa pienezza di vita. È il primo “beata” che risuona nel vangelo lucano, che di beatitudini ne conta quindici, e che in qualche modo preannuncia quella del cantico di Maria al v.48b, in cui ella attesta che tutte le generazioni la chiameranno beata, a partire da Elisabetta, che apre la schiera delle nuove generazioni di credenti. Un “beata” che richiama da vicino Lc 11,27-28, in cui un'altra donna, dichiarerà la beatitudine di Maria, che ha portato nel suo grembo e ha dato il suo seno a Gesù. Una beatitudine legata alla carnalità dell'evento, che Gesù corregge, spostando la beatitudine su coloro che ascoltano e custodiscono nel loro cuore la parola di Dio: “Ora, avvenne che nel mentre egli diceva queste cose, una donna, alzata la voce dalla folla, gli disse: <<Beato il ventre che ti ha portato e i seni che succhiasti>>. Ma egli disse: <<Anzi, beati quelli che ascoltano la parola di Dio e (la) custodiscono>>”. La beatitudine di Maria pertanto non è legata all'evento biologico del concepimento e del parto, ma all'aver accolto nell'ascolto e all'aver custodito nel suo cuore la parola di Dio, che in lei si è incarnata e che poi lei ha generato al mondo. Per due volte Luca ricorda questa specifica beatitudine di Maria in 2,19.51, facendo di Maria la donna che sa ascoltare , conservare e meditare in cuor suo la parola.
Benché il v.45 si riferisca chiaramente con quel “colei che”, posto al femminile, a Maria, tuttavia il non averne precisato il nome, sostituito dal verbo sostantivato “¹ pisteÚsasa” (e pisteúsasa, colei che ha creduto), evidenziando così l'atteggiamento credente di Maria, Luca ha voluto in qualche modo dare un tono di universalità a quel “credere”; similmente l'oggetto del credere è talmente generico che può ben riferirsi a Maria, come all'intero messaggio di salvezza annunciato da Gesù, a cui tutti i credenti sono chiamati a credere nel suo compimento. È significativo, infatti, come Luca qui non dica “quelle cose che le sono state dette dall'angelo!”, la quale cosa avrebbe eccessivamente personalizzato la beatitudine, incentrando l'attenzione soltanto su Maria, ma dica “quelle cose che le sono state dette dal Signore!”, che per il nuovo credente richiama il titolo del Risorto. Una beatitudine rivolta quindi a Maria, ma che si apre anche a tutti gli altri credenti. Una beatitudine questa che richiama in qualche modo la risposta che il Gesù giovanneo dette alla professione di fede di Tommaso: “Gli dice Gesù: <<Perché mi hai veduto, hai creduto. Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto>>” (Gv 20,29), dichiarando così beate le future generazioni di credenti.
Il v.45 potremmo considerarlo di transizione, perché che pur essendo conclusivo del cantico di Elisabetta, tuttavia anticipa in sé i contenuti del Magnificat. Due sono gli elementi che lo richiamano: il “beata”, che si ritroverà anche in 48b; e l'aver “creduto che ci sarà compimento per quelle cose che le sono state dette dal Signore!”, che richiama l'intero Magnificat, che è una celebrazioni di tutte quelle cose che non solo si sono compiute in Maria, ma che si sono compiute anche da Abramo fino a lei.
L'inno di Maria celebra le grandi opere del Signore (vv.46-55)
Al cantico di Elisabetta, che riconosce Maria come “benedetta”, cioè fecondata da Dio, Maria risponde con il cantico del Magnificat. Numerose sono le ipotesi formulate intorno alla formazione di questo cantico e sulla sua collocazione, sia nei modi che nei tempi, all'interno del racconto della Visitazione, che personalmente mi hanno lasciato molto perplesso per la macchinosità e le forzature con cui sono state formulate. Personalmente ritengo che la via più semplice da percorrere sia, almeno in questo caso, anche quella più giusta. Luca nel mettere in piedi i due racconti di nascite prodigiose si è rifatto certamente agli schemi narrativi delle nascite di Isacco, Sansone e Samuele65, soffermandosi in particolar modo su questi ultimi due. Ed è proprio sul racconto della nascita di Samuele che Luca deve essersi imbattuto nel cantico di Anna (1Sam 2,1-11) e, dopo gli opportuni e necessari aggiustamenti per adattarlo alla propria narrazione, lo ha riportato all'interno del suo racconto. Questa, a mio avviso, è la provenienza più ovvia. Il cantico di Anna, infatti, si riflette quasi interamente nel Magnificat di Maria. Tra i due cantici vi sono forti agganci che fanno pensare ad un travaso del cantico di Anna in quello di Maria, passato attraverso il filtro lucano. Gli inizi dei due cantici sono pressoché identici: “Allora Anna pregò così” (1Sam 2,1); “E disse Maria” (Lc 1,46a); “Il mio cuore esulta nel Signore” (1Sam 2,2a); “L'anima mia glorifica il Signore ed esultò il mio spirito in Dio mio salvatore” (Lc 1,46b-47); mentre 1Sam 2,3-8b si riflette sostanzialmente identico in Lc 1,51-53. La stessa chiusura del racconto della Visitazione, posta immediatamente dopo il Magnificat, assomiglia molto alla chiusura, anche questa posta subito dopo il cantico di Anna, di 1Sam 2,11a: “Poi Elkana tornò a Rama, a casa sua [...]”; similmente, dopo il cantico di Maria si dice: “Ora Maria rimase con lei circa tre mesi e (poi) ritornò a casa sua” (Lc 1,56). Vi è, quindi, tra i due cantici una sovrapponibilità quasi perfettamente combaciante, se non nelle parole, per ovvie ragioni, sicuramente negli schemi e nei contenuti. È da ritenere, pertanto, che Luca sia stato ispirato da questo racconto di Samuele non solo relativamente ai racconti di nascite prodigiose, ma anche per il cantico di Maria, mutuato, a nostro avviso, da quello di Anna.
La macrostruttura del Magnificat è suddivisibile in due parti:
vv.46-50: in cui Maria, preso atto delle opere di Dio compiutesi in lei, eleva un cantico di lode e di ringraziamento. Si tratta di una sorta di canto liturgico, che celebra le meraviglie di Dio compiute in Maria;
vv.51-55: si tratta di una sorta di rivisitazione della storia della salvezza, che Dio ha operato presso il suo popolo e in suo favore.
L'andamento del cantico, dal ritmo salmodico, è a ritroso e segue lo stesso andamento della genealogia lucana (3,23b-38), che parte da Giuseppe per giungere ad “Adamo, figlio di Dio” (3,38b). Anche nel Magnificat Maria parte dalle opere di Dio compiutesi in lei per giungere fino ad Abramo. Maria, pertanto, si pone come punto di arrivo della storia della promessa, che si radica in Abramo. Questo movimento a ritroso rispecchia la teologia lucana, che vede nell'oggi il compiersi della salvezza, che si origina storicamente nella promessa fatta ad Abramo66 e, ancor prima, prospettata ad Adamo (Gen 3,14-5), con cui termina, non a caso, la genealogia lucana.
All'interno di questa macrostruttura il cantico si sviluppa in modo più complesso e con logiche diverse tra la prima e la seconda parte. Quanto alla prima parte si hanno i seguente movimenti:
vv.46b-47: grido di glorificazione e di esultanza di Maria. La formula è binominica secondo il linguaggio della retorica ebraica, cioè il v.47 riprende in forma diversa il v.46b;
vv.48-49: vengono esposti i motivi di questa glorificazione esultante, preceduti dalle congiunzioni causali “Óti” (óti, poiché). Ogni versetto è suddiviso in due parti: una enunciazione seguita da una sorta di risposta di tipo corale, posta lì a commento dell'enunciazione stessa, quasi a farle da eco, da cassa di risonanza, così che si avrà che alla proclamazione “volse lo sguardo sulla bassezza della sua serva” fa da commento corale “da ora tutte le generazioni mi chiameranno beata”. Similmente il secondo enunciato: “il Potente mi ha fatto grandi cose”, a cui fa da eco “E santo il suo nome”. Lo schema richiama da vicino quello delle tragedie greche, in cui il coro ha la funzione di commento delle scene che si svolgono, aiutando lo spettatore ad entrare maggiormente nel cuore del dramma.
v.50: costituisce la conclusione di questa prima parte, quasi una sorta di prolungamento, di esplicitazione e completamento corali di quel “E santo il suo nome”, la cui santità si concretizza in una misericordia che percorre tutte le generazioni dei credenti.
La seconda parte del Magnificat (vv.51-55) si può considerare una sorta di celebrazione innica e di memoriale degli eventi salvifici operati da Dio in favore del suo popolo. Per cui si avrà la seguente dinamica:
v.51a: “Fece potenza nel suo braccio”. Questa è l'enunciazione principale da cui dipendono i vv.51b-53;
vv.51b-53: questi versetti sono formulati secondo una binomia contrapposta (vv.52-53) e sono una illustrazione della potenza del braccio di Dio;
v.54: si celebra, facendone memoria, l'evento della liberazione del popolo d'Israele dall'Egitto, che costituisce l'elemento fondante della fede ebraica e sta alla base dell'Alleanza e della Torah;
v.55: qui si aggancia la liberazione alle promesse fatte ai padri, Giacobbe, Isacco, Abramo, e da Abramo a tutta la sua discendenza, che arriva fino a Maria e a Gesù. In essi si chiude il cerchio della storia veterotestamentaria della salvezza, che qui viene presentato in forma ciclica: dall'oggi di Maria si risale ad Abramo e da Abramo si riparte, attraverso la sua discendenza, per giungere nuovamente a Maria e in Maria a Gesù, il definitivo compimento delle promesse. Si chiude così in Maria e in Gesù la fase del Primo Testamento che in loro trova il suo definitivo compimento (Mt 5,17).
Il v.46a si apre con “E disse Maria”, che si aggancia con quel “Kaˆ” (kaì, e) al cantico di Elisabetta; di conseguenza il “disse Maria”, che introduce il Magnificat , diviene la risposta di Maria a tale canto, una sorta di ampliamento e di approfondimento dei vv.42-45: l'una, Elisabetta, invasata dallo Spirito, riconosce Maria come la benedetta da Dio; e Maria che canta la gloria di Dio che si è compiuta in lei.
I vv.46b-47 sono esposti in forma binominica, in cui la glorificazione e l'esultanza che travolgono l'anima e lo spirito di Maria divengono una glorificazione esultante o forse è meglio dire, come vedremo subito, un'esultanza glorificante; una sorta di esaltazione estatica, che richiama da vicino l'azione dello Spirito, che già aveva operato in Elisabetta, che “gridò con un grande grido”.
I due termini “anima” e “spirito”, che fanno da soggetto ai due versetti, hanno un diverso significato per gli antichi, che pongono una distinzione tra carne, anima e spirito, i tre elementi che compongono l'uomo. Una traccia di questa distinzione si trova in 1Ts 5,23 dove Paolo esorta la comunità di Tessalonica a conservarsi interamente integra per la venuta del Signore, che nel I sec. era percepita imminente: “Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”. Si noti come Paolo distribuisce l'elenco degli elementi: alle estremità ci stanno “spirito” e “corpo”; al centro l' “anima”. Corpo e spirito hanno due funzioni diverse: il primo ci consente di vivere e di esperire questa realtà materiale; lo spirito ci consente di esperire le realtà spirituali. Due elementi tra loro contrapposti e irriducibili l'uno all'altro, ma che trovano la loro unificazione e la loro ricomposizione nell'anima, che diviene il centro vitale e armonizzatore dei due elementi, consentendo all'uomo di esistere come persona. Le esperienze e le sensazioni corporee possono essere trasmesse e vissute anche dallo spirito tramite il comune luogo di ritrovo e di fusione che è l'anima. E così viceversa, le esperienze dello spirito possono essere condivise anche dal corpo, passando attraverso l'anima. L'anima, pertanto, diviene il centro stesso della vita, che consente all'uomo la piena armonia e intercomunicazione tra lo spirito e il corpo. In questa ottica vanno compresi i vv.46b.47, in cui compare sia l'elemento anima che l'elemento spirito, che sono associati a due verbi diversi: “glorificare”, posto al presente indicativo, associato all'anima, espressione dell'interezza della vita; e “esultare”, posto all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, associato allo spirito. La diversità dei tempi verbali, riferiti a due soggetti diversi, anima e spirito, dicono che ci troviamo di fronte a due esperienze diverse, l'una conseguente all'altra; l'una coinvolgente l'altra. Maria glorifica ora con l'interezza della sua vita, espressa qui dal sostantivo “anima”, perché prima il suo spirito esultò in Dio suo salvatore. Un'esultanza che allude all'esperienza dell'annunciazione, in cui Maria è entrata con il suo spirito in piena comunione con Dio, beneficiando di una sorta di esaltazione spirituale, in cui essa è stata come invasata dalla potenza divina (v.35b). Un'esperienza spirituale, mistica, sintetizzata e significata dalle parole dell'angelo al v.28: “Rallegrati, riempita di grazia, il Signore (è) con te”. Proprio questa esperienza dello spirito, riversatasi nella sua anima, luogo di ritrovo e di fusione anche della sua corporalità, la spinge, in consonanza ad Elisabetta, invasata dallo Spirito, a glorificare anche lei il suo Signore.
I vv.48-50, introdotti dalla particella causale “Óti” (óti, poiché), costituiscono la motivazione dell'esultanza glorificante: “poiché volse lo sguardo sulla bassezza della sua serva” (v.48a); “poiché il Potente mi ha fatto grandi cose” (v.49a). Due versetti che sono tra loro complementari e illustrano sinteticamente la logica con cui Dio opera nella storia della salvezza. Gli elementi chiave e contrastanti tra loro sono “bassezza della sua serva” e “il Potente ha fatto grandi cose”. Grandi cose che sono state operate con potenza nella bassezza della sua serva. L'onnipotenza salvifica di Dio, pertanto, si manifesta in ciò che è debole e disprezzabile per gli uomini, perché appaia meglio la sua azione. Paolo ricorderà più volte questa modalità dell'operare divino in 1Cor 1,17-25 e 2Cor 12,8-1067. Ma ancor prima vediamo le modalità dell'agire di Dio nella liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana, che fu operata per il tramite di un Mosè destituito da ogni insegna di potere umano e afflitto da balbuzie (Es 4,10). Alla base di questo strano modo di operare di Dio ci sta tutta la distanza che separa le logiche di Dio da quelle dell'uomo e che Isaia richiama in 55,8-9: “Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri”.
I vv.48b.49b portano a conclusione i corrispondenti 48a.49a e costituiscono una sorta di risposta corale, che sopra ho paragonato al coro delle tragedie greche, ma che in qualche modo ritroviamo anche nel modo del salmodiare, per cui a fronte dell'enunciazione dell'opera salvifica di Dio in modo corale si risponde con un ritornello che celebra la lode e la misericordia di Dio (Sal 66; 135). Pertanto all'enunciazione della bassezza della sua serva, fa da eco la grandezza di Maria, celebrata “beata” da tutte le generazioni, a partire da Elisabetta, che inaugura per prima la nuova generazione di credenti. E così, similmente, la grandezza delle opere dell'Onnipotente si ripercuote in quel “Santo è il suo nome”, in cui l'attributo “Santo” dato a Dio dice tutta la distanza che intercorre tra Lui e gli uomini e di conseguenza l'efficacia del suo operare rispetto a quello degli uomini. Il concetto di Santo e di santità è essenzialmente relazionale e riguarda il rapporto tra Dio e l'uomo, che si autodefinisce Santo proprio perché è totalmente altro dall'uomo: “perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò nella mia ira” (Os 11,9b). Una santità che dice non soltanto diversità tra uomo e Dio, ma che segna anche il limite invalicabile tra i due, pena la morte (Es 19,12) e, quindi, l'irraggiungibilità di Dio da parte dell'uomo.
Il v.50 conclude la prima parte del cantico di Maria e con quel “kaì” iniziale si aggancia al v.49 dove si è proclamata la grandezza delle opere del Potente compiute in Maria, riconoscendo in esse il marchio della santità divina. Quanto qui è avvenuto è il principio della salvezza che si sta per manifestare agli uomini e che si estenderà sulle future generazioni di credenti: “e la sua misericordia per generazioni e generazioni a coloro che lo temono”. La misericordia non va confusa con la compassione o con la pietà, ma esprime la potenza salvifica di Dio elargita all'uomo. Misericordia e salvezza sono tra loro sinonimi (Sal 12,6; 84,8) e trovano entrambe la loro concretizzazione nel perdono dei peccati (Lc 1,77-78). Per questo la misericordia salvifica di Dio si estende alle generazioni di coloro che lo temono, cioè che venerano Dio e lo accolgono nella loro vita, poiché questa misericordia salvifica di Dio è sua potenza salvifica, ma che per essere efficace sull'uomo necessita di essere accolta, poiché, ricorda s.Agostino che “colui che ti ha fatto senza di te, non ti giustifica senza di te” (Sermo 169,11)68.
I vv.51-55 circoscrivono la seconda parte del cantico di Maria ed è una sorta di memoriale celebrativo delle grandi gesta che Dio ha operato a favore del suo popolo. Con questa seconda parte Luca si rivolge al suo lettore, evidenziandogli come quanto è avvenuto in Maria e di conseguenza in Gesù è il compimento finale di un lungo cammino iniziato con Abramo e continuato lungo la sua discendenza, che ha il suo vertice in Maria e il suo compimento definitivo in Gesù (Mt 5,17).
Sono versetti caratterizzati dalla presenza di numerosi verbi posti all'aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che definisce un'azione puntuale nel tempo. L'uso persistente dell'aoristo dice come Luca qui stia pensando ad eventi del passato, che già si sono pienamente e definitivamente compiuti; eventi che costituiscono la storia di Israele e che sono resi ancora presenti in mezzo al popolo attraverso il loro memoriale.
Il v.51, infatti, si apre con l'espressione “Fece potenza nel suo braccio” che, da un lato, si richiama esplicitamente agli eventi della liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana, divenuti il fondamento dell'Alleanza tra Dio e il suo popolo. L'espressione, infatti, si ritrova pressoché identica allorché si introduce il ricordo di questi eventi di liberazione69; dall'altro, richiama da vicino il v.49a, “il Potente mi ha fatto grandi cose”, creando un parallelismo tra quanto Dio ha compiuto a favore e in mezzo al suo popolo e quanto ha fatto in Maria. In entrambi i casi si dà inizio ad una storia di liberazione, di cui quella egiziana era figura e preludio pedagogico di quest'ultima.
I vv.51b-53 illustrano in che cosa consistano le potenti gesta di Jhwh a favore di Israele; una potenza che viene espressa sotto forma di un radicale capovolgimento, che si muove su di uno sfondo messianico di ricostituita giustizia sociale. Queste potenti opere di Jhwh tuttavia hanno come leitmotiv di fondo e parametro di raffronto quelle stesse che Dio operò per la liberazione del suo popolo: il potente è stato umiliato e calpestato dalle dieci piaghe e la potenza del suo esercito è stata travolta e distrutta dalle acque del mar Rosso; mentre il popolo schiavo e umiliato è stato liberato e gli è stata fornita una nuova identità, che ne ha fatto una sorta di nuova creazione divenendo proprietà divina, nazione santa e regno di sacerdoti (Es 19,5-6). Il popolo schiavo, privo di identità e di speranza, è stato elevato alla stessa dignità divina: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me” (Es 19,4). Es 19,4-6 sta pertanto alla base di questo rovesciamento sociale, che Luca riproduce in 51b-53.
Il v.54 si lega ai vv.51b-53 e diventa giustificativo e rivelativo di quell'agire potente di Jhwh: Egli venne in soccorso ad Israele suo figlio, ricordandosi della sua misericordia. È questo il preambolo con cui l'agiografo introduce l'intervento liberatorio di Dio dalla schiavitù egiziana del suo popolo: “Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero” (Es 2,24-25). Da qui comincia la storia della liberazione. L'intervento liberatore di Jhwh a favore del suo popolo, tuttavia, non nasce da un gesto di compassione divina per le sventure di un popolo, ma è determinato dalla promessa che Dio aveva fatto ad Abramo e a Giacobbe. Sotto, quindi, c'è un atto di fedeltà ad un giuramento che Dio aveva prestato ad Abramo e in lui a tutta la sua discendenza: “Vi farò entrare nel paese che ho giurato a mano alzata di dare ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe, e ve lo darò in possesso: io sono il Signore!” (Es 6,8). Ed è a questo che allude il v.55 di Luca.
Il v.56, in modo brusco e inaspettato, chiude il racconto della Visitazione sullo stesso stile narrativo di 1Sam 2,11, e forma con il v.40a inclusione, data dal movimento uguale contrario di Maria: là Maria entrava nella casa di Zaccaria; qui ne esce. Ma nel contempo il v.56 prepara il racconto immediatamente successivo: quello della nascita di Giovanni. Maria, infatti, rimane in casa di Elisabetta tre mesi, che sommati ai sei mesi del v.26a dice che ormai Elisabetta è giunta al nono mese.
Quarto quadro: la nascita di Giovanni (1,57-80)
Testo a lettura facilitata
La nascita di Giovanni è motivo di gioia
57 - Per Elisabetta si compì il tempo del partorire e generò un figlio.
58 – E i vicini e parenti di lei udirono che il Signore rese grande la sua misericordia con lei e gioivano con lei.
L'imposizione del nome
59 – Ed avvenne (che) nell'ottavo giorno andarono a circoncidere il bambino e lo chiamavano Zaccaria a motivo del nome di suo padre.
60 – E sua madre rispondendo disse: <<No, ma sarà chiamato Giovanni>>.
61 – E dissero verso di lei che non vi è nessuno tra la sua parentela che si chiami con questo nome.
62 – Facevano segni a suo padre come volesse che fosse chiamato.
63 – E chiesta una tavoletta, scrisse dicendo: <<Il suo nome è Giovanni>>. E tutti stupirono.
La risonanza dell'evento, preambolo al cantico di Zaccaria
64 – Ora, la sua bocca fu aperta all'istante, anche la sua lingua e parlava benedicendo Dio.
65 – E un timore venne su tutti quelli che erano vicini e in tutta la (regione) montuosa della Giudea si discorrevano tutte queste parole,
66 – e tutti quelli che (le) ascoltarono (le) posero nel loro cuore dicendo: <<Che cosa sarà dunque questo bambino?>>. E infatti (la) mano del Signore era con lui.
Il cantico di Zaccaria
67 – E Zaccaria suo padre fu riempito di Spirito Santo e profetò dicendo:
68 - <<Benedetto il Signore, Dio d'Israele, poiché visitò e fece redenzione al suo popolo,
69 – e risvegliò per noi (il) corno della salvezza nella casa di Davide, suo figlio,
70 – come disse per mezzo (della) bocca dei suoi santi profeti da lungo tempo,
71 – salvezza dai nostri nemici e dalla mano di tutti quelli che ci odiano,
72 – per fare misericordia con i nostri padri e ricordarsi della sua santa alleanza,
73 – un giuramento che giurò ad Abramo, nostro padre, di darci,
74 - liberati dalla mano dei nostri nemici, di servire a lui senza timore
75 – in santità e giustizia dinnanzi a lui per tutti i nostri giorni.
76 – E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell'Altissimo; andrai in avanti, infatti, dinnanzi al Signore a preparare le sue vie,
77 – per dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati,
78 – per mezzo (delle) viscere di misericordia del nostro Dio, nella quale ci visiterà un sorgere di sole dall'alto,
79 – per mostrarsi a quelli che siedono nella tenebra e nell'ombra di morte, guidando i nostri piedi in una via di pace.
La conclusione
80 – Ora il fanciullo cresceva e si rafforzava in spirito, ed era nei deserti fino al giorno della sua manifestazione presso Israele.
Note generali
Dopo il parallelismo del concepimento di Giovanni (vv.5-25) con quello di Gesù (vv.26-38), segue ora il parallelismo della nascita di Giovanni (vv.57-80), con cui terminerà il cap.1, con quella di Gesù, che occuperà i primi 40 versetti del cap.2.
Il v.57 riprende il racconto del concepimento di Giovanni, lasciato in sospeso ai vv.24-25 per dare spazio al narrazione dell'incontro celebrativo tra Maria ed Elisabetta (vv.39-56), e lo porta ora a compimento con quello della nascita di Giovanni. Più che l'esposizione di un evento, ci si renderà subito conto che questa sarà per Luca una nuova occasione per celebrare le grandi opere di Dio, che, parallelamente al cantico di Elisabetta e di Maria, troverà il suo vertice in quello di Zaccaria. L'intera struttura di questo racconto, infatti, verte e confluisce interamente in questo inno celebrativo, che si estende per oltre la metà di questa sezione (vv.67-79) e già questa ampiezza dice l'importanza che l'autore assegna a questo cantico. La nascita di Giovanni, infatti, occupa soltanto il v.57 e così l'episodio della sua circoncisione è soltanto accennato ed occupa poco più di metà del v.59. Ampio spazio narrativo, vv.59b-63, viene invece concesso dall'autore all'imposizione del nome, presentata come un evento portentoso, di fronte al quale tutti stupiscono; mentre i vv.64-66 formano una sorta di cassa di risonanza allo stupore, che pervade l'intera regione montuosa della Giudea. Narrativamente, pertanto, i vv.59b-63 presentano l'evento miracolistico, incentrato non tanto sulla nascita del bambino, quanto piuttosto sull'imposizione del suo nome; mentre i vv.64-66, da un lato, amplificano l'evento, preparando il lettore al cantico di Zaccaria; dall'altro fornisce la chiave di lettura del cantico stesso, che l'autore sembra dividere in due parti: con l'espressione “parlava benedicendo Dio” in 64b allude alla prima parte del cantico del Benedictus (vv.68-75); mentre con l'espressione “<<Che cosa sarà dunque questo bambino?>>. E infatti (la) mano del Signore era con lui” (v.66b), prelude alla seconda parte del cantico, incentrata sulla figura di Giovanni (vv.76-79).
Seguendo la dinamica narrativa di questa sezione della nascita di Giovanni (vv.57-80), potremmo scandirla, come già anticipata nella “Lettura facilitata del testo”, in cinque parti:
vv.57-58: nascita di Giovanni (v.57) e gioia da parte dei parenti e vicini (v.58);
vv.59-63: circoncisione (v.59a) e imposizione del nome (vv.59b-63);
vv.64-66: lo stupore per questi grandi eventi pervade l'intera regione montuosa della Giudea;
vv.67-79: cantico di Zaccaria, che funge da collettore celebrativo delle grandi opere di Dio, che pervadono l'animo di tutti, dapprima quello dei parenti e dei vicini (vv.58.63b) per poi diffondersi per l'intera regione;
v.80: versetto di chiusura del racconto di concepimento, nascita, circoncisione e imposizione del nome riguardante Giovanni, con una formula narrativa che ritroveremo simile in 2,40.52.
Commento ai vv.57-80
Il v.57 presenta la nascita di Giovanni. Il lettore era già stato preavvertito in 26a, in 36b e 56a che il tempo del parto era giunto per Elisabetta. Un tempo dettato dalla natura delle cose, ma Luca vede in questo compiersi del tempo per Elisabetta un intervento divino. Nell'espressione “™pl»sqh Ð crÒnoj” (epléste o crónos) il verbo è posto al passivo, che nel linguaggio biblico ha come soggetto Dio: “il tempo fu riempito”. È lui che scandisce i tempi delle vicende umane secondo un suo progetto di salvezza: Elisabetta dopo il concepimento si mantiene nascosta per cinque mesi (v.24b), poiché spetta a Dio manifestare le sue imprese (v.36a); nel sesto mese di Elisabetta (v.36b) l'angelo appare a Maria e le annuncia il suo concepimento (v.26); Maria va da Elisabetta e verifica il segno lasciatole dall'angelo (vv.39-40); dopo tre mesi Maria torna a casa sua (v.56), lasciando libero il campo al compiersi del parto di Elisabetta (v.57). Tempi e dinamiche delle cose sono inscritti nella loro stessa natura e sono finalizzati a portarle a compimento. La conseguenza di ciò, significata in quel “kaì” che precede l'espressione “generò un figlio”, è che Elisabetta partorì un figlio. Quel figlio, dunque, rientra in un progetto divino. Un'espressione questa che richiama da vicino Gen 25,24a: “Quando poi si compì per lei il tempo di partorire”. Il soggetto qui è Rachele, moglie di Isacco, anche lei, come Elisabetta sterile, ma resa fertile da Dio per le preghiere di Isacco (Gen 25,21), così come Elisabetta lo fu per le preghiere di Zaccaria (Lc 1,13b). Tornano di continuo in Luca le immagini bibliche che formano da modello per i suoi racconti.
Il v.58 si apre con un “kaì”, che lo lega al v.57 e ne diviene il commento celebrativo. Nel v.57, infatti, solo apparentemente viene annunciata la nascita di Giovanni, resa percepibile soltanto sullo sfondo della scena, quasi di sfuggita. Il nome di Giovanni qui non viene neppure menzionato, ma appare soltanto quello di Elisabetta e degli eventi che la vedono come protagonista. Elisabetta, infatti, è il soggetto su cui Luca vuole incentrare l'attenzione del suo lettore: il tempo si compie per Elisabetta; è lei che partorisce un figlio; è lei, in ultima analisi, lo strumento di cui Dio si serve per portare a compimento il suo progetto di salvezza. L'attenzione di Dio si è incentrata su questa donna sterile (v.7a; 13), se ne è preso cura e le ha tolto l'ignominia della sua sterilità (v.25). Per questo motivo: “i vicini e parenti di lei udirono che il Signore rese grande la sua misericordia con lei e gioivano con lei”. Anche qui soggetto ed oggetto della scena è Elisabetta. Il v.58 pertanto diviene un commento commemorativo e celebrativo incentrato non sulla nascita di Giovanni, ma sugli eventi che si sono compiuti in Elisabetta. L'udire, l'ascoltare gli eventi della salvezza sta alla base della liturgia e del culto in Israele. Ogni festività è legata ad un ascolto che fa memoria degli eventi salvifici. Si pensi al rituale della Pasqua ebraica incentrata sull'ascolto-memoria degli eventi della liberazione, che diventa rituale, celebrazione, culto. Quel “udirono”, pertanto, dice la risonanza che l'evento ha prodotto nell'entourage di Elisabetta e ciò che esso contempla qui sono le gesta di Dio, che “rese grande la sua misericordia con lei”. Una formula questa che in qualche modo viene mutuata da Gen 19,19a e che a sua volta riprende e commenta il v.25, in cui Dio si è “preso cura di togliere l'ignominia” di Elisabetta, che qui viene celebrata come azione di grande misericordia divina. Per questo “vicini e parenti […] gioivano con lei”. Il verbo qui è posto all'imperfetto indicativo per esprimere un'azione che continua persistentemente nel tempo. Così, come la beatitudine di Maria viene celebrata di generazione in generazione (v.48b), la gioia di Elisabetta continuerà ad essere ricordata e celebrata nel tempo, come una sorta di memoriale delle gesta salvifiche di Dio che si sono compiute in lei e per mezzo suo. Anzi, la gioia si fa atto celebrativo della grande misericordia di Dio, che si perpetua nel tempo. Il v.58 diviene pertanto una sorta di piccola liturgia di lode e di ringraziamento. Vi è, infatti, l'udire accogliente, che diviene contemplazione della grande misericordia divina e che sfocia in una gioia celebrativa; una gioia che in quel “con lei” diviene corale, così come sono tutte le liturgie in Israele.
I vv.59-63 si incentrano tutti sull'imposizione del nome del bambino, che avviene nel contesto della circoncisione, segno visibile di alleanza tra Dio e il suo popolo (Gen 17,10-14), stabilita all'ottavo giorno dalla nascita del bambino (Gen 17,12; 21,24; Lv 12,3). Sono versetti che nel loro insieme presentano non poche incongruenze: non c'era infatti l'usanza di imporre al bambino il nome del padre (vv.59.61) e tanto meno che questo avvenisse nell'ambito della circoncisione. Secondo la consuetudine ebraica il nome veniva imposto alla nascita e non era la madre che stabiliva il nome del bambino (v.60), ma il padre, che qui, invece, sembra assoggettarsi alle decisioni della madre70; gli astanti si rivolgono a Zaccaria facendo dei segni come si fa con un sordo per farsi capire, dimenticando che Zaccaria era soltanto muto (v.20). Incongruenze evidenti, ma che vanno ricomposte all'interno degli intenti dell'autore. Ciò a cui l'autore punta con il racconto dell'imposizione del nome è, da un lato, far emergere la netta rottura con il passato e con la Tradizione giudaica, presentando Giovanni come il qualcosa di nuovo che precede e prelude nuovi eventi; dall'altro, far lievitare, all'interno del racconto, quel clima di mistero e di sbalordimento che gli consentirà di concludere il suo racconto affermando che “tutti stupirono”, preparando in tal modo la pericope successiva (vv.64-66), in cui lo stupore si dilaterà per tutta la regione montuosa della Giudea. Le incongruenze, pertanto, vanno ricomprese all'interno di questo singolare racconto, sui generis, in cui la ragione storica si piega a quella teologica e all'intera economia narrativa.
La struttura del racconto è scandita in due parti: la prima, vv.59-61, vede come protagonista la madre, Elisabetta, ed ha come finalità quella di creare lo stacco netto con il passato, preparando la comprensione della futura missione di quel bambino, che verrà delineata nella seconda parte del Benedictus (vv.76-79). Per ben due volte, vv.59b.61, si sottolineerà la necessità di agganciare quel bambino al passato e alla Tradizione, mentre il v.60, quello centrale, metterà in evidenza il radicale capovolgimento della situazione e il suo netto distacco dalle attese giudaiche. Al v.59b, infatti, il verbo “lo chiamavano” viene posto all'imperfetto indicativo, che indica la persistenza di una determinata azione e denuncia come vicini e parenti, rappresentanti del vecchio mondo giudaico, continuassero a muoversi nelle loro logiche antiche, imponendo un nome secondo la Tradizione. Contrastante e categorico s'impone su tutto il v.60: “No, ma sarà chiamato Giovanni”. Quel “No, ma” dice da un lato il rifiuto alle pretese di un giudaismo, che vuole ancora continuare chiuso nelle sue antiche logiche mosaiche; dall'altro, quel “ma” nel contrapporsi a quelle logiche, ne afferma di nuove: “sarà chiamato Giovanni”. Il v.61, che chiude questa rima parte, dice la reazione del Giudaismo alle pretese del nuovo che avanza: “E dissero verso di lei che non vi è nessuno tra la sua parentela che si chiami con questo nome”. Si noti qui l'uso ambivalente che Luca fa dell'espressione “prÕj aÙt¾n” (pròs autèn) che significa “verso di lei”, ma anche “contro di lei”, cioè contro la categorica affermazione di Elisabetta, assumendo in tal modo anche un senso avversativo e ostile. Ciò che segue, infatti, esprime la protesta della Tradizione giudaica verso questo Nuovo che in quel bambino, dal controverso nome di Giovanni, viene preannunciato, contestando il fatto che un simile comportamento viola la Tradizione degli antichi: “non vi è nessuno tra la sua parentela che si chiami con questo nome”.
La seconda parte, vv.62-63, ha come protagonista Zaccaria e come finalità quella di creare quel clima di mistero e di stupore intorno all'imposizione del nome. Il contesto è sempre quello della circoncisione e, oltre alla madre Elisabetta, era certamente presente anche Zaccaria, al quale i presenti, scandalizzati per il comportamento di Elisabetta, che viola ogni regola della Tradizione, si rivolgono non con parole, ma con segni, come se fosse sordo e non soltanto muto. Un'incongruenza che è stata rilevata sopra e tale lo è veramente. Ma proprio con questa incongruenza, voluta da Luca, l'autore sta preparando il mistero e il prodigio. Trattando Zaccaria non più come un semplice muto, ma anche come un sordo, lo si rende estraneo al battibecco tra Elisabetta e i presenti circa l'imposizione del nome, per cui, quando si chiederà a lui come deve essere chiamato il bambino, rimangono stupiti della perfetta coincidenza e concordanza tra Elisabetta e Zaccaria, che, a motivo della sordità, non doveva aver sentito quello che aveva detto sua moglie. Da qui lo stupore: “E tutti stupirono”. Certo, si potrebbe obiettare che avevano avuto ben nove mesi per condividere assieme il nome imposto dall'angelo e, quindi, Elisabetta ha solo detto quello che Zaccaria già sapeva, poiché lui aveva detto a sua moglie come doveva essere chiamato il bambino, nome a cui era legata, peraltro, anche la guarigione del suo mutismo (v.20). Ma qui Luca non sta perseguendo verità storiche, né gli interessano le logiche narrative, ma la verità del messaggio teologico, a cui asserve entrambe71.
Luca chiude il suo breve racconto sull'imposizione del nome sottolineando lo stupore, in cui i presenti alla circoncisione del bambino furono coinvolti: “E tutti stupirono”. Con questa battuta finale l'autore, da un lato, vuole richiamare l'attenzione del suo lettore su quanto è successo, presentandoglielo come un evento manifestativo della potenza divina che irrompe nella storia, provocando nell'uomo reazioni di stupore, meraviglia, timore e paura; dall'altro questo stupore preannuncia quanto sta per avvenire nella pericope seguente (vv.64-66), seguendo un movimento di espansione: dai pochi ai molti, caratteristico della teologia lucana di stampo missionario, che vede la salvezza estesa a tutte le genti72.
I contesto dei vv.64-66 è sempre quello della circoncisione (v.59a), durante la quale avvengono due episodi significativi, che Luca circonda di mistero e nei quali vede l'agire di Dio: la concordanza tra i due coniugi nell'imporre il nome di Giovanni al loro bambino, avvenuta in circostanze che hanno suscitato stupore e meraviglia tra gli astanti; e lo scioglimento della lingua di Zaccaria che in 1,20 era stato reso muto dall'angelo Gabriele fino al compiersi degli eventi. Quest'ultimo episodio miracoloso è l'oggetto della contemplazione di questa breve pericope (vv.64-66). Lo stupore sorto intorno all'imposizione del nome (v.63b) viene qui ripreso e amplificato e si estende dai presenti all'intera regione montuosa della Giudea, divenendo per tutti motivo di riflessione.
Il racconto, come si è detto poc'anzi, segue un movimento espansivo, caratteristico della mentalità missionaria di Luca, e va da “tutti quelli che erano presenti” al rito della circoncisione all'intera “regione montuosa della Giudea”. I vv.65-66 riportano il modo peculiare del raccontare di Luca che si riscontra anche in At 2,43; 5,5b.11; 19,17 per quanta riguarda il v.65a; mentre l'espressione “(le) ascoltarono (le) posero nel loro cuore” si ritrova simile in 2,19.51b e in 8,15, che spiega il senso di questo “ascoltare” e “porre nel proprio cuore”: “questi sono quelli che, avendo ascoltato, trattengono con persistenza la parola in un cuore virtuoso e buono e portano frutto”. Oggetto di questo ascolto e di questo conservare nel proprio cuore, facendole risuonare in se stessi, sono “tutte queste parole” che “si discorrevano”, cioè si diffondevano ovunque attraverso l'annuncio della Parola stessa. Il verbo qui posto all'imperfetto indicativo dice il persistere di questo annuncio diffusivo ed espansivo che percorre l'intera regione montuosa della Giudea a partire da “tutti quelli che erano vicini”, cioè i testimoni degli eventi portentosi. L'espressione “tutte queste parole”, oggetto dell'annuncio e della testimonianza sono gli eventi stessi. L'espressione “parole” qui va colto nel senso ebraico del termine di “dabar”, che significa una parola che si compie, che avviene; una parola che si fa evento storico.
Il v.66 si chiude ponendo una domanda in forma diretta: “<<Che cosa sarà dunque questo bambino?>>”, finalizzata a risvegliare nel lettore l'interesse per la figura di questo bambino, preparandolo nel contempo al cantico di Zaccaria, in cui egli avrà una risposta esaustiva ai vv.76-79; una risposta che già in qualche modo viene data fin da subito, lasciando intendere come in quel bambino agisce la stessa mano di Dio: “E infatti (la) mano del Signore era con lui”. Un'espressione quest'ultima che si riscontra 32 volte nei testi veterotestamentari73 ed è sempre legata ad un'azione divina, posta a favore o contro qualcuno, nel qual caso essa esprime il giudizio di Dio; mentre in quelli neotestamentari si trova, in entrambi i sensi, soltanto qui, v.66c, e in At 11,21 e 13,11; in quest'ultimo assume un valore di giudizio punitivo (At 13,8-11).
Preceduto dai vv.59-66, che hanno dato grande enfasi sia al racconto dell'imposizione del nome (vv.59-63) che a quello dello scioglimento della lingua di Zaccaria; e dal v.66a, che ha accentrato l'attenzione del lettore sulla figura del bambino, giunge ora il Cantico di Zaccaria, che celebra le grandi opere di Dio manifestatesi nella salvezza del suo popolo. Una salvezza giocata sull'ambiguità del passato, recente (vv.68-70) e remoto (vv.71-75); un passato remoto, quello della liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana, figura e parametro di raffronto di tutte le liberazioni, che già racchiudeva in sé l'annuncio di un'altra liberazione, di un'altra salvezza, che Luca vede portate a compimento in Gesù, il “corno della salvezza” risvegliato per noi nella casa di Davide. Tutti i verbi di questa prima pericope (vv.68-75) sono posti in aoristo, corrispondente al nostro passato remoto, che indica un'azione puntuale nel tempo, un evento già compiutosi. Mentre la seconda pericope (vv.76-79), riguardante la figura di Giovanni, sono posti al futuro, quasi a dire che quegli eventi salvifici del passato remoto sono ora ripresi ed hanno il loro nuovo inizio in Giovanni; mentre quelli del passato prossimo hanno avuto il loro inizio con la missione di questo bambino.
La struttura del Cantico viene suggerita dal v.64b, dove si dice che Zaccaria “parlava benedicendo Dio”; e dal v.66b, che incentra l'attenzione sul bambino: “Che cosa sarà dunque questo bambino?”. Una struttura bipartita, dunque, in cui la prima parte è circoscritta dai vv.68-75 e inizia con “Benedetto”, richiamandosi così al v.64b; mentre la seconda parte è definita dai vv.76-79 e inizia con un richiamo al “bambino”, rispondendo i tal modo all'interrogativo posto su di lui al v.66b.
Il Cantico è introdotto dal v.67 che fornisce le credenziali al Cantico stesso: “E Zaccaria suo padre fu riempito di Spirito Santo e profetò dicendo”. Quanto segue, quindi, non sono parole di un vecchio esaltato, ma la voce stessa dello Spirito Santo, che rivela il senso degli eventi che si stanno compiendo sotto gli occhi degli astanti e in mezzo al popolo. Eventi che hanno provocato stupore (v.63b) e grande timore (v.65). Un'espressione questa che si riproduce, sostanzialmente identica, a quella di Elisabetta: “Elisabetta fu riempita di Spirito Santo, e gridò con un grande grido e disse” (vv.41b-42a). Il grido di Elisabetta, già si è visto (pag.56), è quello caratteristico del profeta invasato dallo Spirito e che qui viene sostituito con il verbo specifico “profetò”.
Il taglio dato da Luca a questo Cantico è cristologico, anche là dove si parla degli eventi di liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana, colti qui come preannunciatori di un'altra liberazione e di un'altra salvezza, che ha il suo epicentro in Gesù (v.69), il nuovo Mosè messianico.
La pericope 68-75 è scandita in due parti: la prima parte (vv.68-70), qui riletta da Luca in chiave cristologica e messianica, è una enunciazione delle gesta di Dio a favore del suo popolo fino a suscitare una potenza di salvezza dal casato davidico. Salvezza potente preannunciata a Davide da Natan (12Sam 7,12-16) e continuamente fatta risuonare lungo i secoli dai profeti, fino a giungere al presente di Luca, significato in quel “per noi” (v.69). La seconda parte (vv.71-75) si apre riprendendo il termine salvezza dal v.69, specificandone la natura, la finalità e il senso, legandola alla madre di tutte le salvezze: la liberazione dalla schiavitù egiziana. In questa pericope (vv.68-75) tutte le immagini si richiamano ai tre eventi fondanti la fede ebraica: promessa ad Abramo (v.73), liberazione dalla schiavitù egiziana (vv.71.74-75), a cui è legata l'Alleanza sinaitica, e promessa fatta a Davide (v.69).
Il v.68 si apre con una euloghia, una formula di benedizione e di lode, in uso presso il culto sinagogale e che ricorre numerose volte nei testi veterotestamentari74. Luca la riporta qui in apertura del suo Cantico, come era consuetudine presso il mondo ebraico: iniziare e chiudere una preghiera con un atto di benedizione e di lode a Dio, di cui la Amidah75, la preghiera delle Diciotto Benedizioni, è un esempio. I motivi di questa benedizione sono indicati nei vv.68b-69: “poiché visitò e fece redenzione al suo popolo, e risvegliò per noi un corno di salvezza nella casa di Davide, suo figlio”. I tre verbi sono tutti in aoristo e quindi fanno riferimento ad eventi già compiutisi: “visitò”, “fece redenzione” e “risvegliò per noi”. I primi due verbi si riferiscono alle gesta di Dio a favore del suo popolo, richiamandosi all'evento della liberazione (vv.71.74-75), ma nel contempo preannunciano un'altra visitazione divina e un'altra azione di misericordia, significate in quel corno di salvezza suscitato da Dio “per noi”. Un “per noi” che radica nel presente di Luca e di ogni credente quella visitazione che fa misericordia e che produce salvezza e che troverà il suo sviluppo e la sua attualizzazione ai vv.77-78. Il “visitare” dice l'intervenire di Jhwh presso il suo popolo, il rendersi in qualche modo presente, ed assume quasi sempre un significato positivo di liberazione o di aiuto speso in suo favore76. Questo verbo è sempre seguito da un'azione divina, qui specificata dall'espressione “fece redenzione”, a cui è associata l'idea del riscatto. Essa compare numerose volte nei testi veterotestamentari e fa sempre riferimento alla liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana77, madre di tutte le liberazioni e di tutti gli interventi prodigiosi di Jhwh in favore del suo popolo. Il terzo verbo è il punto di arrivo delle due precedenti azioni e dà loro concretezza attualizzandole: “e risvegliò per noi un corno di salvezza nella casa di Davide, suo figlio” (v.69). Quel “kaì” (e), con cui si apre il v.69 crea un aggancio al precedente v.68 e ne dà continuità, per cui il visitare e il redimere confluiscono e trovano attuazione nel risveglio del “corno di salvezza”. Il corno di salvezza, pertanto, acquista qui il suo vero volto e il senso della sua missione: la venuta della potenza divina in mezzo agli uomini per redimerli e riscattarli. Un concetto questo che verrà ripreso ed approfondito con i vv.77-79. Benché il verbo risvegliare qui sia posto come i due precedenti in aoristo, tuttavia esso è agganciato al presente da quel “per noi”. Si tratta, quindi, di un aoristo terminativo, in cui l'azione qui espressa è vista nel suo punto di arrivo terminale, significato in quel “per noi”, che richiama da vicino quanto l'angelo dirà ai pastori: “oggi vi è stato partorito un salvatore, che è Cristo Signore, nella città di Davide” (2,11). Questi è il vero “corno della salvezza” preannunciato dal v.69. La prospettiva di questo versetto è pertanto messianica, in cui il termine “corno” sta ad indicare la potenza divina78 che si fa salvezza per gli uomini e che assume il volto di una persona, quello del Messia. L'autore, infatti, parla di un “corno di salvezza” che viene risvegliato nella casa di Davide, richiamandosi al salmo 132,17: “Là farò sorgere un corno a Davide, preparerò una luce al mio cristo”; e similmente in 1Sam 2,10: “Ed innalzerà un corno del suo cristo”; mentre ai vv.68-69 risuona l'eco messianico del Sal 88,25: “e la mia verità e la mia misericordia saranno con lui, e nel mio nome eleverò il suo corno”. Tutte allusioni alla profezia di Natan al re Davide e che qui il v.69 richiama espressamente (2Sam 7,12-16).
Luca, diversamente dalla citazione di 1Sam 2,10 e del Sal 88,25, in cui il termine “corno” è associato al verbo “ØyÒw” (ipsóo, innalzo, elevo), verbo che in Giovanni assume il duplice significato sia di innalzare sulla croce che di risorgere, combina qui il termine “corno” con il verbo “™ge…rw” (egheíro, risveglio, suscito, innalzo), un verbo tecnico che nelle primissime comunità credenti indicava la risurrezione di Gesù, che nel suo nuovo stato di risorto, era riconosciuto come il Signore e il Cristo. L'uso di questo verbo al v.69 lascia intendere, pertanto, come per Luca questo corno di salvezza, risvegliato nella casa di Davide, sia il Risorto, che in quanto tale diviene “corno di salvezza”, potenza salvifica di Dio. Qui, per l'autore, è stata portata a compimento la profezia di Natan e tutte le Scritture che in vario modo vi si riferivano.
Il v.70 riporta un'espressione caratteristica di Luca, che ritroviamo sostanzialmente identica in At 3,18.21.24 e che rivela la preoccupazione dell'autore di radicare il suo annuncio agli eventi salvifici del passato, creando, attraverso la voce dei profeti, una sorta di catena di trasmissione che collega il suo presente a quegli eventi, ma che nel contempo fornisca anche una chiave di lettura degli eventi presenti, quelli della morte e risurrezione di Gesù. Una preoccupazione che ritroviamo anche in 18,31 e 24,25.27.44. I profeti sono qui definiti come santi, cioè appartenenti all'alea divina; e come la voce di Dio, indicata in quel “disse”. Viene qui fornita pertanto la carta d'identità, e quindi di attendibilità, di questa catena di trasmissione divina che si muove lungo la storia per raggiungere tutti gli uomini: “come disse per mezzo (della) bocca dei suoi santi profeti”. Il versetto termina con l'espressione avverbiale “da lungo tempo”, che crea la lunga catena di trasmissione di quegli eventi salvifici e di ancoraggio del presente a quegli eventi.
Il v.71 apre la seconda parte della pericope 68-75, riprendendo il termine “salvezza” dal v.69, precisandone qui di seguito i termini: si tratta di una salvezza che ha il suo parametro di raffronto con la liberazione dalla schiavitù egiziana; qui enunciata genericamente come “salvezza dai nostri nemici e dalla mano di tutti quelli che ci odiano”. Una liberazione che, per la prima volta, viene associata alla duplice motivazione che ha spinto Jhwh ad intervenire a favore di Israele. La natura della prima motivazione definita dai vv.72-73 sono le promesse fatte ad Abramo e ai Padri (vv.72-73) e l'alleanza sancita con loro (Gen 15,12-18; 17,7-11; Es 2,24; 6,5). Quindi Jhwh interviene per fedeltà a questa alleanza, stabilita con Abramo e la sua discendenza (Es 3,6-9; 6,2-5); la seconda motivazione (vv.74-75) enuncia la finalità di questo intervento di Jhwh: creare un popolo consacrato al suo servizio in mezzo agli altri popoli. Una finalità questa che sta alla base della liberazione stessa: “Dopo, Mosè e Aronne vennero dal Faraone e gli annunziarono: <<Dice il Signore, il Dio d'Israele: Lascia partire il mio popolo perché mi celebri una festa nel deserto!>>. Il faraone rispose: <<Chi è il Signore, perché io debba ascoltare la sua voce per lasciar partire Israele? Non conosco il Signore e neppure lascerò partire Israele!>>. Ripresero: <<Il Dio degli Ebrei si è presentato a noi. Ci sia dunque concesso di partire per un viaggio di tre giorni nel deserto e celebrare un sacrificio al Signore, nostro Dio, perché non ci colpisca di peste o di spada!>>” (Es 5,1-3)79. Una pretesa questa di Jhwh che troverà il suo vertice e la sua attuazione, dopo la liberazione d'Israele, ai piedi del Sinai, dove Jhwh darà ad Israele una nuova identità e farà con lui un'alleanza, sancita nella Torah: “Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli Israeliti” (Es 19,4-6). Israele, dunque, liberato dai suoi nemici, è divenuto proprietà di Dio, a lui quindi consacrato, per servirlo in santità e giustizia davanti a lui tutti i suoi giorni (vv.74-75).
La seconda parte del Cantico di Zaccaria (vv.76-79) presenta l'identità di Giovanni (v.76) e la sua missione (vv.77-79). Zaccaria si rivolge direttamente al bambino riconoscendolo nella sua identità, per ora nascosta, ma che si manifesterà a suo tempo. I tempi verbali, infatti, in questa seconda parte sono tutti al futuro. Egli “sarà chiamato”, un verbo al passivo teologico o divino, che rimanda l'azione del chiamare a Dio stesso, che in quel “chiamare” definisce la natura e il senso di quel bambino: “profeta dell'Altissimo”, l'uomo che parla in nome e per conto di Dio e che funge da coscienza del popolo, sollecitandolo a ritornare a Dio e ad aprirsi alla sua misericordia. Vi è dunque in quel chiamare di Dio un atto di consacrazione, che riserva per se stesso quel bambino perché compia una missione, che già si intravvede in quel “andrai in avanti dinnanzi al Signore a preparare le sue vie”, che definisce le modalità dello svolgimento della sua missione e che richiama da vicino Ml 3,1: “Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore”; un profeta che, similmente a Giovanni, si muove in un contesto escatologico ed apocalittico e la cui funzione è ricondurre nella giustizia il popolo d'Israele (Ml 3,2-3.19-20.23-24).
I vv.77-79 presentano la missione di Giovanni, richiamandosi alle immagine bibliche già enunciate nella prima parte del Cantico di Zaccaria (vv.68-75), ma presentandole qui come la loro attualizzazione in quel “Signore” le cui vie è venuto a preparare Giovanni (v.76b). Torna il tema della visitazione (v.78b), ma già preannunciato al v.68b; quello della salvezza (v.77), ma già anticipato in 69.71; ed infine quello della misericordia (v.78a), già precorso in72a. In tal modo viene a crearsi una continuità ed un sviluppo nel progetto salvifico di Dio. Qui, infatti, non si parla più di un Dio che fa misericordia ricordandosi dell'alleanza fatta con Abramo e i Padri, ma di “dare al suo popolo conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Una conoscenza che non è di ordine intellettuale o concettuale, ma esperienziale. L'incontro del popolo con il suo Dio nella persona del suo Cristo produce per il popolo salvezza, che lo accomuna a quel Dio da cui proviene e verso cui è chiamato a ritornare. Un'esperienza della salvezza che consiste nel perdono dei peccati: tutti in Cristo sono perdonati e non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù (Rm 8,1). Il primo gesto che Gesù compie nei confronti del paralitico è quello di perdonargli i peccati, riconciliarlo con Dio (Lc 5,17-25). La paralisi di quel uomo, che lo aveva ridotto ad uno stato larvale e gli impediva di vivere in pienezza, è metafora del suo stato spirituale, travolto dal peccato. Ma l'incontro con il “corno della salvezza”, promesso a Davide, gli restituisce la vita e la capacità di vivere. Quel uomo ha fatto fatto l'esperienza della salvezza nel perdono dei suoi peccati, che ha la sua origine nelle “viscere di misericordia del nostro Dio” (v.78a). Un'espressione colorita per dire come quella misericordia sia nata e provenga dalle profondità dell'essere stesso di Dio, che per sua natura è amore. Ma quando si parla di amore in Dio, questo non va mai confuso con il nostro modo di amare, strettamente legato alla nostra corporeità, totalmente assente in Dio. L'amore di Dio non è corredato da sentimenti, da emozioni o da impulsi, ma delinea l'atteggiamento costitutivo stesso della sua natura: la totale apertura di sé all'altro; la totale donazione di sé all'altro; la totale accoglienza in sé dell'altro. Un amore incomunicabile all'uomo se non nella visitazione di un sole che sorge dall'alto (v.78b). Si tratta di un personaggio divino colto nel suo splendore e proveniente dall'alto, cioè di origine divina, la cui missione consiste nel “visitarci nelle viscere della misericordia”, cioè rendere presente in mezzo agli uomini la misericordia di Dio, che si concretizza in un'offerta di perdono dei peccati. “Così, infatti, Dio amò il mondo” ricorderà Gv 3,16-17, “che diede il Figlio, l'Unigenito, affinché ognuno che crede in lui non perisca, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non mandò il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma affinché il mondo sia salvato per mezzo di lui”. È lui dunque il sole che proviene da Dio. L'immagine del sorgere di un sole è biblica e sembra essere stata mutuata da Nm 24,17, in cui si parla di una stella che spunta da Giacobbe, che ancora non è visibile, ma che sarebbe venuta a sconfiggere i nemici di Israele. L'allusione qui è probabilmente a Davide (2Sam 8,2). Il suo visitarci, la sua venuta, il suo rendersi visibile e raggiungibile dagli uomini è finalizzato a “mostrarsi a quelli che siedono nella tenebra e nell'ombra di morte, guidando i nostri piedi in una via di pace” (v.79). Questo versetto è scandito in due parti ed è retto da due verbi: “mostrarsi” e “guidando”. La prima parte riguarda il mondo dei pagani, definiti come coloro che erano avvolti dalle tenebre della morte e privi di ogni speranza. A questi il sole nascente dall'alto si manifesta introducendoli in una nuova esperienza di luce divina. La seconda parte riguarda il mondo giudaico, che non si trova avvolto nelle tenebre di morte, poiché già illuminato dalla Torah e figlio dell'Alleanza, ma deve essere ricondotto da questo sole che sorge dall'alto, da questo corno di salvezza in una via di pace, cioè in una perfetta riconciliazione con Dio, che gli antichi sacrifici e la stessa Torah non sono in grado di dare (Rm 7; Eb 10,1-22). Anche qui l'immagine è biblica e sembra essere stata mutuata da Is 9,1: “Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse” e dal Sal 107,10-11: “Abitavano nelle tenebre e nell'ombra di morte,prigionieri della miseria e dei ceppi, perché si erano ribellati alla parola di Dio e avevano disprezzato il disegno dell'Altissimo”.
Il v.80, che forma inclusione per completamento di evento con il v.57, dove Elisabetta partorisce il bambino, chiude il primo capitolo e con questo i racconti dei due concepimenti, dell'intermezzo della visitazione di Maria ad Elisabetta e della nascita di Giovanni. Quanto a quella di Gesù, Luca si riserverà tutto il secondo capitolo. Il v.80 riproduce lo schema standard delle chiusure dei racconti di eventi o di nascite prodigiose che troveremo molto simili anche in 2,40.52 e sostanzialmente identico in Gen 21,2080. Esso è scandito in due parti: la prima riguarda il crescere e il rafforzarsi nello spirito, espressi con due verbi all'imperfetto indicativo per evidenziare la persistenza di questa crescita e di questo rafforzamento spirituale, lasciando intendere come in quel bambino operi tutta la potenza di Dio. La seconda parte riguarda il luogo della crescita e della formazione morale e spirituale di Giovanni: “era nei deserti”. Il deserto nell'immaginario dell'ebreo evoca il luogo della prova in cui Jhwh lo ha educato ad amarlo e a rispettarlo, aiutandolo a comprendere ciò che più importa nella vita (Dt 8,2-3.15-16). Il deserto è il luogo in cui Jhwh si è preso cura di lui e dove egli ha potuto fare una profonda esperienza di Dio. Il deserto acquista, pertanto, una valenza sia esistenziale, quella di un duro cammino di liberazione verso la libertà, che teologica, in cui il popolo ha imparato a conoscere il suo Dio che gli ha fornito una nuova identità e con lui ha fatto Alleanza, codificandola nella Torah. Un'esperienza quella del deserto che inciderà profondamente anche sulle generazioni future, condizionando definitivamente l'intera vita di un popolo. Ma nel contempo Luca, collocando il fanciullo nel deserto, prepara la sua attività di predicatore escatologico, che qui in qualche modo viene preannunciata: “era nei deserti fino al giorno della sua manifestazione presso Israele”, che avrà inizio al cap.3 con grande solennità storica e teologica (3,1-6), due dimensioni che si accompagnano e si intersecano sempre in Luca.
1Le parole comprese tra le due parentesi quadre sono di incerta autenticità e costituiscono una lettura alternativa. Così il Nestle-Aland in Nuovo Testamento Greco-Italiano, XXVII edizione
2Le cinque citazioni scritturistiche, in ordine, sono: Mt 1,23, che richiama Is 7,14; Mt 2,6 da Mic 5,1; Mt 2,15 da Os 11,1; Mt 2,18 da Ger 31,15; Mt 2,23 da citazione incerta; è difficile determinare il testo scritturistico a cui Matteo fa riferimento. È probabile che si richiamasse a Gdc 13,5: “Poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, sulla cui testa non passerà rasoio, perché il fanciullo sarà un nazireo consacrato a Dio fin dal seno materno; egli comincerà a liberare Israele dalle mani dei Filistei”
3La “sentenza inquadrata” è un artificio letterario che inquadra un detto di Gesù all'interno di un breve racconto, finalizzato a metterne in rilievo l'importanza. Un esempio di sentenza inquadrata si ha in Mt 12,1-8; 10-12; 22,16-22.
4Il prologo innico assolve a cinque funzioni primarie: a) fornisce una introduzione solenne all'opera giovannea; b) la sua forma poetica ed innica indica la vera natura del vangelo: un poema lirico al Verbo Incarnato; non, quindi, un kerigma, ma una contemplazione (1,14), la quale cosa giustifica i ritmi lenti e riflessivi dell'intera opera giovannea; c) fornisce la mappa di lettura dell'intero vangelo, riportando in se stesso parole chiave e temi che percorrono l'intera opera; d) facilita la memorizzazione dell'intera opera. Questo prologo, inoltre, essendo posto in forma innica, poteva prestarsi ad essere recitato o forse anche cantato nelle assemblee liturgiche; e) la struttura a spirale dell'inno, infine, imprime in esso il segno dell'autenticità del pensiero giovanneo. Per un maggiore approfondimento cfr. la mia opera al seguente indirizzo, da cui è stato tratto questa nota: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20SECONDO%20GIOVANNI%20-%20Cap.%201.html
5Con questo secondo prologo, la cui natura è narrativa, Giovanni riprende la tradizione sinottica che inizia il suo racconto con la comparsa e l'attività del Battista. Tuttavia Giovanni narrativamente se ne distacca stacca nettamente impostando il suo racconto su una sequenza temporale di sette giorni, che richiama da vicino la settimana della creazione genesiaca, quasi a dire che l'avvento del Battista preannuncia una nuova creazione, che si compie nel Verbo Incarnato. I sette giorni di questo secondo prologo narrativo sono così scanditi 1) primo giorno (1,19-28): l'identità di Giovanni: egli è una voce che grida la sua testimonianza; 2) secondo giorno (1,29-34): l'identità di Gesù e il senso della sua missione: egli è l'Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo (v.29b), nonché Figlio di Dio (v.34b), ripieno di Spirito Santo (v.32.33); senso e finalità della missione di Giovanni (vv.31.34); 3) terzo giorno (1,35-42): i primi discepoli: da Giovanni a Gesù (vv.35.37); precisazioni sull'identità di Gesù: egli è l'Agnello di Dio (v.36b) e il Messia, detto Cristo (v.41); 4) quarto giorno (1,43-51): altri discepoli aderiscono a Gesù. Altre indicazioni sull'identità di Gesù: egli è il preannunciato dalle Scritture (v.45), il figlio di Giuseppe (v.45), figlio di Dio e re d'Israele (v.49); 5) settimo giorno (2,1-11): tre giorni dopo, le nozze di Cana, in cui avviene il primo segno. Se questo segno, da un lato, conclude il prologo narrativo, dall'altro, apre, con l'espressione “a Cana della Galilea”, una nuova sezione narrativa, caratterizzata dall'inclusione data dalla citata espressione in 2,11 e in 4,46, tradizionalmente definita come “sezione da Cana a Cana”.
6Lucio di Samosata (120-180 circa) nella sua opera “Come scrivere la storia” consigliava di premettere all'opera un prologo, ma che non fosse troppo lungo.
7Luciano di Samosata fu uno scrittore mordace e irriverente nei suoi scritti satirici; scanzonato fino al punto giusto, così da scrivere “La vera storia”, un racconto fantastico al di là delle colonne d'Ercole, successivamente al suo trattatello sulla storiografia, contraddicendo tutti i suoi principi di “storiografo”, forse per compensare la sua rigida e impersonale figura di storico, che personalmente ritengo sottesa da una certa ironia. Ogni storico, infatti, quando scrive, per quanto obiettivo sia, filtra sempre attraverso se stesso ciò che intende scrivere, così che in ogni opera si riscontrano i tratti della sua personalità e dei suoi intenti. E nessuna regola scientifica lo può estraniare da se stesso, in conformità all'assioma della filosofia scolastica secondo il quale “Quidquid recipitur admodum recipientis recipitur”, vale a dire che “qualunque cosa si percepisce è percepita secondo il modo di essere di chi la percepisce”.
8Forse qui allude ad Aristofane
9Sugli scismi all'interno delle comunità credenti cfr. 1Cor 1,10-13
10Il metodo di analisi storico-critico della Formgeschichte fu introdotto dallo storico e filologo Paul Wendland (1864-1915) e venne ripreso ed applicato in modo sistematico da Karl Ludwig Schmidt (1891-1956), Martin Dibelius (1883-1947) e Rudolf Bultmann (1884-1976) nei primi decenni del XX sec. Il metodo si ripropone lo studio della formazione dei vangeli concepiti come un assemblaggio redazionale di tante piccole unità letterarie ritrovate presso le numerose comunità credenti e da queste utilizzate per soddisfare le proprie esigenze vitali come la catechesi, la liturgia, l'annuncio missionario, alla cui base ci stanno motivazioni di ordine esistenziale, destinato ad offrire un paradigma esistenziale a chi intendeva conformare la propria vita agli insegnamenti di Gesù; di ordine apologetico, destinato a contrapporre ai detrattori del nascente cristianesimo, giudaismo e paganesimo. Da qui le diatribe e i racconti di conflittualità tra Gesù e il giudaismo. Di ordine storico, finalizzato a fornire una cornice storica e culturale ai racconti su Gesù, dandone concretezza storica benché non propriamente biografica.
11Sulla nascita e formazione del vangelo di Matteo cfr. la Parte Introduttiva della mia opera “Il vangelo di Matteo” qui: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
12L'espressione di Papia qui citata è tratta da Eusebio di Cesarea (265-339/340), che la riporta nella sua opera “Storia ecclesiastica” (III, 39,16 ). L'espressione greca riportata da Eusebio è la seguente: “Perˆ de toà Matqa…ou taàt' e‡rhtai: Matqa‹oj mn oân `Ebra…di dialšktJ t¦ lÒgia sunet£xato, ¹rm»neusen d' aÙt¦ æj Ãn dunatÕj ›kastoj”. Per un commento alla frase qui riportata cfr. la mia opera “Il vangelo di Matteo”, Parte Introduttiva qui: http://digilander.libero.it/longi48/IL%20VANGELO%20DI%20MATTEO%20-%20Parte%20Introduttiva.pdf
13Cfr. il termine “¥nwqen” in L. Rocci, Vocabolario Greco – Italiano, Società editrice Dante Alighieri, Roma 1993
14Del resto Luca fu solo un missionario come Paolo e mai responsabile di comunità. Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg. 21-22.
15Sulla posizione di Luca cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, al titolo “L'autore”, pagg.10ss
16Cfr. Lc 1,4; At 18,25; 21,21.24; Rm 2,18; 1Cor 14,19; Gal 6,6
17Cfr. Il Vangelo dell'infanzia dello pseudo-Tommaso (II sec.); il Protovangelo di Giacomo (II sec.); Il vangelo dello pseudo-Matteo (VIII-IX sec.); Il vangelo arabo dell'infanzia (VIII-IX sec.); Storia di S.Giuseppe il falegname (V sec.); Il libro sulla natività di Maria (VIII-IX sec.); Il vangelo armeno dell'infanzia (?);
18Nel vangelo di Matteo compare per 22 volte il termine “scribi” posto al plurale. Soltanto due volte esso compare al singolare in Mt 8,19 dove “uno scriba si avvicinò e gli disse: <<Maestro, io ti seguirò dovunque tu andrai>>”; e in 13,52, dove Gesù dice: “Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile ad un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. È interessante notare come questo scriba venga colto all'inizio della sua vocazione in Mt 8,19 e poi ripreso in Mt 13,52 dove lo si vede come già “divenuto discepolo” e probabilmente un discepolo che ha un posto di responsabilità all'interno della comunità credente, poiché si parla di “padrone che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche”. Qui il riferimento è alla capacità di questo scriba di saper coniugare la ricchezza della Tradizione dell'Alleanza con la novità dell'insegnamento di Gesù, che è venuto per dare compimento alla Legge e ai Profeti (Mt 5,17). La singolarità di questi due versetti, unici in tutto il vangelo matteano, se posti l'uno di seguito all'altro, parlano dell'evoluzione di una sequela di un determinato scriba, che si stacca da tutti gli altri, lasciando intravvedere in qualche modo la figura dello stesso Matteo. Una sorta di cammeo alla Hitchcock, se mi è consentito il paragone profano.
19Cfr. G. Rossé, Il Vangelo di Luca, commento esegetico e teologico, ed. Città Nuova Editrice, III edizione 2001, Roma; pag. 8
20Cfr. Gv 1,19-20.26-27.29-31.35-37; 3,25-31.
21Cfr. Lc 1,8-25.41.44.59-63.66; 3,2-20; 5,33; 7,18-35; 9,7-9.19a; 11,1; 16,16a; 20,4.6;
22Cfr. le voci “Erode” e “Giudea” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato, I edizione 1997, nuova edizione rivista ed integrata 2005.
23In Es 29,4-9 l'unzione sembra riservata al solo Aronne. Questa, infatti, non viene menzionata per i suoi figli. Per contro, essa verrà menzionata soltanto per il successore di Aronne (Es 29,29).Tuttavia, in Es 30,30, l'unzione viene esplicitamente estesa anche a loro: “Ungerai anche Aronne e i suoi figli e li consacrerai perché esercitino il mio sacerdozio”. E così anche in Nm 3,3
24Sul numero dei sacerdoti cfr. H. Daniel-Rops, La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1986; pag 434 e nota n.1, pag. 461
25Cfr. Gen 6,9; Dt 8,6; 10,12; 11,22; 1Re 3,6a; Ne 10,30; Ez 18,9; Zc 3,7
26Il termine benedizione in ebraico è detto “berakah”, che deriva da “berech”, che significa ginocchio, un modo eufemistico per indicare gli organi genitali, segno della fecondità.
27 Il verbo compare ancora 13 volte in Matteo; 18 volte in Marco e 17 volte in Gv.
28Sull'intera questione dell'offerta dell'incenso cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Casa Editrice Marietti, Genova 2002, ristampa della III edizione del 1977; pag. 411
29Cfr. Giuseppe Flavio, Contra Arpionem, II,8,108
30Il giorno per gli ebrei iniziava intorno alle 18,00 e terminava alle 18,00 del giorno seguente. Pertanto l'offerta dell'incenso intorno alle 15,00 era quella che si poneva sul calar del giorno, verso il tramonto, che in Nm 9,3 viene definito quello “tra le due sere”, cioè la sera del giorno che sta per finire e quella del giorno che sta per iniziare.
31Cfr. Es 3,6; 19,16; 20,18; 34,30; 1Re 19,12-13; Ap 1,17a
32Traduzione letterale: “Pertanto colui che ti ha fatto senza di te, non ti giustifica senza di te”
33Cfr. Gv 1,6: “Venne un uomo, inviato da Dio, egli (aveva) nome Giovanni;”
34Il termine vangelo deriva dal verbo greco “euaggel…zomai” (euanghelízomai) che letteralmente significa il buon annuncio o anche il lieto annuncio. Il prefisso avverbiale “eu” infatti significa “bene” in senso generale ed assume in italiano tutti i significati ad esso affini, come buono, lieto, gioioso, giusto, conveniente, retto, perfetto, pieno, assai, molto, e simili.
35Questo ebraismo nell' AT, comprese le sue varianti, ricorre 307 volte; mentre nel NT ricorre soltanto 32 volte, varianti comprese. Questa disparità nell'uso di questa espressione può essere dettata o per un mutamento nel linguaggio o, più presumibilmente, per un mutato senso del rapporto con Dio, che con la venuta di Gesù ha accorciato le distanze tra se stesso e l'uomo. Per cui Dio non è più una presenza inafferrabile ed aleatoria davanti alla quale l'uomo sta, ma una realtà ora a portata di mano, facilmente raggiungibile nella sua Parola e nei Sacramenti.
36Sulla questione del nazireato cfr. R. De Vaux, Le Istituzioni dell'Antico Testamento, Casa editrice Marietti, Genova, ristampa della III edizione 2002, pagg. 450-451; e la voce “Nazireo, Nazireato” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, edizioni Piemme, Casale Monferrato 1997, Nuova Edizione rivista ed integrata 2005
37Cfr. Sir 49,7; Is 49,1.5; Ger 1,5; Gal 1,15
38Le espressioni molto simili tra loro “Signore tuo Dio” o “Signore nostro Dio” o “Signore loro Dio” si trovano soltanto nell'A.T. rispettivamente 231 volte la prima; 79 volte la seconda e 32 volte la terza. Quest'ultima viene riportata soltanto da Luca qui in 1,16.
39L'immagine genesiaca dei “cherubini” posti a custodia dell'entrata del Paradiso Terrestre, è probabilmente mutuata dalla cultura babilonese, dove i “kâribu”, da cui poi cherubini, erano considerati divinità inferiori, maschili e femminili, il cui compito è quello di intercedere per l'uomo. Il termine kâribu, infatti, significa letteralmente “orante, intercessore”. Il loro ruolo è simile a quello di divinità secondarie, chiamate Lamasu e Šedu, raffigurati come tori alati con volto umano, posti a custodia di palazzi reali e templi. I Cherubini nella Bibbia assumono un aspetto completamente nuovo: perdono il loro carattere divino e la loro distinzione sessuale e sono posti al completo servizio di Dio, di cui spesso simboleggiano l'azione e ne manifestano la presenza. Cfr. F. Fastorazzi, la Bibbia e il problema delle origini, edizioni Paideia, Brescia1967 – pag.132
40Cfr. O. da Spinetoli, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi – 1999 – 4^ edizione, pag. 65
41Cfr. Gen 9,11-13; 17,11; Es 6,4-9; Is 38,7-9; Ger 44,29; Ez 20,12;
42Cfr. O. da Spinetoli, Luca, ed. Cittadella Editrice, Assisi – 1999 – 4^ edizione, pag. 65
43Cfr. pag 25, ultimo capoverso. Ci si trova, quindi, di fronte ad un culto ormai obsoleto e che storicamente verrà soppresso, successivamente alle due guerre giudaiche (66-73 e 132-135), a seguito della distruzione del Tempio e il conseguente decadimento della classe sacerdotale. Da qui nascerà un nuovo culto, propugnato dal sorgere di una nuova classe dirigente religiosa, quella del rabbinismo, che ha avuto inizio a Jamnia o Yabneh, intorno agli anni 70 d.C., ad opera di rabbi Jochanan ben Zakkaj. Il culto verrà ripreso non più tramite i sacrifici nel Tempio, ma attraverso lo studio e l'approfondimento della Torah. È proprio in questo contesto di decadimento del culto del Tempio e il sorgere di un nuovo culto ad opera dei rabbini, che sorgerà la polemica tra il nascente cristianesimo e il nuovo rabbinismo, la cui eco si sente nel vangelo di Matteo, in particolare al cap. 23, dove vengono evidenziate le storture del culto giudaico e dove Matteo punta il dito contro i nuovi rabbini, provenienti dagli scribi e dai farisei, accusandoli di aver usurpato la cattedra di Mosè (23,2). Per Matteo, infatti, il vero erede spirituale del giudaismo non erano gli scribi e i farisei, bensì Gesù. È lui il vero interprete della Torah, colui che ne sa dare il vero senso, dandone un saggio in Mt 5, 19-48. Sulla questione cfr. A. R. Carmona, La religione ebraica, Storie e Teologia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2005; pagg. 160-169.
44Cfr. la voce Nazareth in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 2005
45Il nome di Nazareth compare 11 volte nei vangeli e una sola volta negli Atti degli Apostoli in 10,38
46Cfr. la voce “Galilea” in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 2005
47Il testo greco di Mt 1,25a recita: “kaˆ oÙk ™g…nwsken aÙt¾n ›wj oá œteken uƒÒn”, che letteralmente significa: “e non la conosceva finché non partorì un figlio”; la Vulgata segue pedissequamente il testo greco e traduce “et non cognoscebat eam donec peperit filium”. Quel verbo all'imperfetto “non la conosceva” dice la persistenza di un'assenza di rapporti sessuali fino al parto del primo figlio, sottolineando in tal modo l'origine divina di Gesù. Il periodo successivo al parto, scandito da quel “›wj” e “donec” (finché), che segna il limite all'astinenza dei due coniugi, Maria e Giuseppe, lascia intendere che successivamente non fu più così. In altri termini Matteo afferma che Maria fino al momento del parto non ebbe mai avuto rapporti sessuali con Giuseppe, lasciando così sgombero il terreno per il tempo post partum. Del resto a Matteo, come a Luca, non interessa la verginità di Maria in se stessa, ma soltanto in funzione del concepimento di Gesù. Se poi, in seguito, essa fosse rimasta sempre vergine o avesse concepito con Giuseppe altri figli non interessa a nessun evangelista, che liberamente attestano un seguito di fratelli e sorelle di Gesù, che vanno intesi, a nostro avviso, in senso carnale e non di parentela. Nel N.T., infatti, i termini fratello e sorella ricorrono 343 volte ed assumono un duplice significato: reale, nel senso di fratello e sorella carnali; o metaforico, nel senso di fratello o sorella, appartenenti, cioè, alla stessa fede. Mai e in nessun caso i due termini di fratello e sorella alludono alla parentela in senso lato. Non si capisce quindi perché giunti ai fratelli e sorelle di Gesù, questi debbano fare eccezione ed essere intesi esclusivamente come parenti in senso lato di Gesù. Del resto Luca, un greco che ben conosce la terminologia della parentela, che nella lingua greca è molto ricca e molto dettagliata più che nel nostro italiano, usa i termini di parente o parenti e di fratelli e sorelle, quest'ultimi distinti dai primi: “paradoq»sesqe de kaˆ ØpÕ gonšwn kaˆ ¢delfîn kaˆ suggenîn kaˆ f…lwn, kaˆ qanatèsousin ™x Ømîn” (“Ma sarete consegnati anche da genitori e fratelli e parenti e amici e (ne) faranno morire tra di voi”) [Lc 26,16]. Elisabetta, poi, è indicata da Luca non come “sorella di Maria”, ma come sua “parente” (suggen…j, singhenis). Lo stesso Paolo, in Gal 1,19, cita Giacomo, una delle colonne della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), come “il fratello del Signore” e certo non intendeva parlare di “parente” del Signore, considerato che sta scrivendo ai Galati, di lingua greca, che non possono comprendere i doppi sensi della parola “fratello” che può attribuire, invece, la lingua ebraica. Lo stato attuale della ricerca circa i fratelli e le sorelle di Gesù è sostanzialmente riassumibile in tre posizioni: 1) sono veri fratelli carnali di Gesù, nati da Giuseppe e Maria; 2) sono figli di Giuseppe, che gli sono nati da un precedente matrimonio e, quindi, più che fratelli o sorelle si dovrebbe parlare di fratellastri e sorellastre; 3) si tratta non di fratelli o sorelle in senso stretto, ma di parenti di Gesù. Il termine ebraico ‘ah, infatti, estende il suo significato ben oltre a quello di fratello carnale, abbracciando l’intera parentela. In tal senso cfr. R. Fabris, Matteo, nota 2 di pag.297, op. cit.
La questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù è una questione tutta interna alla Chiesa cattolica, a motivo del dogma sulla verginità di Maria prima, durante e dopo il parto. Circa i sopra menzionati punti 2) e 3) non c’è nulla che li sostenga in modo serio. Infatti, quanto ai figli di Giuseppe, ereditati da Maria e da Gesù, ne parla il Protovangelo di Giacomo, un apocrifo del II sec. Una soluzione questa che troverà numerosi sostenitori nel mondo dell’antica patristica greca e siriaca, ma scarsa risonanza in quella latina. Una soluzione questa che S.Girolamo squalifica come “espressione delirante degli apocrifi”. Da parte sua il Padre della Chiesa suggerisce, invece, un’altra soluzione: egli si rifà all’ebraico ‘ah il cui significato, come abbiamo visto sopra, ha un senso più ampio del semplice fratello carnale, estendendosi, a motivo della povertà linguistica dell’ebraico, anche alla parentela. Tuttavia va precisato che, nonostante i nomi ¢delfÒj/¢delf» (adelfós/adelfé) che ricorrono circa 833 nell’A.T., vengano estesi talvolta anche alla parentela, questi, di fatto, sono usati quasi sempre per indicare i fratelli/sorelle di tipo carnale o in senso metaforico; soltanto poche volte assumono anche il significato esteso di parente. Questa soluzione, tuttavia, è ancor oggi il cavallo di battaglia del mondo cattolico. Sennonché i vangeli e gli scritti neotestamentari in genere sono stati stesi in lingua greca e non in quella ebraica. Questa, la lingua greca, possiede una vastissima gamma di termini per indicare i vari gradi di parentela (i termini da me rilevati sono 21), per cui gli autori avrebbero potuto ricorrere tranquillamente al ricco vocabolario greco, che definisce la parentela in tutte le sue sfumature. Va poi sottolineato come gli autori neotestamentari dimostrino di saper distinguere i fratelli o le sorelle dai parenti o dalla parentela, per i quali usano il termine appropriato di “suggen…j” (singhenís, parente) o “suggene…a” (singheneía, parentela), termine questo che ricorre 16 volte negli scritti neotestamentari. Luca, inoltre, come si è visto sopra, sa accostare e distinguere i fratelli dai parenti, usando termini greci appropriati per l’una e per l’altra categoria (Lc 14,12; 21,16). Da ultimo, va detto che il termine fratello e sorella ricorre nel N.T. circa 334 volte ed è sempre usato o in senso proprio di fratello e sorella carnali o in senso metaforico di correligionario, appartenente alla stessa fede, o di connazionale. Non si capisce, quindi, perché gli evangelisti, parlando di fratelli o sorelle di Gesù, avrebbero dovuto intenderli nell'esclusivo senso di cugini o parenti in senso lato, quando per questi termini avevano a disposizione un’ampia scelta di vocaboli, che, all’occorrenza, hanno sempre usato in modo appropriato. Lo stesso Paolo parla in senso generale di “fratelli del Signore” (1Cor 9,5) e di “Giacomo, fratello del Signore” (Gal 1,19). Del resto, lo stesso Tertulliano, nell’ambito della difesa dell’umanità di Gesù, nel commentare il passo evangelico della madre e dei fratelli di Gesù venuti a trovarlo (Mt 12,46-50), parla apertamente in Adversus Marcionem 4,19 di vera madre e di veri fratelli di Gesù (“et vere mater et frates eius”). Qui non si vuole sostenere una tesi piuttosto che un’altra, né prendere una posizione contro qualcuno o contro qualcosa, ma si vuol rilevare, necessariamente in modo sintetico, soltanto i dati che ci provengono da un’analisi degli Scritti neotestamentari. Sul tema ci sentiamo di poter condividere pienamente la tesi del Barbaglio. Questi, al termine della sua riflessione circa la questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù, afferma: “In conclusione, condivido quanto scrisse molti anni or sono M. Goguel: <<Per la storia non esiste affatto il problema dei fratelli di Gesù: esiste solo per la dogmatica cattolica>> (La Vie de Jésus, Paris 1932, 243). I due piani devono essere tenuti rigorosamente separati: il dato storico assai probabile, per non dire certo, dei fratelli uterini di Gesù non ha alcuna legittimità di proporsi come eversore di un dogma di fede; […]. Da parte sua il dogma di fede non può ergersi a giudice inappellabile in una questione storica”. (Cfr. G. Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea – Indagine storica, Edizioni Dehoniane Bologna, Bologna 2005).
48Cfr. Henri Daniel-Rops, "La vita quotidiana in Palestina al tempo di Gesù; Ed. Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1986; R. De Vaux, le Istituzioni dell'Antico testamento, Casa editrice Marietti, Genova III edizione 1977, ristampa 2002; voce “Matrimonio, Divorzio, Celibato” in Nuovo Dizionario enciclopedico illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, Casale Monferrato 2005.
49Pirkè Abot, letteralmente Capitoli dei Padri, è una sorta di raccolta di massime sapienziali di rabbini che risalgono all'epoca mishnaica (circa 200 d.C.) ed è composta da sei capitoli. Il cap. 5,20 scandisce idealmente la vita dell'ebreo, che comunque doveva riflettere le consuetudini del vivere dell'epoca: “Jehuda, figlio di Temà […] diceva altresì: all'età di cinque anni allo studio per la Bibbia; a dieci anni per quello della Mishnà; a tredici anni per lo studio dei precetti; a quindici anni per lo studio del Talmud; a diciotto per il matrimonio; a 20 per provvedere ai mezzi di sussistenza; a trenta per la forza; a quaranta per la prudenza; a cinquanta per dar consiglio; a 60 per la vecchiaia; a settanta per la canizie; a ottanta per l'età veterana; a novanta per andare ricurvo; a cento anni come se fosse già morto e sparito dal mondo”. Testo tratto da Estratto dalle Mishnaiot, traduzione italiana e note illustrative di Vittorio Castiglione – Pirkè Avot o Massime dei Padri, integrato con il testo ebraico a cura di www.torah.it , Gerusalemme 5775, 2015.
50In Zc 2,14 compare il verbo “tšrpou” (térpu) anziché “ca‹re” (caîre), che significa sempre gioire, rallegrarsi, essere lieti, dilettarsi, essere pienamente soddisfatto.“Tšrpou” è quindi un verbo di pari significato di “ca‹re” (caîre), ma dal senso molto più intenso e specifico.
51Cfr. Dt 20,1; Gs 1,9; Gdc 6,12; 2Sam 7,3; 1Cr 17,2; 28,20.
52Cfr. Gen 17,5; 32,29; 35,10.
53Cfr. il termine “Nome, Imposizione del nome” in Nuovo Dizionario Enciclopedico della Bibbia, edizioni PIEMME, Casale Monferrato 1997, nuova edizione rivista e integrata 2005.
54Cfr. Dt 7,21; 10,17; 2Sam 7,22; Ne 1,5; 4,8; 8,6; 9,32; Ger 32,18; Dn 2,45; Esd 5,8; Sir 39,6; Sal 34,27; 39,17; 46,3; 47,2.3; 69,5; 94,3.
55“Conoscere o non conoscere uomo” è un semitismo per indicare i rapporti sessuali.
56Cfr. R. Meynet, Leggere la Bibbia, un'introduzione all'esegesi, Centro editoriale dehoniano, Bologna 2004; pagg. 77-79
57Le formule di fede erano le prime elaborazioni teologiche, cristologiche e pneumatiche con cui le prime comunità credenti esprimevano la loro fede e in esse si riconoscevano. La formulazione della fede attraverso la parola, inoltre, raggiungeva un triplice obiettivo: a) si definiva il contenuto di ciò che si credeva, togliendolo dalla nebulosità di ogni vago sentimentalismo e personalismo; b) dando in tal modo oggettività e concretezza all'oggetto della propria fede, facendone un preciso e comune punto di riferimento, un comune luogo di ritrovo, in cui tutti i veri credenti si identificavano; c) ne veniva facilitata la trasmissione. La formula era quindi un mezzo efficace di comunicazione e di riconoscimento. Questa primaria e fondamentale necessità della fede nascente ci viene testimoniata dalle numerosissime formule di fede variamente sparse negli scritti neotestamentari, che i primi autori hanno trovato presso le comunità stesse e riportate, a testimonianza, nei loro scritti. Esse costituivano un po’ il linguaggio comune della propria fede e il suo modo comune di esprimersi, di essere testimoniata e trasmessa. Esse rispondevano sempre alla domanda: in che cosa tu credi? Esempi di formule di fede si trovano in 1Cor 12,3; 2Cor 3,17a; 13,13; Rm 1,4; 10,9; 14,9; 2Tm 2,8; Eb 13,8; Gv 11,27; 20,28; e numerosissime altre. Queste sono state citate solo a titolo esemplificativo.
58L'espressione ”servo del Signore” ricorre una ventottesima volta in Is 42,19, ma qui è riferito al popolo d'Israele e possiede, quindi, un senso collettivo e non individuale e personalizzato come nei precedenti 27 casi.
59Questo raffronto comparve per la prima volta in Giustino nel suo Dialogo con Trifone, in cui afferma: “Eva, infatti, che era una vergine esente da corruzione, accogliendo la parola del serpente, generò disobbedienza e morte; la Vergine Maria, invece, concepì fede e gioia quando l'angelo Gabriele le portò il lieto annuncio [...]” (Dial. Trif. 100,5). Il confronto piacque molto a Ireneo, che lo riprese e lo approfondì nella sua opera Adversus Haereses.
60Al di là, comunque, di queste considerazioni teologiche, non va esclusa l'ipotesi che questa genericità sia dettata anche da una sostanziale non conoscenza che Luca ha della Palestina, una regione che sicuramente non ha mai visitato. Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva, pagg.36-37.
61Cfr. O. da Spinetoli, Luca, ed. Cittadella editrice, Assisi 1999, IV edizione, pag. 82
62Cfr. 1Cr 15,28; 16,42; 2Cr 23,18; 29,27; Esd 3,12; Sal 91,4; 97,4; 99,4; 117,15; 149,3; 150,4; Is 54,1;
63L'espressione “benedetta fra le donne” e simili si ritrovano anche in Gdc 5,24; Gdt 13,18; 14,17;
64Altre forme di superlativo l'ebraico le ottiene ripetendo lo stesso aggettivo due volte (es. benedetta benedetta) o ripetendo al plurale lo stesso sostantivo come nel caso di “Cantico dei Cantici” o “Santo dei Santi” o facendo seguire il sostantivo da un suo sinonimo (es. gioia della mia esultanza, che equivale a gioia immensa, incontenibile). Per un approfondimento cfr. P.A. Carrozzini, Grammatica della lingua ebraica, Casa Editrice Marietti, Casale Monferrato 1966.
65In merito cfr. sopra le pagg. 13-15 del presente studio.
66Sulla questione cfr. la Parte Introduttiva della presente opera, pagg.32-35
67Similmente cfr. Mt 11,25 e 21,16, Gc 4,6b
68Per un maggior approfondimento sulla questione della giustificazione cfr. pag.28 del presente studio.
69Cfr. Es 13,9b.14b.16b; Dt 5,15; 6,21;7,8; 26,8
70Sull'imposizione del nome nell'antichità e nelle usanze bibliche cfr. R. De Vaux, Le istituzioni dell'Antico Testamento, Casa Editrice Marietti, Genova 1997 III edizione – Ristampa 2002 – pagg. 53-56
71Cfr. pag. 13 del presente studio.
72Cfr. At 1,8; 2,41.48; 6,1a.7; 12,24; 13,49
73Cfr., solo a titolo esemplificativo, Es 9,3; Dt 2,15; Gdc 2,15; Rt 1,15; 1Sam 5,6.9; 7,13; 12,15; Is 66,14;
74Cfr. 1Sam 25, 32; 2Sam 18, 28; 1Re 1, 48; 1Re 8, 15; 1Cr 16, 36; 2Cr 2, 11; 2Cr 6, 4; 2Cr 9, 8; Sal 71, 18; Sal 105, 48
75La Amidah, letteralmente la preghiera in piedi, sono le Shemoneh Esreh, le Diciotto benedizioni, centrali nella liturgia ebraica, che gli ebrei recitano tre volte il giorno e sono caratterizzate da diciotto preghiere che terminano tutte con una benedizione.
76Cfr. Gen 21,1; 50,24.25; Es 4,31; 13,19; 32,34; Rt 1,6; 1Sam 2,21; Sal 64,10; 79,15; 105,4; Sir 2,14; Is 23,17; 29,6; Ger 29,10; Sof 2,7; Zc 10,3
77Cfr. Dt 21,8; Ne 1,10; Sal 18,15; Is 35,9; 41,14; 43,14; 44,6; 44,22; 47,4; 49,7; 51,10; 54,5.8; 60,16; 62,12; Ger 31,11
78Sul significato del termine “corno”, che ricorre 96 volte in tutto l'A.T. e 11 volte nel N.T., cfr. la voce “Corno” in M. Lurker, Dizionario delle immagini e dei simboli biblici, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo, 1990; e in Nuovo Dizionario Enciclopedico Illustrato della Bibbia, Edizioni PIEMME, nuova edizione rivista ed integrata 2005
79Cfr. anche Es 3,16-20; 8,21-24
80Circa gli schemi standard di conclusione di racconti di eventi prodigiosi cfr. pagg. 14-15 del presente studio.